Green X

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In uscita il 30/10/2015 (15, 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine novembre e inizio dicembre 2015 (4,99 euro)

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DANIELE VIC PIERVINCENZI

GREEN X

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GREEN X Copyright © 2015 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-927-2 Copertina: Immagine fornita dall’Autore

Prima edizione Ottobre 2015 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova

Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale. Oppure no.


Questo libro è dedicato a tutti coloro che con i loro gesti e le loro parole non hanno saputo credere in me.



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I. DAKOTA

2014 Gli avvenimenti significativi della mia vita iniziano alla fine del 2014 e li ricordo più o meno così. Ero seduto nell’aula studio alla Facoltà di Medicina di Chieti, ma non studiavo medicina, ah tutt’altro! I miei studi universitari si erano conclusi senza molto successo qualche anno prima. Facevo il cuoco, ma in quel periodo le cose non andavano molto bene per i giovani, perciò ero momentaneamente disoccupato. Quella mattina avevo accompagnato mia sorella Ginevra all’università, lei stava completando un dottorato di ricerca lì. Ignaro di quello che sarebbe successo di lì a poco, stavo bevendo un caffè volutamente amaro. «Caffè amaro, come la vita» mi ripetevo trangugiando quella brodaglia. Tuttavia di quanto fosse amara la vita in quel momento non ne avevo la più pallida idea. Vivevo ancora con i miei genitori a Roma e spesso trascorrevo qualche giorno da mia sorella che viveva in un appartamento a Chieti con suo figlio Alphonse, che all’epoca aveva otto mesi. Ricordo che quella mattina ero molto stanco, avevo trascorso la notte in bianco cercando inutilmente di far dormire quel bimbo che continuava a piangere senza nessun motivo apparente. Era l’undici dicembre, un giovedì, quando lo vidi per la prima volta; saliva le scale che portavano all’aula con passo felpato. Indossava un cappotto nero lungo, pensai che doveva essere un abito molto caldo. Aveva degli occhiali scuri e portava una folta barba nera, un cappello di lana gli copriva la testa; trasportava un borsone verde militare che teneva stretto nella mano sinistra, la destra era in tasca. Un tipo quantomeno losco, ma in quel momento non ci feci particolarmente caso. Camminava velocemente nella mia direzione, come se mi conoscesse; percorse molto rapi-


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damente la distanza che ci separava. Il suo volto era inespressivo e le sue labbra violacee erano serrate e poco visibili poiché circondate dalla barba. Dopo pochi istanti era di fronte al mio tavolo e con un forte tonfo vi posò la borsa che trasportava. Sembrava pesante. Mise la mano sinistra nella tasca ed estrasse la destra, la serrò in un pugno e l’appoggiò sul borsone. La pelle era arrossata e rovinata dal freddo, le grosse dita cominciarono ad aprirsi mimando dei numeri: 3, 4, 2, 1. Dopo questo breve rituale lo sconosciuto, che d’ora in poi chiamerò Dakota, si allontanò come se nulla fosse lasciando quella borsa lì sul tavolo davanti a me. Ricordo che l’aula era piena di studenti intenti a studiare, forse per questo nessuno si rese conto di quello che era appena accaduto. Quella borsa non era mia, dovevo solo finire quel caffè disgustoso e cambiare posto; perché quello strano figuro aveva scelto proprio il mio tavolo? Forse quella borsa era per me? E quei gesti della mano che avevo intuito come numeri cosa volevano dire? A quel tempo ero un ragazzo estremamente curioso. Ero un illuso, che ingenuamente si aspettava dalla vita avventure viste in televisione e lette sui libri. Probabilmente anche per questo decisi di aprire il borsone abbandonato davanti a me. Con molta calma e senza dare nell’occhio scrutai all’interno della borsa che conteneva degli oggetti simili a mattoni incartati da un film plastico di colore nero lucido. Erano disposti in quattro colonne da due mattoni ciascuna, divisi da separatori rigidi in plastica nera, pesavano circa un chilo ciascuno. Non avevo la più pallida idea di che cosa fossero, ero abbastanza perplesso; all’interno della borsa era presente anche uno smartphone in standby. Deluso dai misteriosi mattoni apparentemente di nessun valore provai a utilizzare lo smartphone; mi chiese subito il codice a 4 cifre per lo sblocco. Ricordo che provai a inserire i numeri che Dakota aveva mimato, ma non era il codice corretto. «Tsk, troppo facile» sussurrai. Provai altre combinazioni senza alcun risultato. Tristemente abbattuto cominciai a sentirmi uno sciocco. Uno sconosciuto aveva lasciato una borsa sul mio tavolo per caso e io avevo ingenuamente pensato fosse per me. Rimisi lo smartphone dove l’avevo trovato, chiusi la borsa e aspettai che Dakota tornasse; forse era andato solo a fumare. Sarebbe certamente tornato a riprendersi la sua borsa di mattoni. Controllai il mio smartphone;


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avevo una notifica Whatsapp da parte di mia sorella, mi informava che aveva comprato i biglietti per tornare a Roma e che saremmo partiti dalla stazione dei pullman dopo due ore circa. Un’ora dopo di Dakota non si era ancora vista traccia. In quel momento, non so bene perché, mi ero auto-incaricato di custodire la sua borsa fino al suo ritorno. La curiosità era troppa, così dopo essermi furtivamente guardato intorno ripresi lo smartphone dalla borsa e senza alcun motivo inserii la mia data di nascita come codice di sblocco: 1991. Con mio immenso stupore il telefono si sbloccò; era solo una coincidenza o forse quella borsa era proprio per me? Subito dopo aver sbloccato il telefono arrivò un sms che mi invitava a rispondere inserendo il codice datomi da Dakota. Eseguii immediatamente e senza indugio l’ordine appena ricevuto. Passò qualche minuto dopo l’invio del sms, ne arrivò un altro dove c’era scritto di scartare il secondo mattone della terza colonna a partire da sinistra del borsone come mi era stato consegnato. Avevo capito; Dakota non sarebbe più tornato a prendere la sua borsa, mi aveva dato il codice da mandare come sms. Il mio anno di nascita, per sbloccare il telefono, non era stata una coincidenza. Presi la borsa e mi diressi al bagno per controllare meglio cosa conteneva. Ero eccitato e impaurito all’idea, ma ero deciso ad andare in fondo a quella storia a dir poco fuori dal comune. Presi il mattone indicato che era esattamente uguale agli altri, scartai la pellicola nera e improvvisamente capii cosa fossero quei mattoni. Era droga, erano circa dieci chili di hashish! Almeno, l’odore e l’aspetto erano quelli giusti. Posai il mattone scartato, chiusi la borsa e sospirai profondamente. Pensai di abbandonare tutto lì e fare finta di nulla, ma certe cose nel bene o nel male capitano una volta sola nella vita e in quel momento la curiosità era troppa. Finii di scartare il mattone e all’interno trovai un foglio ripiegato con scritto: Partita 3421 Green X-13. È stato scelto per la produzione di derrate alimentari contenenti l’ingrediente che trova nella borsa. Il prodotto in questione dovrà contenere esattamente un grammo di Green X-13 e sarà venduto a venti euro al pezzo.


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Ha 11 giorni di tempo per ideare una ricetta, cucinarla e infine venderla. Il suo compenso sarà del 15%. Avevo appena aperto il vaso di Pandora e ora non potevo più tirarmi indietro, anche se nessuno mi costringeva a farlo. Nella lettera non c’erano minacce di alcun genere, era semplicemente un ordine, ma in qualche modo sapevo che non avrei potuto tirarmene fuori. Era un ordine tremendo; in quel momento capii di essere veramente nella merda fino al collo. Cercai di rincartare nel migliore dei modi quel mattone di droga che aveva già inondato il bagno di un odore inequivocabile. Misi la lettera in tasca, chiusi la borsa e la portai via con me. Camminavo per l’ateneo completamente disorientato, quasi stordito dai miei pensieri. Sapevo cosa dovevo fare, ma non sapevo come. A chi l’avrei potuta vendere? Inoltre undici giorni erano veramente pochi. Quanti anni di prigione rischiavo? A quel tempo non sapevo che la prigione sarebbe stata la cosa migliore che mi sarebbe potuta capitare. Il quindici per cento del ricavato erano un sacco di soldi per undici giorni di lavoro. Non avevo ancora fatto i conti con precisione, ma sapevo che il rischio era ben ripagato. Decisi di affrontare la cosa per gradi e soprattutto di non parlarne con mia sorella. Fortunatamente lei era troppo impegnata a ricordarsi tutto l’occorrente di Alphonse, mio nipote, per accorgersi di un borsone in più. Una volta arrivati a Roma avrei studiato il metodo migliore per gestire quella situazione; il primo problema da risolvere era quello di pensare a una ricetta valida.


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II. MUFFIN MAN

Ascoltavo la voce calda e vellutata di una donna che parlava al telefono seduta comodamente sul sedile dietro al mio. Non sapevo che aspetto avesse, ma la sua voce era estremamente sensuale. Parlava una lingua dell’est Europa, forse russo, e riusciva in qualche modo a distogliere la mia mente dai pensieri ansiosi che l’affollavano. Quel borsone, fardello inequivocabile della mia scelta, l’avevo dovuto lasciare nella stiva del pullman che ci stava riportando a Roma. Mia sorella dopo qualche minuto dalla partenza era riuscita a far addormentare mio nipote e cercava a sua volta di dormire, stanca dalla notte passata in bianco. Il pullman, come spesso accadeva, era molto affollato. I posti a sedere erano tutti occupati e nonostante fosse inverno la temperatura nell’angusto abitacolo si stava alzando rapidamente. Ricordo che il controllore cominciò a fare il suo lavoro con estrema lentezza e solo dopo alcuni infiniti minuti mi raggiunse. Furono istanti tremendi per me, sudavo freddo, ero molto agitato. Percepivo la paura paralizzante e irrazionale che mi scorreva lungo tutta la schiena, dalla testa ai piedi. Eppure avevo il biglietto, nessuno aveva controllato il contenuto del mio borsone, ero un passeggero qualunque in uno dei tanti pullman che trasportano persone in giro per l’Italia. Non rischiavo nulla e nessuno, tantomeno il controllore, poteva sapere cosa dovevo fare di lì a undici giorni. Ricordo con esattezza che in quel momento la sua espressione mi sembrò inquisitoria e sospettosa; ripensandoci oggi, però, forse ero solo in soggezione. Quel giorno avvertii per la prima volta la vera paura, quella di perdere tutti i miei cari, di procurare vergogna e dispiacere ai miei genitori, di deludere la fiducia e la stima di mia sorella, e si sa che nel bene o nel male la prima volta non si scorda mai.


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«Grazie e buon viaggio!» disse il controllore dopo aver distrattamente siglato il mio titolo di viaggio. Pensai che il peggio era passato. Il cuore stava rallentando e avevo ricominciato a respirare normalmente. La mia mente era immersa in pensieri che avvelenavano la ragione. Da quel giorno in poi avrei sempre dovuto temere le autorità? Quali pericoli correvo? La paura mi avrebbe impedito di fare errori in futuro? La mia incapacità di controllo avrebbe prevalso sulla razionale logica che mi aveva sempre saputo guidare? A oggi ho dato una risposta a tutti questi interrogativi e il diavolo che mi porto dentro, che mi guida, sa come annebbiare i miei pensieri più negativi. In quel momento la priorità era quella di ideare una ricetta velocemente. Pensavo e ripensavo a tutto quello che avevo visto e imparato nei lavori che avevo fatto precedentemente. Ricordo che ero distratto da ogni minimo rumore, la musica alla radio, un bambino che giocava con la tendina del finestrino, perfino le piccole vibrazioni del pullman mi infastidivano. La lunga telefonata della donna dietro di me era terminata e improvvisamente mi toccò una spalla per chiedermi qualcosa. Aveva delle mani bellissime, le lunghe dita affusolate avevano un aspetto molto curato, anche le unghie ricoperte di uno spesso smalto rosso erano perfette. Mi chiese in italiano a che ora saremmo arrivati; per un istante mi sembrò che me lo avesse sussurrato all’orecchio e mi venne la pelle d’oca. Mi girai per risponderle e fui subito inebriato dal suo dolce profumo. La vidi in volto, era come una dea, la dea del sesso. I lunghi capelli biondi le cadevano lungo le spalle formando dei piccoli boccoli, le labbra carnose e leggermente increspate erano esaltate dal rosso cremisi del rossetto che aveva messo con estrema cura, gli occhi di ghiaccio erano incorniciati in quello sguardo freddo e distaccato tipico di una donna che sa quello che vuole. Aveva gli zigomi leggermente pronunciati e un naso delicato e ben proporzionato, avrà avuto circa trent’anni. Indossava una maglia vinaccia con una scollatura esagerata, come a voler sottolineare il suo seno prosperoso, probabilmente ritoccato da qualche genio della chirurgia plastica. «Alle quindici e venti circa» mi affrettai a risponderle per non sembrare il solito maiale che non riesce a guardare una bella donna negli occhi. Mi ringraziò e io frettolosamente mi girai.


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“Che figa” pensai. A ventitré anni percepivo che la tempesta ormonale adolescenziale stava ormai scemando e che il sesso e l’amore acquisivano un valore più maturo nella mia sfera emotiva, ma una bella donna restava pur sempre una bella donna. Lentamente il mio naso si era abituato a quel dolce profumo, ma la puzza di chiuso stava rapidamente saturando l’aria. Come accade spesso in simili situazioni, qualcuno non si era lavato e si prospettava un lungo viaggio immerso in quel tremendo odore. La canzone che passava alla radio era Muffin Man di Frank Zappa, fu proprio in quel momento che ebbi l’idea per la ricetta. L’idea giusta era produrre dei muffin salati e io sarei stato il Muffin Man della droga! Suonava dannatamente bene e per quanto potesse sembrare assurdo ero elettrizzato, quasi estasiato dalla mia intuizione. Il viaggio era ancora lungo ma io, sollevato dall’idea che avevo avuto, crollai in un sonno profondo. Sognai di fare sesso con la donna dell’est su montagne di soldi che odoravano di droga ed erano sporchi di sangue. Sonni a dir poco agitati. Mi svegliai di soprassalto quando il pullman rallentò bruscamente in prossimità di un incrocio. Erano le tre del pomeriggio ed eravamo quasi arrivati alla stazione. Mia sorella era sveglia, mi domandai se si fosse riposata abbastanza dopo la notte passata in bianco. Guardava fuori dal finestrino, mio nipote continuava a dormire, beato come solo un bambino di otto mesi può essere. Lui non faceva di certo i sogni agitati dello zio e per qualche secondo, guardandolo malinconicamente, ripensai alla mia infanzia, quando tutto era semplice e le cose più difficili le risolvevano i miei genitori. Qualche minuto dopo ricominciai a sudare freddo. Le paranoie si fecero più chiare quando sentii distintamente, il rumore di una sirena avvicinarsi a tutta velocità nella direzione del pullman. Mi guardavo intorno alla disperata ricerca dei lampeggianti pregando perché tutto quel trambusto e quelle sirene non fossero per me. Mia sorella in quel momento percepì qualcosa di diverso in me, ma non mi chiese nulla. Era impossibile nasconderle qualcosa, si accorgeva di ogni dettaglio, un po’ come nostro padre.


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La sirena si allontanò e subito dopo pensai che a Roma fosse normale sentire sirene della polizia, visto il tasso di criminalità in costante aumento. Arrivati alla stazione, l’unica cosa che mi premeva di fare era nascondere in un posto sicuro il borsone e allentare la tensione davanti a una birra, in compagnia dei miei amici. Tra la folla alla stazione dei pullman lo vidi di nuovo: Dakota. Era fermo in un angolo e guardava nella mia direzione, immobile. Perché mi stava seguendo? Rivoleva la sua borsa? Ma come poteva essere? Il messaggio era indirizzato a me, lui stesso mi aveva dato la sequenza. Iniziai a comprendere l’errore madornale che avevo commesso accettando quel borsone. La polizia o i carabinieri erano nulla in confronto a quello che poteva fare chi c’era dietro a quell’affare di droga, non solo a me, ma anche ai miei cari. Ormai non potevo né tirarmi indietro, né sforare dagli undici giorni che mi avevano dato per compiere la missione. Dakota scomparve tra la folla appena recuperai il borsone dalla stiva.


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III. AMICO

Non ero stato di molte parole quel pomeriggio a casa, tuttavia i miei genitori non avevano ancora notato nulla di anomalo nel mio comportamento. Con loro mi capitava spesso di parlare esclusivamente del tempo o fare commenti guardando i servizi del telegiornale durante i pasti. Da quando ero stato licenziato trascorrevo molte ore al computer in camera mia, saltando da un social network a l’altro o ascoltando musica. Ero un ragazzo tranquillo, una persona qualunque. Avevo già organizzato tutto per la sera. Dopo una doccia calda e la cena a casa, sarei andato a fare un giro in moto con il mio migliore amico Louis e infine avremmo gustato una buona birra al solito pub vicino a casa. Quel borsone era stato, in maniera del tutto infantile, nascosto sotto al letto come un mostro che aspetta la notte per uscire fuori e mangiare il bambino impaurito che ci dorme sopra. Andare in moto a dicembre comporta diversi rischi, ma toglie molte soddisfazioni, soprattutto davanti agli occhi delle ragazze, almeno così dicevano. Io non ho mai avuto grande successo con le donne grazie alla moto. I più tenaci eravamo io e il mio migliore amico Louis, un po’ perché era il nostro unico mezzo di trasporto e un po’ perché incoscientemente ci consideravamo dei superuomini indistruttibili. Non c’era temporale o tifone che potesse fermarci, o almeno così pensavamo. Quella sera avevamo appuntamento alle ventitré alla Tana, un pub che si trovava vicino al centro di Roma; avevamo preso l’abitudine ad andare lì per l’ottima scelta di birre artigianali che proponeva. Il mio mestiere mi aveva portato a sviluppare il senso del gusto, per cui tutto ciò che si mangiava o che si beveva era per me molto interessante. All’epoca non fumavo e i recettori della mia lingua funzionavano alla perfezione, amavo degustare birre artigianali, soprattutto le india pale ale, le american pale ale e le porter,


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che erano più difficili da trovare. Ero un vero esperto nonostante non reggessi molto l’alcol, per questo mi ripetevo che l’ubriacatura era una conseguenza del gusto. Il mio amico Louis, che era più grosso e tarchiato di me, puntava invece sulla quantità, infatti beveva birre poco complesse, aromaticamente parlando, ma era capace di consumarne anche due litri in una serata senza collassare al suolo. A quel tempo faceva boxe a livello agonistico, si allenava praticamente tutti i giorni. Quella sera la ricordo molto bene, perché decisi di non confessare nulla a Louis. Fu molto strano, perché a quei tempi io e lui eravamo praticamente la stessa cosa. A volte non serviva neanche parlare per capirci, ma sapevo che quello che era successo non poteva saperlo nessuno, soprattutto Louis, che era figlio di un maresciallo dei carabinieri. Parlai qualche minuto della donna dell’est e decisi di bere poco per paura di sbronzarmi e parlare a sproposito; ordinai mezzo litro di american pale ale. Louis chiese subito un litro di bock e per fortuna attaccò a parlare dei suoi problemi di cuore. Qualche mese prima aveva conosciuto una ragazza di nome Nausicaa e avevano iniziato una storia di solo sesso, ma io a Louis lo conoscevo, lui era uno degli ultimi romantici. Così un’infatuazione esclusivamente fisica si era trasformata per lui in un sentimento più profondo, purtroppo non corrisposto. In quel momento a me non importava minimamente delle sue turbe giovanili, annuivo ma in verità pensavo ai minuti che stavo perdendo lì. Un’ora dopo giocherellavo con il bicchiere vuoto della mia american pale ale, assaporando ancora quel retrogusto di frutta tropicale in bocca. Louis era a metà del secondo litro di birra, quando mi chiese cosa avevo fatto a Chieti. Parlai di quanto era faticoso guardare un bambino di otto mesi e delle differenze climatiche con Roma, cambiai rapidamente discorso. Nel frattempo nella mia mente si stavano delineando le operazioni che avrei eseguito il giorno seguente. Ero di nuovo in partita e come ai tempi del ristorante programmavo il servizio del pranzo o della cena nei minimi dettagli. Niente era lasciato al caso, gli imprevisti erano ridotti al minimo. Dovevo cucinare droga, ma la mise en place e il mio impegno sarebbero stati gli stessi, tanto più che in gioco c’era la mia incolumità e quella dei miei cari. Ogni tanto durante quella serata ho pensato a mio padre; se avesse saputo, cosa avrebbe fatto? Mi prefiguravo la sua espressione delusa e lo sguardo triste e arrabbiato attraverso gli spessi oc-


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chiali. La paternale, il senso di colpa e la sua ira sarebbero stati ben peggiori di qualsiasi prigione, spacciatore o organizzazione criminale. Già, allora la pensavo così. Avevo un’irrazionale paura dell’uomo che mi amava più di ogni altra cosa al mondo, ma che dimostrava il suo affetto in una maniera veramente troppo contorta per capirla. Dicono che tutte le persone hanno una fobia; io avrei preferito scambiare la mia con quella per i ragni, clown, scale, ascensori o qualsiasi altra cosa. Sarebbe stata sicuramente meglio. Io ero vittima della peggiore, la fobia di vivere. Il dramma era quello che non me ne rendevo conto. Avevo paura di affrontare la vita di tutti i giorni e mi rifugiavo dentro a schemi mentali precostruiti appositamente per ogni situazione. Louis aveva intuito indirettamente questo mio lato e incoscientemente mi aiutava, buttandomi nelle sue avventure senza possibilità di scegliere. Negli anni a seguire sono arrivato a pensare spesso che inconsapevolmente fu proprio per stupire Louis che accettai quel borsone. Anche il secondo litro di birra di Louis era finito, e la serata era giunta al termine. Ricordo che volevo solo andare a dormire, la giornata seguente sarebbe stata molto lunga. Salutai Louis con un abbraccio amichevole ma molto virile, pacca sulla spalla e stretta di mano, era una sorta di rituale; mi manca. Non ricordo molto bene il viaggio di ritorno, mi capitava spesso quando ero in moto. La mia ansia e le mie paranoie erano anestetizzate dalla velocità, la periferia romana di notte assumeva un aspetto post-bellico. Il degrado urbano era lampante, la spazzatura e le erbacce ai bordi della strada erano lì immobili a fare da padroni della capitale. Adoravo quegli scenari e ancor di più amavo scorrazzare di notte. Parcheggiai la moto nel posteggio di casa mia, la coprii con il suo telo e le diedi delle pacche paterne sul serbatoio; anche quello era un rito, una sorta di ringraziamento per essere tornato a casa sano e salvo. Alzai lo sguardo e fuori dal cancello lo vidi di nuovo: Dakota. Era immobile, ovviamente non indossava gli occhiali da sole ma ero troppo lontano per decifrare il suo sguardo. Istintivamente feci un cenno con il capo ed entrai in casa. Dakota sapeva dove abitavo. Mi aveva seguito tutto il giorno senza mai farsi notare?


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IV. MISE EN PLACE

Decisi che i muffin sarebbero stati di tre tipologie. Ero sicuro che vivendo in un mondo di vegani, crudisti, onnivori, carnivori, vegetariani e chi più ne ha più ne metta, avrei incontrato sicuramente pareri discordanti sul gusto del mio prodotto. Per non parlare poi delle allergie a determinati alimenti. La scelta di più gusti avrebbe inoltre rallentato il processo di noia gastronomica; ignoravo completamente che la noia sarebbe stata messa in secondo piano dalle persone che, accecate dalla tossicodipendenza, avrebbero ingerito qualsiasi cosa. Tempo indietro avevo visto amici sciogliere e sbriciolare palline di hashish con un accendino, quindi giunsi alla conclusione che per tagliare quei mattoni avrei dovuto scaldare un coltello e tagliare in parti da un grammo i dieci chili contenuti nel borsone. In casa avevo una bilancia che usavo per pesare lo zucchero o la farina nella preparazione di dolci casalinghi, ma non avevo molta fiducia sulla precisione di quello strumento. Per quello che mi aspettava non potevo fare un lavoro grossolano e poco preciso. Così mi convinsi che sarebbe stata una buona idea investire qualche soldo in una bilancia di precisione. Mi recai in un negozio di forniture per pasticceri e acquistai una bilancia professionale al costo di quarantanove euro. All’epoca mi sembrò una spesa folle, ma avevo fatto i miei conti e se fossi riuscito nella mia missione avrei sicuramente risolto i miei problemi economici per un bel po’. Comprai anche cinque teglie da forno per muffin che potevano contenerne cento ciascuna. Dovevo produrre diecimila pezzi e mi ero dato un limite massimo di due giorni per completare la cottura, dopodiché sarei dovuto passare allo spaccio. Dove lavoravo prima, con un forno professionale, se ti impegnavi potevi riuscire a farne cinquemila in due giornate lavorative, quindi in cuor mio sapevo che non avrei mai potuto farcela in quarantotto ore.


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Avevo in mente una lista degli ingredienti che mi sarebbero serviti per la preparazione. Mi recai a fare la spesa, facendo attenzione a non dimenticare nulla. Tornai a casa senza mai incontrare Dakota; mi aveva lasciato in pace per allentare lo stress del lavoro che mi aveva affidato la mattina precedente? Onestamente, non mi sembrava tipo da fare quei ragionamenti. Probabilmente mi aveva seguito e io non me ne ero neppure accorto. I miei genitori facevano gli antiquari e avevano un negozio in centro, vicino al vecchio ghetto ebraico. Erano onesti lavoratori, ma la criminalità organizzata, che in quel settore era celata da una nebbia sottile, incoronava i truffatori e penalizzava chi, per morale e senso della giustizia o per semplice paura, non era in grado di soddisfare le richieste di un mercato d’arte clandestino in continua espansione. A dicembre di ogni anno a Parigi c’è una fiera dell’antiquariato che dura una settimana. I professionisti del settore si recano lì per partecipare ad aste, vendere o comprare pezzi per la propria collezione o per il proprio negozio. I miei genitori, come tutti gli anni, si recavano nella capitale Francese in cerca di qualche affare, in genere gli acquisti fatti alla fiera parigina servivano per coprire i periodi morti durante l’anno seguente. Avevano l’aereo per Parigi alle sedici di quel pomeriggio, quindi sarebbero usciti di casa per le quattordici, lasciandomi la cucina libera per sette giorni. Avevo calcolato di riuscire a vendere tutto prima del loro ritorno. Salutai mia madre e mio padre come se fosse l’ultima volta che li avrei visti e una volta che varcarono l’uscio di casa iniziai a lavorare. Tagliare l’hashish si rivelò un compito lungo e molto noioso; mi portò via quasi tre ore. Erano le diciassette e venti, faceva buio presto, quindi avevo già acceso tutte le luci della cucina. Era tutto abbastanza illuminato, ma le mie paranoie mi convincevano che c’era ancora troppo buio e che avrei potuto sbagliare un dosaggio. Questo mi provocava uno stato di agitazione elevato e mi impediva di ragionare lucidamente, ma soprattutto velocemente. Prendevo nota di quello che stavo facendo su un piccolo quaderno a righe trovato in un cassetto dentro camera mia. Sulla copertina erano raffigurati due leoni distesi su un prato, era molto banale e pensai che potesse passare inosservato. Annotavo solo appunti sugli


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ingredienti dei muffin e quello che avevo in mente, non menzionavo mai quanta droga inserissi o il processo che avevo utilizzato per tagliarla. Avrei prodotto cinquecento muffin a infornata e impiegavano circa venticinque minuti per essere pronti. La temperatura doveva essere di centosettantotto gradi esatti per ottenere una cottura perfetta. In un’ora potevo produrre mille muffin, avevo dieci minuti tra un’infornata e l’altra per preparare nuovamente le cinque teglie, ogni due infornate dovevo preparare il nuovo impasto, questo mi toglieva circa trenta minuti. Occupavo i tempi morti delle cotture per preparare gli ingredienti dell’impasto successivo. Mi aspettavano quindici ore effettive di lavoro, spalmate sulle quarantotto ore prestabilite. Avevo considerato gli imprevisti e la stanchezza che avrei accumulato, quindi probabilmente le ore di lavoro sarebbero aumentate a venti. La spesa che avevo fatto sarebbe bastata per circa la metà dei muffin che dovevo preparare, perciò dovevo considerare anche il tempo per fare altra spesa. Il forno che avevo a casa era di media qualità, impostare la temperatura esatta era molto difficile e per questo avevo fatto un segno con il pennarello indelebile nel punto esatto in cui dovevo posizionare la manopola del controllo della temperatura. Il mio frigo era troppo piccolo per contenere tutto quello che mi serviva. Reputavo una grande scocciatura quella di perdere tempo due volte per fare la spesa, ma era un passaggio obbligatorio. Durante la cottura della prima infornata, una leggera cortina di fumo verdastro cominciò a uscire dal forno insieme a un odore molto simile a quello della cannabis mischiato a quello di fritto. erano fumi pesanti, infatti permanevano sul pavimento e invasero tutte le stanze di casa. Aprii tutte le finestre per far uscire quello strano fumo denso, ma fui costretto a richiudere tutto dopo pochi minuti, questo perché il fumo cominciò a cadere dalle finestre e dal balcone come una lenta e nebbiosa cascata. Abitavo al terzo piano e nel giro di poco tempo la facciata principale del condominio era completamente ricoperta di fumo. Probabilmente dall’esterno sembrava il palazzo degli orrori, infestato da fantasmi di ogni genere. Sigillai la porta di casa con degli asciugamano e dello scotch da pacchi. Rimasi in attesa fino a cottura ultimata; la casa colma di fumo aveva assunto un aspetto spettrale. Mi affrettai a tirare fuori i muffin per non bruciarli e iniziai subito a dividere e infornare le cinque teglie della seconda mandata. Lasciai sul tavolo del salone i primi cin-


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quecento muffin a raffreddare. Avevano un aspetto tanto finto quanto particolare. Il colore variava dal giallo al rossiccio marrone in base alla cottura. Ognuno di essi presentava una striatura a spirale verdognola che partiva dal centro e andava a coprirlo interamente. Ero sconcertato, in tre anni di ristorazione non avevo mai visto un risultato simile. Sembravano disegnati, erano perfetti e tutti uguali, come se le caratteristiche chimiche di quel grammo di presunto hashish all’interno di ogni muffin sapesse modificare in qualche modo tutte le regole di base della cucina che avevo imparato durante i miei studi. Il mio smartphone, che si trovava appoggiato sull’asse da stiro, continuava a vibrare insistentemente per le varie telefonate e messaggi dei miei amici. Lo ignorai. Erano ormai le venti ed ero a quota millecinquecento pezzi. Ogni infornata era di un gusto diverso, ma venivano tutti con quella strana spirale verde. Decisi di infornare il quarto gruppo di muffin e controllare il telefono; c’erano tre chiamate perse, diciassette messaggi Whatsapp, due sms e quattro notifiche dai vari social network. Ignorai le notifiche e controllai subito le telefonate, due erano di mia madre, una di Louis. Lessi i due sms, uno era della mia compagnia telefonica che mi informava delle promozioni natalizie, l’altro era di mia madre che mi diceva che erano atterrati poco prima e che era andato tutto bene. Mi affrettai a risponderle che anch’io stavo bene e non era successo nulla di rilevante durante la giornata; a parte la densa nebbia in cui si trovava la nostra casa, era vero. Lessi rapidamente i messaggi Whatsapp, erano i miei amici che scrivevano cose che in quel momento non mi interessavano minimamente. Non risposi a nessuno di loro, ma scrissi un sms a Louis dicendogli che ero partito con i miei per Parigi e sarei rimasto con loro almeno un paio di giorni, di non cercarmi perché non avrei potuto rispondergli non avendo a disposizione una connessione internet. Posai il telefono e continuai con la produzione. A mezzanotte avevo sfornato quattromila muffin ed ero abbastanza stanco, avevo già riempito tutto il tavolo da pranzo di muffin, ero leggermente in anticipo sulla produzione quindi potevo anche andare a dormire tranquillamente per ricominciare il giorno dopo e concludere la parte che reputavo più facile dell’intera missione. Prima di coricarmi decisi, per ingenua curiosità, di spendere venti


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euro e comprarmi uno dei miei muffin. Misi i soldi nel borsone che ormai conteneva solo lo smartphone di Dakota e cominciai a mangiare il muffin; avevo scelto quello al gusto di timo e funghi. Il sapore era squisito, ma non notavo particolari differenze da quelli che facevo a lavoro. L’unica anomalia da Green X era un sentore in fondo alla lingua che non riuscivo a distinguere con chiarezza. Sembrava il sapore di scatolame un po’ ferroso, ma era veramente solo una sensazione, forse un’illusione o una percezione non oggettiva. Non ero minimamente preoccupato degli effetti che mi avrebbe provocato, perché per me era uno dei miei tanti esperimenti gastronomici e non mi ero mai avvelenato con uno di essi. Ricordo che era quasi mezzanotte e mezza, non succedeva nulla di strano e stavo cominciando a rimanere deluso dal mio prodotto. Non avvertii effetti particolari, a parte il fatto che mi ritrovai sul pullman di ritorno da Chieti. «Maledizione!» gridai. Cosa diavolo ci facevo su quel pullman? Era un’allucinazione? Ero strafatto del mio muffin? Avevo cucinato una droga per viaggiare indietro nel tempo? Ero in preda al panico, l’hashish non provoca allucinazioni così vivide. Non era un sogno, era proprio la realtà, mi trovavo nel pullman veramente? Avevo sognato della borsa, di Dakota e della russa? No, c’era qualcosa che non andava. I passeggeri del pullman erano tutti senza volto e immobili, improvvisamente era tutto blu, come gli occhi del marinaio che mi stava versando da bere una birra ghiacciata sul tavolo di una baita in mezzo a una spiaggia tropicale. Sentivo caldo e il sole estivo mi accecò per un istante, li riaprii e stavo tremando, ero seduto nella camera ardente dove avevano lasciato la salma di mio nonno qualche anno prima. Stavo viaggiando, viaggiando di brutto, camminavo lungo il corridoio di casa mia o almeno quella che credevo fosse casa mia. Le pareti avevano un aspetto diverso, erano tappezzate da una carta da parati a righe verdi e bianche stile anni ‘60. C’era un individuo in fondo al corridoio, era Muffin Man, lo sapevo, era il me del futuro? O del presente? I miei passi si facevano più veloci e alla fine mi trovai a correre nella sua direzione… o nella mia? Più correvo e più mi allontanavo in un infernale effetto ottico di prospettive, sembrava quasi di non correre, ero fermo. Mi ero convinto di aver viaggiato nel futuro, così de-


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cisi di guardare l’orologio e come nel peggiore dei film di fantascienza le lancette correvano all’indietro e in avanti in maniera irregolare. Sentivo lo stomaco sottosopra e la bocca impastata, perdevo rapidamente il controllo della situazione. Mi ritrovai in ginocchio con la testa dentro al forno di casa mia e non riuscivo a capire se fosse la realtà o la finzione. Provai a guardare nuovamente l’orologio e le lancette non c’erano più. Sentivo nelle orecchie il suono che produce un bicchiere di cristallo strofinato sul bordo da un dito umido; era un fischio forte, simile al vento di Norvegia, che subito dopo mi colpiva la faccia congelandola. In seguito ero davanti a uno specchio, ma non ero io quello riflesso, c’era Paco, il marito di mia sorella, che mi parlava spagnolo; effettivamente stavamo passeggiando sulla Rambla a Barcellona. Ero in piedi sul divano di casa mia con in mano il telecomando della televisione, guardai l’orologio ed era cambiato modello, aveva il display digitale e i numeri scorrevano al contrario. Percepivo che c’era qualcosa che non andava, ma non ricordavo più da dove venivo, dove dovevo andare, cosa dovevo fare né tantomeno chi fossi. Ero felice, sereno, la sensazione più bella che avessi mai provato. Non vedevo più, non odoravo più, non sentivo nulla. Era il vuoto assoluto. Ero forse morto? Non mi interessava. Ero un bambino, mi sentivo come mio nipote mentre dormiva. Secondi, minuti, ore, anni? Il tempo non esisteva. Non avevo mai provato quella sensazione di pace assoluta, era meraviglioso e ripagava decisamente le scene confuse vissute qualche istante prima. Aprii gli occhi. Ero sdraiato sul pavimento freddo del mio salone, immerso in una coltre di fumo verdognolo. Guardai l’ora: il mio orologio funzionava correttamente? Segnava le quattro e trenta della notte e la lancetta dei secondi scorreva correttamente; era finito l’effetto del mio muffin allucinogeno? Mi misi a sedere per terra, la testa era leggera e il corpo riposato. Mi ero forse addormentato? Non percepivo più preoccupazioni e sapevo cosa avrei dovuto fare, senza ansia né paranoie di alcun genere.


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Mi alzai da terra e decisi che per lavorare nel migliore dei modi qualche ora la dovevo passare a dormire nel letto. Mi diressi in camera mia, impostai la sveglia per le nove e mi sdraiai. Pochi istanti dopo un uomo fermo sull’uscio di camera mi chiamò con una voce simile a quella di mio padre. Se avessi sofferto di cuore, probabilmente in quel momento sarei morto d’infarto. «Alzati!» gridava «non è ora di dormire, sono le nove!» Stava vaneggiando? Avevo appena controllato l’orologio. Mi alzai di soprassalto e illuminai nella direzione della voce con il telefono che era vicino al comodino. Era Dakota. Mi domandai come avesse fatto a entrare, ma soprattutto del perché affermasse che fossero le nove. L’orologio appeso al muro segnava le quattro e quaranta; ero ancora nella mia allucinazione? Dakota si scansò dall’uscio di camera mia e indicò nella direzione della cucina: «Avanti vai a cucinare, il presente è di chi vive nel futuro.» Dakota era anche un saggio, oltre a essere una spia? Ricordo che avevo letto quella frase su un libro qualche giorno prima. Notai che la sua voce era tremendamente familiare. Superai Dakota e tornai in cucina. Non avevo fame, anche se ero a digiuno dal pranzo del giorno precedente. Avevo mangiato solo un muffin, anzi, il muffin. Il fumo che aveva invaso l’appartamento qualche ora prima stava lentamente scemando per fare spazio ad altro fumo che avrei generato di lì a poco. Dakota si muoveva per casa come se fosse sua; al contrario di come l’avevo immaginato sembrava una persona alla mano così gli chiesi come si chiamava. Dakota era solo un nome di fantasia che gli avevo dato io. Mi guardò e disse che il suo nome non era importante, aggiunse che dovevo cucinare e vendere la sua droga. Era alla mano sì, ma fino a un certo punto. Alle cinque di mattina, non potendo andare a fare la spesa per comprare gli altri ingredienti necessari, cucinai quella poca materia prima che mi era rimasta riuscendo a produrre altri mille pezzi. Inaspettatamente ero a metà dell’opera e in tempo sulla tabella di marcia prefissata. Passai le due ore successive a incartare singolarmente ogni muffin con delle bustine trasparenti, scrivendo su ognuno di loro con una penna indelebile una scritta che recitava così: Muffin Man e le sue Frog Pepita vi renderanno la vita migliore!


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Mi resi conto che lavoravo in maniera più ordinata ed efficace di prima, non percepivo stanchezza, ansia o stress, ero come un automa, una macchina da lavoro instancabile. Dakota era contento del mio lavoro, lo percepivo, era immobile davanti alla porta d’ingresso e aveva uno sguardo appagato. Non mi spiegavo come facessi a percepire alla perfezione quel suo stato d’animo, dato che praticamente lo conoscevo da un giorno. In quel momento un’altra cosa che non mi spiegavo era come avesse fatto a entrare in casa mia. La porta era sigillata esattamente come l’avevo lasciata la sera precedente e le finestre erano tutte chiuse senza alcun segno di scasso. Quelle domande qualche istante dopo non avevano più importanza perché si stava facendo giorno. Potevo andare a comprare il resto degli ingredienti per finire la produzione. Quattro del pomeriggio, non dormivo da trenta ore ed ero riposato come se mi fossi appena alzato, non avevo più toccato cibo né avevo avuto bisogno della toilette, avevo bevuto un sorso d’acqua ma solo per abitudine, non percepivo realmente sete. Mi sembrava strano, ma avevo altro a cui pensare. Dakota non aveva più parlato perché continuavo a raccontargli di me da almeno quattro ore e ascoltava silenzioso, mi sentivo libero di dirgli tutto, anche le cose più profonde e personali. Avevo finito di cucinare i muffin e stavo finendo di pulire le ultime stoviglie. Era ora di incartarli, ma prima chiamai mia madre per non destare sospetti di alcun genere. Mi informò che la prima giornata della fiera non era andata molto bene, ma erano fiduciosi per i giorni a seguire. Percepii una sorta di nervosismo nella sua voce, probabilmente non avevano abbastanza soldi per acquistare le opere d’arte da rivendere, ma era solo una mia supposizione. Sono sempre stati riservati sulle loro spese e i loro guadagni, cercavano solo di non farmi mancare nulla. Se fossi riuscito a vendere tutti quei muffin avrei potuto aiutarli con le spese di casa e del negozio; nella mia mente si stava delineando un piano su come giustificare tutti quei soldi. «A domani, ti voglio bene.» Chiuse così la telefonata.


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Dakota annuì con la testa e mi disse di pensare attentamente al piano che avevo in mente per tutti quei soldi. Come faceva a sapere quello che pensavo? Era una tecnica militare imparata in qualche campo di addestramento? Forse era solo una coincidenza, gli avevo spiegato un po’ il carattere e le dinamiche dei miei familiari più stretti. Aveva tratto qualche conclusione? Non gli risposi e iniziai a incartare i muffin e per le diciotto e quaranta avevo concluso. Improvvisamente sentii le palpebre pesanti e l’unico pensiero che avevo era quello di andare a dormire. Dakota non c’era più, era sparito, senza di lui avrei potuto dormire serenamente. Il giorno dopo avrei dovuto cominciare con la vendita. Era simile sia come aspetto che come odore all’hashish, ma dannazione non lo era, era qualcosa di veramente diverso, qualcosa di fottutamente incredibile.


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V. LILLY

Mi svegliai alle sette del giorno dopo, pioveva e sentivo la pioggia scrosciare fuori dalla finestra. Avevo un forte mal di testa, tremendi crampi allo stomaco, una gran fame ed ero fortemente disidratato. Il letto e i miei pantaloni erano completamente bagnati, mi ero urinato addosso nel sonno. Sentivo freddo e tremavo, pensai subito all’influenza. Non potevo ammalarmi proprio in quel momento. Mi cambiai, feci colazione e guardando il salotto pieno di pacchetti di muffin capii esattamente cosa mi fosse successo il giorno prima. Avevo cucinato praticamente ininterrottamente tutto il giorno senza mangiare né bere, noncurante della fatica. Mi interrogai sul fatto che fosse stata la droga che avevo cucinato a darmi quel potere. Decisi di mettere nero su bianco le mie ipotesi e le mie teorie, sviluppando così una specie di diario del giorno passato. Più scrivevo, più ricordavo. Si preannunciava una giornata lunga e faticosa. Dopo qualche ora già mi sentii meglio, anche la situazione meteorologica era migliorata; aveva smesso di piovere, tuttavia era rimasto nuvoloso e l’umidità percepita era altissima. L’idea e l’obiettivo dei giorni seguenti sarebbe stata quella di convincere alcuni conoscenti a pagare venti euro per un muffin di droga. Gli amici con cui uscivo quasi tutti i giorni non erano inclini all’uso di droghe quindi contattai tramite Whatsapp quattro persone che conoscevo, ma che avevo perso di vista. Non erano cattive persone, non mi avevano fatto nulla di male, tuttavia i nostri stili di vita erano sempre più lontani e diversi, così per vari motivi non riuscivo più a stare con loro. Essendo divenuto uno spacciatore, il mio modo di agire li avrebbe riavvicinati? La prima che mi rispose fu Lilly. La conoscevo dai tempi del liceo, era una ragazza dall’aspetto anonimo, in carne e dal carattere introverso. Era


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una mia amica, ma da dopo il diploma ci scrivevamo raramente e le conversazioni che avevamo erano esclusivamente circostanziali, arricchite da frasi di poco valore. Quella conversazione però fu diversa, lei doveva assaggiare i miei Muffin e io dovevo convincerla che stava spendendo i suoi soldi per una cosa mai provata ed estremamente soddisfacente. La contattai perché avevo saputo da un’altra compagna di scuola che negli ultimi anni stava cercando di sbloccare il suo carattere. Aveva cambiato giro di amicizie ed era finita per perdersi nel tunnel delle droghe, pensavo che prima o poi sarebbe finita a bucarsi. Dopo le prime frasi di circostanza mi buttai e le chiesi di vederci per pranzo, in onore dei vecchi tempi; senza tanti problemi accettò l’invito. Questo mi stupì, infatti conoscendola mi sarei aspettato un atteggiamento più riservato. La cosa che mi colpì ancora di più, però, fu che mi invitò a casa sua con la scusa che era andata a vivere da sola e voleva farmi vedere casa. Forse non era più la stessa Lilly introversa e anonima che avevo conosciuto a liceo? Forse aveva intuito che il mio interesse rinato nei suoi confronti era finalizzato a un secondo fine, magari sessuale? Accettai comunque l’invito, anche perché le altre persone che avevo contattato abitavano nei paraggi. Finito con lei avrei potuto raggiungere rapidamente anche gli altri. Alle tredici esatte ero sotto casa di Lilly. Mi fece salire, abitava in un villino nel cuore della Roma bene. Era la figlia di due persone troppo impegnate con il loro lavoro per fare i genitori. Non ho mai saputo di cosa si occupassero, ma i loro impegni lavorativi li portavano spesso a fare viaggi all’estero. Non avevano tempo per prendersi cura della figlia, quindi le avevano comprato casa e le pagavano gli studi universitari. Forse per sentirsi a posto con la loro coscienza. Con lei abitavano altre due ragazze a cui chiedeva un contributo irrisorio sulle spese della casa. Lilly aprì la porta e per qualche istante feci fatica a riconoscerla, era cambiata moltissimo in soli quattro anni. Aveva perso qualche chilo, i lineamenti del volto erano più decisi e le conferivano un aspetto più adulto, l’acne adolescenziale aveva lasciato spazio a una pelle lucente e liscia. I lunghi capelli ricci che portava sempre troppo spettinati e disordinati a liceo erano diventati dei dreadlocks raccolti in una sorta di coda. Lo sguardo era lo stesso, ma gli occhi gonfi, leggermente arrossati e l’aria assente indicavano che aveva fumato dell’erba. Feci finta di niente e la salutai con un bacio sulla guancia e un rapido abbraccio amichevole.


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Aveva un odore particolare, pungente, non saprei descriverlo ulteriormente, non lo ricordo più. Mi fece fare il giro della casa, si sviluppava su due piani, c’erano tre grandi stanze da letto, una al piano superiore e due al piano inferiore, una cucina formato IKEA, e un salotto dallo stile minimal e moderno. Le pareti bianche erano arricchite da riproduzioni di quadri di arte contemporanea. Era una casa molto luminosa e pulita, trasmetteva tranquillità. Sulla parete di fronte all’ingresso c’era un televisore LCD e due divani di pelle nera contrapposti l’uno rispetto all’altro, in mezzo c’era un tavolo di cristallo con alcune riviste poggiate sopra. Su uno dei divani, seduta con le gambe distese, c’era una ragazza; si chiamava Flaminia ed era intenta a leggere un libro, coperta fino alla vita da una trapunta tigrata. In cucina incontrai Giada intenta ad armeggiare con il microonde. Erano le due coinquiline di Lilly e intuii che avrebbero pranzato con noi. Per pranzo c’era una lasagna confezionata e delle patate al forno cotte al microonde. Pensai che non era proprio il massimo. Non importava, ero lì per un altro scopo. Mangiai tutto facendo anche degli apprezzamenti positivi su quelle pietanze insipide. Parlammo per un’ora con Lilly e le sue amiche passando da un argomento all’altro, alla fine la discussione virò sull’argomento che avevo scelto per introdurre il mio prodotto. Parlammo di quante droghe avessimo provato. Io naturalmente inventai tutto di sana pianta. «Ma sapete ragazze, devo proprio dirvelo. La migliore droga sono le Frog Pepita di Muffin Man.» Rimasero tutte un momento in silenzio, Lilly e Giada dissero subito che non le avevano mai provate. Flaminia mentì, dicendo che le aveva provate e che era rimasta piacevolmente colpita. “Che stupida” pensai; le Frog Pepita le avevo create il giorno prima, nessuno poteva averle provate. Le altre due invece erano incuriosite e mi chiesero se conoscevo chi le vendesse. Era fatta? Spiegai a tutte e tre in cosa consisteva, e Flaminia continuava ad annuire facendo finta di sapere già tutto.


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«Ah quindi sono tre gusti, che fico! Deve essere proprio un genio chi ha inventato questi muffin» disse Lilly, e nel frattempo si accese una sigaretta. Era tutto pronto, informai le tre ragazze che possedevo dei muffin e che glieli avrei potuti vendere, così ne piazzai subito tre a Lilly e uno a testa alle sue due amiche. Lilly aveva comprato tutti e tre i gusti, Flaminia aveva preso quello al pomodoro e origano dicendo che quello al timo e funghi lo aveva già assaggiato. Giada scelse quello al prosciutto cotto, mela e cannella. Dissi alle ragazze che nelle ore seguenti avrebbero dovuto bere e mangiare anche se non ne sentivano il bisogno. Non ero sicuro che sarebbero capitate le stesse cose anche a loro, ma non volevo fare male a nessuno; le mie paranoie su quanto fosse scorretto e immorale vendere droga crescevano ogni minuto di più. Avevo appena guadagnato cento euro in cinque minuti; mi stappai una birra e aspettai che le ragazze finissero di mangiare il muffin, uno a testa. Dopo trenta minuti circa, vidi riflesso sulle tre ragazze quello che era capitato a me la notte prima. Erano sedute sul parquet in cerchio, con gli occhi sbarrati e le pupille dilatate, non parlavano e non battevano ciglio. Poco dopo si addormentarono, accasciandosi molto lentamente; era un sonno estremamente profondo con lunghi e lenti respiri da parte di tutte e tre. Appoggiai la bottiglia di birra sul tavolino di cristallo vicino al divano. Mi sedetti e controllai il telefono; mi avevano risposto positivamente tutti e tre i ragazzi a cui avevo scritto la mattina. Pensavo che nonostante tutto dovevo essere proprio una persona simpatica agli occhi degli altri, infatti erano tutti ben disposti a vedermi nonostante gli anni che non mi ero fatto sentire. Telefonai a mia madre per la solita chiamata giornaliera. In seguito andai al bagno del piano terra; la mia urina aveva un odore agre, simile a quello che ha dopo aver mangiato asparagi. Era molto strano, perché non avevo mangiato asparagi. Pensai a un effetto collaterale da Frog Pepita, una cosa da scrivere nel mio quaderno degli appunti. Le ragazze continuavano a dormire, avevo ipotizzato che avrebbero continuato per almeno tre ore come avevo fatto io in seguito alla fase di TransJumper. Inventai quel nome per indicare la fase delle visioni dopo la digestione del muffin. Mi ero accordato con gli altri contatti per incontrarli nelle tre ore seguenti, così d’istinto presi la borsa di Lilly che era


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appesa su di un attaccapanni all’ingresso e cominciai a frugarci dentro alla ricerca delle chiavi di casa. Assorbenti, occhiali da sole, fazzoletti, mini trousse, sigarette, eccolo! Avevo trovato il mazzo delle chiavi di casa sua. Mi servivano per rientrare quando avrei finito di fare le mie commissioni. Appesi la borsa dove l’avevo trovata, mi chiusi alle spalle la porta d’ingresso e andai all’incontro con gli altri possibili clienti. Per ottimizzare i tempi avevo scelto un parco vicino a casa di Lilly, e siccome Andrea e Marco si conoscevano avevo potuto unire i due appuntamenti. L’oretta trascorsa insieme a quei due si risolse con la vendita di solo due muffin che non consumarono sul posto perché li avevo avvisati di non mangiarli in luoghi aperti, poiché potevano provocare sonnolenza, ma soprattutto delle forti allucinazioni. Mi raccomandai anche con loro di costringersi a mangiare e a bere acqua. Dispensare questi consigli mi faceva sentire meno delinquente. Sentivo di elevarmi e allontanarmi un po’ dalla figura del pusher avido e senza scrupoli, descritta in tutti i film che avevo visto. Rick era il quarto uomo, l’avrei incontrato in seguito in un bar di fronte al parco. Avevo con me uno zaino con tredici muffin, avvertii l’oppressione del fallimento e lo stress di non riuscire a completare la mia missione. Ero riuscito a guadagnare centoquaranta euro, ed era una cifra incredibile per solo un’ora di lavoro, tuttavia vendere migliaia di muffin con i contatti che avevo sarebbe stata un’impresa ardua se non impossibile. Ricordai le parole di Dakota a proposito del presente e il futuro, ma non mi aiutarono in nessun modo. Subito dopo, per la prima volta, provai l’astinenza dalla droga. Ho sempre amato definirlo come un tarlo che ti buca il cervello e ti fa pensare solo a quello. A me ricorda il mal di denti; il dentista, che in questo caso è il Green X, è l’unico che può curare il tuo male. Volevo un altro muffin, per non pensare e per abbassare e anestetizzare il mio livello di stress. Fortunatamente la mia dipendenza era solo agli inizi e potevo ancora controllarla. Mi incontrai con Rick, non era cambiato poi molto dall’ultima volta che l’avevo visto. Era un ragazzo dalla corporatura normale, aveva i capelli lunghi e dei baffi ben curati. Lavorava in un negozio di animali, e per arrotondare lo stipendio la sera vendeva qualche grammo di marijuana. Era con lui che


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indirettamente, rubando con gli occhi, avevo imparato a squagliare l’hashish. Sempre lui, mi aveva fatto provare qualche tiro di cannabis, ma avevo capito che non faceva per me e che preferivo spendere i miei soldi in altro modo. Mi domandai se avrei potuto insegnargli qualcosa io quella volta, pensai che se avesse gradito il mio prodotto avrebbe venduto qualcosa per me. Gli raccontai di questo muffin che avevo casualmente mangiato, e con grande stupore da parte mia mi rispose che da qualche anno si sentiva parlare di questi prodotti alimentari che provocavano effetti simili e che purtroppo erano mesi che non si trovavano più in circolazione. I clienti più affezionati a questo genere di droga erano professionisti, gente che aveva bisogno di non dormire per giorni, persone che lavoravano giorno e notte per continuare a fare soldi. “La gente giusta” pensai. Mi chiese dove avevo reperito i muffin, gli dissi che avevo trovato un contatto e che stavo cercando il modo di smerciarli. Rick non ci pensò un secondo di più e mi disse che li avrebbe comprati lui. Mi chiese quanti ne avessi; da subito non potevo dirgli che erano una montagna alta come me, abbandonata nel salotto di casa mia, così gli dissi che ne avevo cento pezzi ma che se fosse riuscito a piazzarli potevo rimediarne altri. Rick era elettrizzato, mi chiese dove li conservavo. Gli spiegai che per sicurezza non li avevo con me, ma che se voleva sarei potuto andare a prenderli. Rick non stava più nella pelle e mi chiese a quanto gli avrei venduto la partita di droga. «Pensavo a duemila euro» dissi con aria circospetta e abbassando la voce. Rick ci pensò un attimo, poi mi disse che ci stava. L’appuntamento era a casa sua un’ora dopo. Andai a recuperare i muffin richiesti, li misi nel mio zaino e mi diressi all’incontro. Sulla strada per casa di Rick trovai molto traffico per via degli acquisti natalizi e del brutto tempo. Nonostante fossi in moto impiegai un’ora e trenta a raggiungerlo. Gli diedi i cento muffin e lui mi diede duemila euro in banconote da cinquanta. Erano tenute insieme da un elastico verde, contai il numero delle banconote, erano quaranta, li misi subito nella giacca da moto, nel taschino interno chiuso dalla cerniera. Rick scartò un muffin e lo mandò giù senza pensarci un secondo. Mi disse che era roba buona


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perché avevano la striatura verde. Aggiunse che non sapeva esistessero in diversi gusti e che era abituato a delle semplici pizzette di droga. Detto questo mi salutò e si stese sul divano, per rilassarsi durante la TransJumper. Io Dovevo tornare da Lilly per vedere cosa era successo nel frattempo. Arrivai sotto casa sua con venti minuti di ritardo sull’orario che avevo previsto, erano passate più di tre ore da quando avevo lasciato le ragazze nel loro salotto. Persi tempo a trovare la chiave giusta, ma finalmente riuscii a entrare in casa. Giada stava passando l’aspirapolvere con fare frenetico e alquanto isterico. Flaminia era in piedi, dava le spalle al televisore e parlava molto animatamente dei fiori del giardino della madre, tutto questo con un interlocutore immaginario. Teneva con una mano un libro e con l’altra gesticolava freneticamente, sembrava quasi arrabbiata. Cosa avevo fatto? Ma soprattutto dov’era Lilly? Flaminia smise di parlare, mi guardò tranquillamente, fece un sorriso di circostanza e mi disse che Lilly era in camera sua al secondo piano. Detto ciò ricominciò a parlare da sola, abbastanza velocemente da non capirci nulla. Giada spense l’aspirapolvere e con uno sguardo truce mi intimò di togliermi le scarpe. Pensai che non fosse una buona idea contraddirla così eseguii l’ordine senza aggiungere altro. Riaccese l’aspirapolvere e ricominciò con le sue pulizie isteriche. Era diventata una casa di matte e la sensazione di tranquillità percepita poche ore prima era un ricordo lontano. Salii le scale che portavano al piano di sopra e vidi che la porta della camera di Lilly era chiusa; mi avvicinai e bussai, la voce di Lilly mi invitò a entrare. Una volta dentro, la vidi seduta con le gambe incrociate sul suo letto. Sembrava stesse meditando, si era cambiata gli abiti. Indossava dei pantaloni di lino color avorio chiaro e una canottiera molto larga, di colore bianco. La stanza era immersa nel fumo e si avvertiva un forte odore di incenso; in quel momento provavo una sensazione di smarrimento, cosa ci facevo lì? Cosa stava facendo Lilly? Si portò l’indice della mano sinistra alla bocca come a indicarmi di fare silenzio, con il braccio destro mi indicò di chiudere la porta dietro di me. Con molta cautela e molto silenziosamente chiusi la porta. Fatto questo Lilly scese dal letto, notai che era scalza e che portava uno smalto


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nero sulle unghie dei piedi, aveva anche un anello sul secondo dito del piede destro. Avevo sempre avuto un debole per i piedi di donna e per la prima volta vedevo i suoi, che non erano niente male. Lilly si avvicinò molto lentamente, arrivata abbastanza vicino mi prese entrambe le mani e se le appoggiò sul seno. Percepii subito che non indossava l’intimo sotto quella canottiera, ero agitato e disorientato, ma volevo ogni istante di più andare in fondo a quella situazione. Avrei approfittato di lei che in quel momento era drogata, costringendola ad atti che in uno stato psichico non alterato forse non avrebbe mai compiuto? Ogni dubbio perse importanza quando mise le sue mani sul mio petto e mi diede un bacio sulle labbra, mi trascinò sul suo letto. Niente importava più, il sesso con Lilly mi ricordò, in piccola parte, lo stato di pace assoluta provato la sera prima dopo aver mangiato quel muffin.


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VI. OGGI

2021 Quelle che qualche anno prima chiamavo occhiaie ora sono diventate parte integrante del mio volto. È scavato, consumato da una vita tristemente fuori dagli schemi, fatta di eccessi. Sono sulla soglia dei trent’anni, ma gli ultimi sette mi hanno fatto capire che la mia vita non ne durerà altrettanti. “Cosa stavo facendo?” Ho gravi problemi di memoria, facilmente dimentico dove mi trovo o cosa sto facendo. Dakota, il mio unico amico, è sempre al mio fianco, ma ormai sono anni che non parliamo più di cose importanti. Lui sa il perché e anch’io lo so. “Cosa stavo dicendo?” Sono davanti a uno specchio, indosso delle mutande bianche consumate e dei calzini di spugna neri. Faccio schifo; non ho mai avuto un gran fisico, ma ora più che mai sono il ritratto della debolezza. Il bicipite destro è fasciato e avverto un leggero dolore, lì sotto ci dev’essere una ferita fresca. La mia testa è rasata e non ricordo più come ero con i capelli, la barba nera che porto incolta comincia a ospitare qualche pelo bianco. Rapidamente do un’occhiata ai tatuaggi scritti sulle mie braccia. Sono una serie di nomi, date, numeri che con estrema difficoltà ricollego a volti e situazioni. Sul polso sinistro c’è il suo nome: Lilly. Lei me la ricordo bene. Un dubbio che mi porterò fin sottoterra sarà quello di non aver mai capito le donne e il loro modo di complicare sempre le cose. “Dove mi trovo?” Sembra il bagno di uno squallido Motel. Esco di lì e mi ritrovo in una camera d’albergo di cattivo gusto. C’è una donna che dorme sul letto matrimoniale di questa misera stanza, è bionda e completamente nuda. È


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una bella ragazza, probabilmente è straniera e sicuramente è una prostituta. Mi avvicino al comodino e vedo appoggiati su di esso una pistola, due orologi identici, una caramella non incartata, un cellulare di vecchia generazione, un pacchetto di sigarette, trecento euro in banconote da cinquanta e tre preservativi usati. “Niente male.” Sulla sedia vicino al comodino ci sono dei vestiti da uomo. Non hanno il mio odore ma sono gli unici che ci sono nella stanza. Decido di indossarli; si tratta di un completo nero con camicia grigia. Dopo aver infilato la giacca prendo una sigaretta e l’accendo, indosso anche uno dei due orologi e lo metto al polso destro; su quello sinistro c’è il nome di Lilly, non voglio coprirlo. Dopo aver messo l’orologio mi rendo conto che accanto, tatuato sul polso destro c’è scritto: “Metti anche l’altro”. Eseguo l’ordine e indosso anche il secondo orologio. Ricordo di aver tatuato sul mio corpo cose, azioni e persone che non posso permettermi di dimenticare. Mentre fumo guardo Dakota che giocherella con degli anelli che recentemente ha iniziato a indossare. Ultimamente mi sembra molto annoiato, forse perché ha visto troppo negli anni precedenti. Finita la sigaretta spengo la cicca nel posacenere appoggiato sul letto e mentre compio questa operazione mi accorgo che sull’indice e sul pollice che tengono la sigaretta c’è tatuato il comando di bere, mangiare e urinare. Non ne sento il bisogno ora. Recupero la pistola, le sigarette, il cellulare, mangio la caramella e lascio i trecento euro alla prostituta che intanto continua a dormire; probabilmente sono un suo cliente abituale e si fida di me. Esco dalla stanza e mi dirigo giù per le scale che portano all’uscita. Il primo orologio segna le sette e trenta di mattina, istintivamente controllo anche il secondo che segna la medesima ora. Ho ricordato cosa devo fare, mi ricordo che questo posto non è un motel ma una casa chiusa. Sono in strada, mi allontano rapidamente da quella squallida bettola. Mi trovo a Taranto, verso le nove dovrò essere in stazione per prendere il treno che mi riporterà a Roma. Decido di scrivermi su un foglio molto dettagliatamente cosa devo fare oggi, in modo di non dimenticarlo. Sono alla stazione molto in anticipo. Decido di fare colazione, saranno anni che non provo più gusto a mangiare. Serve solo per non morire, e mi domando spesso se in fondo non è quello che voglio. Telefono a mia


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sorella, l’unico membro della famiglia che nonostante tutto non mi odia. Risponde mio nipote Alphonse, il bambino di sette anni più sveglio che conosco. Mi somiglia o almeno assomiglia all’aspetto che avevo a sette anni. L’unica differenza è che ha gli occhi azzurri come il padre. «Ciao Alphonse, sono tuo zio. Potresti dire a tua madre che arriverò alla stazione per le sedici?» «Zio mi compri un gioco nuovo?» Furbo. «Ne hai già tanti, dammi un buon motivo per comprartene un altro.» «Perché altrimenti non le dico quando arrivi, a mamma.» «Potresti fare il venditore da grande lo sai? Ti comprerò un giocattolo, ma ora comunica a tua madre il mio messaggio per favore.» Lo ascolto prima esultare e poi comunicare il mio messaggio alla madre. Sorrido, lo saluto e interrompo la chiamata. Il mio treno partirà tra mezz’ora, ho tutto il tempo di andare in un negozio di giocattoli vicino alla stazione per acquistare qualcosa che non ingombri troppo. Non ho bagaglio e non amo portare oggetti voluminosi. Al negozio la mia attenzione cade subito su di un modellino di moto; poco dopo mi accorgo che è la riproduzione in miniatura della mia moto, quella delle passeggiate romantiche con Lilly e delle bravate con Louis. Si avvicina la commessa e anche Dakota, stranamente incuriosito da quella moto giocattolo. «Le faccio un pacco regalo signore?» La commessa mi guarda con uno sguardo particolare. È un misto tra paura e ribrezzo. «Sì, grazie.» La ignoro, sono abituato a essere osservato così. Sui treni Dakota ha il vizio di camminare avanti e indietro lungo tutti i vagoni, ma oggi fa eccezione, infatti rimane seduto di fronte a me, mi guarda con un’espressione triste. «Che c’è?» gli sussurro. «Non sei costretto a farlo» risponde. Sto pensando che invece sono proprio costretto a farlo, tuttavia Dakota continua a fare no con la testa, mi innervosisce. Ho bisogno di fumare.


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Mi alzo e mi dirigo nel bagno del treno, apro la finestra scorrevole, chiudo la porta della toilette a chiave e mi accendo la sigaretta. Ispiro a pieni polmoni quel veleno vaporizzato e lo butto fuori con una tale teatralità che sembra quasi un gesto di meditazione di una religione dimenticata. Fumare mi ricorda di essere vivo, è l’unico desiderio che ti rimane quando sei assuefatto di Green X. Mi sono appena tornati alla mente i tragici momenti degli incidenti che hanno cambiato la mia vita e la sua percezione. Tocco con la mano destra l’avambraccio sinistro e penso. Immediatamente vengo interrotto da qualcuno che sta bussando violentemente alla porta del bagno. Lancio il mozzicone dal finestrino, lo chiudo ed esco dal bagno senza guardare in faccia l’uomo che stava bussando tanto insistentemente. Emana un odore repellente di spazzatura e ha appestato tutto il vagone. Il treno non ha molti passeggeri, quindi decido di cambiare carrozza e posto a sedere, per riuscire a sfuggire a quel fetore. Dakota è sparito, probabilmente sta facendo avanti e indietro lungo il treno. Mi mancherà quando sarà tutto finito? )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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