E senza accento

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Absolutely Free Editore



Progetto editoriale: Absolutely Free sas In copertina: Ernst Ludwig Kirchner - Donna allo specchio (1912) Grafica e impaginazione: Nicoletta Azzolini Š Copyright, 2011 Editrice Absolutely Free - via Rocca Porena, 44 - 00191 Roma E-mail: info@absolutelyfree.it Ăˆ vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico, non autorizzata ISBN 978 - 88 - 97057 - 55 - 0


A chi ha saputo ascoltare e a chi mi ha restituito i sogni



Uno e

Una vocale stonata Cominciava a fare freddo. L’umidità mi stava increspando i capelli e il collo era rigido e intorpidito. Mi strinsi nella giacca, accavallando le gambe, e un autobus frenò davanti alla panchina su cui ero seduta ormai da un’ora, in attesa di una telefonata che continuava a non arrivare. Frugai nella borsa alla ricerca di una sigaretta e riuscii ad accenderla facendomi scudo con le mani. Aspirai profondamente. Il fumo passò a fatica nella gola infiammata. Avevo appena riposto l’accendino che un vecchio col bastone si avvicinò, indicandomi il sigaro spezzato che teneva fra le labbra. Finalmente il cellulare squillò. Lo tenni tra l’orecchio e la spalla e provai a far partire un’altra fiammella per quel vecchio che tossiva. Credevo fosse lui… «Carmen?». «Micaela, ciao. Dimmi pure…» «Dove sei?». «Fuori città». «Per che ora rientri?»

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«Non lo so. Perché, cos’è successo?» «La riunione è stata anticipata alle nove». «Nessun problema. Sarò in studio per quell’ora. C’è altro?» «È arrivata una e-mail dalla MK». «Mmm…» «Il fax invece non funziona». «Dubito di poterti aiutare da qui, non credi?» dissi irritata. «Hai ragione, scusa. Comunque ho chiamato Pietro. Verrà tra una mezz’ora». «Bene». «Che faccio con la CID?» «Luca non è in studio?» «Sì, ma è in riunione con la Marzi da circa… sì, due ore». «Poi?» «L’udienza di domani è alle otto e trenta, e non alle nove come ti avevo detto. Devo aver sbagliato a controllare sull’agenda». «Va bene, grazie». «Figurati, a più tardi». La mia segretaria: un angelo. Sempre attenta e precisa, anche troppo a volte. Voglio dire, lo studio non era mica il suo, perché si preoccupava tanto? Il giorno del colloquio si erano presentate in cinquantadue per quel posto (1.200 Euro più i contributi), ma Micaela mi aveva convinta subito, sembrava desiderosa di imparare. E poi era di bell’aspetto, il che è fondamentale in un ambiente come il nostro. Dulcis in fundo, per lei ero un mito. Ogni volta che venivo ospita-

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ta in qualche trasmissione, commentava con una spontaneità tardo-adolescenziale: «Com’eri bella ieri in TV, Carmen…». Anche quando le rispondevo in modo brusco, come un attimo fa, la sua voce restava accondiscendente. Guardai l’orologio: diciotto e trenta. Maledetto stronzo. Mi alzai imbracciando la borsa e staccai una cartaccia che si era appiccicata al tacco. Poi presi lo specchietto dal taschino e sistemai i capelli frettolosamente. Di guardare le vetrine di quegli squallidi negozietti di provincia non se ne parlava neanche, così mi avviai verso la chiesa: lì almeno avrei potuto ripararmi dal vento. Spinsi il portone di legno massiccio, afferrando il pomello con tutte e due le mani, ed entrai. C’era un gran silenzio, un silenzio che sapeva di vuoto e puzzava di crisantemo. Due donne di mezza età sedevano a uno dei banchi laterali; un uomo a mani giunte era inginocchiato di fronte alla statua della Madonna. Mossi qualche passo verso il centro della navata, osservando le pareti spoglie. Sull’altare c’erano solo un crocifisso di ottone e un vaso sbilenco. Diciannove e dieci. Stava davvero rasentando l’eccesso. Mi spostai sulla destra e accompagnai lungo il corpo la gonna di seta, così che non si sgualcisse mentre mi piegavo per sedermi. Che silenzio… Sbirciai di nuovo l’orologio. Un silenzio da mettere angoscia…

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Sospirai e ancora mi guardai attorno. Un’altra donna sulla quarantina stava prendendo posto. Era discinta, vestita di nero, con uno scialle sulle spalle che la invecchiava e le nascondeva il collo. Doveva portare scarpe di gomma, perché camminava con passo felpato; neanche mi ero accorta che fosse entrata. Ma, Cristo Santo, nessuno parlava lì dentro? Nessuno improvvisava un rosario? Chissà dov’era finito Paolo… Tutto a un tratto prese ad assalirmi una sorta di panico. Il mio corpo era molle, invertebrato. Non ero più in quella chiesa, seduta davanti a quel banco: fluttuavo. Sarei fuggita via, se solo l’ansia non mi avesse paralizzato le gambe. Poi le labbra si storsero e iniziarono a tremare. Fissai l’altare ipnotizzata e gli occhi lentamente si riempirono di lacrime. Provai a non farle uscire, tenendo le palpebre ben sollevate e sforzandomi di pensare a qualcosa che potesse consolarmi da quel dolore inaspettato e senza nome, ma ormai una goccina calda solcava la guancia, impertinente e scivolosa. Mi sentii subito a disagio e abbassai la testa sulla borsa. Dove avevo messo i kleenex? Le lacrime scendevano, scendevano… Una pioggia leggera precipitava sul tessuto nero e vi restava colpevole. Nel frattempo la chiesa si stava riempiendo; probabilmente ci sarebbe stata una messa. Chi mi passava accanto si soffermava sul mio viso bagnato con sguardo compassionevole. Forse quella tristezza veniva scambiata per disperazione. Forse sembravo una giovane inconsolabile vedova, una madre che avesse perso il figlio. Godere della pietà di quegli sguardi mi fe-

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ce sentire ancora peggio. C’era persino il rischio che una di quelle persone di paese venisse a chiedermi: “Come sta, Signora?” o che mi desse una pacca sulla spalla. La sola idea mi faceva saltare i nervi. Non ero entrata in quel luogo sacro per trovare conforto, ma solo per proteggermi dal freddo. E, soprattutto, non ero certo una donna da compatire. Piansi finché non esaurii le riserve accumulate, finché non smisi di tremare. Poi recuperai lo specchietto e me ne servii per cancellare con le dita le strisce scure che avevano contaminato il fard. Quando mi sentii pronta, uscii, annullando dalla mente ciò che era successo come se mi fossi appena svegliata. Una volta in piazza riconobbi la macchina parcheggiata accanto al ferramenta e sentii il trillo dei messaggi che mi avvisavano in ritardo delle sue chiamate. Spalancai lo sportello della BMW, facendolo sobbalzare. Teneva ancora in mano il telefono. «Carmen! Ma dov’eri?» «Hai pure il coraggio di usare questo tono inquisitorio, dopo avermi lasciata ad intirizzire per più di due ore?» «Hai ragione, scusa. É solo che all’ultimo momento ha voluto che l’accompagnassi a ritirare il frigo nuovo». «Certo… Che carino. Te lo sei caricato sulle spalle o hai chiamato un facchino?» «Non sono così prestante». «Mi trovi d’accordo».

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«Sai com’è capricciosa a volte…» «Ha un nome, nel caso lo avessi scordato. Si chiama Eva». «Dai, Carmen…» mi accarezzò un ginocchio. «Togli quella mano» lo freddai. «Ti senti bene? Hai una faccia sconvolta…» «Sto bene, grazie». «Dove andiamo?» «Tu puoi anche andare al diavolo, io devo tornare in studio: la riunione con la Corbi è stata anticipata alle nove». «Cazzo. Chi te l’ha detto?» «Micaela, ovvio». «Sei ancora arrabbiata?» Non risposi, e mi concentrai sulla strada. ********** Non mi ero mai chiesta se gli altri sospettassero della nostra relazione. Dopotutto, lui non era ancora sposato. E di sicuro non ne facevo una questione morale. Ci sono momenti, nella vita di ognuno di noi, in cui lo spirito di sopravvivenza riemerge brutale e cancella sensi di colpa e preconcetti. Resti solo tu. Tu e i tuoi bisogni. Che si tratti di cibo, sesso o amore, se riesci a capire cos’è che ti occorre per salvarti lo prendi e basta, costi quel che costi. Mors tua vita mea: la vita è un campo di battaglia. Da ragazza avevo spezzato tanti cuori, dopo averli strapazzati, avviliti e svuotati. Quando non riuscivo a provare un sentimento

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che fosse mio, diventavo una vampirella che si nutriva delle emozioni altrui. Sceglievo, giocavo, incantavo, illudevo e poi… Zac! Via la testa all’ingenuo di turno, come la più perversa delle mantidi. Così risollevavo l’amor proprio ed ero pronta a riprendere la mia vita solitaria. L’importante era confermare, alle prime avvisaglie di crisi, la capacità di trovare qualcuno con cui trascorrere i miei giorni, caso mai ne avessi avuto voglia. Anche con Paolo era andata in questa maniera. Non avevo mosso un dito e mi ero limitata a guardare e farmi guardare. Più che altro mi aveva stuzzicata il fatto che di mezzo ci fosse una terza persona. Quel giorno, durante la riunione, fu Luca a rispondere pazientemente a ogni domanda della Corbi. Lo osservavo con le braccia incrociate sul petto, fingevo di ascoltare attentamente, annuivo alle quattro cazzate buttate giù nel pomeriggio e mi chiedevo se anche il suo fegato si stesse ribellando o se invece il sorriso rassicurante che sfoderava fosse vero. Quella donna lo interrompeva di continuo, e io la detestavo. Detestavo le perle con cui era solita avvolgersi il collo raggrinzito, detestavo i modi ancor più affettati dei miei e soprattutto la boria che incorniciava ogni sua frase. Quando mi resi conto che ogni boccata d’aria era diventata un sospiro, mi sentii costretta a intervenire, o Luca avrebbe continuato a parlare e parlare… facendomi esplodere. «Mi perdoni, Signora» dissi esausta. «I miei soci e io sappiamo

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quello che facciamo, stia pure tranquilla! Andrà tutto nel migliore dei modi». Le energie rimaste le esaurii simulando l’ultimo sorriso, Paolo invece sembrava assente e giocherellava con la cravatta. «Oh, ne sono certa, Avvocato!», disse la Corbi. «Chiedevo giusto qualche chiarimento». «E fa benissimo, non c’è da fidarsi dei legali!». Tutti risero di quella stupida battuta. Come al solito. «Siamo a sua disposizione per qualsiasi perplessità o quesito voglia porci, di giorno e di notte. Non abbia remore: lavoriamo per lei». «Oh, grazie…» «Si figuri, Signora Corbi». Per essere sicura che la conversazione fosse davvero chiusa, mi alzai e le porsi la mano, stringendo la sua con fermezza. «Grazie ancora!» ribadì lei uscendo. Micaela chiuse la porta d’ingresso e la luce nel corridoio si spense. «Puttana bugiarda», commentai. «Vuole solo spillare quattrini al marito. Non gliene frega niente della casa». «Uno scotch?» chiese Roberto, prendendo la bottiglia dal minibar. E brindammo. A noi, senza aggiungere altro. Come al solito. Poi, Luca consigliò di tornare al lavoro e ci avviammo verso le rispettive stanze. Sulle scale Paolo mi abbracciò da dietro. Un gesto imprudente da fare mentre le altre porte non erano ancora chiuse, così mi

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svincolai rapida, lanciando al mio amante un’occhiata di teso disappunto. Lui sparì con aria beffarda e divertita. Dal telefono del corridoio dissi a Micaela che poteva andare a casa e mi rintanai per finire un atto da notificare il giorno seguente. ********** Il tempo scivolò velocemente. Alle undici gli occhi erano storditi dal pc e lo stomaco iniziava a brontolare. Presi una caramella dal cassetto della scrivania e gettai la pallina di carta colorata dritta nel cestino. Luca, passando con indosso il soprabito, si trattenne qualche minuto sull’uscio: «Dai, spegni e tornatene a casa! È tardi». «Sì, sì, ho quasi finito». «Beh, io vado» sbadigliò. «Di là c’è Paolo». Lo sapevo bene. E sapevo anche cosa sarebbe successo di lì a poco. Naturalmente restai. Come al solito. Incollata al computer, aspettavo di sentire i suoi passi leggeri sulla moquette del corridoio, e non tardarono ad arrivare. «Che fai?» «Gioco a pinball, non vedi?» risposi, continuando a battere sui tasti. «Se non ti va di lavorare, conosco giochi più divertenti…» «Punti di vista».

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Si avvicinò, mi scostò i capelli e affondò la bocca sul collo. Stavo scrivendo la conclusione della mia lettera,“Cordiali saluti. Avv. Carmen Caineri”, e Paolo pigiò “INVIO”. «Dovevo ancora rileggerla, idiota!» gridai, voltandomi di scatto. «Era perfetta. Tu sei perfetta…» «Risparmiami le sviolinate». Mi prese in braccio, sollevandomi senza sforzo. Allora poggiai la testa sul suo petto e chiusi gli occhi: «Dove mi porti?» Scese le scale disinvolto nel buio e io già non pensavo più a niente. Con un calcio spalancò la porta della sala riunioni e mi mise a sedere sul tavolo, come una bambola di porcellana. «Hai scopato con lei oggi?» domandai, senza cercare davvero risposta. «Non mi piaci quando ti sforzi di essere volgare: non si addice alla tua boccuccia». Me la strinse in una smorfia e lo allontanai con sdegno. «E poi…» proseguì, «con lei non è come con te», e intanto faceva salire la mano sotto la gonna. «Certo… Come no…» Un brivido mi percorse, dando mio malgrado un suono zuccheroso al tono acido delle parole, mentre la sua lingua strisciava tra i seni ancora coperti ma liberati dal pizzo. Distesi la schiena tra i fogli, tenendo gli occhi sempre chiusi, e lui mi accarezzò le gambe, dalle caviglie stanche alle cosce. Allora mi sedetti e gli slacciai la cintura, per sentire anche il suo ansimare. Ed ecco la piena inebriante di cui conoscevo le dinami-

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che e che pure ogni volta mi stupiva. Gli occhi negli occhi per vivere assieme un momento di pace bellicosa, sempre troppo breve, che svaniva in un abbraccio. Non mi chiedevo cosa stesse pensando, non mi interessava sapere cosa guidasse le sue spinte. All’improvviso però, sentii un rumore che riattivò la mente. «SShhhhh!» «Cosa?» «Non hai sentito?» «No». «Aspetta!» lo fermai. «Dico sul serio, ho sentito un rumore». «Io non sento niente». Ma poi fu chiaro che una chiave girava nella toppa. Lo allontanai e scattai in piedi, riabbassando la gonna. Anche lui si ricompose rapidamente e si diresse calmissimo verso l’ingresso. Presi un opuscolo dal tavolino di vetro e mi sedetti su una delle poltrone laterali, quelle riservate ai clienti. Chi diavolo poteva essere a quell’ora? A voce alta, così che potessi sentire, Paolo disse: «Micaela!» «Oddio, mi hai fatto paura. Credevo non ci fosse nessuno, la luce era spenta». «Sono con Carmen. Definiamo gli ultimi dettagli per l’udienza di domani». A quel punto uscii anch’io dalla sala riunioni: «Ehi! Sei proprio una stacanovista! Che ci fai qui?» Sembrava imbarazzata. «Beh… Per sbaglio avevo preso questa…». Mi porse la copia di un contratto. «Ho pensato che potesse servi-

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re domani, così l’ho riportata». Non c’entrava nulla con la causa, ma le dissi: «Oh, hai fatto bene cara… Potrebbe esserci utile, grazie!». «Grazie a te! E scusami tanto… Ora vi lascio soli». Ora vi lascio soli? Mi parve di percepire una certa ambiguità in quella frase, così mi affrettai a precisare: «In verità, stavamo proprio scendendo». Paolo non nascose la sua delusione e in ascensore fece di tutto per evitare il mio sguardo, mentre Micaela si faceva sempre più piccina. Ma cosa pretendeva che facessi? Certo non potevo congedare Micaela e restare in studio per continuare serenamente ciò che avevamo iniziato. «Ehm… Allora ciao», bofonchiò Micaela quando fummo in strada. «Ciao ciao» la salutò Paolo e, rivolgendosi a me, sempre scuro in volto, disse: «Ciao Carmen. A domani» e si avviò verso il parcheggio. Io avrei preso il taxi. La stazione era un isolato più in là, nella direzione opposta. Stavolta c’era mancato veramente poco… Dovevo fare più attenzione: uno scandalo era l’ultima cosa di cui avevo bisogno. E Paolo, poi… Trovavo davvero puerile il suo muso lungo. Dopotutto non ci mancavano le occasioni per stare insieme. Eva andava spesso a trovare la madre paralitica e la scusa del lavoro urgente era sempre plausibile. Al di là di queste sagge considerazioni, però, un senso d’incom-

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piutezza mi agitava… Avrei voluto che mi avesse presa e fatta sua, aiutandomi a dimenticare quella giornata di merda con la schiena schiacciata sul tavolo di ebano. Chiamarlo no, non doveva montarsi la testa. Sarei tornata a casa, mi sarei fatta un bagno e avrei letto qualcosa. L’aria fredda placò il desiderio che mi stava facendo impazzire però, mentre attraversavo all’altezza del semaforo, due mani mi afferrarono la vita. Ebbi appena il tempo di voltarmi che i nostri nasi cozzarono e Paolo mi baciò con furia. Mi piaceva quando mi attirava a sé con violenza, mi piaceva fingere di essere inerme. Mi piaceva soprattutto credere che non fosse colpa mia. ********** Camminavo a falcate brevi e imprecise. Paolo mi teneva una mano sull’anca, percorrendo la pancia con l’indice, fino all’ombelico. Gli alzai un lembo della camicia e iniziai a sfiorargli la schiena con le unghie lunghe e tonde. Di nuovo si girò brusco e mi addossò al muro, coprendomi col suo petto. Sentivo le spalle rigide e il ventre caldo, la sua barba mi graffiava il viso. Svoltammo l’angolo in silenzio, mano nella mano, questa volta con passo spedito, quasi una corsa, e raggiungemmo il parcheggio sotterraneo. Le quattro frecce della sua auto grigia s’illumi-

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narono quando disinserì l’allarme e ci buttammo sui sedili in un intreccio intenso e sfrenato, un fuoco che bruciava in fretta, senza troppi convenevoli. Poi… finì, portando via con l’ultimo sospiro anche la ragione che ci aveva spinti a farlo. Il mio giovane corpo pulsava ancora isterico e rabbioso, ma ora ero stanca e non volevo più su di me il suo sudore. Fossimo stati in un letto, mi sarei girata dall’altra parte. Paolo reclinò la testa all’indietro. Il torace si gonfiava e si sgonfiava sotto la camicia sbottonata e lui disse: «Ecco cosa intendevo». «Quando?» «Quando ti ho detto che con lei non è come con te». Mi specchiai nel retrovisore. «A volte sei davvero inopportuno». «Perché?» «Lascia stare. Andiamo». «Cos’ho detto di male?» «Niente. Andiamo». «Non volevo essere scortese». «Fa niente. Vai». Azzardò un bacio; gli concessi la guancia. Sulla strada di casa, il cellulare gli illuminò il taschino della giacca. Lui continuava a guidare. «Non rispondi?» «Più tardi». «Non metterti a fare il sensibile adesso. Non è il caso. Dai, ri-

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spondi» gli dissi, e ascoltai la conversazione. «Pronto? Ciao Amore. Sì, sto tornando… Giornata pesante. Quando? Aspetta, non c’è campo. Dicevi? Ah, sì, sì, certo. Domani, sicuro. Appena arrivo ti chiamo, che ora sono al volante. Okay, okay, stai tranquilla. Un bacio. Sì, anch’io… Ciao». Mentre guardavo fuori dal finestrino con aria indifferente, dentro di me si sviluppava una domanda cui non sapevo rispondere: era più miserabile Eva, che stava per sposare uno schifoso, o io, che mancavo di rispetto a lei e anche a me stessa? «Sai che ti voglio bene, vero?» mi scosse la voce di Paolo. «Sì». «E tu me ne vuoi?» «Sì». «Sei così scostante oggi…» «Non mi pare di averti tenuto a distanza». «Vedi? Frecciatine o monosillabi. Ma che hai?» «Senti, Paolo, mi dispiace, ok? Sono solo un po’ stanca, tutto qui». «Sicura?» «Sì». «Se avessi un problema me lo diresti?» «Sì». Piazza Cavour. Il Palazzaccio si ergeva minaccioso e l’auto imboccò la strada che di notte mi attendeva con generosa tranquillità. «Ci vediamo domani in studio?» «No. In udienza».

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«Ah, già. Dimenticavo. Sicura di star bene?» «Sì». «Ti va di fare un giro, forse? Vuoi bere qualcosa?» «No, preferisco salire. Davvero». «Ok… Comunque, volevo dirti che è stato bello… Grazie». Fui tentata di rispondere: “Prego! Sono cento Euro”, ma per fortuna non lo feci. Lo guardai semplicemente andar via e per la prima volta mi chiesi cosa ci trovassi in lui. Innegabile che fosse un bell’uomo: capello folto, castano chiaro, che dava l’idea di un pulito profumato, occhi cerulei, barba sempre rasata di fresco. Vestiva con gusto, un fisico asciutto e qualche rughetta lo rendevano interessante, vissuto. Cinque anni in più di me, grande oratore, persona di successo: cavalcavamo l’onda insieme. Gli rodeva un casino che avessi avuto la stanza grande, quella con finestra sul Tevere. Una volta lo avevamo fatto lì, sul davanzale. Andava avanti ormai da un anno… e che cosa ne avevo ricavato? Forse non meno di quanto cercassi. Eva voleva sposarlo, io no. Non lo amavo… no, decisamente. Mi infastidiva solo il fatto di doverlo dividere con una come lei. Cos’avevano in comune quei due? Eva era così maledettamente irritante con la sua gentilezza, col suo buonismo… Da vomito. Passava la vita a spiegare le equazioni a quegli sfigati della scuola serale. Più che con il bouquet tra le mani, la vedevo in chiesa sì, ma con la coroncina del rosario a sussurrar nenie. Che donna insignificante, anonima, scialba… Ecco perché

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l’avrebbe sposata: con Eva non sfigurava, la distanziava anni luce, e lei lo venerava come un dio. “Paolo, amore…”, “Caro, metti il maglione… ”, “Ti aspetto, tesoro… ”. Anche se le avessi sventolato davanti un drappo rosso, non avrebbe capito di avere due corna più lunghe di un toro da monta. ********** Vivevo al primo piano, non prendevo mai l’ascensore. Salendo, mi accorsi con orrore che mi si erano smagliate le autoreggenti. Coglione. Gli avevo detto di fare attenzione. Entrai: centottanta metri quadrati di parquet e due tappeti persiani; Agata era passata per le pulizie: la casa era un brillante. Accesi lo stereo, adagiai su un braccio l’accappatoio, raggruppai i capelli e m’infilai sotto la doccia, lasciando che l’acqua scrosciasse, mi toccasse, scivolasse e fuggisse via come la persona che aveva avuto di me… che cosa? Un assaggio, uno scatto, un soffio. Con gesto meccanico, presi lo spazzolino, sprimacciai ben bene il tubetto del dentifricio e iniziai ad agitare le setole convulsamente tra canini e molari, con suono ritmato ed energico. Spensi lo stereo, sollevai le coperte e m’intrufolai tra le lenzuola inamidate.

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