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ISBN 978 - 88 - 97057 - 53 - 6
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DANIELE AZZOLINI
I ragazzi di prima classe
La storia dei tennisti sopravvissuti al disastro del Titanic
ABSOLUTELY FREE EDITORE
Ai miei genitori Anna e Edo Ai miei nonni Giulio, Vonitza, Emma La migliore navigazione, nella vita, nasce dal rispetto per gli altri. È ciò che mi hanno insegnato, e li ringrazierò sempre per questo
La prima classe costa mille lire, la seconda cento, la terza dolore e spavento. E puzza di sudore dal boccaporto e odore di mare morto. “Titanic”, 1982, Francesco De Gregori
prologo
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Il primo ricordo era colorato di rosso. Due sfere, e più lontano altre due, o forse di più. Bagliori ardenti nell’immensità liquida e fredda di un mare nerissimo, lanterne nel buio opaco di un ghiaccio eterno. Ricordava il colore, non quante fossero. Gli erano parse incerte, sospese, a volte sfocate, ma poi prendevano forma e si avvicinavano, sempre più rosse e inquiete. C’era un suono che si legava all’apparire e scomparire delle sfere. Ricordava anche quello. Una colonna sonora di sospiri e lamenti, di affanni, di mugolii, d’invocazioni espresse in ansimi. Dietro, più lontano, come su un altro pentagramma, il clangore sinistro del metallo. E sibili, maledizioni, schiocchi di corde spezzate, urla improvvise che si rincorrevano e chiamavano altre urla, altri lamenti, altre maledizioni. Suoni che gli giungevano spezzati, franti, 7
quasi procedessero su partiture distinte, provocati da strumenti fra loro in disaccordo, che casualmente si riunissero in ondate frastornanti. Ancora rosso… Forse dei fuochi. Quanto lontani non avrebbe saputo dire. La luce ghiacciata della luna li avvolgeva contenendoli. Li guardò di sbieco, attonito, come appartenessero a un’altra realtà. Era stanco. Aveva poggiato la testa bagnata sulla spalla, anche di questo era certo. Ma non avvertiva sensazioni, quasi il suo corpo si fosse estraniato, e non avesse più intenzione di far parte di lui, della sua vita. Sapeva solo che la testa era lì, poggiata su una spalla che non sentiva più di avere, ma che doveva esserci, anch’essa, con tutto il resto. Le mani. Eccole! Erano davanti ai suoi occhi, le vedeva, e stringevano qualcosa, anche loro indipendenti dalla sua volontà. Mani incapaci di arrendersi, di abbandonare ciò cui si erano avvinghiate. Le fissava, e ricordò di aver sorriso, partecipe di quello sforzo. La sua vita era nelle sue mani, e almeno loro lo rincuoravano, sembrava sapessero che cosa fare. Da quante ore era in acqua? Forse due, forse tre. Ma anche di più, un’infinità di ore. E come era arrivato lì, fra quelle sfere rosse, fra quelle facce livide di persone sconosciute che galleggiavano intorno a lui, inerti e silenziose sulla superficie appena crespa di un mare infinito, e sbattevano fra loro senza sussulti, rimbalzando docilmente al contatto e procedendo poi verso altre derive a stabilire nuovi, momentanei legami, quasi si stessero salutando un’ultima volta. Occhi vitrei, inespressivi, sbarrati, quasi la fine li avessi voluti in posa per l’ultima istantanea. Occhi rivolti verso una luna grande come non l’aveva mai vista.
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Sapeva che cosa era successo. Aveva visto l’enorme scafo, prima ripiegato sul lato destro, innalzare d’improvviso i fianchi in un ultimo anelito di vita, l’estrema ribellione a quella fine inconcepibile. L’aveva visto rompersi in due e mostrare osceno alla luna i lombi d’acciaio scoperti e indifesi, l’elica poderosa al centro, le altre più piccole poco discoste, per poi desistere in quello sforzo inutile e lasciarsi andare, ormai vinto, e scivolare veloce e dritto nell’acqua nera emettendo un ultimo rantolo, come un sospiro straziante e prolungato. L’ultima preghiera prima di scomparire. Aveva visto, ma non ricordava bene perché non fosse più su quella nave, lui come i tanti che erano precipitati dalle fiancate, rimbalzando sulle lamiere, fino a schiantarsi nell’acqua come pacchi sgangherati, lanciati dal più alto dei palazzi. Gli era parso che l’acqua d’improvviso si fosse materializzata e lo avesse portato via. Un’enorme mano liquida lo aveva strappato alla nave e a suo padre, spingendolo lontano, nel gelo. Gli sembrava… Forse era così. Anche lui era caduto. E l’impatto con l’acqua gelida gli aveva mozzato il fiato. Si era liberato scalciando della pelliccia che forse aveva attutito il colpo, ma poi aveva cercato di trascinarlo sotto, ed era rimasto in acqua nella più stupida delle tenute, in smoking e farfallino bianco, le scarpe nere e lucide. Adesso era lì, testimone di quegli ultimi istanti della tragedia, e non ricordava da quanto, né come vi fosse giunto, immerso in una coltre bagnata che lo stava serrando, e alla quale avrebbe volentieri ceduto, annullandosi nel torpore che stava prendendo possesso del suo corpo, e ora, forse, anche dei suoi pensieri. Sarebbe morto anch’esso? Non ci pensava. Non era 9
il momento. Alla morte si pensa quando è lontana, non quando ti sta lentamente avvolgendo di ghiaccio e di paura. Si sentiva solo. Dov’erano l’amico Charles Eugene, l’irresistibile Alfred, l’entusiasta John Jacob, gli altri amici? Dov’era suo padre Duane? Temeva di saperlo. E non fosse stato per quelle sue mani ribelli, risolute, ancora partecipi della vita, avvinghiate a una speranza che lui ormai non condivideva… Non fosse stato per loro, anche lui si sarebbe lasciato andare. Ricordava… Alla sparizione dell’enorme scafo nelle viscere di quel mondo liquido e nero, seguita da un gorgo forsennato che aveva risucchiato tutto ciò che di vitale ancora si dibatteva nei pressi, era subentrata una calma silenziosa, quasi gli uomini, il mondo intero, le stesse divinità del mare, avessero bisogno di tempo per prendere atto e contemplare l’immensità del disastro. Erano trascorsi lunghi minuti prima che le voci dei vivi prendessero a chiamare i nomi dei dispersi. Poi anche quel drammatico, piangente appello era svanito, sostituito dai lamenti, dalle maledizioni, dai lontani schiocchi metallici dei rivestimenti che cozzavano fra loro. La grande nave si era come svuotata, prima di intraprendere l’ultimo tratto del suo breve viaggio. E ora quegli arredi, quei tavoli e quelle poltrone, si erano uniti ai vivi e ai morti, alle poche barche di salvataggio che non erano riuscite a prendere il largo, nel lento rondò che sigillava l’atto finale della tragedia. L’ultimo ricordo era colorato di rosso. Fu quando quelle sue stesse mani coraggiose stavano per cedere e decretare la fine. Le sfere rosse erano sparite, il lento procedere dei corpi in cerca di altri corpi si era esaurito, molti si erano inabissati scegliendo di segui10
re la nave cui avevano legato la parte ultima della loro vita. Lui era rimasto aggrappato alle sue mani, e le sue mani avvinghiate a un sostegno. Era giusto sottrarsi al proprio destino? Era logico tentare di restare in vita? Fu allora che qualcosa lo toccò, su un fianco. Una prima volta, e poi una seconda, con più forza. Avvertì anche una pressione sulle scapole, quasi sul collo, come di un bastone. Sollevò la testa, forse si lamentò di quel fastidio che veniva a infrangere il suo torpore. Udì delle voci. Aprì gli occhi e vide la linea rossa di un’imbarcazione che incombeva su di lui. Si girò, come a negarsi a quell’improvviso disturbo. Che lo lasciassero in pace… Poi si sentì scuotere, strattonare, afferrare, sollevare. Due mani lo stavano colpendo sulle guance. Aprì gli occhi, e lo sforzo fu feroce. Il volto di un uomo gli stava dicendo qualcosa. Aveva modi bruschi, due occhi giovani e la barba rossa.
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capitolo 1 15 aprile 1922, 11,00 a.m. North Wings Newport Casino, sala del bovindo
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«Lei non è qui per parlare di tennis, vero?» Il volto oblungo del giovane che gli sedeva di fronte, sulla poltrona in pelle rossa nella sala più spaziosa dell’ala nord del Newport Casino, rischiarata dalla luce di un elegante bovindo in legno laccato di verde aggettante sul campo centrale del Club, ebbe finalmente un sussulto, abbandonando l’espressione appesa che aveva tenuto fin lì. La risposta, prima che dal cenno di diniego giunto con un breve ondeggiare della testa, aveva preso forma negli occhi del giovane, appena stretti a modulare un’espressione che, con l’aiuto di qualche sapiente grinza formatasi ai lati, era riuscita a esprimere, insieme, comprensione per la sua vicenda, scuse per l’irruzione nella sua vita e richiesta di ascolto. No, non era lì per parlare di tennis. Non solo di quello.
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Richard Norris Williams, pantaloni bianchi decisamente ampi sul fisico asciutto e slanciato, il golf abbottonato fino al collo e le scarpe con una lieve ombratura di verde sulla punta, ricordo dell’ultimo training sul campo d’erba, poggiò sul tavolino le Spalding sbrecciate dai molti match, fece scivolare sulla spalla l’asciugamano con le insegne del Club, che aveva annodato al collo, e scelse una delle eleganti sedie Thonet con i braccioli ripiegati a ricciolo, poggiate sui lati della sala. Sorrise anch’esso in direzione del giovane giornalista che gli sedeva di fronte, dando così il suo assenso al colloquio. «Sì, me l’aspettavo», disse Williams. «E allora, via, andiamo avanti… Sta a lei condurmi sulla strada dei ricordi. Prima, però, mi tolga una curiosità. Quanti anni aveva, lei, all’epoca della tragedia?» Il giovane non cambiò espressione. Aveva una voce calma, più matura della sua età. Si portò la mano ai baffetti, appena accennati, quasi ad assicurarsi che fossero ancora lì. «Diciassette», fu la risposta. Williams accennò a un sì, con la testa. Si aspettava anche quello. Stava per dirlo, ma il giovane lo precedette: «Avrebbe preferito un giornalista più anziano, vero? Uno che avesse seguito quei fatti già in forma professionale. Non un ragazzetto che dieci anni fa non sapeva ancora che cosa avrebbe fatto nella vita». Ancora un sorriso. «Non le nego che il pensiero mi abbia sfiorato. Ma va bene lo stesso, mi creda». «Vede, mister Williams. Ritengo mi abbiano scelto perché mi chiamo Bochet Martinet, Humberto... Già, con la H davanti. Un tantino pomposo, le pare? Mio padre, Pietro Giuseppe, era su quella nave, un semplice cameriere italiano, veniva da un piccolo paese di montagna, quasi al confine con la Francia, Saint 14
Pierre. Di lui mi è rimasta una foto, aveva due baffi all’insù, la barba a punta su un volto largo. Sorrideva. Forse vi siete visti, o solo sfiorati, magari avete parlato per un attimo, lui lavorava in uno dei ristoranti di prima classe, “À la carte” l’avevano chiamato, ma certo lei non potrà ricordare... Forse il ristorante, non credo mio padre. Però, anch’io ho vissuto quella tragedia. In forme diverse da lei, ma non meno dolorose». Richard ne prese atto, senza stupirsene. Conosceva quei momenti, quelle situazioni, quel continuo palesarsi dal nulla del disastro che dieci anni prima aveva cambiato la vita di così tante persone. Si era convinto lui stesso che quella tragedia fosse in possesso di una vita propria, capace di mostrarsi in forme sempre rinnovate, di pretendere attenzioni, di ordire trame e intrighi, di avvicinare uomini e accostare pensieri. Le attribuiva un’anima, e se stava attento a non dichiararlo apertamente, per non essere preso per pazzo, gli capitava di parlarne in modo esplicito con chiunque fosse stato toccato, o soltanto sfiorato da quel dramma. Come lui, anche loro ne erano al corrente, e riconoscevano alla tragedia una presenza fisica, palpabile. Al punto da parlarne quasi fosse una persona. «Ne sono sicuro, Humberto… Posso chiamarla così? No, non ricordo suo padre. Ma quel disastro ci fa sentire tutti uniti, come se ci fossimo sempre conosciuti. Penso lei lo sappia». «Già. Ha finito per cementare amicizie che altrimenti non avrebbero mai preso forma», proseguì il giovane, quasi conoscesse a memoria quella formula di riconoscimento. «Ha legato persone lontane per cultura e censo».
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Richard assentì, poi volse lo sguardo alle finestre del bovindo, dalle quali proveniva il rumore serrato di un incontro di tennis. Aveva visto il conte Dodge entrare in campo, come sempre arcigno, come sempre sopra le righe, e certo si stava facendo in quattro per vincere, non ammettendo di poter soccombere con nessuno. Ne sentiva i grugniti trafelati. Tornò con lo sguardo al giovane giornalista che nel mentre si era alzato per accostarsi a un quadro a olio sulla parete vicina che rappresentava Richard Dudley Sears, primo vincitore dei National Championships, giacca a righe verticali bianche e nere, cappello a pendant, e un paio di occhiali scuri a infrangere quella studiata uniformità. Il primo di tredici ritratti che arredavano la stanza illustrando la storia del torneo che aveva preso il via sui campi di Newport nel 1881, quarant’anni prima e che dal 1915 si era trasferito al West Side di Forest Hills, New York. «Appena tredici…», disse quasi sovrappensiero, ma con evidente ammirazione, il giovane giornalista, riflettendo su quanti pochi vincitori abbia avuto il torneo nei primi quarant’anni di vita e sfilando con passo lento davanti ai ritratti di Henry Slocum e di Oliver Campbell, di Robert Wrenn e di Malcolm Whitman. Alcuni di loro, divini sportivi in carne e ossa, frequentavano ancora quei campi, icone di uno sport che in breve aveva attratto attenzioni più ampie di quante potessero concedergli le discendenze regali degli avi britannici, e le iniziali attenzioni che nel Nuovo Mondo gli avevano assicurato le classi più agiate. Oggi, il tennis era lo sport della nuova borghesia, ricca, motivata, rapace. Forse, pensò Humberto, quello sport non sarebbe mai diventato popolare. Ma rappresentava un traguardo, ormai, un obiettivo. Chi dal nulla si fosse potuto permettere un’ora di svago su quei campi, di 16
fianco a uomini potenti per nascita, aveva di certo fatto fortuna nella vita. L’ultimo ritratto, a chiudere la galleria di eroi con la racchetta, mostrava il signore che gli stava di fronte. “Richard “Dick” Norris Williams II, 1914”, illustrava la targhetta in ottone. Si guardarono sorridendo, e Richard alzò le spalle, quasi imbarazzato. «Già, quello dovrei essere io»… Ma subito tornò all’oggetto dell’incontro. Non era uomo da concedersi divagazioni eccessive, mister Richard. Humberto, nei giorni precedenti l’incontro, lo aveva immaginato proprio così. «Ne è nata una comunità, da quella tragedia», riprese Williams, «di cui anche lei fa parte, che lo voglia o no. Una comunità che ha in dote l’esperienza di una sola notte, le ore più tragiche che si possano immaginare. Noi siamo i Reduci, e i nostri ricordi vanno sempre lì, a che cosa accadde, e a chi non ce la fece, a come ci salvammo. E perché noi sì e altri, come suo padre, no. Vede, io in questi anni ho ritrovato la forza di viaggiare, sono tornato per mare, e in Europa, ho preso parte a una guerra che ha portato morti e distruzione ovunque. Ma niente mi è rimasto addosso come quella notte di dieci anni fa. Noi, caro Humberto, siamo speciali. Noi siamo e resteremo per sempre quelli del Titanic…».
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