Quaderni di Critica Sociale

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Mediavisioni Comunicazione tra produzione ed ideologia


e l a i r o t i Ed

Con questo numero ha inizio il nuovo corso del collettivo “Epimeteo”, un collettivo che nacque ormai tre anni fa , con l’intento ambizioso di unire in un progetto di critica sociale e di ridiscussione del dogma solo parzialmente superato delle anguste categorie marxiste, un gruppo di giovani e meno giovani delusi da svariate esperienze di impegno politico e sociale. Ora, dopo alterne vicende e incidenti di percorso più o meno gravi, ripartiamo, con un progetto che, sempre portato avanti dal collettivo che prende il nome dall’anti-eroe greco, muta il nome della rivista cartacea che ne caratterizza la produzione, in : quaderni di critica sociale. La scelta non è certo casuale, ma ben esplicativa di quello che ci proponiamo con il nostro lavoro, vale a dire una analisi di alcuni dei macro-ambiti che interessano il nostro presente, tramite studio e soprattutto tramite un continuo confronto, che caratterizza una grande parte degli incontri della redazione. Il tema di questo primo numero, del nostro nuovo percorso, è la comunicazione e l’impatto che le sua forma odierna ha sulle tendenze sociali, sui comportamenti umani, sulla gestione della relazione,sulla produzione dell’ideologia, sulla divulgazione dell’informazione, sulla gestione dei saperi etc. L’importanza di una analisi, quanto più esauriente possibile del tema suddetto è per noi quindi obiettivo fondamentale, poiché dietro l’ auspicata esauribilità dell’argomento c’è la convinzione profonda di muovere un necessario primo passo verso l’approccio a temi anche più specifici di questo in analisi. Di fatti siamo convinti che una pure frammentata coscienza del meccanismo sottile che si è instaurato tra individui , e tra individui e mondo, nell’era della comunicazione di massa, sia per chi si occupa di critica sociale una sorta di organon, di metodo propedeutico a tutto quello che in futuro proveremo a raccontare tramite i nostri occhi critici, e speriamo mai superficiali, dogmatici o ideologisti. Per dimostrare la propedeuticità di un corretto discorso sulla comunicazione, a ogni altro aspetto del nostro sfuggente presente, troverete in questo numero, ed in particolare all’interno del primo piano, alcuni contributi che mettono in evidenza la percezione di grandi problematiche odierne (l’immigrazione , la crisi economica etc) tramite i mezzi di produzione di ideologia, ossia i mezzi di comunicazione più che di massa, massificanti . Si rende così esplicita la scissione che troppo spesso si viene ad interporre tra la vera sostanza del problema globale e il modo in cui esso viene volutamente posto ai fruitori dei mass media, fruitori diretti, nel caso di tutta la popolazione occidentali, e spesso indiretti, nel caso degli abitanti delle zone povere e poverissime del sud de mondo. E’ certo vero che il nostro fermo criticare le palesi dinamiche omologanti del sistema , tramite la sua forma educativa più esplicita che è la comunicazione, non ci rende personalmente avulsi da tali dinamiche, non ci rende meno permeati di queste di tutti coloro che subiscono il bombardamento di televisione, internet etc, durante una parte oramai maggioritaria degli istanti della propria esistenza. Quello che leggerete non ha nessuna pretesa di oggettivazione del punto di vista, ma esprime la semplice volontà di proposta di imput di discussione, di contributi e di condivisione di intuizioni più o meno ingenue. Non ci interessa il citazionismo . Non abbiamo alcuna volontà di coprire i fenomeni con vestiti obsoleti o inevitabilmente troppo stretti. La prospettive teorico politiche da cui parte ognuno di noi, che sono inevitabilmente la cassetta degli attrezzi di chi si occupa di teoria e critica sociale,sono differenti, eterogenee, e assolutamente non sintetizzabili. Questo accade semplicemente perché consideriamo la varietà delle posizioni spunti di ricchezze e non individuiamo in alcun luogo eresie da mettere al rogo o voci che devono restare inascoltate. Noi crediamo nella bellezza della discussione aporetica, nel dialogo platonico e non della dialettica bipolare, crediamo nella libertà della libertà di pensiero, crediamo pure nella spregiudicatezza e nell’errore. Crediamo nell’erranza e non nella meta compiuta. Crediamo che se si è in tanti è meglio e non è certo un pericolo per la linearità delle prospettive. Per tutto questo il collettivo Epimeteo attende e auspica profondamente di scuotere e muovere altre penne , di scatenare dibattito e controversie, alle quali daremo spazio e sempre attenzione. Buona lettura

Collettivo Epimeteo


di Rosario Carpentieri

La comunicazione tra sapere ed esclusione di Maria Palumbo

Comunicazione, Tecnica e Spazi Pubblici di Leandro Sgueglia

Fine del Segreto, fine della Privacy di Enrico Voccia

La comunicazione della Crisi di Enrico Voccia

Indice

Derealizzazioni comunicative

p.4 p.7

p.10 p.14 p.16

Pubblicità tipizzazione e controllo dell’individualità

p.19

Blogosfera e Social Network

p.22

Autore e varianti testuali tra il Medioevo e l’era del Web

p.24

Quando uno spazio liberato diventa non-luogo

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Immigrazione e comunicazione: un’emergenza inventata

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di Eleonora De Majo di Giuseppe D’Elia

di Rosaria Dell’Aversana di Eleonora De Majo

di Rosario Carpentieri

ne

Quaderni di Critica Sociale Sup. di Effe, la voce del forum Reg 01/08 del 24/01/08

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Acroria Edizioni Antonio Pellegrino - Direttore Editoriale Francesco Gravetti - Direttore Responsabile A cura di “Collettivo Epimeteo, studi osservazione e crittica sociale”: Leandro Sgueglia, Eleonora De Majo, Emma Campili, Rosario Carpentieri, Enrico Voccia, Maria Palumbo, Romolo Borrelli, Federico Simonetti, Silvana Giannotti , Rosario Nasti. con la collaborazione di: Giuseppe D’Elia, Rosaria Dell’Aversana.

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Derealizzazioni comunicative

Primo Piano

Chi non ha mai amato i giochi linguistici e concettuali del “postmodernismo”, avendoli, anzi, trovati anche poco onesti intellettualmente per quella pretesa, il più delle volte colpevole ed omissiva, di voler ad ogni costo celebrare funerali in allegria di fronte alla fine di qualcosa: delle grandi narrazioni, dell’ordine di senso, del senso stesso - e le metafore sull’argomento abbondano -, accreditando l’idea che un mondo ridotto ad una ornamentale impotenza possa risultare più desiderabile di ogni tentativo di comprensione, non si sentirà di certo truffato dall’ipotesi che qualsiasi ragionamento sulla comunicazione che non voglia girare a vuoto e che neppure intenda mettere capo al banale buon senso, debba preliminarmente misurarsi con lo spazio entro il quale le attuali pratiche comunicative sono giocate e le logiche che le sostengono e ne disciplinano lo statuto. Da questo versante ogni distinzione tra comunicazione “in presenza” e comunicazione “mediante media”, attribuendo alle prime qualità non riscontrabili nelle seconde, risulterebbe poco efficace, non certo per un deterioramento delle pratiche comunicative, argomento questo che coglierebbe soltanto un effetto di superficie, bensì perché neppure alla comunicazione è concesso il beneficio di sfuggire alla condizione che caratterizza la nostra contemporaneità e che l’antropologia del quotidiano ha portato allo scoperto attraverso le tre figure dell’eccesso: eccesso di tempo; eccesso di spazio, individualizzazione dei riferimenti. Declinandole a suo modo e secondo la logica che le è propria, la comunicazione risulta sempre meno vincolata al tessuto di pratiche che dovrebbero definire il suo chiaro statuto. Una tale divaricazione, che sulle prime suona innaturale e quanto mai paradossale, tra comunicazione e pratiche comunicative, quasi che tra le due non debba più esser-

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vi quell’immediata relazione che i termini pure tradiscono, va ascritta alla possibilità di considerare la comunicazione come un sistema rispetto al quale le stesse pratiche comunicative altro non sono che prestazioni finalizzate alla sua autoriproduzione. Fin qui nulla di eccezionale: figlia del proprio tempo, la comunicazione risente interamente gli effetti dello strano tempo nel quale viviamo. Tuttavia, dietro tanta innocenza, l’eccezionale c’è, almeno per chi ha l’onestà di volerlo vedere. Supporre che le pratiche comunicative possano essere ridotte a prestazioni è un’operazione che produce almeno una doppia perversione: a) l’impossibilità di far emergere l’immediato comunicativo nella sua immediatezza, venendo interamente coperto da metafore dal respiro corto ed in caduta libera; b) se le pratiche comunicative hanno un qualche riferimento con i nessi relazionali che le sostengono, ridotta a prestazione, la comunicazione può svolgersi unicamente in loro assenza. Questo doppio esito è a sua volta indagabile da due opposte prospettive, dal lato del sistema comunicativo e da quello della prestazione comunicativa, ma è rilevante che seguendole entrambe gli esiti risultino strutturalmente difformi, con esiti operativi assai diversi se non opposti. Dalla prospettiva del “sistema comunicativo” quella doppia perversione non sembra costituire un problema: in fondo, che l’immediato comunicativo non debba apportare contributi di rilievo alla sua riproduzione appare del tutto coerente alla ritraduzione delle pratiche comunicative in prestazioni. Al sistema comunicativo importa unicamente che non si inceppino i processi di selezione specifica tra differenti livelli di comunicazione, cosa che porta ad un crescente sviluppo di forme di comunicazione non linguistica che, entro una certa misura, garantiscono la trasmissione di prestazioni selettive.


Complementari al linguaggio, queste forme di comunicazione svolgono la funzione primaria di motivare, suggerendo l’accettazione delle prestazioni selettive, rendendole in tal modo prevedibili. Sarebbe impresa vana sperare di trovare sotto la gran massa di forme di comunicazione non linguistica un immediato comunicativo: la prevedibilità non può che procedere attraverso la ricorsività e la semplificazione dei codici che, ridotti all’essenziale, si trasformano in facili metafore dalle quali, per un verso, tutti possono ricavare una rassicurante immagine della propria condizione, ma che, per altro verso, costituiscono quelle condizioni semplificate che garantiscono la forma più adeguata di selezione delle prestazioni comunicative. A questa semplificazione fa da contrappunto l’estrema formalizzazione di ogni nesso relazionale, realizzando l’estremo paradosso di un sistema che comunica con se stesso attraverso l’intera rete delle prestazioni comunicative. Questo, ovviamente, non comporta la scomparsa di livelli di “rumore”; anzi, il fatto che, ai suoi margini, se ne possa riprodurre, diventa addirittura necessario per la sua esistenza, il sistema comunicativo non avendo altro fine che quello di ridurre, per quel che gli compete, i gradi di complessità del sistema sociale. Ridotta a sistema, la comunicazione mostra un’inquietante onestà: non promette, non inganna, non produce aspettative, non illude, tuttavia... Tuttavia dalla prospettiva di ciò che è assente e deve restare assente le cose si presentano altrimenti. Intanto due semplici considerazioni ci avvertono che quella onestà ci presenta un conto assai alto: a) la comunicazione linguistica viene catturata da quella non linguistica e livellata, facendo così scomparire ogni netta distinzione tra gli strumenti e la comunicazione vera e propria; b) la comunicazione in quanto sistema conosce soltanto luoghi del transito comunicativo, incroci dove la comunicazione trascorre senza favorire alcun incontro. Non si tratta di fenomeni tra loro separati ed ognuno risponde a suo modo alla logica dell’altro ed entrambi alla logica della misurabilità-numerabilità secondo precisi criteri di entrata e di uscita

dal sistema comunicativo. Se perciò consideriamo la comunicazione come un dispositivo nel quale la prestazione comunicativa diventa un elemento essenziale per la riproduzione autoreferenziale del sistema, tutto ciò che entra al suo interno non può e non deve essere considerato come la conseguenza di un effettivo bisogno comunicativo: una prestazione non nasce da un bisogno e può essere presa in considerazione unicamente come un picco che frammezza due gradi-zero o, detta diversamente, la prestazione comunicativa è soltanto una momentanea interruzione tra due assenze di comunicazione. Dal lato del sistema comunicativo l’intera sequenza costituisce lo stato normale del suo funzionamento, ma le cose stanno ben altrimenti dal lato di chi invece è sollecitato ad investire emotivamente nella prestazione comunicativa, perché quei due gradi-zero di comunicazione rappresentano unicamente la trasduzione retorica da parte del sistema di una solitudine reale, e perciò all’eccesso comunicativo corrisponde un eccesso di solitudine che il sistema stesso deve ritrattare attraverso una sua derealizzazione. Inserita nel gioco della comunicazione totale, la solitudine si aliena in attesa, disponibilità a prestarsi come nodo nel gioco di sostituzione e scomparsa del reale, almeno per quel tratto per il quale l’inserimento in una rete virtualmente illimitata di comunicazione corrode ogni tratto reale del gioco comunicativo. Reale resta soltanto la solitudine a monte e a valle della prestazione comunicativa e che il sistema stesso non rileva in quanto tale, neppure come rumore ai suoi margini estremi. Sistema comunicativo e solitudine parlano lingue differenti. Sembrano fatti per non intendersi. Rispondono a sintassi tra loro incommensurabili. D’altra parte nella sua autoreferianzilità il sistema comunicativo non può escludere in linea di principio e di fatto che quella solitudine osservabile unicamente al suo esterno attraversi anche il suo interno sotto le mentite spoglie della prestazione comunicativa, il che significa che la sua potenza di diritto (il suo potere selettivo) si traduce in una impotenza di fatto, laddove non può ridurre a gioco la

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stessa solitudine, lasciando così prospettare una complessiva inversione dei ruoli: la virtualizzazione del reale attraverso la comunicazione necessita di un nucleo duro di realtà non virtualizzabile, pena lo stesso svuotamento prestazionale del sistema comunicativo ed il suo collasso. Ma la solitudine presa in se stessa ha il suo inferno, le sue logiche, le sue dinamiche ed il suo linguaggio. L’implosione del suo universo trasuda bisogno comunicativo estraneo alle prevedibili attese di prestazioni già codificate o in via di codifica, una estraneità che si traduce in un preciso limite della comunicazione ridotta a prestazione: questa non derealizza troppo, ma troppo poco, visto che non riesce a derealizzare se stessa. La macchina virtuale della comunicazione è, dunque, una macchina zoppa, resa tale dai suoi stessi elementi costitutivi. Certo, è possibile obiettare se qui non si stia eccessivamente sopravvalutando il ruolo della solitudine, che, in fin dei conti, resta uno stato d’animo interamente confinato nei limiti dell’individuo. Il punto tuttavia è che la solitudine è un luogo sociale - si è

soli, ci si sente soli soltanto in uno spazio dove la presenza dell’altro è un necessario elemento di raffronto -, non è perciò un’esagerazione affermare che, mediante la solitudine, il luogo sociale riscrive il sistema comunicativa, spingendolo a quella soglia limite di derealizzazione della derealizzazione, dove dietro la maschera prestazionale fanno nuovamente la loro comparsa le concrete pratiche comunicative, le dinamiche relazionali che le sostengono, i processi di riproduzione sociale che attivano. Dopo i sogni, le illusioni e gli incubi del virtuale forzato; dopo la scarsa attenzione posta ai processi selettivi della comunicazione, accolti come un dato di fatto da accettare con dovuta indifferenza e naturalezza, nel cuore di tutte le perversioni della comunicazione totale scopriamo che l’uomo è ancora affamato di comunicazione come dell’aria che respira. Gli si dia la parola, gli si dia un volto, gli si dia uno sguardo indisponibile a sollecitare il voyerismo comunicativo, perché se ha un senso parlare di comunicazione è necessario che le pratiche comunicative non abbiano ad interrompersi.

di Rosario Carpentieri

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La comunicazione

tra sapere ed esclusione Primo Piano

“Quale civiltà, in apparenza, ha avuto, più della nostra, rispetto per il discorso?” si domanda provocatoriamente Michel Foucault ne L’ordine del discorso (p. 38). Effettivamente l’ipertrofia tecnologica ha definitivamente invaso la sfera della comunicazione: circola un’impressionante mole di parole, e questo produce la percezione distorta di essere costantemente informati ed a contatto col mondo. Il Potere ha invaso con dispiego incredibile di forze il terreno della comunicazione, perché costruire negli individui la falsa rappresentazione di un sé libero, autonomo nel giudizio, padrone delle proprie scelte e, soprattutto, informato è molto meno oneroso e più efficace che usare l’arma della repressione. Ciò si è potuto verificare, in ogni caso, solo nel momento in cui lo spazio della comunicazione è stato reso vuoto, privo di tessuto connettivo, di contenuti, di soggetti, concedendo al sistema di monopolizzare la sfera del vissuto e della relazione. Nel Simposio Platone, portando ad esempio il caso dei tirannicidi Armodio ed Aristogitone, spiega che i regimi dispotici temono le solide relazioni empatiche, in quanto esse costituiscono il nucleo fondante della resistenza al potere. Certamente Platone alludeva al legame tra maschi, l’unico che, a suo avviso, poteva vantare come elemento precipuo e caratterizzante la razionalità “forte”; in ogni modo è pur vero che minare alla radice ogni possibilità di aggregazione è scopo, nemmeno troppo latente, del Potere ormai in abito “egualitario”

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e democratico. Gli strumenti del controllo sociale mirano a favorire la dispersione e la conflittualità: i rapporti interpersonali sono comunque riconosciuti solo all’interno del legame istituzionale. Fuori di esso non vi è alcuna forma di legittimazione: basti pensare alle battaglie per il riconoscimento giuridico delle unioni di fatto, che sottende comunque il principio per cui una relazione è formalmente significativa solo se calata in uno schema giuridicamente valido; in pratica il potere stabilisce quali rapporti interpersonali siano significativi e quali no. Dai falsi salotti televisivi alle chat a Facebook il linguaggio della relazione prescinde ormai radicalmente dall’elemento corporeo, dalla metacomunicazione legata alla presenza, decontestualizzando i soggetti, scardinandoli dal loro vissuto ed inducendoli a presentare di sé spesso un’immagine fittizia o virtuale. La nuova comunicazione di massa in tutte le sue forme indossa gli abiti seducenti del linguaggio immediato, diretto, semplice, urlato, privo di connettivi logici, essenziale – in altri termini primitivo e sfrondato di ogni complessità. Ridotto ai suoi elementi primari e sconnesso nella sintassi, il discorso appare solo esteriormente di immediata fruizione, vuol far credere di giungere al cuore dei problemi senza quei fastidiosi fronzoli ed orpelli a cui un certo linguaggio “alto” ci ha abituati, ma in realtà non trasmette alcun messaggio, tende piuttosto a confondere le idee in una ridda di opinioni più o meno prive di spessore argomentativo. La grande forma di “egualitarismo” mediatico inventata dal Potere è questa: l’aver posto apparentemente tutti sullo stesso piano mediante l’uso di codici comunicativi poveri, elementari, ma per questo assolutamente fruibili. Sfugge tuttavia più o meno consapevolmente allo stanco teledipendente o frequentatore abituale di Facebook che attraverso l’immediatezza del linguaggio si comunica il puro nulla, in altri termini: si finge di parlare senza stabilire alcuna forma di relazione. Il dialogo prevede infatti, come fondamentale prerequisito, la giusta distanza, lo spazio vuoto del suffisso “dia”, che indica, appunto, l’atto dell’attraversare. Nell’andare

verso l’altro si getta idealmente un ponte che però non si percorre mai completamente, pena l’annullamento di quel vuoto indispensabile a vedere l’altro come altro e non come una nostra proiezione. Per citare ancora una volta il Simposio, nel mito degli androgini si narra come la genesi dell’amore si situi in un taglio, in una cesura incolmabile. Se si elimina quel taglio e, soprattutto, la visione della cicatrice, la relazione diventa impossibile. Scardinato il tessuto connettivo della relazione interpersonale, non vi è più alcun bisogno di essere solidali con l’altro perché, in una società di uomini “liberi” ed omologati, l’altro può essere solo il diverso e, quindi, il corpo estraneo, la minaccia per la comunità. Viceversa, il meccanismo indotto è quello del rispecchiamento reciproco, che annulla definitivamente la distanza necessaria a percepire la differenza. La spettacolarizzazione del privato, la metafora della “piazza”, così ricorrente nel linguaggio televisivo, ci abitua a dimenticare quanto sia faticoso percorrere in ogni direzione quello spazio che ci separa dall’altro. Appiattite le differenze, si avverte la rassicurante sensazione di essere tutti squallidamente omologati, niente da dimostrare né da rimproverarci a vicenda. Tutti hanno ragione perché si urla insieme e lo spazio della comunicazione è sovrastato dallo strepito di parole senza senso. Il Potere ha dunque costruito ad arte un linguaggio che ha il grande pregio di essere straordinariamente “includente”. Torniamo per un attimo a Foucault: “La dottrina lega gli individui a certi tipi di enunciazione per legare gli individui tra di loro e differenziarli, per ciò stesso, da tutti gli altri” (Op. cit. p. 34). Ma qual è questa dottrina? Il Potere ha finora utilizzato l’arma dei saperi per consolidare il controllo sui corpi e sulle menti, il passo successivo consiste nel persuadere che si può perfino fare a meno della dottrina, di per sé escludente e destinata agli addetti ai lavori. Si costruisce, così, un contenitore assolutamente vuoto, in cui ognuno proietta ciò che vuole e si sente tuttavia parte integrante di una comunità inesistente. Ciò assume un’inquietante gravità se si leggono in tal senso le scelte


politiche relative alla scuola: la cultura è un bene inutile, non spendibile, non mercificabile, a meno che non si vada nella direzione di un altissimo livello di specializzazione che non può né deve, per forza di cose, essere accessibile a tutti. Trasformando la fruizione del sapere in un processo per addetti ai lavori, ma soprattutto instillando la convinzione che un eccesso di complessità e di specializzazione sia inutile (vedi il proliferare di sedicenti esperti che hanno il compito di fungere da tramite tra il sapere specialistico ed il telespettatore medio) si è definitivamente realizzato il meccanismo di esclusione descritto da Foucault: si è in relazione con gli altri nella misura in cui si condividono una serie di enunciati fondamentali: “si pensi al segreto tecnico o scientifico, si pensi alle forme di diffusione e circolazione del discorso medico; si pensi a coloro che si sono appropriati del discorso economico o politico” (Op. Cit., p. 33). Lo spazio vuoto nel processo della comunicazione è stato, pertanto generato dai

seguenti fattori: la delega agli specialisti settoriali di determinati saperi presentati come incomprensibili, nella loro essenza, al cittadino medio; cesura tra il linguaggio dei saperi ed il linguaggio mediatico, suadente perché includente e, pertanto, rassicurante; superamento del complesso di inferiorità delle classi medie le quali, pur sentendosi escluse dal controllo degli strumenti culturali, sono indotte a ritenere questi ultimi puro esercizio retorico, ormai abituate a fruire di concetti polverizzati e decontestualizzati; enunciazioni prive di struttura argomentativa e quant’altro; distruzione progressiva delle precondizioni necessarie all’instaurarsi di relazioni interpersonali significative. In questo contesto, diventa sovversiva, da un lato, la cultura e la sua diffusione non escludente, dall’altro, la relazione interpersonale: fondere i due elementi deve essere il compito per la creazione di un futuro altro da quello che ci prospetta l’esistente.

di Maria Palumbo

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Comunicazione,TecnicaeSpaziPubblici ...dai limiti odierni alle Primo Piano

Un’interessante prospettiva di riflessione relativamente ad uno studio critico sulla Comunicazione contemporanea, può essere riscontrata nell’area individuata tra quattro poli analitici essenziali quali: 1.una dettagliata “fenomenologia” della Comunicazione Interpersonale Privata o semplicemente in sigla I.P. (chiamata così essenzialmente per distinguerla da quella a scopo giornalistico-informativo, pubblicitario e/o spettacolare); 2.una probabile “antroposofia” delle relazioni umane; 3.una flessibile “filosofia della tecnica”; 4.un’aggiornata “sociologia” degli spazi pubblici. In questa sede ci si limiterà giusto a dare uno spunto a proposito, ma lungimiranti possono essere gli orizzonti di osservazione e di elaborazione teorica nonché di proget-

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tuale sperimentazione materiale. Iniziando a soffermare l’attenzione su un primo lato dell’immaginario quadrilatero che si crea tra i quattro poli analitici di cui sopra, precisamente sul segmento compreso tra i vertici dove si collocano una “fenomenologia” della Comunicazione I.P. ed una “filosofia della tecnica”, dunque proprio sul loro rapporto interdisciplinare nonché sul legame stesso tra Comunicazione in generale e Tecnica, di fatti non si può che constatare come si tratti di un reciproco scambio che resta costante nell’attività umana sin dalle sue origini più remote. Tecnica e Comunicazione si sono sempre alimentate e sostenute a vicenda fino ad incorporarsi spesso l’una nell’altra: si pensi solo alla tecnica del discorso o, viceversa, al discorso


della Tecnica nel senso tanto di riflessione verbalizzata ma anche di divulgazione relativamente alle tecniche sperimentali o acquisite, con fini di condivisione orizzontale e scambievole oppure di trasmissione verticale ed unilaterale. Oggi più che mai, però, questo rapporto giunge a superarsi in termini di serratezza, con la Comunicazione che, intendendola in un senso molto più generale ed onnicomprensivo rispetto ai suddetti, diventa il fulcro stesso della nuova tecnica nella fase della post-meccanica nonché della tecnologia e della telematica, e viceversa: essendo sicuramente la seconda molto orientata allo sviluppo della produzione e della diffusione di ‘media communicationis’, ma anche essendo la trasmissione di informazioni (“i BIT„), dunque in quanto tale comunque una forma che si ispira al principio dello scambio

l‘appunto “antropo-sofica”, delle relazioni umane quali componenti determinanti dell’esistenza di donne ed uomini in interazione tra loro stessi nonché con quello che possiamo definire, pur se con uno sforzo astrattivo per quanto non necessariamente metafisico, l’insieme cosmico; l’ambito relativo al contesto più tipico per le appena citate relazioni interpersonali, ovvero gli spazi pubblici. A tal proposito bisogna ovviamente premettere che si riconosce come, se non già intuitivamente a chiunque, almeno ad un’ osservatore anche piuttosto superficiale della Società che vige attualmente sia a livello globale che a quello locale, possa apparire evidente quanto la diffusione a valanga di nuovi mezzi di comunicazione virtuale, ovvero non diretta in quanto tra due persone che non sono materialmente

prospettive future comunicazionale, l’elemento oramai basilare per la maggior parte della tecnologie contemporanee. Proprio una connessione tanto stretta tra Tecnica e Comunicazione nella nostra contemporaneità, quindi il relativo sviluppo delle I.C.T. (Information and Comunication Tecnologies, ovvero le tecnologie per la Comunicazione I.P. a distanza nonché per la Comunicazione a scopo giornalisticoinformativo e d’intrattenimento spettacolare e/o pubblicitario) e un utilizzo esteso delle stesse, hanno comprensibilmente un impatto immediato anche sugli altri lati del nostro poligono immaginario, quindi sugli altri rispettivi livelli o ambiti presi in considerazione nell’incipit di questo medesimo articolo e su cui si trasferisce, nel suo immediato seguito la concentrazione: l’ambito, guardato da una prospettiva per

presenti nello stesso luogo, contribuisca: •andando a supplire spesso l’incontro fisico, a limitare di fatto, in maniera contraddittoria così come per altri elementi del progresso, la qualità di vita e più peculiarmente l’orizzonte relazionale interumano, incentivando l’isolamento, a dispetto di quelle che invece sono le migliori potenzialità dei cosiddetti «nuovi media», per quanto concerne l’ampliamento dell’opportunità comunicazionale, ma più in generale di quella che è l’ effettiva premessa della tecnica, ovvero il miglioramento delle condizioni umane sulla terra; •a desertificare, nel contempo, i luoghi pubblici, contribuendo al decadimento degli spazi più caratteristici della socialità, insieme alla loro sostituzione sempre più massiccia con Non-luoghi………………….; •facilitare, inoltre, l’invasione nella vita individuale pubblica e privata dei cittadini,

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da parte dei poteri che hanno l’esigenza ideologica e/o pragmatica di controllare la cittadinanza. Tuttavia, qui l’obiettivo è quello di mettere in rilievo il fatto che detti effetti negativi dello sviluppo dei vari nuovi mezzi di comunicazione, per quanto odiernamente preponderanti siano comunque volutamente veicolati “dall’alto” a danno delle pluralità umane e dunque non connaturate in loro stessi. Infatti è l’assoggettamento delle tecnologie, ed in particolare di quelle mediatiche, al servizio di un Sistema di Potere rivelantesi nelle pratiche e nelle aspirazioni sempre più totalitario (dietro Regimi dalle pretese democratiche ma che rivelano, rispetto ai fondamentali, caratteristiche antilibertarie molto simili a Regimi più palesemente dittatoriali), che oggi rende queste stesse funzionali solo al mercato e allo scopo latente di una massificazione dei comportamenti nel senso degli interessi finanziari nonché del dogmatico perbenismo patinale, riducendole pertanto da un lato ad oggetti di consumo spesso alla moda (pc, notebook, servizi telematici, tv-lcd etc... solo come beni da accumulare e non come strumenti da utilizzare con uno scopo eudaimonico), dall’altro ad armi ideologiche di repressione subdola, di disumanizzazione e di controllo, per la conservazione del dominio sia politico che culturale, tra l’altro puntando sempre più a bloccare conseguentemente l’accesso alle risorse dell’innovazione tecnica per qualsiasi finalità di diverso tipo. Pertanto, data la potenziale neutralità propria (ovviamente secondo l’avviso di chi scrive) di tutta la tecnica dunque della stessa tecnologia per la comunicazione, un inversione di tendenza può esserci ed, in verità, già viene osata. Una svolta significativa in tal senso, può stare nello sforzo, già in corso ma da continuare ad impiegare costantemente se non da accrescere, per ri-appropriarsi e re-indirizzare, necessariamente “dal basso” (pur se talvolta strappando risorse all’Istituzione) e con finalità realmente umane e sociali, lo sviluppo di dette I.C.T., ovvero di tutti i nuovi ‘ media communicationis ’, piuttosto che lasciarli

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ancora una volta fungere solo da volano di rafforzamento sistemico, incastrato nel monopolio di gruppi dominanti politicamente ed economicamente. Concretamente le opportunità che le più moderne I.C.T. possono offrire in termini sia di relazione interumana che più ampiamente di supporto civico-sociale e culturale, devono essere oggi socializzate dunque salvate dalla loro probabile strumentalizzazione in-umanizzante ed alienante, tentata dai poteri di ogni livello, per essere piuttosto investite nell’implemento della socialità, della cultura, della vita civica, in maniera ovviamente non escludente né rispetto al contatto fisico e diretto tra persone né rispetto alle forme più tradizionali di attività culturale e di vita civile (compreso l’attivismo politico), ma complementare ad essi. Questo significa intavolare una vera e propria battaglia civile ed esistenziale. Una lotta rivoluzionaria ma da condurre, in primis, sul campo culturale ed ideale: •criticando, nel senso strettamente etimologico di ‘giudicare alle basi ’, dunque decostruendo e destrutturando la ‘ forma mentis ’ con cui le donne e gli uomini sono costretti a rapportarsi anche alle tecnologie mediatiche ancora nel momento storico in corso, portandosi addosso come flagello ereditario l’ideologia economocentrica e consumistica nonché autoritaria del XX secolo; •quindi orientando la stessa ‘ forma mentis ’ verso un utilizzo consapevole, ovvero cosciente della loro effettività di puri strumenti e non affatto di finalità meramente consumistiche. Ma anche una lotta da materializzare, nel contempo, costruendo l’alternativa tramite la pratica di esempi virtuosi da diffondere. Buone pratiche in questo senso, sono oggi diffuse e abbisognano che domani vengano massicciamente rimpinguate: •nelle sperimentazioni telematiche dell’attivismo politico e sociale. Si tratta essenzialmente di mediattivismo, dunque di azione di controinformazione, sensibilizzazione, stimolo alla riflessione e al dibattito, fermento ideale. Dunque si parla


di qualcosa che non può esautorare certo l’esperienza diretta sul territorio, ma che riesce a restituire spazio comunicazionale alle pluralità popolari in un circuito mediatico in cui si tende a renderlo esclusiva degli entourage dominanti. Un attivismo che, quindi, riesce, in casi politicamente orientati verso una prospettiva anti-sistemica, a creare in questo stesso circuito dei corti, piccoli ma significativi poiché avvengono in un contesto sociale, nazionale e globale, che vede i potentati esercitare la partita della loro supremazia politica sui popoli, giocando essenzialmente nella mera dimensione mediatica; •nelle nuove forme virtuali di condivisione di risorse tecniche, strumentali, culturali, che permettono una circolazione dei saperi veloce ed ampia nonché destinata ad un’utenza oramai larga e variegata; •nell’effettivo implemento relazionale, con l’abbattimento dei limiti spazio-temporali, permettendo un agevole contatto tra zone geograficamente opposte sulla sfera terrestre, nonché consentendo in genere un approccio interumano facilitato (pur senza mai supplire totalmente l’incontro diretto e fisico) utile in una fase storica come quella che corrisponde al tempo della Società transnazionale o globale dei capitali finanziari e dei consumi indotti/ ostentati, nonché del post-umano (come indica qualche studioso di scienze umanistiche e sociali), in cui la violenza effettivamente impervia, in cui il piccolo e il grande conflitto diventano “paradigma” relazionale tra popoli e “civiltà” ma anche tra singole persone perennemente in competizione, in cui l’arrivismo e la volontà di sopraffazione assumono ancora più spazio nell’ indole umana già ambigua per natura (tutto ciò incoerentemente rispetto alla scelta della vita in una collettività organizzata e del relativo “patto sociale”); • nei nuovi tipi di comunità umane e sociali, che nascono, grazie alla catalizzazione del supporto informatico e telema-

tico, non solo a livello totalmente virtuale, ma anche in ambienti dove la convivenza fisica si integra con queste nuove tecnologie adoperate in spazi materialmente condivisi con scopi legati al settore dei servizi pubblici ma anche co-lavorativi (vedi coworking), ricreativi, formativi, informativi, didattici, equamente commerciali, nonché funzionali per il contatto a distanza con luoghi fisici simili ma lontani (dando vita così ad una rete virtuale di comunità riunite materialmente nei diversi posti del mondo). Ed è su quest’ultimo punto che, probabilmente, deve essere prestato più impegno analitico e soprattutto progettuale, avendo per ora, la sperimentazione di tali forme comunitarie, ancora scarso radicamento ma soprattutto essendo esse la vera avanguardia. Si tratta di pensare, progettare in dettaglio e realizzare nuovi “Spazi Pubblici Glo-cali”, ovvero insieme globali e locali: locali in quanto si dovrebbero inquadrare socialmente e sviluppare materialmente su uno specifico territorio; globali in quanto dovrebbero godere di un più ampio respiro internazionale negli standard strutturali e culturali ma soprattutto per una effettiva e continua connessione, magari proprio via internet, con posti simili negli altri paesi del mondo . Potrebbe trattarsi di luoghi dove gli strumenti informatici e telematici possano venire concretamente socializzati (marxianamente, come mezzi di una nuova produzione ma, andando ancora oltre, utili anche ad improntare un fermento artistico e culturale che potrebbe integrarsi con quello legato alle risorse monumentarie nella “piazze” del domani) e contemporaneamente possano essere socializzanti cioè nuovi motivi di attrazione per stimolare una ripopolazione degli spazi pubblici oggi in crisi, contribuendo a superare la distanza sempre più evidente tra bisogni urbani e spazio pubblico.

di Leandro Sgueglia

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FINE DEL SEGRETO, FINE DELLA PRIVACY Vivere nel Mondo della

Tracciabilità

Primo Piano

Negli anni settanta del secolo scorso, i movimenti d’opposizione erano percorsi dal dibattito sulla pratica dei gruppi che mettevano in atto la cosiddetta “lotta armata”. Di uno dei tanti e dimenticati approcci critici alla questione ne ricorderemo uno in particolare, in quanto, a differenza degli altri, appare dotato di una capacità interpretativa che va oltre le circostanze particolari che l’hanno generato: si tratta di quello che si fondava sul concetto di “fine del segreto”. Il giudizio negativo in questione partiva dal seguente assunto: anche se ogni altro genere di critica alla strategia lottarmatistica – opportunità politica, apertura alle provocazioni, incomprensione della scelta tra le masse, ecc. – avesse avuto torto, restava un dato ineludibile: il percorso politico armato, da un punto di vista strettamente “tecnico”, per funzionare necessiterebbe del segreto – e questo, con le tecnologie del controllo che si sono sviluppate con l’elettronica non esiste più. Tra microfoni spia e quant’altro di nuovo e di vecchio esisteva negli anni settanta, era pressoché impossibile mantenere segreta un’organizzazione per più di qualche mese, indipendentemente da quanti accorgimenti si prendessero. Di conseguenza, se gli organi repressivi la lasciavano agire, era segno che le sue azioni erano ritenute vantaggiose per il potere; altrimenti, sarebbe stata smantellata in breve tempo.

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Le tecnologie del controllo, nei trent’anni che sono passati da quest’analisi degli anni settanta, sono enormemente cresciute, al punto che – per usare una metafora informatica – oramai viviamo nel mondo della tracciabilità. Tra telecamere di controllo piazzate un po’ dappertutto, reti di telefoni cellulari, navigatori satellitari, carte di credito, archivi di provider e quant’altro, oggi il nostro concetto di privacy è divenuto davvero molto relativo e non c’è garante che tenga. La fine del segreto oggi si è trasposta in una più generale fine della privacy. Il che, per chi è nato in un mondo in cui queste tecnologie erano appena agli inizi, può apparire decisamente inquietante. Se trent’anni fa la questione si poneva in casi particolari e la violazione del segreto era possibile ai potenti – sostanzialmente, agli apparati investigativi statali, ad aziende ed a ricchi individui che potevano rivolgersi ad agenzie d’investigazione private molto sofisticate tecnologicamente – in casi eccezionali (data la costosità iniziale di tali tecnologie) oggi la questione è universale ed assai più diffusa. La privacy di ciascuno di noi è continuamente sotto attacco. Un fenomeno come i social network – al momento Facebook in particolare, ma non solo – può essere letto anche in quest’ottica. Più o meno consciamente, è oramai sapere comune il fatto di vivere in un mondo dove si può essere continuamente tracciati nei propri spostamenti, azioni, idee, gusti


d’ogni genere: se fino ad ieri esporre la propria vita in pubblico era affare da esibizionisti, oggi è inevitabile. Siamo nudi alla vista del potente che può e vuole tracciare le nostre esistenze: per cui, che senso ha nasconderle agli altri? Insomma il successo di massa – non si sa quanto duraturo – dei social network potrebbe essere basato proprio su questa presa di coscienza: la nostra esistenza si svolge nel mondo della tracciabilità. D’altronde, la trasparenza delle proprie esistenze può essere, almeno in parte, un’arma di difesa per chi vive nel mondo della tracciabilità potenziale e permanente. Nascondere degli aspetti della propria esistenza, in altri termini, significa vergognarsene ed offrire al potere una vulnerabilità in più: sbandierarla, al contrario, toglie a questi un’occasione di ricatto e di attacco ulteriore. Ovviamente, restano “sensibili” tutta una serie di eventuali aspetti della propria esistenza generalmente deprecabili – ad esempio la pedofilia: ma questi sono reati di per se e, solitamente, non un’aggravante da aggiungere ad un attacco che il potere potrebbe fare all’individuo. Per fare un esempio, che senso avrebbe accusare, all’interno di una logica di attacco politico, Nichi Vendola o Alfonso Pecoraro Scanio di essere omosessuali? Potrebbe anzi, nella logica repressiva del dominio, essere controproducente. In un mondo in cui si è completamente aperti al controllo del potere sulle nostre esistenze, non è escluso che una tale coscienza sia alla base di tutta una serie di fenomeni del presente che, ad un primo sguardo, possono apparire di puro esibizionismo. Il potere, infatti, ha messo in essere il suo antico sogno del panoptikon – il carcere dove i carcerieri possono osservare i dete-

nuti in ogni istante della loro vita, senza che questi possano ricambiare in alcun modo lo sguardo, analizzato nella sua genesi e nella ideologia di potere che lo sostanziava da Michel Foucault nel suo Sorvegliare e Punire. La società, però, potrebbe non essere rimasta guardare. Il concetto di “prescrizione del sintomo” deriva dalla psichiatria sistemica di matrice batesoniana e, più in generale, dalla cosiddetta “scuola di Palo Alto”. L’idea di base è che ogni sintomo psichiatrico si regge su di un gioco di potere tra il portatore di esso ed il suo ambiente: per quanto dolore esso comporti a chi si comporta in tale maniera, esiste sempre un “vantaggio secondario” che consiste nel tenere sotto controllo i comportamenti altrui, partendo dal presupposto, in larga misura inconscio, che tali comportamenti saranno indirizzati nel senso di stigmatizzare/impedire il sintomo e, per far ciò, l’attenzione sociale sarà incentrata sul portatore dello stesso. Una strategia terapeutica, allora, potrà essere quella – apparentemente paradossale – di richiedere al paziente il sintomo stesso, magari in forma amplificata: nel momento stesso in cui ciò accade, il sintomo perde il suo potere di controllo, il suo “vantaggio secondario”, e resta il puro dolore legato ad un tale comportamento. Insomma, una delle ipotesi interpretative del voyerismo tecnologico collettivo e diffuso potrebbe proprio essere questa: è come se la società nel suo complesso, in maniera inconscia, stesse mettendo in atto una collettiva “prescrizione del sintomo” nei confronti della follia voyeristica del potere. Osservami quanto più puoi, figlio di puttana.

di Enrico Voccia

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La comunicazi

Primo Piano

Mettiamo che, a partire da un determinato focolaio, la lebbra si stia espandendo in tutto il pianeta, colpendo un numero enorme di persone ovunque. I media di tutto il mondo sarebbero piene di informazioni e commenti d’ogni genere rispetto ad un tale evento: dove si è sviluppata inizialmente l’epidemia, perché, come si sta espandendo, le varie strategie messe in atto dai governi per affrontarla, il fatto che tali strategie non sembrano atte a fermarla, dal momento che dilaga senza freni. Poi, osservando meglio le cose, notiamo che esistono in questo profluvio di informazioni alcune parole tabù: Diaminodifenisulfone, Rifampicina, Clofazimina. Si tratta del cocktail di antibiotici che possono essere usati, con notevole successo, per estirpare la malattia e che, in occasioni del genere avvenute in passato, hanno risolto il problema. Indagando ancora meglio, scopriamo che non solo le strategie “antilebbra” messe in atto od anche semplicemente discusse dai governi non ne tengono assolutamente conto, ma che, anzi, questi fanno di tutto per non utilizzare il rimedio dimostratosi ampiamente efficace. La vera notizia, a questo punto, dovrebbe essere questa: che i governi di tutto il mondo, pur lamentandosene ad oltranza, non fanno assolutamente nulla per debellarla, pur avendo in mano tutti gli strumenti per po-

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terlo fare. Una notizia che si bada bene dal diffondere in alcun modo. Pura fantasia? Per ciò che concerne la lebbra certamente: per ciò che concerne la crisi economica mondiale, invece, no. Questa crisi di oggi, innanzitutto, non è una novità: già nel 1929 ne iniziò una simile se non sostanzialmente identica e, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, contro di essa vennero messe in atto una serie di contromisure che risultarono efficacissime, anzi non solo la frenarono, ma crearono, di lì a poco, un processo di enorme espansione – non a caso definito il “boom economico”. Come nella ipotetica incontrollata epidemia mondiale di lebbra, i media di tutto il mondo sono stracolmi di notizie e commenti su dove è nata la crisi, perché, come si è allargata all’intero pianeta, le varie strategie “anticrisi” attuate e ipotizzate dai governi per affrontarla e, anche qui, praticamente non una parola sul fatto che i governi non mostrino nemmeno lontanamente l’intenzione di utilizzare gli strumenti che, nel passato, hanno così brillantemente risolto la situazione. Anche qui abbiamo le nostre parole tabù: propensione al risparmio, moltiplicatore, econometria: persino chi ha studiato professionalmente tali concetti e li conosce benissimo, evita accuratamente di usarli, quasi temesse di bestemmiare in chiesa.


one della Crisi Nel passato precapitalistico, le situazioni di difficoltà economiche maggiormente diffuse erano crisi di sottoproduzione – le carestie. Il capitalismo, utilizzando a pieno le risorse della Rivoluzione Industriale, ha fatto scomparire questo genere di crisi, portando però con esso un nuovo genere di crisi economica: quella da sottoconsumo. Nel capitalismo, le vetrine delle merci possono anche essere stracolme: ad essere vuote sono le capacità di accesso ad esse di chi ne avrebbe bisogno. Come quella del 1929 e di tante altre che l’hanno preceduta e seguita, anche la presente è, senza dubbio, una crisi di tal genere. Come affrontare questo genere di crisi, restando all’interno dell’orizzonte capitalistico e senza ricorrere ad un diverso modo di produrre e di distribuire le risorse – il comunismo, insomma? Questa fu la domanda che si pose l’economista inglese John Maynard Keynes, e la risposta che diede fu la seguente, semplicissima: di fronte ad una crisi da sottoconsumo, occorre far ripartire i consumi. Ora, la scienza economica ci dice che esiste una propensione al risparmio assai maggiore fra i redditi alti che fra quelli bassi: questi ultimi, di fronte ad un aumento di reddito, lo spenderanno quasi per interno reimmettendolo quasi immediatamente nel circuito economico, mentre i primi tenderanno a tesaurizzarlo invece

che a spenderlo. Il reddito ulteriore entrato in circolazione, inoltre, si moltiplicherà ulteriormente, creando nuove occasioni di lavoro e, conseguentemente, di reddito tra i ceti poveri, che lo spenderanno a loro volta, ecc. Semplici calcoli econometrici diranno ai governi come e dove redistribuire il reddito tolto alla tesaurizzazione dei ceti alti per riavviare l’economia. Quando la teoria keynesiana divenne prassi comune delle politiche economiche dei governi dal secondo dopoguerra a metà degli anni settanta circa del secolo scorso, la cosa funzionò alla grande e non si vede alcun motivo perché non debba funzionare anche adesso. Ciononostante, il circuito comunicativo fa di tutto per non parlare di ciò. Negli anni passati, il nome dell’economista inglese era citatissimo, sia pure in negativo, per esaltare le magnifiche sorti e progressive del “neo”liberismo: oggi, invece, si evita persino di nominarlo, nel timore, sembra, che qualcuno possa ricordarsi del fatto che le sue politiche anticrisi avevano funzionato. Per capire il perché di questa rimozione, occorre prima ripercorrere le ragioni dell’abbandono delle sue politiche economiche. Quale era il loro “difetto”, agli occhi delle classi dominanti, nonostante il loro indubbio successo nell’impedire le crisi ed, anzi, creare un notevole sviluppo economico con

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tassi disoccupazione che oggi riterremmo ridicoli? In effetti, esse funzionavano perfettamente da questo punto di vista, ma al prezzo – ad un certo punto ritenuto insopportabile – di una notevole perdita di controllo sulla forza lavoro. Questa, ricevendo un discreto reddito da spendere e, in parte, da tesaurizzare, era assai meno soggetta ai piccoli e grandi ricatti padronali: in particolare, di fronte ad un mercato del lavoro affamato di lavoratori causa il basso tenore di disoccupazione, quello del licenziamento. Di conseguenza, era assai più “ribelle” e pronta a rivendicare i propri diritti: le lotte degli anni cinquanta, sessanta e settanta furono l’espressione di questo stato di cose. Inoltre, dal punto di vista dell’aristocrazia capitalistica, c’erano troppi ricchi in giro, troppa gente che competeva con essa relativamente allo stile di vita e che minava alla radice il senso di superiorità sociale cui erano abituati. Pertanto, agli inizi degli anni settanta, l’aristocrazia capitalistica decise di porre termine alle politiche di “stato sociale” e tornare al tradizionale “liberismo”: insomma, di utilizzare i finanziamenti statali solo per essa, sottraendo sempre più reddito alle classi lavoratrici, aumentando la disoccupazione, portando al fallimento o, comunque, al ridimensionamento moltissimi che si erano arricchiti grazie al consumo sostenuto dal reddito delle classi meno abbienti durante le politiche keynesiane. L’allargamento della forbice dei redditi ha così portato, alla fine, dopo varie di minore portata, all’attuale crisi. Ora, è chiaro che i grandi media sono sotto il controllo dell’aristocrazia del dominio – e questi sono gli stessi che parlano della crisi come se essa non avesse soluzio-

ni a portata di mano. L’attuale aristocrazia del dominio e le classi politiche che ne sono parte integrante, infatti, sono nate e cresciute ideologicamente all’interno della reazione volta alla ripresa del controllo sulla forza lavoro e la riaffermazione della esclusività dello stile di vita dominante. Prima di dare un centesimo in più a chi vive fuori dal suo giro – lavoratori dipendenti e, indirettamente, ad imprenditori minori – si farebbe tagliare le palle. Di qui il terror panico che li coglie di fronte al fatto di sapere che l’unica via d’uscita – all’interno del capitalismo – alla crisi consiste proprio in quel centesimo che non vogliono dare e, di conseguenza, l’affidarsi a politiche che non sono altro che pannicelli caldi. Drenare ancora di più il reddito sociale per tamponare le perdite delle grandi industrie, tamponerà al momento la crisi, ma la peggiorerà sempre di più. Lo stesso Obama non fa altro che tassare anche i ricchi per farli partecipare a questa operazione di carità verso i ricchissimi: gli aspetti keynesiani, di restituzione di reddito a favore delle classi lavoratrici, della sua azione sono minimi ed assolutamente insufficienti. Se i potenti della terra metteranno mano a questo genere di politiche, sarà quando avranno proprio l’acqua alla gola, quando rischieranno davvero grosso. Di qui la strategia dei grandi media in loro possesso: sovraesporre l’informazione su temi del tutto secondari e nascondere la soluzione a portata di mano, rendendolo un tabù comunicativo. Nel frattempo, magari, sarebbe il caso di tornare a discutere non solo di una via d’uscita interna al capitalismo, ma di un modo diverso di vivere e di produrre, di un altro mondo diverso e possibile.

di Enrico Voccia

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Pubblicità: tipizzazione e controllo dell’individualità

Primo Piano

L’onnipresenza, nell’arco d’una intera esistenza del messaggio pubblicitario, in ogni forma o contenuto, non è più soltanto un fenomeno esterno che vive nell’Oggetto, innalzandolo a feticcio, ma si presenta all’oggi nella forma di una relazione attiva, innescata tra Persona e Oggetto, esplicitata nella forma della pulsione necessitata e naturale verso bisogni intimi di possesso materiale non finalizzati all’utile. Il che può voler dire essenzialmente che resta necessario adeguare il lessico di una teoria critica nel nuovo paradigma relazionale suddetto, che si presenta sempre più forte di una evoluzione costante delle forme e delle sostanze; e che necessita l’adozione di un’ottica “laica”, tanto dinamica da essere celere almeno quanto l’evolversi della relazione. In effetti, si converrà, circa il mutamento rivoluzionario di cui la pubblicità si è resa complice, supportata brillantemente dal web, dall’immagine digitale, dalle nuove frontiere tecnologiche del suono. Giandomenico Belliotti, che conduce una interessante analisi socio-semiotica delle forme della comunicazione pubblicitaria, scrive: “Lo sguardo linguistico e semiologico sulla pubblicità, supportato dalle nozioni della retorica, supera l’idea della comunicazione commerciale come persuasione occulta. Nel messaggio pubblicitario, nulla agisce a livello subliminale su un destinatario consumatore del tutto passivo che, al contrario, viene costantemente sollecitato dalla mol-

teplicità dei livelli semantici del messaggio, a vivificare la sfera di esperienze individuali e sociali entro cui si riconosce e costituisce.” Si presenta questo come presupposto innovativo, o a tratti e fuori dalla comune opinione, nel senso in cui il consumatore/ spettatore apre fin dai primi istanti di formazione della persona cosciente, un’ interazione pluri-semantica, pluri-linguistica, gnoseologicamente condizionante e condizionata, con l’impulso che viene prodotto dalla pubblicità. Attivare processi disparati nella relazione istaurata con l’impersonale macchina dei consumi, che sentenzia enfaticamente circa giustizia o tracotanza dell’individuo , spaesato nella moderna tragica realtà, significa, senza esagerazione alcuna, che l’intera sfera individuale, tanto quella della parte sinistro-razionale, quanto quella destro-immaginativa siano frutto di modificazioni profonde da parte degli oggetti di consumo , che in un ciclo costante modificano a loro volta la percezione e lì interazione con le forme attive e passive della relazione quotidiana . E’ chiaro infatti che pubblicità oggi, non vuol dire meramente, ossessiva propaganda verso l’acquisto di x invece che di y , e dunque modificazione della sfera del bisogno addizionale solo legata al consumo. L’instaurazione della relazione attiva, l’abolizione dell’azione del subliminale a favore di una eloquente esplicitazione dei contenuti non solo commerciali, genera il

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bombardamento, seguito dal totale condizionamento di una serie di bisogni che comprendono tutte le sfere dell’esistenza, e le condizionano inesorabilmente. L’attribuzione valoriale del prodotto non è più comunicata alla persona , ma è costruita dalla persona stessa , tramite l’azione di quella categorie volitive e libidiche condizionate all’origine dal messaggio pubblicitario in genere. La persona sceglie, giudica e agisce nell’acquisto tramite una interazione con il prodotto che riconosce

pubblicitaria è divenuta profondamente implicita. L’offerta del prodotto all’oggi presenta una diversificazione ed una specializzazione tale da creare un meccanismo di scelta che mette paradossalmente in gioco le sfere soggettive recondite, che riesca ad agire su un aspetto anziché un altro caratterizzante individuo. In questo processo, l’acquirente sente una apparente liberazione dal percorso obbligato di relazione al prodotto x perché

come proprio , necessario alla conferma del proprio posto di attore nella giostra del consumo. Il complesso dei dispositivi messi in gioco modificano le sfere del piacere, del gusto, della tendenza, ad ampio raggio, creando il meccanismo omologante e degli usi e dei costumi, e dei comportamenti sociali. Fin qui, ciò che è stato scritto è tendenzialmente tesi riconosciuta dal buon senso.Ma non è tutto. La più che assodata tendenza omologante della comunicazione

unico della sua categoria. Se x oggi non è solo, ma circondato da una miriade di prodotti della medesima categoria il meccanismo omologante diviene un palese investimento a perdere, perché omologare è niente altro che plasmare il soggetto rispetto ad una univoca natura, dunque ne consegue che l’azione dei differenti messaggi di prodotti afferenti ad una stessa categoria resta monca e per certi aspetti apre uno spazio notevole a varianti non prevedibili dal mercato. Se è vero che questo è un mercato che

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evita le imprevedibilità della scelta di consumo al punto da affinare il sistema educativo al consumo tramite tecniche di sorprendente efficacia, il concetto di pubblicità omologante va rivisto in una prospettiva più completa. Per chiarire questo passaggio forse è necessario servirsi di qualche esempio. Quando , più di cinquanta anni fa, nacque la pubblicità, e con essa l’educazione al consumo, i prodotti che venivano sponsorizzati erano pochi e generalmente soli nelle singole categorie, se non accompagnati da una scelta ridottissima. Chi osservava la tv, o i manifesti, doveva avvertire l’esigenza d’acquisto del prodotto, di quel prodotto sponsorizzato anziché di un altro, reso anonimo tra gli scaffali dei supermarket, delle profumerie, etc, e per far questo l’unica esigenza delle grandi aziende , detentrici del monopolio nella comunicazione , era di allineare le casalinghe, intorno ad una medesima esigenza, i ragazzini intorno ad una altra sola medesima esigenza, e così per tutte le età e i tipi sociali, che il consumo allora cominciava a dipingere, e che erano pochi e indefiniti se messi a paragone con il presente. Oggi, dopo una prevedibile moltiplicazione dei prodotti interi alla singola categoria che godono di enormi spazi reali e virtuali di sponsorizzazione, il problema del livellamento univoco si pone nella misura in cui, come si accennava , esso renderebbe la scelta del prodotto completamente casuale. E’ così che i produttori di quella miriade di oggetti di consumo, necessitando di un criterio di selezione che risulta vitale rispetto alla vendita, lavorano per la costruzione, non più di una ideologia di consumo conforme, ma tipizzata. La scelta di x1 piuttosto che di x2, viene così direzionata in base alla scelta di un tipo di consumatore in cui riconoscere il proprio esistere. E’ così che nasce il target e la sua definizione Definire il target vuol dire definire una fetta di fruizione (in questo caso del mes-

saggio pubblicitario, ma la definizione prevede ambiti di applicazione molto più ampi) , uno schizzo delle linee guida che disegnano il possibile acquirente, nelle sue caratteristiche individuali. Una tecnica questa che si affina sempre di più. Gli abbozzi della personalità da carpire si trasformano in figure dall’anatomia sempre più definita. La ricerca del modo di attrazione si infila nelle trame più sottili dei modi del vivere. Ecco perché è necessario fare attenzione all’uso, pure banalizzante, della parola omologazione. Con il progetto chiaro di un tipo di consumatore, all’apparenza non è l’omologazione ad esser conseguenza immediata, ma l’individualizzazione e l’ostentazione della peculiarità dell’appartenenza al modello svelato nello spot, nel messaggio pubblicitario in genere. Ciò che viene ostentata da pare della persona tuttavia, non è una vera e propria caratterizzazione individuale, ma un’adesione, che prevede dunque una relazione attiva, al tipo proposto. Risvolto ancor più inquietante dalla tipizzazione del soggetto rispetto alla proposta, è la progressiva presa d’atto della costruzione dell’individualità del soggetto stesso sulla base dell’adesione, una sorta di educazione all’esser tipo. L’adesione dunque non è dunque solo un inserimento a posteriori in un involucro prescritto, ma è essa stessa costruita dal soggetto in interazione costante con il messaggio. Al culmine del percorso target-scelta del fruitore-costruzione del tipo-adesione del soggetto al tipo- tipizzazione dell’umano - costruzione del tipo direttamente per mano della persona - che si può parlare di omologazione, una omologazione che però svuota di contenuto peculiare il vissuto degli esseri umani, categorizza le esperienze, paradigmatizza le relazioni, scinde le idee in compartimeti e le narcotizza nell’immobilità rendendole inutili.

di Eleonora De Majo

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Blogosfera e Social Network

Primo Piano

Non è semplice spiegare a chi è “fuori dalla Rete” cos’è un blog. Il blog è senz’altro uno strumento per comunicare, ma non è esattamente un mezzo di comunicazione. Il mezzo di comunicazione in senso stretto, infatti, è la Rete in quanto tale. È il World Wide Web, insomma, ciò che consente a tutti quelli che hanno un computer ed una connessione, garantita da un contratto con un fornitore di servizi Internet, di comunicare (potenzialmente) con tutti gli utenti che “sono in Rete”. Il blog – una sorta di sito web preconfezionato, ma adattabile poi “su misura” a seconda delle capacità dell’utente – è invece solo uno dei tanti strumenti specifici con cui, poi, ogni individuo che usa la Rete può comunicare coi propri simili. Fatta questa doverosa premessa, allora, forse è un po’ più agevole comprendere quale sia il carattere autenticamente rivoluzionario di questo particolarissimo strumento: attraverso il blog, ogni persona può immettere i propri contenuti in Rete in ma-

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niera immediata, relativamente semplice, e – soprattutto se la connessione è “a banda larga” – in forma multimediale, oltre che interattiva. Certo, come si può facilmente intuire, per garantire l’effettiva universalità della circolazione del libero pensiero, resta da abbattere il problema del cosiddetto digital divide – ovvero, in estrema sintesi, quel divario che c’è tra chi ha la possibilità di accedere alla Rete e chi non ha questo tipo di possibilità (ciò che può accadere, in genere, per carenza di infrastrutture, o per impossibilità di sostenere i costi del servizio) – mentre un altro limite considerevole resta pur sempre quello della babele dei linguaggi. Nondimeno, mai come in questo tempo, la Rete e in particolar modo la cosiddetta blogosfera potrebbero fornire un contributo straordinario alla realizzazione di una vera è propria comunità umana sopranazionale. Una collettività priva di confini, fondata su principi di condivisione. Un’utopia, nel vero senso della parola. Ed


è appena ovvio sottolineare che un ruolo decisivo nello sviluppo di scenari anche solo vagamente assimilabili a quelli sin qui prefigurati lo svolgeranno i blogger che sceglieranno di usare la Rete per descrivere la realtà nella sua complessità, abbandonando le banalizzazioni da “pensiero unico” imposte da una concezione mercatistica dell’informazione e della cultura in senso ampio. Soltanto uscendo dalla logica della notizia come prodotto da vendere secondo le leggi della domanda e dell’offerta si può infatti ottenere una descrizione della realtà che rispecchi più fedelmente ciò che accade e che non crei invece delle realtà alternative, funzionali all’amplificazione di un certo tipo di fenomeno che suscita particolare interesse. Un esempio emblematico di queste costruzioni artificiali di realtà mistificanti, nel sistema informativo italiano mainstream, lo si può avere osservando la frequenza (ed il risalto) con cui vengono descritti episodi di violenze efferate che hanno come protagonisti attivi – e, giova ricordarlo, colpevoli solo presunti (almeno fino alla sentenza di condanna definitiva) – degli stranieri. Urlando la notizia, come si usa fare per richiamare l’attenzione di chi deve ‘acquistare’ il prodotto, si finisce col produrre una percezione distorta della realtà. A furia di urlare: “straniero stupra”, “straniero uccide”, “straniero sevizia”, l’informazione di fatto disinforma, creando una realtà apparente in cui i crimini violenti sembrano essere esclusivo appannaggio di chi non è nato in questo Paese. La realtà dei rapporti statistici, naturalmente, restituendo la complessità del fenomeno, consente a chi ha la possibilità di conoscere quei numeri di farsi un’idea più corretta dell’andamento della criminalità in Italia e delle responsabilità degli Italiani, oltre che degli stranieri; ma intanto resta ampiamente diffusa questa percezione distorta di ciò che accade. Ed è proprio rispetto a fenomeni del genere che i blogger più accorti, consapevoli dell’assoluta necessità di in-

formazioni corrette per la tenuta complessiva del sistema democratico, potrebbero “fare rete”, veicolando le notizie mancanti e offrendo diverse chiavi di lettura. Mutatis mutandis, anche la narrazione dell’artista che usa il blog – e, nella misura in cui gli occorrono, gli annessi supporti multimediali – per esprimersi senza doversi sottoporre al filtro dell’editoria, dell’industria discografica, di quella cinematografica, e così via discorrendo, potrebbe aprire nuovi e più liberi canali di comunicazione tra chi vede e sa descrivere il Vero attraverso il dono della propria arte e chi è in grado di recepire immediatamente la veridicità dell’opera d’arte, arricchendosi di un elemento in più nella difficile e impervia strada che porta alla comprensione dell’universo mondo. In definitiva, uno sviluppo armonico di queste enormi potenzialità del mezzo potrebbe darsi attraverso l’interconnessione più o meno diretta dei tanti nodi della blogosfera che aggregano il proprio piccolo social network, contribuendo così (grazie all’interattività) a quello sviluppo orizzontale delle comunicazioni che potrebbe essere presto foriero di un nuovo spirito del tempo. L’informazione, l’opera d’arte, la cultura in senso lato, insomma, non più come un prodotto da acquistare ma come un’esperienza da condividere. Resta, senz’altro, il problema dei diversi linguaggi per arrivare davvero a quell’utopico livello di universalità cui si faceva riferimento poco sopra. Ma, nel lungo periodo, se la logica della condivisione dovesse farsi strada, anche il problema di una lingua comune si risolverebbe con una certa naturalezza: due persone che vogliono comunicare non devono far altro che individuare quale sia il linguaggio che consente loro di farlo al meglio, ed utilizzarlo. Contrariamente a quanto ci viene inculcato quotidianamente ad ogni livello, infatti, cooperando (spesso) si ottengono risultati migliori che non competendo.

di Giuseppe D’Elia

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Autore e varianti testuali tra

il Medioevo e l’era del Web Tutti noi, autori e lettori di testi prodotti in “era informatica”, possiamo facilmente constatare quanto sia semplice e immediato apportare delle modifiche ad un testo digitato al computer: copia incolla taglia sono ormai operazioni con cui si ha un’estrema familiarità. Pur evitando accuratamente nostalgiche digressioni sugli ormai desueti “carta e penna” non si potrà negare che il guadagno di tempo accordatoci dai nuovi mezzi di

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Primo Piano

scrittura abbia, come rovescio della medaglia, la perdita di una chiave di lettura di fondamentale importanza per penetrare nel mondo di qualsivoglia autore: il processo variantistico. Infatti, non solo ci è negato quell’affascinante contatto con la grafia personale dello scrittore e con le conseguenti cassature o sovrascritture che ci rendono partecipi di processi di elaborazione più o meno intricati, ma, fatta eccezione per il caso di provvidenziali salvataggi di memoria effettuati di pari passo con i mutamenti apportati allo scritto, quello che ci resta da analizzare è soltanto la versione definitiva voluta dall’autore. L’autore: ecco che si apre un’altra dimensione su cui occorre riflettere. La nozione di autore, nell’era tecnologica, si allontana molto da quelle che fino ad oggi sono state le nostre conoscenze, soprattutto in un discorso che ruota intorno a scritti di rapida fruizione, larga diffusione e, talvolta, discutibile valore. Molti dei testi messi in rete si presentano come anonimi e anche risalire al loro autore tramite i siti su cui compaiono si rivela spesso come un’operazione difficile, se non impossibile, perché si tratta di scritti elaborati modificando e interpolando testi precedenti. La modifica dei testi altrui è, infatti, una prassi estremamente attuata e persino “legittimata” dalla pratica del copyleft. Con tale termine, gioco di parole su copyright, si individua un modello alternativo di gestione dei diritti d’autore basato su un sistema di licenze attraverso cui l’autore, detentore originario dei diritti sull’opera, indica ai fruitori della stessa che essa può essere diffusa e modificata, pur rispettando alcune condizioni essenziali, come quella di rilasciare eventuali modifiche apportate al testo sotto lo stesso regime giuridico (e generalmente sotto la medesima licenza) così da continuare a garantire il regime di copyleft e le libertà da esso derivanti. Si pensi, inoltre, all’universo dei wiki, siti

i cui contenuti sono sviluppati in collaborazione da tutti coloro che vi hanno accesso, in un principio ideale di condivisione di conoscenze. Anche in questo caso la modifica dei contenuti è libera ma viene registrata in una cronologia in modo che, laddove lo si ritenga opportuno, si possa facilmente ritornare alla versione precedente. È chiaro insomma come sia profondamente mutato l’atteggiamento assunto nei confronti dello scritto, in una visione dove l’idea di un assetto definitivo del testo si fa più lontana: la «scrittura elettronica […] rende infatti possibile proprio la continua modificabilità del testo, che diviene un elemento per così dire “plastico” e rimodellabile, mentre tende a ridursi quella distanza tra autore e lettore, in qualche modo visualizzata già nella pratica medioevale attraverso l’opposizione tra il testo e la chiosa, o la glossa, o il commento» (R. Valenti). Curiosi paralleli tra l’età medievale e quella contemporanea sono infatti più frequentemente tracciabili di quanto si potrebbe credere: si pensi, ad esempio, alle alterazioni spesso apportate dai copisti ai testi che si trovavano a trascrivere o al fatto che non si aveva la nozione precisa di autore che, invece, era ritenuto un’entità collettiva. Si consideri poi la compresenza, naturale in età medievale dato che i testi nascevano per una dimensione orale, di suono e scritto, commistione che è oggi dilagante grazie alla multimedialità. In questo bizzarro andirivieni tra diversi piani temporali si può dunque sperimentare come, nell’immensità dell’universo culturale, si presentino spesso sorprendenti affinità tra modalità di tecnica e di pensiero pur così distanti tra loro. Modalità il cui evolversi diviene latore di progressi ma, come è naturale, anche di perdite, alle quali, come è altrettanto ovvio, spetta a noi fruitori di testi e di nuove tecnologie porre gli argini che volta per volta ci sembreranno, criticamente, più consoni.

di Rosaria Dell’Aversana

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Quando uno spazio liberato diventa

non-luogo

Spazi

Tra l’ottobre e il dicembre passato , tante, tantissime facoltà sono state occupate dagli studenti. Tanto altro è accaduto. Quasi ogni giorno un corteo, due o tre, o ancora di più paralizzavano il traffico delle grandi città, e disturbavano il silenzio dei comuni più piccoli. E’ accaduto che a Mirafiori gli studenti sono tornati fuori alle fabbriche, ma forse gli operai già non lo ricordano più. E’ successo che il silenzio che ha protetto per decenni la mafia del baronato universitario è stato improvvisamente deflagrato da donne e uomini che valgono all’oggi molto più di quel che gli è stato fatto credere d’essere, che hanno cercato di ritrovare l’identità di un ruolo sociale, quello di studenti, per reclamare un posto in un mondo che li ignora. Di fatto, l’onda, non è stata un movimento rivoluzionario, e probabilmente neanche ha provato ad esserlo, altrimenti credo, non avrebbe accettato di cucirsi addosso un etichetta così premonitrice del ritiro rapido delle forze impiegate. L’onda è un indifferenziato dove non emerge alcuna singolarità, l’onda bagna la sabbia, mas pi si ritira e il sole quella sabbia la secca di nuovo. Ad ogni modo, non è in termini tanto generali che si vuole affrontare il presente, ma tornare ad un aspetto, uno solo, tra tutti quelli che hanno caratterizzato i mesi passati: le occupazioni. Premetto che costa a chi ha fisicamente riempito i luoghi sottratti al sistema e che forse ha l’unico diritto di espressione in merito, ridiscutere così dalle fondamenta un’esperienza che resterà comunque un marchio indelebile del vissuto. Ebbene, io credo, che gli spazi occupati dal movimento studentesco durante questo

rapido autunno, siano stati niente altro che non –luoghi, al pari di una multisala, d’un grande supermercato, o di una piazza dove si passa senza fermarsi caratterizzandola con il proprio peso esistenziale. In alcuni casi l’occupazione è durata una ventina di giorni, in altri è andata avanti per più di due mesi, eppure, indipendentemente dalla caparbia con cui di è difeso lo spazio conquistato, in nessun caso , entro le mura delle facoltà, si è costruito un luogo liberato, un luogo dove si sperimentasse la socialità e il collettivismo che il sistema neocapitalista con la sua endemica individualizzazione morbosa dei soggetti, ha creato. Se la socialità del nostro tempo ci rende automi e chiacchieratori formali, dissimulatori della solitudine terrificante che caratterizza il nostro animo, entro gli spazi occupati, spazi enormi, perché i palazzi delle facoltà offrono spazi vastissimi, non ci si è liberati neanche per un istante del vincolo che ci lega primariamente alla legge del sistema, il vincolo della solitudine, il vincolo dell’egoismo e della difesa solo dello spazio privato. Ogni attività, ogni momento, ogni discussione, si è svolta nella glacialità e nella tensione nevrotica che ci avrebbe caratterizzato fuori da quelle stesse mura, con l’unica differenza, di rendere l’animo di chi stava dentro ancor più inquietante e inquietato dall’ossessione animalesca della difesa del territorio. Si è abitato in un micromondo tribale, dove la difesa del fortino, la coalizzazione coatta contro un nemico immaginario che ha fatto perdere poi di vista quale fosse invece il nemico reale, hanno creato una realtà da ghetto di periferia, da banlieu , con tutta la logica della lotta tra bande, della strategia del sospetto. L’esperienza di convivenza non è stata co-

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munitaria, ma vi è stata una sorta di ploriferazione di immaginari monolocali, definiti dalle quattro pareti che i singoli alzavano intorno a sé stessi . L’onestà intellettuale nel riuscire a non idealizzare in virtù dell’ossequio al feticcio della forma dell’occupazione, è in tal caso necessaria. Necessaria perché ci pone dinanzi ad uno scarto a cui difficilmente pensiamo. Se è vero, che siamo stati capaci di riprodurre in uno spazio liberato le danze spettrali che caratterizzano il nostro essere umani fuori da quegli stessi spazi, pur in assenza dei luoghi alienanti reali e virtuali, rendendoci dunque alienati in luoghi che noi stessi abbiamo reso alienanti, allora si rende evidente che non esiste all’oggi battaglia che valga la pena di essere combattuta quanto quella contro noi stessi e contro la nostra, oramai spontanea, capacità di codificare lo spirito di rivolta. Perché è niente altro che questo quello

che è accaduto. Nessun sentimento di liberazione spontanea. Nessun momento di confronto con i propri nomoi. Nessuna apertura alla messa in discussione delle suture profonde dell’animo. Se fosse avvenuto , oggi, tornando a camminare sui binari della giostra dell’università azienda, per quegli stessi corridoi che ho percorso di giorno e di notte, indaffarata e stanca , sentirei nell’animo qualcosa di forte, un rimpianto, una nostalgia spontanea, un senso di possesso rinnovato. E invece mi pare che non sia cambiato nulla. Se non ci fossero ancora incise sulle pareti poche testimonianze di quei giorni, probabilmente quei luoghi non avrebbero serbato alcuna memoria memoria, di quella piccola operazione che avrebbe potuto deflagrare sul serio la quiescenza delle logiche di controllo.

di Eleonora De Majo

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Immigrazione e comunicazione:

un’emergenza inventata

Inchiesta

Chi ha una certa memoria delle nostrane politiche emergenziali in fatto di sicurezza sociale non può che trovarsi a disagio di fronte al modo in cui negli ultimi anni si insiste sull’emergenza immigrazione. Si avverte, infatti, che non siamo alle prese con la riedizione di cose già viste ed anche gli strumenti messi in campo, pur risultando del tutto tradizionali, nel loro uso appaiono inediti, mostrando una capacità di penetrazione nell’opinione pubblica e di mobilitazione che lascia almeno interdetti: che gli organi di stampa stiano sulla notizia, finché questa c’è, è un imperativo per ogni giornalista o caporedattore; che sia tenuto alto il livello di attenzione del lettore medio su un determinato tema, questo non può essere visto come una semplice scelta editoriale di una o più testate giornalistiche, ma è il sintomo di un cambiamento nel modo di gestire l’informazione e che da tempo si è imposto, almeno da quando si è scelto di dare la prevalenza alla “percezione” dei fenomeni piuttosto che ai fenomeni stessi: il caldo percepito piuttosto che il caldo, l’insicurezza percepita piuttosto che l’effettiva insicurezza, etc. Chiunque abbia anche una vaga conoscenza dei processi percettivi potrebbe fa-

cilmente mostrare quanto scellerata appaia questa scelta: qualsiasi atto percettivo è, infatti, il risultato di un complesso processo di rielaborazione di dati che, altrimenti, risulterebbero rozzi, sfuggenti ed ambigui. Come ci viene spiegato, si tratta di un processo di semplificazione guidata da una sorta di principio di minimo sforzo, dove sono privilegiate le soluzioni a forte resa funzionale piuttosto che quelle logiche e coerenti. Non che si voglia attribuire alla stampa tanta sensibilità scientifica, tuttavia il modo in cui è stata creata l’emergenza immigrazione ed ancor più il modo in cui viene “gestita” dal versante informativo rende plausibile il sospetto di un cambiamento di paradigma nella costruzione dell’informazione che potrebbe così essere riassunto: ad essere messi in forma non sono tanto i dati che faranno da impalcatura della “notizia”, bensì la percezione degli stessi. L’informazione, insomma, mimando il processo percettivo, ne sostituisce le operazioni, offrendosi come terminazione nervosa immediatamente disponibile all’uso. Intanto, per meglio inquadrare questa sorta di cambiamento di paradigma, alcuni dati risultano indispensabili. Dal campione seguito negli ultimi sei

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mesi il primo dato certo, almeno per i quotidiani che hanno una maggiore diffusione al nord (divenuto ormai a tutti gli effetti un luogo della geo-politica nazionale), l’emergenza-immigrazione non è figlia della più generale emergenza-criminalità, della quale si dichiara esplicitamente la fine a pochi mesi dall’insediamento della nuova maggioranza; che cosa tuttavia sia l’emergenza- immigrazione appare quanto mai problematico, dato che al suo interno vengono fatti confluire fenomeni assai diversi tra loro: dagli sbarchi a Lampedusa ai campi rom, dalle classi miste nelle scuole alla violenza sulle donne (e già si comprende che il prossimo sottocapitolo riguarderà il lavoro). Questa scelta non appare casuale né è indice di una ingenua ignoranza che spingerebbe a confondere tra loro cose prive di connessioni, perché oltre a garantire la quotidiana e quasi ossessiva insistenza sull’immigrazione, ricostruisce una sorta di fisionomia dello straniero intorno alla quale l’immaginario sociale può concentrarsi e facilmente ricapitolarne i tratti di estraneità mediante un articolato numero di argomentazioni. Il secondo dato non meno inquietante è il modo in cui è costruita l’aria di consenso intorno alle politiche di non-accoglienza: mentre si evita accuratamente di citare dati ufficiali e fonti attendibili per poter misurare l’effettiva profondità dell’emergenza-immigrazione, si interpella l’opinione di figure rappresentative della microquotidianità in modo da alimentare quel comune buon senso che orienta ad allontanare tutto quanto appartiene alla sfera della diversità o che lede i presupposti di una presunta identità locale - religiosa, culturale, linguistica etc. Su questo sfondo “popolare” di costruzione dell’informazione - e quanto si ritiene “popolare” mal si adatta con le “sottigliezze” sociologiche - ciò che viene dato in pasto all’opinione pubblica sono dati in grado di produrre effetti amplificati dell’effettiva portata del problema. Lo strumento che in tal senso meglio si presta è quello di non disaggregare mai i dati statistici. Un esempio tipico è una vecchia statistica che ancora gira sul sito de Il Giornale e che vie-

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ne all’occasione riesumata. Vi si legge che “il 32% degli omicidi nel 2006 in Italia sono stati commessi da stranieri (442), ma di questi il 74% erano clandestini”, dove l’attenzione non può che essere richiamata da quest’ultima cifra, lasciando del tutto in secondo piano che si riferisce ad un 32%. Il testo prosegue richiamando il numero di rapine: “Una rapina su quattro è stata opera di non italiani, ma di questi 8 su 10 erano irregolari” dove ad operare è ancora la legge dei grandi numeri. Non manca il riferimento ai furti: “Il 39% dei ladri sono extracomunitari, ma di questi ben l’84% sono clandestini”. E’ quasi inutile chiedersi che fine abbiano fatto il 68% di omicidi, le tre rapine su quattro ed il 61% di furti commessi da italiani. Discorso a parte merita il tentativo di prospettare una sorta di intenzionale e “scientifico” progetto di invasione del nostro paese da parte degli immigrati, come si legge su Il Giornale del 27 gennaio 2009 (NELLE PIAZZE PROVE TECNICHE DI INVASIONE), autorizzando chiunque a pensare che presto l’Italia sarà attraversata in lungo e in largo da coorti islamiche che porteranno il terrore nelle nostre strade e nelle nostre case, con la complicità di centri sociali, pacifisti, ong, comunisti. Qualcuno potrebbe certo concluderne che in fondo si tratta soltanto di farneticazioni, ma ciò che va valutato è anzitutto la struttura semantica adoperata in simili argomentazioni, nel senso che il linguaggio subisce un improvviso cambiamento, abbandonando ogni livello di autocensura ed aderendo il più possibile all’insieme dei luoghi comuni che circolano come moneta spicciola nelle forme più basse, quasi delinquenziali, di ostilità nei confronti degli immigrati. Il già discutibile uso del termine “clandestino” lascia il posto al più diretto ed espressivo “fuorilegge” - veloce avvicinamento al termine “bandito”, essere da bandire e perciò perseguitabile impunemente - al quale negare per principio ogni diritto, anzitutto quello di manifestare pubblicamente il proprio malessere per il modo in cui la questione immigrazione viene ormai gestita nel nostro paese; e per legittimare un simile atteggiamento ci si appella a


sondaggi che riferiscono che 8 italiani su 10 non tollerano la loro presenza sul nostro territorio, nulla dichiarando del campione usato per giungere a queste cifre (un paese, un quartiere, una strada, un condominio, gli amici del bar?). Sarebbe facile concludere che la vera emergenza in Italia sia una pericolosa deriva razzista. E’ possibile che in una parte dell’immaginario collettivo ci siano i sogni di una vera e propria pulizia etnica (la follia collettiva e l’immaginazione non hanno limiti), ma fare previsioni è a questo punto un azzardo. Se siamo di fronte ad un nuovo paradigma nel modo di gestire l’informazione, tutto ciò che per ora riusciamo a comprendere è che, per gli effetti perversi che innesca, appare del tutto incontrollabile ed ingovernabile. E’ prevedibile che il suo più importante banco di prova sarà la crisi economica, permettendo il passaggio dall’immagine dello “straniero che invade i nostri

territori” a quella dello “straniero che ci ruba il pane”, rendendo possibili reazioni del tutto imprevedibili. Ciò che tuttavia sconforta è che a tutt’oggi quella parte del paese che non si è mai lasciata abbacinare da questa martellante campagna contro gli immigrati non abbia prodotto, ad eccezione di rarissimi casi, un progetto sensato di accoglienza, delegandolo per intero alle istituzioni politiche. Quando vi è il riconoscimento di una sfera dei diritti, si può anche pensare ad un suo allargamento; ma quando i diritti vengono semplicemente negati, allora non vi è nulla di più inutile che “gridare alla luna” ed andrebbero pensati percorsi di tutela delle comunità straniere, senza nulla concedere alla retorica dello “straniero come risorsa”. Gli immigrati non sono una risorsa; sono qui ed è quanto basta perché non diventino facile bersaglio di chi volentieri vorrebbe liberarsene.

di Rosario Carpentieri

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