Environmental Graphic Design

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Ia FacoltĂ di Architettura Corso di laurea in Progetto Grafico e Virtuale a.a. 2011/2012 RELATRICE Silvia Barbero STUDENTI Luca Negro Adelina Voinea


1a FacoltĂ di Architettura a.a. 2011/2012 Corso di laurea in Progetto Grafico e Virtuale Tesi di laurea

RELATRICE Silvia Barbero STUDENTI Luca Negro, Adelina Voinea TITOLO TESI Environmental Graphic Design Metodi e strumenti critici e criticabili di analisi e progettazione CONTENUTI, IMPAGINAZIONE E PROGETTO GRAFICO Luca Negro, Adelina Voinea TESTO COMPOSTO IN DIN 1451 Std Engschrift Minion Pro Regular, Bold Condensed e Italic TIPI DI CARTA Copertina: Fedrigoni Woodstock Betulla 225gr Testo normale: riciclata neve 80gr Inserti: Fedrigoni Casi studio: International Paper Pro Design Gloss 100gr STAMPA E RILEGATURA Politecnico di Torino Luca Negro e Adelina Voinea


INDICE SOVRAFFOLLAMENTO SEGNICO IL CASO OLANDESE LESS IS MORE SEGNO E SUA CLASSIFICAZIONE

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9 DEFINIZIONE UFFICIALE I COMPONENTI AREE DELL’EGD

53 \ TIPOGRAFIA \ COLORE \ TEXTURE-PATTERN \ FORME \ LUCI \ DIMENSIONI \ MATERIALI

21 DAGLI INIZI DEL ‘900 AD OGGI E DOMANI?

29 CONTESTO SPAZIO LUOGO AMBIENTE

139 LUOGHI AD ACCESSO RISTRETTO: POLITO LUOGHI AD ACCESSO LIMITATO: MAO LUOGHI AD ACCESSO LIBERO: METROPOLITANA

165 IMPORTANZA

37 MAPPE MENTALI ELEMENTI DI LYNCH LANDMARK PROPS

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\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\In alto: Sistema di segnaletica del museo della cinematografia a Bercy, Parigi-Francia. Progetto di Ruedi Baur e associati

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Fin dalla sua nascita, il genere umano ha sempre avuto la necessità di comunicare la propria memoria al prossimo. Prima di imparare a comunicare verbalmente abbiamo imparato a farlo visivamente, lasciando sempre tracce nell’ambiente circostante. Allo stesso tempo si è sempre avuta la necessità di conoscere e di potersi orientare negli ambienti costruiti e non, come dimostrano tutti i ritrovamenti di mappe e incisioni relative ad ogni epoca storica: incisioni rupestri, papiri egizi, città e accampamenti romani, mappe nautiche, sino ad arrivare ai moderni sistemi di mappatura e segnaletica. I romani furono i primi a utilizzare delle griglie come strategie di pianificazione territoriale, i loro accampamenti e città avevano mappa e posizionamento dei luoghi più importanti, come il foro, inconfondibili. Durante la rivoluzione industriale nacque il detto “Ogni immagine racconta una storia”, il quale potrebbe essere applicato a tutti i prodotti e alle loro pubblicità e allo stesso tempo potrebbe essere espresso per l’ambiente costruito, in quanto ogni edificio racconta una storia. Si arriva così al giorno d’oggi, con un bisogno sempre maggiore di spostarsi da una città all’altra, da una nazione all’altra, senza complicazioni, ricevendo informazioni e messaggi immediatamente percepibili e comprensibili. L’Environmental Graphic Design (EGD) opera soprattutto per orientare le persone, dare un senso al luogo e crearne un’identità. Il suo supporto principale è l’ambiente costruito. Dopo esserci appassionati di questo campo multidisciplinare, in cui collaborano graphic design, architecture, landscape architecture e eco-design, abbiamo creato uno strumento innovativo a sostegno della progettazione. Esso consiste in una tabella che permette di giudicare dal punto

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di vista grafico gli elementi in cui si traduce ogni progetto EGD. Lo scopo di questa valutazione, critica così come criticabile, è una progettazione più consapevole e migliore attraverso un’analisi a priori di ciò che già esiste. Un domani questo strumento potrebbe servirsi della tecnologia e permettere molte altre funzionalità e mezzi per avere una valutazione sempre più funzionale e coerente. Ad esempio, tramite confronti tra i diversi progetti e informazioni progettuali più accessibili, si potrà progettare in modo più critico e soprattutto verso una sempre maggiore sostenibilità,

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raggiungibile tramite la collaborazione tra diverse discipline, caratteristica fondamentale dell’EGD.

\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\In alto: Empty Sky The New Jersey 9/11 Memorial


Parliamo di Environmental Graphic Design (EGD) esclusivamente negli ambienti costruiti, “man-made”, in particolare in contesti urbani e in quelli contrassegnati da un certo livello di complessità dovuta alla loro struttura fisica e sociale. Qualsiasi ambiente costruito deve essere leggibile e fruibile dal maggior numero di persone che vi entrano in contatto, specie se altamente frequentato. I luoghi sono simbolici, comunicano valori, elementi terzi e se stessi. Essi trasmettono messaggi, possiedono una propria identità e talvolta entrano nella memoria, diventando perciò riconoscibili. Con il passare del tempo le persone sviluppano un senso di appartenenza e di agio all’interno dei luoghi. Ad oggi l’EGD è un ambito di studio ancora senza contorni ben definiti e questo fa sì che venga spesso mal compreso dall’opinione pubblica e da designer o architetti che non si occupano direttamente di questa materia. Si tratta di una disciplina in cui convergono professionalità provenienti da campi differenti. L’assenza fino ad oggi di una definizione forte e condivisa è stata probabilmente uno stimolo importante che ha consentito a questa nuova disciplina di attingere da diversi campi progettuali e da diverse competenze per creare progetti funzionali e innovativi che in molti casi hanno cambiato la fisionomia del luogo dell’intervento. Prima di tentare di definire che cosa è l’EGD, con i suoi confini e la sovrapposizione tra le diverse discipline coinvolte, bisogna precisare bene che cosa esso non è, in modo da chiarire i molti fraintendimenti a riguardo. Parlando di EGD, spesso e volentieri la parola “environmental” di per sé crea confusione. In quest’ambito con l’aggettivo environmental non si intende genericamente sostenibilità. Si può infatti facilmente ed erroneamente intendere una comu-

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nicazione visiva esclusivamente orientata a promuovere tematiche per la sostenibilità ambientale, sensibilizzando l’opinione pubblica. Onde evitare equivoci semantici, riteniamo opportuno ricordare che il termine environment è stato definito dal dizionario Oxford come “il mondo naturale, nel suo insieme o in una determinata area geografica, affetta dall’attività umana.” Il termine in questione è stato usato per distinguere tale disciplina dal Graphic Design “tradizionale”, che si focalizza prevalentemente su un medium bidimensionale. La differenza in questo caso è che l’EGD usa come supporto non solo lo spazio bidimensionale ma anche quello tridimensionale, intendendo così quartieri, strade, edifici, interni e spazi comuni. Conseguentemente, tutti i progetti che gli appartengono devono essere pensati, progettati e realizzati per essere fruiti e compresi nelle tre dimensioni di un ambiente fisico. L’aggettivo environmental porta con sé anche altri fraintendimenti. Molte sono le discipline che si occupano della progettazione dell’ambiente, dalla progettazione paesaggistica a quella delle infrastrutture. La prima si occupa della progettazione di parchi e di giardini e in generale del miglioramento degli spazi aperti. La seconda si concentra su modifiche fisiche e sostanziali dell’ambiente, quali infrastrutture, dighe, ponti, e la loro denominazione in inglese è Environmental Engineering, tradotta fedelmente in italiano con Ingegneria Ambientale. Il termine environmental o ambientale può trarre ancora una volta in inganno, anche se in questo caso è più difficile confondersi. Per esempio un parco creato a forma di quadrifoglio visto dall’alto, non può essere considerato un caso di EGD. Un ultimo fondamentale fraintendimento riguarda la relazione che intercorre tra questa disciplina e il wayfinding. È corretto dire che il wayfinding è Environmental Graphic Design, ma è riduttivo dire che l’EGD è solo wayfinding. Questo equivarrebbe a dire che il wayfinding è segnaletica: sì, la segnaletica è parte consistente del wayfinding ma non lo completa e non ne esaurisce le funzioni, si può affermare che “wayfinding is not signage” (Muhlhausen, 2006). Fig. 1 L’EGD utilizza il wayfinding, che è una delle discipline portanti all’interno dei progetti, ma non può essere esclusivamente identificato con esso, poiché non è l’unico ambito trattato. Il wayfinding copre la necessità di creare un sistema di orientamento efficace e coerente e questo è il suo ruolo all’interno dell’EGD.

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EGD WAYFINDING SIGNAGE

Fig. 1

DEFINIZIONE Per capire meglio che cosa s’intende con questa disciplina partiamo prima di tutto fornendo una traduzione in italiano di Environmental Graphic Design che letteralmente significa Disegno Grafico Ambientale. Tuttavia con questa sola traduzione non è possibile avere una definizione esaustiva. L’EGD fondamentalmente è la comunicazione portata in un contesto tridimensionale, in tutti gli spazi del nostro ambiente costruito, nelle nostre città. La definizione inglese ufficiale fornita da SEGD è la seguente: “Environmental Graphic Design embraces many design disciplines including graphic, architectural, interior, landscape, and industrial design, all concerned with the visual aspects of wayfinding, communicating identity and information, and shaping the idea of place. Some common examples of work by EGD practitioners include wayfinding systems, architectural graphics, signage, exhibit design, identity graphics, dynamic environments, civic design, pictogram design, retail and store design, mapping, and themed environments.” 1


In sintesi: EGD è un campo progettuale multidisciplinare, i cui professionisti si interessano dei sistemi di orientamento, dell’identità dei luoghi e si preoccupano di creare il senso di un luogo. Essi raccontano storie, spiegano dei percorsi, comunicano messaggi, identità e informazioni tramite l’ambiente costruito. Quello che cercano di ottenere è prendere delle informazioni, anche complesse, e renderle semplici per la comprensione da parte degli utenti, operando in un ambiente tridimensionale, quello in cui viviamo: le città con le loro infrastrutture e i loro edifici. L’ambiente risultante dovrà essere funzionale alle esigenze del soggetto, leggibile e piacevole, portatore di messaggi, informazioni e valori.

I COMPONENTI L’EGD è una disciplina che per la creazione di un progetto utilizza e coordina diverse competenze professionali, facendole collaborare per risolvere problemi in contesti complessi. Questesono: Graphic Design Architettura Eco-Design Landscape Architecture Il loro incontro fa scaturire una collaborazione interessante che porta all’applicazione dei linguaggi e dei principi della grafica in un contesto diverso dal solito, quello architettonico. Graphic Design è la creazione dei prodotti di comunicazione visiva, intesi per essere stampati, pubblicati o trasmessi tramite i media elettronici allo scopo di comunicare un messaggio nel modo più semplice ed efficace, tramite testo e immagini. Contemporaneamente l’Architettura, che pure ha un linguaggio comunicativo, si avvale di altre competenze più specifiche per aumentare la propria efficacia e migliorare l’esperienza che i soggetti avranno nell’usufruire di quegli spazi. Con Eco-Design intendiamo la progettazione di un prodotto nel rispetto dell’ambiente in cui viviamo. L’obiettivo è l’eliminazione o la riduzione degli effetti negativi sull’ambiente nella produzione industriale, attraverso una progettazione consapevole e attenta alle tematiche ambientali. Soprattutto nella realtà di oggi, Eco-Design dovrebbe essere si-

nonimo di Industrial Design. “La classificazione che per lungo tempo ha differenziato il design dall’eco-design non ha più significato” (Tamborrini, 2009). E in un’intervista fatta da Pamela Pelatelli, Paolo Tamborrini sostiene: “Oggi la sostenibilità è un elemento imprescindibile del design, un pre-requisito”. Il progettista dell’Eco-Design deve operare in modo da dare una risposta alle problematiche ambientali, ponendo l’uomo al centro del progetto. Infine, con Landscape Design si intende la progettazione paesaggistica che si occupa della pianificazione e organizzazione del paesaggio di una qualsiasi proprietà e anche della progettazione specifica dei parchi e degli elementi paesaggistici e delle piante al suo interno. Fanno parte della progettazione paesaggistica l’orticoltura, l’estetica e la sostenibilità ambientale.

AREE DELL’EGD È ormai assodato che l’EGD è l’incontro di diverse discipline, un’intersezione di competenze che non lavorano mai separatamente ma collaborano per creare un risultato ottimale. C’è bisogno di ogni singola disciplina in questione, per il contributo unico che porta e c’è bisogno che ognuna di esse lavori in associazione con le altre. Non ci sembra opportuno pensare a un progetto di EGD portato a termine esclusivamente o da un architetto o da un designer grafico, in quanto le loro competenze, per quanto preziose singolarmente, hanno bisogno l’una dell’altra. All’interno di EGD possiamo individuare tre aree tematiche, ognuna con un proprio obiettivo e diverse competenze operanti per rappresentare il fine ultimo perseguito:

1 - “Environmental Graphic Design racchiude diverse discipline progettuali quali: Design Grafico, Disegno Industriale, Architettura, Design di Interni, Landscape Design, tutte impegnate negli aspetti visuali del wayfinding, di comunicare identità e informazione e di dare forma all’idea di luogo.

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Alcuni esempi di lavori da parte di professionisti nel campo dell’EGD includono sistemi di wayfinding, grafiche architettoniche, segnaletica, exhibit design, identità grafica, ambienti dinamici, civic design, pittogrammi, retail design, e ambienti a tema”.


WAYFINDING – orienta le persone all’interno di un luogo e le aiuta negli spostamenti; INTERPRETATION – racconta una storia del luogo; PLACEMAKING – crea un’immagine distinta del luogo, la sua identità. Fig. 2 Ciascuna delle discipline di cui abbiamo parlato farà riferimento a una o più di queste aree, sono infatti, teoricamente, tre aree con tre missioni ben distinte ma la loro influenza è sempre sovrapposta. Quando si cercherà di risolvere un problema di orientamento, si costruirà un sistema che sarà identitario, oppure funzionale a trasmettere delle informazioni, o ci si troverà davanti a progetti dove sarà necessario un intervento che interessi tutte e tre le aree.

Wayfinding

progetto che si sta sviluppando. Normalmente è molto più focalizzato sulla creazione del brand e dell’immagine coordinata, rispetto alla comunicazione e alle informazioni. Si sviluppa attraverso la commistione del lavoro di architetti, industrial designers, grafici e così via. Ovviamente non può stare da solo altrimenti sarebbe un puro esercizio di stile, ma deve essere unito all’interpretation ed al wayfinding.

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I sistemi wayfinding comunicano un luogo, cioè a cosa esso è destinato, e danno informazioni direzionali al soggetto. La segnaletica, componente principale del wayfinding, permette di identificare un sito specifico, e quando usato come parte di un programma di wayfinding più ampio, aiuta le persone a orientarsi e a muoversi in un ambiente complesso.

Interpretation

ING N

Il placemaking o identity ha un approccio molto più concettuale, serve a definire un’immagine distintiva e a dare un’identità al

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EM AC PL

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Placemaking

WAYFINDING

INT

L’area chiamata Interpretation racconta una storia, o comunica un’idea o un tema. Più spesso viene però riconosciuta come exhibit design, e include anche progetti come luoghi storici o riconoscimenti d’onore. Trovandosi spesso in un luogo sotto forma di mostra, queste “informazioni interpretative” vengono espresse dal luogo stesso in cui si trovano, da manufatti fisici, da audiovisivi e mezzi di comunicazione interattivi, da immagini statiche e da grafiche in generale. Tali comunicazioni possono essere temporanee o permanenti, come anche interne o esterne. Talvolta i luoghi dove si trovano diventano delle vere e proprie mete turistiche, rivestendo quindi anche un ruolo di placemaking. Infine, queste informazioni s’intersecano anche con la segnaletica, in quanto anche loro sono espresse sotto forma di testi e immagini.

Fig. 2


Introduzione Quante volte ci sarà capitato di perdersi in una città sconosciuta oppure di non arrivare in tempo ad un appuntamento importante in un quartiere o edificio che non conoscevamo? Ci chiediamo perché sia così difficile trovare la propria strada, nonostante le indicazioni siano proprio davanti a noi. Seguiamo le indicazioni, ma mancano ancora importanti segnali direzionali. Diventiamo estremamente stressati e irritati con noi stessi e con lo spazio in cui ci muoviamo. Per oltre quaranta anni, il termine wayfinding è stato usato per descrivere l’atto di un individuo di spostarsi con successo e facilità lungo un percorso o attraverso lo spazio da un punto a un altro utilizzando informazioni per determinare la sua posizione corrente, la destinazione e i percorsi o le tappe per raggiungere la destinazione. Anche se il termine è nuovo, rappresenta un vecchio concetto che coinvolge orientamento spaziale, mappe cognitive e processi decisionali (la decisione di esecuzione e di elaborazione delle informazioni). Senza questi elementi, è difficile che un individuo possa muoversi in un ambiente, e questo causa spesso stress, ansia e talvolta terrore. Molte persone soffrono di vere e proprie malattie come claustrofobia e agorafobia.

La prima è sicuramente una delle fobie più diffuse. Essa è la paura di luoghi chiusi o troppo affollati, come ascensori, gallerie, cinema, metropolitane… Le persone che soffrono di claustrofobia manifestano malessere, sensazione di soffocamento, oppressione, e hanno l'impressione di essere rinchiusi o imprigionati ogni qual volta sono esposti alla situazione fobica. L’oggetto dell’agorafobia invece può riguardare l’uscire di casa, l’entrare nei luoghi pubblici, il viaggiare da soli nei bus, nei treni o negli aerei; gli attacchi di panico possono riguardare la paura di avere un collasso o di essere lasciati senza aiuto in pubblico, oppure derivare dalla mancanza di un'uscita di sicurezza immediata, che è una delle caratteristiche chiave delle situazioni agorafobiche. Ma chi c’è dietro ai sistemi wayfinding? In passato ci siamo affidati unicamente agli architetti. Oggi, molti campi giocano un proprio ruolo in questo campo multidisciplinare. Essi sono: graphic design, architettura, architettura del paesaggio e urbanistica. Alcuni campi sono consapevoli del loro impatto sul wayfinding, mentre altri non lo sono, e nessun campo del design lo sostiene pienamente come propria disciplina.

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Storia dell’orientamento spaziale Il termine orientamento spaziale, simile al termine wayfinding, è apparso nella letteratura neuropsicologica oltre un secolo fa. Esso si riferisce alla capacità di una persona a determinare la propria posizione in uno spazio e il modo per raggiungere una certa destinazione. La prima parte di tale definizione - la capacità di determinare la propria posizione all'interno di uno spazio - è considerata di natura statica e sottolinea le rappresentazioni mentali o le mappe cognitive. La seconda parte - la capacità di determinare come raggiungere una destinazione - è dinamica e sottolinea le azioni o i comportamenti che permettono di raggiungere l’obiettivo. Un individuo si sentirà perso o disorientato se è privato anche solo di una delle due parti. Studi neuropsicologici hanno esaminato pazienti che non erano in grado di costruire mappe cognitive di base o immagini mentali di strutture con conseguente incapacità di determinare le posizioni all'interno dello spazio. Sebbene questi studi abbiano esaminato diverse patologie, chiunque, anche senza essere malato, può avere difficoltà a formare delle mappe cognitive, ovvero una raffigurazione mentale, in continuo aggiornamento, con cui un individuo è in grado di acquisire, codificare, memorizzare, ricordare, e decodificare informazioni relative all’ambiente circostante. Gli ambienti possono essere naturalmente complessi, e lo diventano ancora di più quando interviene l'uomo. Nei labirinti, per esempio, che sono spesso artificiali e si riferiscono ad accordi confusamente intricati o combinazioni di percorsi o passaggi, strade e edifici, è difficile trovare la propria strada. I labirinti confondono, poiché i loro elementi sembrano identici e non forniscono alcun punto di riferimento sul dove ci si trovi all'interno dello spazio complessivo. Per questo motivo, è difficile farsi un’immagine mentale dello spazio. A seconda dell’individuo e del contesto, il termine labirinto può avere una connotazione positiva o negativa. Per alcuni, infatti, denota un sistema complesso e tortuoso di elementi come strade e edifici. Per altri è un'esperienza mistificatoria e divertente. La gente va attraverso i labirinti per il divertimento e il finale a sorpresa. Tuttavia, dobbiamo sapere che in questa situazione le persone sono molto consapevoli del fatto che non sono in pericolo e sono in completo controllo della loro esperienza. Un altro esempio possiamo vederlo nel Feuerwehrhaus dell’architetto Zaha Hadid del 1993. Si tratta di un padiglione nei pressi di Basilea con una forte ca-

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rica emotiva, volumi stretti ed obliqui, pareti e infissi con inclinazioni inaspettate. Zaha Hadid, malgrado alcuni aspetti poco funzionali, è riuscita nel suo intento di sconvolgere lo spazio in tutte le sue dimensioni e ha lasciato un’opera considerata tra le più significative del Decostruttivismo.

In alto: Feuerwehrhaus, Zaha Hadid , 1993 Nella pagina a destra: This way please, Wang Shaoqiang , 2009


dell’utente nell’ambiente, che risulta essergli funzionale, e che gli trasmette quindi fiducia nelle azioni che esso deve fare.

Definizione di Wayfinding

Storia del Wayfinding Nel libro “The Image of a City” (1960), l’urbanista e architetto statunitense Kevin Lynch ha coniato il termine "wayfinding" definendolo come "l'uso costante e l'organizzazione di precise indicazioni sensoriali provenienti dall'ambiente esterno." Gli studi neuropsicologici hanno esaminato le capacità degli individui di creare mappe cognitive. Lynch ha studiato come il design e l'architettura urbana creano punti di riferimento per aiutare a formare le mappe cognitive. Questi spunti possono essere sensazioni visive di colore, forma, movimento e luce o altri sensi come l'olfatto, il suono e il tatto. Questi segnali sono elementi che aiutano le persone a riconoscere, conoscere e schematizzare ciò che li circonda. Lynch continua dicendo che progettare un ambiente in modo che sia facilmente riconoscibile dà un senso di soddisfazione agli attori del progetto. Questa soddisfazione porta verso una positiva interazione sociale e un senso di sicurezza per l’utente finale. Per integrazione sociale si intende un comportamento corretto

Lynch scrisse il suo libro oltre quarant'anni fa. Oggi, il termine è diventato più semplice e comprensibile. Wayfinding è l’atto di un individuo di muoversi senza stress e con successo lungo un percorso o attraverso lo spazio da un punto a un altro utilizzando informazioni per determinare la sua posizione corrente, la destinazione e i percorsi per raggiungere la destinazione. Secondo James R. Akerman, questo richiede tre questioni fondamentali: Dove sono? Dove voglio andare? Come faccio ad arrivarci? 1. Dove sono, indica la nostra posizione attuale in relazione al più ampio spazio in cui vogliamo spostarci; 2. Dove voglio andare, indica la nostra destinazione e dove essa è rispetto alla nostra posizione attuale; 3. Come ci si arriva, indica quale strada possiamo o dobbiamo prendere a seconda dei nostri interessi e capacità di orientamento, che ci permettono di raggiungere la destinazione con successo. Un individuo può essere interessato a scegliere non soltanto la destinazione, ma anche un particolare mezzo, una tempistica precisa, e inoltre può possedere differenti abilità di orientarsi, in base alle proprie esperienze precedenti. Romedi Passini e Paul Arthur definiscono il wayfinding come risposta al problema spaziale composta dal processo decisionale, dalla decisione esecutiva e dal processo d’informazione. Il processo decisionale è quando una persona fa un piano d'azione prima dell'esecuzione. Nel cammino di ogni persona ci sono punti di decisione. Questi sono punti dove la persona deve prendere una decisione e scegliere la direzione che saprà meglio condurla verso una destinazione. In questi punti, le informazioni devono essere disponibili per aiutare un individuo a formare un piano d'azione e scegliere il percorso più efficiente. Questo processo in natura è statico. La scelta tuttavia non si riduce al singolo percorso, ma tiene conto anche della scelta del mezzo, del tempo e della destinazione, che cambiano in base alle diverse circostanze. Per esempio, eseguendo lo stesso percorso ogni giorno, la decisione si sposta sul mezzo: se piove prenderemo un mezzo pubblico piuttosto che la bicicletta.

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L'esecuzione della decisione, di natura dinamica, accade dopo che l’individuo elabora le informazioni fornite e sviluppa la decisione di fare un piano d'azione. L'individuo esegue spostandosi in avanti lungo il percorso scelto, con i mezzi e nei tempi stabiliti. L’elaborazione delle informazioni è costituita della percezione e dalla cognizione dell'ambiente. Ciò avviene durante tutto il processo decisionale e dell'esecuzione della decisione, agendo in qualità di informazioni di base. Questa è la fase in cui la mappatura cognitiva aiuta a informare una persona della sua prossima mossa, che a sua volta, gli permette di continuare il viaggio verso una destinazione. Talvolta serve anche a correggere o sostituire la mossa precedente se la fase attuale non si rivela come prevista.

Leggere e valutare il contesto ambientale e cercare di capire le caratteristiche spaziali dei luoghi può aiutare un individuo a determinare logicamente il percorso migliore verso la propria destinazione. Segni, mappe e altri indicatori contenenti informazioni aiutano a guidare gli individui. Quando un individuo si perde, il primo obiettivo del wayfinding è fargli trovare la propria posizione. Una volta che un individuo diventa consapevole della sua posizione, ci possono essere più percorsi disponibili. Il passo successivo per l’individuo è quello di valutare le diverse opzioni. Elementi come il tempo, gli interessi e la sicurezza portano l'individuo a scegliere la strada migliore. Il wayfinding è un problema continuo. Un viaggiatore può sviluppare un piano iniziale sulla base delle sue conoscenze prima di iniziare un viaggio. Tuttavia, all'inizio di un percorso, non tutte le informazioni necessarie sono sempre disponibili per sviluppare un piano d’azione completo. Se le informazioni mancano durante il viaggio, il viaggiatore utilizzerà una pianificazione lungo il percorso per completare il suo progetto d’azione. Il tempo dedicato alla pianificazione iniziale dipende dalle preferenze degli individui e dalla loro conoscenza del luogo. P. Mollerup, un designer danese, offre altre strategie di wayfinding nel suo libro “Wayshowing”(2005). Queste strategie vengono utilizzate mentre una persona pianifica o esegue un viaggio. Mollerup descrive due tipi di strategie: la ricerca intelligente e la ricerca casuale. La ricerca intelligente è definita come un principio razionale per la ricerca, la decisione e il movimento. La ricerca casuale è descritta come il processo di una persona che cerca di trovare la propria strada, senza un ragionamento logico. Questo approccio viene adottato quando una persona ha perso la propria strada e non ha più idea di dove si trova.

Wayfinding: metodi e strategie La mappatura cognitiva è solo un metodo per risolvere i problemi di wayfinding. Prima le esperienze guidano anche le azioni delle persone. Quando gli individui sono persi, spesso cercano elementi spaziali familiari per aiutarli a dirigersi.

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Fotografia scattata da Kevin Lynch durante uno studio condotto a Boston


L’importanza del Wayfinding: qualitativo e quantitativo Una volta definito il termine, vorremmo ora prendere un po’ di tempo per discutere l'importanza del wayfinding. Romedi Passini e Paul Arthur descrivono il perdersi come qualcosa che sentiamo di poter sopportare, e lo paragona all’essere bloccati nel traffico, respirando emissioni nocive e condividendo le strade con gli ubriachi e i marciapiedi con i rapinatori. Poiché perdersi non è considerato come essere in pericolo di vita, questo problema è stato declassato come relativamente poco importante nella società odierna. Le emozioni della gente, quando si è persi, seguono un determinato modello. In un primo momento, una persona pensa di aver fatto qualcosa di sbagliato e incolpa se stesso. Poi dentro di sé avverte frustrazione, ansia e in casi estremi paura. Una persona può temere di perdere un appuntamento importante; in alcuni casi, può temere per il suo benessere, se si perde in una zona che ha associazioni negative, può temere di essere aggredita. Anche se questi timori sono razionali o irrazionali, ci toccano ancora. Se si scopre che perdersi non è colpa del viaggiatore, ma della struttura dell'ambiente e delle informazioni disponibili, esso può sentire risentimento e provare rabbia verso i progettisti. È difficile capire perché qualcosa di così apparentemente semplice sia così difficile. Molte volte, ci interroghiamo se non sarebbe più facile trovare la nostra strada senza alcun aiuto in quanto i sistemi di orientamento sono progettati male. Eppure, dopo innumerevoli volte in cui ci siamo persi, proviamo ancora una fiducia innata in questi sistemi. Crediamo che i progettisti ci forniranno le informazioni corrette per condurci alla nostra destinazione sani e salvi. Tuttavia, molti sistemi sono ancora mal eseguiti. Prevenire sentimenti quali frustrazione, ansia, rabbia e paura sono aspetti qualitativi che mostrano l'importanza del wayfinding. Al fine di ottenere un maggiore riconoscimento, dobbiamo discuterne anche gli aspetti quantitativi. Immaginiamo di trovarci in una stazione ferroviaria e di non trovare subito e tabelloni delle partenze e degli arrivi. Le informazioni più importanti non sono state collocate nei punti strategici della stazione, ciò quindi ci comporta una notevole perdita di

tempo, che è un aspetto quantitativo del wayfinding. L’accessibilità individua un altro importante aspetto. Parlando di accessibilità ci riferiamo spesso alla popolazione portatrice di handicap, ma essa è anche importante per tutti gli altri. Molte strutture architettoniche sostengono di essere accessibili ai disabili. Esse hanno creato percorsi alternativi per le persone in sedia a rotelle che includono rampe e ascensori. Eppure, questi percorsi non sono sempre accessibili. Le rampe possono essere troppo ripide, i pulsanti dell'ascensore troppo alti e gli spazi troppo stretti. Queste sono tutte caratteristiche da considerare in un sistema di orientamento. Il wayfinding deve esaminare le caratteristiche per le persone con problemi di udito, vista e mobilità. Per i non-portatori di handicap, l'accessibilità si riferisce a barriere psicologiche piuttosto che fisiche. Un quartiere può sembrare inaccessibile, perché il crimine dilaga. Questo crea paura di perdersi e di essere rapinati. Le informazioni di sicurezza e delle uscite di emergenza hanno una notevole importanza nei sistemi di wayfinding. Le indicazioni per le uscite di emergenza devono essere prominenti e facilmente leggibili. Esse devono essere collocate in tutto l'edificio, indirizzate verso tutti i possibili percorsi di emergenza. Una persona dovrebbe essere in grado di scegliere facilmente il percorso migliore da seguire. La segnaletica di emergenza deve essere immediatamente riconoscibile. Negli Stati Uniti, il colore principale del segno per l’uscita di emergenza è il rosso, e i segni sono posti sopra la testa. In alcuni paesi europei, il colore principale è invece il verde. In Europa si è scoperta l'importanza di porre questi segni bassi, vicini a terra, perché in caso d’incendio, il fumo sale, coprendo i segni in cima, rendendo così difficile per gli individui vederli e seguili.

Il Wayfinding utopico Gli ambienti complessi sono sempre esistiti, ma perché i sistemi di wayfinding non sono stati perfezionati? Le persone si stanno ancora perdendo ogni giorno. In un certo senso, i grandi sistemi sono considerati come utopistici. La gente ha cominciato ad accettare che tali sistemi avranno sempre problemi. È frustrante sentirsi persi, ma l'atteggiamento suggerisce che bisogna sopportarlo. Ma fino a che punto? Fino a quando ci troveremo in un ambiente meglio progettato,

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dove, malgrado la non conoscenza del luogo, sapremo orientarci senza difficoltà. La gente può immaginare condizioni ideali di wayfinding, ma è alquanto irrealistico credere che possa essere perfezionato con tale complessità. Al fine di lottare per "la perfezione", dobbiamo prima capire i problemi che esistono nei sistemi attuali.

Problemi del Wayfinding

In passato, questa materia interdisciplinare non completamente riconosciuta dai vari settori del design è stata considerata un settore specializzato all’interno dell’EGD. I graphic designer sono stati assunti per creare di espressione e di composizione visiva, piuttosto che informazioni. Il loro ruolo è stato quello di rendere le cose "di bell'aspetto". Tuttavia, "il bell’aspetto" da solo non aiuta gli individui a raggiungere le loro destinazioni. Le informazioni devono essere l'elemento dominante nel settore della segnaletica. Essa deve essere considerata come un sistema globale, piuttosto che come singoli segni. Il posizionamento è fondamentale. I segni devono avere una distanza sufficiente tra di loro affinché non diventino eccessivi, a questo punto l'informazione è trascurata, inoltre non possono essere troppo distanti. Oggi, molti designer coinvolti hanno una profonda comprensione degli elementi necessari per sviluppare sistemi di successo. Purtroppo, essi sono ancora richiesti per creare la segnaletica dopo che architetti e progettisti hanno già posto le fondamenta per il sistema. I designer non possono creare sistemi perfetti di wayfinding da soli, e poiché essi non vengono inclusi nelle fasi iniziali di questo processo, i loro sistemi potrebbero non riuscire completamente. All'interno di un campo interdisciplinare, deve esserci collaborazione. Sarebbe impossibile sviluppare un buon sistema senza qualche collaborazione, ciò significa cooperare volontariamente, lavorare insieme e adattarsi. Quando i professionisti sono fisicamente distanti tra loro, si creano barriere. Una piena collaborazione significa dunque che tutte le professioni sono introdotte nel progetto durante la fase iniziale e restano insieme durante l'intero processo.

A sinistra: Storeagen Atrium, Norvegia, 2010, Ralson and Bau

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\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\In alto: Metropolitana di Parigi ,H. Guimard

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DAGLI INIZI DEL ‘900 AD OGGI La vera origine dell’EGD, così come lo conosciamo oggi, risale agli inizi del Novecento. Era un’epoca di grandi cambiamenti e molti Paesi stavano ancora sperimentando le conseguenze dirette della rivoluzione industriale avvenuta nel secolo precedente. Era un periodo di grandi innovazioni tecnologiche che avrebbero in seguito rivoluzionato il XX secolo. Nel 1900, molte nuove automobili furono lanciate sul mercato, ricordiamo il Modello T della Ford (1908), che cambiò radicalmente il modo in cui le persone si muovevano. L’automobile smise di essere un articolo di lusso e divenne accessibile a molte famiglie borghesi. Il risultato fu che le strade si popolarono con automobili, e si crearono quindi migliori infrastrutture e la conseguente esigenza di direzionare il flusso dei mezzi. Accadde anche che in molte grandi città si potenziarono i mezzi pubblici e si cominciarono a costruire linee di metropolitana imitando la “Tube” di Londra, città che inaugurò la prima linea ufficiale nel 1863. L’Esposizione Universale di Parigi fu importante per diversi motivi, uno di questi è che l’esposizione promosse l’Art Nouveau come nuovo movimento di design. Un altro caso fu sicuramente uno dei segni della metropolitana di Parigi. Nel 1899 Hector Guimard disegnò per l’inaugurazione della metropolitana parigina ciò che sarebbe diventato uno dei simboli di Parigi: il carattere tipografico della scritta “Métropolitain” che campeggia sulle edicole in stile Art Nouveau delle entrate della Métro. Anch’esse furono disegnate da Guimard, e nonostante molte siano andate perdute, sostituite da segnali più moderni, hanno compiuto la loro missione di diventare dei punti di riferimento (landmark) nello scenario cittadino e soprattutto furono un primo importante esempio d’integrazione tra il linguaggio grafico

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e l’architettura della struttura. Un altro notevole esempio è la City Hall, una delle stazioni abbandonate delle prime linee metropolitane di New York City, aperta proprio con l’inizio del servizio nel 1904 e rimasta in funzione fino al 1945. Essa è sempre stata un fiore all’occhiello della rete e un gioiello nascosto nel sottosuolo. Ancora oggi si può ammirare nella sua originale struttura a volte in mattoni con vetrate che permettono alla luce di filtrare nel sottosuolo e dove persistono i segnali originali creati nel muro da mosaici e ceramiche. Di questi segnali con il nome della fermata è facile imbattersi nelle stazioni in disuso lungo la rete, meno pregiate architettonicamente della fermata di City Hall, ma sempre impreziosite da questi mosaici. Al termine della seconda guerra mondiale seguirono anni di ricostruzione, di rinata speranza, di ripresa, e infine di boom economico, che permisero la crescita dei commerci e dei consumi. Durante questi anni design e architettura si sono ulteriormente avvicinati e incontrati. L’aumento in dimensione e in complessità degli spazi architettonici dedicati al commercio e ai trasporti richiedeva maggiore attenzione sotto il punto di vista dei sistemi di orientamento e segnaletica. A partire dal 1920, Herbert Bayer trasferì le sue ideologie di design ad altri designer della generazione successiva, che ne rimasero molto impressionati. Nel 1960, Robert Venturi, un precursore dell’architettura postmoderna, sviluppò una serie di progetti di grafica integrata e di parole sugli edifici. Dagli anni Sessanta in poi, una seconda generazione di designer riconobbe la necessità di migliorare i segni grafici degli edifici. Con questi sviluppi, come i sistemi di trasporto, il miglioramento delle strade, la necessità della grafica divenne molto sentita. Il sistema di segnaletica direzionale divenne essenziale per gli spazi architettonici, specie quando i visitatori riscontravano problemi nel localizzare i luoghi per conto proprio. Le persone in movimento hanno bisogno degli elementi visivi per trovare la loro strada facilmente. Molti designers applicarono le loro basi di architettura, disegno industriale, teorie del colore, tipografia, progettazione di simboli e icone per risolvere i problemi comunicativi che si trovavano attorno e per dare un’unica veste agli edifici e all’ambiente stesso. Alcuni architetti post-modernisti più radicali fondarono un movimento con connotazioni artistiche e architettoniche che prese il nome di Supergraphics. Come suggerisce il nome, si tratta di grafiche su grande scala, prodotto di un concetto altrettanto

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ambizioso: applicare la grafica sia sugli esterni che negli interni di un edificio, con un atto provocatorio che mirava a rimuovere la solidità, la gravità e persino la storia dall’architettura. A quel tempo questo concetto non venne ben visto dal pubblico, che trovò la cosa abbastanza sconcertante. Robert Venturi affermò: “One does not paint on Mies”, ovvero: “Non si dipinge su Mies Van Der Rohe”. Tra gli anni ’70 e ’80 comparvero nuovi termini come Environmental Graphic Design e wayfinding, nomi che usiamo attualmente. Nacque la Society for Environmental Graphic Design (SEGD) e negli Stati Uniti questo campo professionale cominciò a essere finalmente riconosciuto e codificato.

pag. 25 # Attorno al 1975 si assiste a un altro fenomeno, con vesti meno ufficiali, ma che ebbe grande impatto sull’immagine della città. Parliamo della nascita della Street Art Graffiti, che divenne presto popolare per la sua immagine urbana, giocosa e potente, e il suo porsi come cultura di strada. Negli anni Ottanta EGD iniziò ad attecchire anche nel settore aziendale dove i progettisti iniziarono a trasmettere il valore dei


loro marchi anche nell’ambiente. L’attenzione si spostò sugli ambiti aziendali e sugli spazi commerciali, ai quali furono applicati i linguaggi del marchio e si iniziò a tematizzare lo spazio. Successivamente esso si interessò ad ambienti differenti come musei, zoo e parchi con l’obiettivo di migliorare la loro usabilità ambientale e si cominciò quindi a implementare sistemi di segnaletica nuovi e innovativi. In particolare per i musei si studiarono nuove modalità attraverso cui comunicare informazioni e conoscenza. Nel 1984, lo psicologo ambientale e architetto Romedi Passini pubblicò il tomo “Wayfinding in Architecture” in cui apre il concetto di wayfinding alla segnaletica e ad altri tipi di linguaggio grafico funzionali a creare orientamento e leggibilità all’interno dell’ambiente. Creare una grammatica dello spazio, una pianificazione logica nell’uso di esso, una comunicazione comprensibile, l’uso di elementi tattili e materici, sono tutti quanti elementi che entrano in gioco nel processo di design. Nel corso degli anni 1980, le tendenze del modernismo furono furiosamente contestate da parti che sostenevano che il movimento promuoveva una neutralità internazionale di stile a scapito dell’identità culturale regionale. Alcune di queste polemiche entrarono nella grafica ambientale, anche se questo acquistò importanza nel XX secolo. Fino ad oggi, l’importanza dell’EGD è cresciuta con il tempo e le richieste di competenze progettuali in questo campo sono significativamente aumentate e diversi studi professionali hanno iniziato a dedicarsi esclusivamente o quasi ad esso. Anche l’ambiente è diventato sempre più complesso e gli utenti sempre più esigenti. Nell’ultimo decennio lo sviluppo di nuove tecnologie ha consentito grandi cambiamenti riguardo ai linguaggi impiegati e le modalità realizzative. Oggi è possibile realizzare un edificio composto da pareti interamente digitali e animate, o pensare a strutture esclusivamente fatte di vetro, dove all’interno scorrono grafiche delle dimensioni delle facciate intere. Il sempre maggior interesse verso questi temi apre nuovi scenari e nuove possibilità sia per il crescere della complessità dei progetti e della conseguente sofisticazione e articolazione degli spazi e delle loro dinamiche.

negli ultimi 50 anni, ma dove è diretta la sua progettazione? Il futuro dell’EGD è difficile da prevedere, ma è quasi garantito che le imprese dovranno abbracciare una sezione sempre più ampia di esercizi e abilità. Anche con l’aumento del contenuto interattivo, i designer hanno aumentato la sofisticatezza degli spazi sociali. C’è sicuramente uno spostamento verso i materiali sostenibili, così come c’è una maggiore richiesta per il digitale. Sempre più imprese stanno offrendo esperienze di completo esercizio con la segnaletica digitale e il design interattivo per rispondere a questa richiesta.

E DOMANI? Si è visto da dove questo settore sia venuto e come sia cresciuto

\\\\\\\\\\\\\\\In alto: Ford Model T, 1908

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Come esempio riportiamo il progetto sulla segnaletica delle autostrade americane prodotto dallo studio californiano Manual nell’estate 2012 su richiesta di Icon Magazine per la sezione “Rethink”. Il piano è modernizzare e rendere più chiara la segnaletica su cui milioni di utenti ogni giorno fanno affidamento. La parte innovativa del progetto, oltre al rinnovo e alla semplificazione dei singoli segnali stradali, riguarda i cartelli di uscita. Essi infatti emettono un segnale wireless, il quale parla con un’applicazione Smart Phone, elargita gratuitamente dal dipartimento dei trasporti. Appena sorpassato un segnale per un’uscita successiva, l’applicazione mostra stazioni di servizio, attrazioni, alloggi e luoghi di interesse raggiungibili imboccando l’uscita in questione. L’applicazione pubblicizza locali, servizi e tutto ciò che non è direttamente visibile dall’autostrada. Nel futuro ci aspetta quindi un’interazione sempre maggiore tra i vari devices e ciò che ci circonda, e così come il resto del mondo anche l’EGD ne verrà influenzato. In modo molto futuribile, possiamo pensare che un domani vivremo in spazi con cui interagiremo e che potranno modificarsi in base alle nostre esigenze.

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Un esempio che rende quasi realistica questa visione è installazione Hyper-matrix in Korea. Si tratta del padiglione del gruppo Hyundai creato dal team di Jonpasang che ha realizzato un paesaggio verticale cinetico con le facciate interne composte da centinaia di cubi 30x30cm. Simili a dei pixel, queste unità si muovono e creano diverse configurazioni su una base in acciaio, sviluppato per supportare dei motori integrati che controllano ogni singola unità. L’effetto è una sorprendente interazione tra il pubblico e lo spazio circostante, aumentata da effetti sonori.

\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\In alto: Installazione Hypermatrix per Hyundai, Korea, 2012


Per promuovere e sostenere questa nuova disciplina nel 1973 fu costituita SEGD (Society for Environmental Graphic Design), una comunità globale per coloro che lavorano all’intersezione tra il design della comunicazione e l’ambiente costruito. Con sede a Washington DC, SEGD conta più di 1600 membri che lavorano nella pianificazione, progettazione, fabbricazione e implementazione delle comunicazioni nell’ambiente costruito. L’associazione è guidata da un Consiglio di Amministrazione, che crea politiche e programmi di crescita e arricchimento, fornendo risorse educative alla comunità. Un forte rete di Presidenti rappresenta SEGD a livello locale, fornendo un ruolo fondamentale di collegamento tra i membri locali e il Consiglio di Amministrazione. Un diverso staff professionale implementa le iniziative del Consiglio, fornisce membri di supporto e lavora per offrire servizi e risorse per la comunità SEGD. Inoltre, viene posto l’accento sulla progettazione per persone con disabilità. SEGD si interessa a queste problematiche sin dal 1990 ed è coinvolta nella comunità che lavora sull’EGD per applicare direttive dell’ADA (American Disabilities Act).

I risultati di questo lavoro sono numerosi workshops, e un corpo di pubblicazioni e materiali educativi che hanno aiutato professionisti in questo campo a progettare sempre tenendo conto dell’usabilità degli spazi da parte di persone portatrici di handicap.

La missione di SEGD /Promuovere la consapevolezza pubblica della comunità e il suo ruolo nel formare esperienze. /Alimentare la richiesta per un design eccellente all’interno dell’ambiente costruito; /Essere una risorsa di educazione e ispirazione per la comunità; /Continuare a definire e rifinire gli standard di esercizio; /Promuovere ricerche rilevanti e ben informate per aumentare la propria base di conoscenze; /Sponsorizzare programmi di riconoscimento che ispirino eccellenza; /Promuovere la collaborazione tra più discipline nella

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progettazione; Rafforzare i legami con programmi educativi che forniscono le basi accademiche del settore.

Excellence awards Come parte della missione di SEGD per promuovere i migliori esercizi e gli standard etici nell’environmental graphic design, l’annuale SEGD Excellence Awards riconosce gli individui, gli studi e le organizzazioni che – attraverso il loro impegno a porre l’uomo al centro attraverso una progettazione efficace nell’ambiente costruito – aiuta questi esercizi e standard.

Programma dei SEGD global awards Il SEGD Global Design Awards nacque nel 1987 per riconoscere l’eccellenza nell’EGD. Sono gli unici a livello internazionale a focalizzarsi sulla comunicazione nell’ambiente costruito. I progetti vincenti hanno incluso sistemi complessi di wayfinding, lavori di branding e identity, progetti di retail e di interni, design d’esibizione e di esperienza, programmi di segnaletica architetturale e pubbliche istallazioni d’arte.

Segnaletica e pubblicità delgli ultimi SEGD awards

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\\\\\\\\\\\\\\\In alto: New YorkCity, 2012

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IL CONTESTO Analizziamo ora nello specifico le aree in cui solitamente EGD interviene e di cosa effettivamente si occupa. Non è possibile indicare delle categorie fisse per la sua applicazione perché esso interviene un po’ ovunque, soprattutto laddove si riscontra un problema di comunicazione così da migliorarne la qualità. Possiamo però indicare dei luoghi specifici dove è più comune trovare esempi di EGD. Sicuramente è facile trovarlo in tutti gli ambienti costruiti, soprattutto nel contesto urbano, dove ad essere interessati sono le infrastrutture ed edifici di varia natura, adibiti a usi differenti e ubicati in quartieri diversi nella città. La complessità, la frequentazione e l’anonimato dell’ambiente sono fattori che rendono necessaria la sua applicazione. In un ambiente troppo complesso avremo bisogno di informazioni, e più esso è frequentato, più dovrà guidare le persone senza problemi. Lo stesso vale per l’anonimato in quanto, senza forti elementi, è difficile creare relazioni per muoversi nello spazio. Abbiamo a questo punto diviso i luoghi in base all’accesso che permettono e all’uso che se ne fa: luoghi ad uso privato o ristretto, luoghi ad uso pubblico ed infrastrutture.

Luoghi ad uso privato e ristretto Sono ambienti che non garantiscono l’accesso a chiunque, l’afflusso di persone è limitato e soprattutto controllato, e normalmente bisogna appartenere o essere autorizzati a entrare. Sono luoghi strettamente legati alla vita quotidiana e alle abitudini, raramente di dimensioni molto grandi: complessi residenziali, sedi aziendali, uffici e scuole.

Luoghi ad uso pubblico Questi, molto diversi e più complessi da quelli presi in conside-

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razione precedentemente, sono la maggioranza. Essendo aperti a tutti, sono frequentati da molte persone e sono caratterizzati da spazi più ampi e strutture più articolate. In alcuni di questi luoghi, come gli ospedali, l’utente sarà presente in circostanze di forte stress, per questo diventa fondamentale una buona leggibilità dell’ambiente e segnaletica. In altri invece sarà importantissima l’esperienza effettuata nel luogo, la fluidità con cui ci si muove e la comprensione dell’ambiente. Questi sono: ospedali, uffici pubblici, centri commerciali, campus universitari, musei, parchi, complessi fieristici, teatri, cinema multisala, parcheggi e negozi.

ra). – 1. a. In senso ampio, una parte dello spazio, idealmente o materialmente circoscritta; b. In geometria, si definisce l. geometrico, o assol. luogo, un insieme di punti del piano o dello spazio che soddisfano a certe condizioni, che hanno cioè, tutti insieme ed essi soli, una stessa proprietà; [...] 2. a. Parte limitata della superficie terrestre. Per la sua genericità, la parola può essere riferita di volta in volta a vaste regioni del globo o di un continente, a paesi, contrade, città, oppure a zone più ristrette di campagna o dentro centri abitati, e non di rado (con sign. affine a posto, punto) a ristrettissime porzioni di spazio sia all’aperto sia nell’interno di un edificio [...] 3. Parte dello spazio assegnata a persona o cosa.

Infrastrutture

Ambiènte s. m. [dal lat. ambiensentis, part. pres. di ambire «andare intorno, circondare», in origine usato come agg. riferito all’aria o ad altro fluido].– 1. a. Spazio che circonda una cosa o una persona e in cui questa si muove o vive. b. In biologia, l’insieme delle condizioni fisico-chimiche (temperatura, illuminazione, presenza di sali nell’acqua e nel terreno, ecc.) e biologiche (presenza di altri organismi), in cui si può svolgere la vita degli esseri viventi [...] 2. fig. Complesso di condizioni sociali, culturali e morali nel quale una persona si trova e sviluppa la propria personalità, o in cui, più genericam., si trova a vivere.

Queste permettono la connessione di differenti parti della città e devono favorire flussi consistenti di persone. Non sempre questi luoghi sono semplici e lineari, anzi, molto spesso si organizzano in una rete, in questo caso l’obiettivo fondamentale è orientare i flussi. Vengono inclusi nelle infrastrutture: metropolitane, stazioni ferroviarie, aeroporti, percorsi cittadini, pedonali, percorsi ciclabili, strade e autostrade. Fig. 3 Ora che abbiamo chiarito meglio il contesto in cui l’EGD opera è interessante comprendere che parlare di luogo, spazio o ambiente non è esattamente la stessa cosa. Diamo uno sguardo alla definizione che l’Enciclopedia Treccani dà dei lemmi spazio, luogo e ambiente. Spàzio s. m. [dal lat. spatium, forse der. di patere «essere aperto»]. Con valore assoluto, il luogo indefinito e illimitato in cui si pensano contenute tutte le cose materiali, le quali, in quanto hanno un’estensione, ne occupano una parte, e vi assumono una posizione, definita mediante le proprietà relazionali di carattere qualitativo (sempre relative a una certa scala) di vicinanza, lontananza, grandezza, piccolezza, rese quantitative, già nell’antichità classica, dalla geometria, in quanto scienza dei rapporti e delle misure spaziali fondata su una definizione rigorosa dello spazio come estensione tridimensionale; più modernamente, lo spazio è anche considerato come intuizione soggettiva elaborata mediante gli organi di senso (spec. la vista) o è concepito (per es. nella prossemica) come modalità secondo la quale l’individuo, nel suo comportamento sociale, rappresenta e organizza la realtà in cui vive. Luògo (pop. lògo) s. m. [lat. locus] (pl. -ghi; ant. anche le luògo-

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Le voci riportate danno tutte una definizione scientifica dei termini in analisi, che non basta a definirli in modo esaustivo. Bisogna considerare anche il continuo scambio di informazioni tra l’individuo e la realtà circostante. La geometria e la fisica descrivono oggettivamente una realtà, ne danno una definizione esatta e basata su dei sistemi di riferimento, per facilitare tutta una serie di operazioni di misura e descrizione esatta; sono lo strumento del lavoro e del trasporto. Parliamo di dinamiche sociali, dello scambio tra gli individui e la realtà fisica, risalenti a epoche primitive, quando i progenitori dell’uomo hanno caricato di segni e significati gli spazi attorno a loro. Lo spazio, gli ambienti e i luoghi che si creano al suo interno, sono inscindibili dall’interazione delle persone e dai valori sociali e culturali che assumono, e questo li rende entità ben più complesse di quanto si potrebbe presumere e difficili da definire univocamente.

LO SPAZIO La costruzione che abbiamo dello spazio avviene principal-


Fig. 3

mente tramite i nostri organi di senso e fondamentalmente lo percepiamo grazie alla posizione del nostro corpo rispetto agli altri corpi. Lo spazio ci suggerisce anche un’idea di indefinito e sconfinato, e per questo si è cercato di controllarlo e dargli una valenza oggettiva descrivendolo tramite la scienza, in particolare la geometria. Lo spazio geometrico non è sempre visto quanto tale, spesso viene percepito come spazio simbolico ossia ad un luogo vengono date valenze qualitative. Il nostro senso dell’orientamento ad esempio è legato alla pre-

senza di centri (spazi di riferimento per una collettività) che utilizziamo come punti di riferimento e che ci danno sicurezza. Questo argomento ha sempre suscitato molto interesse tra gli studiosi delle più svariate discipline. Euclide ha descritto lo spazio geometrico e ha messo le basi per dei comuni punti di riferimento. Einstein, il quale aveva àgià sconvolto la comunità scientifica e anche il pubblico con le sue scoperte sulla fisica di tempo e spazio, affermò: “Dobbiamo evitare di usare del tutto un’espressione vaga come spazio: di esso, onestamente, dobbiamo ammettere di non aver la benché mini-

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ma idea, e dobbiamo sostituirla con quella di un moto relativo ad un corpo rigido di riferimento”. E soprattutto: “C’è un infinito numero di spazi che sono in movimento gli uni rispetto agli altri”. Mach all’inizio del XX secolo definì spazi visivi, uditivi e tattili che variavano a seconda della sensibilità e dei tempi di reazione delle differenti parti del sistema dei sensi. Molti hanno intuito la difficoltà di descrivere semplicemente lo spazio e la presenza di una sua pluralità, principalmente basata su una molteplicità di percezioni. Georges Perec arriva a non riconoscere uno spazio univoco ma un “mucchio di pezzetti di spazio”. Se ripensiamo alla pluralità di questa entità, dal punto di vista antropologico e linguistico, la visione della realtà è profondamente influenzata dalle abitudini e dal linguaggio. Non è possibile “vedere” lo spazio nello stesso modo di qualcun altro se non usiamo le stesse categorie concettuali. Il modo stesso di vivere e pensare lo spazio varia profondamente anche per ogni gruppo culturale.

IL LUOGO I luoghi sono definiti come unità spaziali emotivamente vissuti. Essi acquistano importanza per i sentimenti, i ricordi e le suggestioni trasmesse al singolo individuo, attraverso modalità personali. Posiamo meglio definirli come sintesi di spazio e tempo, connubio di spazio e azione, sovrapporsi di spazio ed esperienza. Un luogo si crea anche identificandolo, attribuendoli un nome, differenziandolo dagli altri, tramite l’abitudine umana di proiettare su una parte dello spazio il proprio sistema di valori, le proprie abitudini, la propria visione, facendo del luogo un segno di sé nel mondo, unico e personale. Focalizzandoci sull’aspetto identitario dei luoghi parliamo di Genius Loci, termine che esprime lo spirito, il carattere e l’anima di un determinato luogo. Con Genius Loci intendiamo l’atmosfera che respiriamo in un quartiere, i colori delle case, i suoni, gli odori, individuando così le caratteristiche socio-culturali del quadro ambientale, ovvero la sua identità. Secondo Marc Augé, l’identità è una delle caratteristiche proprie di un luogo. Questo etnologo e antropologo francese definisce i luoghi antropologici non solo come identitari, ma anche come relazionali e storici. In contrapposizione ad essi

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Marc Augé introduce i nonluoghi. Di questi fanno parte sia le strutture necessarie per la circolazione accelerata delle persone e dei beni (autostrade, svincoli e aeroporti), sia i mezzi di trasporto, i grandi centri commerciali, i campi profughi, eccetera. Spazi in cui milioni di individualità si incrociano senza entrare in relazione sospinti o dal desiderio frenetico di consumare o di accelerare le operazioni quotidiane o come porta di accesso ad un cambiamento (reale o simbolico). I nonluoghi sono prodotti della società della surmodernità, incapace di integrare in sé i luoghi storici confinandoli e banalizzandoli in posizioni limitate e circoscritte alla stregua di “curiosità” o di “oggetti interessanti”. Simili eppure diversi: le differenze culturali massificate, in ogni centro commerciale possiamo trovare cibo cinese, italiano, messicano e magrebino. Ognuno con un proprio stile e caratteristiche proprie nello spazio assegnato. Senza però contaminazioni e modificazioni prodotte dal nonluogo. Il mondo con tutte le sue diversità è tutto racchiuso lì. I nonluoghi sono incentrati solamente sul presente e sono altamente rappresentativi della nostra epoca, che è caratterizzata dalla precarietà assoluta (non solo nel campo lavorativo), dalla provvisorietà, dal transito e dal passaggio e da un individuali-


smo solitario. Le persone transitano nei nonluoghi ma nessuno vi abita. I luoghi e i nonluoghi sono sempre altamente inter-legati e spesso è difficile distinguerli. Raramente esistono in “forma pura”: non sono semplicemente uno l’opposto dell’altro, ma fra di essi vi è tutta una serie di sfumature. In generale però sono gli spazi dello standard, in cui nulla è lasciato al caso tutto al loro interno è calcolato con precisione il numero di decibel, dei lux, la lunghezza dei percorsi, la frequenza dei luoghi di sosta, il tipo e la quantità di informazione. Sono l’esempio esistente di un luogo in cui si concretizza il sogno della “macchina per abitare”, spazi ergonomici efficienti e con un altissimo livello di comodità tecnologica (porte, illuminazione, acqua automatiche). Nonostante questa omogeneizzazione i nonluoghi solitamente non sono vissuti con noia ma con una valenza positiva (l’esempio di questo successo è il “franchising” ovvero la ripetizione infinita di strutture commerciali simili tra loro). Gli utenti poco si preoccupano del fatto che i centri commerciali siano tutti uguali, godendo della sicurezza prodotta dal poter trovare in qualsiasi angolo del globo la propria catena di ristoranti preferita o la medesima disposizione degli spazi all’interno di un aeroporto. Da qui uno dei paradossi dei nonluoghi: il viaggiatore di pas-

saggio smarrito in un paese sconosciuto si ritrova solamente nell’anonimato delle autostrade, delle stazioni di servizio e degli altri nonluoghi. Il rapporto fra nonluoghi e i suoi abitanti avviene solitamente tramite simboli (parole o voci preregistrate). L’esempio lampante sono i cartelli affissi negli aeroporti vietato fumare oppure non superare la linea bianca davanti agli sportelli. L’individuo nel nonluogo perde tutte le sue caratteristiche e i ruoli personali per continuare ad esistere solo ed esclusivamente come cliente o fruitore. Il suo unico ruolo è quello dell’utente,

\\\\\\\\\\\\\In alto: esempio di nonluogo

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questo ruolo è definito da un contratto più o meno tacito che si firma con l’ingresso nel nonluogo.

L’AMBIENTE Parlando di ambiente è necessario introdurre il termine antropizzazione con cui si intende l’intervento che l’uomo effettua sull’ambiente naturale, con lo scopo di conformarlo, quindi modificarlo e manipolarlo. Oggi non si sente più parlare di ambienti completamente naturali, in quanto in netta minoranza rispetto a quelli completamente modificati. L’uomo da sempre è intervenuto profondamente sull’ambiente, cercando di adattarlo alle proprie esigenze, costituendo un insieme di condizioni sociali, culturali e morali, sviluppando la propria personalità e contribuendo alla società a cui appartiene. La maggior parte degli scenari che ci si presentano, riportano anche un seppur minimo intervento dell’uomo per piegare il territorio e le sue risorse alle proprie necessità e dobbiamo sempre essere consapevoli di tale realtà. Questa è semplicemente un’importante constatazione di una condizione ormai innegabile: l’intervento dell’uomo e dei suoi artefatti è pressoché ovunque e spesso il suo controllo e il suo potere sui cambiamenti dell’ambiente circostante è totale e talvolta scorretto. Ci sono però esempi di progettazione del paesaggio naturalistico, principale occupazione del Landscape Design, o Architettura del paesaggio, che con le sue opere, anche di considerevoli dimensioni, si occupa di usare elementi naturali per creare un sistematico intervento dell’uomo sul paesaggio. Questo include anche la creazione ex-novo di aree verdi, che si potrebbero considerare come delle specie di oasi in mezzo al cemento cittadino, dove l’elemento naturale è accuratamente controllato e ordinato per creare delle piacevoli aree simil-naturali. Si potrebbe citare come esempio la High Line di New York. Era il 2006 quando, dopo anni di mobilitazioni, cominciarono i lavori lungo la Sezione1 della High Line, la vecchia linea ferroviaria sopraelevata, in disuso dal 1980. Molti si opposero alla sua demolizione e condussero il processo di selezione di un team che si occupasse della riqualificazione della struttura. L’idea del giardino sopraelevato è sembrata subito la più interessante e oggi conta 1.6 km di parco. L’inter-relazione tra uomo e ambiente non deve tener conto sol-

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tanto della creazione di paesaggi naturalistici, ma deve operare con una logica sostenibile. Nella fase di progettazione devono necessariamente essere presi in considerazione aspetti di tipo ecologico: lo sfruttamento delle risorse naturali, i consumi energetici, la qualità dell’intero ambiente.


\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\In alto: High Line, NYC

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\\\\\\\\\\In alto: “The Purse”, Bourke st., Melbourne. Esempio di prop

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Una volta approfondito il contesto in cui l’EGD opera, bisogna capire come noi lo percepiamo, come entriamo in contatto con l’ambiente in cui viviamo. Analizzeremo elementi come le mappe mentali, gli elementi di Lynch, i landmark e i props; tutti importantissimi per la percezione di ogni progetto dell’EGD. La nostra percezione dello spazio è tridimensionale (lunghezza, altezza e profondità). Essa è dovuta allo schema rappresentativo esatto che ci siamo fatti dello spazio occupato dalla nostra persona, il punto costante di riferimento tra noi e gli oggetti circostanti. Un oggetto viene percepito in quanto ha una posizione nell’ambiente, ed è orientato verso una direzione rispetto a noi e rispetto ad altri oggetti (destra/sinistra, avanti/indietro, alto/basso). L’oggetto cioè si trova a una certa distanza e ha una certa forma (inoltre può avere un certo movimento, colore ecc.). Percepire lo spazio significa dunque percepire i caratteri geometrici delle cose. Questo fenomeno è particolarmente complesso e merita una notevole attenzione quando si concentra sulla città. L’immagine che noi ci costruiamo è fatta da monumenti, cartelli, insegne, edifici ma non basta perché la sua intera struttura costituisce un messaggio, ci trasmette emozioni, assume per noi una propria identità e quindi ricordi. Tuttavia, l’ambiente costruito deve essere soprattutto funzionale e per questo bisogna che sia progettato per rispondere meglio ai nostri bisogni, tramite segni e messaggi facilmente leggibili e piacevoli da percepire. Ma in che modo percepiamo lo spazio? Sicuramente tramite i cinque sensi, e in modo particolare con la vista, che è senza dubbio il senso più “stressato” dagli stimoli ambientali: raramente infatti udito o olfatto sono il senso predominante, e il tatto presuppone che ci sia già stata un’esplorazione visiva dei dintorni. I ricettori della distanza sono occhi, orecchi, e naso. Essi ci danno una serie di informazioni analizzando uno spettro

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ampio, mentre per percepire l’ambiente più prossimo usiamo la pelle e gli altri organi di tatto. I criteri che utilizziamo per ipotizzare la distanza delle cose che ci circondano sono: grandezza familiare: la dimensione di un oggetto, che appartiene ad una classe di oggetti che ci sono familiari, fornisce, sulla base dell’esperienza passata, un indice della sua distanza (per esempio quando vediamo da lontano un’auto, la percepiamo non come una miniatura o più piccola del solito, ma come un’auto normale “a distanza”); interposizione: se l’immagine di un oggetto copre parzialmente l’immagine di un altro, il primo viene percepito più vicino del secondo; prospettiva lineare: grazie all’esperienza percepiamo come più distanti gli oggetti il cui angolo visivo è più piccolo (per esempio in un viale gli ultimi alberi rispetto ai primi); prospettiva aerea: un oggetto, la cui superficie non viene percepita con precisione di dettagli, viene collocato a una distanza maggiore; luce, ombra e colore: una diversa intensità luminosa degli oggetti ci fornisce degli indici di distanza. La percezione spaziale comprende non solo tutto ciò che è percepito, ma anche quello che viene escluso: le informazioni scartate. Questi schemi, una volta che si stabiliscono, rimangono praticamente inalterati per il resto della vita, e sono condizionati in primo luogo da fattori culturali che creano un condizionamento durante l’infanzia. Persone che crescono in ambiti diversi, apprendono da bambini a scartare certi tipi di informazioni, senza averne poi in seguito la coscienza di farlo, e a volgere la loro attenzione verso altro. In generale l’attenzione alle esperienze tattili, visive e cinestetiche che uno spazio propone può radicalmente cambiare il modo in cui uno spazio è vissuto, usato e percepito, a partire dai materiali usati, fino alla disposizione interna alle stanza del mobilio e influenzano profondamente come l’ambiente viene immediatamente percepito e vissuto. Un altro aspetto importante, specialmente da parte di architetti e designer, è lo spazio cinestetico. Una migliore organizzazione degli spazi, interni ed esterni, agevola il movimento delle persone: la libertà e la quantità di movimento che sono permesse in un luogo influenzano in maniera direttamente proporzionale la modalità e il giudizio con cui il luogo viene subito percepito. Pertanto, il nostro rapporto con l’ambiente circostante, la città,

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o il nostro habitat dipende dall’apparato sensoriale e dal condizionamento del nostro modo di reagire.

MAPPE MENTALI Se analizziamo il modo in cui ci muoviamo nell’ambiente ci rendiamo conto di come abbiamo percorso alcuni itinerari ripetutamente e che durante questi spostamenti ricordiamo e interiorizziamo alcuni elementi del tragitto (non necessariamente percorso a piedi), per farne uso in un momento successivo. Lo scopo della creazione nella propria mente di una configurazione ambientale è quello di imparare la strada per poi ripercorrerla in seguito, applicando le strategie di cui siamo in possesso. L’insieme dei luoghi della vita di ogni giorno si organizza in una sorta di cartina mentale, di zone più o meno familiari dell’ambiente, dove sono presenti diversi elementi, che fanno riferimento sia a informazioni obiettive sia a valutazioni che creano una rappresentazione più emotiva e personale dell’ambiente. Il termine mappa mentale o cognitive mapping venne introdotto e definito per la prima volta nel 1948 da Edward Tolman,


il quale sosteneva che l’informazione proveniente dall’ambiente venisse elaborata in modo tale da produrre una mappa dotata di un carattere provvisorio e cognitivo. Per Tolman le mappe cognitive di carattere generale erano più utili di quelle specifiche. Le mappe molto specifiche contengono soltanto informazioni riguardanti un numero limitato di itinerari nell’ambiente. Esse possono facilitare l’adattamento ad un ambiente specifico ma non sono d’aiuto per fare fronte a circostanze mutate. Quindi, una mappa cognitiva è maggiormente utile se in grado di offrire un’immagine generale dell’ambiente e se può venire usata in un grande numero di situazioni diverse. Lo scopo del “cognitive mapping” è di permettere di determinare dove ci si trova in un dato momento, dove si collocano alcuni specifici oggetti e luoghi nei dintorni, come spostarsi da un luogo da un altro, come tornare al punto di partenza, e come comunicare questa conoscenza spaziale. Nel 1970 Gladwin descriveva la mappa cognitiva usata dai marinai polinesiani. Tale mappa è estremamente complessa, e una delle sue proprietà più importanti era un’isola di riferimento. Se una particolare isola era stata selezionata allora il viaggio poteva essere pensato nei termini di una serie di segmenti. Ciascuno dei quali conduceva il navigatore in una posizione individuata da una retta tracciata dalla canoa a una particolare stella passante per l’isola di riferimento. Finché le posizioni delle stelle venivano individuate al momento opportuno e nella sequenza appropriata e il navigatore sapeva di trovarsi sulla strada giusta. Una delle sue caratteristiche più interessanti era che i navigatori non pensavano a loro stessi come a qualcosa che si muoveva dal punto di partenza alla destinazione, ma immaginavano di starsene immobili mentre l’isola di destinazione si avvicinava a loro. Un’altra conseguenza della formazione di una mappa mentale è quella di alimentare il nostro senso di sicurezza spaziale, inteso come disponibilità di strumenti e riferimenti per ovviare rapidamente a un senso di estraniamento che può sorgere. Una mappa mentale è quindi un insieme di esperienze registrate e apprese sia sotto forma qualitativa sia quantitativa. Esse presentano tuttavia delle discontinuità: al centro della mappa viene posta la casa e tutt’attorno viene creata la configurazione della città a seconda della rilevanza che hanno le varie zone per una persona. Al crescere dell’importanza di quest’area per la quotidianità di un individuo corrisponderà una maggiore precisione di rappresentazione delle mappe mentali. La precisione di queste immagini dipenderà anche dalla loro comple-

tezza, che dipende dalla capacità di acquisire il maggior numero informazioni. Un adolescente crea la sua mappa mentale e le sue esperienze di luogo in maniera molto dettagliata. Allo stesso tempo con il passare del tempo e lo sbiadire della memoria e dei ricordi legati ai luoghi possono perdere di precisione se non vengono aggiornate con i cambiamenti ambientali che avvengono. Le mappe mentali subiscono poi anche un’influenza culturale poiché esse sono in buona parte il frutto dell’interiorizzazione di codici collettivi che derivano dal nostro vivere in spazi codifi-

\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\Nella pagina a sinistra: esempio di mappa di Kevin Lynch \\Sopra: foto scattata a Boston nel 1965 da Kevin Lynch durante uno studio

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cati e anche perché la comprensione di un messaggio è influenzata dalla cultura di chi riceve.

ELEMENTI DI LYNCH Un importante contributo alla definizione delle mappe mentali lo ha portato Kevin Lynch. Nel suo libro L’Immagine della Città egli teorizza che, nelle immagini che si creano, i contenuti riferibili alle forme fisiche si possono classificare in cinque diverse categorie: percorsi, margini, quartieri, nodi e riferimenti. Alle mappe mentali e al tema della percezione si collega inoltre la “idea di “leggibilità” dei luoghi (place legibility) che si riferisce alla facilità con cui le persone capiscono e si costruiscono mappe mentali dei luoghi, ovvero delle rappresentazioni dei contenuti di una città e del layout che li connette”. ( Kevin Lynch, op. cit., Marsilio Editori, Venezia 1964.) Secondo le ricerche teorico-pratiche condotte da Lynch, le persone si costruiscono quasi inconsapevolmente delle mappe mentali dei luoghi utilizzando un insieme di elementi raggruppabili in cinque categorie: percorsi, margini, quartieri, nodi e riferimenti. Vediamo in particolare di cosa si tratta. I percorsi sono canali che le persone seguono nei loro spostamenti; sono le strade lungo le quali le persone si muovono, abitualmente o occasionalmente (per esempio strade, sentieri, percorsi pedonali, linee di trasporto pubblico, linee ferroviarie, canali). I margini sono tutte gli altri elementi lineari che non sono percorsi; sono confini, barriere più o meno penetrabili, interruzioni di continuità, elementi di separazione tra realtà differenti (per esempio, rive, coste marine, margini di sviluppo edilizio, mura). I quartieri sono le zone in cui può essere suddivisa una città, riconoscibili perché in essi è presente e diffusa una qualche caratteristica particolare che li connota e li rende particolari, distinti gli uni dagli altri (nel caso di un territorio si può pensare di trasferire l’idea di quartiere all’idea di frazione). I nodi sono punti dai quali e verso i quali ci si muove. Sono punti strategici dove c’è una particolarità vistosa o una concentrazione di caratteristiche della città. Per esempio, spesso sono piazze o incroci importanti, congiunzioni, luoghi d’intersezione nei trasporti, attraversamenti, punti di convergenza di più percorsi, luoghi caratterizzati dalla concentrazione di usi e funzioni.

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I riferimenti: sono i landmark, capisaldi all’interno del paesaggio urbano, sono oggetti fisici rilevanti ed evidenti, che colpiscono la vista e l’immaginazione. Sono spesso utilizzati per orientarsi all’interno delle città, sono indizi d’identità e di ruolo. Essi possono essere edifici particolari per funzione, tipologia architettonica, altezza, forma, ma anche insegne luminose, cartellonistica, negozi e ancora la cupola di una chiesa, un campanile, una torre, ecc. L’insieme, la sovrapposizione e soprattutto l’interrelazione e l’intreccio tra questi cinque elementi costituiscono il paesaggio urbano, o meglio la nostra immagine del paesaggio urbano.

LANDMARK Abbiamo già accennato al concetto di landmark introducendo il quinto elemento delle mappe mentali indicato da Kevin Lynch. Essi sono dei punti di riferimento che si trovano nell’ambiente, costituiti da un elemento fisico facilmente riconoscibile per qualche caratteristica o posizione. Esistono landmark fortemente localizzati, visibili da aree ristrette quali insegne, cartelli, al-


beri, dettagli urbani e ci sono landmark più grandi, visibili da più angolazioni e da distanze maggiori che vengono usati come riferimenti radiali, come torri, cupole, colline. Cielo, stelle e sole sono stati i primi landmark usati dall’uomo. Essi sono stati per millenni il punto di riferimento principale per gli uomini che li hanno utilizzati per determinare la loro posizione e per spostarsi da un luogo a un altro. Affinché siano più facilmente riconoscibili, identificabili e significativi devono avere una forma evidente e contrastante con lo sfondo: per esempio un edificio vecchio in un quartiere moderno o viceversa; un elemento di un colore completamente diverso da ciò che lo circonda. La funzione di riferimento sarà rafforzata inoltre se il luogo dove si trova è un punto in cui si prendono decisioni sul percorso da seguire.

sostanziale tra landmark e prop è che quest’ultimo quasi si mimetizza nell’ambiente costruito. Per avere un esempio concreto spostiamoci a Melbourne, Australia, dove ci sono due sculture diventate dei prop nell’ambiente cittadino. Il primo è costituito da tre statue raffiguranti tre uomini, dei “businessmen” con le loro ventiquattrore, caratterizzati da delle figure allungate e magre, teste rotonde e delle esilaranti espressioni dagli occhi strabuzzati; esse si trovano all’incrocio tra le due principali arterie del CBD e all’angolo del tratto pedonale. Accade spesso che i passanti o i curiosi interagiscono con le sculture, posando con loro, creando delle simpatiche scenette. La seconda è un portamonete di enormi dimensioni che si trova in un’area pedonale, e oggetto delle stesse attenzioni delle altre tre figure sopra descritte.

PROPS

SOVRAFFOLLAMENTO SEGNICO

Nel 2007, Quentin Stevens, urban designer americano, nel suo libro “The ludic city: exploring the potential of public spaces” introduce il concetto di props (letteralmente “sostegno o puntello”) integrando i cinque elementi topografici di Lynch. I props sono quei percorsi, quelle intersezioni, quei margini, quelle ancore che diventano delle proprietà in larga scala della struttura spaziale urbana interagendo con la percezione umana dello spazio. Questi elementi determinano delle relazioni tra il luogo e il suo fruitore. Secondo Stevens un luogo è costituito da elementi meno rilevanti che percepiamo in un “tutt’uno” con l’ambiente . Ad esempio, le superfici: un percorso continuo che passa da una pavimentazione di asfalto drenante ad una di “sampietrini”; una macchia di verde in città calpestabile attraverso un prato; l’aspetto delle facciate dei palazzi che ci circondano : senza soffermarsi nei dettagli di un palazzo in particolare, l’utente percepisce di trovarsi in centro città, piuttosto che in periferia, in quartiere popolare o in una località estiva e così via. Gli elementi sono capaci di dare forma allo spazio. I props possono stimolare il processo interpretativo che intercorre tra l’ambiente e il sistema percettivo dell’utente. Stevens nella sua ricerca si focalizza sull’utilizzo ludico e inaspettato di elementi nell’ambiente pubblico, e in particolare individua tre tipi di oggetti fissi che contribuiscono all’estetica e alla funzione: arte pubblica, materiale ludico e arredo urbano. La differenza

Il sovraffollamento segnico consiste in un sovraccarico di segni che ci vengono inviati quotidianamente, dagli oggetti che usiamo e vediamo, fino all’ambiente che ci circonda. Prima di specificare esattamente questo fenomeno all’interno dei luoghi, che è l’aspetto che ci interessa maggiormente, vorremmo aprire una breve parentesi sui segni e sui messaggi legati agli oggetti, spesso facilmente equivocabili. Non stiamo pensando a oggetti semplici come le forbici, dove la forma dell’oggetto è chiaramente predisposta per far sì che esso sia usato in un unico modo corretto, e rende il messaggio molto preciso, con un’affordance molto chiara. Al contrario, gli oggetti con una componente tecnologica, spesso elettronica, possono avere più funzioni. Il numero dei comandi a questo punto diventa cruciale: se essi sono pochi e la struttura logica del fun-

\\\\\\\\\Esempio di Landmark nel Laos

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zionamento dell’oggetto o dell’interfaccia è chiara, sarà molto più facile l’utilizzo invece che avere molti più comandi di cui non si ricorda la funzione di metà di essi, o peggio ancora se a qualche comando è affidata una doppia funzione senza un forte supporto logico a sostegno. Donald Norman ha studiato le problematiche del rapporto tra i comandi e il numero delle informazioni che essi forniscono rispetto alla percezione dell’utente e all’uso dell’oggetto. Uno dei punti principali da lui enunciati riguarda proprio la complessità e la tecnologia: infatti la tecnologia si pone come una soluzione per renderci la vita più semplice, e ogni innovazione tecnologica dovrebbe offrire vantaggi maggiori. Tuttavia spesso gli apparecchi hanno uno sviluppo a “U” considerata la loro complessità: all’inizio, quando sono una novità, sono spesso complicati e difficili da utilizzare, l’innovazione non si è ancora pienamente affermata; in seguito con l’accrescere delle conoscenze e il miglioramento della progettazione, semplicità e affidabilità crescono. Infine, nel tentativo di migliorare ulteriormente i prodotti gli vengono aggiunte funzioni che riportano il problema al punto di partenza: troppo sovraccarico di informazioni che rende l’utilizzo troppo complicato (Norman, 1990). Un altro punto importante enunciato da Norman è che se il progetto si spiega adeguatamente da solo, non c’è bisogno di un sovraccarico informativo per permetterne l’uso. Il graphic designer Jhon Maeda, professore del MIT Media Lab negli Stati Uniti, sostiene che “Il modo più semplice di conseguire la semplicità è attraverso una riduzione ragionata”. Questo concetto si può facilmente estendere anche ad altri campi, in particolare all’architettura e all’ambiente che ci circonda. Spesso siamo distratti e sopraffatti dal numero spropositato di stimoli comunicativi che incontriamo dappertutto ogni giorno. Ovunque si trovano manifesti pubblicitari, quasi che ogni centimetro di spazio disponibile debba obbligatoriamente essere sfruttato per promozioni di ogni genere. In più, le comunicazioni superflue spesso coprono o si concentrano proprio negli spazi che occupano le indicazioni e le informazioni che ci aiutano a orientarci in città. Ugo Volli sostiene che “Essendo il contesto necessario di qualsiasi attività umana, lo spazio su cui essa si profila e si confronta, il territorio (la regione, il paese, la città, la casa) è innanzitutto testo”. Ma se la città è testo, applicarle sopra un ulteriore strato di testo e segni può significare due cose: che il testo di partenza è molto carente in quanto a capacità comu-

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nicativa, e che il sovrapporsi di troppi livelli di comunicazione genera una gran confusione. Persino la segnaletica stradale è sovrabbondante e controproducente. Lo stesso segnale di divieto viene ripetuto con una frequenza esagerata: cartelli che si aggiungono l’uno all’altro senza essere aggiornati e senza tener conto di alcuna gerarchia visiva, forse con la speranza che anche in situazioni difficili, con un colpo d’occhio, si possa percepire il messaggio. Alcune amministrazioni locali hanno pensato attentamente alla correlazione tra l’affollamento segnico nelle città e la sicurezza delle strade, proponendo alcune iniziative interessanti, che hanno fornito parecchi spunti e stimoli agli ingegneri del traffico. parecchi spunti e stimoli agli ingegneri del traffico.

IL CASO OLANDESE In Olanda, da qualche anno, è partito un progetto che ha riscosso un successo tale da coinvolgere l’Unione Europea, che sta appoggiando l’iniziativa dello spazio condiviso, ‘shared space’. Il motto è: meno cartelli stradali, più attenzione. La filosofia di questo progetto è tanto semplice, quanto rivoluzionaria, e la spiega il suo ideatore, Hans Monderman, ingegnere civile che sta tentando, finora con successo, di ridisegnare i tradizionali schemi viari con un nuovo motto: “La soluzione è nel caos, nessuno spazio con regole, cartelli, semafori, marciapiedi e linee perimetrali, ma uno spazio in cui tutti sono chiamati a partecipare e quindi a stare attenti”. Sì, perché si costruiscono vie di collegamento veloci sulle quali è l’auto ad esserne padrona, a scapito di pedoni e biciclette. In Olanda, pioniere di questa ‘rivoluzione’ è la provincia della Frisia. A Makkinga e Drachten semafori, cartelli e marciapiedi sono spariti e tutto è stato lastricato. L’unica regola: precedenza da destra. I risultati? Sorprendenti. A Drachten (44.443 abitanti) per esempio gli incidenti si sono più che dimezzati. Nel centro frisone, da 15 semafori, ne sono rimasti 3 e centinaia di cartelli stradali sono spariti. A Makkinga (1.000 abitanti circa), da nove anni non ci sono più cartelli stradali, strisce pedonali e semafori. Gli incidenti sono passati da una cinquantina all’anno a zero. “Stiamo perdendo la nostra capacità di comportamento responsabile nei confronti della società in cui viviamo“- ha dichiarato al tedesco “Der Spiegel” Hans Monderman e quindi, secondo l’ingegnere olandese, la soluzione per regolare il traffico sulle strade


è la seguente: “Il pericolo è buona cosa. L’insicurezza rende più attenti. Se non sai esattamente chi ha diritto di circolare quando ci si trova in una strada senza cartelli e strisce, tendi a cercare lo sguardo d’intesa con gli altri utenti della strada, riduci automaticamente la velocità e tendi a prestare più attenzione”. Anche gli psicologi si sono interessati a questo problema di sovraffollamento all’interno delle nostre città, e hanno riscontrato l’inutilità di un’eccessiva presenza di regolamentazioni visive: almeno il settanta per cento dei cartelli stradali sono ignorati dai guidatori. Questo progetto olandese ha suscitato l’interesse dell’Unione Europea che avrebbe l’intenzione di provare ad applicarlo in altre sette città europee: tra cui Elby in Danimarca, Ipswich in Inghilterra, Ostende in Belgio. Casi simili sono stati registrati a Christianfield in Danimarca, dove gli incidenti in tre anni sono stati zero, Oosterwolde in Olanda dove ha sempre lavorato Moderman e persino in Florida a West Palm Beach, negli Stati Uniti regno delle automobili.

LESS IS MORE Terminando quest’analisi sul sovraffollamento segnico nell’ambiente si può affermare che, in generale, una comunicazione più “minimalista” con i segni che si applicano all’ambiente sarebbe di sicuro aiuto. Secondo Koichi Tanaka, scienziato e ingegnere, “Semplicità vuol dire ottenere il massimo dell’effetto con il minimo dei mezzi”. Se infatti si riduce il numero degli elementi e dei segni presenti, si semplifica il linguaggio usato, con il conseguente beneficio che chi si trova in quei luoghi non viene confuso o sopraffatto da segni troppo complicati o differenti, o semplicemente troppi. Tuttavia non bisogna sottovalutare l’utilità della ripetizione, necessaria a volte per evitare che il messaggio vada perso, in situazioni in cui esso è vulnerabile al rumore (anche visivo) e al fraintendimento. Bisognerebbe trovare il corretto equilibrio tra un approccio minimalista, che utilizzi lo stretto necessario e l’utilità della ripetizione in alcune circostanze.

IL SEGNO E LA SUA CLASSIFICAZIONE Fino ad ora abbiamo spesso parlato di segni, ma vediamo che cosa significa e come si classifica un segno.

\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\In alto: Drachten, 2006

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Nella nostra vita, anche se non ce ne rendiamo sempre conto, ci troviamo costantemente impegnati nella ricezione e interpretazione di segni. Una caratteristica sostanziale del segno, sia naturale che convenzionale, è che per essere tale, ha bisogno di essere segno di qualcosa per qualcuno, vale a dire, per un essere in grado di coglierlo e di interpretarlo. Il fumo è segno del fuoco solo se qualcuno è lì per coglierlo come tale, diversamente non è null’altro che fumo. La realtà parla eloquentemente solo se c’è una mente in grado di ascoltare e capire. La semiologia o semiotica è la disciplina che studia la natura dei segni, la loro produzione, trasmissione ed interpretazione. Mentre la nozione di significante e significato si deve far risalire agli stoici, la sistematizzazione della semiologia si deve essenzialmente a C.S. Peirce, F. de Saussurre, Ch. Morris e R. Barthes. La tradizione semiologica francese nasce agli inizi del Novecento con Ferdinand De Saussure (1857-1913), il primo studioso a tenere una cattedra di linguistica generale, all’università di Ginevra. Nel suo modello, il segno è costituito da due componenti: il significato, il concetto cui il segno si riferisce, e il significante, il veicolo per mezzo del quale viene evocato il significato. Va notato che entrambi i versanti della relazione segnica non hanno esistenza materiale, ma vivono nella coscienza dei parlanti: il segno sia sul piano del significato sia sul piano del significante è dunque un’entità interamente psichica. Saussure sostiene che il nesso tra significante e significato sia arbitrario, posto convenzionalmente, e che ciò che costituisce un certo segno sia il suo non essere gli altri segni sia sul piano del significante che sul piano del significato. Per quanto riguarda il significante, una lingua assegna in maniera arbitraria a una combinazione di suoni (la sostanza fonica è la sostanza “principe” dei segni linguistici) una relazione di significazione rispetto a una certa porzione della realtà; perché la lingua funzioni, è necessario che i significanti siano diversi gli uni dagli altri, pena l’equivocità. Saussure illustra questo principio prendendo l’esempio del gioco degli scacchi: se durante una partita il cavallo si rompesse o andasse perso, sarebbe possibile sostituirlo con qualunque altro oggetto purché diverso dagli altri pezzi del gioco (sarebbe possibile sostituirlo con un bottone, un tappo di bottiglia, ma non con un pedone o con una torre). Questa stessa arbitrarietà si riscontrerebbe anche sul piano del significato: in italiano distinguiamo “legna”, “legname” e “bosco”, mentre il francese identifica quest’area semantica con il termine complessivo di bois; in russo il termine pyká individua la

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parte del corpo umano costituita dall’avambraccio e dalla mano, mentre in italiano non esiste un termine equivalente. Dall’osservazione che ogni lingua storico-naturale categorizza diversamente la realtà, Saussure conclude che non solo i significanti sono diversi per significare cose diverse, ma che a loro volta i significati si differenziano in ragione dei diversi significanti. Egli paragona il retto e il verso di un foglio al significante e al significato di un segno linguistico e osserva che una lingua non può ritagliare il retto senza nello stesso tempo ritagliare anche il verso. È indubbio che ogni lingua ritagli arbitrariamente suoni e concetti, ma esiste una priorità della realtà significata cui il significante è sottomesso. Ogni cultura, sulla spinta di necessità pratiche, di un interesse conoscitivo, crea una libreria di concetti (di fatto un intero apparato espressivo che va ben al di là del livello lessicale) che consente alla comunità dei parlanti di comunicare efficacemente. Ad esempio, per gli eschimesi è vitale conoscere i vari tipi di neve: la loro lingua contiene parole diverse per individuare le tipologie di quella che noi chiamiamo genericamente neve. Si noti che sapere il nome delle cose significa poterle “maneggiare” cognitivamente: un esperto informatico che guarda dentro un computer riesce a nominare molti più componenti


di quanti ne riuscirebbe a nominare una persona priva di questo tipo di competenze e questo gli consente di comunicare la sua conoscenza in maniera più puntuale e di agire in modo più efficace. La tradizione filosofica moderna della semiotica nasce con la scuola americana. Il filosofo Charles Sanders Peirce (18391914) definì il segno come il risultato dell’interazione fra tre elementi: il veicolo segnico, l’interpretante (perlopiù inteso come un segno ulteriore, a volte invece come la mente o il pensiero di colui che recepisce il segno, in ogni caso un elemento di mediazione) e l’oggetto reale, il referente (Peirce 1931-1958: vol. 2, 274). Si osservi che non c’è rapporto diretto fra veicolo segnico e referente; in mezzo c’è sempre una mediazione di senso, una chiave d’accesso alla realtà (Fumagalli 1995: 246). Fig. 4

TERMINE/SEGNO

CONCETTO

OGGETTO

Classificazione: indici, icone, simboli La classificazione proposta da Peirce distingue i segni in indici, icone, simboli, a seconda del rapporto che intrattengono con il loro denotato. Il segno è indice quando la correlazione fra veicolo segnico e referente si basa su una contiguità: l’indice

Fig. 4 Il triangolo semiotico di Peirce

intrattiene un rapporto esistenziale con l’oggetto che significa. Esempi di indici sono la meridiana, le lettere apposte alle figure geometriche, il bussare alla porta, il barometro, la banderuola, la stella polare, il lampo, la targa di un’automobile. In breve, qualunque cosa attiri la nostra attenzione congiungendo due porzioni d’esperienza è un indice. Se viene meno la contiguità, la relazione esistenziale, viene meno anche l’indicalità: una banderuola tolta dalla cima di un tetto e riposta in un armadio cessa di segnare la direzione del vento, le lettere tracciate lontano da una figura geometrica o la targa staccata

\\\\\\A sinistra: Ferdinand De Saussure

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dall’automobile non hanno più alcun potere indicale, un pronome dimostrativo (un indice linguistico) nel dizionario non è in grado di indicare alcun oggetto del mondo reale. Il segno è icona quando la correlazione significante/significato esiste in virtù di una similarità effettiva. L’icona mette in evidenza solo alcuni tratti caratteristici dell’oggetto reale: è iconica ad esempio l’insegna WC con i disegni stilizzati di uomo e donna, in cui il tratto discriminante è il sesso, seppure codificato culturalmente (in Scozia, l’immagine stilizzata di una gonna non necessariamente rimanda a un referente femminile, visto che anche gli uomini portano il kilt). Il segno infine è simbolo se la correlazione significante/significato avviene solo in virtù di una convenzione. Le parole sono segni convenzionali: “casa” in italiano indica una costruzione destinata a uso abitativo solo perché così è stato stabilito convenzionalmente. Il disegno di una casa è invece un’icona. Ponendosi dal punto di vista del mittente, i segni si possono dividere in: a) volontari o non volontari: sono volontari i segni che vengono prodotti dall’emittente in modo consapevole. I segni involontari, invece, sono prodotti senza coscienza da parte dell’emittente. Esempio: si osserva un segno volontario quando si dice “Mi passi quella penna?” e la si indica con la mano; si è in presenza di un segno involontario, invece, quando si osserva un tic nervoso. Tutta la sintomatologia medica si basa su segni non volontari. b) intenzionali o non intenzionali: sono intenzionali i segni prodotti per essere interpretati. Sono non intenzionali quelli che vengono attuati senza voler produrre un’interpretazione. Esempio: i paracadutisti allacciano gli stivali secondo uno schema particolare, che ha il fine di facilitare l’apertura della calzatura nel caso che, durante un atterraggio, si danneggi una caviglia. Questo schema di allacciatura può essere considerato un segno che permette di riconoscere i paracadutisti. Essi, quindi, utilizzano il segno in modo volontario ma non intenzionale, poiché questo, per loro, non ha primariamente la finalità di farli riconoscere. La distinzione tra segni volontari e intenzionali è sottile. La volontarietà è indipendente dall’intenzionalità, la quale implica un protendersi verso il ricevente. Nell’ultimo esempio, si è descritto il caso di un segno volontario e non intenzionale. Il caso di

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un segno volontario e intenzionale è comune, poiché si verifica ogniqualvolta utilizziamo volontariamente un simbolo per evocare il senso che ad esso è associato. Ad esempio, se quando scatta il verde l’autovettura davanti rimane ferma, noi premiamo volontariamente il clacson, con l’intento di evocare il senso ad esso associato: “Attenzione!, il semaforo è verde... MUOVITI!”. Anche il caso di segni non volontari e non intenzionali è comune, ne sono un esempio i tic nervosi. È impossibile, invece, pensare a segni non volontari e intenzionali. c) espressivi o comunicativi: affinché avvenga una comunicazione, deve esistere un destinatario che interpreti i segni. Nel caso questo manchi, si è in presenza di segni espressivi, ma non comunicativi. Tutti i segni espressivi sono potenzialmente comunicativi. Esempio: una vedova vestita di nero, quando è sola a casa, produce un segno espressivo del suo stato di lutto, ma non comunicativo, poiché non la vede nessuno.

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#ISOTYPE#

International System of Typographic Picture Education L’Isotype ebbe origine quando l’austriaco Otto Neurath si rese conto che “il cittadino medio dovrebbe essere in grado di acquisire illimitate informazioni su ogni tema che gli interessa, così come può ottenere informazioni geografiche da mappe e atlanti”. Per realizzare il suo programma di divulgazione, studiò una teoria (il cosiddetto “metodo viennese”) per la rappresentazione visiva di dati complessi come quelli statistici, basata sul fatto che l’apprendimento avviene in modo più immediato e intuitivo tramite immagini semplici, rispetto alle parole. Neurath era cosciente del ruolo sempre maggiore che le immagini stavano prendendo nell’ambito della comunicazione. “L’uomo moderno riceve una grande parte delle sue conoscenze e della sua istruzione in generale tramite impressioni visive, illustrazioni, fotografie, film. I quotidiani di anno in anno mostrano sempre più immagini. Inoltre, anche la pubblicità opera con segnali ottici e rappresentazioni visive. Mostre e musei sono certamente il risultato di questa incessante attività visiva.” Prendendo spunto dalle teorie di Wittgenstein sul linguaggio, egli immaginò un linguaggio visivo composto da icone che potessero combinarsi tra loro secondo regole stabilite.

Tutto questo per dar vita a un sistema di comunicazione visiva universale. Questo sistema aveva anche la forte ambizione di superare le barriere linguistiche e culturali tra le nazioni, aiutando, ad esempio, un viaggiatore in un paese di cui non conosce la lingua a trovare un telefono, una banca, una biglietteria. Neurath chiamò quindi a collaborare un gruppo di persone, tra cui l’artista e grafico tedesco Gert Arntz (1900-1988) e Marie Reidemeister Neurath (1898-1987), con la quale più tardi diresse l’Isotype Institute in Inghilterra. I principi del “metodo viennese”, in seguito denominato Isotype (International System of Typographic Picture Education), si diffusero in molti paesi europei, creando le basi per lo sviluppo dell’information design nel ventesimo secolo.

I principi fondamentali Il sistema Isotype introduce alcuni semplici ma importanti principi per la rappresentazione dei dati quantitativi. Per ogni oggetto o categoria da rappresentare viene creato un segno.

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Le caratteristiche essenziali di questo segno sono: la semplicità, la riconoscibilità, l’immediatezza. Si deve quindi evitare che il segno abbia troppi dettagli. Nelle parole di Neurath: “Un’immagine che fa un buon uso del sistema deve trasmettere tutte le informazioni importanti riguardo all’elemento che rappresenta. Al primo sguardo si vedono gli elementi più importanti, al secondo i meno importanti, al terzo i dettagli. Al quarto, non dovrebbe cogliersi più nulla”. Ogni segno deve essere comprensibile senza l’aiuto di parole. La semplicità del disegno permette anche di allineare i diversi segni Isotype su una stessa linea, come si farebbe con i caratteri tipografici. Per rappresentare quantità variabili di uno stesso oggetto, lo stesso segno viene ripetuto in modo proporzionale alla quantità. Questo, secondo Neurath, rende i diagrammi Isotype più accessibili rispetto ai grafici astratti, che usano forme geometriche di dimensioni variabili. Anche la tavolozza cromatica è ristretta: i colori suggeriti sono sette (bianco, blu, verde, giallo, rosso, marrone e nero) e devono essere abbastanza diversi tra loro da essere sempre identificati dall’osservatore. Questi criteri di semplicità e immediatezza rendono il sistema Isotype utile anche come “linguaggio internazionale per imma-

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gini” o “linguaggio visivo ausiliario”. Isotype può essere considerato a tutti gli effetti il primo progetto di information design, intendendo il settore della progettazione visiva che si occupa di rendere le informazioni accessibili al pubblico. Secondo la definizione data dall’International Institute for Information Design, esso: “si occupa di definire, pianificare e dare forma ai contenuti di un messaggio e al contesto in cui esso viene presentato, con l’intento di ottenere obbiettivi precisi in relazione alle necessità degli utenti.” L’information design trova applicazione nei settori dell’educazione, della divulgazione scientifica, dell’orientamento nell’ambiente. Il suo intervento si applica quindi alla progettazione di sistemi di segnaletica, punti informativi, moduli, tabelle, diagrammi, mappe, orari, manuali tecnici e così via. Nell’information design gli aspetti estetici e persuasivi della comunicazione visiva diventano secondari rispetto ai criteri di chiarezza e funzionalità.

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Avendo ora capito meglio i confini e gli obiettivi di questa disciplina, come possiamo definire un buon EGD? Gli attori che entrano in gioco nella progettazione sono molteplici e di conseguenza lo sono anche le loro competenze e i parametri che si considerano. Noi vi proponiamo uno strumento di analisi qualitativa che riguarderà solamente l’aspetto grafico, poiché è il settore in cui ci stiamo cimentando ogni giorno. Si tratta di una metodologia che nasce dalla conoscenza personale, dalla lettura di libri e riviste, dalle visite effettuate sui luoghi e da interviste e colloqui con le persone direttamente interessate. Si tratta di un metodo di valutazione critico e criticabile. Critico in quanto permette di dare un giudizio, in base alle proprie competenze, su ogni elemento che compone un progetto EGD. Criticabile perché non ha assolutamente la pretesa di porsi come metodo unico e indiscutibile. Riteniamo che questo strumento, più che dare valori più o meno assoluti o oggettivi, sia di fondamentale aiuto per la progettazione. Valutando in maniera critica ogni singolo elemento dei progetti finora realizzati può davvero fornire spunti nuovi ed interessanti per una migliore progettazione, dal punto di vista non solo grafico ma anche nel rispetto dell’ambiente.

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E G IN MA IM

TIPOGRAFIA

COLORE

EMOZIONI

TEXTURE

DIMENSIONI

FORME

MATERIALI

LU

CI

Fig. 5

Tutti i progetti EGD si concretizzano in sette elementi: tipografia, colore, pattern, forme, luci, materiali e dimensioni. Una volta analizzate tutte le parti potremo avere un’idea sicuramente più chiara ed attenta di come si realizza un “buon” EGD. Per questo abbiamo creato una tabella di analisi e valutazione studiata ad hoc che potrà essere d’aiuto non solo a ogni progettista che si affaccia al campo del EGD, ma anche ai più esperti graphic designers, così da evitare lacune nella progettazione, prendendo spunto e riflettendo minuziosamente su ogni passaggio da noi descritto. All’interno dei sette elementi verranno considerate scelte alternative nel rispetto dei requisiti ambientali, un aspetto non sempre preso in considerazione, ma che deve essere parte integrante di ogni progetto.

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Oltre ai sette elementi vogliamo valutare altri due aspetti, che non sono concreti, ma sono altrettanto significativi. Essi sono immagine ed emozioni. Per coerenza intendiamo l’immagine coordinata del progetto, la coerenza delle scelte grafiche che costruiscono la sua identità. L’aspetto delle emozioni invece è del tutto a discrezione del soggetto, poiché ognuno di noi vive e riceve certe emozioni dagli ambienti che frequenta in modo del tutto personale. La valutazione finale sarà in centesimi: i sette elementi compongono il 70%, l’immagine il 20% e le emozioni compongono il 10% del giudizio complessivo. Fig. 5 Sicuramente il modo più efficace per giudicare un ambiente, non solo dal punto di vista grafico ma a 360°, è visitarlo personalmente e provare direttamente il modo in cui esso risponde alle nostre esigenze.


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TIPOGRAFIA

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TIPOGRAFIA All’interno di un progetto grafico, la tipografia copre un ruolo decisivo. Un carattere ha una propria identità, trasmette messaggi ed emozioni attraverso ogni suo minimo segno grafico. Abbiamo imparato che nella tipografia ogni rapporto può cambiare tutto drasticamente, ogni piccola distanza tra una lettera e l’altra ci parla. Non esiste tuttavia il carattere universale, nonostante l’Helvetica sia universalmente il più riconosciuto, ma esistono caratteri più leggibili e armoniosi rispetto ad altri.

pag. 71 # Il messaggio che vogliamo comunicare assume diverse sfumature di significato in base al carattere che scegliamo. Nell’EGD la tipografia viene applicata principalmente per comunicare contenuti di carattere informativo come indicazioni stradali, nomi di ambienti in cui ci imbattiamo quotidianamente (parchi, stazioni, metropolitane, scuole, musei, supermercati, garage e tanti altri), e tutte le altre comunicazioni scritte che ci circondano e ci guidano nella nostra città giorno dopo giorno. Per molto tempo sono state usate soltanto lettere maiuscole per le insegne. Una segnaletica efficiente ha il ruolo di comunicare un chiaro messaggio all’utente. Poiché essa gioca un ruolo importante, deve essere progettata accuratamente, di solito con una prospettiva di praticità. Progettare una tipografica che funzioni bene necessita un’ispezione molto dettagliata del luogo in modo da capire esattamente dove l’utente entrerà in contatto con essa. Bisogna considerare anche il bilanciamento degli elementi tipografici come la posizione e la distanza, l’angolo visivo, l’effetto luce-ombra, la visibilità e il flusso. Anche il modo in cui il visitatore passa da un punto all’altro è di notevole importanza. Il testo di un’insegna dovrebbe poi essere largo, facilmente leggibile e avere un forte contrasto con lo sfondo. Inoltre il testo dovrebbe essere accompagnato da un’immagine grafica o simbolo chiaramente comprensibile e non contenente informazioni superflue, troppi elementi, font illeggibili o informazioni contraddittorie. Il riconoscimento non corretto di una lettera o un simbolo può avvenire difatti in diverse situazioni: per esempio quando ci troviamo davanti a un font non chiaro, leggendo un libro o un segnale stradale da lontano, arrivando a situazioni più serie, come

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il foglio delle istruzioni mediche o il display di un aereo. Diverse tipologie di persone (in particolare bambini, dislessici, non vedenti e anziani) hanno requisiti specifici per lettere e simboli. Quali lettere e simboli risultano essere piĂš problematici. Come possiamo progettarli per raggiungere la massima chiarezza di riconoscimento?

Lettere e simboli confusionali per le persone normali Generalmente, gli utenti tra i 13 e i 45 anni non soffrono di dislessia o cecitĂ . Le seguenti lettere possono essere confuse con

\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\In alto: Installazione Aleph, Venezia, 2011

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a

altri caratteri: la l (elle) minuscola può essere letta come il numero 1 oppure come una I(i) maiuscola. La I(i) maiuscola può essere letta come una l(elle) minuscola o come il numero 1. Il numero 1 può essere letto come una l(elle) minuscola, come una I(i) maiuscola o come il numero 7. Riguardo alla I(i) maiuscola, da ricerche e test abbiamo scoperto che poiché essa “si può molto facilmente confondere la i con 1, t e l è consigliabile aggiungere i graziati per distinguerla in cima e alla base”. La B maiuscola può essere letta come il numero 8; la D può essere scambiata per una O maiuscola oppure per il numero 0; la S maiuscola può diventare un 5. Anche certe combinazioni di lettere possono trarre in inganno, come ad esempio il gruppo cl facilmente scambiabile con la lettera d, rn che si può leggere come una m minuscola così come il gruppo vv può essere preso per una w minuscola.

a infantile, Sasson Primary

Lettere e simboli confusionali per bambini I bambini che leggono hanno di solito tra i 4 e i 12 anni. I seguenti caratteri, a, g, l, q, y, l, J, 1, 4, 7, 9 sono detti infantili e vengono progettati appositamente per coloro che hanno attorno ai 6 anni di età. Una delle ragioni per usare questi caratteri è per renderli più simili alle forme di quelli scritti a mano.

a, o, 0, O

1 or I or l or ! (uno,i mauiscola, elle minuscola, punto esclamativo) Si è scoperto però, attraverso dei test, che la a infantile viene mal letta e interpretata. Ciononostante Sassoon afferma che il riconoscimento è un fattore dominante nell’apprendimento della lettura e il fatto che la a infantile si riferisca alla forma delle lettere che più bambini imparano a scrivere ha una influenza positiva sul lettore inesperto. Ciò che si può notare è che la coda (il tratto sul lato destro in basso della a infantile) nel carattere Sassoon Infant, è molto maggiore e definita rispetto alla a infantile come il Century Gothic o molti altri caratteri.

clear or dear burn or bum skivvy or skiwy CS5 or CSS 105 or IOS Z2 or 22 5AM or SAM

Nella tipografia usata in pubblicità o per la comunicazione grafica nel Regno Unito, la a infantile sta diventando sempre più popolare nonostante l’ovvio problema che somigli tanto alla o minuscola oppure al numero 0.

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Lettere e simboli confusionali per i dislessici La dislessia è un disordine neurologico, spesso di famiglia, che interferisce con l’acquisizione e il processo del linguaggio. Variando su diverse scale di gravità, essa si manifesta dalle difficoltà linguistiche di ricezione ed espressione, includendo processi fonetici, nella lettura, nella scrittura e nel fare lo spelling. Dalle ricerche è emerso che i dislessici manifestano problemi con i seguenti caratteri: l (elle) minuscola, il numero 1, il punto esclamativo !, la o minuscola; la O maiuscola, p q, b d, j g, m n, g h t, J L, L I. Le difficoltà nel confondere i caratteri sono sperimentate con i seguenti caratteri: b/d, p/q, a/e, b/k, u/v e i numerali. Tutte queste difficoltà sono legate alla somiglianza nella progettazione della forma dei caratteri, risultando (negli esempi b/d, p/q e 6/9) lettere capovolte. Nel 2009, Christian Boer ha disegnato un font chiamato Dyslexie per aumentare l’accuratezza e la leggibilità dei testi per i dislessici, quindi gli errori di ruotare le lettere sono ridotti. In seguito Renske e Leeuw fecero una ricerca ed eseguirono dei test su questo font. Scoprirono che il font Dyslexie causò meno errori nella lettura, soprattutto nell’area specifica della dislessia della rotazione, del rovesciamento, dello specchiare e girare le lettere, come la p e la d. Le principali caratteristiche di cui bisogna tener conto nella progettazione dei font per i dislessici sono: _focalizzare l’attenzione sulla base delle lettere; _allargare le aperture(contorni) delle lettere; _rendere alcune lettere un po’ italic; _definire i caratteri simili; _fare le ascendenti e le discendenti di alcune lettere più lunghe; _fare le maiuscole e la punteggiatura in grassetto, all’inizio e alla fine della frase; _lettere simili devono essere di diversa altezza, ognuna con la propria.

della vista non più correggibile da occhiali a quelli che riscontrano difficoltà nel leggere piccoli testi stampati e testi a lunga distanza. Ci sono diverse patologie visive, le tre principali sono: il Glaucoma in cui si ha una visione cosiddetta “tubolare” poiché si è persa la visione periferica mentre si vede ancora al centro del campo visivo; la retinopatia diabetica dove, a causa del danneggiamento dei vasi sanguini di tutto l’organismo, specie quelli con minor diametro compresi i capillari della retina, possono portare alla perdita parziale o totale della vista; infine vi è la degenerazione maculare, una patologia multifattoriale che colpisce la zona centrale della retina, detta appunto macula, e provoca una progressiva perdita irreversibile della visione centrale. È bene quindi progettare un carattere tipografico, specie se per una segnaletica, tenendo conto di questi fattori, di queste diverse realtà, per non compromettere una corretta trasmissione del messaggio. Più font hanno un grande potenziale per essere adoperati nella progettazione della segnaletica, ma ci sono anche font speciali progettati ad hoc. Caratteri come DIN 1451, Frutiger, Johnson Sans, Rotis e Arial, MS Sans Serif, Tahoma, Futura, Geneva e Helvetica Medium costituiscono alcuni esempi di tipografia che le persone con disturbi visivi trovano più facili da leggere. Nel corso degli anni molti progettisti e tipografi di fama internazionale hanno lasciato il loro segno in questo campo: Paul Shaw, Bob Noorda, Massimo Vignelli, Edward Johnston, Frutiger e tantissimi altri ancora. La scelta di un carattere contribuisce a conferire al sistema una firma a livello visivo e la miglior visibilità per ogni singola applicazione. In Europa si utilizzano diversi font nelle scritte dei segnali.

Lettere e simboli confusionali per le persone anziane con disturbi visivi Gli utenti con più di 45 anni cominciano a sviluppare disturbi visivi. Oltre i 65 anni di età queste persone riscontrano diversi gradi di perdita della vista più o meno gravi, si va da coloro che non vedono nulla (cecità totale) a quelli che hanno una perdita

\\\\\\\\Nella pagina a sinistra: esempi di confusione di lettere in Century Gothic

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Italia, Regno Unito, Spagna, Irlanda, Islanda, Grecia e Portogallo utilizzano il carattere Transport; i segnali tedeschi hanno il carattere DIN 1451.

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Nei Paesi Bassi si utilizzano i caratteri FHWA, in Svizzera il Frutiger mentre in Francia il Caractères. Nella maggior parte dei casi c’è un carattere tipografico adatto per ogni situazione, talvolta però occorre crearne di nuovi. Nonostante il numero sempre più crescente dei font disponibili, oggigiorno rimane fondamentale operare facendo una scelta consapevole, perché ogni singolo millesimo di millimetro cambia tutto. L’occhio umano è molto abile nel trovare imperfezioni visive, così come l’orecchio sa capire se qualcosa stride in una melodia. Paul Shaw e Abby Goldstein affermano “First and foremost script typography is musical” ovvero “La tipografia è prima di tutto musicale” e non potremmo dargli torto.

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CASO STUDIO

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TORONTO PEARSON AIRPORT

Dove: Missisauga, Canada Studio: Pentagram Design Cliente: Toronto Airports Authority Foto: Peter Mauss/Esto Anno: 2005 Pentagram ha sviluppato un ampio programma di cartelli segnaletici per il nuovo Terminal One all’aeroporto Lester B. Pearson di Toronto. L’edificio, progettato da Skidmore, Owings & Merrill, in collaborazione con Moshe Safdie and Associates, è il più grande progetto di edilizia pubblica nella storia del Canada. Toronto è un importante fulcro per i viaggi internazionali, e l’aeroporto è un’importante area di sosta per le dogane e l’immigrazione tra gli Stati Uniti e il Canada. Il team di progettazione è stato scelto per la creazione di un programma di continuità segnaletica che fosse funzionalmente intuitivo e realmente integrato con l’architettura drammatica dell’edificio. Il programma ha anche dovuto conformarsi al Canadian National Language Act, legge che stabilisce che tutta la segnaletica pubblica deve essere in inglese e francese. La segnaletica posta sopra la testa è una struttura composta per l’appunto da due sezioni, una per inglese e una per il francese, in forme curve che riprendono l’arco del tetto del terminale e la forma di un profilo alare. Sono stati fatti infine studi approfonditi, tra cui test per utenti con problemi visivi, per assicurare che la grafica avrebbe fornito la massima visibilità lungo i vasti spazi interni dei terminal. I viaggiatori possono facilmente farsi strada seguendo i messaggi e pittogrammi che sono codificati con i colori usati lungo il percorso (come porte e servizi). Tutti gli apparecchi sono in alluminio ed internamente illuminati con elementi di lunga durata per una manutenzione minima.

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Il font usato è il District Book Offre una buona leggibilità anche da lontano!

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La storia di questo font sans-serif ha origini nel lontano 1905. In quel periodo le ferrovie prussiane avevano creato un set di caratteri per standardizzare le descrizioni sui vagoni dei treni merci. Nel 1920 avvenne la fusione con le ferrovie tedesche e il carattere prussiano divenne un punto di riferimento per l’intero sistema tedesco della grafica ferroviaria. Nel 1923 viene rilasciata la prima versione ufficiale del DIN. Il carattere verrà poi adottato dalla Germania nel 1936, nella versione conosciuta come DIN 1451, dove DIN è l’acronimo di Deutsches Institut für Normung (Istituto Tedesco per la Standardizzazione). Diventerà uno standard per la segnaletica stradale, per numeri civici e targhe, trovando poi applicazione in altri ambiti e diventando sinonimo di design tedesco. Il DIN1451 ha due varianti: il DIN 1451 Mittelschrift (il font principale) e il DIN 1451 Engschrift (la versione condensata). Nel 1995 il disegnatore di caratteri Albert-Jan Pool ampliò la famiglia rendendo il carattere più fruibile per la progettazione grafica ed editoriale. Nasce così FF DIN (oggi affiancato dal DIN Pro) ampiamente utilizzato in editoria, pubblicità, progettazione web e creazione di logotipi.

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Alcuni graphic designers ne parlano così: “DIN...is the magic word for everything that can be measured in Germany, including the official German typeface, appropriately called DIN-Schrift. Since it is available in digital form, this typeface has been picked up by many graphic designers who like it for its lean, geometric lines” Ovvero: “DIN ... è la parola magica per tutto ciò che può essere misurato in Germania, tra cui il tipo di carattere ufficiale tedesco, chiamato appropriatamente DIN-Schrift. Dal momento che è disponibile in formato digitale, questo carattere è stato scelto da molti grafici che lo apprezzano per le sue magre linee geometriche.”

Sopra: poster tributo al Din A sinistra: Segnaletiuca tedesca, famosa per l’utilizzo del Din, segnale che indica Francoforte

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Nel 1957 Eduard Hoffmann, direttore della fonderia svizzera Haas, incaricò Max Miedinger, un ex impiegato e progettista freelance, di disegnare un set di caratteri sans serif da aggiungere alla loro linea. Il risultato fu dapprima denominato Neue Haas Grotesk, ma nel 1961 il nome fu cambiato in Helvetica (derivato da Helvetia, il nome latino per la Svizzera), quando le società tedesche Stempel e Linotype introdussero sul mercato la serie completa di caratteri. Tecnicamente si tratta di un carattere gotico sans serif, ispirato e basato sull’Akzidenz, creato da Berthold all’incirca nel 1898. Si tratta di un carattere con molte particolarità: Helvetica ha tanto spazio negativo (il bianco) che circonda le lettere quanto quello delle linee che compongono i caratteri. Lo spazio negativo contenute all’interno della “a” minuscola assomiglia molto a una lacrima. I caratteri Helvetica si sviluppano sempre in verticale o orizzontale, ma mai in diagonale. Introdotto nel bel mezzo di un’onda rivoluzionaria nel campo del lettering, la popolarità di questo carattere svizzero fece presto breccia nelle agenzie di pubblicità che vendettero questo

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nuovo stile di disegno ai loro clienti; l’Helvetica comparve rapidamente nei marchi corporativi, nel signage per i sistemi di trasporto, nelle stampe d’arte ed in altri innumerevoli campi della comunicazione. Negli anni è diventato uno dei caratteri più popolari al mondo. Helvetica è stato segnalato dal MOMA di New York e ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti in tutto il mondo. In occasione del 50enario di questo carattere è stato creato un documentario e sono stati scritti alcuni libri sulla sua storia. L’inclusione, nel 1984, nei font di sistema Macintosh confermò la sua diffusione anche nella grafica digitale.

Sopra Max Miedinger, inventore dell’Helvetica. Di fianco alcuni dei primi testi e poster stampati con l’helvetica

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NYC subway, Paul Shaw, Helvetica I segnali di transito pubblico, che ci direzionano in maniera così sottile e leggera che sembrano essere un tocco sul gomito, sono tra le voci più caratteristiche delle nostre città. Edward Johnston Railway Sans, l’alfabeto creato per la metropolitana di Londra nel 1916, è emblematico di quella città, come il Big Ben, i segni Art Nouveau di Hector Guimard per il “Métropolitain” sono parigini come la Torre Eiffel. A confronto, il lettering della metropolitana di New York City può sembrare brusco e funzionale, ma ispira ancora un poco di passione e fascino, come dimostra Paul Shaw in “Helvetica e il sistema della metropolitana della città di New York.” Questo giallo tipografico ci riporta indietro nel tempo quando venne progettata la segnaletica della metropolitana di New York. Paul Shaw mostra la sua irritazione verso la diffusa convinzione che la moderna metropolitana newyorkese sia sempre stata associata al carattere svizzero Helvetica. Questa errata percezione è stata alimentata dall’attenzione che tale carattere tipografico ha ricevuto nel 2007 per il 50° anniversario della sua introduzione, in particolare dal documentario che indaga sull’ubiquità sorprendente di questo lettering che appare in moltissimi loghi e edifici commerciali.

Ad esempio sopra gli ingressi di American Apparel e Staples, sugli aerei Lufthansa, sulle borse di Comme des Garçons, e infine sui nuovi segni metropolitana di New York. Tuttavia, nell’ultimo caso, come dimostra Paul Shaw nel suo articolo, non è sempre stato così. Come ogni newyorkese o turista sa o si immagina, il sistema metropolitano di New York è un labirinto. Con oltre 468 stazioni operative, quasi 400 Km di tracciato e circa 5 milioni di pendolari giornalieri, è tra le reti ferroviarie sotterranee più utilizzate al mondo. Così come la conosciamo oggi, è nata nel 1940 dalla fusione di tre linee distinte: Interborough Rapid Transit (1904), Brooklyn-Manhattan Transit lines (1908), e Indipendent Lines (1932). Non è difficile quindi immaginarsi la confusione che regnava tra pendolari locali e i turisti durante questa fase iniziale, per i quali diventava una vera sfida riuscire a capire come poter arrivare da un punto all’altro della città; non esisteva infatti una vera e propria mappa, così come mancavano un sistema segnaletico sotterraneo coerente, un carattere tipografico e una cromia comune alle diverse stazioni.

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Le indicazioni venivano addirittura scritte a mano dagli stessi addetti ai lavori. Ciascuna aveva i propri segni grafici, ma non esisteva una coerenza. I segni più antichi erano i bei mosaici che sono ancora oggi visibili in molte stazioni. Ma i cartelli in bianco e nero, per lo più dipinti a mano e senza norme, si sono diffusi moltissimo. A questo si aggiunse anche il movimento dei graffitari intorno alla fine degli anni ’60, che, con le loro tag, di certo non aiutarono a mantenere le stazioni sotterranee e gli stessi treni dei luoghi adatti ad ospitare un sistema grafico omogeneo, chiaro e pulito. Dal 1960, utilizzare la metropolitana di New York significava navigare in ciò che per John Lindsay è “l’ambiente pubblico più squallido degli Stati Uniti: umido, scarsamente illuminato, fetido, rumoroso con un fracasso stridulo, una delle strutture di transito più vili al mondo.” Cercando di conferire quindi un ordine al caos, nel 1966 la Transit Authority si rivolse al nuovo studio di progettazione, l’Unimark International. Due dei suoi leader, Massimo Vignelli e Bob Noorda, avevano appena progettato la grafica per la Metropolitana milanese. Dettaglio mappa della metropolitana di Ny, Vignelli 1976

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Essi hanno dapprima condotto un’analisi dei percorsi di traffico pedonale in molte delle stazioni più contorte del sistema della metropolitana. Mentre in seguito messo a punto una serie di segnali con coordinate direzionali. Inserendo le informazioni solo nei punti di decisione (della direzione), non prima o dopo, i progettisti hanno cercato di eliminare la ridondanza e le contraddizioni, stabilendo un sistema in cui i newyorkesi potessero muoversi con sicurezza. Il loro piano originale era quello di rendere questi segnali in Helvetica, carattere scelto dall’Unimark, così splendidamente neutrale come il suo luogo di nascita, la Svizzera. Noorda aveva usato l’Helvetica per il sistema di transito di Milano, e Vignelli lo avrebbe presto impiegato un po’ dappertutto nei suoi progetti. La Transit Authority, tuttavia, al tempo non aveva l’Helvetica a portata di mano, ha deciso allora di usare un carattere simile all’Helvetica, lo Standard Medium, un sans-serif, ma meno raffinato, poiché basato sui vecchi modelli del 19° secolo. La perdita dell’Helvetica, però, era l’ultimo dei problemi dei progettisti. L’introduzione del nuovo sistema segnaletico nelle prime stazioni alla fine del 1967 era, secondo Vignelli, “il più grande casino del mondo”, poiché vennero Dettaglio mappa della metropolitana di Ny, Vignelli 2006

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lasciati quelli vecchi. Successivamente il Transit Authority aggiunse ancora altri segnali, fatti velocemente a mano, nel tentativo di affrontare il caos risultante. Ispirato dalla ossequiata mappa di Henry Beck del 1931 per la metropolitana di Londra, Vignelli distillò l’intricato labirintico di linee da una geometria colorata e semplificata - questa volta in Helvetica. Colpisce il fatto che, il disegno della mappa di Vignelli si rivelò troppo semplice per molti ed entro sette anni venne sostituita da una mappa più convenzionale, che assomiglia a quella in uso oggi, che marcava le caratteristiche geografiche del territorio. Eppure il sistema segnaletico prese piede e poiché venne lanciato in più stazioni, i pendolari familiarizzarono con i caratteri sans-serif e con i dischi di colori diversi, che identificavano le diverse linee della metropolitana. Nel 1989, l’Helvetica era diventato così comune, che venne finalmente designato come il carattere per l’intero sistema di transito. Oggi un assiduo osservatore potrebbe intravedere occasionalmente un po’ di Standard Medium in alcune stazioni della metropolitana, ma, come chiarisce Shaw nel suo scritto, New York è oggi un regno dominato da un carattere svizzero deciso da una coppia di designer italiani. Non c’è migliore testimonianza del melting pot di questa città, che si manifesta inevitabilmente in ogni progetto di design importante.

Nella pagina precedente: esempio di segnaletica per l’uscita dalla metro e prime mappe del 1976. A sinistra in alto: immagine suggestiva di un vagone in movimento In basso asinistra: particolare della segnaletica.

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COLORE

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COLORE Il colore, elemento importantissimo in ogni ambito del design e della comunicazione visiva, quindi anche nell’EGD, è fondamentale nella definizione delle emozioni. Da esso dipende soprattutto il tipo di comunicazione e informazione che si vuole trasmettere e come deve essere recepito. Il colore risulta estremamente coinvolgente a livello ottico e di conseguenza anche sul piano cognitivo. Oltre ad influenzare la sfera sensoriale ed emotiva, esso lo fa anche con quella mnemonica e stimola quella cognitiva a tal punto da provocare, in soggetti molto sensibili, stati di euforia e disforia. Il colore può e deve essere studiato sotto diversi punti di vista. Fisico, in qualità di lunghezza d’onda delle radiazioni elettromagnetiche; psicofisico, in qualità di impressione di determinate onde sulla retina; infine psicosensoriale, poiché è l’effetto dei fenomeni luminosi, da cui emerge il concetto cognitivo di colore, sensazione cromatica ed interpretazione, di conseguenza è strettamente legato al fenomeno della luce.

Caratteristiche del colore Le principali caratteristiche dei colori sono tre: tonalità, luminosità e saturazione. La prima è la qualità percettiva di ciascuna sensazione cromatica dello spettro, che passa dal rosso al violetto ed ancora al rosso attraverso gradi intermedi. Essa coincide con la qualificazione stessa del colore e consente di classificare ogni tinta percepita. Nello spettro dell’occhio umano è possibile individuare circa duecento tonalità di colore. La seconda è la luminosità, la quale riguarda le variazioni di intensità ed è in rapporto di quantità nella scala percettiva, essendo determinata, a livello psicofisico, dall’intensità dello stimolo. Ogni sensazione di colore è riconducibile alla scala dei grigi dal bianco al nero, sulla quale si misurano i valori di luminosità. Da non confondere con la luminanza che è la variazione di intensità di illuminazione delle diverse superfici. L’ultima è la saturazione che è determinata dalla percentuale di tonalità pura di un colore; essa si individua in rapporto al grado di lontananza di un colore dalla scala acromatica e di vicinanza ad un colore puro dello spettro. Ad ogni colore identificabile con queste tre variabili si può far corrispondere un punto in uno spazio colorimetrico le cui tre

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dimensioni sono le precedenti tre caratteristiche che corrispondono a determinate qualitĂ fisiologiche. Sulla base di queste tre caratteristiche sono stati elaborati numerosi modelli cromatici.

\\\\In alto:Achievement First Endeavor Middle School. Pentagram Design

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Le principali teorie del colore e la sua percezione Il contrasto dei colori puri Questo fenomeno è dovuto all’accostamento di qualsiasi colore al più alto punto di saturazione. Per crearlo è necessario accostare almeno tre colori distinti, ciò che ne risulta è sempre un effetto chiassoso e deciso, destinato a perdere forza man mano che i colori si allontanano dal loro massimo punto di saturazione. Il massimo grado di tensione lo si può raggiungere accostando i tre colori primari giallo, rosso e blu. La capacità di irradiazione dei colori saturi attenua il contrasto che sarà invece evidenziato con l’interposizione di barre nere o bianche. Si noti come il nero incrementi la luminosità ed il bianco attenui la forza dei colori vicini. Il contrasto di chiaro e scuro Si ottiene attraverso l’accostamento di cromie facenti parte della scala dai toni dal bianco al nero. Il contrasto maggiore di chiaro scuro si ha dunque sulle gamme dei grigi ma la sua massima forza con l’accostamento tra bianco e nero. Contrasto di caldo e freddo In una composizione cromatica questo contrasto si ha opponendo colori di percezione termica calda a colori con percezione termica fredda. Il fatto che i colori possano generare nell’osservatore sensazioni termiche è un dato sperimentale, in particolare dal giallo al rosso al viola, si avranno sensazioni di calore (associate a: opaco, eccitante, denso, asciutto, terrestre); vicino al giallo verde al viola si percepiranno sensazioni di freddo (associate ai termini: ombreggiato, trasparente, riposante, celeste, leggero) Questo contrasto è maggiore opponendo rosso-arancio a verdeblu. Contrasto dei colori complementari Deriva dall’accostamento di due colori la cui miscela dia il grigio o due luci la cui somma sia bianca. Nel caso dei colori complementari, questi se mescolati si annullano e se giustapposti danno l’uno all’altro il massimo grado di luminosità, diametralmente opposti sono: giallo e viola, blu e arancio, rosso e verde,

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giallo blu e rosso. Il massimo contrasto fra complementari si ha tra il rosso e il verde, è un contrasto molto forte, in grado di illuminare particolarmente i due colori se accostati. Dal punto di vista fisiologico è accertato che mediante il fenomeno della post-immagine, spiegata dalla teoria tricromatica, l’occhio integra ciascun colore con il suo complementare. Dopo l’osservazione prolungata di un colore le cellule preposte a leggerne le caratteristiche entrano in stato di affaticamento, quando il colore viene rimosso da esse, per un breve periodo viene letta solo la componente complementare di quel colore. Una composizione di colori complementari risulta armonica e gradevole alla vista. Contrasto di simultaneità Il nostro occhio, sottoposto ad un dato colore, ne esige immediatamente un altro e non ricevendolo se lo rappresenta da sé. Si tratta di un fenomeno conseguente al contrasto tra complementari, che avviene non per la presenza ma per l’assenza del complementare. Questo effetto risulta tanto più forte maggiore è la durata dell’osservazione del colore dominante e quanto più esso è luminoso. Il colore creatosi non esiste nella realtà ma all’osservatore appare vivace ed eccitante. Il movimento generatosi stanca l’occhio e di conseguenza le composizione che sfruttano questo tipo di contrasto pur attirando risultano aggressive. Contrasto di quantità Nasce dal reciproco quantitativo di due o più colori. Studi di psicologia hanno rivelato che esiste un rapporto reciproco tra quantità di colori accostati tale da risultare equilibrato, così da evitare che un color risalti di più di un altro in un accostamento. Per valutar la luminosità dei colori puri è necessario confrontarli su uno sfondo grigio neutro. La scala di Goethe serve a valutare il valore luminoso dei vari colori: giallo 9, arancio 8, rosso 6, viola 3, blu 4, verde 6. Da questa scala si possono trarre tutte le proporzioni armoniche e non. Come si è potuto notare, attraverso i colori si possono generare emozioni, sensazioni, aiutare alla memorizzazione o rendere più difficile e faticosa la comprensione, per questo la scelta del colore risulta fondamentale nell’ EGD.

Questa scelta risulterà differente in ogni situazione, dipende se ci si occupa di ambienti interni o esterni, ad alto o basso accesso di utenti e ovviamente dal tipo di comunicazione che si vuole ottenere e dal tipo di informazione che si vuole far arrivare all’osservatore.Per questo non esiste un colore migliore e univoco per un progetto, ma esiste un scelta migliore per ogni singola situazione e quindi anche per ogni tipo di EGD. Bisogna analizzare nello specifico ogni singolo caso. Il wayfinding e il design d’informazione lavorano con più colori per differenziare i vari tipi di destinazioni. Quasi tutte le cromie si possono utilizzare ma la cosa importante è che ci sia un forte contrasto tra il colore di primo piano e quello di sfondo in modo da avere la miglior leggibilità e percezione. È difficile definire una percentuale di contrasto, il metodo migliore è trovare la differenza giusta di riflettanza della luce. In ottica questo termine indica la proporzione di luce incidente che una data superficie è in grado di riflettere. Il fattore cromatico crea armonia tra segnaletica e l’ambiente, conferendo un’identità e quindi una riconoscibilità. Esiste una codificazione ben precisa dei colori che crea distinzione tra un segno ed un altro e offre indicazioni del messaggio senza aver bisogno, in alcuni casi, del supporto di scritte o immagini. Il colore ci guida all’interno di un ambiente. Per esempio, il colore rosso indica spesso gli stop, il divieto di accesso o le direzioni sbagliate; il verde usato come sfondo indica segnali direzionali o di accesso e informativi; infine il blu usato come sfondo indica servizi per i viaggiatori e contenuti informativi. Il colore gioca quindi un ruolo di rinforzo all’interno dei progetti, ma non deve diventare l’elemento primario, non dimentichiamo che esistono persone con disturbi visivi, come il daltonismo, per i quali la percezione risulta alterata.

\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\Nella pagina a sinistra: Achievement First Endeavor Middle School. Pentagram Design

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CASO STUDIO

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LEEDS STREET TREE GRATES

Dove: Footscray, City of Maribyrnong, Melbourne, Australia Studio: Heine Jones Cliente: Maribyrnong City Council, Melbourne Water Foto: Mike Heine, Anthea Lemmer Anno: 2011 Il lavoro di Heine Jones propone una soluzione alla creazione di un nuovo “giardino della pioggia”, installato come parte integrante dele vie della città di Footscary. Il progetto si è sviluppato piantando 22 piante utilizzando il principio del “Water Sensitive Urban Design”. L’acqua piovana che viene utilizzata per pulire le strade va a finire nelle aiuole, attraverso questo sistema l’acqua viene filtrata e pulita dagli alberi prima di essere rimmessa nel fiume della città. Attraverso una macchina a taglio laser, da lastre di acciaio spesse 10 mm, sono state ricavate le grate che coprono le aiuole, i fori sono lettere, che compongono parole e frasi in lingue e dimensioni differenti, a comporre una poesia urbana. Troviamo parole più grandi, che formano frammenti astratti di informazioni sulla pioggia, ma anche la poesia nella sua integrità riprodotta in caratteri più piccoli. L’intenzione del designer è quella di far intraprendere ai passanti un percorso piacevole, che coinvolga emotivamente, sia sul significato che sulla funzionalità del progetto. È un progetto molto particolare che abbiamo voluto scegliere come colore perchè in questo caso non è utilizzato alcun colore ma esso viene ricavato dal ritaglio di un materiale. Il colore è dato dal verde dell’erba. Un progetto totalmente sostenibile ed applicabile ad ogni città.

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Il colore in questo caso è vivo, diventa visibile man mano che l’erba cresce. Questo è un ottimo esempio in cui si può non usare il colore, nel rispetto dell’ambiente.

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TEXTURE/PATTERN

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TEXTURE/PATTERN Normalmente, quando si disegna uno spazio chiuso su un foglio di carta bianco, ad esempio un quadrato o un rettangolo, per far emergere lo spazio che la figura racchiude, lo riempiamo con piccoli puntini, questo solamente per focalizzare l’interesse visivo in quella zona, senza creare alcuna immagine. Il creare uno stacco tra la zona puntinata e il resto del foglio ci fornisce un esempio basilare di texture. Essa è una qualsiasi sensibilizzazione di una superficie, presente in ogni oggetto. L’obiettivo è rendere una superficie qualcosa che in realtà non è, solo a livello visivo. Ad esempio un foglio di carta può sembrare un pezzo di legno o di tessuto. Questi motivi si possono trovare nel mondo che ci circonda: cortecce, metalli, vetri, carte da parati, cartoni e così via. Le textures sono principalmente divisibili in organiche e geometriche, sono tutte formate da molti elementi uguali o simili, disposti ad uguale distanza tra loro su di una superficie bidimensionale o a piccolo rilievo. Quando una figura viene più volte ripetuta geometricamente prende il nome di pattern, elemento molto usato nella grafica contemporanea. Ma cosa succederebbe invece se si dovesse alterare questa condizione di uniformità, se ci fossero fenomeni di addensamento e rarefazione? Fino a che limite può accadere affinché la texture rimanga una “superficie”? Le textures sono molto importanti per noi, poiché tramite esse possiamo riconoscere di che materiale è costituito un oggetto, un edificio, o qualsiasi elemento nell’ambiente che ci circonda, per questo possono anche molto spesso trarci in inganno. Textures e patterns, inseriti in un progetto EDG, possono trovare funzionalità e una buona applicazione all’interno di un qualsiasi spazio costruito, sia dal punto di vista dell’informazione, che da quello dell’identità.

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\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\\Infinite Variety: Three Centuries Of Red And White Quilts

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CASO STUDIO

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MELBOURN GRAMMAR SCHOOL

Dove: Melbourne, Australia Studio: Emerystudio Cliente: Melbourne Grammar School Foto: Rory Hyde Anno: 2011 L’obbiettivo è stato quello di rinforzare l’immagine e lo spirito del posto e dell’edificio, con un’immagine coordinata che percorre tutta la struttura dall’ingresso in avanti. Particolare e stupefacente è l’uso e l’applicazione delle texture e dei pattern che percorrono tutto l’edificio, regolando il tutto modularmente e componendo attraverso esso anche la parte tipografica.

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L’uso della texture è molto di impatto, anche perchè usata su più supporti diversi come pietra e vetro.

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FORME

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FORME In molti progetti di EGD abbiamo notato un uso particolare delle forme. Esse si modificano, allungandosi e distorcendosi per creare diverse percezioni dello spazio. Un esempio è il fenomeno dell’anamorfosi. Con questa parola si intende un’immagine fortemente distorta che acquista la «vera forma» solo quando l’osservatore si pone in una particolare posizione molto inclinata rispetto al suo piano, oppure quando viene riflessa in uno specchio piano o incurvato. Nel primo caso, che riguarda alcuni dei progetti EGD, si ha una anamorfosi ottica, originata da una trasformazione proiettiva e quindi soggetta alle regole della prospettiva, applicata in senso inverso; nel secondo caso si ha una anamorfosi catottrica che assomma la trasformazione proiettiva, quella topologica e quella dovuta al fenomeno della riflessione. La relativa semplicità di generazione di una anamorfosi ottica ne ha fatto la fortuna nel XVI sec. in concomitanza con la fioritura degli studi e delle applicazioni della prospettiva. I primi originali spunti su questo tema sono rintracciabili in Leonardo; ma dagli studi di Dürer sulla prospettiva e sulle trasformazioni topologiche trasse ispirazione un suo allievo, Gerhard Schön (1491-1542), prolifico realizzatore di questa nuova e bizzarra forma di disegno. La forma, definita dal vocabolario Treccani come “l’aspetto esteriore con cui si configura ogni oggetto corporeo o fantastico, o una sua rappresentazione“; sia essa singola o ripetuta a formare una texture, crea identità e riconoscimento, elementi di notevole importanza all’interno di ogni progetto di EGD.

Anamorfòsi dal greco ana = indietro e morphé = forma e quindi il suo significato letterale è “ricostruzione della forma”.

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\\\\\\\\\\\In alto: Docks en Seine, Parigi

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CASO STUDIO

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EUREKA CARPARK

Dove: Melbourne, Australia Studio: Emery Studio Cliente: Eureka Carpark Foto: Emery Studio Anno: 2007 La segnaletica per il parcheggio multilivello dell’Eureka Tower Carpark a Melburne trae ispirazione dal lavoro dell’artista svizzero Felice Varini. Si tratta di un’anamorfosi, che distorce i caratteri tipografici che sono giganti, colorati, e disseminati su muri, pavimenti e colonne. Le indicazioni, in questo caso le parole “in”, “out”, “up” e “down” si allineano e diventano leggibili soltanto nei punti chiave del percorso, quelli in cui l’utente prende delle decisioni. Per ottenere questo effetto hanno utilizzato dei proiettori per trovare le giuste posizioni. Per gli autisti inoltre questo ambiente risulta essere più stimolante, che non un viaggio in un normale parcheggio di cemento.

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Si poteva evitare l’uso di piÚ colori optando per il monocromatico. Buono pper l’assenza di materiale aggiusto.

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LUCI

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LUCI Parlando del colore, abbiamo visto quanto esso sia legato alla luce. Essa ha un notevole ruolo all’interno dell’EGD in quanto permette la visibilità di un ambiente anche di notte. È importante considerare la luce nei progetti, soprattutto se pensiamo alle grandi metropoli dove la notte non dorme mai, e dove c’è sempre bisogno che i luoghi siano visibili e localizzabili. Vediamo adesso che cosa si intende per luce. Questo termine si riferisce alla porzione di spettro elettromagnetico visibile dall’occhio umano, (lo spettro elettromagnetico) che è l’intervallo di tutte le possibili frequenze di radiazioni. Le radiazioni sono onde elettromagnetiche, caratterizzate da una lunghezza d’onda e da una frequenza. Negli occhi abbiamo i fotoricettori, che sono neuroni specializzati nel percepire le lunghezze d’onda comprese tra i 380 e i 760 nanometri, a queste lunghezze diamo il nome di luce visibile, bisogna però specificare che esistono individui che possono percepire sia lunghezze inferiori che superiori. Lunghezze d’onda minori (con frequenza maggiore) sono i cosiddetti raggi ultravioletti, raggi x, raggi gamma; quelle maggiori della luce (con frequenza minore) sono le radiazioni infrarosse, onde radio e microonde. Sebbene nella teoria dell’elettromagnetismo, la luce sia descritta come un’onda, è stato dimostrato sin dai primi del ‘900 che tali radiazioni hanno un comportamento analogo a quello delle particelle e viene pertanto descritta come composta di “quanti” del campo elettromagnetico, detti fotoni. La teoria classica, tuttavia, è quella ancora oggi utilizzata per lo studio dell’ottica intesa come interazione tra luce e materia. Esistono molti tipi di luce, dalla luce solare, a quella di una semplice lampadina, ai neon, ai led e così via, ed ognuna produce diverse radiazioni. Quando la luce incontra la materia avvengono fondamentalmente tre importanti fenomeni che dipendono essenzialmente dalla struttura molecolare dei materiali. Questi fenomeni sono: rifrazione, riflessione e assorbimento. La rifrazione avviene quando la luce passa da un mezzo ad un altro, il quale ha una diversa densità, così la luce subisce una

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data deviazione chiamata appunto rifrazione, la quale dipende dal materiale che attraversa ed è regolata dalla legge del seno. L’assorbimento è comune a molti materiali, ed è la capacità del materiale di assorbire in parte o totalmente la luce che lo colpisce, l’occhio non percepirà mai queste frequenze. Nella riflessione l’oggetto colpito dalla radiazione elettromagnetica non è in grado di assorbire l’energia della radiazione e dunque la respinge, ed è proprio questa modalità che ci consente di percepire la natura dei materiali e di comprendere le superfici

\\\\\\\\\\\\\\\\In alto: Uniqa Tower, 2007

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che ci circondano. Ad esempio una superficie si definisce lucida quando la luce si riflette con lo stesso angolo di incidenza, mentre se la luce rimbalza in tante dimensioni si avrà un materiale ruvido e quindi opaco, la materia si dice opaca e la superficie diffondente. Si capisce quindi quanto sia importante la luce nella comprensione e definizione dei materiali e nell’effetto che si vuole produrre.

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CASO STUDIO

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SOHO

Dove: Beijing, China Studio: Emery Studio Cliente: Soho Foto: Tim Griffiths Anno: 2007 Le facciate sfaccettate delle due torri di questo grande centro commerciale sono rivestite, con un pattern casuale, di vetro e pannelli di alluminio, e inscritti da una rete, su larga scala geometrica, che di notte crea linee di luce continue dando un’immagine distinta alla struttura. Il pattern della facciata ha permesso alla percentuale di vetro orientata a sud e a ovest di ottimizzare il guadagno di calore degli edifici. Soho Shangdu ha recentemente ricevuto un premio australiano per l’architettura internazionale, oltre ad essere nell’elenco degli Awards Cityscape Dubai più prestigiosi.

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Il gioco di luci, che si relaziona strettamente con le forme dell’edificio, da una forte identità e un rapido riconoscimento anche da lunga distanza.

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MATERIALI

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MATERIALI La segnaletica e il design d’informazione lavorano con una vasta gamma di materiali e ognuno viene scelto in base alla sua funzione. Ci sono materiali più adatti per gli esterni e altri per gli interni. Se si pensa a un progetto di EGD per uno stadio, non avremo soltanto bisogno di materiali da posizionare all’esterno della struttura, resistenti quindi al freddo, al caldo, all’acqua o al vento ma sono da considerare anche gli elementi interni. Per motivi di design magari siamo obbligati a utilizzare un legno trattato o un particolare tipo di plastica che meglio comunichi l’identità dell’ambiente. Nella progettazione della segnaletica esterna usiamo per lo più i metalli. Le loro particolari caratteristiche sono l’alta densità, la duttilità, la resistenza alla trazione, l’elevato punto di fusione, l’elevata conducibilità termica ed elettrica, la luminosità e l’elasticità. I metalli sono molto resistenti e quindi possiamo utilizzarli in forme anche molto sottili. Ogni segnaletica utilizza un materiale diverso ma tutti acquisiscono un carattere unico quando sono usati come cartelli stradali. Si tratta di metalli, Medium Density Density Overlay Plywood (MDO), Alumalite ®, Omega ® board, DiBond ®, e altri ancora. Tutti sono durevoli e versatili, progettati per una ampia varietà di usi esterni. Ad esempio, l’MDO o Medium Density Overlay è il tipo di compensato più utilizzato per la segnaletica stradale e le insegne pubblicitarie. Questa lastra è un multistrato di tipo esterno con un rivestimento in resina, resistente agli agenti atmosferici, legati al legno con il calore e la pressione. Questo processo attacca le molecole della sovrapposizione con le fibre del legno per formare un legame forte come il legno stesso. L’MDO resiste all’acqua, al tempo, all’usura e al degrado. È importante perché l’utilizzo del materiale influisce sulla leggibilità del segno. Il materiale deve essere usato correttamente per calibrare anche il contrasto di colore. Sono molti i fattori che entrano in gioco quando si deve scegliere un determinato materiale in un progetto di EGD. Non conta solo l’aspetto esteriore, ma una delle caratteristiche principali da considerare è la durabilità nel tempo, perché un sistema di segnaletica non si cambia tanto spesso. Nell’ultimo decennio l’introduzione di nuove tecnologie ha consentito grandi cambiamenti riguardo i linguaggi impiegati

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e le modalità realizzative. Oggi è possibile pensare di realizzare un edificio composto da pareti interamente digitali e animate, o pensare a un edificio costruito soltanto da una struttura di vetro, dove all’interno scorrono grafiche delle dimensioni delle facciate intere. Il sempre maggior interesse verso questi temi apre nuovi scenari e nuove possibilità sia per il crescere della complessità dei progetti e della conseguente sofisticazione e articolazione degli spazi e delle loro dinamiche. Di recente si è assistito a un’impennata della richiesta e dell’u-

\\\\\\\\\\In alto: AIGA Bone Show, 2009

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tilizzo di questo di tipo di competenze con lo sviluppo di nuovi scenari all’aumentare dell’interesse a riguardo e con l’introduzione di nuove tecnologie digitali ed interattive. Diventa quindi indispensabile individuare con chiarezza delle aree d’intervento, dei confini e una classificazione dei progetti. Molti risultati possono essere ottenuti infatti riducendo notevolmente l’impiego di materiali in più, usando la tecnologia.

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CASO STUDIO

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DREAM CUBE

Dove: Shanghai, China Studio: ESI Design Cliente: Shanghai Corporate Community Foto: Basil Childers Anno: 2011 ESI Design ha lavorato in collaborazione con la Shanghai Corporate Community per creare il Dream Cube, un padiglione aziendale di 4.000 metri quadrati per il World Expo 2010. Realizzato con custodie per cd riciclati, il Dream Cube è interamente ricoperto di luci LED che cambiano colore quando le persone stanno interagendo all’interno dell’edificio. I visitatori sono invitati a partecipare online e di persona alla composizione visiva del futuro della città, contribuendo con pensieri e immagini della loro città attraverso il sito. Le parole e le immagini di migliaia di abitanti di Shanghai si mischieranno completamente al padiglione per simboleggiare la loro co-creazione del futuro di Shanghai. Oltre all’uso di materiali riciclati e di luci LED, il tetto raccoglie l’acqua piovana in un deposito per l’uso quotidiano, dopo averla appositamente filtrata. Il padiglione si distingue inoltre per il pannello solare disposto sul tetto, che raccoglie l’energia prodotta dal sole per riscaldare l’acqua. Con la conclusione dell’Expo, i materiali di costruzione verranno nuovamente riciclati per nuovi impieghi.

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Ottimo per la tecnologia, l’interazione e l’impiego di materiali riciclati e riciclabili.

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DIMENSIONI

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DIMENSIONI Le dimensioni costituiscono un aspetto fondamentale nei progetti EGD, che hanno necessità di comunicare sia in spazi interni che esterni. Se pensiamo per esempio di progettare un elemento che deve essere visibile da lontano allora numeri, scritte o immagini dovranno assumere grandi dimensioni, anche inaspettate, fino a coprire interi edifici. La percezione della grandezza di un oggetto dipende da vari fattori: angolo visuale: ossia l’angolo sotteso dall’oggetto sulla retina, che dipende dalla distanza dell’oggetto ma anche dalle sue dimensioni. costanza della dimensione: gli oggetti di dimensione conosciuta tendono a rimanere, nella visione, di dimensione costante anche quando li avviciniamo o allontaniamo. Tale fenomeno ricorre solo qualora gli oggetti non siano estremamente distanti. prospettiva: indizio di profondità ma anche di dimensione. L’occhio può addirittura essere ingannato nel percepire una dimensione quando l’ambiente prospettico circostante sia in conflitto.

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\\\\\\\\\\\\\\\\\\In alto: Obsessions Make My Life Worse and My Work Better Stefan Sagmeister, 2010

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CASO STUDIO

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BATTERY POINT SCULPTURE TRAIL

Dove: Hobart, Tasmania, Australia Studio: Futago Cliente: Hobart City Council Foto: Jonathan Wherrett Anno: 2010 In Australia hanno iniziato una campagna per favorire l’interpretazione, la promozione e la celebrazione dell’eredità culturale di una cittadina della Tasmania chiamata Hobart, situata in un ambiente molto caratteristico. Nessuna zona di Hobart ha un’eredità culturale più significativa della circoscrizione Battery Point. È la posizione di alcune vecchie residenze della città sopravvissute, il luogo della più larga serie di edifici storici e della stabilizzazione delle prime industrie e imprese della Tasmania. In nessun luogo all’interno della città c’è una congiunzione così importante tra l’ambiente costruito di Hobart e l’ambiente naturale. Il tema del progetto che mira a questo è sculture numeriche. Si tratta di installazioni pubbliche di materiale grafico, che si estendono anche sul’acqua, che rendono chiaro il collegamento che c’è tra la cittadina e il mare. Il percorso è costituito di nove sculture ed è abbastanza lungo, si fa in un’ora di camminata cominciando con la scultura 1833, situata a sud di Salamanca Place, arrivando alla scultura 1909 sulla Marieville Esplanade. Ci sono mappe lungo tutto il percorso.

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Buono per la grande visibilitĂ da grande distanza.

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Dopo aver introdotto gli elementi di cui si compone ogni progetto EGD, vediamo tre casi studio valutati nel loro complesso. Essi sono stati divisi per tipologia d’accesso e sono tutti situati a Torino per meglio approcciarci meglio a questa disciplina, confrontandoci con una realtà che viviamo quotidianamente. Per valutarli abbiamo incontrato le persone direttamente coinvolte nel progetto, le quali ci hanno fornito i dati di cui avevamo bisogno. Nello specifico andremo ad analizzare la sede centrale del Politecnico di Torino, come esempio di accesso ristretto, il Museo d’Arte orientale (MAO) come tipologia di accesso limitato e infine la Metropolitana di Torino come accesso libero.

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Questo progetto parte dalle necessità di dare un ordine a quella all’immagine confusa del Politecnico, un poco datato. Il gruppo di ricerca costituito da Claudio Germak, Claudia DeGiorgi e Marco Bozzola e Francesca Infantino è stato incaricato di prendere in mano il progetto riguardante una nuova segnaletica interna per la sede centrale di corso Duca. L’immagine coordinata, fino ad allora si era basata solamente sull’utilizzo del marchio e del logotipo in maniera poco omogenea nelle diverse sedi. Sicuramente fu un lavoro necessario in vista dell’apertura delle porte in Europa da parte dell’ente Politecnico, necessario per riuscire a inserirsi meglio nella scena internazionale. L’immagine mostra una sorta di istituzionalità attraverso una semplicità progettuale: un minimalismo visivo che sia quindi sintetico nella traduzione e divulgazione delle informazioni. Per agevolare la navigazione sono stati mantenuti i colori del sito che identificano la didattica (giallo), l’amministrazione (verde), l’ateneo (blu), la ricerca (rosso), le imprese (viola) e i servizi (grigio). I colori sono in scala RAL. L’orizzontalità dei corridoi è un elemento che ritroviamo nei cartelli della segnaletica. Essi sono realizzati in Allucobond, pannello composito in alluminio e anima di polietilene. I pannelli sono modulari e si incastrano a clip sui muri permettendo un facile spostamento. Anche la tipografia è stata incolata e permette la sostituzione delle informazioni.

Torino, Italy //////////// Dove Politecnico di Torino ////////// Studio Politecnico di Torino ////////// Cliente Luca Negro ///////////// Foto 2009 //////////// Anno

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Sopra da sinistra pannello indicativo all’entrata principale del Politecnico e bandierina indicante le aule.

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Sopra: frecce indicative dei veri percorsi del politecnico

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Aa Aa IMPRESE AMMINISTRAZIONE ATENEO RICERCHE DIDATTICA SERVIZI

68c 89m 0y 0k 85c 32m 97y 18k 79c 25m 0y 0k 8c 92m 51y 0k 0c 55m 89y 0k 19c 14m 14y 0k

Sopra a sinistra: segnaletica direttamente applicata su vetro A lato: pannello relativo alle porte, questi pannelli si sono dovuti adattare alle dimensioni delle porte precedentemente esistenti Sopra: i due caratteri utilizzati per tutta la segnaletica Arial Bold e Regular e la paletta cromatica del Politecnico di Torino

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Il carattere tipografico utilizzato è l’Arial, chiaro e leggibile, tuttavia rimane sempre una copia dell’Helvetica. I colori , chiari e ben definiti, permettono una rapida individuazione delle diverse aree e rientrano nell’immagine coordinata. La forma predominante è il rettangolo che a livello grafico riprende la forma dei corridoi. È una forma regolare e modulare. I materiali sono modulari, pieghevoli e di facile spostamento e sostituzione. Le dimensioni sono a misura d’uomo e permettono la leggibilità.

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A ospitare il Museo dell’Arte orientale è il Palazzo Massonis, edificio oggi adibito a museo, distribuito su 4 piani con un percorso complesso. Lo studio Bellissimo propone una semplificazione e una netta suddivisione degli spazi con l’identificazione di colori specifici per ogni differente area geografica e culturale, dando quindi un’identità specifica a ogni parte del museo. Il caratteri tipografici utilizzati sono due: Klavlka ed Helvetica. Il primo è stato adoperato per titoli e alcuni testi, un font bastoni privo di grazie e di elementi che possono creare incomprensioni, decisamente facile da leggere, decisamente facile da leggere. Il secondo è uno dei caratteri più completi al mondo, l’unico difetto: stanca leggermente nella lettura se scritto troppo fitto. Divertente ed efficace è il gioco tra le luci, le fome e la tipografi ca, che creano ombre sulla parete. La grafica del percorso è stata stampata e posizionata su supporti di plexiglass e forex ed in parte dipinta direttamente sulle pareti. Si sarebbe potuto utilizzare un unico supporto o un unico metodo di comunicazione per la stampa e non 3 metodi differenti, ma ovviamente non è stato effettuato alcuno spreco di materiale. Le dimensioni sono studiate e perfettamente a misura d’uomo. Rendono possibile la lettura di ogni cosa senza alcuna difficoltà.

Torino, Italy //////////// Dove Belllissimo ////////// Studio MAO museo arte orientale ////////// Cliente Luca Negro ///////////// Foto 2007 //////////// Anno

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Proposta 2

n forex

Proposta 2

n legno

Sala 1.7 India

forex Sala 1.8 India Sala 1.8

a

olo architettonico

ario pre-buddhista ente una struttura ibile distinguere na cupola, una

manifesta il indiano di lontana e quadrata ola l’acqua e la vertice nella sfera

econdo i punti quattro portali a il grande tumulo a forma quadrata che presto si struttura pirmidale

variazione nel se e della cupola: a parte principale cogliere le reliquie la propria forma, no ad assumere esciata” (tibetano so verso l’alto,

u muro

a nostra era lo te a far parte del rie del monastero enerò il problema ne del suo aci buddhisti mplessa a le strutture dello tali della Dottrina. di reliquiario, il culto ddha e il tradizione indiana l’estinzione del entificazione con hista (dharma). pressione verbale a espressione

The stupa

India

Sed ut perspiciatis, unde omnis iste natus error sit voluptatem accusantium doloremque laudantium, totam rem aperiam eaque ipsa, quae ab illo inventore veritatis et quasi architecto beatae vitae dicta sunt, explicabo. Nemo enim ipsam voluptatem, quia voluptas sit, aspernatur aut odit aut fugit, sed quia consequuntur magni dolores eos, qui ratione voluptatem sequi nesciunt, neque porro quisquam est, qui dolorem ipsum, quia dolor sit, amet, consectetur, adipisci velit, sed quia non numquam eius modi tempora incidunt, ut labore et dolore magnam aliquam quaerat voluptatem. Ut enim ad minima veniam, quis nostrum exercitationem ullam corporis suscipit laboriosam, nisi ut aliquid ex ea commodi consequatur. Quis autem vel eum iure reprehenderit, qui in ea voluptate velit esse, quam nihil molestiae consequatur, vel illum, qui dolorem eum fugiat, quo voluptas nulla pariatur. At vero eos et accusamus et iusto odio dignissimos ducimus, qui blanditiis praesentium voluptatum deleniti atque corrupti, quos dolores et quas molestias excepturi sint, obcaecati cupiditate non provident, similique sunt in culpa, qui officia deserunt mollitia animi, id est laborum et dolorum fuga. Et harum quidem rerum facilis est et expedita distinctio. Nam libero tempore, cum soluta nobis est eligendi optio, cumque nihil impedit, quo minus id, quod maxime placeat, facere possimus, omnis voluptas assumenda est, omnis dolor repellendus. non provident, similique sunt in culpa, qui officia deserunt mollitia animi, id est laborum et dolorum fuga. Et harum quidem rerum facilis est et expedita distinctio. Nam libero tempore, cum soluta nobis est eligendi optio, cumque nihil impedit, quo minus id, quod maxime placeat, facere possimus, omnis voluptas assumenda est, omnis dolor repellendus.

legno

B1

Da sinistra didascalia delle opere su forex e su muro. Segnaletica dipinta su muro per distinguere le diverse sale.

muro 152


Pannello esplicativo in forex

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nopq medium medium A aBbCcDd Ee Ff medium italic medium A aBbCA caDB dbEeCcFfD medium medium italic medium italic A B C D medium italic a b c medium medium NnOoPpQq Rr sS medium Aa medium medium italic NpnQO qoRP rpsSQ medium italic NnOoPAa medium italic medium italic NnOoPp Q medium medium E 1 A2 B3 C4 D 5 6 medium medium 1 A EC4 medium italic medium italic 2 B31C4A2D 5B36 medium italic 1 2 3 4 A B C medium italic medium NOP Q R medium medium italic N O PN QO RP medium italic NOP medium 12345 6 medium medium italic 1 2 31 42 53 6 medium italic 123 medium italic

ASIA MERIDIONALE GANDHARA

SUDEST ASIATICO INDIA CINA

0c 91m 100y 23k 0c 60m 100y 6k 0c 30m 69y 0k 0c 38m 94y 0k

0c 27m 100y 18k

REGIONE HIMALAYANA

0c 8,5m 47y 23,5k

PAESI ISLAMICI

0c 60m 72y 47k

GIAPPONE

0c 34m 72y 30k

Da sopra identitĂ visiva delle aree geografiche e culturali e sviluppo degli elementi grafici. Sotto: palette cromatica e alla sua sinistra i caratteri usati per i titoli: Klavika medium e medium italic e per i testi: Helvetica neue light e regular

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I caratteri sono: 1-Klavlka, medium e medium italic, facile da leggere, font bastoni privo di grazie e di elementi che possono creare incomprensioni. 2-Helvetica Neue, regular e light, uno dei più completi al mondo, l’unico difetto: stanca leggermente nella lettura se scritto troppo fitto. I colori identificano le divAAerse aree geografiche e le culture. Le forme riprendono il logo creando una buona immagine coordinata. Divertente ed efficace è il gioco tra le luci, le forme e la tipografica, che creano ombre.

La grafica è stata dipinta sulle pareti e applicata su pannelli in plexiglass e forex. Si sarebbe potuto utilizzare un unico supporto o un unico metodo di comunicazione per la stampa e non tre metodi differenti, ma non è stato sprecato materiale. Le dimensioni sono a misura d’uomo e rendono possibile la lettura senza difficoltà.

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Pininfarina Extra, società del Gruppo Pininfarina specializzata in product design, ha curato la grafica dell’esterno e l’estetica degli interni dei treni della metropolitana di Torino. L’esterno dei treni è caratterizzato dalla skyline di Torino, mentre l’interno vede il profilo della Mole e delle montagne delle Olimpiadi unito al panorama naturale. Inoltre, un raggio di sole giallo sull’orizzonte blu a ricordare i colori della Città di Torino e quelli del gruppo GTT. La Pininfarina Extra ha anche curato lo studio dei colori e delle finiture degli interni, la grafica informativa e la segnaletica di stazione con i relativi studi di visibilità e posizionamento per tutte le stazioni della metropolitana.

Torino, Italy //////////// Dove Pininfarina extra ////////// Studio GTT gruppo trasporti torinese ////////// Cliente Luca Negro ///////////// Foto 2007 //////////// Anno

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Sopra da sinistra pannello direzionale

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Sopra: illustrazione di Ugo Nespolo

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Aa 0c 0m 100y 0k 100c 70m 0y 0k 71c 55m 55y 35k 70c 60m 61y 51k

In alto: fermate della metro A lato: particolare tipografica e qui sopra la tipografica utilizzata, futura medium e sotto la paletta cromatica

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Il carattere tipografico utilizzato è Futura. Moto famoso e conosciuto, leggibile, a parte l’uso della a “infantile” facilmente confondibile con la “o” da parte di dislessici o persone con imparità visive. I colori sono principalmente giallo e blu, che fanno parte dell’immagine coordinata gtt, ai quali si aggiungono, rosso e grigio, senza contare le diverse colorazioni che prendo tutti i muri delle stazioni e le illustrazioni di Ugo Nespolo. Forme facilmente riconoscibili e ottimo rapporto dimensionale con la tipografica.

Nessuna texture presente.Buona illuminazione e visibilità tramite l’installazione di varie tipologie di luci, compresa la luce lampeggiante per non udenti. Materiali di solito usati in tali spazi. Dimensioni a misura d’uomo.

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Arrivati alla fine del nostro percorso, vorremmo riprendere il tutto dall’inizio per chiudere il cerchio. Abbiamo introdotto la nostra tesi con la definizione di EGD, le aree di cui si compone, i suoi obiettivi e la sua storia. Abbiamo poi presentato le figure che collaborano nella progettazione e quanto sia importante che ci sia un lavoro di squadra fin dal principio della progettazione. Abbiamo capito meglio il contesto, tramite quali modalità esso si relaziona al soggetto, e quanto EGD sia fondamentale nella nostra vita. Ricordiamo ancora che progettare significa soprattutto agire per l’uomo e per questo bisogna operare facendo scelte nel rispetto della sostenibilità ambientale, mettendo l’uomo al centro del progetto e rispettando l’ambiente in cui viviamo. È importante progettare in modo consapevole e sempre meglio, per questo abbiamo cercato di creare uno strumento che permettesse di osservare con occhio critico e valutare bene ciò che esiste prima di cominciare un progetto. Poiché la nostra competenza è riduttiva per poter giudicare complessivamente un progetto EGD, abbiamo ideato una tabella che valutasse principalmente l’aspetto grafico, qualitativo. Abbiamo individuato gli elementi in cui si traduce un progetto EGD, concretamente e non. Tipografia, colore, texture/pattern, luci, dimensioni e materiali sono sette elementi concreti; mentre coerenza e emozioni sono gli altri aspetti considerati. Il nostro giudizio non ha preso in considerazione solo l’aspetto visivo, ma ha anche tenuto conto della sostenibilità ambientale, cioè di quelle soluzioni a favore dell’ambiente, come il risparmio del colore, del materiale, l’uso di materiali di scarto e via dicendo. Premettiamo che, non essendo dei professionisti, le valutazioni che abbiamo dato in base al nostro bagaglio di conoscenza vogliono essere uno spunto per i progettisti per cercare soluzioni diverse, più consapevoli.

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Dalle valutazioni date, abbiamo rilevato che più numerose e forti sono le relazioni tra i diversi elementi, più il progetto stesso si rafforza a livello di immagine e identità. Un altro elemento riscontrato valutando i progetti torinesi, è che è molto importante la collaborazione di tutte le discipline fin dall’inizio della progettazione. Molte problematiche sorgono infatti quando ad esempio si deve adibire a un’altra funzione una struttura già esistente. Il Mao ne è un esempio. È molto più facile attribuire gli stessi elementi, non solo funzionali ma anche grafici, direttamente all’architettura, uno dei supporti principali dell’EGD. In un futuro prossimo molto probabilmente la tecnologia prenderà il primo posto nei progetti EGD, come sta già in parte accadendo se guardiamo quelle gigantesche animazioni sulle facciate di alcuni edifici, interamente digitali ed interattive. E perché non immaginare anche spazi che, interagendo con l’uomo, si modellino sul momento in base alle sue esigenze? Nel frattempo, questo strumento favorisce la comunicazione tra gli attori che prendono parte a questa progettazione, facilitando, permettendo a tutti di parlare uno stesso linguaggio, e capirsi meglio nelle diverse fasi della progettazione. Nulla impedisce che un domani questo strumento venga ampliato a livello tecnologico, arrivando a valutare non solo l’aspetto qualitativo ma anche quello quanitativo e funzionale, rendendo sempre più ottimale la progettazione e la collaborazione delle diverse discipline, requisito fondamentale della sostenibilità. Lasciamo la questione aperta poiché tutto è in un continuo movimento. L’unica cosa da non dimenticare è che la collaborazione tra le parti è fondamentale non solo per realizzare dei buoni progetti EGD, ma anche per operare insieme verso una sempre più completa sostenibilità ambientale.

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Wang Shaoqiang, This way please, China, Pageone, 2009 David Crow, Visible signs: An introduction to Semiotics in the Visual Arts, Singapore, AVA Publishing SA, 2010 Slanted Magazine, Typographie & Grafik Design, n°18, 2012 Eye Magazine, Typography Special, n°83, 2012 Marc Augé, Nonluoghi, Milano, Elèuthera, 1993 Donald A. Norman, La Caffettiera del masochista, Giunti, 1990 Daniele Baroni, Maurizio Vitta, Storia del Design Grafico, Milano, Longanesi, 2003 Renato De Fusco, Storia dell’Architettura contemporanea, Roma, Editori Laterza, 2000 Jhoseph Muller - Brockmann, Grid system in graphic design, Zurigo, Niggli, 2008 Romedi Passini, Wayfinding in Architecture (Environmental Design, vol.4), Van Nostrand Reinhold company, 1984 Bruno Munari, Design e comunicazione visiva, La terza, 1968

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www.segd.org www.arrowsandicons.com www.huntdesign.com www.greenme.it www.pentagram.com www.focusegd.com www.corbindesign.com www.buronorth.com www.cornwell.com.au www.emerystudio.com www.round.com.au www.studio-rasic.hr www.cinqcinqdesigners.com www.desres.de www.f1rstdesign.com www.zup.it www.ruedi-baur.eu www.maotorino.it www.polito.it www.infrato.it www.flickr.com www.googleimmagini.com

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Being clear about what you are doing is a fundamental aspect to design better. To make aware choices, and above all respect the environment, you must first break and assess what has been done, a task that is often overlooked. The proposed methodology is applied to a discipline called Environmental Graphic Design (EGD). Its origins date back to the beginning of ‘900 from the collaboration between graphic design, architecture, eco-design and landscape architecture. EGD works primarily for: steer people (wayfinding), give a sense of place (interpretation) and build identity (placemaking). The largest context of application is the city, where places are divided by the type of access: open, limited and restricted. For a designer is relevant to know how a person perceives the surrounding space. The elements that realize each project EGD are: typography, colour, texture/pattern, lights, shapes, materials and sizes. In addition to these: personal emotions and consistency of the final project. The legend created in this thesis allows to decompose and evaluate in terms of graphical quality, each element of a project, chosen as a “case study�. This method of criticism, even if objectionable, can be very useful to understand the merits/flaws of graphic impact and give a greater awareness in the redesign. Those who have more experience in the field of graphics will have less difficulty in assessing it, but whoever comes to this field for the first time will find information concerning the elements to be evaluated with case studies that have been already evaluated. To make the reader more familiar towards the methodology, there are three case studies of Turin: the head office of the Polytechnic, Mao and the Metro, considered as a whole.


Avere le idee chiare su ciò che si fa è un aspetto fondamentale per progettare meglio. Per fare scelte consapevoli e soprattutto nel rispetto dell’ambiente, è necessario prima scomporre e valutare ciò che è stato fatto, un’operazione che spesso viene tralasciata. La metodologia proposta si applica a una disciplina chiamata Environmental Graphic Design (EGD). Essa nasce agli inizi del ‘900 dalla collaborazione di graphic design, architettura, eco-design e landscape architecture. EGD opera principalmente per: orientare le persone (wayfinding), dare un senso ai luoghi (interpretation) e costruirne l’identità (placemaking).Il contesto di maggior applicazione è la città, dove i luoghi vengono divisi per tipo di accesso: aperto, limitato e ristretto. Importante per un progettista è conoscere il modo in cui un soggeto percepisce lo spazio circostante. Gli elementi in cui ogni progetto EGD si concretizza sono: tipografia, colore, texture/pattern, luci, forme, materiali e dimensioni. A questi si aggiungono le emozioni personali e la coerenza dell’immagine del progetto finale. La legenda creata in questa tesi permette di scomporre e valutare dal punto di vista grafico, qualitativo, ogni elemento di un progetto scelto come “caso studio”. Questo metodo critico, seppur criticabile, può essere molto utile per capire i pregi/ difetti dell’impatto grafico ed avere una maggior consapevolezza nel progettare nuovamente.Coloro che hanno più esperienza nel campo della grafica avranno meno difficoltà nel valutare, chi invece si avvicina a questa disciplina per la prima volta troverà informazioni relative agli elementi da valutare con casi studio già valutati. Per far familiarizzare maggiormente il lettore con la metodologia ci sono tre casi studio di Torino: la sede centrale del Politecnico, il Mao e la Metropolitana; valutati nel loro complesso.



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