In uscita il 30/9/2015 (15, 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine ottobre e inizio novembre 2015 ( ,99 euro)
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GIANLUCA SANTERAMO
RENÉ
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RENÉ Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-917-3 Copertina: Immagine di Diana Caramello
Prima edizione Settembre 2015 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
Al mio amore Diana e al nostro piccolo Jade che ha ispirato parte di questo libro. Per noi è stato un adorabile figliolo per molti altri solo un gatto‌
NOTE DELL’AUTORE
I miei ringraziamenti per la riuscita di quest’opera vanno alla mia amata Diana, prima lettrice dell’opera, correttrice di bozze, realizzatrice della copertina nonché ancora di salvezza in tutti quei momenti in cui avrei voluto mollare l’impresa. Al mio amico Pier Angelo Baiguera, estimatore accanito di romanzi di fantascienza, che si è prestato in qualità di lettore di bozze quando l’opera era sul nascere. A Sauro Nieddu e Massimo Licari, amici conosciuti all’interno di quell’iniziativa che è “Lettura incrociata”, per avermi esortato a scrivere un mio libro. Ultimo, ma non ultimo, all’editore per il semplice fatto di esistere; se non ci fossero imprenditori che puntano coraggiosamente su perfetti sconosciuti, opere come questa non potrebbero mai venire alla luce.
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ROSSO COME IL CIELO
La chiamano la maledizione del ventiquattresimo secolo. Non mi sembra possibile. Guardo il pallido sole sorgere sull’orizzonte di Marte, attraverso il forte vetro non vetro di queste cupole. Sembra un miracolo. Un miracolo divino, ma sappiamo tutti che si tratta di tecnologia. Cinquant’anni. Solo cinquant’anni. Un altro miracolo; le nano-macchine hanno rimesso a posto tutto il nostro pianeta d’origine e hanno fatto anche molto di più. Sembra che se abbatti una quercia ne nascano due; se ammazzi una locusta spunta fuori uno sciame a rimpiazzarla. Sembra quasi che il mondo animale e quello vegetale abbiano ricevuto una sorta di assistenza divina, qualcosa di magico che li protegge contro ogni sciagura. E poi ci siamo noi, gli uomini. C’è stato un tempo in cui potevamo essere nonni, un tempo in cui potevamo essere padri. E poi oggi; un popolo di soli figli, tutti sopra i venticinque anni. Mi è stata negata la paternità. Io, servo di Dio, servo della Chiesa Cattolica, sopravvissuta contro ogni pronostico, nonostante la stessa Chiesa abbia rinunciato al celibato dei propri servi quando era ormai chiaro che esso non portava con sé niente di buono, non posso essere padre come nessun altro essere di questo e dell’altro pianeta. E nessuno ne sa il perché. * * * «Sai? Sono molto preoccupato per il mio popolo.» «Lo so bene, padre.» «Ti ostini a chiamarmi padre come se tu stesso fossi un credente, ma così non è. Come mai?» «Rispettare la fede altrui è un dovere che trascende le proprie credenze, padre.» Annuisco. Spesso il mio strano amico riesce a sorprendermi con le sue parole. Trovo più conforto in lui di quanto non ne trovi in tanta gente in carne e ossa. Sa essere angelo o demonio, all’occorrenza. Spesso tentatore. Ma mai supera quella sottile linea che trasforma la tentazione, fine a se stessa, in coercizione.
8 «Padre?» «Sì?» «Perché non hai mai cercato una compagna?» «Bella domanda. Vedi… tanto tempo fa, così tanto che nessuno è memore del giorno preciso, la Chiesa pretendeva il celibato dei suoi servi diretti. Noi preti insomma. L’idea, neanche del tutto infondata, era che dovendo seguire una propria famiglia un sacerdote non sarebbe mai stato un servo di Dio completo. Poi nei secoli l’idea finì per sfumare.» «Sì, lo so. È che hanno trovato il modo di accaparrarsi gli assegni familiari… ma con te questo cosa c’entra?» «Ho provato a fare il test di fertilità. Visto che sono sterile come tutti ormai, ho pensato di rivitalizzare quel vecchio credo di mia spontanea volontà. Tutto qui.» «Nobile da parte tua, direi. Ma non ti senti solo?» Un sorriso beffardo al nulla, intriso dalla sola presenza del mio piccolo demonio. «Ammetto che è stato molto facile per me onorare il celibato. Resta il fatto che non sono solo; io ho Dio sempre con me, mio piccolo diavolo tentatore.» «Be’, puoi dirlo forte.» «Strane parole le tue, sai?» Me la rido sotto i miei baffetti accennati. Lui, un essere pensante che esiste al di là della forma, della biologia e del nostro concetto di anima, un qualcosa che ho sempre ritenuto non potesse essere che ateo, sembra che ora mi stia confermando la costante presenza dell’Onnipotente. Lui a me! È ridicolo! Grottesco, direi. * * * La guerra imperversa tutt’ora. Marte vuole sottrarsi al dominio del pianeta Terra. I coloni marziani si sentono estranei ai terrestri tanto da rinnegarne il legame ancestrale. L’ultimo attacco ha aperto una voragine in una delle cupole più grandi del sistema marziano, portando via con sé così tante anime che neanche l’apocalisse stessa avrebbe potuto far di peggio. Anche sulla Terra, mi dicono, non se la passano bene. Marziani contro terrestri. Uomo contro uomo, insomma. La guerra è reale, come lo sono state tutte le precedenti. Solo che adesso è tutto molto più rapido. Squadre di robot riescono a mettere tutto a posto nell’arco di pochi giorni. Ciò che prima era distrutto, improvvisa-
9 mente torna a esistere. Sicché la guerra è un po’ meno guerra che nei tempi più remoti. Dai alla gente l’illusione che tutto vada bene e tutto andrà bene. Meno che per le vittime; quelle non tornano più. «Sai? Certe volte mi chiedo se non sono in errore, con il mio credo.» «Perché mai dovresti esserlo? È collaudato da secoli! Ogni volta che qualcosa tende a scalfirlo, una nuova versione dei fatti rimette tutto a posto.» «Sempre con le tue frecciatine…» «Puoi biasimarmi? Una volta il paradiso era in cielo. Adesso di cieli ne avete almeno un paio… dov’è il paradiso adesso?» Annuisco con un sorriso beffardo. In effetti non posso negare come la religione abbia una vita sua che tende ad adattarsi a ogni circostanza. D’altronde credere è fede, fede è credere ciecamente. Forse essere ciechi non è il massimo, ma qualche volta aiuta. «Dimmi, piccolo diavolo; tu non credi perché hai deciso di non credere, sei stato programmato per non credere o magari hai la vera conoscenza nascosta da qualche parte?» «Potrei sorprenderti, padre. Non provocarmi!» «Adesso mi hai affibbiato la parte del diavolo tentatore?» «Chi? Io? Ma non farmi ridere! Tu sei un povero diavolo di tuo! Altro che santo! Cos’hai intenzione di fare là fuori?» «Faccio la mia parte: porto conforto. Non è forse questo il ruolo di noi uomini di Chiesa?» «Direi di sì. Sempre che ci riusciate…» «Dubbi?» «No, padre, solo certezze. La gente là fuori ascolta solo perché non può fare altro.» «OK. Allora mostrami la strada…» «Non attacca, padre.» «Perché mi tratti come un millantatore?» «E se fosse perché ne sono fermamente convinto?» «Be’, la fede è fede! O ce l’hai o non ce l’hai. Ma non hai ancora risposto alla mia domanda. Perché non credi?» «Diciamo che ho una mia versione alternativa dei fatti.» «Sarebbe interessante conoscerla, mio dissennatore semi-personale.» «Ogni cosa a suo tempo, padre.» * * *
10 «Sai, René? Si è sparsa la voce che ci siano almeno cinque fregate in orbita, nascoste dietro a Phobos e Deimos.» «C’è una sottile ironia, padre, nell’immagine di navi da guerra nascoste dietro ai satelliti di Marte.» «E perché mai, René?» «Lo scienziato del diciannovesimo secolo che li scoprì diede loro quei nomi con inconsapevole preveggenza. Nella lingua corrente, significano semplicemente Paura e Terrore. D’altronde è giusto così, visto che molto tempo prima al pianeta rosso già toccò il nome di Marte. Questo pianeta, Giuseppe, porta il nome di un antico dio della guerra.» «Quindi quelli sarebbero Paura e Terrore, René?» «Proprio così, Giuseppe.» Sembra che il cerchio si stia chiudendo. Se quelle fregate sganciano a sufficienza siamo spacciati. E i nostri satelliti, Paura e Terrore, avranno dato seguito a un’involontaria e millenaria profezia. Ma qui tutti sappiamo che non ci tengono a distruggere completamente la civiltà marziana. È una sorta di garanzia; il pianeta raso al suolo diventerebbe inutile. Quindi guerra chirurgica. La chiamano così dalla notte dei tempi. Consiste nel colpire obiettivi militari, ammazzare anche i passanti e dichiarare che si tratta del minor danno possibile. L’unica mia consolazione è che, quando qualcuno si degna di ascoltarmi, riesco a tenerlo lontano dai posti più sensibili e salvargli la pelle. «Sono stato al cospetto di una madre oggi, una delle ultime sulla faccia di questo e dell’altro pianeta. Uno strazio. Suo figlio è stato soffocato dall’atmosfera di Marte. Era nella cupola.» «D’altro canto, padre, Eva si è fatta tentare dal serpente ancora una volta. Nata da una costola di Adamo, non si è accontentata del suo esserne concubina.» «Ehi! Parli come un prete! Che succede?» «Devo abbassarmi al vostro livello, qualche volta. Sto solo iniziando.» «A far cosa?» «A tempo debito, ricordi?» Eva tentata dal serpente. Eva nata da una costola di Adamo. «Non puoi punzecchiare ai fianchi e basta! Adesso spiega.» Il mio sorriso laconico accompagna le mie parole. Il mio piccolo diavolo tentatore, onnipresente, di solito è una voce pacata con cui intrattenere uno stimolante scambio di opinioni. Rarissime volte si infervora scal-
11 dando i toni e alzando il volume. Talvolta tuttavia arriva in punta di piedi e si insinua nella mia testa, certe volte dimostrando un’ingenuità sconcertante, altre volte altrettanta saggezza. «Non c’è nulla da fare; la memoria è corta. Lunga è, invece, la bramosia di potere.» La tentazione è di incalzare, con lui. Ma bussa qualcuno alla porta. È ancora quella donna, molto più credente adesso di quanto non lo fosse con il figlio ancora in vita. Apre il portone di questa stanza che funge da chiesa, quasi che avessi dato un minimo cenno di assenso. Lentamente si avvicina. Accenna un segno della croce. Inizia a parlare senza chiedere nessun permesso. «Padre…» «Mi dica, signora…» «Non riesco a togliermi dalla testa mio figlio, che per qualche miracolo mi era stato donato da Dio. Perché mi è stato tolto? Com’è possibile che Dio si sia portato via il mio unico figlio? Non aveva mai fatto nulla di male… era così buono…» Lacrime a fiumi, dolci parole incastrate tra singhiozzi amari. «Mia cara signora. Le vie del Signore sono infinite, non mi stancherò mai di dirlo. È un mistero quello che ci avvolge. Un mistero così grande che non è dato comprendere per intero. Dio solo sa cos’è meglio per noi. Noi viviamo nella sua onnipotenza e possiamo solo aver fede.» «Sì padre. Ma io… non riesco proprio a capacitarmi di quanto sia accaduto.» Le mani giunte, la fede sincera. Non sembra la stessa persona che fino a poco tempo fa snobbava questo posto. «Ogni perdita è triste. Ma dobbiamo sforzarci di gioirne, per quanto dolorosa sia, perché Angelo ora siede al cospetto del Padre e vive nella sua luce.» Nella mia mente irrompe il mio amico demoniaco che solo io posso ascoltare, lo stesso piccolo diavolo che porto con me dalla nascita. «Dico, Giuseppe. Ma ti rendi conto di tutte le stronzate che stai partorendo a catena?» «Non adesso, dai!» «Cioè? Quella dovrebbe andarsene in giro per tutta Marte svolazzando libera come un fringuello e sprizzando gioia da tutti i pori perché le hanno ammazzato il figlio, padre?» «Non adesso, ho detto!»
12 «Incavolati pure, se vuoi! Tanto io ti martello in testa mentre il tuo Dio non si fa presente neanche se invitato.» «René! Tu non puoi capire!» «Padre? Succede qualcosa?» L’espressione del mio viso deve aver tradito in qualche modo un disagio interno. Seppur dubbiosa, la signora ha percepito qualcosa. Magari ha creduto di avermi annoiato, che so? Nella realtà dei fatti, qualcuno interferisce con i miei pensieri mentre io stesso tento di partorirli. «No, no figliola. Continui pure…» La signora continua a sfogarsi, ma a quanto pare non è l’unica. C’è questa specie di vocina malefica, quasi si tratti del demonio in persona, che continua a interferire con tutti i miei sforzi per cercare di sollevare, per quanto possibile, questa povera madre dal suo dolore. «Io non capisco? Vuoi scommettere?» «René, la smetti per favore?» «OK, OK. Esco dalla tua testa. Ma aspettami che torno. Aspettami con timore, padre…» «Va bene René. La signora mi chiede perché le è stato portato via il figlio. A me basterebbe sapere perché ci sei tu!» E la signora continua a sfogarsi mentre nella mia testa angeli e demoni continuano a martellarmi lo spirito. Se esiste René forse Dio non esiste; non avrebbe mai permesso nulla del genere. (Ma che dico?!) * * * «René?» «Non c’è bisogno di strillare! Non sono sordo!» «Ma come ti permetti, dico? Dov’è finita la tua proverbiale discrezione?» Non posso fare a meno di vagare per la stanza in tondo, alzando di tanto in tanto le mani al cielo e puntando ora un muro ora un altro, visto che qualsiasi cosa io indichi non ha nulla a che fare con lui. Lui è nella mia testa e fuori dalla mia testa, mi sussurra nel cervello o mi trapana i timpani a suo capriccio o discrezione. «Nello stesso posto dove si trova la vostra proverbiale sincerità, padre!» «Ma dai, René! Sei sempre stato rispettoso delle nostre pratiche religiose. Cos’è tutta questa intolleranza, adesso?»
13 «È solo una passata di evidenziatore. Tutto qui.» «Cos’è che vuoi evidenziare?» «Dimmi, padre. Tu sei un servo di Dio, vero?» «Sì. E con questo?» «Quand’è stata l’ultima volta che hai ricevuto un’email con le disposizioni sul da farsi, dal tuo Dio?» «René?» «Sì?» «Sai che sai essere incredibilmente… non posso dirle, certe parole. Sono un uomo di Chiesa, io.» «Sì, certo. Però puoi professare tutta una serie di fesserie e spiegare alla gente cose che tu stesso non capisci, vero?» «È il mistero della fede!» «Sì, certo! Ogni cosa di cui non si ha risposta è un mistero della fede! Ci avete fatto pure farmaci e astronavi con la fede, Giuseppe!» Siamo qui a scazzottarci di parole, io e René. Certo non comprendo tutta questa sua improvvisa voglia di criticare il mio mondo. Sono trent’anni che gironzolo un po’ sulla Terra un po’ su Marte. Non si è mai comportato così. E ora eccoci qui, come se avesse aspettato un momento particolare. «Avanti! Sputa il rospo!» «Giuseppe, Giuseppe… Signore mio!» «Hai visto! L’hai invocato!» Colto in fallo! René crede in Dio, lo sospettavo! «Ma non farmi ridere, per favore! È un modo di dire…» «L’hai invocato, ammettilo!» «Sì certo! L’ho chiamato al telefono! Giuseppe! Per favore…» No, niente da fare. René, più semplicemente, è stronzo. «René? Puoi almeno far finta di rispettarmi?» «No.» «Molto gentile, come al solito. Ma perché?» «È tempo di aprire gli occhi, Giuseppe.» «Cosa c’entro io? Chi ti ha mandato?» «Sono venuto di mia spontanea volontà, dovresti saperlo… vuoi il versetto della Bibbia dove si parla del libero arbitrio?» Che vi dicevo? Ci prova gusto a trovare un sistema di rivoltarti contro qualsiasi genere di frittata.
14 «Che impertinente! Lasciamo stare. Avanti, ti ascolto.» «Sarò io ad ascoltare, Giuseppe. Raccontami la storia della creazione, forza…» «Chi? Io? È un’interrogazione?» «Ci sono altri Giuseppe di cui ignoro l’esistenza, nei dintorni?» Ammetto con un cenno della testa che effettivamente sono l’unico Giuseppe nell’arco di cinquanta metri abbondanti. Deve avercela con me per forza. Vedete, René può vedere cosa fate ma voi non potete vedere lui. La lotta è impari e non sono io il favorito. «Be’ René; c’è Adamo che si trova nel Paradiso dell’Eden…» Sapete quel modo di atteggiarsi quando state attendendo una sentenza e qualcosa vi dice che sarà tutt’altro che lusinghiera? Il rossore che divampa sul viso, il freddo sudore che trapela da ogni poro? Quel modo di porsi a chi vi interroga, sapendo bene di non essere preparati? Mi arrampico sugli specchi perché conosco la lezione ma so di non conoscerla. René, non un pinco pallino qualsiasi; è lui che mi sta interrogando! Può significare solo una cosa… «Se devi raccontarla così, lascia perdere.» Lupus in fabula. Sì, insomma; in ogni modo, non l’avrebbe digerita. Ha già la sua risposta in mano. «Il fatto è che io so che tu sai come funziona la storia.» «Logico.» «Ecco! Che me lo chiedi a fare, allora?» «Dobbiamo parlare, Giuseppe. Parlare sul serio, questa volta. Non c’è più molto tempo.» «Sei in punto di morte?» Ora lo faccio arrabbiare… anzi, no; è proprio incazzato! «Giuseppe santo!» Visto? «Parli strano, ultimamente.» «Giuseppe; c’è posta.» «Da parte di chi?»
15 «Dal Regno dei Cieli, Giuseppe. Apri le orecchie e soprattutto il cervello; ho qualcosa da dirti in merito a questi ultimi trecento anni.» «Tutto insieme?» «Ma certo che no, Giuseppe caro, cuccioletto del demonio tuo! Faremo tutto in piccole e comode rate. Ma occorre incominciare da qualche parte…» Sono abbastanza sbigottito da tutta questa improvvisa necessità di conversare. Sembra che René arda dalla voglia di sfogarsi. Il punto è che non riesco a capire perché. * * * Gira voce che, da qualche parte nei dintorni di Mercurio, sia spuntata una gigantesca nave spaziale, così grande che non c’è uomo, tra la Terra e Marte, che abbia potuto pensare fosse possibile costruirne una. Il popolo non sa a quale fazione appartenga. Che sia marziana o terrestre, quella nave deciderà le sorti del conflitto. Questa è l’unica certezza, un’evidenza drammatica e fatale che si insinua come un brivido freddo sotto la pelle di ogni essere senziente conosciuto. Sono tutti inginocchiati da qualche parte a pregare, come non hanno mai fatto prima. Non hanno mai veramente creduto in Dio, che se c’avessero creduto per un solo briciolo, non saremmo sotto le armi. Poi, quando tutto si fa duro, invocano il divino. E Dio torna di moda. Così, all’improvviso, sono cessate le ostilità. D’altro canto se armati di forchette vi trovaste improvvisamente di fronte a un cannone, non diventereste tutti più… buoni? Amichevoli? Vigliacchi, insomma. Perché è chiaro, data la mole, che chiunque solo provi a immaginare di attaccare quella nave ne uscirebbe impoverito. E per impoverito, badate bene, intendo proprio impoverito nel senso nucleare, con tanti miseri protoni strappati violentemente da ognuno dei propri miliardi di atomi, sino alla disintegrazione totale. Davvero qualcuno avrebbe il coraggio di attaccare quel colosso? Il popolo di Marte si dichiara finito. Mentre, estranee alla vita di tutti giorni, le notizie rimbalzano da un telegiornale a un altro, il popolo marziano, quello dei bar, è già rassegnato. «Siamo spacciati. Ve lo dico io! Solo Dio può salvarci, adesso.» Parole da bar. Parole di uno sconosciuto. Quando fa comodo, Dio è un ottimo rifugio. Dopo aver fatto tutto e l’esatto contrario di quanto ha detto, ci si ricorda di lui. Questa volta sono io a cercarlo, nella mia testa, dietro agli occhi, sopra una tempia…
16 «Rene? Ne sai qualcosa?» «Io non muoverei un dito di fronte a tanta maestosità. Non so cosa ne pensate voi esseri umano-marziani.» «Se la Terra ha partorito un aggeggio del genere, questa volta siamo destinati a essere soggiogati.» «È triste?» «Non so cosa dire René. Vedo la gente di questo bar preoccupata. Ma in fondo, che ne uscissimo vinti o vincitori, probabilmente importerebbe poco. Uscirne è il vero problema!» «Dici bene padre.» «Tutti attendono che la nave si mostri, che mostri la sua bandiera. Sarà marziana? Sarà terrestre?» «E se non fosse nessuna delle due, padre?» «René, va bene fare il diavolo tentatore, ma questa volta non starai esagerando?» «E perché mai? Chi sei tu per sottrarre una possibilità alla matematica? Tu che hai sempre avuto fede in ciò che non è dimostrato né dimostrabile, adesso metti in dubbio una possibilità concreta?» «Come no? Sono arrivati gli alieni! Quelli che nessuno ha mai visto. Quelli che nessuno ha mai incontrato. L’altro Dio, se vogliamo. Il Dio dei pagani.» «Avete la memoria corta, padre.» «Ancora con questa storia, René? Guarda qua attorno. Sono tutti con gli occhi al cielo, mentre tra le nuvole osservano, traslucida, la sagoma di una nave così grande che potrebbe a occhio e croce eliminare un intero pianeta da tutte le mappe. Forse potrebbe spegnere il Sole stesso. La televisione è senza dubbio un’invenzione eccezionale; sei qui ad ammirare qualcosa che succede a duecento milioni di chilometri di distanza. E tu? Mi tiri fuori gli alieni?» «È già successo, padre. Solo chi ha mostrato poca fiducia nel prossimo, ne ha pagato le conseguenze.» «Ultimamente non hai fatto nient’altro se non deridere il mio credo. Ora mi chiedi di credere in un ammasso di ferro, per quanto gigantesco esso sia?» «Perché non dovresti? Risponde ai tuoi canoni. È immenso, misterioso e vive nei cieli di tutti i pianeti. Non ti ricorda nulla?» «Sarò stupido ma mi suona di novità.» * * *
17 È un altro giorno, uno di quelli che durano una manciata di minuti in più che sulla Terra. Qui, anche se non è né l’alba né il tramonto, il cielo è pur sempre rosso come rosso è il terreno. Tutto è rosso meno che il futuro; quello appare discretamente nero. Gira voce che ci sia stata un’altra battaglia anche oggi. Passeggiando all’ombra del nostro microcosmo artificiale, qua e là compaiono evanescenti immagini accompagnate da parole che si avvertono molto più concrete e che giungono all’orecchio, quasi che chi ci parla possa vederci e sia lì con noi. I telegiornali raccontano dell’ultima scaramuccia tra fratelli all’altezza della Fascia Principale di Asteroidi. L’ennesima battaglia. I caduti si contano a migliaia. Sono numeri. Finché non si possono scorgere le esplosioni con i propri occhi, la guerra rimane lontana. Solo due giorni fa, una cupola è letteralmente esplosa. Quella però non è guerra; è un incidente isolato. Almeno è così che viene concretamente percepito dalla gente del posto. La verità, tuttavia, è che solo chi ha subito perdite personali, come la donna che improvvisamente è diventata la miglior credente di cui abbia memoria, si rende conto di quello che succede. Per tutti gli altri la guerra è quella cosa che sta succedendo là, da qualche parte, lontano da noi. Per cui non ci riguarda. È poco più che un talk show, un evento mediatico che rende appena più interessante la televisione. È un film molto ben strutturato, al punto da sembrare realistico. Il fatto che sia tutto vero ci sfugge. La gente sa, ma non essendo sotto il fuoco diretto delle migliaia di navi che si danno battaglia, riesce a vivere al cospetto di quelle immagini tra una tazza di caffè e un boccale di birra. Qualcuno riesce anche a commentare sarcasticamente la visione di corpi galleggianti alla deriva nello spazio interplanetario. «È la fine del mondo questa volta, René…» «Puoi ben dirlo, padre.» «Ne sei convinto anche tu?» «Abbastanza. Cosa dicono le tue sacre scritture a proposito?» «Noto una certa ironia nelle tue parole, René… quando la smetterai di prendermi in giro? Tu non credi, io ti rispetto. Io ci credo; perché non rispetti le mie idee?» «Metti che abbia le mie buone ragioni?» «Metti che io abbia le mie, René.» Sorseggio una tazza di caffè. C’è tregua tra me e lui. Per un po’ non mi parla. Poi, quasi abbia riflettuto abbastanza, si fa avanti; «Non mi hai risposto. Cosa dicono le tue sacre scritture, Giuseppe?»
18 «Niente, René. Cosa vuoi che dicano? Si fermano alla morte di Cristo e non vanno molto oltre.» «Visto ciò che successe, magari potrebbe succedere ancora, non credi?» «Sì, come no. Se dovessi scegliere, direi che il Signore ci manderà il Diluvio Universale per punirci del nostro essere così peccaminosi. Solo che mi viene difficile pensare che possa piovere nel bel mezzo del nulla, al di fuori delle atmosfere marziana e terrestre. E poi…» «E poi?» «E poi adesso abbiamo gli ombrelli e le navi spaziali, per metterci in salvo. Non so che senso avrebbe.» «Non sei tu quello del Dio per cui tutto è possibile?» «Non eri ateo?» «Magari sono solo agnostico.» «Ma non mi dire! E quale sarebbe, ai miei occhi, la differenza?» «Probabilmente nessuna per un uomo che ammette una sola verità. Ma la differenza è profonda.» «OK, allora!» Quasi tremo a pronunciare quel che sto per dire; lo sto sfidando. Sto per ascoltare una versione alternativa di tutto ciò in cui credo, un punto di vista che, istituzionalmente, dovrei ripudiare. Ma la mia intelligenza vuole che esamini tutto asetticamente. In fondo muovo passi da un bar a un parco solo per perder tempo, nell’attesa della prossima notizia che vorrei fosse buona. «OK René; pendo dalle tue labbra.» «Spiritoso!» «Si fa per dire, dai! Comunque sia… sì, hai ragione. Sono anni che ti assillo con le Sacre Scritture. Tocca a te. Io me ne sto qui, sotto questa quercia che è sotto questa cupola che è sotto questo cielo marziano mentre poco più in là, nell’indifferenza di tutti, ci sono caduti nello spazio, là dove tecnicamente non sarebbe possibile cadere. Raccontami! Stupiscimi! Voglio capire dove vuoi arrivare.» «Ascolterai finalmente quello che ho da dirti?» «Certo. Ormai sono qui ad aspettare l’inevitabile. I terrestri sono senza ombra di dubbio messi molto meglio di noi, militarmente parlando. È solo questione di tempo. Tanto vale ascoltare qualcosa di nuovo, per quanto blasfemo potrà apparirmi.» «Ricorda, Giuseppe. Io sono storia e la storia è scritta.» «Anche la mia storia è scritta! È nella Bibbia, René.» «La mia storia, tuttavia, è verificabile. Puoi controllare tu stesso le fonti.»
19 «OK, OK. Non voglio negarlo. Parla, ti ascolto.» «Non sarò io a parlare, Giuseppe. Ascolterai dalla viva voce di chi ha vissuto quelle storie. E vedrai con gli occhi della mente. Preparati.» «Sono pronto.» «Credi. Come sempre. Correva l’anno 2152, circa trecento anni fa, quando raccolsi questa memoria…» D’improvviso tutto il mondo attorno a me sparisce. Mi ritrovo come un’anima che vaga in un mondo estraneo. Etereo, invisibile eppure presente. Tutto è nella mia mente ma tutto sembra concreto. La tecnologia; ah, quale miracolo umano. Troppo forse. L’odore dell’aria della Terra è forte, così come il soffio della brezza sul mio corpo. Sono in un posto sconosciuto, al cospetto di gente sconosciuta in attesa di una storia sconosciuta. «Chi è quello, René?» «Lui è mio nonno, Giuseppe. Diciamo che lo considero tale. Osserva. E Ascolta. Lasciati bagnare dalle sue parole senza che una goccia ne sia persa.» «Ascolto.»
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MEMORIA DI ARTURO
Il nonno era un tipo tutto d’un pezzo, almeno per come me lo ricordo io. Ci ha lasciati quando era ancora padrone di tutte le sue facoltà, comprese quelle a cui rinunceresti volentieri. Un tipo vincolato saldamente alle regole, alle sue origini, all’importanza della famiglia. Siamo qui per merito suo. Il mito vuole che, non fosse stato per lui, mamma e papà non ci sarebbero mai arrivati a sposarsi. Sarebbero finiti molto prima, come molte altre coppie della loro età. Mia mamma un giorno mi disse che per almeno tre volte ho rischiato di non nascere. Ora non so dirvi quanto rancore ci metta nel ricordo, ma dal mio personalissimo punto di vista penso che mi sia andata discretamente bene! Tornando a nonno Leo, il papà di mamma, era una persona attiva, uno sportivo. Ogni giorno doveva farsi il suo giretto in bicicletta per mantenersi in forma. Io credo voi possiate immaginarvi il classico vecchio col cappello che annaspa faticosamente mentre alterna le pedalate, nonostante discesa e vento favorevole. No, no; correva! Diamine se non correva! Controvento e in salita, alla faccia di tutti i suoi sessantasette anni! Quelli di allenamento che aveva alle sue spalle avevano fatto la loro parte, diciamocelo; ma credo che fosse soprattutto il suo spirito a infondergli grande energia. In bicicletta come nella vita. Se non pedalava, il nonno leggeva. A essere più precisi, divorava libri; quintali, tonnellate di libri! Penso di non aver visto mai più i libri, quelli cartacei del suo tempo, che gelosamente custodiva nella grande stanza che chiamo biblioteca. Era fissato con l’America. A dire il vero, di quasi dieci milioni di chilometri quadrati di suolo americano, a lui ne interessavano sì e no una ventina, ed erano tutti a New York, Central Park, nel bel mezzo della Great Hill. Era un po’ strana quella sua ossessione, soprattutto agli occhi di un ragazzino di otto anni quale ero allora. Non riuscivo a capire cosa ci fosse di tanto importante in quel posto che, per come lo raccontava lui, sembrava fosse uscito da un film. Ogni foto che mi mostrava, ritraeva sempre e solo un unico soggetto: un monumento. Qualche volta si degnava di farmi vedere anche cose più interessanti, come le foto degli aerei che avremmo potuto utilizzare per andarci, ma in genere il monumento la faceva da padrone. Mentre lui si lanciava nei suoi racconti, rimarcando
21 l’importanza del posto, la sua storia, il suo significato, l’unica cosa a cui io pensavo erano una serie di congetture che sfociavano puntualmente in uno squillante “sì”, com’è tipico di ogni moccioso. New York significa America; America significa al di là dell’oceano e questo comporta volare. Se New York implica volare è fin troppo ovvio che si può fare e che sarà stupendo. Semplice, no? Il monumento sarebbe stato un male necessario, ma non tutte le ciambelle riescono col buco. E questa tutto sommato un buchetto, anche piuttosto grande a dire il vero, ce l’aveva. Mi ricordo il giorno in cui, posata la bicicletta, il nonno entrò nella sua nonché nostra casa, e con una certa disinvoltura richiamò l’attenzione della mamma e del papà. Disse loro, semplicemente, che doveva parlargli. Mi guardò con i suoi occhi blu e fece un cenno con la testa, uno di quei gesti che ti dicono che sei troppo piccolo per ascoltare. La mamma scoppiò a piangere di lì a poco e io con lei; mi ero nascosto in un angolino buio, incastrato tra il mobilio; abbastanza lontano perché non potessi ascoltare le loro parole, sufficientemente vicino per sentire i singhiozzi disperati di mia madre. Lo facevo sempre, a ogni riunione tra grandi. Non stetti lì per molto e anzi, controllata la situazione al fronte, ben presto mi ritirai strategicamente in biblioteca; se mio padre mi avesse scoperto, sarebbe venuto giù il cielo con tutte le stelle. Non seppi mai il contenuto preciso della conversazione, se non attraverso le parole di mio padre, a distanza di anni. La mamma non ama tutt’ora parlarne, né io ho il coraggio di riaprire quella ferita mai rimarginata. Avrò avuto sedici anni quando papà, per la prima volta, mi accennò a quanto sto per dirvi. Pare che il nonno, quel giorno, fosse tornato dalla sua visita medica semestrale che si protraeva da tanto, tantissimo tempo. Sembra fosse una sua condanna personale, che risalisse a quando aveva una decina d’anni o poco più. La visita era diventata una sorta di rito di famiglia, talmente radicato che dall’alto dei miei otto anni pensavo fosse un trattamento riservato a tutti i nonni. Il rituale prevedeva che il nonno andasse in sella alla sua fidata bici, visibilmente seccato, in ospedale, ci rimanesse un paio di ore e tornasse con un responso sempre identico per la gioia, non troppo esternata, di tutti. Quel giorno, semplicemente, il responso fu quanto mai originale, sufficientemente da mandare mia madre nel panico. A mio nonno restavano sì e no un paio di anni da vivere. Niente di più. Come sapete, io non ho ascoltato nulla della loro conversazione. Una cosa la so: poco dopo di me, talmente poco che credetti di dover affrontare le ire di mio padre, mio nonno irruppe in biblioteca, per niente scosso, in pace con se stesso e con il suo solito sorriso compiaciuto. Non riuscirò mai a sapere se fosse stoico di suo o se stesse proteggendo il suo unico nipotino; entrambe le ipotesi sono valide, garantisco… so per certo, visto
22 che c’ero, quello che successe dopo. Mi annunciò con aria trionfante che di lì a poco saremmo partiti per New York. La mia testolina in qualche modo fece due più due e concluse che la mamma era gelosa perché il nonno avrebbe portato me a New York lasciando lei a casa. Visto che doveva essere quello il vero motivo del suo piagnisteo, pensai bene di uscire dalla biblioteca e lanciare un bel pernacchione al suo indirizzo; tanto bastò perché smettesse di piangere e scoppiasse a ridere esterrefatta. Fu un gesto rapido disegnato dalla mano del nonno alle mie spalle a farle capire, qualunque cosa fosse successa, che doveva trattarsi di una delle mie solite trovate. Mio padre se la ride ancora oggi, quando se ne ricorda! Le risate grasse della mamma, invece, furono tra le ultime di cui abbia memoria. * * * Beata gioventù! Quando hai otto anni, di tanto in tanto succede che uno dei tuoi piccoli, grandi sogni piombi giù dal cielo, praticamente senza motivo. Accadde poco dopo, credo tre o quattro giorni al massimo, che la mamma mi chiamò a sé e, con gli occhioni dolci da cerbiatta, quelli che riservava al suo scricciolo per le grandi occasioni, mi disse con soddisfazione; «Andrai col nonno a New York, domani. Ci vuoi andare, vero?» Avevo una domanda per lei di cui conoscevo già la risposta, grazie alle frequenti delucidazioni del nonno. Però - sapete? - non si sa mai a questo mondo; meglio sincerarsi. La fissai negli occhi e con vocina tremolante le chiesi: «Come si va a New York, mamma?» Mia madre era carponi. Mi guardava, insolitamente dal basso verso l’alto, sorridendo come se sapesse già quale sarebbe stata la mia reazione. «Si va in aereo. È lontano lontano! Come ci vuoi andare?» «Evviva!» Esplosi di gioia. Credo che se ne siano accorti anche i muri. «Ehi, ehi, ehi! Promettimi di fare il bravo. Farai tutto quello che ti dice il nonno e solo quello, vero?» Che gli rispondi a tua madre quando ti dice che finalmente volerai? «Sì mamma! Lo prometto!» Poi se sia vero o no è un dettaglio o poco di più. Intanto mi ero portato a casa l’aereo. «Vai da nonno, ora» mi disse. E io, con la mia cantilena a festa, ci misi poco meno di niente per raggiungerlo. Dove? In biblioteca! Dove altrimenti? In effetti poteva essere
23 in bicicletta… ma era in biblioteca. Ma quando aprii la porta, non rimasi troppo felice di quello che vidi. La mia piccola boccuccia non voleva starsene orizzontale, anzi pendeva pesantemente verso il basso da ambo i lati. Nonno piangeva. Silenziosamente, molte lacrime irroravano il suo viso fino a morire sulla scrivania, mentre i suoi occhi, blu come al solito ma anche un po’ più grigi, osservavano lentamente una serie di immagini; fotografie che aveva raccolto nel corso degli anni e che custodiva gelosamente nella cartellina blu. Io l’ho sempre chiamata così. Non era un grande segreto; sapevo cosa conteneva. Foto, solo foto, a volte strappate a qualche libro, a volte a qualche giornale. Ma si trattava di un tesoro abbastanza prezioso da trasformarlo in un orco, se solo avessi cercato di metterci il naso. Potevo vedere, ma solo attraverso le sue mani. E potevo sapere, attraverso le sue parole. «Nonno, perché piangi?» La mia vocina se ne uscì tremula, disperata per motivi che neanch’io potevo intendere, pregnante dell’empatia che provavo per l’omone inerme davanti ai miei occhietti umidi. «È che sono felice, Arturino mio! Non vuoi andare in aereo?» «Sì nonno, però smetti di piangere che mi viene pure a me!» «Va bene, va bene. Ecco, finito. Adesso però si cena e poi fila subito a nanna! Non vorrai dormire in aereo, vero?» «No nonno. Voglio vedere le nuvole fuori dal finestrino! Voglio vedere la cabina del pilota e poi voglio…» «Temo che per la cabina di pilotaggio avremo qualche problema! Per il resto pensa a dormire per restare sveglio domani, vai!» E nel mentre il grosso palmo della sua mano mi accompagnava verso la porta, a sottolineare che era ora di andare. Quella notte migliaia di aerei decollarono e altrettanti atterrarono davanti ai miei occhi sbarrati, rivolti verso il buio soffitto. Occhi sognatori, aperti quanto accecati dall’oscurità tagliata solo dal flebile barlume clandestino della strada. Mi addormentai a bordo di un aereo che solcava i cieli dell’oceano per risvegliarmi l’indomani nel mio solito letto, completamente rintronato dal jet-lag. Fu una lieve scossa di terremoto, a destarmi. L’epicentro era la mamma che, con voce più seccata che altro, continuava a pronunciare il mio nome mentre mi dondolava da lato a lato. Come si dice? Notte da leoni… ma passò tutto all’improvviso quando sentii le magiche parole: «Sveglia, altrimenti perderete l’aereo!» La glicemia mi andò immediatamente alle stelle, la pressione salì all’improvviso, fui pervaso da una razione extra di pura energia che in un attimo mi proiettò verso il mio agognato aereo. Quello vero! Quello fu
24 uno dei pochi giorni in cui, improvvisamente, ero in grado di fare tutto da solo, persino mettermi le scarpe! Non ricordo neppure come ci sono arrivato, ma in qualche modo mi teletrasportai in cucina, davanti alla mia tazzona di latte, quella grossa che faceva intimidire le piccole, misere tazzine di tutti gli altri. Perfettamente ignorato da mamma e papà, inzuppavo i miei golosi biscotti uno dietro l’altro. La mamma mi aveva esortato a non esagerare; me ne aveva concessi al massimo quattro o cinque. Inutile dire che il mio regolamento personale prevedeva si contassero solo quelli che la mamma vedeva con i suoi occhi. Il nonno non tardò molto a scendere per raggiungere il suo solito posto, a capotavola. Mi strizzò l’occhio per iniziare subito dopo il suo interrogatorio mattutino; «Hai dormito?» «Sì nonno» «Davvero?» «Sii» un po’ scocciato. «L’uccellino mi ha detto che ti addormenterai sull’aereo…» «Non è vero! Non mi addormento.» Mi deve essere sfuggito il momento in cui smaterializzò il suo caffè. Poi fece un gesto verso mio padre e mia madre molto eloquente; era ora di andare. Si avvicinò alla porta d’uscita. Lì a terra c’era, già dalla notte precedente, la sua fidata valigetta, una versione maschile delle borse per signore. Aprì la cerniera per controllare che ci fossero le nostre tessere, quelle che ci abilitavano al volo. Un brivido risalì la mia minuscola spina dorsale quando le vidi. Erano proprio due! Ci avviammo verso l’auto. Al solito, il mio posto era dietro; mai una volta che potessi occupare quello anteriore! Mentre loro tre confabulavano qualcosa che raggiungeva le mie orecchie ma non il mio cervello, me ne stavo lì ad allungare il collo verso la consolle dell’auto, guardando tutta quella roba che a stento riuscivo a interpretare, lanciando un occhio particolare alla velocità. Il mio momento preferito era l’entrata in funzione della guida automatica, appena raggiunta un’autostrada. Un segnale d’avviso e il volante indietreggiava quel poco che bastava per non disturbare il gesticolare del papà che conversava con nonno e mamma. Prima o poi, anch’io avrei guidato. Come tutti i bambini di otto anni, non vedevo l’ora di arrivare a quota sedici, e quell’auto sarebbe stata sotto il mio totale dominio! In verità il controllo ce l’aveva l’auto che ci portò, silenziosa come da ferma, fino all’aeroporto. Mio padre si limitò a guidare per gli ultimi cento metri. Ci fermammo parecchio distanti; nessuna pista o terminal in vista! Cattivo presagio, panico;
25 «Nonno, dov’è l’aeroporto? Mica non partiamo più, adesso?» «Tranquillo, Arturino. Dove andiamo non si può arrivare in auto. Prenderemo un taxi. Saluta la mamma e il papà che andiamo.» Stampai un bacio sulle guance della mamma e del papà ma subito mi affrettai a raggiungere la mano del nonno; non fosse mai che se ne fosse andato via senza di me! Ci avviammo per una stradina appena fuori dal parcheggio. Servirono uno o due minuti per raggiungere uno spiazzo che sembrava messo lì senza motivo. Davanti a noi erba, erba a perdita d’occhio. L’aereo mi sembrava sempre più lontano. Cominciai seriamente a pensare che il nonno mi avesse fregato. Invece lui puntò l’indice verso un coso giallo, un cerchio nell’erba. Visto quello, mi accorsi che ce n’erano altri, tutti allineati tra loro. Il nonno aprì bocca e disse; «Arturo, li vedi quelli? Sono la strada che ci porterà all’aereo. Adesso siediti buono qui, che tra un minuto arriva il nostro taxi; l’ho appena chiamato.» «Ma cammina nell’erba, nonno?» «Sì Arturino. Cammina sull’erba. A dire il vero anche il taxi vola, anche se solo poco, poco» «Davvero, nonno?» «Sì. Cammina sospeso da terra tanto così…» e fece il segno di una spanna. Arrivò finalmente il taxi. Uno scatolotto bianco con i vetri neri. Qualche luce e quattro posti. Come prima esperienza di volo lasciava a desiderare, se devo essere sincero. Ma una volta a bordo non ci volle molto tempo perché potessi avvistare altri scatolotti, tutti diretti verso il paradiso degli aerei, altrimenti detto aeroporto. La pace dei prati lasciò ben presto spazio al caos del terminal. Molta gente andava avanti e indietro a destra e a manca. Il nonno, mantenendomi saldamente per mano, iniziò a muoversi con disinvoltura tra una tortuosità di corridoi, finché non arrivammo a una porta dove tirò fuori le tessere ed entrammo in una stanza chiusa. Pochi attimi, e si aprì una porta diversa. «Cos’era quella stanza, nonno?» «Ci hanno dato un’occhiatina intima, diciamo…» «In che senso?» «La polizia ha visto se siamo brave persone e, visto che noi siamo brave persone, ci ha aperto la porta verso l’aereo» Non c’avevo capito molto ma annuii. In fondo, se ci concedevano di andare in aereo, tutto il resto contava ben poco. C’era altra gente che camminava con noi. Tutti eravamo diretti verso lo stesso posto.
26 All’improvviso entrammo in una stanza piena di sedili. C’erano tre file ognuna con due posti a sedere. A vederli sembravano comodi. «Nonno, ma quando andiamo in aereo?» «Siamo già in aereo, Arturo! Guarda fuori!» Un signore mi fece cenno di avvicinarmi, puntando un dito all’esterno mentre mi sorrideva. C’era una turbina! Dio mio, una turbina a un palmo dal mio naso! «Arturo, vieni qua.» «Nonno, siamo in aereo!» «Lo so, te l’ho detto io! Vieni qui. Quello è il tuo posto, vicino al finestrino. Sei contento?» «Sì, sì…» Stampai la faccia sull’oblò. Fuori non succedeva niente ma era ugualmente stupendo. Nel frattempo l’aereo si riempiva. Ebbi la chiara sensazione di essere l’attrazione della platea; tutti i grandi mi guardavano e facevano domande al nonno. «È la prima volta che vola, e gli piacciono gli aerei. I bambini si accontentano di poco…» Qualcuno annuiva, qualcuno sorrideva complice. E io me ne fregavo perché dall’oblò si vedeva la turbina. A un certo punto il nonno mi tirò leggermente a sé e, ingiustizia delle ingiustizie, mi legò al sedile. «Dopo le leviamo; hai sentito il comandante? Stiamo per partire» In verità tutto quello che altoparlanti e persone mormoravano, mi entrava da un orecchio e usciva dall’altro; ero troppo occupato a guardarmi intorno. Ogni suono giungeva sfumato alla mia mente, troppo occupata a riempirsi gli occhi di ogni singolo particolare di quel meraviglioso prodigio di tecnologia. Fu l’estasi quando le quattro turbine iniziarono a cantare. Il loro suono si sentiva tutto dentro al mio corpicino. Non ci volle molto prima che tutto intorno a me iniziasse a diventare leggero, sempre più leggero. Il rombo delle turbine si fece sempre più forte. La stanza iniziò lentamente a sollevarsi. La terra sotto di noi si allontanava sempre di più. Poi il muso iniziò a picchiare delicato e deciso. Vidi le turbine ruotare verso il retro, lentamente, fino a raggiungere la posizione orizzontale. Iniziai ad avvertire la pressione che distintamente, ma senza fastidio, mi schiacciava verso il sedile. La sensazione di salire era forte, la stanza puntava chiaramente verso l’alto. Roma spariva sotto di noi, lasciando il posto a prati di nuvole. Poi… non ho dormito la notte prima, vi ricordate? * * *
27 Niente oceano; diciamo che c’ho dormito sopra… per tre ore di fila. Di nuovo il movimento tellurico. Questa volta era il nonno a esortarmi perché mi risvegliassi. D’un tratto i miei neuroni cominciarono a rispondere agli stimoli esterni, la combinazione della sua voce e delle turbine che rapidamente perdevano giri iniziava a permeare la mia mente. La luce conquistò lentamente i miei occhi. Le immagini, dapprima confuse, cominciarono a delineare forme a me familiari. Era andata meglio questa volta; ero ancora in aereo! Non per molto, però. La prima frase pronunciata dal nonno che riuscii a capire era; «Arturo! Sveglia! Non vorrai mica rimanere in aereo, no?» E chi l’ha detto? Certo che sarei rimasto volentieri in aereo! La fregatura di avere otto anni è che devi sempre fare quello che ti dicono i grandi. Inutile controbattere, tanto ero cosciente che sarei dovuto scendere da lì, prima o poi. Se a Roma ero stato il trattore, a New York ero il rimorchio. Era finita la parte interessante; restava il male necessario. Ciao, ciao, aereo mio bello! A stasera… Fuori dal paradiso, un altro avvicendarsi di tortuosità grigiastre, qua e là interrotte dai soliti faccioni sorridenti della pubblicità. Non ci volle molto per raggiungere l’esterno dell’aeroporto newyorchese. Il nonno sembrava si fosse perso; continuava a guardasi attorno, alla ricerca di… boh, che ne so io? E soprattutto cosa mi frega, visto che devo seguirlo in ogni caso? Strano, però; di solito i grandi sanno sempre tutto, ma il nonno quella volta sembrava si fosse perso in un mondo a lui estraneo. In cuor mio credo che fu solo grazie a una generosa dose di fortuna che alla fine trovò un taxi. Questo scatolotto era un po’ più grande di quello lasciato a Roma. Un paio di posti in più, anche più larghi. Sostanzialmente, un cassettone che si alzava dieci centimetri da terra; niente di interessante per davvero. Entrammo lì dentro. Il cassettone parlò al nonno in una lingua a me incomprensibile. «Central Park» rispose lui. Credo ci abbia messo troppo romanaccio, perché il cassettone non avanzò di un centimetro. Nonno Leo si schiarì la voce, mi guardò con gli occhi sbarrati, si atteggiò ad attore melodrammatico e disse di nuovo: «Central Park!» Molto più americaneggiante, devo ammetterlo. Il catorcio iniziò la sua marcia. «Nonno, dove andiamo adesso?» «Andiamo nel centro di New York, Arturino. Siamo qui per questo! Andiamo in un parco enorme, uno dei più grandi che tu abbia mai visto.» Interessante. Davvero, interessante. Morivo dalla voglia di essere lì, giuro… OK; non sono credibile e non lo ero neanche per il nonno, ne sono
28 sicuro. Ma lui sapeva qualcosa che mi sfuggiva. Mi guardava di traverso con un sorrisino beffardo, uno di quelli che nasconde qualche sorpresa e… ops! «Siamo di nuovo in alto, nonno!» «Eh sì Arturino. I taxi di New York non sono come quelli di Roma. Qualche volta si viaggia anche in alto.» Qualche volta? Uffa! Un’occhiata fuori dal finestrino e capii ben presto che i metri d’altezza erano al massimo una ventina; al posto dell’oceano c’erano enormi palazzi. Niente nuvole. È proprio vero, nella vita bisogna sapersi accontentare! In ogni caso New York aveva un suo fascino tutto particolare; iniziavo ad affezionarmici. Certo, nulla in confronto all’aereo, che sia ben inteso. Intorno a me si alternavano grattacieli, enormi giganti vestiti di specchi con chiome verdi che, caduche, sbucavano da ogni dove. Ogni palazzo era trafitto da non meno di un paio di rotaie, le stesse a cui, non so bene quando, ci eravamo agganciati anche noi con il nostro taxi. Sotto di noi erba, erba a perdita d’occhio. Alberi e panchine. Niente auto. «E le strade, nonno? Non ci sono strade a New York?» «No Arturino. Anche a New York ci sono le strade. Sono solo lontane da qui. Qualcuna è interrata. Tutta questa zona si chiama Brooklyn, come le gomme da masticare.» Annuivo a ogni parola, ma il cervello era connesso alla città, più che al nonno. «E le auto, come fanno allora?» «Non ci sono auto a Brooklyn e neanche a Manhattan, dove stiamo andando. Qui si gira solo in taxi; non è meraviglioso?» Certo che è meraviglioso, almeno finché rimaniamo in alto. Ma ben presto, appena al di là di un fiume, dopo essere passati nella pancia di un ponte metallico assieme a tanti altri catorci anche peggiori del nostro, iniziammo a girare in tondo, sino a tornare per terra. Fine del viaggio. «Dove siamo, nonno?» «Siamo a Central Park, Arturo. Siamo arrivati. Adesso non ci resta che fare una bella passeggiata a piedi.» Piedi? Si va di male in peggio… adesso ci manca solo il monumento. Preparati Arturo, potrebbe essere difficile. Pensa all’aereo! Il taxi ci lasciò ai bordi di una strada. «Bene, Arturo. Questa strada è Central Park West, e quello è il parco dove siamo diretti. Almeno credo…» Credo parlasse più a se stesso che a me. Ci incamminammo in una stradina fatta di pietre che lasciavano crescere qualche ciuffo d’erba tra le fughe. Attorno a noi tutta una serie di siepi e grandi alberi dalle creste immense, rese ancora più grandi dalla mia statura lillipuziana. Boscaglie
29 di ogni altezza si alternavano a prati scoscesi. Di tanto in tanto, lampioni in stile liberty marcavano le distanze. Qua e là, qualche panchina. Le mie gambucce chiedevano pietà, ma il nonno passava oltre imperterrito. Sono stati dieci tra i minuti più duri della mia vita, credo. Ma alla fine eravamo lì. Davanti ai miei occhi appariva, per la prima volta dal vivo, lui: il monumento. «Arturo, questo posto si chiama Great Hill ed è dentro Central Park. Lo vedi quello? Lo riconosci?» Annuii. Come facevo a non ricordarmelo dopo tutte le volte che me l’aveva mostrato in foto? «Bello nonno! Adesso torniamo all’aereo, però!» Mi sorrise. Evidentemente non ero stato molto convincente. OK, eravamo appena arrivati, ma una volta visto il monumento cosa ci restava da fare? «Arturino mio bello, lo vedi quello? È un monumento molto importante per il nonno. Un giorno tornerai qui e leggerai quello che c’è scritto là sopra. Ora sei troppo piccolo per certe cose…» Il nonno cominciò di nuovo a lacrimare. «Che fai? Piangi, ora? Non ti piace più?» «No, Arturo. E solo che sono felice di essere qui con te. Questo posto è più importante di quello che credi, per il nonno. E anche per te, anche se adesso non lo sai.» «Che posto è questo, nonno?» «Questo monumento ha tanti nomi che non saprei neanche dirti qual è quello suo, quello vero. Io lo chiamo “la mia nave”. E tanto mi basta.» «La tua nave?!» «Lascia stare. Non importa.» Credo che il nonno abbia capito che non me ne fregava niente. Mi sentii appena in colpa, a sufficienza per assecondare il mio povero, piagnucolante nonnino. «Che cos’è quello là sopra, nonno?» «È una nave spaziale, Arturo. Una nave aliena. Tanto tempo fa, quando il nonno aveva dodici anni, arrivarono gli alieni sulla Terra.» La sua voce era solenne. «Davvero, nonno? E cosa fecero?» «Eh… non lo so. Io ero in ospedale.» «E che ci facevi in ospedale tu, nonno?» «Ero malato.» «Ti hanno curato gli alieni, nonno?» «In un certo senso…» Le sue parole si persero nel vuoto. Poi:
30 «Mi prometti che torni qui quando sarai grande? Mi prometti che verrai qui e racconterai a tutti quello che hai trovato?» Annuii. Lui mi fece un sorriso beffardo; era il primo a non credere a quella promessa. Del resto si stava rivolgendo a un ragazzino di otto anni che di lì a poco sarebbe piombato ancora una volta in un sonno funebre. È passato molto tempo, da allora. Il nonno ci ha lasciati poco più di un anno dopo il nostro viaggio a Central Park. Sono un adulto; non penso e non mi esprimo più come facevo a quei tempi, per mia fortuna. Sì, insomma… come tutti, anch’io alla fine sono cresciuto. Indovinate cosa faccio nella vita? Il pilota di aerei, ma certo! Non credo proprio; certe cose sono fuori dalla portata della gente comune. Sono un giornalista e non so neppure come ci sia arrivato a diventarlo. E riguardo a quella promessa, se state ascoltando queste mie parole, probabilmente dovreste ricredervi in merito alle promesse dei mocciosetti. Magari non tutte, ma qualcuna finisce per venir onorata. La fregatura di quando hai otto anni è che devi fare quello che ti dicono i grandi e, nel caso non fosse chiaro a sufficienza, questa memoria è la materializzazione della promessa fatta al mio povero, grande nonnino quasi un quarto di secolo fa. Addio, nonno Leo; ci vediamo sull’ultimo volo. * * * 8 novembre 2105. È la festa degli alieni ma poco importa. Sono le nove del mattino e già sto sgambettando per le verdi strade di Roma. Di tanto in tanto un taxi mi sorvola. La gente dorme ancora, così come ancora dormono i miei che la pensione ha trasformato in animali notturni. Qualcuno è a spasso col cane, qualcuno immerso dell’unica pagina sintetica del suo giornale che avidamente accarezza, probabilmente per leggerne solo i titoli e l’oroscopo. Il passo è veloce, il fiato mi offusca la vista. È tardi; bella l’idea quella di fare due passi a piedi proprio oggi, con questo gelo che s’insinua fin dentro alle ossa. Ma Gaia mi aspetta da qualche parte in centro, in un bar che dovrebbe essere appena fuori del Colosseo già visibile, e a me tardare non è mai andato a genio, qualunque sia il motivo. Devo affrettarmi. Di lì a poco lo vedo. Non c’ho mai fatto caso prima ma, da buona giornalista, Gaia sa come descrivere i luoghi. È chiaramente il posto giusto. Adesso che mi avvicino leggo anche il nome, giusto per sicurezza. Sono lì, apro la porta e con lo sguardo cerco tutt’intorno per vedere dove potrebbe essere quella peste. In fondo al locale, in un cantuccio che sembra studiato per rivelare i segreti più reconditi. Lei è lì, china sul suo paper che strapazza con tutte e dieci le dita, come un’indemoniata, assolu-
31 tamente concentrata nel capanno cucito con i suoi lunghi capelli ondulati. Mi fermo un attimo al bancone, catturo l’attenzione del barman. «Può, cortesemente, portare un cappuccino, un caffè e due brioche al tavolo lì in fondo, grazie?» Il barman annuisce e io mio avvio verso la mia meta. «Disturbo?» Alza gli occhi come un tigre che ti punta la giugulare. È una bellissima donna e credo lo sappia; chissà quanti uomini, con queste stesse semplici parole, tentano di abbordarla ogni giorno. Poi si rende conto che sono io; immersa nei propri pensieri non ha riconosciuto la mia voce. Smonta rapidamente il capanno, sorride con tutta se stessa, si alza sporgendosi dal tavolino per un bacio innocente sulle guance. «Ciao, Arty. Ti ho rovinato la giornata libera?» «No, dai! Sono talmente abituato a svegliarmi presto che prima di avviarmi sono stato a girarmi i pollici un paio d’ore. È tanto che aspetti?» «No, no. Sono appena arrivata anch’io!» Bugiarda; la tazza di cappuccino, ormai vuota, ha avuto il tempo di sviluppare un suo ecosistema… «Ah, bene. Meno male. Allora; a cosa devo l’onore?» Per un attimo il viso è teso, subito mascherato da un gran bel sorriso. Ma si vede che è imbarazzata. Si siede con la schiena ben dritta, gioca con una ciocca di capelli mentre espone per bene il petto. Per la verità ha ben poco da mostrare; sarà un miracolo se ha una prima. Ma è stupenda ugualmente; potrebbe fare la modella con quel suo viso pulito e il fisico armonioso che si ritrova. «Perché, ti dispiace?» Siamo sulla difensiva; le fai una domanda, te ne fa una lei. Così sei costretto a prendere in mano il gioco. «No, no. Assolutamente. A cosa stai lavorando?» Ma sì, buttiamola sul lavoro che tra colleghi funziona sempre! «Non stavo lavorando. Più che altro sto tentando di scrivere… un libro insomma!» Guarda il cielo di traverso, fa spallucce e diminuisce la distanza tra me e lei solo di qualche centimetro, perché non me ne accorga. «Un libro? Interessante… e di cosa parla?» Del sogno di diventare una grande giornalista, parla! Un’occhiata fugace e un po’ di sano culo sono bastati. «È un segreto per il momento…» E si affretta a tirarmi via il paper da sotto al naso, mentre il suo viso si fa di nuovo teso, non sia mai che riesca a carpire il suo segreto. Poi mi guarda dritto negli occhi e sorride ancora, prendendo ad accarezzarsi la nuca con la mano sinistra, mentre la destra avanza con la stessa velocità
32 delle placche tettoniche. Le mie sono al sicuro sotto il tavolino. Questo giochetto tutto femminile comincia a infastidirmi. «A te come va?» Prima o poi la scoccherà la freccia che va in bersaglio? Certo che no! Quello è compito mio perché sono il maschio, giusto? Questo spartito lo odio! «Non c’è male. Il lavoro va bene, la famiglia va bene. Solite cose.» Giochiamo a chi cede prima; forse mi prenderà per uno scemo, e nel caso sarà solo un bene. Ma ha capito l’antifona. La faccia si fa tesa. Guarda in un angolo mentre raccoglie il coraggio. Poi, senza guardarmi negli occhi, inizia con la voce tremolante: «Volevo chiederti se… c’è una festa che hanno organizzato alcuni amici. Volevo sapere… sì insomma, se ti farebbe piacere venirci con me.» Penso abbia consumato le sue energie. Il cappuccino è arrivato con un tempismo eccezionale; che non mi svenga dopo questa fatica! Faccio un cenno di ringraziamento al barman e appena si allontana torno a lei. «Lo sapevo che c’era qualcosa del genere, sotto.» La voce è pacata, nel tentativo di non sembrare inquisitoria. «L’avevi capito, vero? Capisci sempre tutto al volo. Mi chiedo come fai.» «Non sono un mago! È solo che mandi tanti di quei segnali che potrei capire a cosa pensi semplicemente standoti a guardare. Lo sai che spesso faccio la parte dell’imbranato, ma continui a cascarci.» «Allora è un no, vero?» Fissa un punto nel vuoto, si sente sconfitta. «Gaia; sei una ragazza stupenda, te l’ho già detto mille volte.» «Non abbastanza, evidentemente.» E qui ci giochiamo la carta della vittima. Sono brutta, penosa e cicciottella anche se c’è la coda fuori ad aspettarmi. Fosse un po’ più facile, una notte romantica non ci starebbe assolutamente male. Ma la conosco, non è il tipo. È talmente bella che potrebbe predare un macho diverso ogni giorno, ma lei cerca una relazione seria; niente storielle di una notte. È un’amica, ci siamo confessati più e più volte. Sarebbe tutto perfetto. Però… «Sai come la penso, Gaia. Io sono un giornalista, tu sei una giornalista e ci sono voluti… quanti? Due anni, prima di riuscire a stare un po’ insieme? Credi che ne possa venir fuori qualcosa di più concreto di una storia frivola?» «Lo so… non ci vediamo quasi mai. Non vedo quasi mai nessuno, a parte la gente che devo intervistare…» L’abbiamo già passata questa fase. Sono un po’ incavolato, sinceramente, ma cerco di mantenere un tono da buon samaritano.
33 «Appunto. Vuoi che ti prenda in giro e mi dichiari? Non lo so cosa provo per te per il semplice motivo che non me lo sono mai chiesto. Non voglio chiedermelo. È facile, per me, venire con te a quella festa… magari poi si potrebbe continuarla a casa tua, perché da me ci sarebbe un pubblico…» Sorride; fare un po’ d’umorismo stempera l’ambiente ma è meglio non esagerare per evitare che il messaggio vada perso. Continuo: «…ma sarebbe solo una presa per i fondelli, lo sai bene. Io ho bisogno di una donna che mi aspetti a casa e tu non puoi rinunciare alla tua carriera; c’hai speso troppo.» «E se invece ci rinunciassi?» «Dopo tutto quello che so di te? Non se ne parla, non per me. Sarebbe un mutuo suicidio. Le persone non cambiano, Gaia! Fanno solo finta. E tu sei una donna in carriera…» «E cosa dovrei essere, invece?» Si mantiene calma anche lei, ma le sopracciglia tradiscono un certo risentimento. La lascio parlare, può farle solo bene. «Dovrei essere una donna assolutamente inetta, incapace, pronta ad accogliere ogni tuo desiderio? Una tutta fornelli e ramazza? Cosa devo fare per convincerti che non sono un mostro?» «Non puoi. Dovresti essere un’altra, una donna che non aspira alla carriera ma che desidera la maternità. Un coppia senza figli non ha senso, Gaia; tanto vale restare buoni amici. Non basta condividere il domicilio. Mi sembra di avertene già parlato.» «E se ti sbagliassi?» «Può essere; ma lo saprei solo a cose fatte. E se invece avessi ragione? Anche quello posso saperlo solo a cose fatte, è certo, ma è molto più sicuro usare la testa che il cuore, certe volte.» «Certo che se ragioni così potresti rimanere da solo a vita, ti rendi conto?» «Lo so, Gaia. Lo so dal giorno in cui ho deciso di fare questo lavoro. L’ho semplicemente accettato.» «Quindi, secondo te, dovrei fare la stessa cosa?» «Sì Gaia. Spogliati degli abiti da brava ragazza, divertiti e segui la tua carriera. Non puoi fare la madre e girare per il mondo. Chi ci penserebbe a tuo figlio?» «Un sistema si trova. Un sistema si trova sempre…» Fa la filosofa, ora… «Davvero? E quale? Lasciarlo ai nonni?» «Perché no? Voglio dire… ci daranno una mano, in qualche modo! A questo servono i genitori, no?»
34 «Gaia, sono stato allevato da mio nonno fino all’età di nove anni. Sai cosa penso?» Fa un cenno con in capo, per invitarmi a continuare. «Penso che mio padre è morto venticinque anni fa. E non voglio avere un figlio che finisca per pensare la stessa cosa! Non se ne fa niente. Pago io, lascia stare…» La lascio in un angolo in compagnia di una lacrima. Mi dispiace che le cose vadano così ma Gaia deve imparare a guardare in faccia la realtà. Lei ha i suoi sogni, io ho i miei. Lei può rimanere incinta, io no. Fine della storia. Non ci vuole un genio a comprendere i propri ruoli e non è colpa di nessuno; ci si nasce. * * * «Ciao mamma!» Mi avvicino e le stampo un bacio sulla guancia. Mai dimenticarsi della mamma perché è pur sempre una donna, e come tale conosce mille modi per fartela pagare. «Ciao Arturino.» «Ce la farò a diventare Arturo, prima di crepare?» «Dai, non fare lo scemo come al solito! Dove sei stato?» «In centro a prendere un caffè con Gaia.» Non sono capace di mentire ma tengo il tono basso, magari non se ne accorge. «Gaia! Che brava ragazza! Ma siete solo amici, Artu’?» «Non cominciare…» «Ma che t’ha fatto quella povera figlia?» «È femmina; è sufficiente!» Mette i pugni nei fianchi e mi guarda col muso arricciato. Ops! Quasi mi dimenticavo che anche le mamme sono donne! «Non mi sarai venuto fuori ricchione? Guarda che basta dirlo che nessuno si scandalizza! Giusto per capire, no?» «No mamma, sono tecnicamente eterosessuale.» «E cosa c’hai contro quella povera creatura, allora?» Mi girano! Giuro che mi girano! E mi giro pure io verso mia madre con una faccia che non deve essere proprio simpatica. «Mamma, quando ti sei sposata a cosa aspiravi?» Punta la mano rovescia facendola oscillare su e giù, verso di me. «A fare ‘sto stronzo qua, pensavo! Ecco a cosa pensavo!» «Ecco! Gaia pensa al Pulitzer!» «Ma se quello lo danno in America! Ma chi ti capisce a te…» «E tu prendimi sempre alla lettera che non ci capirai mai niente…»
35 Scappo nella mia stanza, che è meglio. Oggi è una di quelle giornate di merda! Non l’ho guardata in faccia, mia madre, ma posso immaginarmela assorta nei suoi pensieri. Chi ci penserà a me quando lei non ci sarà più? Certo che non ha tutti i torti; a trentacinque anni non ho una relazione stabile. Rischio di rimanere solo, sul serio. Poco dopo sono a tavola con mio padre e mia madre, la prima volta dopo tanto tempo, talmente tanto che manco mi ricordo quand’è stata l’ultima. «Ciao pa’» «Ciao Arturo. Che c’ha tua madre?» «No niente…» «A quale “niente” in particolare ti riferisci?» «Ho visto Gaia oggi, la mia amica.» «E allora?» «Mamma m’ha già visto sposato… è un po’ delusa. Tutto qua.» La mamma è ai fornelli, abbastanza distante. Però si vede benissimo che le sue orecchie sono all’opera. Annuisce al nulla, ogni tanto. Sta tramando, lo so. Ve l’avevo detto: mai sottovalutare le mamme, ve le faranno pagare tutte! «Anna?! Quando deciderai di non assillare più tuo figlio con ‘sta storia di doversi accasare?» Grazie pa’! Bel tentativo! Mia madre, per tutta risposta: «Se schiatto o se si sposa; ci vuole tanto?» Povero papà; in guerra in mia difesa! «Ma dai! Saranno affari suoi, alla fine, no?» «E quando noi non ci siamo più, a lui chi ci pensa?» Che vi avevo detto? I discorsi in famiglia sono come gli spartiti musicali; puoi arrangiare qualcosa, ma la melodia di fondo rimane quella, c’è poco da fare! Poi arriva il colpo basso, quello che ti chiude lo stomaco. «Tuo nonno si starà rivoltando nella tomba.» Sono ufficialmente incazzato. A mia madre posso concedere di tutto, ma stiamo sfiorando pericolosamente i confini. «Che c’entra nonno adesso, ma’?» «C’entra che lui lo diceva sempre: “la famiglia prima di tutto, il resto è companatico!”. Se ti vedesse qui, zitello a trentacinque anni… mah!» Le frasi che le donne lasciano in sospeso sono sempre le più pericolose. Prendete nota. «Cosa ci devo fare io, ma’? Gaia è una brava ragazza. Mi piace pure, se è per questo. Ma non può essere madre, moglie e giornalista tutto insieme, no?» «Eh, certo. Perché?» «Perché sta in giro per il mondo tutto il tempo. Sta fuori di più di me, ecco perché!»
36 Affondata. Questa volta l’ho affondata. La tavola piomba in un imbarazzante silenzio tombale. Si sentono stridere le posate. Una mosca mi bisbiglia in un orecchio. Nessuno proferisce parola. Mio padre se l’è messa via. Mia madre, sicuramente, sta escogitando un piano. «Ci siamo noi qua, Arturo. Voglio dire: se è questo il problema! Come tuo nonno ha fatto con noi, così noi faremo con te.» Non ci credo: è mio padre che parla. Sono solo, in mezzo a due fuochi ora. «E con questo?» «C’è casa, ci siamo noi. Se questa ragazza ti piace, insomma… non pensare a dopo e basta, Arturo. Se poi non ti va per altri motivi, quelli sono affari tuoi…» È più calmo, il babbo; per questo è più pericoloso della mamma. Se analizziamo quello che ha detto, in buona sostanza ha ripetuto le stesse parole di mia madre, solo più politically correct. «Pa’; io non me la sento. Avere una donna che non c’è mai è come non averla. O no?» «Sì, è vero. Però è vero anche che non avere per non avere, a questo punto…» Fregato! A questo punto sono fregato! Che gli rispondo, adesso? S’infila la mamma; «Che poi, Arturo, il nonno ti ha portato a New York una volta. Ti ricordi?» «È certo che mi ricordo, mamma.» «E che ti ha portato a fare lì?» «Non lo so, avevo otto anni! Dimmelo tu!» «Non posso.» Questa storia di buttare il sasso e nascondere la mano, poi! «Com’è? Prima parli e dopo ti cuci la bocca?» «Hai fatto una promessa a nonno, vero?» «Sì, è vero. E allora?» «Pure io; perciò ti devi arrangiare!» E che palle, porca miseria! Possibile che non si possa avere una frase fatta a frase da ‘ste benedette donne, dico! «E va bene. Mi arrangerò!» Basta che se ne sta buona almeno un paio di minuti, che Dio abbia pietà di me… «Aspe’.» Si alza e sparisce. Guardo mio padre, lo interrogo con gli occhi e lui a occhiate mi risponde qualcosa come “se ti fai gli affari tuoi, adesso lo
37 scopri…”. Sto buono qua, OK. La mamma torna e mi porge una chiave. Si schiarisce la voce, poi parla: «È la chiave della biblioteca di tuo nonno. Sai che era chiusa. È arrivata il momento di dartela.» «A cosa lo devo?» «Tu non ti preoccupare; pensa a mantenere la promessa fatta al nonno. Ricordati che, non fosse stato per lui, col piffero che ti laureavi!» «Lo so, ma’! Che ci devo fare con la biblioteca?» «Ti ci devi pulire il culo, Artu’! Devi leggere quello che t’ha lasciato tuo nonno, sveglia! O ti fa schifo la carta di tuo nonno, ora che c’avete solo i computer?» «Oh! E non t’incazzare, uno non può neanche domandare, adesso?» Mai fare arrabbiare la mamma, ragazzi! È pericoloso! Mio padre smorza i toni e se ne esce con una domanda fuori dal coro; «Non vai a far festa stasera, Arturo?» «No pa’. Lo sai come la penso. Sono solo un mucchio di cazzate e basta!» Eccolo! Servizio in oro zecchino per la pietanza appena offerta alla mamma! Guardando nel vuoto: «Però papà c’ha ragione; puoi pure andarti a divertire, stasera. Magari fai pure una chiamata a Gaia…» «Ah ma’! E dai!» * * * Quella stessa sera provai a entrare nella biblioteca del nonno, alla ricerca di vecchi ricordi. Lì per lì avvertii solo il silenzio gelante, le occhiate di tutti quei libri di carta rivolti ordinatamente verso il centro della stanza. La vecchia scrivania in legno che, accarezzata, fastidiosamente raspava pelle dalle mie mani. La pipa in un angolo, in bella vista sul suo espositore. La luce artificiale, che la finestra era chiusa da quasi trent’anni. E polvere, accumulata in ogni dove. Quello non era il giorno adatto. Pensai che tutto sommato due passi non mi avrebbero fatto male. Richiusi la porta e me ne tornai sui miei passi. «Mamma! Esco. Vado a fare un giro.» «Hai chiamato Gaia? No, per caso dico.» «Ah ma’! Sì, l’ho chiamata.» Non è vero; non ho chiamato proprio nessuno. Due passi voglio farli da solo. Almeno così non mi assilla. «Io vado, ciao!» «Ciao Arturo.»
38 Mi manca il giornale. Comincio a chiedermi se sia stata una buona idea mettersi in ferie. Non so cosa fare. Il perenne dilemma tra lavoro e casa continua ad assillarmi. Se sono al lavoro non vedo l’ora di essere a casa; se sono a casa non vedo l’ora di tornare al lavoro. Sembra che nessun posto sia mai quello giusto per me. Vivere nel limbo, navigare nel nulla tutto il giorno, tutti i giorni. Senza un vero scopo. Per questa sera un meta me la posso dare. In fondo, se tutta quella gente frequenta la festa, deve pur esserci qualcosa di buono. Non vorremo credere che siano tutti un misero branco di pecore al cappio? Questa volta prendo un taxi. Mostro la mia carta al primo palo che incontro; non ci vorrà molto. Eccolo. Che saranno stati? Due minuti? Formidabile questo aggeggio; praticamente è sempre disponibile. Non si sente neanche l’esigenza di possedere un proprio veicolo. E dire che quand’ero bambino non vedevo l’ora di guidare un’auto tutta mia. È finita che io non c’ho manco la patente, mentre mio padre ha venduto la sua auto prima che fosse buona solo da fondere. Roma come New York, la New York che il nonno mi portò a visitare anni or sono. Siamo rimasti sempre un po’ indietro rispetto all’America. L’importante è arrivarci com’è arrivato il taxi, nel frattempo. Si apre la porta. Entro. «Signor Marchetti buonasera! Dove l’accompagno?» Lo scatolotto mi parla, mi guarda; ho su di lui il dominio che bramavo a otto anni. «Vorrei andare al Colosseo.» «Temo non sia possibile; l’accesso è vietato a causa della festività. Posso portarla lì vicino, al massimo in Via del Circo Massimo. Procedo?» Annuisco. Il taxi parte. Queste lattine sanno parlare, interpretare i tuoi gesti e se necessario sanno anche riprenderti e scaricarti per strada. Ma non sono di nessuna compagnia. «Può abbassare le luci, per cortesia?» «Certamente!» E l’atmosfera si fa azzurrina. Si vede meglio la città. I riflessi delle luci di strada sfrecciano sui vetri del taxi a ritmo costante. Ho la mente tutto sommato vuota. Non ho voglia di pensare a nulla. Il ricordo del nonno, però, continua a insinuarsi nei miei pensieri, nonostante cerchi di allontanarlo almeno per questa sera. Perché la chiave della sua biblioteca? Perché adesso? Devo trovarci qualcosa? È solo un dono come un altro? Non saprei rispondere a nessuna delle mie stesse domande. So tuttavia di essere arrivato. Abbandoniamo l’altezza per arrivare ai bordi della strada verdeggiante, nel luogo che il taxi mi ha promesso. Sgambettare; un buon metodo per insinuare di essere impegnati. Un metodo come un altro per perder tempo, forse solo un po’ più salutare. Le
39 voci della festa arrivano fino a qui e aumentano di volume man mano che guadagno terreno verso il Colosseo. C’è tutta la piazza piena di banconi, quegli arnesi che sembrano strutture fisse, ben piantate a terra a suon di cemento, ma che un semplice pulsante è in grado di trasformare in autotreni. L’aria è intrisa dei profumi di tutte quelle leccornie che più sono buone e più fanno male. Una nuvola di olio strafritto avvolge la bassa atmosfera della piazza. Faccio due passi in compagnia di quella strana sensazione di solitudine nonostante tutta Roma sia qui con me. Avanzo combattendo contro la risacca umana, senza metterci troppo ardire che a istigare una rissa ci vuole ben poco. Mi guardo attorno, vedo gente vestita in maschera. Il tema ovviamente è quello degli alieni, ma sin da subito mi accorgo che il secolo scorso dev’essere atterrata l’intera galassia da qualche parte su questo pianeta, perché è davvero difficile trovare due maschere - che siano due - che riproducano lo stesso essere. Non so che pensare. Altri due passi accompagnato da tanti e nessuno, verso dove mi portano le scarpe. La curiosità è tanta ed è scarsa allo stesso tempo. Un occhio su quella finestra a cui dedico una sbirciatina ogni volta che sono da queste parti. È aperta, c’è luce e qualche movimento all’interno; ma Gaia non doveva uscire con i suoi amici? Prendo il paper, la chiamo. «Ehi, dove sei?» «E sono fuori con gli amici. Te l’avevo detto stamattina, no?» L’orgoglio è femmina, non c’è che dire. «Sì è vero. Chiama la polizia, Gaia! Chiamala subito!» «Perché?» «Ti stanno svaligiando casa! Senti, mettiti qualcosa e scendi!» «Perché?» «Non mi va che stai sola in casa anche stasera. Scendi, per favore.» Mi ha sbattuto la comunicazione in faccia senza rispondere. Sbircio le ombre in casa. Mi sembra che nulla si stia muovendo, mentre la marea di gente va e viene davanti ai miei occhi. Poi qualcosa si muove, lentamente. Sembra combattuta con se stessa. Mezza Gaia vuole venire giù da me, mezza Gaia vuole giocare a fare l’offesa. Non si lancia propriamente dalla finestra, ma alla fine una fanciulla, struccata e sciatta, scende di sotto e mi aspetta in un angolo. «Ciao, Gaia. E tutti i tuoi amici? Che fine ha fatto tutta la compagnia di cui mi parlavi?» Non risponde e fissa il pavimento. Ha gli occhi gonfi. Lasciamo perdere la risposta. Non dovrei, ma un bacio sulla fronte mi parte dal cuore, un bacio lungo, un lungo abbraccio mentre lei continua a incrociare le braccia e trattiene le lacrime.
40 Un braccio intorno al fianco e la porto con me lontano dalla piazza, in un angolo tranquillo di un tranquillo bar, celato ai visitatori del cosmo, in una viuzza laterale. Ci serve una cioccolata calda. Ci serve subito! Qualche minuto di silenzio interrotto da qualche monosillabo di circostanza, poi si decide a parlarmi senza tuttavia alzare lo sguardo. Non vuole farmi vedere gli occhi gonfi e rossi di pianto. «E tu, come mai eri da queste parti?» «Ho fatto due passi; non sono abituato a starmene lontano dal lavoro. Sono iperattivo, lo sai.» La risposta buona era “sono venuto apposta per te!” Ma non mi piace mentire, lo sapete. «Perché mi hai chiamata allora?» «Perché ho capito che eri sola. Avevo l’anima in pace fino a poco prima; credevo fossi da qualche parte a divertirti.» «E come? Da sola?» «E tutti i tuoi amici? Non si tratta di una tua invenzione, vero?» «No, non ho inventato niente. Solo che sono sempre l’unica a presentarmi sola. Mi sento il candeliere ufficiale, alle loro feste. La dama di compagnia per il reparto geriatrico. Sola nella folla. Tanto vale starsene a casa.» Strana quella sensazione, la stessa che ho provato io stesso poco prima. Per qualche strano motivo mi ritrovo a giocare con la chiave della biblioteca. «E quella cos’è?» «È la chiave della biblioteca del nonno.» «E che ci fai?» Faccio spallucce, perché in realtà non so neppure io perché ci sto giocando e proprio adesso. «Mi è arrivata in regalo oggi. Non so neanche perché. Pare che il nonno l’abbia lasciato a mia madre in consegna per me. Doveva darmela in un momento particolare e lei ha deciso che il momento era oggi.» «Hai provato a dare un’occhiata tra le cose di tuo nonno?» «Un’occhiata dall’uscio, più che altro. Poi ho voluto cambiare aria.» «Se te l’ha lasciata ci deve essere un motivo, non credi?» «Direi di sì. Cercherò di capirlo con calma. Magari approfitto per rendermi le ferie meno asfissianti.» Di lì a poco la conversazione si sposta sul lavoro, sul suo libro, e passano le ore. Riesco persino a strapparle un sorriso di tanto in tanto. Come fosse Cenerentola, a mezzanotte l’accompagno a casa sua. È il momento del saluto; mi guarda con occhi tristi. Ho temuto il bacio, un bacio vero. Ma poi per fortuna il coraggio le è mancato. Le braccia attorno al mio collo, un casto bacio sulla guancia e Gaia va via, senza mai girarsi verso di me
41 mentre sale lentamente i gradini uno alla volta. Altre lacrime piangeranno gli occhi della cara, piccola Gaia, questa notte. Forse non dovrei farmi vedere per un po’; forse dovrei lasciare spazio al tempo perché si plachino le acque. * * * La mattina dopo, sono in biblioteca. Cerco un ordine che non trovo. Guardo attorno ancora una volta, vedo il pulviscolo volteggiare tra raggi di sole che fanno capolino nella penombra della stanza. Guardo bene tutto l’archivio; non c’è un ordine. I titoli sembrano buttati lì a casaccio. Eppure qualcosa non mi torna. La mente va indietro a quando condividevo la stanza col nonno. Ricordo perfettamente quelle volte in cui piazzava un libro al suo posto per poi, come avesse sbagliato qualcosa, riprenderlo per riporlo più in là di uno o due volumi. Si era sbagliato? Evidentemente… ma l’ordine dov’è? Decido di fregarmene e di iniziare dal principio. Sì, ma dov’è il principio? Destra o sinistra? Alto o basso? Guardo ancora una volta i dorsi. “Deve essere questo il principio!” In alto a sinistra, dove i libri sono decisamente più malmessi rispetto ad altri. Ricordo i gesti del nonno, solenni, quasi rituali. Se devo capirci qualcosa, devo capire tutto. Afferro il primo. È pesante, lo sento schiacciare ogni osso del polso. Lo porto a me; lo tengo in entrambe le mani. Il titolo non potrebbe essere più eloquente: “Roma; 8 novembre 2023”. Lo stringo al fianco e lentamente vado a sedermi. I gomiti sul tavolo, la testa nelle mani, il volume davanti a me. Lo osservo; è grande. “Gesù! E questo libro non si ascolta ma si legge. Tutto, dall’inizio alla fine.” Apro lentamente la copertina. Mi sembra di vederlo, il nonno! Il suo sguardo severo, affinché tratti quel blocco di carta con il dovuto rispetto. Faccio per leggere, ma non ci trovo quasi niente. Devo voltare pagina. Poggio il medio sul lembo del foglio appena letto; dieci pagine non vedono l’ora di essere scartate tutte assieme. Qualcosa cambia nella mia mente. S’insinua l’immagine del nonno che soleva bagnarsi la punta del dito prima di compiere lo stesso gesto. Provo anch’io; funziona. Una sola pagina viene via con me. Con lei il fruscio della carta che stride foglio su foglio, il sapore di cellulosa che invade il mio essere. Sembra che il nonno sia lì con me, in piedi, serafico. Una lacrima scende sul suo viso, ‘ché non gli par vero di vedere il suo nipotino al cospetto delle sue memorie, quand’anche fossero memorie altrui diventate parte del suo io. Inspira aria profondamente, affoga la sua commozione. E mentre la mia testa è
42 china e il mio pensiero è impegnato ad assorbire quel codice di lettere nere, lui scandisce ogni parola quando i miei occhi fanno altrettanto. Il tempo si contrae. La sua voce riempie la stanza, lo stesso spazio che si fa silenzioso per l’altro mondo. La sua voce melodica racconta il suo tempo, senza omettere qualcuno dei suoi intercalari. Senza omettere di rivolgersi personalmente a me. E ritmicamente svela ogni suo segreto, senza che nessun pudore possa fare da scudo. Lui parla; Arturino ascolta. * * * Vedi, Arturino… quando l’astronave arrivò nei pressi del pianeta Terra, la gente non era pronta. Era terrorizzata perché nessuno mai si era posto il problema di dover un giorno fare i conti con qualcosa di mastodontico, di più grande di sé. Le civiltà si erano sempre tenute a debita distanza le une dalle altre. Non c’erano uomini; c’erano americani, russi, italiani. Come poteva un popolo del genere rivolgersi con il dovuto orgoglio a una civiltà aliena? Non poteva, ovvio! Al tempo degli alieni, la gente era troppo indaffarata a seguire il futile, e la perseveranza in ciò era tale che i pochi esseri che avrebbero potuto cambiare in qualche modo le sorti dell’umanità, finivano soffocati. Vivevano come chiodi al cospetto di un martello. Hai mai provato, Arturo, a picchiare un chiodo con un martello? Sai cosa si prova? C’è questa massa che all’inizio preme sul gomito finché non rotea, protesa in avanti, quasi a voler fuggire. Poi il colpo; un unico colpo secco che scuotendo tutto il metacarpo si divide tra ulna e radio, si ritrova all’omero e colpisce selvaggiamente le spalle e, ancor più violento, la testa del chiodo. È facile, visto da fuori; ma non è la stessa cosa vista da dentro. Specialmente se tu sei il chiodo! Ebbene, così era la vita per costoro, la vita di tutti i giorni. Erano circondati da gente che era intenta ad apparire ma si dimenticava di essere. Gente che voleva provare sensazioni e se le iniettava in vena. Quella gente era tutta pronta. Come un’armata, avrebbero accolto qualsiasi esame l’umanità avesse dovuto affrontare. Non c’era nulla che potesse sfiorare neppure in superficie l’idea ostentata di sicurezza. Niente che potesse in qualche modo scuotere le loro menti, insinuare il benché minimo dubbio che fossero sostanzialmente fragili. La materia grigia perse il suo fascino, sembrava non interessasse nessuno. Era di moda non sapere niente perché internet poteva sapere per loro. Saper male, magari, ma sapere. Era di moda leggiucchiare, soprattutto volantini per conoscere il luogo dove ci sarebbe stata la prossima festa. Le auto? Tutti avevano la loro auto, Arturo, che serviva ad apparire migliori del vicino. Dovevano essere belle, grandi e lucenti. Se non c’era spazio per farci
43 stare la spesa o se si bevevano ore e ore di duro lavoro, era di poco conto. Ma un giorno arrivarono gli esami; ci sono sempre esami nella vita. Spesso giungono senza preavviso, come un’astronave che scivola giù da Cassiopea e si mostra all’umanità in tutto il suo splendore per… affascinarla? No: terrorizzarla! Hai paura dei cani se non sai come giocano, credimi! Due cani che giocano, sembrano essere a un passo dal mutuo assassinio! Così era la gente. L’angoscia salì lentamente, in proporzione inversa con lo spazio che separava noi da loro. Che genere di “loro” fossero, poco importava; dovevano essere come predetto. Film, libri… qualsiasi opera, terminava sempre con la vittoria dell’umanità. Ma l’umanità stessa si rese conto all’ultimo minuto che potevano essere ben altre le conseguenze dell’incontro. E le masse si sentirono subito come piccoli dinosauri. Da un estremo passarono all’altro. Nessun equilibrio nei giudizi. I salvatori furono promossi a carnefici. Non c’era molta gente abituata a valutare tutti i colori dell’arcobaleno, le sfumature del plausibile ma anche dell’impossibile. A pochi venne in mente che se quegli alieni avessero avuto intenzioni ostili, non ci sarebbe stato nessun modo per opporsi. Davide contro Golia? Macché! Un’ameba al cospetto di un TRex; questo eravamo! Tanto valeva continuare a vivere regolarmente, sperando e comprendendo che non c’erano soluzioni se non una: che loro fossero magnanimi con noi. Invece fu il caos. Questa città, dove sono nato, cresciuto e dove mi sono persino ammalato, divenne un teatro. Tante marionette, con i fili nelle mani delle loro stesse angosce, iniziarono a muovere in ogni dove. Questa città divenne il palco di qualcosa che potremmo definire una guerra civile. La nave in alto, assolutamente statica, il panico in basso, alla sua ombra. Gente che caricava le sue auto di ogni ben di dio fino a farle esplodere per correre… dove? Su Marte? Sarebbe stato sufficiente? Eppure partirono all’unisono, o meglio ci provarono. Non ci volle molto tempo perché l’autostrada si trasformasse in un enorme parcheggio a cielo aperto, senza vie di fuga; indubbiamente un ottimo bersaglio, se qualcuno avesse voluto attaccare. Il centro? Resse finché ressero le scorte. Assuefatta alle infinite scatole, la gente mantenne la calma per poche ore, finché i magazzini non furono svuotati. Quando i biscotti iniziarono a scarseggiare, iniziò a tramontare anche la bontà della gente. Sicché volarono bottiglie sulle teste più deboli e molte vetrine perirono sotto l’assedio di fiaschi infuocati. Roma come Milano in una mattina nebbiosa di febbraio, con l’odore acre e marcio al posto del solletico umido delle nebbie; e morte a perdita d’occhio. Gente presa da forti attacchi di chimica ilarità che la polizia elargiva nel disperato tentativo di contenere i danni. Il continuo sparpagliarsi di corpi a coprirsi l’un l’altro, l’uno contro
44 l’altro. L’aria tuonante dei colpi di cannone. Le sirene che in ogni angolo strillavano a squarciagola. La voce della folla, la voce vera; quel mormorio di fondo che era il respiro ansimante di Roma. E la nave ancora inerte sulle loro teste. C’è un monumento, Arturo. C’è un monumento che ricorda tutto questo: una lapide in qualche angolo di Piazza del Colosseo. È piccola; non sia mai che la gente ricordi con troppo fervore. Al suo cospetto, ogni anno, a centinaia si presentano i pagliacci camuffati da omini verdi, rossi o con più teste. E nessuno legge. Sicché quella lapide serve tanto quanto un bicchier d’acqua a spegnere l’inferno. Ma fidati; c’è. Era ieri; era festa per tutti. Anche per me. La compagnia di Gaia ha dato un senso a una serata partita male, in preda alla solitudine del mio essere. Ora questo libro, letto tutto d’un fiato. Lo chiudo e il nonno scompare così com’è comparso all’improvviso ai miei occhi. Le parole lette, le immagini osservate; la verità che m’ha bruciato la pelle. E noi festeggiamo. Cosa? Morti? Sparatorie? Vetrine in frantumi e gente disperata? Qual è il senso di quella fottuta festa che ieri sembrava rallegrare tutta la città? È mai possibile che la gente sia felice al cospetto della stessa lapide che le dovrebbe ricordare cos’è stato? Non capisco. Forse nonno Leo può ancora dirmi dell’altro. Magari domani, che nel frattempo è giunta la notte. Spengo la luce. Cala il sipario. * * * È domani, il giorno dopo la strage di Roma. Ancora in biblioteca. Lo stesso posto che all’inizio sembrava un buco non meno buco di un altro, ora è una calamita potente che mi attira a sé. Dall’alto cala un’altra memoria, un blocco di carta intriso dei ricordi di qualcuno, che alla fine diventeranno anche i miei. Nonno torna. Al mio fianco, di fronte a me o alle mie spalle. Torna e parla la sua voce, mentre scorrono le parole. Sai, Arturino, Roma non fu la prima a vedere la grande nave solcare i suoi cieli. Ci furono altri che, prima ancora che gli occhi potessero scorgere quella sagoma sulle proprie teste, aspettavano un gesto proveniente da quell’altro mondo, gente che ogni notte guardava alle stelle. Scienziati, gente cauta per definizione che provò a parlare ai nuovi arrivati prima che il panico potesse raggiungere le masse. Certo, nessuno di loro ha mai pensato, neppure per un solo attimo, di poter comunicare in lingua… come dire? Umana? Ma al SETI, per esempio, decisero di orientare verso quell’unico obiettivo, vicino e difficile da mancare come un elefante a un palmo di naso, tutte le loro orec-
45 chie. Ascoltarono per ore il nulla. E parlarono per ore ai loro muri. Niente; nessuna risposta. Non un segno, che fosse stato uno solo, di qualcuno all’altro capo del telefono. Nessun indizio che qualcuno stesse ascoltando. Quando la nave fu abbastanza vicina altri occhi videro, ben meno potenti. E anche meno maturi. Internet fu presto invasa dalle foto degli alieni quando la nave era ancora oltre l’orbita lunare. Gli internauti diedero improvvisamente spazi enormi in pasto alla notizia; in fondo era la risposta a una delle domande che l’umanità da tempo si poneva. La domanda era: “siamo soli in questo universo?”; la risposta all’improvviso divenne “No!”, con tutta la certezza che si potesse ostentare. Era lì fuori la prova che ciò che si sperava da tempo era vero. Ma la nave perseverava nel suo mutismo. Quando la notizia fu sufficientemente di pubblico dominio, la NASA non poté far altro se non rendere ancora più pubblica la notizia. Gli scienziati tennero a precisare che sino ad allora non era stato in alcun modo possibile stabilire le intenzioni degli esseri in visita. Sottolinearono che non c’era stato nessun tentativo di comunicazione, sia in positivo che in negativo. Molti di loro tennero a rimarcare che una civiltà litigiosa, avvezza alla guerra, si sarebbe estinta prima ancora di raggiungere un tale livello tecnologico e che noi, probabilmente, non ne avremmo avuto mai notizia. A ogni modo, nel caso estremamente improbabile che quella civiltà ci avesse voluti sottomettere, tennero a sottolineare che, com’era evidente dall’imponenza della nave, non avremmo avuto modo alcuno di opporci. Consigliarono quindi di continuare con la vita così com’era stata fino ad allora, visto che fermandoci c’avremmo rimesso solo noi. Non si è capito bene come queste parole, passate al setaccio della stampa, divennero semplicemente “gli alieni sono ostili perché non rispondono ai nostri messaggi”. Così arrivò nelle case, almeno in un’occasione. Il tetro oscurarsi degli animi difficilmente torna limpido a una sola smentita; da quell’istante, per la gente la Terra fu sotto attacco. La nave intanto nulla continuava a fare, come nulla aveva fatto sino a quel momento. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD