L'estate è finita

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L’estate è finita ..............................................................................4 La casa della memoria ..................................................................5 Nuove conoscenze ......................................................................28 Ritratto di famiglia .....................................................................46 Una giornata particolare ............................................................56 Una notte al chiaro di luna .........................................................70 Una serata perfetta .....................................................................97 L’incantesimo si è rotto ............................................................123 Nuove verità .............................................................................143 L’estate è finita ..........................................................................172 Verso il domani ........................................................................189


L’estate è finita di Rita Massaro

Progetto editoriale: Absolutely Free sas Grafica e impaginazione: Nicoletta Azzolini Foto di copertina: Moreno Scorpioni © Copyright, 2011 Absolutely Free Editore via Roccaporena, 44 - 00191 Roma E-mail: info@absolutelyfree.it È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico, non autorizzata ISBN 978-88-97057-07-9


La casa della memoria Ed eccomi nuovamente qui. Chi l’avrebbe mai detto che questo posto, che avevo odiato per tanto tempo, sarebbe divenuto il mio rifugio? Saranno stati almeno cinque o forse sei anni che non varcavo questo cancello. I treni sporchi, gli ostelli più simili a delle caserme, le lunghe camminate con zaino in spalla per le strade d’Europa. Tutto era meglio che venire qui. Ma ora, stranamente, sento che questo è l’unico posto che possa accogliermi, l’unico posto dove ho voglia di venire a nascondermi. Fuggire. A volte non è vigliaccheria. A volte è sopravvivenza. E ho imparato, anche, che non serve allontanarsi di molti chilometri, mettere miglia di distanza fra noi e il “nostro” mondo. Ci sono tanti modi di fuggire. Uno di questi è fare un percorso all’indietro, nei luoghi lontani e nascosti della memoria. Si può fuggire nel passato, e può anche capitare di ritrovarsi. Ho un legame con questa casa, ma fin’ora non lo sapevo. Sto riflettendo su questo, mentre scarico le valigie dall’auto e mi accingo a percorrere il vialetto pieno di erbacce. Sto anche pensando che bisognerà ripulire un po’ il giardino. Dovrei chiamare quel contadino che chiamava sempre mio padre, ma forse lo ripulirò io, tanto per fare qualcosa. Ho una necessità impellente di adoperare le mani, come se il flusso di energia, che mi sento esplodere nel cervello, avesse bisogno di fuoriuscire da qualche parte del mio corpo.


Ci sono momenti in cui vorrei che, con una siringa, mi aspirassero tutti i pensieri. Questa frase non è mia, eppure, mai come adesso sento che mi appartiene. In effetti, questo è uno di quei momenti in cui preferirei non pensare. È per questo che sono qui. Ma non credo ce la farò. I pensieri, in verità, sono indipendenti da noi. Vengono e vanno indifferenti al nostro volere o ai nostri desideri e si può fare poco per fermarli. Per esempio, mi sta tornando in mente, all’improvviso, un’estate di dieci anni fa. Anche allora ero una che si poneva troppe domande. Mi chiedevo se, nella vita, era meglio inseguire i propri sogni o vivere con i piedi per terra. Io, per la mia natura irrimediabilmente idealista e, probabilmente, anche per l’età, ero portata a pensare che avrei scelto di essere me stessa e non quello che la vita e soprattutto il mondo esterno mi imponevano di diventare. Oggi, invece, la domanda che mi faccio è un’altra. Veramente abbiamo una scelta o siamo tutti schiavi della necessità? A ogni modo, avevo diciassette anni e passavo la maggior parte del mio tempo a leggere romanzi e riviste per adolescenti, ascoltare i Duran Duran, i Queen, i Police e gli U2, scrivere i miei pensieri su fogli vaganti, torturare i miei delicati capelli biondi con permanenti, lacca e pinzoni con enormi fiocchi, organizzare feste di compleanno in casa mia o dei miei compagni di scuola. Tutto sommato, per me, l’adolescenza fu un periodo sereno. I problemi c’erano, ma non erano mai insormontabili. Ricordo che vivevo intensamente ogni attimo delle mie giornate. Avevo la sensazione di vivere una parte irripetibile della mia


esistenza e, quindi, cercavo di imprimere nella mia memoria il maggior numero di ricordi possibile. Ci sono persone che riempiono il proprio conto in banca di denaro, per paura di rimanere a secco. Altri riempiono i propri cassetti di gioielli o i propri armadi di vestiti. Io cercavo di riempire vorticosamente la mia vita di momenti bellissimi, come se avessi saputo che un giorno o l’altro avrei avuto bisogno di riaprire il cassetto dei ricordi e volevo essere certa di trovarlo pieno. Oltre l’età, anche il periodo storico mi aiutava. Io, che sono sempre stata particolarmente sensibile agli umori della gente, mi sentivo addosso l’euforia di quegli anni. Credo che chiunque abbia vissuto la sua adolescenza negli anni Ottanta ricordi la spensieratezza, la fiducia, l’ottimismo che si respirava nell’aria. Parole come crisi, disoccupazione, inquinamento, licenziamento, fallimento, cambiamenti climatici, desertificazione, disastro ambientale non facevano parte del vocabolario comune. Persino la guerra fredda pareva un male necessario per i film di James Bond! Al massimo, fra i più “alternativi”, facevano capolino, ogni tanto, la fame nel mondo e il neonato buco nell’ozono. È anche vero che in tutta quell’ostentazione di benessere c’era qualcosa di esagerato e mistificante, che, forse, avrebbe dovuto aprirci gli occhi su quello che sarebbe venuto dopo, ma chi ci pensava allora? Eravamo talmente occupati a divertirci, che non rimaneva molto tempo per pensare. In ogni caso, così come in quegli anni tutto era facile e sicuro e, ovunque, si respirava quella certa aria rassicurante, oggi, a soli dieci anni di distanza, tutto è difficile, precario, insicuro. Ma non voglio parlare di questo, ora.


C’è una grande opera di pulizia da fare anche all’interno della casa. Polvere e ragnatele hanno preso il sopravvento ovunque. Saranno un paio d’anni che i miei non vengono, neppure in estate, e quindi nessuno ha più pulito. C’è anche odore di chiuso e persino le tracce dell’ultimo capodanno che mio fratello Nicola ha organizzato qui con i suoi amici. Lui, con la scusa che era il più piccolo, si è sempre risparmiato. Ricordo le litigate che ci facevamo perché non voleva mai aiutare in casa. Mia nonna diceva che eravamo “lagnusi”. Lei, a ottant’anni suonati, era ancora una matrona, dura e forte come una roccia. Mi ero sempre chiesta dove prendesse tutta quell’energia che, poi, elargiva a piene mani a tutta la famiglia. “Voi non avete fatto la guerra”, ci diceva e ci guardava quasi con disgusto, come se fossimo stati tutti robetta che si poteva spezzare con un grissino. E aveva ragione. Mentre mio nonno era in guerra, aveva allevato, da sola, quattro figli, pur avendo dovuto lasciare la casa e tutte le sue cose per sfollare in un paese delle Madonie. Faceva la ricamatrice da quando era bambina, poi era diventata sarta. Dopo che il nonno era tornato, avevano avuto altri due figli, di cui l’ultima affetta da un grave ritardo mentale. Insieme avevano lavorato, comprato una casa, fatto studiare tutti i figli e pagato le cure e l’assistenza di cui aveva bisogno mia zia. Ancora oggi, che ha raggiunto i novant’anni, quasi tutta la famiglia, per qualsiasi problema, si rivolge a lei. L’anno scorso, quando zia Caterina, la sorella maggiore di mia madre, voleva separarsi dal marito, riuscì a farla desistere. “Tu ci devi dare l’illusione che è iddu ca cumanna”, le


diceva, “però ha fari chiddu ca rici tu. Na fimmina bona sapi comi teniri l’omo in pugnu”. Cara nonna, non ci sono più le donne di una volta, e neppure gli uomini. Oggi tutti vogliamo fare quello che ci passa per la testa, ma nessuno ha la spina dorsale per farlo veramente e diamo sempre la colpa agli altri quando non ci riusciamo. Ci vogliamo sentire liberi di fare le nostre scelte, ma poi dobbiamo andare da uno psicologo per capire cosa veramente vogliamo. Parliamo molto di più di quanto non facevate voi, ma non ci capiamo. Dovremmo essere più felici, ma non lo siamo. A volte, le vorrei dire tutto questo, ma poi rinuncio, perché so che non capirebbe. Anche quell’estate, non ero per niente contenta di venire qui. Trovavo la campagna noiosa e desolante e mi importava veramente poco dei sacrifici che aveva fatto la mia famiglia per realizzare quella casa. In quel periodo era scoppiata la moda della villeggiatura e, dal momento che costruire dal nulla non costava troppo e non necessitava di una licenza edilizia, tanto prima o poi sarebbe arrivata la sanatoria, si costruiva abusivamente praticamente ovunque, senza ritegno, rispetto e tanto meno estetica. File di baracche di cemento sorgevano dall’oggi al domani in riva al mare, ma anche in montagna o in collina, seppure meno gettonate, non mancavano le seconde case a distruggere senza pietà paesaggi bellissimi. La legalità era considerata un hobby che pochi potevano permettersi, per certi versi, anche stupido e inutile. Se ne parlavi, e ti andava bene, venivi etichettato come idealista. Quando


crescerai ti renderai conto che nella vita queste cose contano poco. Era sottinteso che contavano i soldi e bisogna riconoscere che, finché ci furono, si stava abbastanza bene. Quando cominciarono a scarseggiare iniziarono anche i problemi e fu in quel momento che qualcuno si accorse che si erano persi di vista i valori più importanti e bisognava recuperarli. Secondo me era già troppo tardi. Fatto sta che anche quell’anno mi dovetti rassegnare e la prima notte che ci dormii, rifeci un sogno che facevo spesso. Camminavo, reggendo con le mani un vassoio che conteneva dei bicchieri di cristallo, molto preziosi. Cercavo di stare molto attenta, perché avevo paura di romperli. A un certo punto inciampavo, ma mi svegliavo sempre prima di sapere se i bicchieri si erano rotti o se ero riuscita a salvarli. Anche quella volta mi svegliai, in preda all’angoscia, chiedendomi cosa fossero mai quei bicchieri che avevo tanta paura di rompere. E rieccomi nella mia stanza, nel mio mondo, in quelle quattro mura che ti segnano una vita. Anche adesso la prima cosa che faccio è aprire le persiane e uscire sul terrazzo. Quante volte ho visto l’alba da quassù. La sensazione visiva del sole che usciva dall’acqua facendo strani colori nel cielo era straordinaria. Ma, da queste parti, probabilmente si è tanto abituati ai colori forti che, spesso, non se ne apprezza la bellezza fino in fondo, almeno fino a quando non si è costretti ad andare via. La cosa che mi dava maggior piacere erano i suoni della campagna che si sveglia, che mi facevano pensare alla vita che si sveglia. Non era soltanto la natura, ma anche i contadini che si alzavano presto per andare a lavorare la terra. Mi sembrava, nella


mia visione romantica e adolescenziale delle cose, che uomini e animali si fossero dati appuntamento a una data ora e iniziassero a suonare tutti insieme, come in una grande orchestra. La bellezza è armonia, pensavo, e io, in quel momento, per il solo fatto di essere lì a guardare ed ascoltare quello spettacolo, mi sentivo parte del tutto. Probabilmente se fossi stata io a dovermi alzare alle cinque del mattino per andare a lavorare la terra, l’avrei pensata diversamente. Amavo la mia terra e mi sentivo legata a essa in modo quasi viscerale. Con il tempo, questo sentimento si è trasformato in amore-odio, proprio come tutti quei sentimenti troppo forti che finiscono per procurarci molto dolore, per cui, se adesso mi fosse data la possibilità di andarmene, so che farei la valigia domani mattina per poi vivere di nostalgia altrove, il giorno dopo. Tornando a quell’estate, la campagna mi annoiava profondamente, perché come tutti quelli che avevano la mia età, ero alla disperata ricerca di emozioni e sensazioni forti. Nonostante ciò, c’erano due ottimi motivi che mi rendevano quei mesi estivi sopportabili, si chiamavano Marta e Valerio. Con i figli della nostra vicina eravamo cresciuti insieme ed eravamo diventati un trio quasi inseparabile. Una cosa che mi divertiva moltissimo era paragonare le persone a degli oggetti o a degli animali. Talvolta mi venivano in mente anche entità astratte come un numero, una parola o una figura geometrica. Quando vedevo Marta e Valerio non potevo fare a meno di pensare a due alberi. Lui era una quercia grande, maestosa e, pur essendo giovane, resistente e con le radici ben piantate nel terreno. Marta, invece, era un albero più piccolo e


colorato, forse un mandorlo in fiore, ma ben piantato nella terra, come l’albero Valerio. Io, che ero l’indecisione fatta persona e avevo sempre dubbi su tutti e tutto, invidiavo da sempre la loro sicurezza e le loro inequivocabili certezze. Tutto sommato, però, non si può dire che non mi piacessi. Ero una che voleva sempre capire di più e, in fondo, trovavo giusto farsi delle domande. Quando pensavo a me, vedevo un arcobaleno colorato, sospeso fra terra e cielo, sempre proteso verso il mondo delle mie fantasie e, al tempo stesso, sempre pronto a tornare alla realtà. Alla fine, era come avere a disposizione uno di quegli album di disegni che ci regalavano da bambini. Io lo coloravo a mio piacimento. Per me Valerio era sempre stato come un fratello maggiore. Ma qualcosa era cambiato dopo che avevo compiuto il mio tredicesimo compleanno. Valerio ne aveva sedici e io avevo notato in lui un mutamento, che è difficile notare nelle persone che ci stanno vicine e che, tuttavia, in lui era straordinario. Lo vedevo dal modo in cui mi guardava e con cui, certe volte, mi sfiorava, quasi per caso. All’inizio ero infastidita da quelle sue nuove, strane e improvvise attenzioni. Più di una volta glielo feci capire, poi arrivai a dirglielo apertamente. Preferivo stare con Marta, e io e lei, a poco a poco, tendemmo a escluderlo. Vivevamo nel nostro mondo fatto di sogni, in cui Valerio, così reale e concreto, era un intruso. Noi volevamo un ideale, non un ragazzo vero, e lui disturbava le nostre fantasie. Lui, però, non si arrese mai. Con i suoi modi pratici e sicuri, ci imponeva la sua presenza, prendendoci in giro e distruggendo tutti i nostri castelli in aria con quel suo terribile


sorrisetto ironico. E, a onor del vero, devo ammettere che non era facile escluderlo, perché sapeva anche come rendersi adorabile. Continuò a insistere con quelle sue invadenti manifestazioni d’affetto nei miei riguardi. Iniziai a ritrovarmi le sue mani dappertutto, la sua presenza ovunque. Cominciò una specie di lotta ideale ma anche fisica fra me e lui, durante la quale arrivai persino a schiaffeggiarlo e a fargli male, ma era tutto inutile. Lui non se la prendeva e mi rispondeva con una carezza o con un bacio. Alla fine, quello che era iniziato come uno scontro finì per diventare uno strano gioco che ci portava inevitabilmente verso la naturale scoperta dei nostri corpi e del loro potere. Generalmente si accontentava di tenermi abbracciata, accarezzarmi quasi ovunque, baciarmi in continuazione le mani o i capelli, ma una volta mi ritrovai la sua bocca troppo vicina alla mia, sentendo quasi il suo respiro confondersi con il mio. Quando capii le sue intenzioni lo respinsi istintivamente, ebbi una specie di senso di repulsione; capii che, in quel momento, per me quel gioco stava andando troppo oltre e che mi faceva un po’ senso pensare di condividere quelle mie prime esperienze con Valerio. Così, ignorando il potenziale negativo delle mie parole, gli dissi semplicemente che dovevamo tornare a comportarci come ciò che eravamo, cioè due affettuosi amici di lunga data, e che volevo conoscere altri ragazzi. Valerio, ovviamente, ci rimase male ma rispettò il mio desiderio, anche se non smise più di guardarmi in quello strano modo e io non smisi più di sentirmi in imbarazzo quando lui lo faceva. Nonostante ciò, continuai a parlargli sinceramente di tutto, come se quella breve parentesi non fosse mai esistita.


Quell’anno, come sempre, la prima persona che avevo cercato era Marta. Ci sentivamo spesso al telefono e ci vedevamo qualche volta, anche in inverno, ma durante l’estate diventavamo quasi una cosa sola. A volte, mentre parlava, la osservavo, guardavo i suoi riccioli neri sempre scomposti, il volto pieno di lentiggini, gli occhi piccoli e intelligenti. Aveva gli occhi più mobili che avessi mai visto, non stavano mai fermi o fissi su qualcosa, come invece facevano spesso i miei. Sembrava che fosse sempre attenta e vigile su tutto e, talvolta, dava l’impressione di voler penetrare nei segreti più nascosti di quelli che capitavano sotto quello sguardo indagatore. Sapevo che lei non si piaceva fisicamente, si lamentava della sua mancanza di forme, del suo viso irregolare, della sua pelle piena di macchie e dei suoi occhi troppo piccoli; io, invece, la trovavo bellissima, di una bellezza inusuale, non comune e, proprio per questo, particolare rispetto alla norma, ma lei non mi credeva e mi rispondeva che non ero obiettiva, perché le volevo bene. Su questo aveva ragione, era la mia migliore amica, anzi una sorella, e mi sembrava impossibile pensare che non sarebbe stato così per sempre. Quante volte abbiamo percorso, a piedi, questo vialetto che porta dalla mia casa alla sua. Lo ripercorro, pensando a noi e a quei giorni. Il loro giardino è ordinato e pulito, l’orto coltivato, gli alberi potati. Tutto come sempre. So che loro vengono qui ogni estate, proprio come allora. La madre ci viene spesso anche durante l’inverno, per pulire. La signora Antonia, pur non vedendola da molto tempo, me la ricordo perfettamente, sempre serena e sorridente. Il padre


dei miei amici, invece, non lo avevo conosciuto. Sapevo che era morto molti anni prima, poco dopo il loro ritorno dalla Germania. Era lì che i loro genitori si erano conosciuti e poi sposati. Lavoravano nella stessa fabbrica e la signora Antonia raccontava sempre, sorridendo con nostalgia, come il suo futuro marito l’avesse aspettata all’uscita, per quasi un mese, prima di avere il coraggio di rivolgerle la parola. Altri tempi! Fu qualche anno dopo la nascita di Marta che erano stati costretti a tornare, perché era morta la madre della signora Antonia e il padre era troppo anziano per vivere da solo. Gli altri fratelli erano sparsi per il mondo, in luoghi ancora più lontani. E così, suo marito trovò lavoro in un cantiere quaggiù e decisero di rimanere. Probabilmente, era stata anche la nostalgia di casa a farli propendere per questa soluzione. Purtroppo, però, poco dopo il padre di Marta e Valerio era morto, cadendo da un’impalcatura. Marta era troppo piccola per ricordarselo, ma Valerio ne aveva sofferto atrocemente e, da allora, aveva sviluppato quella rabbia e quell’odio profondo nei confronti delle ingiustizie e di certe categorie di persone. Le chiamava i padroni, i capitalisti, le sanguisughe. Diceva sempre che quello di suo padre era stato un omicidio, perché gli imprenditori sapevano bene che, risparmiando sulle misure di sicurezza, mettevano a rischio la vita degli operai, ma poco gliene importava e questi stessi, pur sapendolo, non fiatavano per paura di perdere il posto di lavoro. La signora, pur avendo ricevuto una pensione a seguito della disgrazia, per integrare le modeste entrate della famiglia, faceva assistenza agli anziani per mezza giornata, mentre nell’altra mezza si occupava della casa, del padre e dei ragazzi.


Marta e Valerio erano cresciuti con la consapevolezza di doversi occupare di loro stessi e di dover fare conto solo sulle proprie capacità per cavarsela nella vita, pur se la presenza della madre non era mai mancata ed era per loro una sorgente inesauribile di forza ed energia. Ricordo ancora il piacere che mi procurava vederla cucinare. Il suo modo agile ma allo stesso tempo calmo e paziente di tagliare, pulire, spellare, mescolare, rosolare, impastare… Non so perché, mi dava una strana sensazione di benessere. Io non avevo ricevuto quell’educazione che vedeva la donna come l’angelo del focolare, ma vederla cucinare in quel modo aveva il potere di rilassarmi e rassicurarmi. Forse era perché mi mancava in famiglia qualcuno che conoscesse e applicasse quell’arte con amore. Mia madre andava sempre di fretta, odiava cucinare e lo faceva in modo nevrotico. A casa mia si mangiava per vivere, non c’era il gusto di stare a tavola e, il più delle volte, quando ancora eravamo seduti, i piatti sparivano dalla nostra vista insieme all’ultimo boccone e, magicamente, li vedevamo già lavati e poggiati sul piano a scolare. Quante volte ho pensato che, da adulta, non sarei mai stata come mia madre, e quante volte, oggi, inconsapevolmente, mi ritrovo a fare le stesse cose. Quel primo giorno, come ormai da tradizione, andai a casa loro di buon mattino. Quando arrivavo, infatti, andavo sempre a salutare tutta la famiglia. Come al solito, la madre era uscita presto perché, tranne un paio di settimane, lavorava anche nei mesi estivi. Trovai Valerio e suo nonno in giardino. Marta, invece, non si era ancora alzata, perché la sera si addormentava


sempre molto tardi e la mattina faticava ad alzarsi. Diceva che era un animale notturno, ma suo fratello le ribatteva che aveva soltanto l’orologio biologico spostato in avanti e che avrebbe dovuto porci rimedio prima che fosse arrivato il momento di andare a lavorare. Dopo che ci fummo salutati, Valerio tornò a fare quello che stava facendo e che faceva sempre quando si trovava in campagna. Aiutava suo nonno con le piante e, soprattutto, con gli alberi del frutteto. Entrambi erano molto legati alla terra e adoravano stare lì in mezzo, sporchi e sudati, a misurare i progressi di quei piccoli frutti che loro avevano contribuito a far crescere. E quando li mangiavano e li offrivano a tutti, non facevano che decantarne il sapore speciale e la genuinità. Mentre pensavo a tutto questo, quasi senza rendermene conto, mi ero messa a osservare Valerio. Guardandolo analiticamente, non si poteva dire che fosse bello. Aveva i lineamenti marcati, il naso troppo pronunciato, gli occhi piuttosto piccoli e non era neanche molto alto. Ma guardandolo nel complesso, risultava un tipico ragazzo mediterraneo, scuro di carnagione e di capelli, dagli occhi profondi e dalla bocca carnosa e con un fisico asciutto, nonostante le spalle larghe. La caratteristica principale del suo carattere era la semplicità che, talvolta, risultava disarmante, ma non scadeva mai nella volgarità o nella rozzezza. Era diretto in quasi tutti i suoi comportamenti e odiava i preamboli e i giri di parole. Quel giorno ero arrivata da non molto tempo quando mi disse che doveva parlarmi. E così uscimmo a fare una passeggiata. Quella mattina non riuscivo a smettere di guardarlo. Mi accorsi


che aveva qualcosa di strano, di diverso dal solito. Era stato via per un anno, a causa del militare. Forse, se non fosse mancato dalla mia vista per tutto questo tempo non avrei notato quel cambiamento. L’estate precedente senza di lui era stata strana, in un certo senso vuota. La sua presenza ingombrante, qualche volta fastidiosa, perché impediva alla mia mente di volare via, come avrebbe voluto, per riportarmi prepotentemente alla realtà, era venuta a mancare. Avevo sentito dentro come un filo sottile che era stato reciso e quella rottura faceva un po’ male. Ora era lì, con la solita maglietta sudata, che camminava al mio fianco come aveva fatto tante altre volte, ma sentivo che non era più lo stesso. C’era qualcosa in lui, forse nello sguardo, che lo faceva sembrare più adulto. Un’ombra di tristezza, come di chi ha perduto qualcosa, ma anche una nuova e intensa passionalità animavano quegli occhi scuri. «Chiara» – iniziò, come chi sta per fare un discorso che si era da tempo preparato, ma poi si fermò e mi guardò dritto negli occhi. Non dimenticherò mai quello sguardo. Mi aveva detto tutto, senza proferire parola. Una comunicazione così intensa, diretta e spontanea mi accese una specie di fuoco dentro. Nessuno mi aveva mai guardata così e, fin’ora, nessuno l’ha più fatto. A volte mi chiedo perché la maggior parte di noi ha quasi sempre così tanta paura di esprimere i propri sentimenti, come se si vergognasse di quella che considera una grande debolezza. Valerio non era così, perché il suo modo di guardare, di parlare, di muoversi, persino lo scatto nervoso delle mani che esprimeva il suo stato d’ansia, tutto il suo essere non era fatto per


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