MSci Thesis

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Politecnico di Milano FacoltĂ del Design Corso di Laurea in Disegno Industriale Ordinamento Prodotto anno accademico 2004-2005

PERCORSI LUMINOSI NEGLI AMBIENTI PUBBLICI Illuminazione di emergenza e sistemi wayfinding Alice Viola Pintus

relatore: Prof. Giovanna Piccinno correlatore: Ing. Adriano Crippa


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INDICE

INTRODUZIONE pag. 10 1. INFORMATION DESIGN pag. 13 1.1 Informazione pag. 13 1.2 La società dell’informazione pag. 14 1.3 La progettazione dell’informazione pag. 15 1.4 L'Information Design e l'approccio User Centered 1.5 Il concetto di Wayfinding, indicazioni progettuali

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2. ENVIRONMENTAL DESIGN pag. 25 2.1 Oltre l'orizzonte, sistemi di mappatura pag. 26 2.1.1 Come costruire sistemi di mappatura migliori? pag. 29 2.2 Cenni storici sulla progettazione della segnaletica pag. 38 2.2.1 Immagine e comunicazione pag. 40 2.2.2 Le categorie di segni pag. 41 2.2.3 Principi di progettazione della segnaletica pag. 42 3. PSICOLOGIA AMBIENTALE pag. 51 3.1 L'orientamento pag. 51 3.2 La percezione dell'ambiente pag. 52 3.3 Aspetti cognitivi e comportamentali nel processo di orientamento 4. L’EMERGENZA 4.1 Rischio ed emergenza pag. 61 4.2 Le procedure di evacuazione pag.61 4.3 La psicologia dell’emergenza pag.63 5. ILLUMINAZIONE E SISTEMI DI SEGNALAZIONE DI EMERGENZA pag. 69 5.1 Illuminazione di emergenza pag. 70 5.1.1 Illuminazione delle vie di fuga pag. 71 5.1.2 Illuminazione antipanico pag. 76 5.2 Alimentazione dei sistemi di illuminazione di emergenza pag. 76 5.3 Segnaletica di sicurezza pag. 77 5.4 Mappe di evacuazione pag. 79

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6. EMERGENCY WAYFINDING LIGHTING SYSTEMS, LE RICERCHE DELLA READING UNIVERSITY (UK) pag. 83 6.1 La sperimentazione su utenti ipovedenti pag. 84 6.1.1 Le tipologie dei sistemi di illuminazione testati pag. 85 6.1.2 La valutazione dei diversi sistemi pag. 87 6.1.3 Confronto tra le velocità dei due gruppi di volontari (con e senza disabilità) pag. 88 6.1.4 I risultati dei questionari pag. 89 6.1.5 Linee giuda per l’illuminazione di emergenza wayfinding pag. 91 6.1.6 Conclusioni sulla sperimentazione con utenti ipovedenti pag. 94 6.2 Lo studio dell’effetto del fumo sulla velocità di camminamento degli utenti pag. 95 6.2.1 Le tipologie dei sistemi di illuminazione testati pag. 96 6.2.2 I risultati pag. 97 6.2.3 Conclusioni sulla sperimentazione dei sistemi di illuminazione di emergenza in ambienti con fumo pag. 99 6.3 Lo studio dell’effetto del fumo sulla distanza di riconoscimento della segnaletica pag. 100 6.3.1 Le tipologie di sistema testate pag. 100 6.3.2 Risultati dei test con l’impiego di filtri a densità neutra pag. 102 6.3.3 Risultati dei test con l’impiego di fumo fittizio pag. 104 6.3.4 Conclusioni sulla sperimentazione delle visibilità dei componenti dei sistemi wayfinding in ambienti con fumo pag. 107 7. IPOTESI PROGETTUALI PER UN NUOVO SISTEMA DI ILLUMINAZIONE DI EMERGENZA 7.1 La freccia pag. 110 7.2 Il concept pag. 115 7.3 Il sistema di controllo pag. 118 7.4 Il sistema di segnalazione/illuminazione pag. 120 7.5 I componenti del prodotto pag. 124 7.6 Specifiche tecniche e materiali pag. 147 7.7 Considerazioni finali pag. 155 APPENDICE pag. 157 Tabella A Illuminazione di sicurezza in ambienti particolari Tabella B Sistemi testati con utenti ipovedenti Tabella C Sistemi testati in presenza di fumo BIBLIOGRAFIA

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“Consideriamo ora taluni passi scientifici contenuti nell’opera in versi e in prosa di Dante. Per affermare, secondo i principi della scienza del tempo, che le facoltà visiva corre incontro allo stimolo luminoso, il poeta si serve di un’efficace rappresentazione; egli descrive infatti la scena dell’incontro tra la luce che giunge nell’occhio passando di membrana in membrana (gonna, nell’accezione medica del tempo) e la facoltà visiva che le si fa incontro provocando lo svegliarsi (si disonna) del soggetto: E come a lume acuto si disonna per lo spirito visivo che ricorre a lo splendor che va di gonna in gonna Paradiso XXVI” Dardano, I linguaggi scientifici


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RINGRAZIAMENTI Arch. Giovanna Piccino e Ing. Adriano Crippa per la conoscenza, la competenza e soprattutto per la disponibilità Prof. Salvatore Zingale per la revisione del capitolo sull’Information Design BSc, PhD, MCIOB Geoffrey Cook; BSc, PhD M.S. Wright e Tracey Wigmore (Reading University, UK) per la collaborazione sul capitolo sulla sperimentazione dei sistemi di illuminazione di emergenza con utenti ipovedenti e in caso di incendio dell’Università di Reading, UK Ing. Bonfanti dell’azienda 4Bi per la consulenza sull’ingegnerizzazione dei prodotti Ing. Luigi Piacente dell’azienda Archimede per la consulenza sulla progettazione del circuito elettronico Fernando, Fabrizio, Enzo, Elena e Fabrizio, Gaia, Lara e Aulo, Miguel, Marianna, Paolo, Alberto, Ray, Franz e Martina per il contributo alla realizzazione di questa tesi Giorgio, Filli, Nonna e Nonno per il loro costante supporto


INTRODUZIONE

Dalla prima metà del novecento in poi cominciano ad acuirsi le problematiche connesse alla relazione tra uomo e mondo attraverso un’interfaccia artificiale, questa situazione è causata dal fenomeno dell’immigrazione, dall’aumento progressivo della velocità e dell’accessibilità dei trasporti, dal proliferare di apparecchiature che contengono una black box elettronica che sfugge al controllo dell’utente medio, dalla diffusione dei mezzi di comunicazione di massa (TV, radio, telefono, internet) e quindi dall’incremento del numero di informazioni che si possono e devono fruire. Infine anche le continue trasformazioni architettoniche a cui sono sottoposti i luoghi hanno portato a perdere i punti di riferimento che da sempre hanno sancito il legame tra territorio e soggetto. L’utente si trova a dover affrontare con difficoltà anche le attività elementari della vita quotidiana come lavorare, cucinare, spostarsi in una grande città, utilizzare un elettrodomestico… È diventata, quindi, sempre più necessaria una progettazione di Information Design che semplifichi l’interagire dell’uomo nell’ambiente e limiti lo scollamento in atto tra queste due realtà. Questa ricerca di tesi prende in considerazione le problematiche connesse all’esplorazione dell’ambiente costruito. Le mappe e la segnaletica, cioè i mezzi utilizzati in quest’ambito per trasmettere le informazioni, sono analizzate per mettere in evidenza i punti di forza e di debolezza che le contraddistinguono e quindi per fornire le indicazioni progettuali che portino alla realizzazione di sistemi che facilitino i compiti degli utenti nello spazio. Da questa analisi risulta inoltre che la luce potrebbe

essere impiegata in modo molto efficace nell’ambito dell’Environmental Design, sfruttando le sue intrinseche qualità a livello emotivo e l’attrazione istintiva che esercita sull’uomo. Per comprendere in che modo avviene il processo di orientamento sono presi in considerazione gli studi sulla percezione e sulle modalità di formazione delle mappe mentali, individuando le cause del disorientamento cronico e gli stati psicologici connessi a questa condizione. La corretta comprensione dell’informazione può essere anche di vitale importanza. Il caso della progettazione dei sistemi di segnaletica per le situazioni di emergenza viene individuato come indicativo per dimostrare il valore di un’efficace progettazione di Information Design. La ricerca pone le sue basi sullo studio dell'attuale sistema di segnalazione di emergenza negli edifici ad affluenza pubblica. Vengono delineate le inefficienze comunicative date sia dal posizionamento degli apparecchi illuminanti sia da un utilizzo non sufficientemente integrato degli apparecchi luminosi di emergenza e dei piani di evacuazione. La risoluzione di queste problematiche si concretizza nella progettazione di un sistema di percorsi luminosi di emergenza inseriti come un "filo di Arianna" nello spazio, di immediata riconoscibilità perché riportano direttamente nell'ambiente le vie di fuga evidenziate dal piano di evacuazione, necessario per legge. Le guide luminose saranno posizionate a terra per migliorare la gestione dei flussi di sfollamento in caso di evacuazione, infatti è dimostrato che in situazioni di grave stress emotivo i soggetti pongono maggiore attenzione sul piano di camminamento, inoltre le


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ricerche condotte dalla Reading University confermano che l'illuminazione di emergenza wayfinding al suolo favorisce l'orientamento e segnala in modo non fraintendibile la presenza di dislivelli, scale e bruschi cambiamenti di direzione. Il percorso di luce deve così mostrare, in situazioni di non normalità, chiaramente ed efficacemente: le vie di esodo, le uscite di sicurezza, la dislocazione delle attrezzature antincendio, di pronto soccorso e i telefoni di emergenza. Questo sistema di illuminazione integra e completa l'attuale apparecchiatura di illuminazione di emergenza. Il sistema dei percorsi luminosi deve cambiare di stato in funzione della calamità e di cosa accade nell'edificio. Se un'uscita di sicurezza viene ostruita ed è quindi impraticabile, la segnalazione deve adeguarsi e mostrare percorsi alternativi. In caso di incendio, invece, dovrà entrare in funzione solamente l'illuminazione a terra per non limitare la visibilità dell'intorno spaziale. L'utilizzo della luce come medium privilegiato per la comunicazione delle informazioni riguardo i percorsi e l'ambiente limita il sovraccarico informativo dato dall'utilizzo della segnaletica tradizionale ed elimina le problematiche connesse alla comprensione dei messaggi da parte di un'utenza con diversi background culturali.


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1. INFORMATION DESIGN

1.1 Informazione “Informazione” è un termine polisemico e pervasivo. Le problematiche connesse a questo concetto sono molto complesse, innanzitutto perché la parola informazione assume significati diversi in relazione agli ambiti in cui viene utilizzata, ed in secondo luogo perché la nozione stessa di informazione è stata oggetto, e lo è tuttora, di importanti ricerche che hanno avuto una forte ripercussione sulle tecnologie informatiche. Discipline molto differenti tra cui la linguistica, la giurisprudenza, la filosofia, la fisica, l’elettronica, l’informatica, la biologia e le scienze sociali, hanno ampiamente dibattuto sul significato della parola informazione, utilizzandola per identificare realtà e fenomeni molto diversi tra loro. Etimologicamente deriva dal latino informare che letteralmente significa “formare” ovvero

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“dare forma” a qualcosa di nuovo, che, seppur esistente, non è ancora stato definito. Questo concetto di informazione coincide essenzialmente con la prospettiva espressa dagli scienziati statunitensi Warren Weaver e Claude E. Shannon nella loro teoria matematica dell’informazione e della comunicazione1. Shannon ha sperimentato che si ottiene informazione solo in un caso specifico, ovvero quando un individuo o una macchina che hanno una conoscenza parziale di un evento o di un fenomeno ottengono, attraverso un atto comunicativo, una serie di dati che costituiscono un accrescimento della loro conoscenza. In altri termini i dati che contengono notizie già conosciute, o comunque tali da non generare nuova conoscenza, non sono da considerarsi vere e proprie informazioni. In questo senso un processo informativo può innescarsi


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solo quando le conoscenze di una sorgente in merito ad uno specifico argomento sono superiori alla conoscenza di cui dispone il destinatario. Le notizie divengono informazione poiché rispondono comunque a domande che avremmo potuto formulare e perché, in ogni caso, suscitano il nostro interesse. Al fine di quantificare l’informazione, per Shannon si è rivelato determinante capire quali fossero le caratteristiche che contraddistinguono una sorgente di informazione da una più generica sorgente di dati. A tal proposito individua nell’interesse del destinatario per uno specifico argomento il fattore determinante per trasformare una generica fonte di dati in una specifica sorgente di informazioni. Secondo questa prospettiva il riconoscimento di una sorgente di informazione in quanto tale è strettamente soggettivo e peculiare.

1.2 La società dell’informazione Lo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione e gli effetti economici e sociali prodotti dai nuovi media sono stati oggetto di studio da parte di Daniel Bell2 nel libro intitolato The Coming of Post-Industrial Society. Qui viene introdotto il concetto di “società postindustriale” datando la fine della società industriale al 1956, ovvero quando negli Stati Uniti i lavoratori del terziario raggiunsero e superarono il numero degli addetti agli altri settori produttivi. Dalle intuizioni di Bell nasce il concetto di “società dell’informazione” che vede studiosi come John R. Pierce, autore del volume Information Technology and Civilization del 1984, e Luc Soete, autore del libro Innovation, Knowledge Creation and Technology Policy in Europe del 1999, concordi nel sostenere che la principale peculiarità della società dell’informazione

consiste nel nuovo modo di impiegare la telematica, intesa come connessione tra informatica e telecomunicazione. Al centro del nuovo sistema produttivo, infatti, vi sono ora la raccolta, l’elaborazione e il trasferimento di dati, tanto che oggi è possibile parlare di una vera e propria economia dell’informazione. Il capitale industriale viene sostituito con l’informazione e le tecnologie per il suo trattamento, come sostiene Sless, l’informazione sta diventando oggi la merce imprescindibile e definitiva. Nella società dell’informazione, l’innovazione tecnologica si connota sempre più come un processo collettivo e globale3: i risultati conseguiti da parti diverse devono essere spiegati e diffusi al fine di realizzare proficuamente una condivisione che alimenti il sistema e il mercato. Questo meccanismo conduce ad un crescente bisogno di tecnologie per la conservazione, il recupero e la diffusione delle informazioni. Le tecnologie informative vengono quindi percepite come strumenti per attuare un controllo sull’informazione affinché si possa produrre la conoscenza necessaria per agire efficacemente nell’ambiente circostante. L’informazione deve essere controllata e trasformata perché, quando questa diviene sovrabbondante, si verifica “l’implosione” dell’informazione stessa: i dati trasmessi risultano eccessivi rispetto alla quantità che l’individuo riesce ad assimilare, quindi non vengono più recepiti. L’aspetto psicologico ha un ruolo importante in questo contesto: l’utente vive con ansia la propria condizione perché si sente non sufficientemente preparato ad affrontare la realtà e continuamente in ritardo rispetto alle esigenze del presente4: la nostra vita quotidiana


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dipende sempre più dall’uso efficace dell’informazione, i ruoli lavorativi e sociali sono sempre più specializzati, ciò crea una maggiore complessità e, di conseguenza, un ulteriore bisogno d’informazione specifica. Anche l’ambiente urbano e architettonico si è sviluppato in modo sempre più complicato; solo trovare il nostro percorso all’interno delle città è oggi un compito difficile. Le variabili che possono influire sul processo di elaborazione e di decodifica dell’informazione sono quindi molteplici; oltre alla condizione di sovraccarico informativo, bisogna tener conto della complessità dei messaggi stessi, delle differenze delle competenze dei riceventi (legate al background culturale, sociale e connesse all’età) e delle variabili del contesto in cui viene fruita. Resta indiscusso il fatto che l’informazione debba essere ritagliata sulla base delle specifiche necessità dei destinatari; questa deve essere infatti controllata in modo che ne venga garantita la trasmissione, la fruizione e la comprensione. Infatti l’informazione che ci mette in grado di operare delle scelte, quindi quella efficacemente recepita dal destinatario, è la sola che produca realmente conoscenza. La conoscenza è dunque la sintesi dei processi di comprensione ed apprendimento in relazione alle informazioni che vengono inserite all’interno di un insieme organizzato di nozioni ed esperienze, grazie al quale possiamo scegliere di agire in un modo anziché in un altro. Così per produrre informazione che generi conoscenza è necessaria una pianificazione a monte, che tenga conto, per esempio, del contesto in cui verrà fruita, degli obiettivi che si intendono raggiungere e delle esigenze conoscitive dei possibili fruitori. Si tratta di

una vera e propria progettazione dell’informazione che diviene necessaria in una realtà sempre più complessa come quella attuale.

1.3 La progettazione dell’informazione L’Information Design è un settore di ricerca teorica e applicata che si occupa di individuare e fornire indicazioni per modellare l’informazione sulla base delle necessità degli utenti, ricorrendo a precisi criteri finalizzati ad ottimizzare l’organizzazione dei contenuti per facilitare l’apprendimento di ciò che viene trasmesso. I risultati delle ricerche condotte nell’ambito di questa disciplina consistono nella formulazione di modelli diversificati di elaborazione dell’informazione, che possono essere efficientemente applicati ai diversi settori quali, per esempio, quello scientifico, didattico ed economico. L’obiettivo finale dell’Information Design è quello di realizzare pacchetti di contenuto che risultino non solo informativi, ma anche effettivamente comunicativi, in quanto promuovono e determinano una trasmissione di conoscenza. La capacità di apprendere da parte dell’utente, infatti, dipende anche dal modo in cui il sapere viene progettato, organizzato e, conseguentemente trasmesso. L’information designer ha quindi il compito di progettare l’informazione in modo che sia appetibile per l’utente e funzionale rispetto alle sue esigenze (Cavina, La Piccirella, 2002).


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Gli obiettivi fondamentali vengono così riassunti da Horn5: - sviluppare graficamente documenti in modo che questi siano comprensibili, fruibili rapidamente ed efficacemente, e facilmente traducibili in un’azione effettiva6 - progettare interfacce di interazione con le apparecchiature che siano semplici, naturali ed esteticamente piacevoli (interactive design) - dare il supporto necessario alle persone che hanno bisogno di orientarsi nello spazio tridimensionale in modo che questo processo sia svolto con facilità e comfort (environmental design). I valori che distinguono l’Information Design dalle altre branche del design sono l’efficienza e l’efficacia con le quali il compito comunicativo deve essere portato a termine. Nel modello esposto da Dick e Carey (1990) l’Information Design deve tener conto del livello fisico di interazione con l’artefatto (1) cioè delle abilità dell’utente di percepire le informazioni a livello fisiologico, del livello cognitivo-intellettuale (2), cioè delle abilità di comprendere le informazioni date, e infine di quello affettivo-emozionale (3) cioè relativo alla possibilità di sentirsi a proprio agio con l’utilizzo del dato.

1.4 L’Information Design e l’approccio User Centered Ogni oggetto esistente può potenzialmente comunicare informazione, ed ogni nostra azione ha in nuce la stessa facoltà. Per questo motivo la conoscenza di base per la progettazione dell’informazione emerge dalle scienze comportamentali, in particolare dal lavoro svolto nel campo della psicologia cognitiva. È inoltre connessa all’ergonomia, alla psicologia ambientale ed alla teoria dell’informazione. L’Information Design dovrebbe aiutare gli utenti ad interagire nel modo più semplice e immediato possibile con i prodotti complessi (elettrodomestici, computers, ma anche moduli per la dichiarazione delle tasse…) guidando un’attenta progettazione delle interfacce, dei libretti di istruzioni e in generale delle modalità di interazione artefatto/utente. In questo modo i soggetti, pur non conoscendo i meccanismi alla base del funzionamento dei prodotti, possono fruirne senza difficoltà; viene quindi mediato ed alleviato quello stato di frustrazione che insorge quando si percepisce che l’artefatto contiene una black box, cioè una parte di cui si ignora il contenuto e che quindi è fuori dal nostro controllo. Un’altra applicazione dell’Information Design è la progettazione dell’informazione in modo che questa aiuti le persone a trovare il proprio percorso in ambienti complessi. La progettazione grafica è tradizionalmente il campo più strettamente associato con la progettazione dell’informazione. La distinzione tra la progettazione dell’informazione e della grafica potrebbe apparire sottile ad un primo sguardo. Entrambe trattano di comunicazione e del modo in cui l’informazione viene


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mostrata, ma la distinzione prende forma se viene analizzata sia da un punto di vista storico, sia dal punto di vista della funzione del messaggio trasmesso. La grafica negli ultimi decenni ha teso ad enfatizzare l’apparenza e a dare espressione ad alcuni valori estetici contemporanei. La professione, così com’è ancora insegnata e praticata, ha le sue radici all’inizio del XX secolo nello stile Art Decò e, con un’estensione minore, nel Dadaismo (Kinross, 1992). L’Information Design, al contrario, enfatizza la comunicazione e si occupa tanto del contenuto quanto della forma (Sless, 1994). È così necessario concepire la progettazione dell’informazione come un campo di applicazione indipendente. Infatti le problematiche che si presentano nel progettare un manifesto, per esempio, non sono del tutto comuni a quelle necessarie per progettare un sistema di segnaletica per l’orientamento o un segnale d’allarme. Questi ultimi artefatti comunicativi devono in primo luogo rispondere ad una specifica funzione (orientare, avvertire…) che può anche essere di vitale importanza. Romedi Passini nel saggio Sign Posting Information Design7 ritiene che comprendere a fondo questa funzione sia probabilmente l’aspetto più importante per una progettazione efficiente dei dati. Ogni volta che le persone si prefissano un obiettivo e utilizzano l’informazione per perseguirlo in ambiti nuovi, mettono in atto un’attività mentale che può essere concettualizzata come quella del problem solving (Passini, 1992). Infatti riempire un modulo od orientarsi sono entrambe attività di risoluzione di problemi. Fornire informazione per il problem solving è uno dei compiti più importanti dell’Information Design. Comprendere il modo in cui gli utenti risolvono situazioni incerte fornisce ai progettisti i criteri necessari

a determinare quali dati sono richiesti e dove o quando questi debbano essere accessibili (Passini 1999). Le modalità con cui le persone leggono e recepiscono un messaggio varia in funzione del compito prefissato e con le caratteristiche dell’individuo. A questo riguardo riportiamo il modello elaborato da Bruno Munari nel libro Design e comunicazione visiva. Munari traccia uno schema con il quale spiega in che modo l’utente recepisce una comunicazione visiva: “La comunicazione visiva avviene per mezzo di messaggi visivi i quali fanno parte della grande famiglia di tutti i messaggi che colpiscono i nostri sensi, sonori, termici, dinamici, ecc. Si presume quindi che un emittente emetta messaggi ed un ricevente li riceva. Il ricevente è però immerso in un ambiente pieno di disturbi i quali possono alterare od addirittura annullare certi messaggi. Per esempio, un segnale rosso in un ambiente nel quale predomini una luce rossa verrà quasi annullato, oppure un manifesto stradale con colori banali, affisso con altri manifesti altrettanto banali si mescolerà con loro annullandosi nell’uniformità. Supponiamo quindi che il messaggio visivo sia progettato bene, in modo che non venga deformato durante l’emissione: esso arriverà al ricevente, ma qui incontrerà altri ostacoli. Ogni ricevente, ed ognuno in modo diverso, ha qualcosa che potremmo definire come filtri, attraverso i quali il messaggio dovrà passare per essere ricevuto. Uno di questi filtri è di carattere sensoriale. Esempio: un daltonico non vede certi colori e quindi i messaggi basati esclusivamente sul linguaggio cromatico vengono alterati o addirittura annullati. Un altro filtro lo potremmo definire operativo,


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dipendente dalle caratteristiche psico-fisiologiche del ricevente. Esempio: è chiaro che un bambino di tre anni analizzerà un certo messaggio in modo molto diverso da un individuo maturo. Un terzo filtro che si potrebbe definire culturale, lascerà passare invece solo quei messaggi che il ricevente riconosce, cioè quelli che fanno parte del suo universo culturale. Questi tre filtri non sono rigorosamente distinti e non si susseguono nell’ordine dato, ma ci possono essere inversioni e contaminazioni reciproche. Supponiamo infine che il messaggio attraversata la zona dei disturbi e dei filtri, arrivi ad una zona interna del ricevente che chiamiamo zona emittente del ricevente. Questa zona può emettere due tipi di risposte al messaggio ricevuto: una interna ed una esterna. Esempio: se il messaggio visivo dice “qui c’è un bar”, la risposta esterna manda l’individuo a bere, la risposta interna dice: non ho sete.” Comprendere in che modo vengono elaborate dal ricevente le diverse tipologie di contenuti fornisce al designer suggerimenti sulle forme più appropriate in cui modellare quell’informazione. Vengono individuate due “macro-modalità” di ricerca per analizzare le reazioni dell’utente nel campo dell’Information Design: (1) la ricerca con test ed interviste ad ampio raggio e l’analisi statistica del risultato, di solito svolta da professionisti del settore, che valuta i prodotti in base a metodologie scientifiche ed usa un ampio campione di indagine; oppure (2) l’analisi svolta dagli stessi designer durante il processo progettuale. I progettisti di solito preferiscono il secondo tipo di approccio data la rapidità dell’indagine in termini di tempo e la libertà

di studiare le questioni che vengono ritenute più importanti (anche se questo tipo di ricerca ha un valore chiaramente molto più limitato).


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“Si potrebbe identificare l’obiettivo dell’Information Design con quello della produzione dell’informazione, invece l’obiettivo dovrebbe essere quello di conseguire una finalità progettuale più generale. Allo stesso modo l’obiettivo dell’Information Design nell’ambito del wayfinding non è quello di progettare la segnaletica, ma piuttosto quello di aiutare le persone a muoversi in modo più efficiente verso una destinazione prescelta. La misura della qualità di un progetto non riguarda semplicemente il design del prodotto, ma soprattutto il comportamento e la soddisfazione dell’utente. L’informazione non è fine a se stessa. Se questo punto non viene enfatizzato, il design dell’informazione potrebbe ridursi ad essere meramente la progettazione di un bel (o bellissimo) layout. E che cosa ne guadagneremmo?” R. Passini, Sign-Posting Information Design 1999

1.5 Il concetto di Wayfinding, indicazioni progettuali Il termine wayfinding, delineato da Passini nel saggio Wayfinding in Architecture (1992), si riferisce alle abilità cognitive e comportamentali connesse al raggiungimento in modo finalizzato di una destinazione fisica richiesta. Fu introdotto nella metà degli anni Settanta per rimpiazzare la nozione di orientamento spaziale, termine che si riferisce più specificamente all’abilità di un individuo di creare nella propria mente una rappresentazione di un luogo8. Ci si riferisce a questa rappresentazione anche con l’espressione mappa cognitiva. Il wayfinding, concettualizzato nei termini della risoluzione di problemi, comprende tre processi principali: (1) prendere una decisione connessa con lo sviluppo di un piano d’azione per raggiungere una destinazione; (2) eseguire la decisione presa e trasformare il piano in un comportamento appropriato all’interno del luogo lungo il percorso; (3) procurarsi le informazioni necessarie per eseguire la decisione (Arthur e Passini 1992). Il processo del wayfinding viene messo in atto in spazi architettonici, urbani o geografici. Allo stesso modo partecipa alla formulazione della mappa cognitiva, la rappresentazione mentale di uno spazio. Le mappe cognitive, nel contesto delineato nel saggio di Arthur e Passini, sono una parte della modalità di elaborazione dei dati; queste sono infatti, oltre che registrazioni di percezioni e cognizioni dirette dell’ambiente, possibili risorse di contenuti sia per formulare ipotesi che per eseguire piani. Una distinzione deve essere fatta tra il concetto di wayfinding in ambienti non conosciuti e, all’opposto,

in ambienti familiari o lungo percorsi noti. In quest’ultimo caso gli utenti hanno già una registrazione dei compiti richiesti e non hanno bisogno di fare delle scelte, ma solo di eseguirle. Eseguire le decisioni prese è un processo più automatico dell’atto di prenderle, fatto che giustifica la facilità con cui le persone seguono percorsi ben conosciuti. Gli utenti hanno già elaborato il piano decisionale e ricordano o riconoscono i luoghi dove devono eseguire specifici compiti. Invece nel caso di un luogo sconosciuto gli utenti necessitano di informazioni per prendere ed eseguire decisioni. Quindi le risoluzioni che devono essere attuate determinano il contenuto dell’informazione richiesta. Ma che cosa comporta questo nella progettazione dell’informazione? Come un designer può sapere quali scelte gli utenti futuri opereranno? Due osservazioni empiriche ci aiutano nel rispondere a queste domande. In primo luogo, per compiti simili, le scelte variano moltissimo a seconda dello scenario. In secondo luogo, all’interno di uno stesso ambiente, le scelte di diversi utenti rispetto ad un compito dato tendono ad essere simili (Passini 1984). Queste osservazioni suggeriscono che le decisioni chiave sono determinate in misura maggiore dai luoghi e dalle loro caratteristiche architettoniche piuttosto che dalle caratteristiche degli utenti. Indica inoltre che l’informazione, se è rilevante e coerente con il compito di orientamento, verrà utilizzata più facilmente. Più il veicolo dell’informazione è efficace, più saranno simili le soluzioni di wayfinding dei diversi utenti. La questione viene leggermente complicata dall’osservazione del fatto che alcuni utenti tendono a fare più affidamento sui contenuti presentati in un ordine lineare e sequenziale che li conducano da un


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punto dell’itinerario ad un altro, mentre altri preferiscono contare su informazioni di natura spaziale che forniscano un’immagine complessiva dello scenario9. In generale la maggior parte della persone farà affidamento sulla segnaletica sequenziale e lineare per trovare il percorso in ambientazioni complesse, cioè quando sarà più difficile il delinearsi della mappa mentale; in altre situazioni sarà più propensa a crearsi una mappa cognitiva dello spazio. Questo suggerisce che i progettisti dovranno fornire informazioni per entrambi gli approcci di wayfinding. Esiste una tendenza a concepire le informazioni di wayfinding solo in termini di segnaletica. L’analisi delle decisioni prese dall’utenza in situazioni dove è davvero necessario il processo di orientamento, comunque, mostra chiaramente che la maggior parte delle scelte sono prese in realtà sulla base di informazioni di tipo architettonico10 - le entrate dell’edificio, i punti di transizione da un luogo ad un altro, uscite, corridoi, scale, scale mobili, ascensori così come sulle informazioni che riguardano l’intera disposizione spaziale, per esempio la pianta di un edificio (Arthur e Passini 1992). Per questa ragione il contenuto delle informazioni per il wayfinding non dovrebbe essere limitato al veicolo della segnaletica, ma dovrebbe anche includere queste entità architettoniche e spaziali. Ognuno di questi tre elementi (disposizione degli spazi, visione d’insieme e segnaletica) dipende dalla presenza e dall’elaborazione degli altri. Per stabilire una lista di decisioni in funzione delle quali i progettisti possono fornire informazione, essi devono per prima cosa identificare la localizzazione dei

principali punti di accesso dello scenario e le funzioni principali dello spazio dal punto di vista dell’utente (per esempio principali zone di destinazione). Le più importanti scelte di wayfinding possono essere stabilite considerando i seguenti compiti per l’utente: (1) andare da ogni punto di accesso alla zona di arrivo e viceversa, (2) andare da un punto-destinazione ad un altro, e (3) circolare all’interno dei punti di destinazione. Il progettista può individuare le necessità per scelte più specifiche registrando i punti all’interno dei percorsi di circolazione dove l’utente deve decidere tra diverse opzioni direzionali (Romedi Passini SignPosting Information Design). La localizzazione di un’unità di contenuto lungo un percorso è così determinata dalla localizzazione dei punti decisionali corrispondenti. Graphic designer e building manager lamentano spesso, a questo riguardo, il fatto che gli utenti non fanno attenzione ai cartelli. Le persone che stanno cercando di interagire con un ambiente complesso non fanno caso a tutto, ma tendono a scegliere quello che sembra loro rilevante; fanno attenzione solo a ciò che serve loro. Una unità di contenuto posizionata in un luogo in cui non è necessaria in quel momento ha buone probabilità di essere ignorata. Se il contesto e la localizzazione delle informazioni di wayfinding sono determinate dalle decisioni relative all’orientamento degli utenti, la loro forma e presentazione deve essere progettata per essere comprensibile e riconoscibile da un’utenza più ampia possibile. Rispetto a questa problematica vengono fornite numerose indicazioni riguardo le tipologie di font e la loro forma, lo spazio fra queste, la leggibilità e la distanza, le distorsioni angolari, gli spessori, l’uso dei


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simboli e dei colori, l’illuminazione dei segni ed anche il design delle frecce11. Inoltre bisogna tener presente che la leggibilità di uno schermo in uno studio può essere dissimile da quella nello scenario reale. Un segno contiene molteplici unità di informazione, per esempio, che possono essere facilmente lette in un ambiente calmo e stabile, ma possono essere di difficile fruizione in uno spazio complesso nel quale gli utenti sono in movimento. La ragione, in questo caso, è che banalmente le abilità percettive dell’utente in movimento in un luogo complesso sono diverse rispetto a quelle a disposizione quando è fermo e in una situazione di quiete. Per questo motivo i designer dovrebbero conoscere le basi dei processi cognitivi e percettivi e testare il modo in cui l’informazione viene presentata in ambientazioni realistiche e con reali utenti, piuttosto che sottrarsi a questi test generalizzando dai risultati ottenuti in condizioni non conformi all’ambiente reale. Abbiamo già sottolineato il fatto che la progettazione architettonica coinvolga anche il tema del wayfinding. L’articolazione degli ingressi dell’edificio, i punti di transizione da una zona ad un’altra, le uscite, i corridoi, le scale, le scale mobili e gli ascensori sono tutti parte della comunicazione architettonica e sono essenziali per il wayfinding. Anche gli architetti e i pianificatori intervengono, ad un livello differente, nell’organizzazione e nella connessione degli spazi, creando in questo modo la planimetria che include il sistema di circolazione. Facendo ciò stabiliscono il contesto e determinano i problemi connessi all’orientamento che gli utenti dovranno risolvere. Il sistema di circolazione è un fattore che determina la facilità o la difficoltà con la quale le persone formuleranno le mappe cognitive dello scenario.

È vero che i designer dell’informazione possono agevolare il processo di mappatura cognitiva trovando efficaci modalità di comunicare il layout, includendo il sistema di circolazione; non di meno però la gran parte dell’abilità dell’utente di crearsi una mappa dell’ambiente è inerente alla natura dell’ambiente stesso. La concezione di layout e di circolazione è uno dei primi punti presi in considerazione nel processo progettuale, e a questo punto le considerazioni di wayfinding sono già cruciali. La comunicazione di percorso, per essere efficiente, non deve solo seguire la concezione architettonica della planimetria ed essere relegata a “rimettere ordine al caos”, ma dovrebbe essere presa in considerazione fin dai primi stadi della progettazione per definire i problemi di orientamento che i futuri utenti dovranno risolvere. La branca dell’Information Design che si occupa della progettazione finalizzata ad agevolare il processo di comprensione degli spazi e dei percorsi nell’ambiente costruito è quella dell’Environmental Design. Gli ambiti di cui questa si occupa possono essere così riassunti: - comunicazione grafica (sistemi di mappatura e di segnaletica) - comunicazione architettonica (informazione implicita nell’ambiente, valorizzazione dei “punti notevoli”12 dell’edificio) - comunicazione verbale (servizio “banco informazioni”) L’Environmental Design riguarda la comunicazione, l’ambiente ed il linguaggio ed ha fra i suoi compiti quello di fornire dei sistemi informativi di descrizione dello spazio e di istruzione all’uso delle sue funzioni; deve quindi supportare, semplificare e trasmettere la


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conoscenza ambientale. L’environmental graphic designer si occupa specificamente della comunicazione grafica dell’ambiente, per mezzo delle mappe e dei sistemi di segnaletica, viene infatti definito in questo modo dalla SEGD (Society for Environmental Graphic Design, Washington, USA): “The environmental graphic designer plans, designs, and specifies, sign system and other forms of visual communication in the built environment. The environmental graphic design serves three basic functions: to assist users in negotiating thought space by identifying, directing and informing, to visually enhance the environment and to protect the safety of the public. In creating graphical elements for building or a site, environmental designers analyse the architectural, cultural and aesthetic factors to meet the needs of both clients and users. Their design process is informed by their visual communication skills and knowledge of appropriate materials, methods and technologies”. In questa sede verranno presi in considerazione i sistemi di mappatura e di segnaletica per gli ambienti ad uso collettivo sottolineandone i limiti e proponendo alcune indicazioni progettuali.


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1 C.E.Shannon, “A mathematical theory of communication” in Bell System Technical Journal, vol 27, luglio e ottobre 1948, e C.E.Shannon e W.Weaver, Recent contributions to the mathematical theory of communication, University of Illinois Press, Urbana, 1949 2 accademico di Harvard e figura di spicco nell’American Academy of Arts and Sciences 3 James R. Beninger Le origini della società dell’informazione. La rivoluzione del controllo edito in Italia da UTET, 1995 4 vedi Richard S. Wurman, Information Anxiety, 1990 5 AAVV, Information Design, a cura di Robert Jacobson, MIT 1999 6 vedi il lavoro di Maria Grazia Tonfoni esposto da Cavina e La Piccirella in Information Design, Utet, 2002 7 AAVV, Information Design, a cura di Robert Jacobson, MIT 1999 8 per riferimenti precedenti a proposito del concetto di wayfinding, vedi Kaplan (1976), Downs e Stea (1977) 9 per studi precedenti sulle tipologie di mappe cognitive vedi Appleyard (1970). In questa tesi vedi cap. 3.3 10 “If you see a road you understand that you can walk along it without having to see a sign saying that you can do so. You can enter a building through a doorway even if it is without an entrance sign. You may even know what is in the building and how it is spatially organized just by looking at it. You can use a nature trail, a park, a square, an avenue, an elevator, or a stair, because wayfinding information is contained in these elements. People in their daily movements have to pick up circulation information in

order to find their way. They have to find out where to enter a setting and where to exit it. They have to recognize destinations. They have to identify the paths of horizontal and vertical circulation systems. To be fully efficient, they have to understand circulation systems” R.Passini, Wayfinding in architecture, van Nostrand Reinhold, New York, 1992 11 per riferimenti generali si veda Arthur e Passini (1992), Wildbur (1989) e McLendon (1982). In questa tesi si veda il capitolo seguente. 12 per “punti notevoli” si intendono quei punti che permettono la comprensione dell’intorno spaziale.


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2. ENVIRONMENTAL DESIGN

“10 anni fa la fotografa Paola Di Bello ha ricostruito la mappa della rete metropolitana di Parigi con un collage di centinaia di fotografie a colori. Ogni piccola stampa riproduce il punto in cui, nei cartelloni segnaletici presenti in tutte le stazioni sotterranee, i passeggeri appoggiano il dito pensando “Bene io sono qui”. Il risultato è una strana mappa, dalla quale Parigi emerge come un nodo vitale. Un mondo nel quale gli snodi della rete dei trasporti e i luoghi più celebri, quelli dell’immaginario turistico, sono cancellati dal tatto, erosi dalla intensità con cui vengono frequentati. L’opera di Paola Di Bello è un atlante del turismo di Parigi. Un atlante particolare, in cui al codice impersonale della cartografia classica si sovrappone il ticchettio di migliaia di gesti individuali. L’atlante della metropolitana parigina ci racconta una geografia eclettica, fatta di percorsi abitudinari, punti di attrazione, brevi soste, corridoi di flusso, zone d’ombra, luoghi solitari. Una geografia di tempi e movimenti, e non solo di spazi, che assomiglia inaspettatamente al nostro modo di pensare e memorizzare la città contemporanea. Di atlanti di questo tipo, capaci di raccontare la vita nelle nostre grandi città (e non solo i loro dati e la loro forma) abbiamo oggi sempre più bisogno.” Domus, maggio 2004, n° 870

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2.1 Oltre l’orizzonte, sistemi di mappatura Le mappe sono rappresentazioni figurative di dimensioni, attributi e relazioni tra oggetti del mondo fisico o logico, riprodotte secondo una scala. Le mappe danno a coloro che le consultano la semplice e magica abilità di vedere oltre l’orizzonte. La caratteristica illuminante e rivelatoria di una buona mappa deriva dalla sua capacità di racchiudere la realtà in un unico e solido modello illustrato, con la possibilità inoltre di avere simultaneamente sia una punto di vista da “panorama” sia di dettaglio13. Una mappa racchiude il lavoro, la conoscenza e l’intelligenza degli altri, possiamo infatti ottenere informazioni topografiche di un luogo che potremmo non vedere mai, o notare un pattern mai preso in considerazione in un’area che pensiamo di conoscere a fondo. Così consultiamo una mappa come faremmo con un consigliere per localizzare, identificare e decidere; questo atteggiamento ci porta a soffrire, a volte, di una grande illusione di onnipotenza nel credere che le mappe contengano tutto quello che è necessario per comprendere o controllare un’area (anche tematica). Dimentichiamo, infatti, che colui che scrive la mappa ha una propria visione delle cose, non per forza allineata al nostro modo di concepirle (Owen, 2002). Le mappe sono imperfette, esistono informazioni che si perdono per la sovrapposizione di diversi livelli di contenuti (“Londra”, disse il suo ‘biografo’ Peter Ackroyd, “è così grande e così diversa che mille mappe differenti sono state scritte per descriverla”). Paradossalmente molte informazioni possono essere ottenute dalle lacune lasciate irrisolte, non solo a proposito delle intenzioni del ‘mapmaker’.

Questo è solo un aspetto della loro bellezza. Le mappe sono oggetti creati dall’uomo, per questo motivo non possono essere considerate né arbitrarie né pure, esse dichiarano la propria visione oggettiva e ‘naturale’ della realtà scaturita dall’osservazione scientifica, ma ancora le osservazioni sono selettive e devono essere tradotte e comunicate attraverso il mezzo grafico: lo scienziato confida nell’arte del cartografo per illustrare le proprie scoperte (Owen, 2002). Le mappe sono concepite come contenitori neutrali di informazioni perché esse hanno la facoltà di persuadere in modo non eclatante, questa ‘naturalezza’ è data dal linguaggio e dalle convenzioni utilizzate, basate su di un sistema semiotico carico di valore. Le mappe contengono convenzioni gerarchiche che condizionano il modo in cui vediamo il mondo; una di queste è, per esempio, l’orientamento secondo gli assi nord/sud, est/ovest. Non c’è nessun buon motivo per questa scelta che non sia quello di individuare una convenzione, ma ciò ha portato a considerare che solo questo orientamento sia ‘corretto’. Nel medioevo le carte geografiche erano prevalentemente orientate con l’est verso l’alto, in base alla concezione religiosa per cui il paradiso terrestre si trovava ad est, e quindi l’est era il punto di orientamento più rilevante. Gli arabi invece orientavano le carte con il sud verso l’alto, perché il sud era il punto cardinale più facile da individuare, in base alla posizione del sole nel momento in cui era più alto sull’orizzonte, in tutti i giorni dell’anno (mentre i punti in cui il sole sorge o tramonta sono soggetti, nel corso dell’anno, a lievi variazioni). Dal quattordicesimo secolo in poi prevale, nelle carte nautiche, la consuetudine di collocare il nord verso l’alto, sulla base della facilità di individuarlo facendo riferimento alla


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stella polare e alla bussola, il cui uso era appunto ormai diffuso14. Questo è solo uno dei sistemi di segni e di valori che fondano la cartografia. Oggi il linguaggio cartografico è così integrato nel nostro modo di vedere le cose che può essere considerato invisibile: non questioniamo più la connessione tra una linea blu sulla mappa ed il concetto di ‘fiume’, vediamo il significante equivalente con il significato, uno derivante naturalmente dall’altro. E’ normale che il nord stia sempre in alto, che la sfera del mondo sia trasformata in un piano bidimensionale, che la Gran Bretagna si trovi al centro di ogni planisfero, che sia stata fatta una particolare scelta tematica e utilizzata una determinata scala. Il cartografo, però, ha la responsabilità di essere franco rispetto alle proprie scelte e degli effetti di queste nell’atto della fruizione delle mappe (Owen, 2002). La cartografia dispone di un bagaglio di convenzioni iconografiche, geometriche, linguistiche e formali con le quali mediare i dati reali in rappresentazioni figurate. Le mappe richiedono traslazioni geometriche (da una realtà tridimensionale ad un piano bidimensionale), trasformazioni di scala (da 1:1 a 1:n), scelte di edizione (cosa mostrare e cosa ignorare) e rappresentazioni iconografiche. Perlopiù sono due i sistemi di segni usati per definire attributi e dimensioni: in primo luogo le icone, che normalmente definiscono le caratteristiche generali e le estensioni dimensionali (che genere di oggetto è questo? una città con un numero di abitanti compreso tra 50.000 e 10.000), e in secondo luogo il testo che descrive le caratteristiche specifiche (come si chiama, a quando risale?...). William Owen ha delineato quattro ulteriori sistemi di segni (pattern) che vengono utilizzati nelle mappe per definire relazioni spaziali e dimensionali: la matrice

(detta anche ‘chloropleth’) che segna confini e divisioni, dove un’area diventa un’altra e cosa giace vicino a cosa; la rete (network), che mostra sistemi di flusso come reti fognarie, di comunicazione su strada o di navigazione; il punto che marca la posizione di oggetti discreti nello spazio, come insediamenti, landmarks o edifici; il livello, che raggruppa la continuità, come nel caso delle curve isoipse che demarcano le stesse altezze o come per le isobare che segnalano la stessa pressione dell’atmosfera. Ognuno di questi sistemi di segni esiste sempre nel contesto di un quinto, le coordinate (meridiani e paralleli) e gli assi cartesiani (nord-sud, est-ovest), che danno i punti di riferimento assoluti di un oggetto e definiscono i confini della mappa (e in extremis i confini del mondo conosciuto). I pattern - la matrice, la rete, il punto ed il livello sono utilizzabili ed adattabili in un infinita tipologia di narrazioni non geografiche. Le attività che hanno una relazione con lo spazio fisico utilizzano normalmente una metafora geografica per rappresentarsi e sono chiaramente accettate come mappe nella convenzione occidentale; sistemi meccanici, elettronici o biologici (come il corpo umano o i circuiti elettrici) possono infatti essere rappresentati topologicamente o topograficamente. Si può effettuare una mappatura di idee ed informazioni, di sistemi logici di pensiero nel campo della filosofia, della religione, della scienza e della tassonomia; fino ad una rappresentazione allegorica delle relazioni politiche e sociali - la mappa dei viaggi di Gulliver di Jonathan Swift non è meno “reale” dell’Atlante del Mondo, sebbene stia semplicemente mimando il linguaggio scientifico dell’altro -.


Anonimo, XIV sec, diagramma dettagliato delle parti dell’occhio Adbuster, marzo/aprile 2005

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Nella cultura occidentale si tende a restringere la definizione di mappa alla riproduzione di relazioni dimensionali lineari. L’arte islamica e dell’India del sud utilizza questi pattern in modo ulteriore, vengono infatti create rappresentazioni topologiche intuitive di relazioni umane o fisiche indipendenti dalla dimensione spaziale e del tempo. Questi costrutti sono potenzialmente dei modelli di comunicazione non lineari multistrato e poliprospettici che potrebbero essere proficuamente utilizzati nella società dell’informazione digitale (Owen, 2002). Le mappe e i frammenti di mappe sono in ogni luogo ed in ogni momento. Oggi non hanno nessun inizio né fine grazie alla loro consultazione su supporti informatici connessi ad internet, o grazie all’utilizzo del protocollo GPS (Global Positioning System) fruibile con il cellulare o con computer palmari. Le mappe digitali

hanno scale multiple che offrono la possibilità di ingrandire fino ad individuare il dettaglio desiderato, inoltre è possibile integrare vari livelli digitali per differenti temi: trasporti pubblici, luoghi di interesse turistico, rotte navali... I sistemi di informazione geografica (Geographical Information Systems) definiscono milioni di oggetti in forma di dati telematici, in questo modo la mappa è connessa ad un database, ed il database è interrogato attraverso la mappa. Se le informazioni del database vengono modificate la mappa cambia di conseguenza, in questo modo si supplisce al problema della vita breve delle mappe cartacee.


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2.1.1 Come costruire sistemi di mappatura migliori? “Senza indirizzi Le vie di questa città [Tokyo] non hanno nome. Certo, c’è un indirizzo scritto, ma non ha che un valore postale, si riferisce ad un catasto (per quartieri e per blocchi, assolutamente non geometrici), la cui conoscenza è accessibile al postino ma non al visitatore: la più grande città del mondo è praticamente inclassificata, gli spazi che la compongono nei dettagli sono innominati. Questo annullamento domiciliare sembra scomodo a chi (come noi) è abituato a stabilire che la cosa più pratica è sempre la più razionale (principio in virtù del quale la miglior toponomastica sarebbe quella delle vie-numero, come negli Stati Uniti o a Kyoto, città cinese). Tokio invece ci ripete che il razionale non è che un sistema tra altri. Perché ci sia padronanza del reale (in questo caso quello dell’indirizzo) è sufficiente che ci sia un sistema, anche se questo sistema è apparentemente illogico, inutilmente complicato, curiosamente diverso: un buon bricolage può non soltanto resistere a lungo, come si sa, ma può anche soddisfare milioni di abitanti addestrati d’altronde a tutte le perfezioni della civiltà tecnologia. L’anonimato è sostituito da un certo numero di espedienti (o per lo meno è così che essi ci appaiono), la cui combinazione forma un sistema. Si può indicare l’indirizzo con uno schema di orientamento (disegnato o stampato), sorta di rilevamento geografico che situa il domicilio a partire da un punto di riferimento conosciuto, una stazione, per esempio: gli abitanti eccellono in questi disegni improvvisati, in cui si vede prender forma, su un foglietto di carta, una strada, un edificio, un canale, una ferrovia, un’insegna; disegni che rendono lo scambio di indirizzi una comunicazione gentile, in cui riprende spazio la vita del corpo, l’arte del gesto grafico: ha sempre un certo sapore vedere qualcuno scrivere, a maggior ragione disegnare: di tutte quelle volte che un indirizzo mi è stato comunicato in questo modo, io trattengo nella memoria il gesto del mio interlocutore mentre gira la sua matita per cancellare delicatamente con la gomma posta all’estremità, la curva eccessiva di un viale, il raccordo di un viadotto (nonostante sia la gomma un oggetto contrario alla tradizione grafica del Giappone, proveniva da questo gesto qualcosa di sereno, di carezzante e di sicuro, come se, anche in questo futile atto, il corpo “lavorasse con più riserbo dello spirito” conformemente al precetto dell’attore Zeami: la fabbricazione dell’indirizzo aveva molta più importanza dell’indirizzo stesso e io, affascinato, avrei desiderato che impiegassero delle ore a darmi quell’indirizzo). Si può, anche per poco che si conosca già il posto in cui si va, dirigere noi stessi il taxi di strada in strada. Si può infine pregare il taxista di lasciarsi guidare dall’ospite lontano presso cui si è diretti, grazie ad uno di quei grossi telefoni rossi installati quasi ad ogni banchetto lungo le strade. Tutto ciò fa dell’esperienza visiva un elemento decisivo dell’orientamento: affermazione banale, se si trattasse della giungla o della boscaglia, ma che lo è molto meno se riguarda una grandissima città moderna, la cui conoscenza è quasi sempre assicurata dalla carta, dalla guida, dall’elenco telefonico, in una parola, dalla


Mappa di Tokyo della fine del sec XVII,inizio del XIX sec. da L’impero dei segni, Roland Barthes, 1970, Einaudi

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cultura stampata e non dalla pratica gestuale. Qui, al contrario, l’indicazione di domicilio non è sostenuta da alcuna astrazione: ad eccezione del catasto, non è che una pura contingenza: molto più pratica che legale, cessa di esprimere la congiunzione tra un’identità e una proprietà. Questa città non può essere conosciuta che grazie ad un’attività di tipo etnografico: bisogna orientarsi non con il libro, l’indirizzo, ma con lo stesso camminare a piedi, con la vista, l’abitudine, l’esperienza: ogni scoperta è insieme intensa e fragile, non potrà essere ritrovata che grazie al ricordo di quella traccia che ha lasciato in noi: visitare un posto per la prima volta è, in questo modo, cominciare a scriverlo: non essendo scritto, l’indirizzo deve fondare da sé la propria scrittura.” Roland Barthes, L’impero dei segni , 1970


esempio di mappa tridimensionale di un museo

Bristol city street signage studio MetaDesign, Londra, 2001

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Il linguaggio delle mappe è composto dalla famiglia dei segni, che comprende simboli, icone ed indici. La mediazione che ha luogo durante la trasformazione da dati scientificamente oggettivi alla produzione di una mappa leggibile ha come risultato una narrazione interamente soggettiva (Owen, 2002). Le mediazioni fondamentali sono la proiezione, l’orientamento e la scala. La proiezione dà il punto di vista, l’orientamento dà la gerarchia e la scala provvede a creare il senso del tempo e dell’orizzonte (quanto lontano bisogna vedere e quanto lontano bisogna andare). Il semplice dato della scala ci dice per chi è stata progettata e quale è lo scopo della mappa. L’individuazione del destinatario ha quindi un valore fondamentale nella stesura di una pianta, infatti il nostro senso di luogo, di posizione e la nostra comprensione delle relazioni tra le cose (determinate da dimensioni ed attributi) è forgiata e rinforzata dalla loro rappresentazione sulla mappa. La costruzione di una mappa mentale come trasposizione della mappa cartacea nella mente dell’utente è uno degli atti fondamentali, consci o inconsci, per consentire il processo di orientamento. L’utilizzo del solo mezzo grafico limita le potenzialità intrinseche della rappresentazione spaziale. Il passaggio dalla tridimensionalità del luogo alla bidimensionalità della carta induce a semplificazioni che a volte confondono l’utente. Un esempio di questa disfunzione è stato rivelato dagli studi compiuti su piloti di aereo15: le mappe isoipse rappresentano con diverse curve isometriche tutti gli ostacoli che si possono incontrare durante il volo. I piloti volano attraverso o intorno queste curve, non solamente sopra

ma anche sotto di esse, muovendosi liberamente nello spazio tridimensionale. Ogni cambiamento di posizione in altezza modifica il punto di vista dell’utente che deve ricalcolare la sua posizione sulla mappa. Poiché questa è stata scritta per essere letta preferenzialmente da un punto di vista superiore all’ostacolo più alto, risulta difficile comprenderla se la posizione del velivolo, per questioni metereologiche o per disfunzioni meccaniche, non è tale. Le popolazioni Inuit hanno supplito a questo problema creando mappe tridimensionali. La caccia in kayak lungo le coste della Groenlandia e del Canada orientale avviene per tutti i mesi invernali in condizioni di oscurità. E’ quindi necessario creare una mappa comprensibile al tatto, impermeabile all’acqua e che galleggi nel caso cada in mare. Gli Inuit hanno così cominciato a scolpire su pezzi di legno il profilo della costa, creando un sistema di orientamento più funzionale e meno astratto. Alcune sperimentazioni dimostrano che la rappresentazione tridimensionale anche su semplice supporto cartaceo aiuta la comprensione degli ambienti, soprattutto in spazi aperti come i campus universitari, nei quali sono presenti numerosi edifici. Risulta infatti più facile svolgere i compiti di wayfinding se siamo già in possesso dell’immagine realistica dell’edificio che stiamo cercando. Nel caso in cui il numero di informazioni da veicolare sia esiguo (per esempio relativo solamente all’ubicazione) l’utilizzo di disegni tridimensionali può essere una buona soluzione.


PLI (Plan Lumineux Interactif) nelle metropolitane parigine

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Quando viene presa in considerazione la comune fruizione di una mappa esposta in bacheca in ambiente cittadino ci accorgiamo che si presentano molteplici difficoltà. Le mappe dei pannelli informativi sono sempre orientate secondo gli assi nord/sud est/ovest, l’utente quindi deve compiere uno sforzo di immaginazione per riorientare la pianta in modo che sia aderente alla realtà circostante. Inoltre è sempre molto difficile interpretare la scala, visto che questa è raramente indicata. Saranno necessari cinque minuti di cammino o trenta? Un buon sistema di mappe consta di una progettazione della loro disposizione, in modo che queste siano orientate correttamente rispetto agli oggetti che segnalano. Si tratta quindi di mappe più specifiche per l’utenza e ad una scala in sintonia con la velocità di spostamento del fruitore. Un altro problema connesso alla consultazione di mappe, oltre al riconoscimento della propria posizione all’interno di esse e al loro corretto orientamento, è la determinazione e la memorizzazione del percorso che si intende compiere. A volte risulta difficile districarsi e riconoscere i dati a noi utili nella foresta dei segni delle mappe. La luce è un ottimo mezzo per sottolineare un percorso sia a livello bidimensionale che direttamente nell’ambiente. Il tabellone riassuntivo dei mezzi di trasporto pubblici sotterranei di Parigi, il PILI (pannello indicatore luminoso di itinerario), è un esempio di questa possibile applicazione. Premendo il pulsante corrispondente alla stazione in cui ci si vuole recare la mappa delle linee si illumina lungo l’itinerario. Anche se oggi il PILI è stato rimpiazzato per questioni logistiche dal PLI (Plan Lumineux Interactif) su supporto informatico e consultabile via internet, per quasi 50 anni ha affascinato ed aiutato migliaia di viaggiatori.

Questo esempio dimostra come utilizzare strumenti ulteriori rispetto al solo supporto grafico può essere un metodo da tenere in considerazione nella stesura di mappe; utilizzando la luce, nel caso specifico, si colpisce l’utente in modo più immediato e inconsapevole, agevolando il delinearsi della mappa mentale e quindi limitando il senso di spaesamento. Un altro metodo utilizzato per ridurre la difficoltà di memorizzazione del proprio percorso è quello di costruire diagrammi di flusso riassuntivi che sottolineano solo le funzioni del luogo, senza più nessun collegamento con la realtà planimetrica dello scenario. L’utente viene quindi guidato attraverso l’uso esclusivo della segnaletica e del colore. L’Ospedale Bufalini di Cesena utilizza questo tipo di comunicazione ambientale. In questo stesso contesto vengono anche fornite mappe tradizionali che omettono però tutte quelle parti dell’ospedale il cui accesso non è consentito al pubblico, ma solo al personale medico. In questo modo si previene e limita il passaggio delle persone nelle zone riservate. Si è quindi deliberatamente scelto di omettere una mappa generale. Quando le mappe omettono spazi in funzione dell’utenza a cui sono destinati il progettista opera una semplificazione dell’informazione specifica per il fruitore. Il livello di semplificazione da attuare è un tema ampiamente dibattuto, infatti è possibile che in questo caso l’utente non riesca più a ritrovare i parametri che di solito lo guidano nel processo di orientamento. Edward Tufte, docente alla Yale University di Statistica, Information Design ed Interface Design, nel suo saggio Envisioning Information sostiene appunto questa tesi. Egli ritiene infatti che la facilità di lettura derivi esclusivamente dalla corretta


Akahata, Tokio, 1985 da Envisioning Information, Edward Tufte, 1990

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organizzazione del contesto in cui l’informazione dettagliata e complessa viene presentata. “A most unconventional design strategy is revealed: to clarify, add detail. Less is bore.” Secondo Tufte la visualizzazione di informazioni fortemente dense di contenuto permette agli utenti di selezionare, riorganizzare e personalizzare i dati in base alle specifiche necessità. In questo modo sono gli stessi utenti ad avere il controllo dell’informazione, sottraendolo ai progettisti e agli editori. La visualizzazione di un contenuto eccessivamente semplificato spinge i destinatari ad un’attitudine passiva e, allo stesso tempo, diminuisce la credibilità della sorgente. Come può questa posizione coesistere con il problema del sovraccarico informativo? L’informazione non dovrebbe essere semplificata e modellata per l’utenza? Tufte sostiene che queste domande non centrano il punto, infatti ritiene che la quantità di dati sia una questione totalmente estranea alla difficoltà di lettura. La confusione e il disordine sono prodotti della progettazione non attributi dell’informazione. Molto spesso vengono estrapolati dai dati dei dettagli per perseguire la semplicità di lettura, basandosi su competenze personali e specifiche del progettista, queste considerazioni possono anche essere irrilevanti rispetto al contenuto sostanziale del dato. La facile, convenzionale equazione “semplicità dei dati e della progettazione = chiarezza di lettura” è falsa; la semplicità è una preferenza estetica soggettiva non una strategia di visualizzazione. Quello che Tufte propone è invece una rappresentazione ricca di dati e di contesti comparabili tra loro, una comprensione della complessità rivelata con un’economia di significati.

I mezzi più potenti per ridurre il “rumore” e arricchire il contenuto della visualizzazione sono (1) la tecnica del mostrare il contenuto per livelli separati, stratificando visivamente i vari aspetti del dato; (2) creare delle narrazioni attraverso i parametri di spazio e di tempo; (3) presentare i contenuti per piccoli multipli, in modo che siano comparabili tra loro; (4) utilizzare il colore in modo strategico. Il colore è un ottimo strumento per separare i livelli di contenuto. Le aree maggiori, quindi quelle di sfondo16, dovrebbero avere dei colori tenui e desaturati in modo che le aree piccole (figura-dato), con colori brillanti, siano facilmente riconoscibili (Tufte, 1990).


Anche un punto inerente alla percezione visiva deve essere preso in considerazione: gli elementi vicini sul piano bidimensionale interagiscono fra loro creando pattern non informativi e texture non progettate che derivano semplicemente dalla loro simultanea presenza. Josef Albers17 descrive questo effetto visivo come il fenomeno del 1+1=3 o più. La dimostrazione di questo assunto è visualizzata qui sopra. La questione sta nel limitare l’attivazione dello spazio negativo creato dalle costruzioni grafiche. Un’attenta progettazione del layout può fortemente limitare l’insorgenza di questo fenomeno.

Giambattista Nolli, Pianta grande di Roma, 1748 da Envisioning Information, Edward Tufte, 1990

Josef Albers “One plus One Equals Three or More” in Search Versus Re-search, 1969

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Marshall Signals aeroportuali riprogettati da Edward Tufte

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Non esistono regole generali ma Tufte consiglia di ridurre il più possibile i costrutti grafici che distolgono l’utente dalla percezione del reale contenuto. Per esempio si tratta di evitare di circondare le parole con cornici nere che attivano lo spazio bianco tra le parole e il box di testo, questo fenomeno rende l’immagine vibrante e complica la lettura. Tufte per esemplificare la sua teoria riprogetta i Marshall Signals aeroportuali. “To direct attention towards the information at hand, the revision extends the light to dark range of color, separating and layering the data in rough proportion to their relevance. Gray calms a contrasty silhouette, bringing about in turn more emphasis on the lamps and their position and motion. Coloring these lamps helps to separate the signals from all the rest. Some 260 lamps-whiskers were erased, whiskers which originally read in confusion as glowing light and also trembling motion. Note the effectiveness and elegance of small spots of intense, saturated color for carrying information - a design secret of classical cartography and, for the matter, of traffic light. Finally, in out revised version, the type for the title (upper left corner) has emerged from its foggy closet. Also the labels, now set in Gill Sans, are no longer equal in visual weight to the motion arrows, among several typographical refinements.” La regola di base è quella di concentrare l’attenzione dell’utente sul dato e non sul contenitore del dato. Un ulteriore miglioramento che si può attuare per produrre sistemi di visualizzazione dell’informazione per l’orientamento è quello di progettare un sistema di segnaletica integrato alla mappa e inserito

nell’ambiente. Infatti, poiché solo una percentuale molto bassa di utenti possono leggere e comprendere proficuamente una mappa, questa non può mai essere lo strumento principale con cui i visitatori vengono guidati in un luogo (Paul Mijksenaar). È utile utilizzarla per fornire la visone d’insieme di uno spazio ma deve essere sempre affiancata alla segnaletica inserita nell’ambiente. La mappa in questo modo è in parte tridimensionale, quindi meno astratta e più comprensibile.


Johnson’s new illustrated family atlas with physical geography Joseph Hutchins Colton da Envisioning Information, Edward Tufte, 1990

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Rifiuti orbitanti intorno alla terra Donald J. Kessler da Envisioning Information, Edward Tufte, 1990

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2.2 Cenni storici sulla progettazione della segnaletica La progettazione grafica o “comunicazione visiva”, legata al filone dell’editoria e della pubblicità fino alla seconda metà dell’ottocento, con il novecento18 trova la sua vera e propria fondazione disciplinare: all’interno del Bauhaus Jan Tschichold con “Die Neue Typographie” del 1928 promuove l’uso di una tipografia che abbia come finalità la chiarezza: fino ad allora infatti era molto diffuso l’uso di caratteri classicheggianti o gotici che sottolineavano l’aspetto decorativo della pagina a scapito della sua capacità comunicativa. Nel manuale vengono esposte regole tipografiche pratiche e teoriche che saranno la base per la moderna concezione di impaginazione e layout. L’apporto di Otto Neurath è imprescindibile invece nell’evoluzione dei metodi di visualizzazione dell’informazione attraverso simboli: egli infatti verso la metà degli anni ‘20 sviluppa l’Isotype (International System of Typographic Picture Education), un sistema che, attraverso segni visivi, presenta dati statistici per mezzo di un linguaggio pittografico facilmente comprensibile che possa essere una valida alternativa ai diagrammi fino ad allora utilizzati (curve astratte, colonne e tabelle). Neurath vuole rendere il messaggio visivo universalmente comprensibile al di là delle barriere linguistiche nazionali creando una sorta di alfabeto universale per immagini in grado di comunicare i processi della società a chiunque, a prescindere dal suo grado di competenza o istruzione. “Abbiamo realizzato un linguaggio internazionale per immagini (che funga da linguaggio ausiliario) nel quale è possibile esprimere proposizioni tratte da qualsiasi linguaggio naturale del pianeta. Lo abbiamo chiamato

sistema di segnaletica della metropolitana di New York, Bob Noorda

sistema per la segnaletica stradale inglese Jock Kinner

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Isotype. Un linguaggio per immagini di questo tipo è senza dubbio molto importante e di grande utilità. Ad esempio un uomo che giunge in una città straniera e non conosce la lingua del luogo avrebbe difficoltà ad acquistare un biglietto alla stazione, o al porto; inoltre non saprebbe dove riporre il proprio bagaglio, come usare il telefono nella cabina, dove trovare un ufficio postale. Ma se costui vede delle figure accanto alle parole straniere, queste immagini potranno metterlo sulla buona strada. L’educazione mediante immagini, realizzata in armonia col sistema isotype contribuirà in modo determinante a dotare le differenti nazioni di un comune sguardo sul mondo. Se le scuole saranno in grado di insegnare mediante la visione servendosi di questo linguaggio diventeranno artefici di una educazione comune a tutto il pianeta e daranno un nuovo impulso ad ogni tipo di problematiche connesse alla prassi educativa internazionale.” Questa entusiastica presentazione del principale manifesto di Isotype, chiamato anche linguaggio internazionale per immagini, viene pubblicata nel 1936.19 L’interesse per l’aspetto comunicativo dei luoghi ad utenza pubblica, come ad esempio le stazioni, comincia nei decenni successivi ad accentuarsi sempre di più, tanto che, negli anni sessanta, si inaugura anche in Italia un corso sulla grafica di pubblica utilità con intenti sociali ed educativi. L’università che lo ospita è l’ISIA di Urbino, istituto che organizza la didattica sulla scia delle teorizzazioni di Albe Steiner (egli nel 1969 progetta l’immagine municipale della città). Steiner sostiene che il linguaggio grafico scelto per questo tipo di progetti deve essere appropriato al luogo e all’utenza: devono essere presi in considerazione gli aspetti percettivi, psicologici e sociali che permeano


International picture of language Otto Neurath, 1936

l’Isotype di Otto Neurath

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l’ambiente pubblico in modo che gli utenti si sentano accolti e possano comprendere facilmente le funzioni e la dislocazione di tutti i servizi. Solo in questo modo lo spazio può essere veramente “accessibile”. L’ambiente deve essere spiegato visivamente mediante l’uso sofisticato di segni e di simboli che vada ben oltre il loro attuale impiego di vendere o proibire (Kevin Lynch, 1960). Il campo della segnaletica su committenza pubblica diventa l’occasione di nuove ed importanti esperienze progettuali: lo studio Unimark di Bob Noorda (con sede a Milano) e di Massimo Vignelli (con sede a New York), con la collaborazione dei progettisti dello studio AlbiniHelg, progetta nel 1964 l’immagine grafica complessiva per la metropolitana milanese. Quattro anni dopo il New York City Transit, l’autorità dei trasporti di New York commissiona alla Unimark International, in occasione della progettazione del sistema di segnaletica per la metropolitana newyorkese, la realizzazione dell’Authority Graphic Standards Manual. A questa esperienza seguiranno con successo i progetti grafici per la metropolitana di San Paolo in Brasile. Nel 1974 viene istituito negli Stati Uniti il “Federal Design Improvement Programm” per il quale vengono stanziati fondi federali per migliorare la qualità del disegno visuale per comunicare informazioni governative ai cittadini. John Massey elabora uno dei primi manuali omnicomprensivi di standard grafici. Dal programma di standardizzazione della grafica statale scaturisce anche il progetto Unigrid (1977) sviluppato dall’agenzia Vignelli per la comunicazione istituzionale dei 350 parchi americani: 350 sistemi di segnaletica vengono così uniformati in un unico. Tra fine degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ‘90 si

delinea più autonomamente la branca teorica e professionale del Sign Design, infatti in questo periodo viene fondata a Washington (USA) la SEGD (Società per Enviromental Graphic Design), che si occupa specificamente della comunicazione grafica dell’ambiente, per mezzo delle mappe e dei sistemi di segnaletica.


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2.2.1 Immagine e comunicazione Il linguaggio visivo, che ha come prodotto l’immagine, è più limitato di quello parlato, ma risulta spesso più immediato. Affinché non risulti equivoco deve comunque sottostare a regole sintattiche, compositive e semantiche in relazione alla specificità dei contenuti, del luogo di applicazione e dell’utenza. L’emisfero sinistro del cervello viene designato come quello che si occupa delle funzioni verbali e analitiche, del pensiero logico e del ragionamento; l’emisfero destro invece opera in maniera spaziale, percettiva e metaforica, la comprensione avviene attraverso l’immaginazione in modo unitario, intuitivo e spesso involontario. Nella società del sovraffollamento informativo l’utente ha sviluppato razionali barriere di autodifesa che fanno sì che l’emisfero destro del cervello sembri rimanere il canale più aperto alla comunicazione. Negli ultimi decenni però, con il dilagare sregolato della pubblicità20, l’immagine è entrata così fortemente nella quotidianità che sta perdendo progressivamente il suo potere persuasivo, tanto che l’utente sceglie di ignorarla nell’ottica di una economia percettiva. Questo complica le modalità con cui è possibile solleticare ed incuriosire l’emisfero destro. In linea generale è necessario utilizzare un linguaggio visivo che sia sintetico e semplice, che comunichi una percezione a livello emotivo e che venga ripetuto al fine di creare impressioni di familiarità e fissarsi nella memoria. Probabilmente l’utilizzo di un codice misto (codice iconico e codice verbale) è la risoluzione più efficace ai fini della comprensione e dell’apprendimento in quanto il messaggio si rivolge sia all’intelligenza che all’immaginazione. Adrian Frutiger nel suo saggio Segni e simboli dà un

ulteriore spiegazione della maggiore ricettività del pubblico per il messaggio visivo; egli sostiene che quest’ultimo viene preferito alla comunicazione puramente verbale perché l’utente considera guardare un’immagine come un atto meno impegnativo rispetto all’attenzione richiesta per la comprensione di un messaggio orale: è possibile recepire l’immagine trasmessa “ad occhiate”, senza seguirla continuamente, a differenza di quanto accade invece con un discorso verbale. Questo infatti si sviluppa in maniera lineare nel tempo e per essere compreso deve essere seguito senza cadute di attenzione. L’immagine invece rivela il messaggio immediatamente nella sua interezza. Mitzi Sims nel saggio Sign Design, graphics materials techniques valuta un’immagine simbolica in base alle sue proprietà semantiche (relazione tra l’immagine visiva e il suo significato), sintattiche (relazione tra le immagini di uno stesso sistema) e pragmatiche cioè che riguardano la relazione che si instaura con l’utente che, attraverso la contemplazione e la sintesi istantanea di un insieme di simboli, percepisce, comprende e descrive lo spazio. Il linguaggio grafico diventa così necessario per permettere una continuità dell’esperienza esplorativa e l’armonia tra spazio ed informazione. L’utilizzo strategico dell’immagine nell’ambito della segnaletica deve far leva sia sulle reazioni inconsce che razionali dell’utente e deve suscitare un comportamento. La segnaletica deve informare, aiutare nella scelta, provocare una sequenza di risposte ed organizzare il comportamento provocato dai segni in un determinato complesso unitario21. È quindi molto importante a fini di una buona progettazione aver ben presente che tipi di risposta si vuole provocare nell’utente.


progetto Give and Take exibition graphic, studio Frost Design, 2001

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2.2.2 Le categorie di segni La segnaletica per lo spazio pubblico deve limitare il più possibile il sovraccarico informativo e deve fornire sistemi di orientamento che prendano in considerazione: - gli aspetti utilitaristici relativi alla questione dell’orientamento e quindi della funzionalità e della reperibilità dell’informazione - gli aspetti estetici di identità dell’immagine ambientale, di identificabilità del linguaggio comunicativo e di qualità dell’organizzazione globale degli spazi - gli aspetti di caratterizzazione espressiva dell’ambiente, sia esso lavorativo, di intrattenimento o di servizio. Mitzi Sims individua sei categorie di segni: - segni di orientamento: consentono di localizzare l’utente in un dato ambiente e possono essere progettati per tale scopo (mappe) o essere riconosciuti dall’utente come tali (punti architettonici di riferimento) - segni di informazione: utilizzano essenzialmente il linguaggio verbale e sono veicolati dal testo scritto e/o dal segno grafico. La loro efficacia comunicativa risiede principalmente nella chiarezza del messaggio che può essere ulteriormente rafforzato dalla forma, dal colore del segnale e dalla sua esatta collocazione - segni di direzione: strumenti di navigazione ambientale, progettati all’interno del sistema segnico globale, essenziale ed indispensabile alla circolazione in luoghi pubblici ad elevata frequentazione e adibiti al trasporto di merci e persone in condizioni di stress e di velocità d’uso elevate (aeroporti, metropolitane,

ospedali, tribunali...) - segni di identificazione: rappresentano forse la più antica forma di segnalazione e riconoscimento di uno spazio e di un punto nello spazio al fine di dare conferma della raggiunta destinazione ed identificazione di un dato luogo. Necessitano di una precisa localizzazione e tendono ad essere visti dal visitatore come landmarks - segni di regolazione: sono i più normalizzati e codificati in ambito internazionale, sia a livello grafico che costruttivo, per via dell’importanza cruciale dei loro contenuti comunicativi specie nell’ambito della segnalazione di sicurezza. Essi riguardano infatti la tutela dalla salute dell’individuo, gli obblighi e i divieti, le istruzioni in condizione di emergenza e quelle per l’uso di alcuni dispositivi - segni di decorazione: hanno finalità prevalentemente estetiche ed appartengono forse alla meno comunicativa delle categorie segnaletiche perché il loro scopo principale non è quello di supplire informazioni, ma di abbellire ed evidenziare. I segni decorativi sono i fautori del fascino, del mistero e della gradevolezza estetica di alcuni tipi di ambiente o di parte di essi, e contribuiscono ad arricchire la veste grafica e comunicativa dell’ambiente senza interferire con gli altri segni presenti


Graphic identity del Scientific Aventure Park, studio Base, Belgio

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2.2.3 Principi di progettazione della segnaletica “I’m successful if nobody notices the sign and finds their way” Paul Mijksenaar Nella progettazione della segnaletica è importante prevedere che le dimensioni siano adeguate al compito visivo e che la soluzione grafica che si utilizza sia adatta ai meccanismi della percezione visiva e della psicologia ambientale. Inoltre è necessaria un’approfondita conoscenza dell’intero contesto spaziale, sociale e comportamentale. Perché la comunicazione avvenga in modo efficace bisogna utilizzare un linguaggio e un codice che si presuppone siano comuni e condivisi, quindi più o meno standardizzati, ma comunque flessibili rispetto allo scenario. La flessibilità è data dal fatto che nel design grafico standard e normative sono entità ancora poco strutturate, fatta eccezione per la segnaletica stradale e di sicurezza. In questo campo di applicazione sia la Gran Bretagna che gli Stati Uniti hanno stabilito leggi e normative che forniscono i limiti entro i quali il progettista di segnaletica può operare, queste riguardano: standard specifici, codici, consigli d’uso e principi di progettazione per l’installazione. Tuttavia l’utilizzo della segnaletica rimane ancora poco unificato sia a livello nazionale che internazionale. Possono essere forniti però dei principi di progettazione che riguardano l’ambito tipografico (1), la scelta del colore (2), il posizionamento del segnale nello spazio (3) e l’utilizzo della luce (4).

1. Ambito tipografico Quando i caratteri vengono disegnati appositamente per fini segnaletici è importante che alcuni accorgimenti di carattere gestaltico e percettivo vengano presi in considerazione; per esempio le lettere simili di un alfabeto devono essere differenziate per scongiurare errori di interpretazione e abbattere la cosiddette “barriere tipografiche” che possono costituire un ostacolo spesso insormontabile per chi soffre di disturbi alla vista. Un’interessante esempio di questa ricerca tipografica è lo studio condotto in Inghilterra per migliorare la lettura delle persone con problemi di dislessia. La dislessia è un difetto visivo che porta ad invertire e confondere i caratteri durante la lettura. È una condizione che, solo nel Regno Unito, affligge circa il 10% della popolazione pertanto costituisce un problema particolarmente esteso. Analizzando i meccanismi della visione e di apprendimento del dislessico, Natasha Frensch ha progettato nel 2003 un apposito carattere tipografico.


Font Read Regular progettato da Natasha Frensch

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La serie completa del font Read Regular è caratterizzata infatti dall’unicità di disegno per ogni lettera: le b, d, p, q, per esempio, non sono il semplice capovolgimento di un unico glifo, ma forme univoche. Ogni lettera è quindi diversa e questo consente di ridurre l’errore di decodifica da parte del lettore.22 Altri accorgimenti sono quelli di evitare spessori elevati (bold o condensed) che riducono la leggibilità a distanza; un altro aspetto importante è quello che riguarda la spaziatura, infatti lo spazio tra le lettere deve saper creare consistenza e ritmo nella scansione dei pieni e dei vuoti, così come quello tra le parole e quello tra le righe (interlinea) devono garantire un corretto e confortevole equilibrio visivo alla lettura del testo. Se la distribuzione degli spazi vuoti viene progettata con una logica, il ritmo che ne deriva faciliterà la lettura. È preferibile inoltre utilizzare alfabeti regolari che riproducono forme più armoniche e lineari, dato che le parole sono riconosciute per via della loro forma globale, non per quella di ogni singola lettera. In generale si può affermare che non esistono font giusti o sbagliati, ma devono essere scelti in base alla loro appropriatezza rispetto al loro scopo. Un carattere classico serif o sans serif come il Times, il Frutiger o l’Helvetica è una scelta di design sicura. Utilizzare font stravaganti può portare ad un riconoscimento e ad una identificazione difficile, infatti generalmente le persone riconoscono gli oggetti familiari23, così font comuni sono più riconoscibili di quelli meno utilizzati. Jock Kinneir, un progettista britannico di sistemi di segnaletica24, sottolinea nel suo libro Words and building che la scelta del carattere è molto importante perché questo ha in sé dei livelli di significato, dei

concetti, delle sensazioni e dei messaggi subliminali che non devono essere sottostimati. Nell’ambito del “copy wording” i suggerimenti riguardano la chiarezza delle parole utilizzate nel segnale: l’headline e il testo devono essere il più brevi possibile, le frasi non devono essere ambigue. Il codice usato deve essere appropriato all’utenza, un codice amichevole e positivo incoraggerà l’utente a rispondere nella maniera auspicata dal progettista. Si dimostra sempre più necessaria la presenza del testo in almeno due lingue. Come regola generale le abbreviazioni non sono utilizzate quando la segnaletica è destinata ad un’utenza pubblica, in quanto possono causare confusione e sensazione di spaesamento. Anche la punteggiatura non dovrebbe essere utilizzata: l’informazione che richiede punteggiatura, per essere compresa, non dovrebbe essere contenuta nella forma di un segnale. È necessario evitare un numero elevato di messaggi sullo stesso cartello, è bene invece avvalersi di un sistema di segnaletica gerarchico, secondo il quale vengono inserite progressivamente le informazioni lungo il percorso effettuato dall’utente. Sono da evitare anche lunghi elenchi di nomi nei quadri sinottici e nei pannelli informativi, una serie di brevi messaggi è più semplice da leggere e da ricordare. I segnali devono essere letti e compresi molto velocemente e un sovraccarico di informazione può causare incertezza. Soprattutto la segnaletica di identificazione dovrebbe essere semplice e concisa; scelta una denominazione, questa dovrebbe essere mantenuta in tutto l’edificio. Per quanto riguarda la posizione della scritta sul cartello è preferibile che il margine inferiore sia maggiore di quello superiore, in quanto le parole sono visivamente più soddisfacenti se sono leggermente più in alto del centro.


2. La scelta del colore Come si diceva è molto importante che i segnali siano strutturati gerarchicamente, secondo l’importanza del messaggio veicolato, in modo logico e coerente all’interno di tutti gli spazi dell’edificio. Il colore può essere uno strumento molto efficace per raggiungere questo scopo. Infatti il colore è “un mezzo di persuasione in grado di condizionare la memoria, uno strumento di seduzione in grado di creare forti suggestioni. La comunicazione visiva si avvale della sua efficacia e universalità per evidenziare le informazioni, rendere agevole il messaggio e imprimerne il ricordo nella memoria”. (Lia Luzzatto e Renata Pompas, 1988). Nell’ambito della progettazione è utile considerare le qualità intrinseche della gradazione cromatica utilizzata, i suoi usi sociali all’interno della cultura specifica, ovvero i significati e i comportamenti ad essa associati25. In generale il colore deve aiutare l’utente a pensare il meno possibile e quindi a comprendere il messaggio velocemente, per questo la CEE ha normato i colori da utilizzare in caso di emergenza e per la sicurezza26, situazioni in cui la prontezza di reazione ha un ruolo anche di vitale importanza. Rosso: segnale di pericolo e allarme; utilizzato per materiali e attrezzature antincendio Suggerisce una situazione pericolosa e l’idea di arresto e sgombero, sottolinea l’identificazione e l’ubicazione dei dispositivi di emergenza Giallo/Arancione: segnale di avvertimento Suggerisce che è necessaria una maggiore attenzione o cautela, oppure una verifica Azzurro: segnale di prescrizione (direzione ed indicazione) Suggerisce un comportamento o un’azione specifica (sottolinea uscite, percorsi)

Graphic identity del Scientific Aventure Park, studio Base, Belgio

esempi di utilizzo del colore nella segnaletica per attirare l’attenzione dell’utente

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Verde: segnale di salvataggio, soccorso Suggerisce il ritorno alla normalità e ad una situazione di sicurezza. Jorrit Tornquist, ricercatore sul colore e progettista, nel suo libro Colore e luce sostiene che quando un colore è collegato ad un oggetto diviene un segnale sinestetico: attraverso il colore si coglie infatti la commestibilità di un cibo, la pericolosità di una situazione ecc. La reazione al colore diviene quindi immediata e inconsapevole poiché questo è dotato di un intrinseco ma forte valore di richiamo/conferma. Un’altra caratteristica è quella di riuscire a staccare il segnale dell’uniformità cromatica dello sfondo. In questo senso è sempre necessario valutare il colore scelto in rapporto agli altri presenti nell’ambiente. Quando devono essere comunicate differenze, somiglianze e distinzioni di ordine qualitativo il colore è uno dei mezzi più efficaci che si possono utilizzare. Un esempio applicativo molto interessante è l’uso del colore nella progettazione della segnaletica per l’aeroporto JFK di New York27. Paul Mijksenaar ha configurato 3 modalità differenti di segnale, queste sono basate sullo stato d’animo dei viaggiatori. La prima modalità, la più importante, è quella del dover prendere l’aereo e della fretta: gli utenti devono essere diretti alla biglietteria, al check in, al loro gate di imbarco oppure dall’aereo all’area di ritiro bagagli. Questa tipologia di segnali ha il lettering nero su sfondo giallo, un colore brillante utilizzato anche nei segnali di avvertimento (per esempio i lavori stradali). Il secondo gruppo guida ai servizi offerti dall’aeroporto come sale d’attesa, ascensori, telefoni ecc; il lettering


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deve essere prima guidato alla zona desiderata e poi alla specifica destinazione. È importante che la segnaletica mostri veri e propri punti-destinazione e non punti intermedi, questi dovrebbero essere già facilmente deducibili dall’organizzazione dell’architettura stessa e dalla logicità del sistema di segnaletica; questo accorgimento, quando ben progettato, limita la sovrabbondanza di segni, come sostiene Mijskenaar “a large number of signs are used, often unjustifiably, to indicate entrances and exits, elevators and escalators, wings, floors, intersections, and areas such as the central hall. These elements, which are not destinations in themselves, should be made recognizable by architecture or interior design. A wide variety of resources are available for this purpose: lighting, use of color and materials, a design that features many uninterrupted sight lines connecting

sistema di segnaletica dell’aereoporto JFK, NY

giallo su sfondo grigio scuro segnala la modalità di attesa, del tempo che si può impiegare liberamente mentre si aspetta. L’ultima tipologia è quella dei cartelli con scritta bianca su sfondo verde, il colore caratteristico delle uscite e, negli Stati Uniti, della segnaletica stradale. Questi segnali conducono ai parcheggi e ai mezzi di trasporto verso la città. Mijksenaar ha scelto il verde perché è un “colore naturale, che esprime lo stato d’animo del voler andare a casa”. I passeggeri selezionano in modo intuitivo ed immediato il tipo di indicazione di cui hanno bisogno escludendo tutte le altre. L’idea di base è quella di offrire solo l’informazione necessaria per il percorso e la modalità scelta, da un punto di vista globale ad uno specifico e viceversa: ciò può accadere grazie ad una progettazione gerarchica della segnaletica. L’utente


progetto Croydon Signage, studio Pentagram, 1992-1993

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important points, a view of the surrounding landscape, and the creation of landmarks that are easy to remember”. In un sistema di segnaletica si raccomanda di usare un massimo di 4 o 6 colori, desaturandoli all’aumentare del loro numero28. Nel momento della scelta delle gradazioni cromatiche è importante tener conto dei dati relativi alla percezione e l’invecchiamento: per esempio il 25% della popolazione mondiale al di sopra dei 50 anni fatica nel percepire il blu, dato il peggioramento della dilatazione della pupilla rispetto alla condizioni di buio/luce (fonte SEGD).

3. Posizionamento del segnale nello spazio La posizione del segnale è molto importante perché determina la sua visibilità e la capacità di catalizzare l’attenzione dell’utente in una data direzione in relazione al contesto/sfondo dell’ambiente di riferimento. La collocazione del segnale di sicurezza, per esempio, è normata in riferimento al campo visivo dell’osservatore, alla sua posizione nello spazio, al tipo e alla velocità dello spostamento e alle caratteristiche fisiche dell’ambiente (illuminazione…). Il cono visivo di una persona normale copre un angolo di circa 60°, l’area esterna a questo angolo tende ad essere vista con un dettaglio molto minore. Anche se una persona può allargare il campo visivo movendo la testa, la maggior parte della persone tende a limitare questo sforzo ulteriore29. Per esempio se un segnale è posto in modo che la linea dello sguardo formi un angolo maggiore di 30° verrà probabilmente ignorato. Un’attenta progettazione della posizione del segnale nello spazio aumenta le probabilità che questo venga notato. È inoltre necessario accertarsi che l’ambiente non interferisca visivamente con la lettura del segnale, le parole dovrebbero essere visivamente isolate, quindi un ambiente statico e neutro è lo scenario ideale. Seguendo le indicazioni formulate dalla teoria del wayfinding di Passini, il segnale deve essere collocato nello specifico punto in cui l’utente formula una domanda relativa all’orientamento, la cui risposta deve essere tanto esauriente da fagli prendere la successiva decisione. Questi punti specifici sono per esempio i bivi ma più in generale tutti quei nodi in cui l’utente è forzato a prendere decisioni e quindi necessita indicazioni di wayfinding.


segnaletica del centro di arte moderna Georges Pompidou di Parigi

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4. L’utilizzo della luce “L’esperienza spaziale è intimamente connessa con l’esperienza di luce: senza luce non c’è visione, e senza visione non ci può essere lo spazio visibile. Lo spazio, in senso visivo, è spazio-luce. Normalmente questo spazio luce non è evidente all’occhio. Percepiamo relazioni spaziali solo quando la luce è intercettata da qualche medium. Ciò che in realtà vediamo come mondo spaziale è il modo in cui la luce è dissociata e riflessa, cioè modulata da questi media. I modi sensori di registrare la luce modulata, le varie sensazioni di colore divengono, quindi, i mezzi per l’ordinamento spaziale di oggetti ed eventi. Ma l’esperienza di luce e colore significa qualcosa di più che i dati sensoriali del mondo spaziale. La parola luce, o colore, denota ricchezza, salute, integrità; non è semplicemente un segno spaziale dell’ambiente ma un bisogno umano fondamentale (…). La luce è la fondamentale energia vivificante di ogni esistenza organica. L’orientamento, nel suo significato fondamentale, è l’adattamento da parte dell’uomo delle energie solari imbottigliate nella infinità varietà di forme-natura. L’esperienza di luce esiste per la sicurezza dell’organismo, (…) la luce è esperienza fondamentale di vita.” Gyorgy Kepes, Il linguaggio della visione, 1944 La luce è necessaria per la percezione dell’intorno spaziale ed una corretta illuminazione garantisce il benessere psicofisico dell’individuo. Circa l’80% di tutte le impressioni sensoriali sono di natura ottica e necessitano della luce come vicolo di informazioni30. Ciò dimostra la straordinaria importanza della luce per l’uomo.

La luce non solo trasmette attraverso l’occhio le informazioni ai centri della vista del cervello, ma, attraverso una particolare ramificazione di nervi, influisce anche sul sistema neurovegetativo che regola le funzioni dell’organismo. Sono infatti note le ripercussioni dei diversi tipi di illuminazione sulle attività dell’uomo, soprattutto per quanto riguarda la capacità di concentrazione, la prevenzione della stanchezza precoce e il corretto svolgimento dei bioritmi fisiologici. Nell’intorno spaziale l’occhio svolge, consciamente o incosciamente, una continua azione di monitoraggio: è attratto dalle entità più brillanti presenti nel campo visivo, dagli oggetti in movimento, dagli elementi imprevisti e da tutto ciò che può essere potenziale fonte di pericolo31. Sottolineare con la luce gli elementi che sono utili alla fruizione dello spazio è una delle metodologie più efficaci per veicolare l’informazione che è ritenuta dal progettista più importante. Per questo motivo la corretta progettazione di un ambiente luminoso è un fattore determinante nell’accettazione e nell’identificazione di uno spazio: creare paesaggi luminosi adeguati e corrispondenti alle aspettative dell’utente è un fattore qualificante non solo per il buon fine di un progetto illuminotecnico, ma anche per la fruizione di qualsiasi spazio. L’azione positiva della luce a livello neurovegetativo nell’uomo è verificabile anche in ambienti sconosciuti, l’uomo ritiene un luogo ignoto illuminato più sicuro di per sé rispetto ad uno più buio. La luce viene quindi ritenuta una fonte di sicurezza in se stessa, infatti la forte carica emotiva che riesce a stimolare limita immediatamente il senso di spaesamento e agisce come grosso deterrente contro il panico nelle situazioni


Percorso luminoso

LED in striscia, Osram

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di emergenza. La luce trova un diffuso impiego nell’ambito della segnaletica ed anche qui porta numerosissimi vantaggi: agendo a livello istintivo la luce si configura come un linguaggio universale, al di là di ogni barriera linguistica e culturale, l’uomo ne è incosciamente attratto e questa attitudine può essere sfruttata dal progettista per posizionare le sorgenti in modo strategico e guidare l’utente in ambienti complessi senza creare le situazioni di stress date dal sovraccarico informativo della segnaletica tradizionale. Se analizziamo le applicazioni attuali la luce viene largamente utilizzata nella segnaletica retroilluminata, questo perché, come con il colore, il segnale viene sottolineato rispetto all’intorno spaziale. Inoltre quando esiste un problema di visibilità i segnali luminosi possono aumentare la velocità con cui il segno viene recepito. Paul Mijksenaar sostiene in proposito: “Don’t save money on lighting. The sunnier the climate and the more daylight available, the bigger the need of illuminated signs.” L’utilizzo della luce nella segnaletica può avere anche un piacevole effetto estetico. Un esempio è l’applicazione nel centro di arte moderna Georges Pompidou di Parigi dove si alternano segnali grafici e segnali creati con tubi al neon colorato. Lo studio Intègral Ruedi Baur et Associates ha sviluppato tra il 1997 e il 2001 un sistema esteticamente inserito nell’ambiente che, allo stesso tempo, svolge con efficacia la sua funzione. Ruedi Baur sottolinea l’opportunità di trasformare ogni ambiente in un luogo di comunicazione creativa. Questo significa integrare un

alto livello di invenzione progettuale con un alto livello di comunicazione. La progettazione della segnaletica per il Pompidou si basa sull’idea dell’esplosione spaziale dell’informazione, che di solito è contenuta in un solo pannello, in modo tale che il sistema di segnalazione equivalga alla scenografia. Qui la luce, oltre ad essere veicolo d’informazione, esalta l’aspetto scenografico dell’ambiente. Lo sviluppo tecnologico di sorgenti che richiedono alimentazione a bassissima tensione ha aperto la strada alla luce come vera e propria guida visiva continua nell’ambiente. Una di queste sorgenti sono i LED, i quali si presentano come barre di lunghezza variabile. È possibile installare elementi molto lunghi (vari metri) con piccoli LED collegati in parallelo, oppure accoppiare più barre realizzando linee spezzate e ramificate. Poiché gli apparecchi si posano senza difficoltà a incasso o a filo di pareti, soffitti e pavimenti (in ambienti esterni o interni), la sporgenza ridotta può servire a creare un discreto confine ed una guida visiva tra le zone di un locale, in funzione di corsia o di linea direttrice, utili per favorire l’orientamento in condizioni normali o di emergenza32. La creazione di percorsi luminosi nell’ambiente è già stata sperimentata in alcuni ospedali dove i pazienti possono deambulare durante la notte utilizzando solo questa “luce di cortesia” che segnala destinazioni come bagni, cucine o altri servizi. Altre sorgenti utilizzate nell’ambito della segnaletica ed in quello dei percorsi luminosi sono le lampade fluorescenti lineari o compatte, i sistemi a condotti ottici (fibra ottica e guide di luce con pellicola OLF) e i pannelli elettroluminescenti.


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L’Associazione Italiana di Illuminazione (AIDA) ha classificato i parametri generali che influenzano la visibilità e la comprensione del segnale luminoso. Questi sono: le dimensioni angolari dell’oggetto che si deve percepire, la luminosità del segnale, l’ambiente in cui deve essere inserito, il tempo che si ha a disposizione per la percezione, il contenuto significativo del segnale, il contrasto di luminanza/cromatico tra il segnale e lo sfondo e tra i caratteri e il segnale stesso. La luminosità del segnale deve essere garantita in tutte le condizioni di visibilità dell’atmosfera previste per la comprensione del messaggio. La luminosità minima perché si abbia la visibilità di un segnale luminoso con sfondo nero, alla distanza d, in funzione della trasparenza T dell’aria è riportata nella tabella qui sopra33:

Queste prescrizioni sono imprescindibili per campi di applicazione della segnaletica luminosa più specifici, utilizzati a livello internazionale e conseguentemente normati. Questi sono la segnalazione luminosa marittima, aeroportuale, stradale e l’illuminazione di emergenza.


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13 William Owen, Mapping, Rotovision, Hove UK, 2002 Owen è giornalista di design ed editore. Consulente di design, branding e tecnologie. Scrive per ID ed Eye. 14 Maria Rosa Baroni, Psicologia ambientale, il Mulino, 1998 15 fonte William Owen, Mapping, Rotovision, Hove UK, 2002 16 vedi Geatano Kanizsa Grammatica del vedere, il Mulino, 1980 17 Josef Albers (1888-1976) insegnante al Bauhaus di Dessau; quando il Bauhaus viene chiuso nel 1933 emigra come molti dei suoi colleghi negli stati Uniti. Qui continua la sua attività di insegnante (Black Mountain College, North Carolina), di artista, di designer e di scrittore. 18 questo è infatti il secolo della grande diffusione del trasporto pubblico e privato, dello sviluppo di città che hanno sempre più bisogno di comunicare a cittadini che provengono da culture e luoghi diversi, della creazione di grandi imprese che necessitano una corporate identity, della diffusione di mezzi di comunicazione di massa come i giornali e internet, della contaminazione tra arte e linguaggio visivo... 19 vedi Progetto Grafico, anno 1, numero 2, dicembre 2003 “Otto Neurath e la grafica come linguaggio universale” a cura di Alan Zaruba, Giovanni Anceschi, Daniele Turchi 20 si parla infatti di “inquinamento visivo” 21 Charles Morris sottolinea il fatto che può essere più persuasivo descrivere le conseguenze di una certa azione che comandare l’azione direttamente attraverso il segnale (ne è un esempio il segnale nella metropolitana milanese “non appoggiarsi “

applicato sulle porte dei treni) 22 Domus 869, Aprile 2004, “Social Design” a cura di Mauro Bubbico, Andrea Rauch, Gianni Sinni, pag 148 23 “Ognuno vede ciò che sa” Bruno Munari, Design e comunicazione visiva, 1968 24 Jock Kinner (1917-1994) ha progettato il sistema di segnaletica dell’aeroporto di Gatwick e, alla fine degli anni ’50, il sistema di segnaletica stradale inglese che portò ad uno dei più importanti dibattiti sulla segnaletica di pubblica utilità. Vedi Progetto Grafico 4/5, febbraio 2005, pag 128-149. 25 vedi J.Tornquist, Colore e luce, Istituto del colore, 1999 26 uni 7543, “colori segnaletici ad uso industriale”; in Italia decreto legislativo 439 del 1996 “colori di sicurezza” 27 nel 1999 la New York Port Authority ha affidato allo Studio Mijksenaar la progettazione degli scali JFK, LaGuardia e Newark. La sperimentazione dello studio olandese è partita dallo scalo Kennedy. 28 su questo tema gli autori sono discordanti: altri ammettono l’uso dai 5 ai 7 colori 29 Mitzi Sims, Sign Design, graphics materials techniques, Thames and Huston, London, 1991 30 fonte Silvio De Ponte Architetture di luce, Gangemi Editore, 1996 31 fonte Donatella Ravizza Progettare con la luce Franco Angeli, 2001 32 vedi Gianni Forcolini, Stefania Forte Luce dinamica Tecniche Nuove, 2003 33 AIDI, Manuale di Illuminotecnica, Tecniche Nuove, 1999


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3. PSICOLOGIA AMBIENTALE

Per progettare nell’ambito dell’Information Design per il wayfinding è utile aver presente quali siano i processi cognitivi e mentali che permettono all’individuo di orientarsi nello spazio costruito. Riportiamo in proposito le teorie sviluppate nell’ambito della psicologia ambientale.

3.1 L’orientamento “Trovare la propria strada è la funzione originale dell’immagine ambientale e la base per le sue associazioni emotive. Ma l’immagine è apprezzabile non soltanto nel senso immediato per la quale essa funziona come una pianta per dirigere i movimenti; in senso più ampio essa può servire come uno schema di riferimento generale, in seno al quale l’individuo può agire, o nel quale egli può fissare le sue conoscenze. In questo essa è come un corpo di convinzioni o un gruppo di consuetudini sociali: organizza fatti e possibilità” Kevin Lynch, L’immagine della città 1960 La parola “orientamento” deriva dal latino oriri cioè nascere. Il concetto di orientamento si riferisce al generarsi dell’ordine a sostituzione del caos esistente. Nella vita di ogni individuo la quantità e la qualità delle informazioni che si ricavano dall’esplorazione dell’ambiente per mezzo dei sensi sono fattori importanti di sopravvivenza. Per orientarci nella quotidianità abilità come il saper ricavare informazioni dalle indicazioni stradali o da una cartina topografica sono altrettanto essenziali del fatto di avere buone capacità di locomozione. Riconoscere le caratteristiche dell’ambiente che permetteranno o ostacoleranno le nostre azioni, capire le possibilità di un luogo di darci rifugio o di metterci in pericolo e, quindi, mettere in moto un

processo di pianificazione del nostro comportamento e di presa di decisione, sono tutte operazioni che cominciano con il processo di percepire uno spazio, inteso in quest’ambito come oggetto-stimolo34. La disciplina che studia i processi e le dinamiche della percezione e dell’esplorazione dell’ambiente è la psicologia ambientale. Quest’ambito di studio nasce negli Stati Uniti negli anni ‘70 e tratta i seguenti temi35: - environmental assessment che comprende la valutazione sia delle qualità affettive del luogo sia di quelle funzionali, intese come la capacità dell’ambiente di aiutarci nel raggiungere i nostri obiettivi. Riguarda inoltre il tema della “compatibilità ambientale” cioè dell’interazione tra le azioni che un individuo cerca di realizzare nello scenario e le informazioni che vengono offerte dallo spazio stesso - cognitive mapping, cioè la formazione di mappe cognitive data dall’acquisizione delle conoscenze spaziali mediante processi tipicamente mentali e di autorappresentazione - stress ambientale, inteso come una situazione di costrizione e oppressione caratterizzata da numerosi fattori; questa condizione può influenzare il normale processo di percezione ed elaborazione dell’informazione, far cadere il livello di altruismo e cooperazione tra gli individui e aumentare l’aggressività - il comportamento spaziale relativo ai concetti di spazio personale, territorialità e privacy che caratterizzano il modo di usare e vivere gli ambienti privati e collettivi. Le ricerche applicative della psicologia ambientale riguardano soprattutto due ambiti: il primo è quello degli ambienti costruiti, con particolare riferimento alla


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soddisfazione residenziale, all’affollamento e ai luoghi di abitazione, di studio, di lavoro, di cura, di detenzione; il secondo si occupa di studiare più in generale le reazioni a determinate situazioni (come quella di stress provocato dal rumore, dal caldo; gli atteggiamenti nelle situazioni di rischio o di coinvolgimento personale; i comportamenti di orientamento nello spazio; i contributi dello scenario nella direzione di favorire o prevenire comportamenti antisociali e criminali...).36 Nell’ambito di questo capitolo verranno presi in considerazione solamente gli aspetti relativi alla percezione, alla comprensione e al ricordo di un ambiente e quelli relativi alle modalità di orientamento e di descrizione mentale di un luogo.

3.2 La percezione dell’ambiente La psicologia ambientale studia lo spazio costruito, l’esperienza dell’uomo di questo luogo avviene per mezzo della percezione. Il modo in cui percepiamo il mondo intorno a noi rappresenta un insieme di fattori determinanti nella comprensione e nella spiegazione dei meccanismi che ci portano a relazionarci all’ambiente naturale o costruito e interagire con esso. Il soggetto è costantemente immerso nell’ambientestimolo e prende come punto di riferimento primario la propria posizione spaziale. Questa autodeterminazione ha una funzione importante anche in situazioni con problematiche percettive classiche: la valutazione di distanze, di grandezze, di costanze di stimoli visivi. Tutti questi fattori hanno un ruolo centrale nella percezione di un ambiente nuovo e conduce al tentativo di rendere leggibile lo scenario per successive

esigenze di orientamento e azione. Esplorare un ambiente, attraversarlo fisicamente o anche solo percorrerlo con lo sguardo implica il riferimento implicito a coordinate spaziali in cui il soggetto occupa fisicamente uno dei centri possibili (Baroni, 1998). La percezione avviene attraverso una serie di canali sensoriali attivi contemporaneamente37 che forniscono informazioni diverse per qualità e quantità, queste arrivano al soggetto sotto forma di un continuo flusso di stimoli in relazione alla coscienza dell’individuo. Il più delle volte l’informazione si presenta come un complesso unitario: la percezione in sé, secondo l’ottica adottata dai gestaltisti e generalmente abbastanza accettata, è un processo di unificazione degli stimoli secondo precise leggi (Wertheimer, 1922). La modalità percettiva privilegiata è, in quest’ambito di studio, quella della visione: le immagini retiniche vengono trasformate in configurazioni tridimensionali spaziali che ci consentono di strutturare realisticamente i contenuti della visione. Questa strutturazione segue delle regole razionali relative agli attributi di forma (somiglianza, uguaglianza, continuità), colore, distanza e dimensione, posizione (vicinanza, chiusura, ritmo), movimento, figura e sfondo (trasparenza) che caratterizzano gli oggetti presenti nel campo visivo. Le regole sono state dedotte dai numerosi esperimenti sui fenomeni di illusione ottica e costanza percettiva. Le illusioni ottiche possono essere interpretate con il fatto che la mente raggruppa, continua, integra gli stimoli visivi anche in situazioni in cui nessun oggetto reale corrisponde alla nostra impressione; in genere questi errori percettivi sono favoriti dal contesto, dall’esperienza precedente e anche, secondo alcuni autori, dal background culturale.


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L’ambiente è quindi percepito come un tutto unitario ed è in una relazione di funzionalità con il comportamento dell’individuo. Due teorie principali su posizioni opposte spiegano questa caratteristica della percezione ambientale (McAndrew, 1993): il modello della lente di Brunswik (1956)38 e il modello ecologico di Gibson (1957, 1966, 1979)39. Nel modello a lente di Brunswik gli stimoli ambientali (rappresentati come raggi divergenti) passano attraverso una lente (i nostri processi percettivi) dalla quale possono anche venire deformati, per poi ricongiungersi in un’operazione di convergenza in cui vengono ricombinati in modo non strettamente dipendente dall’ordine che avevano prima di attraversare la lente. L’individuo è un attivo elaboratore di informazioni. Egli ricostruisce le percezioni dall’interazione di sensazioni presenti ed esperienze passate. Il mondo, secondo questo modello che potremmo definire fenomenologico, non viene solo percepito, ma anche inferito in base agli indizi percettivi a cui il soggetto dà più o meno peso. Il punto di vista di Gibson, la cosiddetta teoria ecologica della percezione, invece è molto più realistico e fa spesso riferimento agli aspetti biologici del comportamento umano nell’ambiente in una prospettiva evoluzionistica. La registrazione che i nostri sensi ci offrono degli eventi del mondo è corretta proprio perché i nostri sensi si sono evoluti in modo da permetterci la sopravvivenza nel nostro ambiente. “Dalla prospettiva ecologica, la percezione diventa un processo dell’ambiente che rivela se stesso al soggetto che lo percepisce; il sistema nervoso non costruisce le

percezioni, ma piuttosto le estrae” (Gibson). Al contrario della visione di Brunswik, l’esperienza non ha nessun ruolo nella percezione in quanto la maggior parte delle risposte percettive è innata e determinata dal funzionamento di specifiche parti del cervello. Ma, mentre nella percezione l’individuo non è attivo e deve solamente registrare l’informazione (corretta) che gli viene dal mondo attraverso i sensi, i passaggi successivi per la conoscenza dell’ambiente presuppongono una serie di attività, come l’attenzione selettiva e l’esplorazione dell’ambiente. Il soggetto evolvendosi ha però sviluppato risposte percettive che gli consentono di individuare gli aspetti utilitaristici dell’ambiente, ossia le affordances o aiuti che il luogo è in grado di offrirgli e verso cui egli è portato a dirigere selettivamente la propria attenzione. (Baroni, 1998) Attraverso la teoria ecologica di Gibson (1966, 1979) e l’elaborazione di Neisser (1976) è stato introdotto nella psicologia ambientale il concetto di schema. Questo è un costrutto mentale che media la percezione. Secondo la teoria degli schemi mentali le informazioni percepite dall’ambiente sono selezionate per mezzo di schemi preesistenti nella nostra mente, che dirigono la nostra attenzione verso certi aspetti piuttosto che altri (come con le affordances di Gibson). Ma anche i nostri schemi mentali si modificano in base alle informazioni ambientali, in una situazione dinamica in cui gli schemi sono da un lato all’origine della nostra conoscenza dell’ambiente e dall’altro il prodotto finale della stessa. Maria Grazia Baroni nel suo saggio Psicologia ambientale illustra così il significato di schema mentale: “Quando entriamo in contatto con un ambiente nuovo, attraverso la percezione, attiviamo


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una serie di aspettative dovute alle nostre esperienze precedenti, che ci inducono a categorizzare l’ambiente percepito come una particolare istanza di una categoria di ambienti di cui possediamo lo schema. Se, per esempio, ci troviamo di fronte ad un ambiente interno arredato con tavolo e sedie, fornello, frigorifero e lavello, lo categorizzeremo facilmente, in base alle nostre esperienze precedenti, come cucina. (...) Per arrivare ad una definizione: gli schemi ambientali sono rappresentazioni astratte e gerarchicamente organizzate in base alle quali è possibile concettualizzare e categorizzare un ambiente. L’organizzazione gerarchica si riferisce al grado di astrazione degli schemi, con macroschemi generalissimi che includono suddivisioni a diversi livelli. Per esempio per percepire un ambiente come “cucina” il soggetto attiva uno schema superordinato di “ambiente costruito” (contrapposto a “naturale”) e, subordinatamente, lo schema di “ambiente interno” (e non “ambiente esterno”), lo schema di “stanza” (e non di “corridoio” o scale”), e così via. Gli schemi si modificano a seguito di nuove esperienze e si arricchiscono durante la vita.” Jean Matter Mandler (1984), ricercatore in scienze cognitive alla California University, San Diego, prende in considerazione tre tipi di informazione contenuti in uno schema ambientale: a) informazione di inventario, cioè gli oggetti tipici di un certo ambiente, gli oggetti che devono essere presenti perché l’ambiente sia riconosciuto come un’istanza di quello schema; b) informazione sulle relazioni spaziali, che descrivono la posizione tipica di un oggetto in ambiente; c) informazione descrittiva, cioè relativa alle caratteristiche degli oggetti che possono variare, entro certi limiti, come il colore o la forma degli elettrodomestici di una cucina.

Gli elementi presenti in un ambiente si possono dividere in quattro categorie: a) elementi attesi in base allo schema, come i banchi in un’aula scolastica, le file di sedili e lo schermo in un cinema b) elementi compatibili con lo schema, come in un teatro la presenza di palchi laterali c) elementi irrilevanti con lo schema, come un ombrello dimenticato su una panchina dei giardini pubblici d) elementi opposti allo schema, la cui presenza è invece estremamente importante perché mette in discussione la correttezza dell’attivazione di un determinato schema, come per esempio la presenza di un albero in una piscina. L’attivazione da parte del soggetto dello schema corretto per riconoscere un ambiente come una particolare istanza di una certa categoria ha una conseguenza immediata sul ruolo dell’attenzione, perché l’individuo esplorerà il luogo in cerca degli elementi attesi. D’altra parte la sua attenzione sarà catturata dagli elementi inattesi e incompatibili che potrebbero mettere in discussione l’attivazione dello schema ambientale. Entrambe le categorie di elementi influenzano il processo di memorizzazione del luogo, questo viene spiegato attraverso due teorie. Quella elaborata da Brewer e Treyens (1981), Mandler e Parker (1976), Ritchey (1977), sostiene che, poiché il soggetto decide a quale categoria appartiene l’ambiente in base allo schema attivato, investirà più attenzione nell’esplorazione degli elementi attesi in base allo schema e quindi il ricordo di questi sarà più vivido. Un’altra teoria dice che, al contrario, gli elementi attesi sono dati per scontati e trascurati dall’attenzione, che invece si soffermerà di più sugli


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elementi “nuovi” (Bobrow e Norman, 1975). Per venire a capo della questione Maria Grazia Baroni (1998) ha effettuato dei test sugli utenti ed è risultato che in condizioni incidentali, in cui l’obiettivo del soggetto è soltanto quello, per esempio, di raggiungere un’altra stanza, vengono ricordati meglio gli elementi strutturali, “obbligatori” dell’ambiente. Nella condizione intenzionale invece vengono ricordati di più gli elementi variabili, compatibili con l’ambiente ma non necessari alla sua definizione. In condizioni di attenzione diverse quindi i soggetti selezionano elementi diversi. Un ulteriore risultato è stato quello di riscontrare che gli elementi strutturali vengono ricordati nella stessa proporzione nelle due condizioni di attenzione, mentre nel caso di attenzione intenzionale gli elementi variabili vengono ricordati con più precisione rispetto al caso incidentale. È come se l’attenzione rivolta intenzionalmente al momento della codifica delle varie parti dell’ambiente fosse focalizzata solo sulle parti variabili (forse un modo per economizzare le risorse cognitive) mentre gli elementi stabili vengono elaborati comunque e senza sforzo. Questo fenomeno potrebbe essere funzionale ad una generale strategia di sopravvivenza nell’ambiente (alla Gibson), funzionale per esempio all’orientamento spaziale, alla codifica e alla memoria dei percorsi, in sintesi al trovare la strada. In conclusione è possibile sostenere che molte informazioni, provenienti dai diversi canali sensoriali, vengono codificate inconsapevolmente, ma abbastanza profondamente da essere poi riutilizzabili dalla memoria, qualunque sia il nostro scopo di interazione con l’ambiente e qualunque sia il grado di attenzione che gli dedichiamo (Baroni, 1998).

3.3 Aspetti cognitivi e comportamentali nel processo di orientamento Dopo aver compreso in che tipo di luogo ci troviamo attraverso il processo degli schemi mentali, procediamo con la sua esplorazione: la diversa dislocazione degli ambienti viene organizzata ed immaginata sotto forma di una mappa mentale del luogo. Se per esempio entriamo per la prima volta in una stazione della metropolitana, dopo aver compreso le funzioni dei diversi ambienti attraverso la formazione di un nuovo schema mentale (punto di ingresso con macchinette obliteratrici, banchina di attesa, treno…), cominciamo l’esplorazione per individuare da quale banchina abbiamo accesso al treno che va nella nostra direzione, quale uscita è quella più vicina a casa nostra ecc. Creiamo quindi nella nostra mente una mappa cognitiva della stazione. Abbiamo già delineato nel capitolo relativo al wayfinding il concetto di mappa cognitiva. Poiché il processo di creazione dell’immagine mentale di un luogo è una delle fasi fondamentali dell’orientamento, riprenderemo qui la definizione di questo concetto. La mappa cognitiva è la rappresentazione mentale di un ambiente, delle strade che dobbiamo prendere per percorrerlo, dei suoi elementi percettivamente più rilevanti, degli oggetti che possono essere utili ai nostri scopi e di quelli che invece ci ostacolano; la mappa cognitiva è quindi “la rappresentazione in memoria delle informazioni spaziali”40 che permette l’uso dell’ambiente da parte del soggetto. Molti studi sono stati compiuti sulle modalità di formazione nella mente delle mappe cognitive. Uno dei primi e certamente il più classico dei modelli teorizzati è quello di Lynch (1960)41; egli estrae cinque


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componenti principali dall’immagine di una città: paths (percorsi), edges (margini), districts (zone), nodes (nodi), landmarks (punti di riferimento). Paths sono per esempio le strade, edges sono i margini che separano una parte di spazio da un’altra, districs sono le aree che hanno qualche caratteristica che li contraddistingue come parchi o quartieri, nodes sono punti focali per il comportamento spaziale degli individui, come per esempio i punti di svolta, landmarks sono punti fisici particolarmente riconoscibili ed evidenti come i monumenti. Altre componenti sono state aggiunte da Garling, Book e Lindberg attraverso studi più recenti (1984), queste sono: places (luoghi) nei loro aspetti fisici e nelle loro funzioni, comprese le valenze affettive che possono avere per l’individuo; spatial relations (relazioni spaziali) che comprendono le relazioni di vicinanza e quelle metriche, e i travel plans (piani di viaggio) che consistono della programmazione del percorso, attraverso mappe ed altro, prima che questo venga realmente effettuato. “La formazione di una mappa cognitiva parte invariabilmente dalla porzione di ambiente accessibile al soggetto, per poi arricchirsi di una serie di relazioni tra parti note e avere un disegno complessivo, in continua correzione e rimaneggiamento, dei singoli punti di attrazione, della loro collocazione spaziale e delle loro distanze. Da una prima rappresentazione spaziale che comprende solo alcune parti dell’ambiente, a cui si ha accesso direttamente, senza nessuna connessione spaziale stabile con altre parti, si passa a una conoscenza a “isole” (caratterizzate dalla presenza di un landmark, cioè di uno stimolo ambientale percettivamente vistoso a cui fare riferimento) ma senza la relazione le une con le altre.

Siamo ancora in una fase di conoscenza “egocentrica” e non basata su coordinate ambientali valide in generale. Con la familiarizzazione successiva si istituiscono dei rapporti spaziali tra queste isole di conoscenza, sulla base di coordinate geograficoambientali, indipendenti dal soggetto e stabili” M.G.Baroni, Psicologia ambientale, 1998. La memorizzazione dei percorsi da compiere avviene per itinerari segmentati, con alcuni punti più rilevanti perché presentano delle alternative e con un punto di partenza ed uno di arrivo noto. Lo sforzo cognitivo nella memorizzazione non è correlato alla lunghezza del percorso, ma al numero di segmentazioni che è necessario introdurre: tanti più sono i nodes, tante più sono le informazioni che il soggetto deve ricordare. Questo porta l’utente a concepire come più breve un percorso rettilineo rispetto ad uno segmentato della stessa lunghezza (Golledge, 1992). Oltre a questi fattori di distorsione che potremmo chiamare “cognitivi” ne esistono altri legati alle motivazioni e alle emozioni. Esistono per esempio situazioni in cui un adulto, che ha già una certa familiarità con un ambiente, può commettere errori dovuti ad una rappresentazione basata su coordinate allocentriche. Se dovesse disegnare una cartina del suo quartiere, per esempio, è molto probabile che assegnerà alla sua casa o alla sua via una posizione centrale mentre sarebbe più ragionevole inquadrare prima l’insieme del territorio che si deve disegnare, stabilendone i confini e le coordinate geografiche. La mappa mentale è in ogni caso una rappresentazione soggettiva, questa esprime il modo in cui organizziamo l’informazione spaziale. La chiarezza e la soggettività di queste immagini mentali


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“Non sapersi orientare in una città non vuol dir molto. Ma smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta è una cosa tutta da imparare. Chè i nomi delle strade devono suonare all’orecchio dell’errabondo come lo scricchiolio di rami secchi e le viuzze interne gli devono scandire senza incertezze, come le gole montane, le ore del giorno.” Walter Benjamin, Infanzia e storia

dell’ambiente contribuiscono notevolmente al corretto funzionamento dei nostri comportamenti esplorativi e delle nostre prestazioni di wayfinding. Le rappresentazioni mentali si possono differenziare per un’importante caratteristica, cioè il punto di vista dell’osservatore. Le due prospettive principali descritte nella letteratura sono la prospettiva survey (visione dall’alto) e la prospettiva route (visione da dentro). La prima è relativa ad una organizzazione non egocentrica dello spazio, la cui rappresentazione è essenzialmente topologica e priva di riferimento all’azione del soggetto. La seconda, invece, è legata al movimento dell’individuo nello spazio, questo viene organizzato in maniera sequenziale o lineare, come una mappa di percorsi in cui il fattore tempo diviene determinante. Naturalmente è raro il caso in cui il soggetto utilizzi esclusivamente la prospettiva survey o route, molto più frequentemente si usa una prospettiva mista, orientata però verso uno di questi due poli. Anche Franco La Cecla nel suo libro Perdersi (1988) analizza le due metodologie, sottolineando come nella prospettiva route42 l’interpretazione dell’ambiente sia esperienziale ed aneddotica. Egli pone l’accento sul legame che si crea tra un popolo e il suo territorio, per esempio spiega come per un nomade il tragitto stesso non sia uno spostamento ma “uno srotolare il tappeto delle proprie mappe mentali, simboliche culturali in corrispondenza dei luoghi del territorio che si attraversano”. La sua tesi è che ogni popolo si identifica con il proprio territorio e vi si orienta, mediante processi cognitivi operanti ed appresi per mezzo del linguaggio, che risultano pertanto specifici di ogni cultura e di ogni luogo. Infatti ogni cultura costruisce con la propria esperienza e i propri artefatti

le mappe mentali che strutturano lo spazio occupato. Il processo di identificazione tra la comunità e l’ambiente viene continuamente rinnovato e ricontrattato a seguito dell’evoluzione continua che coinvolge entrambi i sistemi. Se il comportamento spaziale tipico di una cultura deve essere appreso da una diversa comunità sociale, questa, essendo dotata di mappe mentali e schemi ambientali differenti, leggerà il mondo e lo interpreterà secondo griglie strutturali diverse. Tutto ciò significa che nell’affrontare ambienti sconosciti o semplicemente nuovi useremo sempre la rete di senso che fa parte della nostra cultura, delle nostre conoscenze, delle nostre esperienze spaziali, ma, allo stesso tempo saremo costretti a trascenderla e reinterpretarla per adattarla a nuovi contesti specifici e a nuove situazioni cognitive. La capacità dell’uomo di trovare la strada risulta così compromessa dai continui spostamenti e migrazioni che, nella storia, è sempre stato costretto a compiere. Infatti ha perso la capacità di orientarsi per mezzo dei propri sensi attraverso la fisicità delle cose (La Cecla, 1988). Questo senso di spaesamento e disorientamento cronico è accentuato dalla cattiva progettazione della comunicazione ambientale, gli spazi sono infatti complessi, ridondanti di input e confusi rendendo la navigazione sempre più impegnativa: i luoghi non riescono più a comunicare un percorso in se stessi. L’ambiente intorno a noi sembra parlare una lingua diversa dalla nostra, eppure siamo noi a sentirci colpevoli di non riuscire a comprenderla. “Quando questo avviene, ed è messa in forse la leggibilità dell’ambiente, la frustrazione degli sforzi cognitivi del soggetto lo mette in uno stato di disagio e lo predispone, sul piano emozionale, ad una valutazione


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negativa e di rifiuto del luogo stesso” M.G.Baroni. Ci sono invece dei luoghi, o degli ambienti della città, che viviamo con più agio di altri, perché risolvono meglio il processo di identificazione tra individuo e ambiente, in questi spazi ci si scopre capaci di fruire serenamente dei servizi e delle funzioni. In questo caso la mappa mentale si è delineata in modo funzionale ed efficiente grazie ad una buona progettazione dello spazio e all’accessibilità dell’informazione. L’azione del designer è stata efficace nella pianificazione e nell’organizzazione delle informazioni; in questo modo lo scenario è progettato in modo tale che il soggetto riconosca la propria posizione nello spazio e possa formulare decisioni per raggiungere la meta preposta e trasformarle in azioni esecutive. La psicologia ambientale studia le emozioni suscitate nel soggetto dall’ambiente e descrive, secondo la teoria di Kaplan (1977, 1989), quali sono i predittori di una valutazione di piacevolezza ambientale.

Le due dimensioni considerate in colonna sono la “comprensione” e “l’esplorazione”, cioè i due passi successivi della conoscenza di un ambiente: la comprensione è il tentativo di dargli un senso (per esempio di attivare lo schema mentale appropriato, se lo possediamo) e l’esplorazione è il tentativo di approfondirne la conoscenza, anche con l’azione. Perché il soggetto, quindi l’individuo con tutte le sue caratteristiche personali, le sue esperienze passate, i

suoi scopi attuali, possa dare una valutazione affettiva positiva di un ambiente, devono essere soddisfatte, rispettivamente nei quattro incroci delle dimensioni considerate, le condizioni di coerenza, leggibilità, complessità e mistero. La prima ci dà il controllo visivo globale dell’ambiente e quindi ci mette nella condizione di poter prevedere come orientarci; la leggibilità consente ad un dato luogo o spazio di essere percepito e compreso i modo chiaro e puntuale, è quindi la capacità che l’ambiente ha di spiegarsi agli occhi di chi lo attraversa. La complessità è qui intesa nell’accezione positiva del termine, delinea cioè ambienti ricchi di stimoli percettivi, richiama inoltre il concetto della seduzione del perdersi. Il mistero infine è quella caratteristica particolare di alcuni ambienti, per cui si ha la sensazione che addentrandosi si otterranno ancora più informazioni, come potrebbe essere, in alcuni casi, una stanza con una porta di uscita da cui si vede un altro tipo di ambiente, o con una finestra da cui si vede fuori; oppure, in una categoria diversa di ambienti, un bosco ad alberi alti in mezzo a cui si addentri un sentiero. La congruenza tra certe caratteristiche fisiche di un ambiente e le aspettative, le motivazioni, gli scopi del soggetto fa scattare la valutazione affettiva e il giudizio di preferenza o in caso contrario di rifiuto. Un ambiente per essere apprezzato deve avere una certa complessità che non vada però a scapito della leggibilità e che permetta un pò di mistero. Uno spazio leggibile deve dichiarare chiaramente di che tipo di ambiente si tratta (per non mettere a dura prova gli sforzi cognitivi del soggetto) e quale tipo di aiuti può fornire alla realizzazione dei nostri piani. Questi aspetti sono riassunti nel concetto di supporting environment di


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Canter (1983), cioè di ambiente che facilita l’utente nell’ottenere tutte le informazioni che gli servono, e che quindi, in prospettiva, ne faciliti l’azione. La componente affettiva dell’ambiente ha la funzione di sostegno e di facilitazione alla comprensione e alla presa di decisioni attuative.

34 vedi Maria Grazia Baroni, Psicologia ambientale, il Mulino, 1998 35 fonte ibidem 36 Annual Review of Psychology, Sundstrom e collaboratori, 1996 37 i cinque sensi classici, il senso di equilibrio e di posizione, la percezione della temperatura, gli stati fisici di benessere e disagio... 38 E. Brunswik (1903-1955) ricercatore in psicologia del comportamento. È sua la teoria del funzionalismo probabilista 39 J.J Gibson (1904-1979) psicologo americano, considerato uno dei più importanti del XX sec per gli studi sulla percezione visiva 40 R.Golledge “Environmental Cognition”, in D.Stokols e I.Altman (a cura di) Handbook of Environmental Psychology, New York, Wiley, vol.I, 1987 41 Kevin Lynch, The image of the city, Massachusetts Institute of Technology, 1960 42 definita dall’autore come “orientamento relativo”, mentre la prospettiva survey è “orientamento topografico”


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4. L’EMERGENZA

4.1 Rischio ed emergenza Un’emergenza è spesso conseguente al verificarsi di eventi improvvisi, talvolta difficilmente prevedibili, e tali da mettere in condizione di potenziale o reale pericolo una o più persone o beni. Se interpretiamo in questo modo il concetto di emergenza si deduce facilmente che l’analisi dei rischi è uno dei passi fondamentali per gestire adeguatamente questo tipo di situazioni. Ogni ambiente è suscettibile di rischi specifici e necessita di un piano di valutazione ad hoc per mettere a punto le adeguate contromisure. Per esempio in una filiale di banca il rischio di rapina è molto più alto rispetto alla possibilità che si verifichi un incendio, in questo senso devono venir attivati dei piani di emergenza che possano rispondere efficacemente alle situazioni di crisi che si verificano con più probabilità. Nel caso di un’impresa con un elevato numero di lavoratori o di un luogo ad utenza pubblica, l’analisi dei rischi si deve concentrare sull’incolumità personale dei dipendenti, dei clienti e dei visitatori e deve tener conto anche dei risvolti economici e di sopravvivenza dell’azienda o dell’ente stesso. L’elaboratore del piano di valutazione dei rischi stila una lista delle situazioni d’emergenza che vengono ritenute probabili; questa può comprendere emergenze mediche, sismi, esplosioni in genere, incendi, black out, rapine, inondazioni ed allagamenti, aggressioni, attacchi terroristici…Per legge deve essere redatto un piano di emergenza e di evacuazione che risponda efficacemente alle situazioni di pericolo e possa condurre in salvo, attraverso vie di fuga precedentemente individuate e segnalate, tutte le persone presenti.

Nel piano di emergenza ed evacuazione devono essere documentate le caratteristiche generali dell’edificio, le mappe di evacuazione43, l’ubicazione delle dotazioni di sicurezza (telefoni d’emergenza, estintori, uscite…), il modo in cui i dipendenti si devono organizzare in caso di non normalità, la classificazione delle emergenze, la segnalazione di queste (attraverso dispositivi acustici o di altro tipo), come deve essere svolto il primo soccorso, il modo in cui deve essere diffuso l’ordine di evacuazione e come questa debba avvenire. La pianificazione a monte è assolutamente indispensabile per una gestione efficace dell’emergenza: lo strumento più utile per fronteggiare una situazione di crisi, con ragionevoli probabilità di successo, è l’accurata preparazione di tutti coloro che vi saranno coinvolti. Non è possibile, per ragioni organizzative e strutturali, impartire a tutti i dipendenti una formazione approfondita per fronteggiare un’emergenza, è necessario quindi selezionare alcune persone affinché vengano istruite in modo particolare e guidino i visitatori e gli altri lavoratori in caso di crisi. A seconda delle dimensioni dell’azienda queste persone di riferimento possono occupare un ruolo istituzionale (gli addetti alla sicurezza) o possono essere dipendenti volontari. Un programma base di formazione e addestramento deve essere impartito a tutto il personale; ad un ristretto numero di persone deve essere invece insegnato come utilizzare gli estintori, le nozioni di primo soccorso sanitario, l’ubicazione di centraline e valvole critiche, l’assistenza ai disabili, la guida degli altri dipendenti verso le vie di fuga e i punti di raccolta. In generale avremo gli addetti alla sicurezza, la squadra di emergenza e di pronto soccorso codipendenti-


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volontari, il personale in genere e gli utenti visitatori che non hanno alcuna conoscenza dell’edificio e delle misure di sicurezza specifiche del luogo. Periodicamente devono essere organizzate delle simulazioni ed esercitazioni che mostrino cosa fare in caso di emergenza, dove dirigersi una volta fuori dall’edificio, a chi chiedere assistenza e quali sono i colleghi a cui fare riferimento in queste specifiche situazioni. Esistono tre tipi principali di esercitazione: la simulazione sit down, stand up e get out. La prima ha obiettivi piuttosto limitati ma è determinante per mettere a punto le fasi successive. L’obiettivo fondamentale è quello di verificare la funzionalità e rapidità di attivazione della catena di comando in orari diversi ed in diversi giorni della settimana. La simulazione stand up invece consiste non solo nell’individuare la disponibilità dell’addetto o del volontario, ma anche nel verificare il suo stato di preparazione rispetto alla situazione. L’ultimo caso è quello della simulazione realistica con abbandono dei locali, questa richiede un’accurata preparazione ed è l’unica i cui risultati siano del tutto credibili. Per legge va ripetuta almeno una volta all’anno con scenari di crescente complessità ed articolazione. È importante perché è un’esperienza concreta per tutto il personale che lascia un ricordo forte dell’ubicazione delle vie di fuga e delle uscite di sicurezza, inoltre predispone al tipo di comportamento corretto da mantenere in queste situazioni speciali.

4.2 Le procedure di evacuazione Se viene impartito il segnale di evacuazione il personale si deve aggregare all’addetto o al dipendente volontario precedentemente istruito e deve seguire le sue indicazioni. È bene che tutti interrompano immediatamente ciò che stanno facendo e lascino il posto di lavoro abbandonando gli oggetti personali ingombranti e dirigendosi il più velocemente possibile verso le vie di fuga sotto la guida degli addetti e della segnaletica di sicurezza. Se si sta compiendo un’operazione pericolosa questa deve essere portata a termine (spegnere una fiamma libera, tappare un recipiente con sostanze chimiche…). Ogni dipendente dovrebbe memorizzare il percorso che deve compiere dalla sua postazione all’uscita di sicurezza o al punto di raccolta più vicino. Quando il personale si è riunito nel punto di raccolta del proprio piano o settore dovrebbe ordinatamente dirigersi verso l’esterno dell’edificio. Il piano di evacuazione prevede che venga designato un luogo esterno all’edificio dove tutti devono riunirsi. Il percorso dall’edificio al punto di raccolta esterno deve essere breve, compatibilmente con la certezza che sia protetto e defilato rispetto alla situazione di crisi che sta coinvolgendo l’insediamento principale. È necessario che non sia raggiungibile da un’onda d’urto e dalle schegge scagliate centrifugamente dall’insediamento in seguito ad esplosioni. In un centro cittadino è sufficiente girare l’angolo di una via per essere protetti dalle schegge e dai detriti proiettati da uno scoppio.Talvolta un percorso leggermente più lungo è preferibile ad uno più diretto se questo risulta più esposto alla caduta di detriti. Il coordinatore del punto di raccolta dovrebbe tenere


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continuamente informati i presenti sull’evoluzione della situazione, infatti un pericolo non noto o non chiaramente identificato è sempre sopravvalutato, con le conseguenze deleterie del caso: una delle maggiori cause di stress è proprio la mancanza di informazioni, il non sapere cosa succede, il non sapere che fare. Anche se negli ultimi anni le leggi sulla prevenzione dei rischi e sulla sicurezza stanno diventando più restrittive, accade frequentemente che la maggior parte delle vittime di una situazione di emergenza perda la vita nell’atto di abbandonare l’edificio. Questo avviene anche perché la segnaletica di sicurezza e le mappe di evacuazione non sono chiaramente leggibili e comprensibili in situazioni critiche. L’incertezza data dal contesto e dall’agire della folla può portare quindi a danni ancora maggiori di quelli già creati dall’evento scatenante l’emergenza.

4.3 La psicologia dell’emergenza La risposta umana all’emergenza e in particolare alla dichiarazione di evacuazione può essere molto difficile da controllare e solo l’analisi attenta di eventi trascorsi ha permesso di mettere a fuoco dei modelli di comportamento e di reazione. Una prima tipologia di reazione è quella definita dell’apatia, cioè del minimizzare l’evento e di ritenere che la situazione non sia così grave come la si descrive. Sono frequenti i casi di dipendenti che prima di allontanarsi dal posto di lavoro compiono una serie di operazioni inutili che rallentano di molto il tempo di abbandono dei locali. In alcuni casi si è scoperto che il personale indugiava nel riordinare la scrivania, che

prendeva il cappotto nello spogliatoio nella direzione opposta alla vie di fuga, che portava con sé documenti e pratiche di lavoro non essenziali. La mancata percezione della gravità e dell’urgenza della situazione è quasi una costante44. Durante il tragico incendio dello stadio di Bradford nel 1985, durante il quale morirono 51 persone, molti spettatori si fermarono ad osservare le fiamme che divampavano senza rendersi conto che queste li avrebbero coinvolti. In particolare molti morti si verificarono quando gli spettatori rimasero in piedi ad osservare le pareti ed il tetto della tribuna che stavano bruciando senza pensare che di lì a poco sarebbero crollati sopra di loro. Soprattutto nel caso di evacuazione ordinata prima del verificarsi dell’evento, molte persone vogliono verificare di persona la gravità del pericolo prima di abbandonare i locali e si allontanano con esitazione per timore che gli effetti personali che abbandonano sul posto vengano danneggiati o derubati. Le persone in genere sono più portate a credere alla realtà dell’emergenza se l’ordine di evacuazione è ripetuto più volte e viene impartito da una fonte credibile. Ecco perché una voce impersonale trasmessa da un altoparlante o un anonimo segnale acustico spesso non vengono presi sul serio, mentre se l’annuncio è dato da un collega che ripete più volte lo stesso ordine la reazione è molto più pronta. Può anche verificarsi l’evento opposto: il panico. Questo stato d’animo si manifesta soltanto quando la persona percepisce che esclusivamente il proprio comportamento immediato può garantirle la sopravvivenza a scapito di quella degli altri. La condizione di panico non è così automatica, ma si


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verifica se: esiste una condizione di ansietà diffusa precedente al disastro, non è presente una chiara e qualificata leadership che possa guidare la folla ma questa viene lasciata senza alcuna informazione, si verifica un fattore di precipitazione che di solito è la veloce e progressiva chiusura dell’unica via di fuga. Statisticamente quest’ultima condizione è quella che stata più spesso accomunata al verificarsi di panico collettivo, ne diviene quindi la causa principale. “Nello scatenarsi del panico ha molto peso la convinzione o il timore di un possibile intrappolamento. Nel racconto di chi ha partecipato ad un caso di panico questa considerazione viene più volte ripetuta. Non è vero che gli individui credano o avvertano di essere definitivamente intrappolati. In questi casi infatti non si produce panico. Questo si manifesta, invece, solo quando, nel pericolo, si avverte l’imminente chiusura di una possibile via d’uscita” 45. Il primo studio sul panico riguarda la carneficina verificatasi al Campo Kondinka di Mosca il 18 maggio 1896 quando, durante una cerimonia ufficiale, lo zar fece lanciare tra i sudditi manciate di monete d’oro: durante la ressa morirono 2.000 persone; altri casi famosi sono la calca davanti ad un rifugio antiaereo di Tokyo, il 2 aprile 1942 (1.500 morti), le 463 persone morte il 28 novembre 1942 in una precipitosa fuga durante l’incendio della discoteca Coconout di Boston, ma soprattutto lo “sbarco dei marziani” annunciato da Orson Welles. Il 20 ottobre 1938 una trasmissione di musica leggera fu bruscamente interrotta e venne annunciato dalla radio che invasori extraterrestri provenienti da Marte stavano accerchiando la città; una possibile via di scampo si trovava ancora a nord di New York ma questa sarebbe stata chiusa, di lì a poco,

dall’avanzare dei marziani. Gli effetti della trasmissione furono disastrosi: in pochi minuti cessarono di funzionare i trasporti pubblici, gli ospedali, numerose stazioni di polizia e dei vigili del fuoco. I funzionari preposti a questi servizi e un milione di newyorkesi si erano precipitati a piedi o in automobile in direzione nord per sfuggire all’accerchiamento. Si ebbero morti, feriti e ingenti danni. Orson Welles se la cavò dichiarando che aveva reso un “grande servizio all’America rivelando quanto essa fosse vulnerabile ad un attacco nemico” ed evitò il carcere. Perché questa clamorosa reazione della popolazione? Per l’ansietà diffusa: la popolazione americana identificò nei marziani una serie di gravi paure che stava vivendo in quel periodo storico (la minaccia nazista, la paura di una nuova recessione...), poi l’indiscussa autorevolezza che rivestiva allora il mezzo radiofonico, infine l’annuncio di una linea di fuga che si sarebbe chiusa da lì a poco. “Quale sarebbe stata la reazione della popolazione di New York se l’annuncio avesse escluso ogni possibile via di fuga? Probabilmente le persone si sarebbero asserragliate nelle loro case in attesa del nemico e non si sarebbero verificati incidenti di rilievo”46. Lo psicologo americano N.Marshall in proposito sostiene che “non si verificano mai casi di panico quando la gente ritiene che le vie di fuga siano chiuse, al massimo possono registrarsi casi di regressione infantile. Una reazione abbastanza diffusa al fuoco nemico durante gli attacchi anfibi della seconda guerra mondiale era l’assoluta immobilità. Alla spalle delle truppe attaccate dalle difese costiere c’era il mare, non c’era modo di sfuggire. I soldati si disponevano muti lungo la linea del fuoco con il cervello svuotato e con le


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dita troppo deboli per impugnare un’arma. Non si è mai verificato un caso di panico tra le pur centinaia di attacchi anfibi che ho avuto modo di analizzare”. Il pericolo costituito dalla percezione di una possibile e provvisoria via di fuga durante un’emergenza pone l’operatore di protezione civile in situazioni solitamente difficili. In alcuni incendi che si sono verificati negli USA in grandi edifici ad utenza pubblica i vigili del fuoco hanno preferito non comunicare l’esistenza di una possibile linea di fuga perché la reazione della folla a questa notizia avrebbe scatenato un caos che avrebbe ostacolato o impedito i soccorsi. Il comportamento della folla in una situazione di emergenza non è la semplice sommatoria di quello delle singole persone, ma sembrerebbe delinearsi come quello di un “organismo” caratterizzato da una dinamica propria, relativamente autonoma da quella degli individui che lo compongono. In parecchi casi, infatti, persone interrogate sul loro agire nella folla hanno riferito di essere state pesantemente influenzate da qualcosa di “irrazionale”, determinato dal gran numero di individui, che le spingeva ad assumere atteggiamenti imprevedibili e per essi inspiegabili. Il comportamento, apparentemente paradossale, della folla è quindi caratterizzato dal fatto che, in assenza di precise informazioni o di leadership, ogni individuo adegua il proprio agire a quello delle persone che gli stanno accanto. Questa componente di irrazionalità non può essere controllata direttamente, ma solo per via indiretta. Nel caso di evacuazione di un edificio le persone in prima fila possono forse vedere il pericolo e potrebbero cercare di fermarsi e dirigersi altrove, ma coloro che

spingono dal fondo non si rendono conto di ciò che si trova davanti e continuano a spingere. Più volte persone in prima fila sono state schiacciate contro porte chiuse a chiave da altri che, ignorando la situazione, spingevano in modo incontrollato. In qualche caso addirittura delle persone sono state proiettate nel vuoto di una passerella crollata, spinti da coloro che alle spalle cercavano di raggiungere questa ipotetica via di fuga, purtroppo non più disponibile. Il fatto che chi è dietro non reagisce in modo coordinato con chi è davanti è una delle principali ragioni di comportamento anomalo della folla. Chi deve cercare di guidare la folla verso una direzione di salvezza non deve quindi porsi davanti ai primi cercando di fermarli perché chi segue non potrebbe vederlo ed egli finirebbe travolto. Si deve invece correre davanti alla folla tenendo le mani bene in alto ed agitandole in modo che chi segue, ed ha una visione limitata, possa percepire il messaggio e cogliere questi segnali. La mancanza di informazioni, o la cattiva diffusione di queste, rimane un punto determinante nel verificarsi dei comportamenti fuori controllo delle folle. Oltre all’apatia e al panico, la reazione che si presenta con più facilità in caso di emergenza è la paura. La paura è una caratteristica presente, in modo più o meno accentuato, in tutti gli animali superiori e costituisce una garanzia contro i pericoli, un riflesso indispensabile che permette che l’organismo si preservi il più a lungo possibile. Esistono negli esseri umani sostanzialmente tre reazioni alla paura. La prima (abbastanza rara) é la catalessi: un fenomeno di automatismo psiconeurotico che immobilizza il


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soggetto rendendolo incapace di fare alcunché; questa é una reazione ereditata dagli animali predati i quali si fingono morti per evitare di essere sbranati dai predatori. Un’altra reazione é lo sbiancarsi o il rizzarsi di capelli e peli: una tecnica che permette all’animale aggredito di confondere o di sembrare “più grande” agli occhi dell’animale aggressore. La terza reazione, e la più diffusa, é l’iperattività determinata dall’immissione di un surplus di adrenalina; ne consegue l’accelerazione delle pulsazioni cardiache e della respirazione, la redistribuzione vascolare a vantaggio dei muscoli, la contrazione della milza e l’immediato aumento degli zuccheri nel sangue. Tutto ciò è finalizzato a rendere disponibile un surplus di energia destinato al contrattacco o alla fuga. È necessario che gli addetti alla sicurezza e i volontari riescano ad incanalare questa energia positiva scatenata dalla paura nella direzione giusta impartendo indicazioni chiare. Donald A.Norman analizza in Emotional Design quello che accade in una situazione di iperattività da paura a livello neurologico:”Quando ci troviamo in uno stato affettivo negativo e ci sentiamo in ansia o in pericolo, i neurotrasmettitori focalizzano l’operatività del cervello. La focalizzazione riguarda le capacità di concentrarsi su un problema specifico, senza distrazioni, per poi andare sempre più a fondo nello stesso fino a raggiungere una soluzione. La focalizzazione indica inoltre la concentrazione sui dettagli. Cosa molto importante per la sopravvivenza, ambito in cui l’affezione negativa gioca un ruolo cruciale. Ogni volta che il cervello intercetta qualcosa che può rivelarsi pericolosa, tramite l’elaborazione viscerale oppure

quella riflessiva47, il sistema affettivo agisce attivando la tensione muscolare per prepararsi all’azione e allertando i livelli comportamentale e riflessivo, in modo da bloccarli e farli concentrare sul problema. I neurotrasmettitori costringono il cervello a focalizzare l’attenzione sul problema ed evitare le distrazioni. Proprio quello che bisogna fare per affrontare adeguatamente il pericolo.” Questa focalizzazione spinta riduce al minimo la capacità di immaginazione e la creatività negli individui, condizione che da un lato agevola il pensiero logico e la freddezza, ma dall’altro fa risultare problematiche banali insormontabili. “Al fuoco” urla qualcuno in un teatro. Immediatamente tutti si accalcano verso le uscite. Cosa fanno una volta raggiunta la porta? Spingono. Se la porta non si apre spingono più forte. Ma cosa succede se la porta si apre verso l’interno e va tirata anziché spinta? È molto improbabile che persone molto stressate, molto concentrate, pensino a tirare. (Norman, 2004) Per questo motivo i dispositivi di sicurezza sono progettati in modo da ridurre al minimo la necessità di pensiero creativo e con un’attenzione particolare ai dettagli.


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43 vedi paragrafo 5.3 Le mappe di evacuazione 44 fonte Adalberto Biasotti Le procedure di emergenza

ed evacuazione EPC Libri, 1998 45 D.Wenger, E.Quarantelli, R.Dynes Disaster Analysis: police and fire department, Final Report, The disaster research center, University of Delaware, Newark, NE, 1986 46 E.Smelser, Il comportamento collettivo, Valecchi 1965 47 Norman in Emotional Design definisce tre livelli di elaborazione nell’uomo: viscerale, comportamentale e riflessivo. Il livello viscerale è veloce: emette rapidi giudizi su cosa è buono o cattivo, sicuro o pericoloso, inviando il segnale appropriato ai muscoli e allertando il resto del cervello. Il livello successivo è quello comportamentale: questo non è cosciente e comprende tutte le azioni umane. Il livello comportamentale può essere inibito o accentuato dallo stato riflessivo, il livello più elevato. Questo ricopre funzioni di controllo e riflessione generale.


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5. ILLUMINAZIONE E SISTEMI DI SEGNALAZIONE DI EMERGENZA

“Ad ogni impianto di illuminazione è affidato il compito di garantire la sicurezza degli utilizzatori. Il poter vedere, infatti, è il presupposto per ogni efficace azione di risposta in tutte le situazioni di rischio, anche meramente potenziale. La luce è un forte deterrente contro il panico collettivo, contrastando essa quel senso di paura che l’oscurità incute in ognuno di noi. L’illuminazione di emergenza è finalizzata a mantenere il controllo visivo anche in condizioni critiche, cioè quando viene a mancare la normale erogazione di energia elettrica della rete. Le cause di improvviso black out energetico possono essere molteplici: dal guasto sulla linea esterna dell’edificio allo sgancio degli interruttori automatici di protezione dell’impianto elettrico interno (sovraccarichi, cortocircuiti), fino ai casi più gravi di incendi, fulmini, allagamenti, terremoti. In molti ambienti di lavoro l’assenza anche momentanea dell’illuminazione può provocare incidenti di notevole gravità. Il poter disporre di una riserva di energia elettrica che, all’insorgere di uno stato di emergenza sostituisca quella di rete, automaticamente e immediatamente o nel volgere di qualche secondo, costituisce uno dei più importanti fattori di sicurezza in tutti i luoghi aperti al pubblico e negli ambienti di lavoro.” Manuale di Illuminotecnica, AIDI Associazione Italiana di Illuminazione a cura di L. Fellini, G.Forcolini, P. Palladino


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5.1 Illuminazione di emergenza La Norma UNI EN 1838 “Illuminazione di emergenza” offre una classificazione delle possibili forme di illuminazione destinate a sostituire l’illuminazione artificiale ordinaria quando questa, per una qualsiasi ragione accidentale, dovesse venire a mancare. I luoghi in cui questi sistemi di illuminazione vengono installati sono principalmente quelli destinati ad accogliere lavoratori, pubblico, studenti e degenti. Con il termine illuminazione di emergenza si definisce così l’insieme dei sistemi illuminanti destinati a garantire una continuità di alimentazione tale da consentire un certo livello di visibilità anche al venir meno della fonte energetica ordinaria. Lo scopo di tale continuità può essere il proseguimento

dell’attività in corso, in questo caso si parla di illuminazione di riserva, che deve assicurare la piena funzionalità di quanto contenuto negli edifici. Oppure il fine può essere quello di garantire, in caso di emergenza, la sicurezza delle persone presenti negli edifici, in questo caso si parla di un sistema per l’illuminazione di sicurezza. Questa si compone dell’illuminazione delle vie di fuga, di quella antipanico e di quella per le aree ad alto rischio. Tutte le nozioni e le tabelle del capitolo sono tratte da Enrico Grassani Illuminazione di emergenza e sistemi di sicurezza, Utet, 2000


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5.1.1 Illuminazione delle vie di fuga Per svolgere nel migliore dei modi la sua funzione, cioè quella di garantire un livello di illuminamento sufficiente a consentire l’evacuazione delle persone da un luogo chiuso ad un luogo sicuro, l’illuminazione di sicurezza deve contare su una serie di apparecchi illuminanti48 che devono porre in particolare evidenza le seguenti aree interne all’edificio: - le zone in cui si trovano i varchi di uscita e le porte destinate all’evacuazione in caso di emergenza - le zone entro 2 m di distanza (in senso orizzontale) dalle scalinate e in modo tale che ogni rampa risulti illuminata direttamente - le zone entro 2 m di distanza (in senso orizzontale) da ogni cambio di livello o gradino - in corrispondenza di ogni dispositivo o attrezzatura di

pronto soccorso e antincendio - in corrispondenza di ogni segnale di sicurezza, cambio di direzione, incrocio o bivio, varco di uscita - le zone entro 2 m di distanza (in senso orizzontale) dai locali di pronto soccorso e da ogni punto di chiamata (telefono) per il pronto soccorso sanitario o antincendio. L’illuminazione di sicurezza delle vie di fuga lungo corridoi, scale, pianerottoli e atri deve garantire la visibilità per la corretta individuazione dei percorsi di evacuazione, dei dislivelli, delle strutture sporgenti o pericolose, dei varchi di uscita e delle attrezzature antincendio e pronto soccorso.


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Altezza di installazione L’eventuale presenza di ostacoli deve poter essere individuata fino a 2 m di altezza. La direzione del flusso luminoso emesso dagli apparecchi illuminanti deve essere tendenzialmente discendente, cioè rivolto verso il pavimento. Gli apparecchi devono, secondo la normativa, essere installati ad un’altezza di almeno 2 m rispetto al piano di calpestio. A questa altezza la sorgente di illuminazione, oltre a consentire l’individuazione di eventuali ostacoli e ad essere protetta contro gli urti accidentali, non rischia di essere coperta dal flusso di persone che abbandonano i locali. È possibile installare sorgenti luminose anche ad altezza

inferiore, ma queste vanno considerate come integrative del sistema basilare richiesto dalla norma. Le sorgenti luminose montate vicino al suolo svolgono correttamente la propria funzione a beneficio delle persone che transitano sole, ma vengono via via sempre più oscurate all’aumentare del numero di individui che transitano insieme. Inoltre devono essere progettate in modo da resistere agli urti, alle alte temperature e ai possibili allagamenti. Per contro gli apparecchi installati a soffitto o all’altezza di 2 m possono facilmente essere oscurati dalla coltre di fumo nero che potrebbe formarsi in seguito ad un incendio.


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Livelli di illuminamento Le vie di fuga, se di dimensione non superiore ai 2 m, devono presentare un livello minimo di illuminamento, misurato a pavimento e in assenza di riflessioni, non inferiore ad 1 lux in corrispondenza della linea che ne identifica il punto di mezzo lungo tutto il percorso. Prendendo tale linea come punto mediano, deve essere garantito, lungo una fascia di lunghezza pari alla metà di quella dell’intero percorso di evacuazione, un livello di illuminamento minimo di 0,5 lux. Questi livelli di illuminamento, che la norma stessa indica come minimi, devono essere maggiorati in presenza di leggi o norme specifiche che affrontano il tema dell’illuminazione di sicurezza in ambienti particolari.Per esempio nella attività alberghiere con più di 25 posti letto è richiesto un livello minimo di sicurezza pari a 5 lux (D.M. 9/4/94); lo stesso vale per le scuole (D.M. 26/8/92);

mentre per i locali di pubblico spettacolo sia il D.M. 19/8/96 che la norma CEI 64-8/7 prescrivono che il livello di illuminamento di sicurezza, misurato su un piano orizzontale ad 1 m di altezza dal pavimento non debba risultare inferiore a 5 lux sulle scale e in corrispondenza delle porte, e a 2 lux in ogni altro ambiente in cui abbia accesso il pubblico. (Per tutti i casi specifici vedi tabella A in appendice)Il livello di illuminamento generico si attesta quindi su valori non inferiori a 2 lux, da aumentare a 5 lux per le vie di fuga e per gli ambienti destinati ad accogliere persone anziane o ipovedenti. Secondo la Norma UNI EN 1838, bisogna evitare il crearsi di un’eccessiva disuniformità fra le parti illuminate e quelle che non lo sono. Questo perché la pupilla necessita di tempo (sempre più lungo con l’avanzare dell’età) per abituarsi ad una riduzione drastica del livello di lluminamento.


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A salvaguardia dell’uniformità di illuminazione lungo le vie di fuga il rapporto tra il livello di illuminamento massimo che si riscontra al centro del percorso e quello minimo non deve essere superiore a 40. Il rapporto 1:40 è comunque da considerarsi un limite estremo, nella realtà occorrerebbe avvicinarsi il più possibile al rapporto 1:20. Sempre in relazione alla difficoltà incontrata dall’occhio ad adattarsi ad una drastica e repentina riduzione dell’illuminamento è opportuno che si prenda in considerazione la necessità che negli ambienti molto illuminati dall’impianto ordinario siano tenuti livelli di illuminamento elevati (più elevati della norma) anche per l’impianto di sicurezza: questo dovrebbe produrre un illuminamento non inferiore al 10% di quello prodotto dall’illuminazione ordinaria. L’abbagliamento deve essere limitato il più possibile controllando l’emissione diretta nel campo visivo delle persone. La norma offre un’indicazione circa l’intensità luminosa massima consentita nell’ambito del campo visivo dell’utente in relazione all’altezza di installazione dell’apparecchio. Il rischio maggiore di abbagliamento si concretizza durante le fasi di discesa da una rampa di scale. In genere gli apparecchi di emergenza sono equipaggiati con ottiche diffondenti e schermature trasparenti prismatizzate che, producendo una certa diffusione dei raggi, riducono l’effetto abbagliante dovuto alla visione diretta della sorgente. È importante tener presente anche la resa cromatica della sorgente che si utilizza nell’illuminazione di sicurezza poiché la tipologia dei messaggi contenuti

nella segnaletica si basa anche sui colori (in particolare il verde, il rosso, il giallo). Per la classificazione della resa cromatica le norme identificano 5 differenti gruppi di resa del colore come mostrato nella tabella seguente: Ogni gruppo comprende le sorgenti il cui indice di resa del colore (indice con la sigla Ra) è compreso entro una determinata gamma. La Norma UNI EN 1838 prescrive, che per l’illuminazione delle vie di fuga, l’indice Ra delle sorgenti luminose impiegate non debba essere inferiore a 40; viene pertanto esclusa la possibilità di impiego delle lampade appartenenti al gruppo 4. Tempo di intervento e autonomia Il tempo di intervento automatico dell’illuminazione di sicurezza è quello che intercorre tra l’istante in cui viene meno l’alimentazione all’impianto ordinario e l’istante in cui vengono attivate le sorgenti di sicurezza. Per i tempi specifici prescritti si veda la tabella A in appendice. Lungo le vie di fuga le sorgenti devono raggiungere almeno il 50% della propria resa luminosa entro 5 s ed il 100% entro 60 s. L’autonomia di un’illuminazione di sicurezza equivale al tempo per il quale viene garantita la prestazione di illuminazione richiesta, il tempo minimo prescritto è di un’ora. Anche il tempo di ricarica deve essere preso in considerazione: questo non dovrebbe mai superare le 12 ore, e quando possibile essere ridotto a 6 o 8 ore negli ambienti più critici, come negli ospedali e nei locali aperti al pubblico che non possono usufruire di luce solare.


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5.1.2 Illuminazione antipanico L’obiettivo che si pone l’illuminazione antipanico è quello di ridurre la probabilità che nelle persone presenti nei locali possano insorgere stati di grave stress psicologico. Per questo deve essere garantita ai presenti una visibilità sufficiente per muoversi con sicurezza, individuando ed raggiungendo in modo agevole i percorsi previsti come vie di fuga. Le norme49 prevedono un’illuminazione di sicurezza antipanico nei seguenti casi: aree dalle quali non è sempre identificabile la direzione e la posizione in cui si trovano i percorsi di evacuazione aree occupate da un elevato numero di persone luoghi di area superiore ai 60 mq È necessario considerare più probabile l’insorgenza di elevato stress e di confusione nel caso in cui le persone non conoscono l’ambiente (perché non lo frequentano con assiduità o vi si trovano per la prima volta). Situazioni del genere caratterizzano i luoghi aperti al pubblico. Livelli di illuminamento L’illuminazione antipanico deve fornire un livello minimo di illuminamento, misurato a pavimento, di 0,5 lux lungo tutta l’estensione della stanza, tranne un bordo perimetrale non superiore a 0,5 m. Nei calcoli illuminotecnici non deve essere considerato l’apporto della luce riflessa. Per quanto riguarda l’uniformità del livello di illuminamento, variazione repentina dell’illuminamento, l’abbagliamento, la resa del colore, il tempo di intervento e l’autonomia valgono le stesse prescrizioni date per l’illuminazione delle vie di fuga.

5.2 Alimentazione dei sistemi di illuminazione di emergenza Gli apparecchi di emergenza vengono classificai dalla norma CEI EN 60598-2-22 in due grandi categorie legate alla modalità di alimentazione: Autonoma, cioè con una fonte energetica localizzata all’interno dell’apparecchio (di solito una batteria al nichel-cadmio) Centralizzata, nel caso in cui la fonte energetica sia esterna all’apparecchio. La fonte può essere un gruppo di continuità statico (UPS) o un gruppo elettrogeno, questi sono collocati in modo da servire più apparecchi illuminanti di emergenza installati in vari punti dell’edificio.


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5.3 Segnaletica di sicurezza Negli ambienti di lavoro la segnaletica di sicurezza deve essere conforme al dettato del D. Lgs. 493/96 che ha dato attuazione in Italia alla direttiva 92/58/CEE. Essa ha lo scopo di trasmettere alla persone un messaggio attinente: - la presenza di un pericolo, di un divieto, di un obbligo (in condizioni di lavoro normali, per esempio “indossare il casco protettivo”) - la dislocazione delle attrezzature antincendio o di pronto soccorso - i percorsi e i valichi di sicurezza. I segnali che riguardano le attrezzature antincendio devono essere adeguatamente visibili in caso di emergenza grazie all’illuminazione di sicurezza (sono

difficilmente retroilluminati). Questi hanno per legge un pittogramma bianco su sfondo rosso. I segnali per le vie di fuga e di pronto soccorso hanno invece sfondo verde; quest’ultimo deve estendersi per almeno il 50% della superficie totale del segnale. L’integrazione tra il sistema di segnaletica e l’illuminazione di sicurezza è un elemento di progetto che prende avvio sostanzialmente dall’individuazione di rischi specifici e che cura i criteri di localizzazione sia dei segnali sia delle sorgenti. Il segnale di sicurezza deve risultare sempre visibile: grazie alla luce naturale, all’impianto ordinario o all’impianto di sicurezza. La corretta collocazione dei segnali indicanti le vie di fuga, il fatto che questi risultino chiaramente individuabili ogni qualvolta il locale è occupato dagli utenti, sono elementi essenziali che contribuiscono a evitare o almeno ridurre i fenomeni di stress emotivo e confusione.


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Segnali retroilluminati La segnaletica di pronto soccorso e di evacuazione è molto spesso retroilluminata e, in questo caso, viene considerata a tutti gli effetti un elemento del sistema di illuminazione di sicurezza. Questa soluzione è largamente diffusa perché incrementa la visibilità del pittogramma. L’illuminazione data dal segnale contribuisce a creare un minimo livello di illuminamento anche nell’ambiente, ma va sempre integrata da una sorgente specificamente destinata ad illuminare il percorso di fuga o l’area antipanico. La luminanza, misurata su ogni parte del segnale, non deve mai essere inferiore a 2 cd/m². La differenza di luminanza tra più punti di una stessa area cromatica non deve superare il rapporto 10:1; la differenza fra la luminanza del pittogramma bianco e quella dello sfondo verde deve essere compresa tra 5:1 e 15:1. La segnaletica di sicurezza deve essere sempre accesa, anche in condizione di normalità, soprattutto in locali bui (come cinema e teatri). È possibile che in presenza di corrente di rete gli apparecchi emettano un flusso luminoso ridotto, mentre al mancare della corrente il flusso deve aumentare progressivamente fino al valore massimo nominale. Nei locali normalmente illuminati compete al progettista stabilire l’opportunità o meno di mantenere i segnali sempre accesi oppure di prevederne l’accensione in automatico solo in caso di guasto dell’illuminazione ordinaria con un tempo di accensione brevissimo (minore di 0,15 s) oppure breve (minore di 0,5 s). Posizione dei segnali nello spazio Per i segnali di sicurezza l’altezza minima di installazione è di 2 m, come si è già visto per gli apparecchi

illuminanti. Anche il messaggio di sicurezza non deve rischiare di essere coperto dai corpi o dalle teste delle persone. Valgono le stesse remore espresse in precedenza nell’evenienza di fumo nero provocato da incendio. I segnali destinati ad indicare il percorso di fuga devono essere collocati strategicamente in modo che possano accompagnare le persone da qualsiasi punto in cui esse si trovano fino al punto più vicino al varco di uscita. Per esempio lungo un corridoio in corrispondenza di un cambio di direzione, se il percorso è corretto ai fini dell’evacuazione, il segnale direzionale di fuga va posizionato sul fronte di chi trova a percorrere il corridoio. Sempre lungo il corridoio nel caso si presentassero due direzioni alternative, andrebbero segnalate come vie di fuga solo quelle effettivamente utili all’evacuazione in sicurezza. I segnali destinati ad indicare le uscite di sicurezza devono essere posti al di sopra delle porte designate. Queste sono le indicazioni prescritte dalle norme ma, nella realtà dei fatti, l’architettura degli edifici non è mai così lineare come nei casi esposti. Risulta quindi molto difficile in ambientazioni complesse seguire i percorsi che la segnaletica delinea, sia per la caoticità della disposizione dei cartelli sia per le dimensioni ridotte della freccia del pittogramma. La segnaletica che segue le indicazioni delle norme è quindi comunque difficilmente leggibile in condizioni di non normalità e soprattutto in presenza di fumo. L’installazione in fila continua di sorgenti a pavimento invece condurrebbe l’utente passo passo verso le uscite di emergenza attraverso un percorso luminoso non fraintendibile ed univoco, provvedendo anche a fornire un livello di illuminamento adeguato.


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5.4 Mappe di evacuazione Fa parte del sistema di segnalazione di sicurezza anche una mappa dell’edificio sulla quale sono stati indicati gli itinerari che gli utenti dovranno percorrere, in caso di esodo forzato, per lasciare l’edificio lungo le vie di sicurezza. Per ogni punto dello stabile viene indicata qual è la via più breve per raggiungere l’uscita. La mappa di evacuazione è di solito affissa nei corridoi, ma risulta impossibile da consultare nelle situazioni di emergenza, sia per questioni di tempo, sia per questioni psicologiche, sia perché intralcerebbe il flusso delle persone che percorrono le vie di esodo. Lo staff che lavora quotidianamente nell’edificio ha una visione chiara della planimetria del luogo. Capita frequentemente però che, in caso di profondo stress

emotivo, l’utente si senta disorientato, confuso e non sappia riconoscere l’itinerario che deve percorrere. La soluzione delle mappe cartacee affisse nei corridoi per determinare i percorsi di uscita risulta, a mio avviso, totalmente inadeguata per gli edifici ad utenza pubblica.


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48 Questi devono essere costruiti in conformità alla Norma CEI EN 60598-2-22 49 EN 50172 “Sistema per l’illuminazione di sicurezza”


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6. EMERGENCY WAYFINDING LIGHTING SYSTEMS, LE RICERCHE DELLA READING UNIVERSITY (UK)

Gli studi più interessanti nel campo dell’illuminazione di emergenza sono stati condotti in Europa dall’Università di Reading (UK). Qui il dott. Geoffrey Cook è il direttore del Research Group for Inclusive Environment che si occupa di studiare in che modo l’ambiente luminoso e sonoro possa venire incontro ai bisogni delle persone con disabilità visive50. Uno dei progetti che vengono portati avanti è l’analisi dettagliata delle performance degli utenti ipovedenti in ambienti illuminati solo da apparecchi di emergenza. Questi studi hanno influenzato la stesura dei British Standards relativi. L’innovazione più interessante apportata ai sistemi di illuminazione di emergenza sperimentati dal Group for Inclusive Environment è l’installazione degli apparecchi al suolo. I sistemi luminosi wayfinding montati a terra offrono un nuovo approccio progettuale che sottolinea alcune manchevolezze associate al sistema tradizionale. Per esempio la ridotta visibilità in caso di incendio, la difficoltà nel seguire il percorso delineato esclusivamente dalla segnaletica di sicurezza e l’impossibilità di consultare le mappe di evacuazione in caso di emergenza. Il sistema luminoso wayfinding consiste in tracciati lineari composti da piccole sorgenti di luce che demarcano le uscite di sicurezza e si snodano lungo tutto il percorso di evacuazione, disponendosi in modo coordinato alla segnaletica di sicurezza. L’obiettivo del sistema è quello di dirigere in modo sicuro le persone verso e lungo le vie di fuga affinché vengano condotte nelle aree sicure senza interruzioni e limitando la

possibilità che possano perdersi nell’edificio o essere disorientate dalla situazione. Le normative che prevedono queste applicazioni sono BS 5266 Parte 2 e EN 60598-251. Per questi nuovi sistemi di illuminazione di emergenza vengono testate dall’università diverse tipologie di sorgenti, i differenti punti in cui gli apparecchi possono essere installati e due tipologie di tracciato luminoso: i sistemi composti da una sola linea di luce al centro del piano di camminamento o da due linee ai lati. Data l’attinenza con il tema trattato in questa tesi riportiamo i risultati delle sperimentazioni condotte dall’università sia in assenza che in presenza di fumo su utenti senza disabilità e/o ipovedenti.

Tutte le tabelle sono tratte da Lightning Research & Technology, n° 2, 1999, pag. 35-45


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6.1 La sperimentazione su utenti ipovedenti

pianta del percorso di evacuazione fittizio allestito per le sperimentazioni

Questo studio condotto nel 199752 riporta le indicazioni progettuali dedotte dai test di 9 tipologie di sistemi wayfinding di illuminazione delle vie di fuga su 12 utenti senza disabilità e su 60 utenti con problemi alla vista. I disturbi della visione comprendono glaucoma, cataratta, retinopatie da diabete, degenerazione maculare e retinite pigmentosa; 15 utenti utilizzano il bastone bianco. Poiché solo il 5% delle persone non vedenti è insensibile a bagliori53 basare un sistema di emergenza sulla luce è sostanzialmente opportuno anche per quelle fasce di utenza che presentano una menomazione visiva. Gli utenti ipovedenti possono avere sia un campo di visione molto ristretto sia una bassa acuità visiva (o la combinazione dei due). Il campo di visione è in generale la quantità di spazio che una persona vede senza muovere gli occhi; l’acuità visiva è il livello di dettaglio che gli occhi riescono a percepire. Una menomazione alla vista può includere: _Perdita di visione periferica: le porte di sicurezza o i gradini lungo il percorso possono non essere notati _Perdita della visione centrale: conduce ad una perdita dell’acuità visiva e alla sparizione degli oggetti che sono guardati direttamente _Perdita di visione a macchie: gli oggetti appaiono e scompaiono nel campo visivo a seconda del movimento dell’utente _Suscettibilità all’abbagliamento, per esempio, nel caso di cataratta, le occlusioni sulle lenti diffondono la luce peggiorando la percezione dei contrasti e annebbiando i dettagli


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_Problemi di percezione al cambiare dei livelli di illuminamento: questi causano cecità temporanea sia in seguito ad abbagliamento sia quando si entra in una stanza in penombra provenendo da una ben illuminata. _Bassa acuità visiva che porta a percepire lo spazio come annebbiato e confuso, causando problemi nella lettura. Lo scenario dei test viene allestito negli edifici BRE (Building Research Establishment)54, è lungo 29 m e comprende un ufficio, corridoi e scale. La ricerca ha classificato l’efficacia delle diverse soluzioni di illuminazione sulla base dell’acuità visiva possibile per ogni sistema, della velocità di percorrenza delle vie di fuga e del grado di soddisfazione/difficoltà espresso dai volontari attraverso questionari orali. La prova del sistema si svolge con questa procedura: il teste entra in ufficio e siede alla scrivania per 10 minuti, sul piano della scrivania l’illuminamento è di 400 lux. Il tempo di permanenza nell’ufficio è necessario all’occhio per adattarsi al tipo di illuminamento presente. Successivamente l’illuminazione ordinaria viene spenta e viene attivato uno dei 9 sistemi di illuminazione, l’utente deve uscire dall’ufficio, percorrere le scale e i corridoi attraversando due porte (A,B) fino a giungere all’uscita di sicurezza fittizia (C) e quindi ritornare all’ufficio. Dopo altri 10 minuti di adattamento ai 400 lux della stanza vengono compiute le prove sulle altre tipologie di illuminazione di emergenza. In questo lasso di tempo vengono poste ai volontari delle domande sul grado di difficoltà e soddisfazione rispetto alla soluzione appena testata.

Le prove vengono riprese con una telecamera per calcolare i tempi di percorrenza di tutte le sezioni del percorso e per valutare la facilità di movimento degli utenti. Quando tutti sistemi sono stati testati viene ripetuta la prova del primo: questo è utile per confrontare la differenza di velocità e agio nel percorrere la via di fuga nel caso in cui si conosca il tragitto e nel caso ci si trovi in un luogo per la prima volta. L’ordine in cui le varie soluzioni di illuminazione di emergenza sono presentate agli utenti segue la regola del sistema del quadrato Latino, questo per eliminare le distorsioni date dal fatto che è stato testato prima uno o l’altro sistema55.

6.1.1 Le tipologie dei sistemi di lluminazione testati vedi tabella B in appendice 3 sistemi di illuminazione tradizionale con apparecchi installati a soffitto e a parete a 2 m di altezza: - N: Illuminazione ordinaria con 10 apparecchi a soffitto (7 nei corridoi, 3 sulle scale) che forniscono un illuminamento minimo di 24 lux sulla linea centrale del piano di camminamento; sono presenti 3 apparecchi nell’ufficio - O: Illuminazione di emergenza base composta da 5 apparecchi con sorgente fluorescente da 4 watt che forniscono un illuminamento minimo di 0,7 lux nei corridoi56, e da un altro apparecchio fluorescente alla fine delle scale che fornisce minimo 1,1 lux. Un segnale di uscita con pittogramma retroilluminato (sorgente fluorescente) è posto sopra l’uscita di sicurezza. Gli altri segnali direzionali non sono retroilluminati ma


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rispondono alla normativa - O2: Illuminazione di emergenza (con disposizione degli apparecchi come in O) con sorgente fluorescente potenziata, illuminamento minimo di 2,5 lux nei corridoi e di 4 lux sulle scale. Un segnale di uscita con pittogramma retroilluminato è posto sopra l’uscita di sicurezza. Gli altri segnali direzionali non sono retroilluminati ma rispondono alla normativa. 4 sistemi di illuminazione wayfinding elettrificata: - E: Sistema wayfinding elettroluminescente: una coppia di tracciati elettroluminescenti larghi 5 mm sono posizionati sui due lati del corridoio, delle scale e nell’atrio tra l’ufficio e il corridoio. Questi tracciati sono installati ad un’altezza compresa tra 110 e 120 mm dal suolo, mentre sulle scale sono posizionati sul piano di camminamento. Le porte A,B,C hanno il profilo illuminato dalla traccia elettroluminescente, ma il tracciato non è continuo all’interno della porta. Sono presenti 8 segnali direzionali nel percorso e segnali di uscita sopra l’ultima porta. 5 di questi segnali sono posizionati nel corridoio, 4 ad una altezza di 400 mm ed uno a 1580 mm. Altri due sono alla fine delle scale (a 400 mm e 1580 mm) e nell’ufficio c’è un segnale di uscita di sicurezza sulla porta. Sul lato destro del corridoio la segnaletica ha una luminanza di 30 cd/m² e la traccia di 78 cd/m²; sul lato sinistro invece il segnale 10 cd/m² e la traccia ha 8 cd/m². L’illuminamento minimo è di 0,1 lux nei corridoi e di 0,2 lux sulle scale. - I: Sistema wayfinding con incandescenti miniaturizzate: la traccia luminosa è installata su entrambi i lati del corridoio ad un’altezza di 180 mm (sulle scale sono invece al suolo). Il profilo delle porte A,B,C è illuminato, ma il tracciato non è continuo

all’interno della porta. Le sorgenti utilizzate sono lampade ad incandescenza miniaturizzate da 100 mcd, distanziate di 100 mm una dall’altra. Non sono presenti segnali direzionali speciali, ma solo quelli non retroilluminati previsti dalla normativa. L’illuminamento minimo è di 0,3 lux nei corridoi e di 1,1 lux sulle scale - L1: Sistema wayfinding con LED variante 1: questo sistema è installato allo stesso modo del sistema elettroluminescente, l’altezza di montaggio però qui è tra i 200 mm e i 240 mm. Il profilo della porta B non è sottolineato ma la traccia continua attraverso la porta. La segnaletica di questo sistema è interamente pittorica, il segnale (1380x80 mm) posto sulla porta C è composto da LED da 140 mcd. I segnali direzionali sono frecce costituite da 13 LED da 140 mcd montate ad un’altezza compresa tra 800 e 900 mm. Sono presenti 12 frecce nel corridoio, 2 sulle scale, 1 sul pianerottolo e 2 nell’ufficio. Su ogni pedata dei gradini sono montati 6 LED da 15 mcd. I tracciati invece montano LED da 35 mcd ogni 25 mm che puntano verso il basso e ogni 100 mm che puntano verso l’alto. L’illuminamento minimo è di 0,45 lux nei corridoi e di 3,4 lux sulle scale - L2: Sistema wayfinding con LED variante 2: come la prima variante ma il tracciato è composto da un’unica linea e le scale non sono illuminate sulla pedata. L’illuminamento minimo è di 0,38 lux nei corridoi e di 3,4 lux sulle scale. 1 sistema wayfinding non elettrificato - P: Sistema fotoluminescente: una serie di tracce fotoluminescenti di altezza 100 mm vengono fissate sullo zoccolino o a pavimento su entrambi i lati del corridoio. Sulle scale sono fissate tracce di 80 mm sulla pedata e di 35 mm sul corrimano. Il profilo della porta


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A è sottolineato da una striscia di 15 mm, la porta C da uno di 50 mm. Un segnale fotoluminescente di sicurezza (120 mm) è installato ad un’altezza di 1150 mm sopra la porta C. Lungo la via di fuga sono presenti 9 segnali direzionali, 5 ad un’altezza dal suolo di 600 mm, gli altri a 1700 mm. Le strisce vengono illuminate da sorgenti incandescenti per almeno 10 minuti prima del test. 1 sistema wayfinding composto - LO: combinazione del sistema tradizionale di illuminazione di emergenza a parete e del sistema wayfinding con LED variante 3: l’illuminazione di emergenza tradizionale fornisce l’illuminamento al suolo della vie di fuga insieme ai LED che puntano verso l’alto come nel sistema LED variante 2. I LED sulla pedata delle scale non sono in funzione. L’illuminamento minimo è di 1,2 lux nei corridoi e di 1,3 lux sulle scale. La sperimentazione è stata condotta in due fasi, ognuna con 30 volontari ipovedenti. La Fase I prende in considerazione l’illuminazione ordinaria N, e i sistemi O, E, I, L1, L2 e P. La Fase II è stata introdotta in seguito per verificare i cambiamenti delle prestazioni nel caso in cui il sistema di illuminazione di emergenza base fornisse un illuminamento maggiore (O2) e nel caso in cui venissero combinati più sistemi (LO). Per ottenere dei termini di paragone sono stati testati anche sul secondo campione di 30 volontari i sistemi O, L, I e L2.

6.1.2 La valutazione dei diversi sistemi Lo studio ha classificato i diversi sistemi in base all’acuità visiva consentita dal livello di illuminamento fornito e dalla velocità di evacuazione. La percentuale del numero di soggetti che sono stati in grado di leggere un’intera linea del test dell’acuità visiva (Snellen Chart) nella Fase I e II è mostrata nelle tabelle seguenti. Viene qui mostrata la relazione tra la percentuale totale di soggetti che sono stati in grado di leggere un’intera riga della Snellen Chart e l’altezza della lettere. Nel primo grafico la prova è stata condotta in condizioni di illuminazione di emergenza (da 1.43 lux a 2.65 lux), la seconda di illuminazione ordinaria (illuminamento di 92.1 lux sulla tabella Snellen). La tabella mostra come nella Fase II gli utenti ipovedenti abbiano un’acuità visiva maggiore di quella nella Fase I. La variazione dell’acuità visiva dei soggetti non ha però effetti significativi sulle loro performance; anche analizzando le risposte ai questionari non si possono trovare responsi migliori dati dalla maggiore acuità.


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Per quanto riguarda la velocità di evacuazione, invece, sono state prese in considerazione sei diverse sezioni del percorso: dall’alzarsi dalla scrivania all’uscire dall’ufficio (office outward), dall’inizio alla fine della rampa di scale (stairway outward) e dalla fine delle scale all’uscita di sicurezza fittizia (corridor outward). Le velocità vengono inoltre misurate nei tratti di ritorno (corridor return, stairway return, office return). Mettendo a confronto tutti gli 8 sistemi elettrificati si è visto che, eccetto per l’illuminazione ordinaria che fornisce un illuminamento di 24 lux al suolo (sistema che permette una velocità di cammino leggermente più veloce), tutti gli altri 7 sistemi hanno permesso agli ipovedenti di camminare a velocità simili. La tabella in alto a sinistra si riferisce alla Fase I di sperimentazione, quella in alto a destra alla Fase II.

6.1.3 Confronto tra le velocità dei due gruppi di volontari (con e senza disabilità) Nella Fase I della sperimentazione (tabella in basso a sinistra) i volontari ipovedenti camminano tra 0,43 e 0,87 la velocità degli utenti normali mentre nella Fase II (tabella in basso a destra) i valori vanno da 0,54 a 0,86. Questi risultati suggeriscono che i sistemi O2 e LO aiutano le persone con disabilità visive a camminare più velocemente, in relazione alla velocità delle persone normali.


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6.1.4 I risultati dei questionari La domanda posta ai volontari è:”Quanto è stato difficile vedere dove andare sulle scale/nel corridoio?”. La risposta può essere un punteggio compreso tra 1 (molto semplice) e 7 (molto difficile). Punteggi bassi, sotto il 4, indicano che il sistema di illuminazione permette alla persone di vedere bene dove stanno andando. Le tabelle a sinistra si riferiscono ai risultati ottenuti sulle scale, quelle sulla destra nel corridoio. La barra mostra l’intervallo di errore standard. Al sistema fotoluminescente è stato arbitrariamente attribuito un valore di illuminamento pari a 0.002 lux.

Fase I (sopra): i volontari con disabilità visive ritengono che sia molto difficile vedere dove andare quando viene utilizzato il sistema P, infatti questo ha punteggi particolarmente negativi sia sulle scale che nel corridoio. Anche i risultati con il sistema O sono negativi rispetto ai sistemi E, I, L1 e N. Si può notare che i sistemi wayfinding, in generale, facilitano la visione del luogo rispetto al sistema tradizionale base di emergenza a parete O. Fase II (sotto): si nota ancora che il sistema O è particolarmente peggiore dei sistemi O2, LO, L1 e L2. I risultati suggeriscono che i 6 LED che segnano la pedata dei gradini sono molto apprezzati. I valori ottenuti nel corridoio sono comparabili a quelli delle scale, sebbene i sistemi L2 e I siano significativamente più negativi di O2, LO e L.


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Fase I

Fase II

Quando questi risultati vengono confrontati con quelli degli utenti senza disabilità si vede che, come è facilmente intuibile, le persone con problemi alla vista trovano molto più difficile vedere dove andare. Per tutti e tre i sistemi (P,O,I) che sono stati comparati tra i due gruppi di utenti, i punteggi medi degli utenti ipovedenti sono significativamente più alti, e quindi peggiori, di quelli degli utenti senza disabilità. Il sistema I è quello che ha una variazione accettabile (1,8 per utenti normali e 3,0 per utenti con problemi) invece O ha un cambiamento più serio: da 1,7 a 4,6 (tenendo in considerazione il fatto che la sufficienza minima di punteggio è 4). Per P la situazione è simile, infatti si ha 3,5 per gli utenti senza disabilità e 6,2 per i volontari ipovedenti; questo significa che le opinioni cambiano dall’essere “più che sufficiente” per l’utente normale a “molto difficile” per gli ipovedenti.

Sia i volontari ipovedenti che quelli con piene facoltà visive sono interrogati anche a proposito della brillantezza del sistema. Le tabelle qui sopra mostrano i punteggi ottenuti con le risposte alla domanda: ”Quanto hai trovato fastidiosa la brillantezza del sistema?” 1= troppo poco brillante 7= troppo brillante Confrontando i diversi sistemi di illuminazione la soluzione O è quella che viene indicata come la più debole rispetto a tutte le altre, il sistema L è quello che viene dichiarato come il più luminoso anche se il livello di illuminamento medio che fornisce sulla linea mediana del piano di camminamento è meno della metà di quello fornito da O2.


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6.1.5 Linee giuda per l’illuminazione di emergenza wayfinding I sistemi di illuminazione di emergenza wayfinding dovrebbero seguire questi principi di progettazione: _Fornire un illuminamento minimo di 3 lux sul piano di camminamento sia delle scale che dei corridoi nei luoghi con afflusso di utenti con disabilità visive _Rendere l’illuminazione delle vie di fuga il più chiara e semplice possibile (gli utenti ipovedenti hanno maggiori difficoltà nel comprendere gli ambienti). In questo caso non vale la regola “più informazioni vengono fornite, migliore è il sistema”. Le persone devono trovare le informazioni essenziali tra molte distrazioni: un modo per fornire solo informazioni utili è quello di progettare un percorso luminoso il più continuo possibile _Mantenere l’illuminazione il più possibile uniforme: non devono essere presenti aree particolarmente illuminate o buie che possono causare problemi di adattamento alla pupilla. Questo problema deve essere tenuto particolarmente in considerazione se l’illuminamento generale è molto basso o molto alto _Identificare ogni porta di sicurezza lungo il percorso di fuga e la porta di uscita finale _Guidare la persone verso queste uscite utilizzando un tracciato wayfinding installato a terra + un sistema di segnaletica a terra e a parete _Enfatizzare i cambiamenti di livello, come nel caso di scale, scalini singoli e rampe _Indicare la localizzazione delle attrezzature e dei punti di chiamata per l’allarme antincendio e pronto soccorso. Le ricerche dell’università forniscono anche delle indicazioni riguardo i livelli di illuminamento, il posizionamento degli apparecchi e le tipologie di sorgenti e di segnaletica da utilizzare in relazione alle diverse ambientazioni in cui il sistema può essere applicato.

Ufficio: la parte più lenta del percorso è quella in cui l’utente deve lasciare l’ufficio, questo perché i volontari ipovedenti trovano difficile localizzare la porta: più del 10% ha impiegato più di 30 secondi per attraversare i 3 metri che separano la sedia della scrivania dall’uscita della stanza e il 6% ha utilizzato più di 1 minuto. Per questo motivo può essere dimostrato che, sebbene l’ufficio sia piuttosto piccolo e ai volontari venga detto che il percorso comincia “dalla porta aperta di fronte a loro”, quando si tratta di alzarsi dalla sedia per lasciare la stanza le persone con disabilità visive impiegano più tempo, incorrono in errori e hanno bisogno di diversi tentativi. Questo è chiaramente dimostrato dal fatto che nel percorso di ritorno camminano ovunque tra l’80% e il 130% più velocemente. Questo fenomeno si è verificato anche nelle prove con utenti senza disabilità anche se la differenza tra il percorso di andata e ritorno è meno marcata, circa del 40% più veloce nel ritorno, ad eccezione del sistema fotoluminescente per il quale non ci sono particolari variazioni. Una spiegazione di questi risultati può essere il fatto che le persone con disabilità visive necessitino di un tempo maggiore per adattare la pupilla al cambiamento di intensità luminosa, tale variazione può infatti renderli completamente ciechi per un po’. Questa ipotesi è suffragata dal fatto che la differenza tra le velocità medie dei diversi sistemi testati è molto bassa. L’unica differenza significativa è quella tra il sistema fotoluminescente e l’illuminazione ordinaria. Corridoi: tracciati lungo i muri Nei corridoi che fanno parte delle vie di fuga, un sistema di illuminazione montato a parete su entrambi i lati del corridoio, ad un’altezza minore di 250 mm, dà una buona indicazione del livello del pavimento e della posizione


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delle pareti, fornendo un’illuminazione diretta del suolo. I colori raccomandati per i tracciati sono il bianco e il verde. Sebbene sia molto più economico avere solo una traccia luminosa su un unico lato del corridoio quando questo è largo meno di 2 m, è preferibile avere una traccia su ogni lato del corridoio per sottolineare la via di fuga e mostrare l’ampiezza del corridoio. I tracciati creati dalle linee luminose dovrebbero essere il più continui possibile. Quando non è possibile installare sulle pareti tracciati continui, come nel caso in cui si incontrino porte lungo il percorso di evacuazione, dovrebbero essere installati altri tratti di tracciato per superare il gap di segnalazione. Questo può essere fatto con strisce fotoluminescenti che attraversano la porta alla stessa altezza dei tracciati a parete. Spostare il tracciato luminoso al suolo quando si incontrano porte fornisce una segnalazione più continua, ma può essere confuso con una segnalazione di cambiamento di livello. È importante che il metodo utilizzato per rendere il tracciato continuo non induca in false impressioni. Il sistema dei tracciati deve permettere la visione diretta della sorgente luminosa da tutti gli approcci possibili. Questo suggerisce un intervallo di altezza di visione da 600 mm a 1800 mm per una distanza orizzontale tra l’utente e il muro di circa 200 mm o più. La distribuzione angolare del flusso della sorgente dovrebbe essere quindi abbastanza ampia. La luce dei tracciati deve essere visivamente evidente rispetto allo sfondo.

Tracciati al suolo I tracciati al suolo possono essere costituiti sia da 2 linee che segnano i limiti delle vie di fuga, o da una sola linea che funziona come una linea guida da seguire. I tracciati luminosi al suolo possono essere usati per delineare un percorso in spazi aperti, dove l’installazione a muro non è possibile. Il sistema al suolo non fornisce luce diretta sul pavimento, ma solo indiretta data dalla riflessione sulle superfici circostanti. Anche se le linee luminose sono molto efficaci per l’orientamento, gli ostacoli potrebbero essere più difficili da vedere a meno che non ostruiscano la linea stessa. Scale e altri cambiamenti di livello Scale, gradini singoli e rampe sono le parti delle vie di fuga che dovrebbero essere marcate in modo particolarmente accurato perché sono la parte del percorso di evacuazione più insidiosa. Sarebbe preferibile avere le tracce luminose su ogni gradino delle scale oppure marcare sia la pedata che l’alzata, se questo non è possibile è utile posizionare i tracciati almeno sul primo e sull’ultimo gradino. Anche lo zoccolino può essere sottolineato con il percorso luminoso (da entrambi i lati se la scala è più profonda di 1 m altrimenti da un solo lato). Nel caso in cui nessun apparecchio possa essere applicato a terra, le battute devono essere almeno fortemente contrastate.


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Tracciato del profilo delle uscite di sicurezza Le uscite di emergenza e le porte intermedie delle vie di fuga dovrebbero avere il profilo sottolineato dal tracciato. Questo deve essere visibile da ogni possibile angolo di approccio da almeno 30 metri. I profili delle altre porte non dovrebbero essere sottolineati. Segnaletica per uscite di sicurezza e per le vie di fuga I segnali sono richiesti per assicurare che, durante un’emergenza, le vie di fuga siano chiaramente riconoscibili e possano essere seguite da ogni punto fino ad un luogo sicuro. I segnali per le uscite di sicurezza devono essere posizionati sia in alto che in basso. Un segnale in alto (da 2 m a 2,5 m) sarà visibile sopra le teste delle persone in assenza di fumo, mentre un segnale basso (fino a 500 mm) fornirà una migliore visibilità in caso di incendio. Se il segnale viene installato al centro della porta, come nello scenario dei test, può causare abbagliamento, soprattutto se le sorgenti utilizzate sono LED; per questo motivo questa posizione è sconsigliata. La segnaletica luminosa è utile per gli ipovedenti, sia i segnali retroilluminati che i pittogrammi composti da sorgenti puntiformi sono molto apprezzati. I cartelli devono essere abbastanza grandi da essere riconoscibili ad una distanza ragionevole. Le frecce, per essere visibili da 1 m di distanza, devono essere alte almeno 35 mm, i simboli e i pittogrammi almeno 150 mm. Segnali composti da molte sorgenti possono essere più difficili da leggere rispetto agli apparecchi con serigrafia retroilluminata, ma sono visibili da una distanza maggiore. I segnali con sorgenti puntiformi progettati per funzionare a massima intensità in caso di fumo possono essere troppo brillanti in condizioni normali.

Questi segnali possono essere progettati per operare ad una intensità minore in assenza di fumo e a quella massima in caso di incendio. I tracciati e i segnali fotoluminescenti testati nell’edificio BRE sono risultati non adeguati per utenti con problemi alla vista ed il loro utilizzo non è consigliato. Questo perché lo scenario risulta troppo buio, le persone comminano molto più lentamente rispetto agli altri sistemi ed è più facile che perdano l’orientamento.


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6.1.6 Conclusioni sulla sperimentazione con utenti ipovedenti Le ricerche condotte negli edifici BRE hanno dimostrato che i sistemi wayfinding elettrificati permettono agli utenti (con e senza disabilità) di camminare a velocità equiparabili o più elevate di quelle ottenute con i sistemi di illuminazione a parete tradizionali. Inoltre questi sistemi offrono una migliore visibilità del percorso di evacuazione e facilitano l’orientamento. Infatti gli utenti con disabilità visive ritengono che i sistemi di illuminazione tradizionali a parete non permettano loro di vedere bene dove andare quanto i sistemi wayfinding elettrificati: la tabella delle velocità designa O come il quinto sistema più lento (seguito solo da quello fotoluminescente). Questa preferenza non è direttamente correlata ai livelli di illuminamento forniti, anche se le normative enfatizzano sempre questo dato. I risultati mostrano quindi che le soluzioni wayfinding, che seguono le raccomandazioni precedentemente esposte, sono preferibili ai sistemi di illuminazione di emergenza a parete che forniscono un illuminamento di 1 lux al suolo. La combinazione di un sistema di luci di emergenza tradizionale con un sistema wayfinding di segnaletica luminosa con sorgenti LED (LO) è da ritenersi la soluzione più efficace.


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6.2 Lo studio dell’effetto del fumo sulla velocità di camminamento degli utenti Dopo aver condotto le sperimentazioni dei sistemi di illuminazione di emergenza su utenti ipovedenti, il Research Group for Inclusive Environment si è occupato di studiare quali effetti avessero gli ambienti con l’aria satura di fumo sulle velocità di evacuazione e quali soluzioni illuminotecniche agevolassero di più l’orientamento e i movimenti delle persone. Riportiamo i risultati dei test condotti su 18 volontari senza disabilità che hanno dovuto percorrere, in presenza di fumo, la stessa via di fuga fittizia utilizzata precedentemente. L’illuminazione viene fornita da 6 diversi sistemi. Le velocità di evacuazione vengono analizzate per mostrare quale soluzione illuminotecnica permetta alla persone di camminare più velocemente. Sono presi in considerazione 4 sistemi di illuminazione wayfinding, un sistema di illuminazione d’emergenza tradizionale che risponde alle normative e una soluzione di illuminazione in funzione normalmente. Quest’ultimo esempio è stato analizzato perché è possibile che le persone debbano lasciare un edificio in caso di incendio senza che l’impianto di emergenza entri in funzione, quindi con tutte le luci accese. Il fumo viene ottenuto da un fluido a base minerale, è bianco57 e non tossico. La densità ottica media nel corridoio è di 1,1 m¯¹ e di 1,2 m¯¹ nel pozzo delle scale. Non c’è alcuna variazione significativa della densità del fumo per le diverse tipologie di illuminazione testate. Il percorso di evacuazione, come nel caso della sperimentazione con persone ipovedenti, comincia in un ufficio con un’illuminazione di 400 lux: l’utente

deve uscire dalla porta, percorrere un piccolo pianerottolo, scendere un piano di scale fino ad un corridoio composto da due sezioni (una corta di 6 m e una lunga di circa 13 m) che porta all’uscita di emergenza. Lo scenario viene allestito negli edifici BRE. La velocità di evacuazione dei soggetti viene calcolata grazie alle riprese compiute con telecamere ad immagini termiche e sensibili ad una bassa intensità luminosa. Prima dei test viene anche chiesto agli utenti di lasciare cadere un segnalino nel punto del percorso in cui possono riconoscere i segnali luminosi di uscita di emergenza disposti lungo la via di fuga. Tra una prova e l’altra, l’utente rimane nell’ufficio per 10 minuti affinché la pupilla si adatti ad un illuminamento di 400 lux, in questo tempo gli vengono poste delle domande circa il grado di soddisfazione/difficoltà dei vari sistemi. I 18 soggetti non hanno problemi alla vista, hanno un’età compresa tra i 23 e i 63 anni. Partecipano 11 donne e 7 uomini.


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6.2.1 Le tipologie dei sistemi di illuminazione testati vedi tabella C in appendice Illuminazione ordinaria: 9 apparecchi con fluorescenti a soffitto (6 nei corridoi, 2 sulle scale) che forniscono un illuminamento minimo di 166 lux sulla linea centrale del piano di camminamento; è presente un segnale fluorescente (164x394 mm apparecchio conforme alla norma) montato ad un’altezza di 1,7 m sopra la porta di sicurezza e un segnale direzionale (130x430 mm grafica conforme alla norma) illuminato esternamente da 80 lux ed installato nella congiunzione tra i due corridoi. Illuminazione di emergenza tradizionale a parete: 6 apparecchi con sorgente fluorescente da 4 watt che forniscono un illuminamento minimo di 0,7 lux nei corridoi58. Un segnale di uscita con pittogramma retroilluminato (sorgente fluorescente,164x394 mm apparecchio conforme alla norma) è posto sopra l’uscita di sicurezza a 1,7 m. L’unico segnale direzionale (149x210 mm grafica conforme alla norma) presente non è retroilluminato ma sfrutta una luce incidente di circa 6 lux Sistema wayfinding elettroluminescente: sistema composto da un tracciato elettroluminescente singolo largo 24 mm, posizionato ad un’altezza di 1 m dal suolo. Le porte A,B,C hanno il profilo illuminato dalla traccia elettroluminescente. Il tracciato ha una luminanza compresa tra 18 e 26 cd/m². Sono presenti segnali tattili direzionali direttamente applicati sulla striscia ogni 260 mm, nell’ufficio c’è un segnale di sicurezza elettroluminescente. Sono inoltre presenti 2 segnali retroilluminati (uno sulla porta e uno

direzionale) di dimensioni 150x210 mm installati ad un’altezza di 1,5 m. L’illuminamento minimo è di 0,25 lux nei corridoi. Sistema wayfinding con incandescenti miniaturizzate: la traccia luminosa è installata su entrambi i lati del corridoio ad un’altezza di 180 mm (sulle scale sono invece al suolo). Il profilo delle porte è illuminato. Le sorgenti utilizzate sono lampade ad incandescenza miniaturizzate da 100 mcd, distanziate di 100 mm una dall’altra. È presente un unico segnale direzionale (130x430 mm grafica conforme alla norma) illuminato esternamente da 1 lux ed installato nella congiunzione tra i due corridoi a 1,7 m dal suolo. Sopra la porta di sicurezza è montato ad un’altezza di 1,7 m un segnale fluorescente di uscita (164x394 mm apparecchio conforme alla norma). L’illuminamento minimo nei corridoi è di 0,58 lux. Sistema wayfinding con LED variante 1: sistema composto da due tracciati, l’altezza di montaggio a parete è tra i 200 mm e i 240 mm. I tracciati montano LED da 35 mcd ogni 25 mm che puntano verso il basso e ogni 100 mm che puntano verso l’alto. Il profilo della porta di emergenza finale è sottolineato dalla traccia luminosa con LED da 35 mcd ogni 50 mm. La segnaletica di questo sistema è interamente pittorica, il segnale posto sulla porta finale è installato a 1,4 m da terra. Sono presenti 17 frecce direzionali composte da LED alte 50 mm e montate ad un’altezza compresa tra 800 e 900 mm. Su ogni pedata dei gradini sono montati 6 LED da 15 mcd. L’illuminamento minimo nei corridoi è di 0,25 lux


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pianerottolo

Sistema wayfinding con LED variante 2: sistema composto da due tracciati installati a terra nel corridoio e a parete sulle scale (nello stesso modo di LED variante 1). I tracciati montano triplette di LED raggruppati ogni 200 mm. Il massimo picco della tripletta è di 140 mcd. Sono presenti 17 frecce direzionali composte da LED alte 50 mm e montate ad un’altezza compresa tra 800 e 900 mm. Il profilo della porta di emergenza è sottolineato fino all’altezza della maniglia (1230 mm). Qui è anche presente un segnale di uscita retroilluminato da LED con picco di intensità di 117 mcd. Le lettere sono alte 48 mm con uno spessore di 7 mm. Nel corridoio l’illuminamento minimo è di 0,16 lux, questo perché i tracciati installati al suolo producono luce verso l’alto per dare l’informazione luminosa all’occhio, ma non illuminano direttamente il suolo.

6.2.2 I risultati I tempi di percorrenza sono calcolati in 4 sezioni: il pianerottolo, le scale, il corridoio corto e il corridoio lungo. Pianerottolo : in questo punto l’utente deve cercare l’inizio delle scale. I due sistemi di illuminazione da parete o da soffitto fanno in modo che gli utenti camminino in modo molto più lento rispetto agli altri sistemi wayfinding, soprattutto con LED e con incandescenti. Scale : i volontari scendono le scale con l’illuminazione ordinaria o di emergenza base in molto più tempo rispetto a quello impiegato con i sistemi LED o elettroluminescenti

scale


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corridoio corto

Corridoio corto: come negli altri casi i sistemi di emergenza tradizionale e l’illuminazione ordinaria sono i più lenti rispetto ad entrambi i sistemi LED e alla soluzione con elettroluminescenti. Il sistema LED 1 è particolarmente efficace. Si può notare che le persone camminino molto più velocemente con sistemi con tracciati montati a terra piuttosto che con sistemi a parete che producono al suolo un illuminamento dieci volte più grande.

Corridoio lungo: qui il sistema wayfinding a terra più lento permette una velocità di camminamento di 0,75 m/s mentre il più veloce di quelli a soffitto 0,53 m/s. Un’altro dato interessante è che non esistono particolari differenze di velocità per i due sistemi LED testati nel corridoio lungo: in un caso il tracciato è a 220 mm da terra con un illuminamento minimo di 0,3 lux, nell’altro è sul piano di camminamento e fornisce la metà dei lux del primo sistema. Questa differenza di illuminamento non comporta variazioni di velocità, anche se probabilmente questo risultato è influenzato dal fatto che entrambi i sistemi utilizzino un sistema di segnalazione con frecce LED.

corridoio lungo


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6.2.3 Conclusioni sulla sperimentazione dei sistemi di illuminazione di emergenza in ambienti con fumo I sistemi di illuminazione di emergenza tradizionale e l’illuminazione ordinaria fanno sì che gli utenti impieghino molto più tempo a percorrere le vie di fuga rispetto ai sistemi wayfinding a terra, anche se questi forniscono un illuminamento al suolo particolarmente basso. Aumentare i lux a terra non è quindi un buon metodo per incrementare la velocità di camminamento. Infatti quando il fumo viene illuminato dall’alto da apparecchi a soffitto viene impedita la visione dell’ambiente poiché viene notevolmente ridotta la distanza massima di visione. L’efficacia dei sistemi wayfinding non è solo legata all’illuminamento prodotto, ma è soprattutto correlata al fatto che vengono dati all’utente dei suggerimenti visivi continui che sottolineano la struttura della via di fuga e delle porte di emergenza. Nel caso si utilizzino apparecchi a terra sono quindi più importanti i valori delle curve fotometriche delle sorgenti, il posizionamento e l’orientamento del flusso luminoso.


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6.3 Lo studio dell’effetto del fumo sulla distanza di riconoscimento della segnaletica Questo studio riporta i risultati delle sperimentazioni su 6 sistemi di illuminazione e segnalazione di emergenza condotti negli edifici BRE. Lo scopo della ricerca è quello di stimare qual è la distanza massima alla quale sono visibili i componenti dei sistemi wayfinding in presenza di fumo. Lo scenario che si presenta in caso di incendio viene simulato con l’utilizzo di filtri metallici a densità neutra che vengono posti di fronte agli occhi dei volontari. Questo metodo elimina le problematiche connesse all’utilizzo di fumo fittizio: è difficile mantenere costante la densità del fumo e risulta complesso a livello logistico compiere prove a diversa densità ottica. Gli svantaggi connessi con l’utilizzo di questi filtri, invece, sono quelli per cui non è possibile replicare la diffusione della luce, l’irritazione degli occhi e delle vie respiratorie date dal fumo. Le prove sono state condotte in un corridoio di circa 13,7 m. Il volontario, dopo l’adattamento ad un’illuminazione di 0,3 lux, deve camminare lungo il corridoio guardando attraverso una particolare combinazione di filtri a densità neutra finché il componente da testare (un segnale luminoso direzionale o di uscita, la traccia di luce montata intorno alle porte, a terra o a parete) diventa riconoscibile. Questo intervallo tra il segnale e l’utente viene annotato in relazione al filtro utilizzato. La distanza alla quale il segnale può essere compreso (riconoscibilità) è più piccola rispetto a quella di visibilità, per la quale l’utente percepisce solo la luce.

Le osservazioni vengono compiute in posizione eretta (altezza degli occhi di circa 1600 mm) e i valori vengono calcolati come la distanza tra l’occhio e il componente. Questa procedura viene ripetuta per ogni sistema wayfinding utilizzando un intervallo prestabilito di densità ottiche.

6.3.1 Le tipologie di sistema testate A: sistema elettroluminescente con segnaletica installata sia al suolo che a parete in alto (altezza del segnale 150 mm, luminanza media 6 cd/m²); sistema di marcatura dei profili della porte e tracciato luminoso a terra (traccia continua, larghezza 5 mm, luminanza media 5 cd/m²)


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B: sistema con incandescenti miniaturizzate con tracciati sui profili delle porte e a terra (distanza tra le sorgenti di 100 mm, intensità media 100 mcd); segnaletica fluorescente retroilluminata (altezza del segnale 160 mm, luminanza media 935 cd/m²)

C: sistema LED con segnaletica a pittogrammi (altezza del segnale 80 mm, intensità media 140 mcd); sistema di marcatura dei profili della porte e tracciato luminoso a parete a 300 mm da terra (traccia sul profilo delle porte con LED ogni 50 mm, a parete ogni 100 mm, intensità media 140 delle sorgenti mcd)

D: sistema LED con segnaletica verticale (larghezza del segnale 50 mm, intensità media 120 mcd) sistema di marcatura dei profili della porte e tracciato luminoso a parete a 300 mm dal suolo e a terra composto da triplette di LED (spazio tra le triplette di 200 mm, intensità media 140 mcd)


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E: sistema fotoluminescente con segnaletica con pittogrammi (altezza di 125 mm); tracciato sul profilo delle porte (larghezza tracciato di 50 mm, luminanza di 0,042 cd/m² un minuto dopo che è stata tolta la fonte al tungsteno che ha eccitato la striscia fotoluminescente); traccia al suolo (larghezza 100 mm, luminanza 0,017 cd/m²) F: cartello con pittogramma illuminato esternamente dall’illuminazione di emergenza tradizionale

6.3.2 Risultati dei test con l’impiego di filtri a densità neutra Le performance luminose dei componenti sono state analizzate in termini di N, il valore della densità neutra totale in relazione alla distanza di visione, V, associata con la riconoscibilità. L’analisi dei dati ha portato alla formulazione empirica della seguente equazione: (1)

N = p [log10 V0 - log10 V] m

Dove V0 è la distanza a cui il segnale è visibile in assenza di fumo e senza filtri; p ed m sono costanti. I grafici seguenti mostrano i valori N in ascissa e di V in ordinata. Per valori di V fissi, più alta è la curva più grande è il valore di oscurazione del filtro (e quindi di densità del fumo) con il quale il segnale risulta ancora visibile. Il valore V0 è indicato dal valore di V dove la curva incontra l’asse orizzontale.

I segnali di uscita di sicurezza Il punto di vista dell’osservatore è approssimativamente perpendicolare al segnale. La performance migliore viene ottenuta con l’utilizzo di segnali di uscita di sicurezza composti da LED; la bassa visibilità del segnale con LED verticali è causata dalle dimensioni ridotte (altezza di 50 mm rispetto ai 75 mm del primo tipo) e dalla bassa intensità (circa la metà del primo). Il valore dell’indice di visibilità N del segnale elettroluminescente ad una distanza di 5 m è di circa 0,6 volte quello del pittogramma LED, questo valore si riduce a 0,3 volte ad una distanza di 30 m. Le prestazioni della soluzione con sorgente fotoluminescente sono particolarmente inferiori rispetto a quelle dei sistemi elettrificati. La curva del segnale LED verticale montato a terra si ferma alla distanza minima alla quale il segnale viene riconosciuto da una posizione eretta. Se le persone si inginocchiassero e camminassero carponi i segnali sarebbero visibili da una distanza inferiore, le curve per i vari sistemi sarebbero quindi diverse. La performance peggiore di questa serie di prove è quella dei cartelli illuminati dall’esterno.


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Tracciati luminosi sui profili delle porte In questi test il punto di vista del volontario è perpendicolare ai tracciati fino a quando l’utente non si trova vicino alla porta. I valori di N sono molto simili per la tripletta di LED e per i profili con incandescenti miniaturizzate, queste vengono seguite a poca distanza da i tracciati composti da LED da 35 mcd. Il valore dell’indice di visibilità N per il sistema elettroluminescente è 0,8 volte quello della tripletta di LED per distanze comprese tra 5 e 30 m.

Tracciati luminosi montati a muro e a parete La distanza dell’utente dal tracciato sul piano orizzontale è di 0,5 m. Le curve si fermano al valore della distanza minima di riconoscimento da una posizione eretta: in questo punto se gli utenti guardano al suolo riescono a vedere i tracciati, ma questi non sono più visibili se si guarda in avanti. In assenza di fumo la distanza di riconoscimento della fine dei tracciati è compresa tra 13 e 20 m, questo valore viene influenzato anche dalla prospettiva e dalla ristrettezza dell’area di proiezione della luce (in funzione dell’ampiezza di fascio). Le curve mostrano pattern più complessi per i tracciati luminosi rispetto a quelli ottenuti dalle prove con i segnali e i profili delle porte, in particolare le curve subiscono bruschi cambiamenti per distanze di visione basse a causa sia delle aree di proiezione sia del rapido cambiamento della distribuzione dell’intensità angolare della sorgente luminosa. Per distanze di osservazione minori di 8 m il sistema migliore è quello della tripletta di LED installati a terra, per intervalli maggiori di 8 m il valore di N è più alto con la soluzione ad incandescenti miniaturizzate.


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6.3.3 Risultati dei test con l’impiego di fumo fittizio Nel 1994 il Research Group for Inclusive Environment aveva compiuto degli studi sulla visibilità dei sistemi wayfinding in presenza di fumo simulato59. La procedura è la stessa delle prove con i filtri a densità neutra. La performance visiva dei componenti era stata analizzata nei termini del prodotto δV dove δ è la densità ottica del fumo espressa in m¯¹ e V e la distanza di visione in m. Il prodotto δV rappresenta la quantità totale di fumo tra l’osservatore e il componente da testare. In questa nuova serie di test sono stati rianalizzati i risultati ottenuti dalla sperimentazione del 1994 utilizzando un’equazione diversa che tiene in considerazione i dati delle caratteristiche di visibilità del sistema nei termini di N. L’effetto della diffusione della luce sulla visibilità dei componenti è espressa nella relazione empirica: (2)

δV = N - q [log10 V0 - log10 V] n

dove N è il valore ottenuto dalla relazione (1); q ed n sono costanti. Semplificando dalle equazioni (1) e (2) e assumendo n=m si ottiene δV=fN dove f è una costante relativa alla sorgente utilizzata e al tipo di fumo. La presenza dell’effetto di diffusione della luce produce un velo luminoso che riduce il contrasto tra il componente e il background. I valori più bassi di f (f =0,43) sono associati alle sorgenti luminose piane.

Valori maggiori sono invece correlati alle sorgenti puntiformi: f =0,5 per le incandescenti miniaturizzate; f =0,55-0,58 per i LED. I risultati qui riportati sono stati ottenuti mantenendo spente le luci di emergenza tradizionali, infatti qualsiasi illuminazione dall’alto in caso di incendio ridurrebbe notevolmente le distanze di visibilità dei sistemi wayfinding60. I grafici seguenti possono essere utilizzati per predire la visibilità dei componenti in presenza di fumo, nella prova i volontari percorrono un corridoio di 20 m.


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C: sistema LED f = 0,55 LED da 35 mcd (tracciati sui profili delle porte) f = 0,58 LED (pittogramma)

segnale di uscita e di circa 14 m per vedere i LED che compongono il profilo della porta. In queste posizioni ci sarà un gap tra la fine del tracciato a terra (non visibile) e il profilo della porta (visibile). Camminando in avanti di 16 m (cioè ad una distanza di 4 m dalla porta) il tracciato luminoso risulterà continuo. D: sistema LED a tripletta f = 0,58 LED

Prendendo il valore di densità ottica pari a 0,4 m¯¹, la distanza massima di riconoscibilità per il tracciato LED installato a 300 mm dal suolo è per i successivi 4,5 m. A questa densità ottica il tracciato, percepito da una posizione eretta, è riconoscibile sul piano orizzontale per i successivi 4,2 m. Con l’aumentare della densità ottica la riconoscibilità del tracciato si riduce: per una densità ottica di 1,8 m¯¹ il percorso luminoso non è più visibile. Il segnale e il profilo della porta ad una densità ottica di 0,4 m¯¹ non sono riconoscibili da 20 m: l’utente deve camminare avanti di 12 m per riconoscere il

La figura mostra che la massima distanza di riconoscibilità per il tracciato a parete e al suolo è rispettivamente di 6 m e di 5,6 m (distanze orizzontali di circa 5,9 m e di 5,4 m) per densità ottica pari a 0,4 m¯¹. L’utente deve camminare in avanti di 13,5 m per riconoscere il segnale di uscita e il profilo della porta.


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B: sistema con incandescenti f = 0,5 incandescenti dei tracciati sui profili delle porte e a parete f = 0,43 segnale con pittogramma retroilluminato da fluorescente

La figura mostra che la massima distanza di riconoscibilità per il tracciato a parete è di circa 4,8 m (distanza orizzontale di circa 4,5 m) per densità ottica pari a 0,4 m¯¹. L’utente deve camminare in avanti di 14 m per riconoscere il profilo della porta e di 15 m per il segnale di uscita.

A: sistema elettroluminescente f = 0,43 sorgente elettroluminescente

La figura mostra che la massima distanza di riconoscibilità per il tracciato a parete è di circa 4,2 m (distanza orizzontale di circa 3,8 m) per densità ottica pari a 0,4 m¯¹. L’utente deve camminare in avanti di 16 m per riconoscere il profilo della porta e il segnale di uscita.


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6.3.4 Conclusioni sulla sperimentazione delle visibilità dei componenti dei sistemi wayfinding in ambienti con fumo La combinazione dei tracciati installati a terra o a parete (a 300 mm dal suolo) con i marker dei profili delle porte, cioè la formazione di un tracciato luminoso continuo, rende più semplice l’orientamento rispetto all’utilizzo della segnaletica di direzione e delle uscite di sicurezza. La presenza di apparecchi che emettono luce dall’alto (ordinari o di emergenza) riduce il contrasto e produce una diffusione della luce che non facilita l’utente. Infatti i sistemi wayfinding che utilizzano sorgenti puntiformi con intensità assiale più grande di 100 mcd hanno performance di visibilità migliori rispetto alle soluzioni di illuminazione da soffitto o da un’altezza superiore ai 2 m. Quando un sistema wayfinding è installato in combinazione con l’illuminazione di emergenza tradizionale, in caso di incendio il potenziale di visibilità è altamente compromesso, in presenza di fumo il sistema wayfinding deve essere l’unico ad entrare in funzione.

50 Il progetto Rainbow, per esempio, ha portato a definire quale sia la differenza limite di luminanza tra più punti di uno spazio per un utente con problemi alla vista 51 fonte Gerard Honey, Emergency and security lighting, Newnes, 2001 52 Nella trattazione si fa riferimento anche alla ricerca condotta nel 1993 su utenti senza disabilità 53 i bagliori, si è scoperto, aiutano maggiormente i non vedenti nell’orientamento dei segnali acustici 54 edifici interni al campus universitario in cui vengono allestiti tutti i set per le sperimentazioni 55 man mano che l’utente prova le diverse soluzioni impara il percorso, questo porta ad un abbassamento della velocità di percorrenza 56 dal 1999 secondo la normativa europea l’illuminamento minimo richiesto sulla linea mediana del piano di camminamento è di 1 lux 57 Anche il colore del fumo, che dipende dal tipo di materiale che sta bruciando, modifica la distanza di visibilità massima: con l’illuminazione ordinaria accesa il fumo bianco oscura la segnaletica illuminata in modo più accentuato rispetto a quello nero o marrone, se sono in funzione solo i sistemi wayfinding il colore del fumo non è rilevante. 58 dal 1999 secondo la normativa europea l’illuminamento minimo richiesto sulla linea mediana del piano di camminamento è di 1 lux 59 lo stesso utilizzato nei test sulla velocità di evacuazione 60 vedi capitolo 6.2.3


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7. IPOTESI PROGETTUALI PER UN NUOVO SISTEMA DI ILLUMINAZIONE DI EMERGENZA

“La luce si pone come elemento di guida, orientamento e assistenza, sia nell’ambito domestico che in quello collettivo, oltre a quello eccezionale dello stato di pericolo”. M. Vitta, L’arca n° 166, 2002

Poiché è possibile attuare alcune variazioni sulle modalità di segnalazione di emergenza, in base al Decreto Legislativo n° 493 del 199661, viene proposto il progetto di un sistema di segnalazione di emergenza wayfinding a terra. Come è già stato sottolineato nel capitolo 2.2.3, paragrafo 4, una fonte luminosa (se progettata per questo scopo) ha delle proprietà percettive tali da attirare l’attenzione del soggetto in modo involontario. Infatti, secondo gli studi condotti da Gaetano Kanizsa nell’ambito della psicologia della Gestalt, le variazioni di contrasto, di intensità luminosa e di colore, il movimento e la brillantezza attirano l’interesse dell’occhio al di là della volontà dell’individuo. Il filo conduttore del progetto è così quello di utilizzare la luce come il veicolo primario delle informazioni utili all’utente in caso di emergenza, sfruttando il valore universale di fonte di sicurezza e di medium che essa ricopre. Un percorso luminoso continuo nello spazio comunica in modo più diretto della segnaletica di sicurezza tradizionale. Quest’ultima è infatti composta di icone e scritte che devono essere elaborate in modo complesso e sono soggette ad interpretazioni diverse rispetto al background culturale; la guida di luce invece, delineando la struttura dell’ambiente, conduce l’utente passo passo, facilita l’orientamento e limita l’insorgere di situazioni di grave stress emotivo. Le sperimentazioni dell’Università di Reading dimostrano che persino gli utenti ipovedenti prediligono questa modalità di segnalazione, è inoltre provata dai test la maggiore efficacia dei sistemi wayfinding in caso di incendio.

La progettazione di questo nuovo sistema di illuminazione/segnalazione di sicurezza ha la sua base nell’utilizzo del simbolo “freccia“ come l’unico segno che diriga il flusso verso le uscite di sicurezza praticabili. Data l’enorme diffusione di questo segno viene data per assodata la sua comprensibilità.

61 Il Decreto parla del principio di intercambiabilità e complementarietà della segnaletica di sicurezza, secondo cui, a parità di efficacia e a condizione che si provveda ad una azione specifica di informazione e formazione a riguardo, si può decidere liberamente di adottare segnali luminosi o acustici che agevolino la comprensione del messaggio nell’utente.


Scheletro che regge arco e frecce, miniatura di Giovanni di Paolo, sec. XVI

La discordia che impugna canna e frecce sec. XV; Apollo e Diana in un’incisione di A. Durer (1502-03);

San Sebastiano trafitto dalle frecce, incisione del sec. XVII

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7.1 La freccia Adrian Frutiger in Segni e simboli inserisce la freccia tra i simboli fondamentali nella storia dell’umanità, insieme con il quadrato, il triangolo, il cerchio e la croce. L’autore sostiene che la freccia sia uno dei segni più antichi perché è associata sia alla sopravvivenza (la caccia) che alla ferita, questo segno risveglia quindi sentimenti di aggressività e allarme, pulsioni primarie nell’assetto psicologico dell’uomo. Nella mitologia la freccia ha significati contrastanti, infatti, le divinità greche Apollo e Artemide uccidono con frecce, mentre Eros scaglia dardi che portano l’amore ai colpiti; il dio indiano della tempesta Rudra, nella sua incarnazione cattiva, colpisce con frecce che causano malattie, mentre, nella sua veste buona o Shankara, lancia tiepidi raggi benefici.

Nelle raffigurazioni cristiane le frecce, che simboleggiano l’amore di dio, trafiggono i santi rapiti dall’estasi come Teresa d’Avila e sant’Agostino; san Sebastiano invece viene trafitto dai suoi stessi compagni, pagani, arcieri come lui. Al contrario archi e frecce posti tra le mani di scheletri diventano, come si legge nell’Apocalisse di Giovanni (6,8), i simboli della morte. Questa narrazione viene traslata nelle immagini delle epidemie, specialmente la peste, raffigurate come angeli vendicatori saettanti frecce mortifere. La leggenda della freccia, che da sola può essere facilmente spezzata, ma che insieme a molte altre diventa invulnerabile, simboleggia, e non solo in Occidente ma anche in Cina, la forza dell’unione. Molti patti, presso i cinesi e gli indiani del Nord America, venivano siglati spezzando una freccia, atto che


Adrian Frutiger, studio sull’ampiezza dell’angolo della freciia

Le tipologie di freccia più comuni

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simboleggiava la volontà di pace. Nell'immaginario moderno, però, la freccia ha assunto il significato quasi univoco di segnale direzionale. Veicola un messaggio relativo all’orientamento oppure, se punta verso l’interno, alla concentrazione in un punto (come nel caso del puntatore del mouse). Inoltre ha la funzione di indicare con immediatezza, come nel caso delle lancette, la misura di un valore che varia (bussole, orologi, manometri, tachimetri e strumenti vari). È utilizzata anche per raffigurare l’elettricità (data l’immagine simile a quella del fulmine), la riciclabilità dei materiali ed è anche presente nel simbolo di Marte (traslato il simbolo dell’uomo). Frutiger analizza anche il significato della freccia in relazione all’apertura dell’angolo delle braccia:

“Quando due linee oblique si incontrano per formare un angolo, l’immagine di un movimento o di una direzione viene in qualche modo prodotta. Angoli che puntano a destra o a sinistra hanno movimenti più forti di quelli che puntano in alto o in basso, per l’ovvia ragione che i movimenti umani sono perlopiù sul piano. (…) L’immagine dell’angolo come indicatore di direzione varia notevolmente con la misura dell’angolo. Un angolo maggiore di 45° viene visto piuttosto come una resistenza contro una forza applicata, come in una diga. Un angolo di 45° viene riconosciuto come segno di movimento, ma lento e difficile come uno spazzaneve. A circa 30° l’angolo può essere messo in relazione ad un aratro. Sotto i 20° circa l’angolo diventa una freccia. L’area interna è piccola e meno visibile; la punta aguzza produce una reazione di pericolo, rispetto al quale l’osservatore deve


proteggersi. Il segno dell’angolo è diventato un’arma.” Generalmente la freccia viene posta in relazione simbolica anche con messaggi come l’impulso, la velocità, la minaccia e la tenacia. Si può constatare il valore simbolico dato alla freccia anche dallo studio dei logotipi di numerose organizzazioni, qui viene associata allo scambio, al movimento, all’analisi, all’efficienza. Le applicazioni in cui la freccia oggi è più diffusa sono comunque quelle relative alla segnaletica di pubblica utilità e specificamente a quella stradale e di orientamento in luoghi complessi aperti al pubblico.

Impiego della freccia nella segnaletica stradale inglese su cartello (Jock Kinner)

Utilizzo della freccia in alcuni logotipi aziendali

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Impiego della freccia nella segnaletica stradale italiana su cartello e a terra

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Impiego della freccia nella segnaletica della metropolitana milanese (progetto Bob Noorda) su cartello e sulle obliteratrici


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La freccia nella segnaletica dell’aeroporto di Parigi (A. Frutiger) e di New York (P. Mijskenaar)

Impiego della freccia nella segnaletica pedonale di Venezia nella sue varie evoluzioni

La freccia nella segnaletica degli aeroporti di Milano e Roma (studio Sottsass)


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Raggruppamento dei LED nel circuito

Schema della disposizione dei LED e quote di massima

Esempio di segnaletica con freccia inclinata a 45°

7.2 Il concept Il progetto per un nuovo sistema di segnalazione di emergenza consta di una guida luminosa composta da frecce che indicano la direzione dell’uscita di sicurezza più vicina. Poiché sono posizionate lungo il percorso di fuga saranno sempre parallele al suolo. In questo modo si elimina la problematica connessa all’utilizzo di frecce con un’inclinazione di 45°, diffuse sulla segnaletica tradizionale, questo orientamento infatti trae molto spesso in inganno l’utente. Il concept del progetto è quello di fornire l’illuminamento adeguato e di esprimere, attraverso la forma della freccia, la direzione verso la quale il flusso si deve dirigere, indicando solo le uscite praticabili. Poiché il percorso di evacuazione è univoco per ogni punto dell’edificio le direzioni che si possono

percorrere sono solamente verso destra o verso sinistra. Si è scelto di utilizzare il segno “freccia” per non incorrere in alcun tipo di fraintendimento. L’angolo compreso tra il braccio e la parte rettilinea della freccia è di 32°. La freccia è composta da 32 LED bianchi da 20mA e 3,5 V; i LED nella parte rettilinea sono ad intermittenza e “corrono” nella direzione utile, quelli posizionati sulle braccia della freccia sono invece a luce fissa. Per questioni relative alla tensione di funzionamento (24 V secondo i parametri di sicurezza) i LED ad intermittenza sono raggruppati in 3 gruppi da 6 LED ciascuno. I LED sulle braccia sono invece 2 gruppi da 7 LED ciascuno.


Esemplificazione di Kanizsa per spiegare l’importanza del fattore vicinanza nella percezione visiva Schematizzazione dell’intermittenza

Schematizzazione del circuito elettrico

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All’interno dei gruppi i LED sono collegati in serie, i gruppi invece sono collegati tra loro in parallelo. La sequenza di accensione e spegnimento dei 3 gruppi di LED, posizionati sulla parte rettilinea, avviene circa 3 volte per ogni secondo. Nella figura a lato viene simulata l’intermittenza verso sinistra, infatti i LED sulle braccia a sinistra sono accesi. I LED ad intermittenza non sono equidistanti tra loro per evitare l’insorgenza dell’effetto ottico descritto anche da Kanizsa in Grammatica del vedere, l’autore lo pone come esempio per dimostrare l’importanza del fattore vicinanza nella percezione visiva. “Il fattore di vicinanza può essere messo in evidenza molto chiaramente impiegando il movimento stroboscopico, cioè quel movimento fenomenico che si ottiene presentando successivamente, a brevissimo intervallo di tempo, due stimoli luminosi immobili in due punti diversi dello spazio. Se si presentano in un ambiente buio prima i punti A, B, C, D e poi, dopo un brevissimo intervallo di oscurità,si accendono i soli punti e, f, g, posti a metà strada tra le posizioni occupate in un primo tempo dagli altri, alcuni osservatori possono vedere i punti A, B, C spostarsi verso destra e fermarsi nei punti e, f, g (il punto D in questo caso si spegne senza ricomparire), ma altri osservatori possono vedere B, C, D spostarsi verso sinistra per occupare i medesimi posti e, f, g (in questo caso non ricompare il punto A). Tale ambiguità finisce non appena si modifichino le posizioni in cui si accendono e, f, g. Nella disposizione di figura y il movimento avviene coercitivamente verso sinistra e nella situazione di figura z il movimento si attua sempre verso destra. Il fattore che determina in modo decisivo il verso del movimento è dunque la

lunghezza del percorso.” È molto importante che non avvengano distorsioni nella percezione della direzione del movimento da seguire data la pericolosità della situazione in cui questo messaggio deve essere fruito. Limitare il più possibile gli effetti ottici che l’intermittenza può creare è uno dei punti nodali del progetto. Per questo motivo si è scelto di seguire le indicazioni di Kanizsa nella disposizione dei LED.


solo l’uscita di destra è utilizzabile

entrambe le uscite di sicurezza sono utilizzabili

posizionamento degli apparecchi

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7.3 Il sistema di controllo Il sistema dei percorsi luminosi di emergenza deve cambiare di stato in funzione della calamità e di cosa accade nell'edificio. Se un'uscita di emergenza viene ostruita ed è quindi impraticabile, la segnalazione deve adeguarsi e mostrare percorsi alternativi, quindi se il percorso di evacuazione ordinario indica l’uscita di sicurezza più vicina a sinistra ma questa non è utilizzabile, la freccia cambierà verso e segnalerà la via di fuga a destra. Questo cambiamento di stato della segnalazione può avvenire mettendo in comunicazione gli apparecchi di emergenza con gli altri rilevatori già presenti nell'edificio: _ rilevatori di gas e fumo (rilevamento incendi e gas tossici)

_ rilevatori sismici antirapina (rilevamento di crolli dovuti ad esplosioni, cedimenti strutturali...) _ dispositivi sensore presenza acqua (rilevamento allagamenti). I rilevatori inviano informazioni anche riguardo al luogo in cui si sta verificando l’emergenza, consequenzialmente possono essere individuate le uscite non più disponibili e il flusso di persone che devono abbandonare l’edificio può essere ridistribuito grazie alla segnaletica flessibile.


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All'apparecchio confluiscono due circuiti: l'alimentazione elettrica centralizzata e l'alimentazione di emergenza. Quest'ultima scatta e mette in funzione le luci di segnalazione di percorso se: _ viene rilevata presenza di fumo o gas tossico _ viene rilevata una scossa sismica o un’esplosione _ viene rilevata la rottura di una tubazione dell'acqua _ viene rilevata una caduta di tensione elettrica (come già avviene nelle lampade di emergenza). La guida luminosa deve inoltre proseguire anche all'esterno dell'edificio fino a portare al punto di raccolta designato dal piano di evacuazione (vedi capitolo 4.2, Procedure di evacuazione) Il sistema può quindi essere schematizzato come nella figura qui sopra. Il circuito del sistema (schematizzato) è composto da: _ due rilevatori (destro e sinistro) per determinare la direzione della freccia _ centralina di controllo di tutti i sistemi di rilevamento dell’edificio (compreso il caso di black out) di tipo RS sequenziale _ 2 sincronizzatori (destro e sinistro) che danno l’impulso ai moduli secondo la direzione determinata dalla centralina intermittenza per la parte rettilinea della freccia luci fisse per le braccia della freccia _ alimentatore integrato nei sincronizzatori con tensione a 24 V d.c. stabilizzato (ogni LED è da 3,43,6 V d.c.) _ modulo freccia.

Ogni alimentatore/sincro da 20 W ha potenza per 10 moduli, quindi per ogni direzione di marcia, nell’istante e per ogni alimentatore, si avranno: _ parte rettilinea: 6 LED x 10 moduli = 60 LED simultanei in “movimento” _ braccia della freccia: 7 LED x 10 moduli = 70 LED a luce fissa


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7.4 Il sistema di segnalazione/illuminazione Il sistema si compone di 3 moduli fondamentali: _ incasso a terra (LED ad intermittenza nella parte rettilinea) _ battiscopa (LED ad intermittenza nella parte rettilinea) _ lineare (LED a luce fissa) Queste 3 tipologie di apparecchio sono progettate per essere inserite negli ambienti ad utenza pubblica nei quali è necessaria la segnaletica e l’illuminazione di sicurezza: i corridoi, le scale, gli atri e le uscite di emergenza. I luoghi presi in esame per la progettazione di questo sistema sono: stazioni, aeroporti, ospedali, uffici pubblici, centri commerciali, musei, biblioteche, scuole,

ambienti di lavoro (soprattutto quelli con più di 100 lavoratori), alberghi, impianti sportivi (stadi, piscine…) e luoghi di pubblico spettacolo e di intrattenimento (cinema, teatri, discoteche…). La modalità di scelta e di installazione dei diversi moduli deve essere in funzione delle caratteristiche dimensionali dell’ambiente, della tipologia di utenza che lo frequenta e della visibilità dei diversi segnali. Verranno quindi dati dei suggerimenti per ogni macroambiente in cui il sistema deve essere impiegato. In generale se un edificio viene progettato ex novo la possibilità di inserire l’incasso a terra, la metodologia più efficace di segnalazione/illuminazione, è più facilmente realizzabile; altrimenti il modulo a battiscopa può essere installato in qualsiasi scenario “precostruito” senza che vengano apportati all’ambiente cambiamenti strutturali.


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Le tipologie di ambiente: - corridoi: Se si tratta di un luogo in fase di progettazione, oppure se sono presenti molti oggetti (vending machines, fotocopiatrici, armadi…) lungo i corridoi è preferibile l’installazione degli apparecchi al suolo. Questi moduli creano un percorso continuo, modalità che facilita molto l’utente nel seguire la strada per le uscite di sicurezza (come sottolineato dagli studi dell’Università di Reading). Se invece non è possibile, o è troppo oneroso, apportare all’ambiente questi cambiamenti, il modulo a battiscopa può essere inserito in qualsiasi luogo sostituendo lo zoccolino tradizionale con gli apparecchi. Se il corridoio è molto ampio questa modalità è comunque preferibile perché l’utente

capisce meglio la struttura dell’edificio e può quindi prendere decisioni di conseguenza. - scale: Se la scala è progettata secondo le proporzioni archittettoniche canoniche, il modulo lineare può essere installato sull’alzata del gradino a circa un terzo dell’altezza da terra, oppure sotto la sporgenza del piano del gradino (nosing). Se invece la scala è realizzata con materiali particolari, o se non sono state rispettate le proporzioni canoniche, l’installazione sull’alzata potrebbe intralciare il movimento dell’utente. In questo caso si consiglia di posizionare il modulo lineare a lato a circa 200 mm da terra, su entrambe le pareti se la scala è chiusa, su una sola se è “aperta”.


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- atrio: In generale l’installazione negli atri dovrebbe avvenire sempre a terra, con un unico filare di apparecchi ad incasso al suolo se la stanza è piccola o con due se l’ambiente è ampio. Se non fosse possibile modificare i pavimenti o se il luogo fosse spesso soggetto a cambiamenti di allestimento per i quali il percorso al suolo potrebbe essere coperto (come nel caso dei musei o delle discoteche) l’installazione del modulo a battiscopa è comunque consigliata. Infatti verrebbe perlomeno sottolineata la struttura della stanza.

- uscite di emergenza: Il profilo delle porte di sicurezza deve essere sottolineato dalla linea di luce emessa dal modulo lineare, a luce fissa. Il modulo lineare deve essere installato in entrambe le direzioni di percorrenza della porta ma deve accendersi solo dal lato utile per l'evacuazione.

Il modulo ad incasso a terra, poiché è IP 65 e IP 67, può essere installato anche in esterni. Può quindi essere impiegato nelle strade per collegare le uscite di sicurezza con il punto di raccolta esterno all’edificio, nelle gallerie e nei tunnel.


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E’ molto importante che l’aspetto estetico degli apparecchi spenti sia il più sobrio e piacevole possibile in modo da avere un impatto leggero sull’ambiente nel quale si interviene. Per questo motivo si è scelto di colorare la serigrafia del vetro del modulo ad incasso a terra dello stesso colore della pavimentazione. Il modulo a battiscopa e quello lineare sono invece semplicemente bianco opaco.


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7.5 I componenti del prodotto - incasso a terra (installazione nei corridoi e negli atri) Il modulo a incasso al suolo viene declinato in 4 tipologie: o modulo base con freccia: lunghezza 680 mm,larghezza 120 mm Grado di protezione IP 65 (sommersione temporanea) e IP 67 (getto d’acqua). Le braccia della freccia sono a luce bianca fissa, viene accesa solo la punta della freccia che indica la direzione di fuga. La parte rettilinea è ad intermittenza e “corre” nella direzione della via di uscita più vicina.


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I componenti di questo modulo sono: Cassaforma in nylon caricato vetro (40%) da cementare a terra per garantire l’isolamento dell’apparecchio. Spessore 2 mm. Estruso in alluminio, spessore 2 mm.


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Testata (spessore 5 mm) e controtestata (spessore 2 mm) in alluminio per garantire una chiusura ermetica del modulo. Le due testate sono inoltre circondate da una guarnizione in EPDM. Circuito stampato con 32 LED bianchi da 20 mA.


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Vetro temperato di sicurezza dello spessore di 6 mm, resistenza ad un peso minimo di 500 kg. Tappo di chiusura per foro cavi in PVC; sistema di aggancio cassaformaestruso con perno e molla.


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Processi produttivi Dopo che è stato estruso il pezzo in alluminio, viene fissata con viti M5 la testata (verde chiaro in figura); questa è necessaria per fornire un piano di appoggio perpendicolare alla direzione di estrusione per procedere alla vulcanizzazione del vetro all’estruso, processo che mantiene stagno l’interno dell’apparecchio. (Per le specifiche sul processo di vulcanizzazione vedi pag. 147). Sulla testata ci sono due fori: uno è rettangolare e permetterà l’inserimento del circuito stampato con i LED, l’altro è rotondo e permette il passaggio dei cavi da un modulo all’altro. Il circuito stampato può essere inserito solo in seguito alla vulcanizzazione perché non resiste alle alte temperature che questo processo comporta.


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Una controtestata (verde scuro in figura) viene poi agganciata alla testata con viti M5 per permettere la classificazione IP 65 e IP 67 del modulo. In seguito, un tappo in PVC (blu in figura) chiuderà il foro nel quale verrà inserito, al momento dell’installazione, il pressacavo. Ultimate tutte le fasi, l’apparecchio potrà quindi essere inserito a terra nella cassaforma.


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o

modulo raccordo: lunghezza 230 mm, larghezza 120 mm Grado di protezione IP 65 (sommersione temporanea) e IP 67 (getto d’acqua). Questo modulo è utile per fare in modo che il percorso luminoso sia il più continuo possibile nell’ambiente. Per distanze minori di 210 mm non si è ritenuta necessaria l’installazione di apparecchi di segnalazione e illuminazione. La luce è bianca ed ad intermittenza, questa “corre” nella direzione della via di uscita più vicina.


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La modalità di aggancio dell’apparecchio alla cassaforma avviene per mezzo di 4 perni che si incastrano in 4 molle posizionate nella cassaforma. Per l’estrazione del modulo dal suolo è quindi necessaria una ventosa. Per garantire la continuità del percorso a livello visivo non esiste nessuna interruzione tra un modulo e l’altro, infatti il vetro temperato termina alla fine della cassaforma stessa. Nella parte inferiore del vetro è presente una serigrafia della freccia a due punte. La serigrafia può essere di qualsiasi colore per meglio integrarsi con la pavimentazione.

L’estruso in alluminio crea una cornice laterale intorno al vetro di 4 mm. Se si vuole inserire il modulo in un ambiente precostruito, sarà necessario tagliare il pavimento. Se questo dovesse rovinarsi o sbeccarsi nell’operazione (come nel caso delle piastrelle) è possibile utilizzare un estruso di alluminio che sporga di 5 mm sul piano di calpestio, coprendo così ogni imperfezione.


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o

modulo segnaletica: lunghezza 120 mm, larghezza 120 mm Grado di protezione IP 65 (sommersione temporanea) e IP 67 (getto d’acqua). Il modulo segnaletica viene inserito a terra, con le stesse modalità degli altri apparecchi, in corrispondenza di quelle attrezzature che possono essere utili in condizioni di emergenza. Nei sistemi di segnalazione e illuminazione di emergenza molto spesso questo tipo di segnaletica non è luminosa, fattore che rende difficile trovare ciò di cui sia ha bisogno. La luce di questo apparecchio è fissa, sono impiegati LED rossi per indicare la presenza di attrezzature antincendio e di telefoni di emergenza; se invece vengono utilizzati LED verdi si vuole segnalare la presenza di attrezzature di primo soccorso.


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I componenti di questi due moduli sono raffigurati nelle figure di questa pagina e seguenti. La testata, la controtestata, il sistema di aggancio e il tappo di chiusura sono comuni al modulo base Cassaforma in nylon caricato vetro (40%) da cementare a terra per garantire l’isolamento dell’apparecchio. Spessore 2 mm. Estruso in alluminio, spessore 2 mm.


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Vetro temperato dello spessore di 6 mm. Le caratteristiche sono le stesse del modulo base, tranne per qunto riguarda il disegno della serigrafia. Circuito stampato con 6 LED bianchi per il modulo raccordo, 8 LED rossi o verdi per il modulo segnale, tutti da 20 mA.


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o

modulo ad angolo: dimensioni 400 x 400 mm, larghezza 120 mm Grado di protezione IP 65 (sommersione temporanea) e IP 67 (getto d’acqua). Questo modulo è utile per fare in modo che il percorso luminoso sia il più continuo possibile nell’ambiente. Viene utilizzato per rendere più evidenti i cambiamenti di direzione del percorso. La luce è bianca ed ad intermittenza, questa “corre” nella direzione della via di uscita più vicina.


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I componenti del modulo ad angolo sono illustarti in queste figure. Anche questo modulo utilizza alcuni dei componenti presenti nel modulo base: la testata, la controtestata, il sistema di aggancio e il tappo di chiusura. Cassaforma, le caratteristiche sono le stesse del modulo base. Estruso, le caratteristiche sono le stesse del modulo base.


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Vetro temperato, le caratteristiche sono le stesse del modulo base, tranne per quanto riguarda il disegno della serigrafia. Circuito stampato con 20 LED bianchi da 20 mA.


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- battiscopa (installazione nei corridoi e negli atri) Il modulo a battiscopa viene declinato in 3 tipologie: o modulo base: lunghezza 675 mm, altezza 100 mm Grado di protezione IP 40. Le braccia della freccia sono a luce bianca fissa, viene accesa solo la punta della freccia che indica la direzione di fuga. La parte rettilinea è ad intermittenza e “corre” nella direzione della via di uscita più vicina.


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I componenti del modulo base battiscopa sono illustrati nelle figure segunti. Il circuito stampato con LED è lo stesso utilizzato nel modulo base ad incasso al suolo (vedi pag. 124). Estruso in policarbonato, spessore 2 mm. La lunghezza dell’estruso è variabile secondo le necessità, infatti può essere tagliato a misura secondo le dimensioni del luogo di installazione, i circuiti stampati vengono successivamente inseriti da un lato. In questo modo l’apparecchio sostituisce completamente lo zoccolino di legno; per i raccordi negli angoli l’estruso viene tagliato con lo stesso procedimento utilizzato per i battiscopa tradizionali. Estruso in nylon caricato vetro, spessore 2 mm. Anche l’attacco al muro può essere estruso a misura. Viene fissato alla parete con viti, l’apparecchio invece viene agganciato come mostrato in figura nella parte superiore ed inferiore. Testata di chiusura in policarbonato, tappo in PVC.


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o

modulo raccordo: lunghezza 210 mm, altezza 100 mm Grado di protezione IP 40 Come nell’apparecchio raccordo ad incasso a terra, questo modulo è utile per fare in modo che il percorso luminoso sia il più continuo possibile nell’ambiente. La luce è bianca ed ad intermittenza, questa “corre” nella direzione della via di uscita più vicina. Questo apparecchio sarà utilizzato solo in situazioni molto particolari, infatti in condizione di installazione ordinaria il pezzo in policarbonato verrà estruso a misura e sarà utilizzato solo il circuito stampato con i LED.


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o

modulo segnaletica: lunghezza 99,5 mm, altezza 100 mm Grado di protezione IP 40 Il circuito del modulo segnaletica viene inserito nell’estruso in policarbonato con le stesse modalitĂ dell’apparecchio a raccordo, in corrispondenza di quelle attrezzature che possono essere utili in condizioni di emergenza. La luce di questo apparecchio è fissa, sono impiegati LED rossi per indicare la presenza di attrezzature antincendio e di telefoni di emergenza; se invece vengono utilizzati LED verdi si vuole segnalare la presenza di attrezzature di primo soccorso.


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I componenti del modulo raccordo e segnali battiscopa sono illustrati in queste figure. I circuiti stampati con LED sono gli stessi utilizzati nei moduli raccordo e segnali ad incasso al suolo (vedi pag. 134). La testata e il tappo sono gli stessi impiegati nel modulo base a battiscopa. Estruso in policarbonato, spessore 2 mm. Estruso in nylon caricato vetro, spessore 2 mm.


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- lineare (installazione lungo i profili delle porte e sulle scale) Il modulo lineare viene declinato in 2 tipologie: o modulo base: lunghezza 640 mm, altezza 13 mm Grado di protezione IP 44 o

modulo raccordo: lunghezza 220 mm altezza 13 mm Grado di protezione IP 44 La luce emessa è bianca e fissa, i LED puntano verso il basso. Questo modulo è utile per sottolineare le uscite di sicurezza e per fornire l’illuminamento necessario sulle scale. L’estruso può essere tagliato (di solito a 45°) a misura per gli angoli delle porte e per l'installazione a lato delle scale.


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I componenti dei due moduli lineari sono: Estruso in policarbonato, spessore 2 mm. Estruso in nylon caricato vetro, spessore 1 mm. Fissabile al muro con viti.


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Circuito stampato da 18 o 6 LED bianchi a luce fissa da 20 mA. Tappo e controtappo di chiusura dell’estruso in PVC. Anche in questo caso l’estrusione avviene secondo la misura desiderata, i circuiti stampati vengono infilati dal lato. L’estruso in policarbonato e quello in nylon sono uniti attraverso un aggancio visibile nella figura qui a lato.


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7.6 Specifiche tecniche e materiali I LED impiegati nel progetto I LED utilizzati nell’incasso a terra, nei moduli a battiscopa e negli apparecchi lineari installati lungo i profili delle porte hanno un angolo di apertura del flusso luminoso maggiore di 60°, in questo modo infatti si evita l’insorgenza di problematiche connesse all’abbagliamento dell’utente. Tutti i LED utilizzati rientrano nella categoria LASER Classe I secondo le prescrizioni della norma internazionale IEC 60825. I LED impiegati nel modulo lineare installato sulle scale sono invece a flusso concentrato (angolo di emissione 24°), sono infatti direzionati verso il basso in modo da non abbagliare l’utente che sale le scale, ma illuminando solamente la pedata del gradino. Il processo di vulcanizzazione Questo processo permette di far aderire il vetro temprato di copertura all’estruso di alluminio in modo che l’apparecchio sia stagno e quindi non siano necessarie ulteriori viti e guarnizioni. Una sottilissima pellicola di PVC di 5 mm di larghezza viene posizionata lungo l’estruso e la testata creando un perimetro di adesione tra il vetro e l’alluminio. In seguito viene applicata la lastra di vetro, il pezzo viene portato a 130-140°C e viene mantenuto a questa temperatura per 8 ore. Dopo questo trattamento il vetro è perfettamente incollato all’estruso e consente la tenuta stagna dell’apparecchio.

LED LED è l’acronimo di Light Emitting Diode (diodo emettitore di luce). Questa sorgente luminosa sfrutta le proprietà ottiche di alcuni materiali semiconduttori per produrre fotoni a partire dalla ricombinazione di coppie elettronelacuna. Gli elettroni e le lacune vengono iniettati in una zona di ricombinazione attraverso due regioni del diodo drogate con impurità di tipo diverso, e cioè di tipo n per gli elettroni e p per le lacune. Il colore della radiazione emessa è definito dalla distanza in energia tra i livelli energetici di elettroni e lacune e corrisponde tipicamente al valore della banda proibita del semiconduttore in questione. I LED sono uno speciale tipo di diodi a giunzione P-N, formati da un sottile strato di materiale semiconduttore drogato. Quando sono sottoposti ad una tensione diretta per ridurre la barriera di potenziale della giunzione, gli elettroni della banda di conduzione del semiconduttore si ricombinano con le lacune della banda di valenza rilasciando energia sufficiente da produrre fotoni. A causa dello spessore ridotto del chip, un ragionevole numero di questi fotoni può abbandonarlo ed essere emesso come luce. I LED sono formati da GaAs (arseniuro di gallio), GaP (fosfuro di gallio), GaAsP (fosfuro arseniuro di gallio), SiC (carburo di silicio) e GaInN (nitruro di gallio e indio). L'esatta scelta dei semiconduttori determina la lunghezza d'onda dell'emissione di picco dei fotoni, l'efficienza nella conversione elettro-ottica e quindi l'intensità luminosa in uscita. In molti casi i LED sono alimentati in corrente continua con una resistenza in serie Rs per limitare la corrente diretta al valore di lavoro, il quale può variare da 5-6 mA fino a 30 mA quando molta luce è richiesta.


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Il valore della resistenza in serie Rs è calcolato mediante la legge di Ohm conoscendo la corrente di lavoro richiesta If, la tensione di alimentazione Vs e la differenza di potenziale del LED alla corrente di lavoro data, Vf. I LED devono essere fatti operare solo con tensione diretta e non devono essere sottoposti a tensioni inverse che potrebbero danneggiarli. Se un LED viene alimentato in corrente alternata deve essere protetto dalla tensione inversa mediante un semplice circuito. Il metodo più semplice è quello di usare un diodo collegato in parallelo al LED che limiti tutte le tensioni inverse. Ciò protegge il LED, ma, durante il ciclo negativo della sinusoide, non viene emessa luce riducendone così l'efficienza. Un metodo alternativo, che inoltre mantiene attiva l'uscita luminosa, consiste nell'usare un ponte di quattro diodi per assicurare che una corrente diretta scorra sempre attraverso il LED. La massima quantità di luce che può essere emessa da un LED è limitata essenzialmente dalla massima corrente media sopportabile, che è determinata dalla massima potenza dissipabile dal chip. Quando sono richiesti valori d'uscita più alti normalmente si tende a non usare correnti continue, ma ad usare delle correnti pulsanti con duty cycle scelto in maniera opportuna. Ciò permette alla corrente e, di conseguenza, alla luce di essere notevolmente incrementate, mentre la corrente media e la potenza dissipata rimangono nei limiti consentiti. Diversamente da quanto avviene nelle lampade ad incandescenza che irradiano uno spettro continuo, un LED emette luce praticamente monocromatica di un colore specifico in funzione del materiale utilizzato. L'emissione monocromatica genera livelli di saturazione

del colore decisamente più elevati di quelli ottenuti con le sorgenti luminose convenzionali ed assicura colori particolarmente brillanti. La diffusione dell'impiego dei LED e dei moduli LED è avvenuta, in un primo momento, soprattutto nell’ambito della segnaletica e delle insegne pubblicitarie, questo fenomeno è determinato dai notevoli vantaggi che queste sorgenti luminose offrono rispetto ai neon convenzionali. Per esempio i LED sono piccoli e compatti, grazie a queste caratteristiche possono essere installati in punti in cui l’utilizzo di altre sorgenti sarebbe molto difficoltosa. Inoltre, grazie alla loro geometria flessibile è possibile utilizzare sorgenti standard al posto di tubi al neon custom, una soluzione che permette di realizzare risparmi negli acquisti e/o in produzione. Negli ultimi anni si è cominciato ad utilizzare i LED anche come vere e proprie sorgenti luminose, questo è stato possibile perché l'efficienza è notevolmente migliorata ed ha già raggiunto livelli di oltre 30 lm/W a seconda del colore. Dato che la tensione di funzionamento dei moduli LED è 10V (12V) e 24V DC, il loro impiego è regolamentato dalle normative per dispositivi a bassissima tensione. Ciò significa che non è necessario mantenere una distanza minima tra i moduli e le parti metalliche ed è quindi possibile disporre di maggiore libertà creativa nella progettazione. Una delle peculiarità di queste sorgenti è la straordinaria robustezza: i LED sono prodotti senza impiego di filamenti, elettrodi o tubi di vetro, una caratteristica che riduce i costi di imballaggio e diminuisce drasticamente le possibilità di rottura durante il trasporto e l'installazione.


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Con una vita utile compresa tra le 50.000 e le 100.000 ore (a temperatura di funzionamento ottimale) i moduli LED riducono drasticamente i costi di manutenzione sostitutiva rispetto alle tecnologie convenzionali. Inoltre permettono un notevole risparmio di energia: i costi energetici risultano ridotti poiché l'efficienza interna è alta e la luce colorata viene generata in modo diretto (efficienza cromatica). VETRO Il vetro è un materiale solido amorfo che si produce solitamente quando un adatto materiale viscoso viene solidificato rapidamente, in modo tale che non abbia il tempo di formare una regolare struttura cristallina. Comunemente si intende con il termine vetro uno specifico tipo, il vetro siliceo. In forma pura, il vetro è trasparente, relativamente duro, pressoché inerte dal punto di vista chimico e biologico e presenta una superficie molto liscia. Queste caratteristiche fanno del vetro un materiale ampiamente utilizzato in molti settori, ma nello stesso tempo è fragile e tende a rompersi in frammenti taglienti. Questi svantaggi possono essere modificati in parte o interamente con l'aggiunta di altri elementi o per mezzo di trattamenti termici. Il vetro comune è costituito quasi esclusivamente da biossido di silicio (SiO2), chiamato anche silice, lo stesso componente del quarzo, e dalla sua forma policristallina, la sabbia. In forma pura, il silice ha un punto di fusione di circa 2000°C ma spesso durante la produzione del vetro vengono aggiunte altre sostanze per abbassare questa temperatura. Una di queste è la soda (Carbonato di sodio Na2CO3) oppure la potassa (Carbonato di potassio) che abbassano il punto di

fusione a circa 1000°C. Purtroppo la presenza di soda rende il vetro solubile in acqua (caratteristica certo non desiderabile), per cui viene aggiunta anche calce (Ossido di calcio, CaO) per ripristinare l'insolubilità. VETRO TEMPRATO Il vetro temprato è ottenuto per indurimento tramite trattamento termico (tempra). Il pezzo deve essere tagliato alle dimensioni richieste e ogni lavorazione (come levigatura degli spigoli o foratura) deve essere effettuata prima della tempra. Il vetro è quindi posto su un tavolo a rulli su cui scorre all'interno di un forno che lo riscalda alla temperatura di tempra di 600°C. Quindi è rapidamente raffreddato da getti di aria. Questo processo raffredda gli strati superficiali causandone l'indurimento, mentre la parte interna rimane calda più a lungo. Il successivo raffreddamento della parte centrale produce uno sforzo di compressione sulla superficie bilanciato da tensioni distensive nella parte interna. Gli stati di tensione possono essere visti osservando il vetro in luce polarizzata. Il vetro temprato è circa sei volte più resistente del vetro float (comune), questo perché i difetti superficiali vengono mantenuti chiusi dalle tensioni meccaniche compressive, mentre la parte interna rimane più libera da difetti che possono dare inizio alle crepe. Oltre al trattamento di tempra termica è possibile effettuare la tempera chimica del vetro. Questa si ottiene immergendo i vetri da trattare in un bagno di sali fusi di potassio a temperature superiori ai 400°C, producendo uno scambio tra gli ioni di sodio (Na+) presenti sulla superficie del vetro e gli ioni di potassio (K+) contenuti nel sale. Lo scambio di ioni di potassio (K+) con dimensioni superiori, al posto degli ioni di


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sodio (Na+), aventi diametro inferiore, determina l’instaurarsi di sollecitazioni di compressione laddove questo avviene: sulla superficie e sui bordi della lastra. Queste forze sono compensate da tensioni di trazione presenti nella parte interna del vetro. Infatti, il vetro temperato chimicamente ha tensioni superficiali superiori e tensioni in profondità inferiori, rispetto al vetro temperato termicamente: la tensione superficiale che si ottiene nel caso del vetro temperato chimicamente comporta quindi un notevole aumento della resistenza a flessione, uno dei requisiti principali di tale prodotto. Le proprietà di resistenza meccanica alla flessione di un vetro temperato chimicamente sono superiori da circa 5 a 10 volte a quelle di un vetro temperato termicamente sottoposto a medesima forza. Questo particolare processo produttivo aumenta anche la resistenza agli urti: basti pensare che se un vetro temperato termicamente ha una resistenza all’urto, con sfera di acciaio, superiore di circa due volte quella di un vetro normale, la resistenza di un vetro temperato chimicamente, arriva a superare di ben 5 volte quella di un vetro normale. Il vetro temperato è spesso impiegato per la realizzazione di elementi senza struttura portante (tutto vetro) come porte in vetro e applicazioni strutturali. È anche considerato un vetro di sicurezza in quanto, oltre che più robusto, ha la tendenza a rompersi in piccoli pezzi smussati, poco pericolosi.

ALLUMINIO L'Alluminio è il terzo elemento più abbondante e diffuso nella crosta terrestre (8%); non si trova allo stato elementare e si produce per elettrolisi dalla Bauxite (Al2O3). Ha densità 2,71 g/cm3, struttura cristallina a temperatura ambiente, numero atomico 13. La temperatura di fusione è 660°C. Nel loro insieme, le leghe di alluminio offrono una gamma di resistenze meccaniche che va da 60 a 530 N (Newton)/mm2 e cioè da quella del piombo fino alla resistenza dell'acciaio in lega. Un elemento di alluminio può sostituirne uno di acciaio con notevole diminuzione di peso. Mediamente si può ipotizzare un risparmio di peso pari al 50-60% per profilati aventi le stesse caratteristiche meccaniche di quelli in acciaio. L'utilità di un qualunque metallo è limitata se non possiede una certa resistenza alla corrosione. Anche la resistenza alla corrosione è una proprietà relativa; quella dell'alluminio ha dei valori elevati rispetto a quella dell'acciaio a basso tenore di carbonio ed in alcuni casi è superiore anche a quella dell'acciaio inossidabile. Il rame resiste all'attacco di alcuni agenti chimici ai quali l'alluminio è sensibile, ma in altri casi la resistenza dell'alluminio è superiore a quella del rame. In generale l'alluminio resiste meglio alla maggior parte degli agenti chimici ed è considerato il metallo più economico che abbia una elevata resistenza alla corrosione. Ugualmente le leghe di alluminio mantengono in genere tale caratteristica in atmosfera industriale e rurale, ma solamente le leghe ad alta purezza, o quelle al magnesio od al magnesio-silicio, dimostrano una elevata resistenza all'atmosfera marina ed all'acqua salata.


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L'alta riflettività favorisce l'impiego dell'alluminio nel settore dell'illuminazione per la costruzione dei corpi riflettori. Ampio uso viene anche fatto nelle costruzioni civili ed industriali per la sua alta capacità di riflettere il calore ed i raggi infrarossi. La capacità di riflessione dell'alluminio varia secondo la lunghezza d'onda dell'energia e le condizioni della superficie del metallo e passa dal 75% per i raggi ultravioletti all'85% per i raggi visibili, fino al 95% per i raggi infrarossi. Per ogni impiego pratico, l'alluminio e le sue leghe sono da considerare amagnetici. Sfruttando tale proprietà, venne subito usato per le sale comando delle navi non portando ad alcuna variazione nella lettura della bussola e nei rilevamenti. In molti settori dell'elettronica vi è una crescente richiesta proprio per questa sua caratteristica. L'alluminio ed i suoi sali sono completamente atossici. Inoltre, al contrario dei metalli ferrosi, l'alluminio non genera scintille quando viene strofinato con altri metalli, per tale motivo viene preferito evidentemente nei settori degli infiammabili ed esplosivi. L'alluminio ha una eccellente lavorabilità, ossia le sue proprietà tecnologiche lo rendono particolarmente atto a subire tutti i processi di lavorazione meccanica per l'ottenimento di prodotti trasformati delle più varie fogge. Può essere lavorato a caldo od a freddo, può essere estruso e pressofuso in una grande varietà di forme con tolleranze minime dimensionali, può essere laminato in spessori sottilissimi fino a meno di 0,005 mm. Inoltre può essere brasato, saldato od unito con tutti i normali sistemi meccanici. Gli estrusi rappresentano la parte preponderante dei semilavorati ottenibili con l'alluminio, il processo

dell'estrusione in cui il materiale per compressione viene fatto passare attraverso i fori di una matrice, garantisce una grande libertà progettuale, una notevole rapidità ed economicità di produzione. Nel campo delle strutture si possono perciò realizzare profili con vantaggio ineguagliabile, studiando opportunamente le sezioni, in modo da disporre il metallo nelle zone di maggior sollecitazione e con forme tali da favorire le successive lavorazioni ed applicazioni di ulteriori accessori. Proprio per questo il suo uso aumenta costantemente nel campo dell'edilizia industrializzata. L'alluminio è un metallo bianco ed inoltre si presta ad essere trattato con una gamma vastissima di finiture superficiali. Tali trattamenti possono essere chimici, meccanici, galvanici, organici, elettrolitici, di verniciatura, di ricopertura con materie plastiche. Nessun altro materiale può essere rifinito con tanti procedimenti ed essere ottenuto con aspetti così diversi, tutti di grande effetto estetico. Il valore di ricupero o valore di rottame è per l'alluminio molto elevato e questo grazie al fatto della sua praticamente inesauribile fonte di approvvigionamento, lo fa preferire nella scelta anche se il costo di produzione iniziale risulta più alto rispetto ad altri metalli.


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POLIESTERI I poliesteri sono una famiglia molto complessa e differenziata di resine sintetiche, composta da polimeri in forma di fibre. Si dividono in poliesteri termoindurenti e poliesteri termoplastici. I poliesteri insaturi sono termoindurenti in forma liquida più o meno viscosa, che induriscono quando vengono catalizzati. I poliesteri termoplastici principali sono PET (polietilene tereftalato), PC (policarbonato e policarbonato metacrilato), PBT (polibutilene tereftalato), PEN (polietilennaftalato). Vengono utilizzati nell'edilizia, nella nautica, industria automobilistica e dei trasporti. POLICARBONATO Il policarbonato riunisce in sé le molte buone caratteristiche dei metalli, del vetro e delle materie plastiche come la resistenza all'urto, la trasparenza, la rigidità, la stabilità dimensionale e la elevata resistenza termica; molteplici sono le possibilità di trasformazione e le lavorazioni.La densità di questo materiale va da 1.20 a 1.24 g/cm3, la sua struttura è caratterizzata dall’essere ampiamente amorfo, ha scarsa tendenza alla cristallizzazione ed non è soggetto ad assorbimento di acqua.Ha elevata resistenza meccanica e all'urto, una buona stabilità dimensionale e una soddisfacente resistenza ad usura.Come ogni polimero permette un buon isolamento elettrico (praticamente indipendente dalla temperatura e umidità dell'ambiente).Il coefficiente di dilatazione termica del policarbonato è basso ed ha elevata resistenza dimensionale al calore (130°C), mentre l’infragilimento della struttura avviene sotto -190°C.È autoestinguente, proprietà migliorabile ulteriormente con agenti antifiamma, e non infiammabile. Con opportuni trattamenti reste agli UV

ed è antigraffio.È possibile saldarlo con il procedimento ad ultrasuoni.Il policarbonato è resistente a: acidi minerali, idrocarburi alifatici, benzina, grassi, oli, acqua (sotto i 60°C), alcoli (no alcol metilico); è inoltre sufficientemente resistente alle intemperie. Le soluzioni alcaline, l’ammoniaca e gli idrocarburi aromatici, invece, sono corrosivi. È spesso preferito al metacrilato, anche se quest’ultimo materiale è più trasparente, perché rammollisce a temperature relativamente basse ed è infiammabile.EPDM, ETILENE PROPILENE L’EPDM (Ethylene Propylene Diene Monomer) è una gomma ad alta densità ed alta resistenza sia a torsione che trazione, non subisce l’azione corrosiva né degli abrasivi né dei solventi. Quando aderisce ad un altro materiale non permette infiltrazioni di vapori acquei. Inoltre ha un’eccezionale flessibilità sia a temperature elevate che molto basse, senza che avvengano rilevanti trasformazioni strutturali. Le caratteristiche dell’EPDM hanno reso ottimale il suo impiego nelle guarnizioni e negli isolanti elettrici (il prodotto commerciale più noto è l’O-Ring). Il materiale si presenta in teli di spessore variabile in base al tipo di impiego previsto. Il fissaggio è realizzato con colle bicomponenti. POLIAMMIDI Le modalità di produzione delle poliammidi sono pressoché similari fra loro: i monomeri allo stato fuso, oppure sciolti in quantità variabili d'acqua, vengono caricati in autoclave dove avviene la polimerizzazione le cui condizioni operative determinano la differente realizzazione dei diversi materiali.


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NYLON CARICATO VETRO 40% (PA 6 40GF) L'unico polimero che però ha condizioni di realizzazione vincolate è il PA 6: raggiunto l'equilibrio (90% polimero e 10% monomero) il nylon 6 può essere lavorato dopo un preventivo lavaggio che elimini il monomero restante. Il PA 6 è il tipo più economico, di facile lavorabilità, ha un punto di fusione di 220°C, possiede ottima resistenza all'urto specie su pezzi condizionati, è molto più morbido del PA 66. Anch'esso è molto usato in filatura. Le poliammidi sono caratterizzate da ottime proprietà meccaniche, resistenza all'usura, basso coefficiente d'attrito, elevato punto di fusione, buona resistenza all'urto, elevata resistenza alla fatica. Ottima resistenza anche ai solventi organici (tranne acido formico ed mcresolo). Facile stampabilità ed ampia gamma di polimeri colorati. Ottima brillantezza delle superfici. I polimeri rinforzati con vetro sono caratterizzati da elevata rigidità, buona stabilità dimensionale, ottima resistenza termica fino a 150 °C, buona resistenza all'usura e basso coefficiente d'attrito. I nylon 66 e 6, che sono i più usati per lo stampaggio ad iniezione, possiedono elevato assorbimento d'acqua con conseguenti variazioni dimensionali dei pezzi e diminuzione della rigidità, ciò a vantaggio della resistenza all'urto. Le poliammidi, oltre all'additivazione in polimerizzazione, possono essere colorate, caricate con fibre di vetro o, mediante successiva estrusione, con altre cariche minerali ma in modalità rigorosamente controllate per evitare possibili degradazioni. Le poliammidi possono essere facilmente stampate ad iniezione, per soffiaggio e col sistema rotazionale oppure per estrusione.

I Cicli di stampaggio sono molto rapidi. Per i tipi caricati con vetro, si ha qualche difficoltà in fase di stampaggio (occorre aumentare di molto le pressioni e le velocità di iniezione), il ritiro allo stampaggio è in funzione della percentuale di carica vetrosa. Il peso specifico è più elevato. Questi polimeri vengono messi in commercio con una percentuale di umidità <0,2% dunque non necessitano di pre-essiccamento. Il riciclo del nylon 6 può essere effettuato senza particolari problemi e senza drammatiche perdite di proprietà purché le operazioni di lavorazioni allo stato fuso vengano effettuate su materiali ben essiccati. In caso contrario, la scissione idrolitica delle catene (depolimerizzazione in presenza di acqua) si somma alla degradazione termomeccanica provocando una notevole diminuzione del peso molecolare e quindi della viscosità. In particolare, la diminuzione della viscosità implica che il materiale riciclato non potrebbe essere sottoposto alle stesse operazioni di trasformazione usate per il polimero vergine. La presenza di piccole quantità di stabilizzante, però, può ancora ridurre gli effetti degradativi dovuti allo sforzo termomeccanico durante la lavorazione del materiale essiccato. La presenza di umidità durante la lavorazione allo stato fuso porta a un drastico peggioramento delle proprietà del materiale. Tuttavia, anche in questo caso, piccole quantità di stabilizzante, aggiunte prima di ogni operazione di trasformazione, possono rallentare significativamente i processi degradativi e permettono di riciclare più volte il nylon ottenendo materie seconde con proprietà meccaniche e lavorabilità simili a quelle del materiale vergine.


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7.7 Considerazioni finali Secondo la normativa vigente il sistema di illuminazione/segnalazione esposto in questa tesi può essere considerato solamente un’integrazione del sistema di emergenza tradizionale. Se vengono però presi in considerazione i numerosi limiti dell’attuale sistema di segnalazione ed illuminazione di emergenza, sia per quanto riguarda la comprensibilità delle informazioni di percorso da parte di un’utenza più allargata sia per quanto riguarda la visibilità dell’ambiente e dei segnali in caso di incendio, è auspicabile che nella stesura delle future norme si punti l’attenzione non solo sui livelli di illuminamento forniti dai vari apparecchi, ma anche sulla comprensibilità dei messaggi veicolati. È inoltre molto utile che le future sperimentazioni avvengano in condizioni particolari (presenza di gas tossici, allagamenti, incendi) e prendano in esame anche le reazioni psicologiche dellutenza che si trova in una situazione di emergenza, agevolando i comportamenti delle persone che, in condizione di grave stress emotivo, possono avere reazioni anche molto dissimili dalla norma. Questo progetto, invece, secondo le indicazioni fornite dall’Università di Reading, accompagna l’utente in modo continuativo lungo il percorso di evacuazione fino all’uscita di sicurezza, limitando l’insorgenza del panico. Inoltre, in caso di incendio, risulta molto più visibile del sistema di illuminazione di emergenza tradizionale. Ci si augura quindi che negli studi che porteranno alla stesura degli aggiornamenti delle norme, questi parametri (comprensibilità e visibilità in tutte le condizioni possibili) vengano presi più seriamente in

considerazione. In questo modo il progetto potrà essere a tutti gli effetti inserito sul mercato ed entrare in funzione insieme al sistema tradizionale o da solo a seconda delle condizioni ambientali.


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APPENDICE

Tabella A Illuminazione di sicurezza in ambienti particolari


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Tabella B Sistemi testati con utenti ipovedenti


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Tabella C Sistemi testati in presenza di fumo


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