Declinazioni e persistenze del gusto egizio

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“DECLINAZIONI E PERSISTENZE DEL GUSTO EGIZIO DAL ‘500 ALL’ETA NEOCLASSICA. IL CASO DELLA SALA EGIZIA DELLA GALLERIA BORGHESE”.

“Ritornavo dopo molti anni dinamici e creativi verso un punto fermo di contemplazione: il mio Egitto natale. Da tempo mi chiamavano i suoi cieli imbottiti di placida polvere d’oro, l’immobile andare delle dune gialle, gli alti triangoli imperativi delle piramidi e le palme serene che benedicono il grasso padre Nilo allungato nel suo letto di terra nera e di erba verde”. (F. M. Marinetti)

INTRODUZIONE

Si può definire persistente un gusto che sin dall'antichità di Roma e ancora per tutta la sua storia dell'arte moderna si è sviluppato all'infinito fino a diventare una moda? Quali sono le tappe di questo percorso che attraversa tutta Roma e che sconfina nei tempi e nei luoghi per arrivare in Francia ai tempi di Napoleone Bonaparte e oltre? Il presente studio intende rintracciare alcuni di quei luoghi e di quelle modalità storico artistiche che sono state toccate dall'impronta di questo gusto di decorare o arredare all'egizia. Le origini di questo presunto stile risalirebbero all'antichità di Roma, nel momento in cui con l'introduzione dei riti isiaci si inaugurano Serapei e Isei in città, anche se è tuttavia nel Settecento che grazie all'influsso delle fantasie di Piranesi e alla nuova concezione di 'antico' che lo stile raggiungerà il suo momento apicale trasformandosi in una ossessione, l'Egittomania. La trattazione si prefigge di delineare quindi una mappatura allo scopo di rendere più evidente l'itinerario che prendendo avvio da Roma imperiale, si declina nel Rinascimento e in Vaticano e si sposta attraverso Tommaso Conca fino alle Marche per giungere al Louvre, in riferimento all'acquisto di Napoleone di parte della collezione di Villa Borghese. Per spiegare questo percorso si evocheranno le immagini che l'Egitto romano ha plasmato nei secoli fino al XVIII quando all'interno di una reinterpretazione delle varie antichità anche quella egizia è finalmente legittimata e menzionata nonché considerata alla stessa stregua delle altre. Grazie infatti alle riflessioni che le querelle sur les Anciens et Modernes hanno portato agli studi (Winckelmann, de Caylus, Cassas, Piranesi ecc.) lo stile egizio prenderà piede e diventerà di diritto una nuova espressione artistica. Sembra possibile poter affermare che uno stile detto egizio, non subirà, in fondo, mai del tutto, un momento di vero oblio poiché la cultura dell'Egitto, si è accostata alla storia di Roma lungo i secoli agendo come un potente e comune denominatore dei suoi costumi, delle tradizioni religiose nonché delle sue variazioni nel campo delle arti. La civiltà egizia è stata per l'Urbe un continuo e perenne fil rouge che ha accompagnato tutta la sua storia.


Plasmando l'arte e l'architettura dell'Urbe, fornendo nell'antichità una religione, trasmettendo durante il Rinascimento il mito del passaggio (la terra del Nilo) attraverso divini instauratori, l'Egitto trasferisce quegli stessi rituali alla civiltà romana. Forgiando la visione di una religiosità che precede e prevede la fede cristiana, con gli scritti di Nanni da Viterbo e le decorazioni di Pinturicchio all'Appartamento Borgia (fig.1) in Vaticano. Le vicende della cultura nata sulle sponde del Nilo ha fornito alla Roma barocca la spinta per avventurose meraviglie speculative e figurative. Si è proposta inoltre come modello culturale a iniziare da Winckelmann per proseguire, nel migliore dei casi, con Piranesi attraverso il quale l'affermarsi del gusto egizio svolgerà una parabola senza pari cancellando di fatto l'origine, nel XVIII secolo, di uno stile detto retour d'Egypte (fig.2) che si sarebbe sviluppato in Francia precisamente a partire dal 1798. Sotto i colpi di tre successivi attacchi: ellenismo tolemaico e poi romano, cristianesimo, e islam, l'antica civiltà faraonica è andata prima affievolendosi poi del tutto dispersa. Ma prima di estinguersi nei sui confini, le sue propaggini si sono diffuse come modello, culturale e religioso, in seguito come memoria, ben oltre i suoi originari confini, in molti casi è stata sorgente d'ispirazione per mondi altri, fino a ricadere tra gli interessi di ambiziosi papi ed eruditi illuministi. Nel quadro generale di tale metamorfica persistenza si identifica una specifica tradizione in cui l'Egitto si connette con Roma, nel 31 a. C. cioè da quando sarà conquistato da Augusto. Dopo la battaglia di Azio, l'Egitto entra come provincia a far parte dell'Impero romano (fig.3) e l'arte di quell'antico paese, di misteriosa sapienza, risveglia l'interesse e l'ammirazione dei romani, intanto costituendo una fonte inesauribile di grano e poi diffondendo i suoi culti religiosi. Il culto di Iside e Osiride (fig.4) prende stabilmente piede e in Italia molti templi in onore di Iside vengono eretti addirittura nel centro di Roma. A Roma in forma più specifica l'Egitto non doveva essere solo presente come ricordo di conquiste passate ma seme di future esperienze di cultura. Più che nelle particolari forme degli edifici cultuali, connessi con una ritualità ormai diversa da quella originaria, il tono egiziano viene ottenuto per mezzo dell'arredo monumentale che a loro si appoggia: statue, elementi architettonici, rilievi, oggetti vari. La consuetudine che vede importare opere d'arte egizia per decorare strutture, case, ville illustri si diffonde fino a prevedere una vera e propria importazione: sono statue di cui si gusta il sapore esotico sia nelle tematiche sia nelle materie prime: le nere pietre dell'età saitica, i graniti. E come prova del potere romano nel paese e dei trionfi si elevano gli obelischi. Questa presenza di originali pregiati invita a imitarne le tipicità, ragion per cui si avrà una ricaduta di materiale egittizzante, tanto in oggetti di arte industriale che esibiscono ricordi nilotici, quanto nelle decorazioni dipinte delle case nobili che hanno richiami e allusioni a un Egitto ormai sempre più acclimatato al nuovo ambiente. Dopo la caduta dell'Impero nessun'opera egizia precristiana giunge in Occidente per più di mille anni. Roma però rimane un deposito di opere d'arte dell'antico Egitto anche se la maggior parte di questi tesori rimane sepolta con l'antica città nel suo sottosuolo. Alla fine del XIII secolo tuttavia a Roma esplode un fenomeno detto 'Rinascimento egiziano' e “ la Sfinge riappare in un riadattamento notevolmente corretto dal punto di vista stilistico tanto che per la prima volta le piramidi vengono usate nei monumenti sepolcrali cristiani” . Questa rinascenza egizia fu però relativamente breve; e quando nel corso del XV secolo, l'interesse si risveglia, esso avrà carattere più duraturo.


Quella riscoperta nel Rinascimento, in ogni caso, si accompagna all'importante approccio condotto dall'Accademia ficiniana di Firenze, centro di cultura greca, dove si affrontano i testi del Corpus Hermeticum, attraverso la cui lettura si constata come il dio della sapienza egiziana, Thot, vi esprimesse ammaestramenti in cui dogmi e atteggiamenti cristiani risultano facilmente identificabili. Si arriva a dare a tali testi valore di profezia per cui Hermes diviene addirittura l'ispiratore di Mosè, e attraverso i cui scritti, l'Egitto, appare possedere già un carattere cristiano prima della presenza terrena di Cristo. La dottrina ermetica è riservata a singoli eletti e non per nulla davanti ai templi sono collocate sfingi cariche di enigmaticità. I testi sono tramandati in una scrittura che deve superare la banalità dell'alfabeto e che deve essere non letta, ma interpretata con i geroglifici. “L'interesse per i geroglifici non come veicolo simbolico perché intraducibile ma come repertorio segnico estremamente variato e unificato applicato a tutte le superfici è crescente nelle letture che allora si davano dell'arte egizia”. Su tale vasto sfondo, assume un peso fondamentale la circolazione (da Firenze) di un manoscritto, titolato Hieroglyphica, portato dalla Grecia da un mercante fiorentino, scritto in egiziano da un certo Orapollo, che darà la convinzione che i geroglifici possano essere interpretati richiamandosi a concetti figurabili che si rifacevano alla storia naturale o al mito, alla letteratura. “Alcuni elementi dell'arte egizia soprattutto piramidi, obelischi, sfingi, sono accolti e assimilati nello stile rinascimentale e post-rinascimentale”. La ragione per cui questi attributi, e non altri, giocheranno un ruolo fondamentale risiede nel fatto che questi erano esattamente i più rappresentativi a incardinare un discorso che non resterà prettamente estetico ma piuttosto politico o di rappresentazione. È rilevante notare che molti di questi connotati dello stile egizio hanno avuto riferimenti funerari. A solo titolo esemplificativo monumenti come la Tomba piramidale di Agostino Chigi a S. Maria del Popolo (fig.5) a Roma, o i monumenti tombali di Canova (fig.6) diventeranno, in seguito, di largo uso nelle strutture sepolcrali diffusi in tutta Europa, e nella fattispecie in Francia. La piramide ha qui la funzione di puro emblema funerario portatore di una pregnanza pertinente l'immortalità. Sembra quindi potersi affermare che gli elementi egizi quando diventano parte di un insieme di stili rinascimentali perdono la loro correlazione con l'arte egizia. Salvo rare eccezioni, tutto ciò sarà vero fino alla fine del XVIII secolo. I frutti di questa scoperta fiorentina avranno una forte incidenza soprattutto in ambito romano. Il domenicano Nanni da Viterbo, facente parte dell'entourage di Alessandro VI, dichiara di aver compulsato, in una biblioteca di Mantova, alcuni scritti da cui si traevano indicazione di un viaggio in Italia di Osiride, venuto a combattere i giganti che opprimevano questo paese. Sconfitti i giganti, restò ancora per dieci anni qui a regnare. Questa è senz'altro, un'ingenua falsificazione, che tuttavia avrà avuto a suo tempo vasta eco, soprattutto in riferimento alle pitture dell'Appartamento Borgia in cui il Pinturicchio narra le origini egizie della casata del papa e l'opera civilizzatrice degli egizi nella nostra terra. E sempre a Roma, questo fiducioso culto del mito egiziano, avrà grande rilevanza con un altro monumento letterario, i Hieroglyphica di Pierio Valeriani, che riprende, non casualmente, il titolo di Orapollo, nella sua voluminosa opera di cinquantotto libri. A questi geroglifici oggetto di ricerca o fantasia ingegnosa, si contrappone l'esistenza dei geroglifici incisi nella pietra, e in particolare degli obelischi (fig.7) interpretati dal gesuita tedesco, Athanasius Kircher. Il suo contributo è una grandiosa esibizione di sapere e di fantasia di cui quel che resta valido oggi è l'intuizione del fatto che il copto (la lingua dell'Egitto cristiano) è l'ultima fase dell'egiziano antico. I geroglifici, com'è noto, ispireranno l'erezione della Fontana dei Quattro Fiumi in Piazza Navona


(fig.8). L'obelisco baldanzosamente si fa centro di un più vasto discorso, tale a quello che sarebbe poi stato l'obelisco del 'Pulcin della Minerva' (fig.9). L'interesse per l'Egitto favoloso, porta a una più attenta osservazione dei monumenti che se ne possono recuperare. Quasi a contrasto con Kircher, nel Seicento, sarà pubblicata una lastra di bronzo recante una serie di immagini egiziane corredata da una iscrizione in geroglifici. È la (fig.10) Tabula Bembina (dal nome del primo proprietario, Pietro Bembo): una tavola d'offerta da un Iseo romano, apparsa sul mercato durante il sacco di Roma del 1527. Tale interesse per i monumenti spiega il formarsi di raccolte costituite da ciò che già si trovava a Roma, e li poneva accanto a questi primi arrivi di materiali archeologici provenienti dall'Egitto per merito di viaggiatori pellegrini, missionari. Una moda che ha già avuto in Kircher un ottimo esperimento di collezionismo, e che non per nulla, troverà il suo culmine nella raccolta che alla fine del Settecento nella sua villa di Velletri, forma il cardinale Stefano Borgia, Prefetto di Propaganda Fide. L'interesse per l'Egitto e le antichità egizie era piuttosto sentito tra quindicesimo e diciassettesimo secolo. I viaggi di studio sul Nilo risalgono ai primi del XV secolo, e non da ultimo, sarà notevole l'apporto di Sebastiano Serlio che aggiungerà al III libro del Trattato di Architettura il testo di un'incisione su legno di una piramide di Giza. È pur vero che fino all'inizio del XVIII le esplorazioni archeologiche in Egitto sono operazioni piuttosto sporadiche e non si può certo parlare di chiara influenza egiziana sulle opere d'arte tra Quattrocento e Cinquecento. Ciononostante costituirà una ricaduta notevole sulla mentalità delle future élite. Da una fonte non ancora confermata sembra che da un fregio di un tempio romano presente nella chiesa di San Lorenzo fuori le mura, gli umanisti prendessero spunto per creare geroglifici pittorici secondo lo stile del proprio periodo. Tutto sommato pare evidente che man mano si viene accumulando un'enorme quantità di materiale geroglifico, materiale incluso nei manuali di mitologia e iconologia e di esso gli artisti se ne serviranno in abbondanza e con un certo grado di libertà. Poco oltre e a più riprese, i papi incominciano a far innalzare gli obelischi, valorizzando in questo modo una moda che già imperava a Roma sebbene l'epoca in cui questo fenomeno avviene non offriva ancora un metodo in grado di decifrare i geroglifici. Si inizia, tuttavia, a delineare un nuovo atteggiamento nei confronti dell'Egitto, che coinciderà, più avanti, con la nascita dell'egittologia, dal momento che a partire dal Settecento l'Egitto comincia a essere osservato sotto una nuova prospettiva. Si fa, come non si era mai fatto, a gara per promuovere osservazioni e ricerche più precise sul posto. Compiere un viaggio in Egitto diventa di moda e molti viaggiatori pubblicano le loro relazioni: l'archeologo francese Paul Lucas (1664-1737), Benoit De Maillet (console generale in Egitto dal 1692), l'antiquario britannico Richard Pococke (viaggia in Egitto tra 1734 e 1740) e F. L. Norden, (esploratore danese in Egitto nel 1738) forniscono alcuni testi esplicativi di questo fenomeno. Come dimostra un illustrazione della piramide di Giza nell'opera di Pococke molte informazioni erano ancora da rettificare ma il disegno appare già più egiziano rispetto ai precedenti, di Serlio, in particolare. Più riuscite sono le illustrazioni di certi dettagli architettonici, come le colonne. Tra questi libri di viaggi, gli scritti composti da Norden costituiscono un modello importante nonostante non fosse in grado di interpretare le caratteristiche specifiche dello stile egizio. Il materiale archeologico da lui pubblicato è insolitamente attendibile e si rivela utile a rettificare alcuni concetti errati sull'Egitto, stimolando l'interesse per l'architettura egizia. Le tavole in esse contenute serviranno anche da riferimento iconografico per edifici realmente costruiti come le architetture egizie dell'Asprucci e del Canina a villa Borghese (fig.11) tratte dalle riproduzioni dell'ingresso del Tempio di Luxor (fig.12) realizzate da F. L. Norden.


Di pari passo con il crescente numero di ricerche in loco di storia, arte, archeologia egiziane, uno studio dei tesori dell'arte egizia esistenti in Europa ha subito un certo incremento. In Italia avevano raccolto ingenti quantità di materiali per esempio Pietro della Valle che aveva vissuto dodici anni tra Vicino Oriente e Egitto e Kircher, a Parigi Peiresc. Il compito di fare una scelta, ordinare e vagliare tutte queste testimonianze del passato dell'Egitto secondo la nuova mentalità razionalistica del Settecento reso ogni giorno più complesso dal flusso di nuovi reperti archeologici in Roma, è stato intrapreso da Montfaucon in Antiquité Expliquée, composto tra 1719 e 1724. Montfaucon illustra esempi di arte egizia con tavole sistematicamente ordinate piene di riproduzioni, “si rifiutava di interpretare i geroglifici, non voleva sentirsi ammirato dalla saggezza egizia e considerava mostruosa la religione e orribile l'arte”. Ma la sua era senza dubbio una mentalità nuova: la mentalità razionalistica del diciottesimo secolo. L'erudizione archeologica e la discriminazione andavano di pari passo con il riservato atteggiamento critico e il distacco emotivo. Poco oltre, nel 1741 William Warburton, vescovo anglicano di Gloucester, pubblica un trattato dove si prendeva gioco di Kircher e consigliava di lasciarlo inseguire da solo “le sue apparenze di sogno nella fantastica regione del platonismo pitagorico”. L'epoca dell'Illuminismo non amava la concezione neoplatonica del mondo che aveva originato la mania rinascimentale per tutto ciò che fosse egizio e aveva portato ad aberrazioni circa l'interpretazione dei geroglifici. Naturalmente il vecchio convincimento che l'Egitto fosse la fonte della rivelazione occulta e misterica era difficile da estirpare e in effetti sopravvive soprattutto attraverso società segrete come i Rosa-Croce o la Massoneria. Mentre lo spirito del neoplatonismo alessandrino e il misticismo venivano a perdere qualsiasi attrazione, ecco che l'arte egizia comincia a esercitare influsso quale stile. Dunque fintanto che l'Egitto restava un enigma e una sfida e che si imponeva alla mente e al pensiero del pubblico non ci fu nessun tentativo di individuare i caratteri specifici dell'arte egizia. Rotto l'incanto e subentrato a esso il distacco archeologico si viene ad aprire la via per la comprensione, l'apprezzamento e l'analisi dell'arte egizia come uno stile di per sé valido. Probabilmente il primo a effettuare questa operazione fu Johan Fischer von Erlach che cercò di dimostrare con la parola e l'illustrazione lo sviluppo ininterrotto della storia dell'architettura egizia, nell'opera del 1721, Entwurf einer historischen Architektur. “L'idea dell'Egitto evoca all'opposto di un'architettura di masse semplici o maestose una profusione di ornamenti in Piranesi”. Nel Ragionamento le affermazioni piranesiane indicano l'arte egizia come arte eminentemente decorativa fraintesa per colpa delle devastazioni inferte dai conquistatori persiani. È esattamente da questa valenza del materiale archeologico che nasce nella Roma neoclassica una reinvenzione dell'Egitto. Ma già nel 1764 Wickelmann prende atto della presenza egiziana nella storia delle arti e ne identifica tipologie ed elementi di stile, dandole in certo modo una preziosa patente di nobiltà fornendo una letteratura ai reperti e monumenti egizi. Lo studioso danese, Iversen Schow, ospite del cardinale Borgia, pubblica a Roma nel 1788 il primo papiro greco, inaugurando un nuovo capitolo del sapere, quello della papirologia; ciò a riprova che l'interesse che l'Egitto suscitava non girava esclusivamente intorno alle arti. Molto più poliedrica è però l'attitudine di chi allora dall'arte egiziana ha tratto modelli e ispirazione. Piranesi, anzitutto, che oppone esplicitamente un suo giudizio positivo riguardo alla presunta 'durezza' delle opere egizie, che altri accusavano, notando che si trattava invece di “solidità richiesta dalla solidità dell'architettura” in cui le opere sono inquadrate. L'incisore veneto, riesamina e ammucchia elementi egiziani nelle sue composizioni decorative, che vi trovano un punto di partenza per opere pregne di fantasia.


L'idea che si ha dell'Egitto all'inizio del XVIII secolo è ancora fortemente influenzata dalla tradizione ermetica rinascimentale, dovuta soprattutto a M. Ficino, nata intorno all'Accademia Platonica di Carreggi. I testi ermetici, anche se scritti in greco, erano considerati opere originali della cultura sapienziale degli antichi egizi, a loro volta latori di una conoscenza ancora più antica. Il fascino dell'Egitto esoterico si protrae per tutto il XVII secolo. Roma e dintorni, al di là degli obelischi e della piramide Cestia (fig.13) all'inizio del Settecento, hanno avuto un ruolo centrale nella rinascita della moda d'Egitto, dovuta ad alcune scoperte archeologiche. Nel 1710 nella vigna di Leone Verospi Vitelleschi, dove Adriano (o Aureliano) aveva edificato un padiglione egizio, sono state trovate alcune statue, poi acquistate da Clemente XI (due nel portico del museo Capitolino e due nel Palazzo dei Conservatori). Nel 1738 fu rinvenuta nel Canopo (fig.14) di Villa Adriana a Tivoli, una statua di Antinoo del II secolo a.C. donata al Museo Capitolino. Il gran numero di opere trovate nel Canopo rese necessaria l'apertura di un piccolo museo egizio, la "Sala del Canopo". Altre opere, ora ai musei Capitolini, furono rinvenute nell'antico Serapeo portato alla luce nel 1719. Il vero artefice, tuttavia, della diffusione della moda egizia nel secolo XVIII è stato G.B. Piranesi già, in anticipo sui tempi, attraverso i suoi primi interessi manifesti nell'incisione del 1743: Sepolcro antico con obelischi e Camera Sepolcrale e in quella delle Rovine d'architettura Egiziana e Greca. Senza dubbio però la grande novità per il gusto decorativo dell'arte occidentale è rappresentata dalla realizzazione, nel 1760, (fig. 15) del Caffè degli Inglesi (perduto) di Piazza di Spagna. Il caffè è ricordato attraverso due incisioni pubblicate nelle Diverse Maniere d'adornare i camini del 1769. Sebbene per Piranesi (in prefazione dell'opera Ragionamento) l'arte egizia era essenzialmente architettonica e ornamentale, e per questo immobile e priva di emozioni, non era stata creata per essere aggraziata. Piranesi scrive in replica a Winckelmann il quale asseriva che gli egizi non avevano mai superato il primo dei tre gradini nello sviluppo della storia dell'arte e che poiché gli artisti egiziani appartenevano agli strati più bassi della società, essi non avevano idea dell'anatomia e il loro atteggiamento mentale era condizionato dalla religione e dalla superstizione. Attraverso i Camini (fig. 16) lo stile egizio si propaga in modo vasto e soprattutto per i decori e gli arredi d'interni influenzando bronzisti e lapicidi romani. È noto che il gusto per l'Egitto andava di pari passo con il crescente fenomeno del collezionismo. Di alcuni personaggi conosciamo le vicende collezionistiche fin nel dettaglio come nel caso del cardinale Stefano Borgia, segretario della Congregazione di Propaganda Fide. Egli raccoglie a Velletri una notevole raccolta di reperti egizi, pari almeno a quella vicenda di collezionismo e decoro che si incontrano magnificamente nella villa del cardinale Alessandro Albani. La Villa Albani, ideata insieme a Carlo Marchionni, la villa è stata completata nel 1763, all'interno della quale vi era un Salone Egizio circolare preceduto da una grande sala rettangolare egizia, mentre adesso il giardino ospita la Galleria del Canopo e un esempio di ‘apartements des bains’ con motivi egittizzanti e antichità egizie come i leoni (fig.17). Lo stesso Anton Raphael Mengs, che realizza il celebre Apollo più tardi con la collaborazione di Cristoforo Unterberger, dipinge la Sala dei Papiri (fig.18) del Museo Pio-Clementino inserendovi motivi egizi. Nel piccolo ambiente Mengs oltre a rappresentazioni allegoriche sulla religione, rappresenta telamoni egizi sulla volta. È noto, inoltre che un tempietto à l' égyptienne (perduto) viene fatto erigere nel 1770 dalla marchesa Margherita Boccapaduli nella propria villa fuori Porta San Lorenzo. Ma l'ambiente più importante per la diffusione del gusto egizio a Roma è senz'altro la Sala Egizia (fig.19) della Galleria Borghese. Dal 1775 Marco Antonio incarica l'architetto Antonio Asprucci. All'interno dell'edificio, per contenere al meglio le opere egizie della collezione, viene


ideata una sala appositamente predisposta con decori e dipinti in stile. I lavori della sala durano dalla primavera del 1778 all'autunno del 1782. Diversi artisti collaborano all'impresa, ma è Tommaso Conca ad avere il ruolo principale, dipingendone la gran parte. A lui si deve la tela centrale del soffitto, un'allegoria egizia con la Dea Cibele/Iside nell'atto di versare i suoi doni sul terreno egiziano, caratterizzato dal Nilo/Osiride, personificato dalla Sfinge e dalle piramidi. Francesco Parisi descrive il punto centrale del Nilo “mostrando il volto, non come una volta, avviluppato in un panno”, riferendosi probabilmente al Nilo col viso coperto della Fontana dei Fiumi (fig.20) perché, com'è noto, in quel momento ancora non erano state scoperte le sue sorgenti. Il soffitto della sala è diviso in otto riquadri in cui Conca raffigura i sette pianeti principali con in più la stella Sirio, a cui corrisponde una divinità alata con la testa di Anubi /Ermete -Thot, ovvero di un cane. L'immagine è posta in primo piano nella parete principale, volendo dare così risalto all'importanza data dagli antichi egizi all'astro. Infatti l'anno, nell'antico Egitto, iniziava con la piena del Nilo che coincideva con la riapparizione nel cielo di Sirio. Nella sala dunque troviamo la triade egizia (più sette pianeti nella tradizione ermetico -alchemica). Nella parte superiore delle quattro pareti sono disposti dodici dipinti rettangolari di Conca datati al 1780: caccia ai coccodrilli, un culto isiaco in finto bassorilievo monocromatico, la caccia agli ippopotami, la morte di Marco Antonio, paesaggio con il colosso di Memnone, Cleopatra ai piedi di Augusto, Germanico che consulta il toro Apis, il sacrificio di Apis, il festino di Cleopatra, paesaggio col tempio di Iside, la morte di Cleopatra (firmato e datato). Dal riepilogo dei lavori del 1781 si evince che Conca ne effettua tre a olio su parete e nove su tela. A causa delle pessime condizioni dei dipinti su parete Paesaggio con Memnone e Rituale con Apis, vengono sovrimposti da copie identiche di Stanislao Ferrazzi nel 1911 poi sostituite dagli originali. In questa serie di dipinti Conca trae spunto da quelli di Ercolano e Pompei, in particolare dal tempio di Iside scoperto nel 1764 a Pompei. La sala conteneva anche numerose sculture e tra queste, tre sono state ordinate a A.G. Grandjacquet: Iside, Osiride e un'Iside in granitello. Una statua di basalto dedicata al dio Herishef, un'altra divinità Ounot, con testa di leone, un'altra ancora molto restaurata ritraeva Tutmosi III, acquistata da Piranesi per 50 scudi! La decorazione originaria ha avuto tuttavia breve vita poiché il 27 settembre del 1807 la collezione viene venduta a Napoleone costituendo il primo fulcro del museo parigino del Louvre (fig.21). Fuori dai confini laziali, a Città di Castello, Conca riceve l'incarico di decorare in idioma egizio, una sala della villa Lignani Marchesani (figg. 22-24). In una villa Chigi (figg.25-31) a Siena è stata recentemente rinvenuta (da chi scrive) una sala all'egizia che ha il carattere delle decorazioni settecentesche dello stesso tipo. Anche se si presenta diversa dal prototipo Borghese offre una maggiore ricchezza di geroglifici di fantasia riecheggianti tra le pareti decorate e le volte. Nella Villa Sciarra di Roma, la cosiddetta fontana delle Sfingi (fig.32) si riallaccia iconograficamente al tema dell'Egitto, così come l'obelisco di Ramses II a villa Celimontana (fig.33) nonché quelli presenti nelle ville Torlonia (fig.34). Si potrebbe dunque sostenere che in generale, il secolo XVIII segna una rottura nel rapporto tra la rappresentazione figurata dell'Egitto e i suoi tradizionali contenuti di carattere ermeticosapienziale, per diventare o semplice elemento d'arredo, quando non espressione massima di rappresentazione del potere acquisito e sfoggio dunque delle proprie collezioni o se non altro, almeno il segno distintivo di un gusto reiterato nei luoghi di Roma adesso più che mai. Lo stile si evolve prendendo una via di tipo esornativo a carattere esotico: donde gli stessi cabinet all'egizia sono ritenuti d' interesse pari alle stanze à la chinois o alla greca ovvero che addirittura stimolano una produzione di oggetti che assumono un tocco marcatamente kitsch come è evidente nelle


porcellane ottocentesche d'oltralpe (fig. 35) o che detronizzano l'Egitto da terra misteriosa a caffè, salotto, quando approda a Sèvres (fig. 36) o in Inghilterra con Thomas Hope (figg. 37-39) o nella forma più stilizzata del Caffè Pedrocchi a Padova (fig. 40). Eppure la prima forma di approccio all'arte di un Egitto più misterioso ed ermetico, non scomparirà mai del tutto, per trasferirsi negli occulti riti della nascente massoneria. La scelta optata, di individuare tra le diverse correnti artistiche un periodo particolare, è ricaduta su quella relativa al XVIII secolo dal momento che più stringente appare il legame con una declinazione egizia di tipo decorativo e anzitutto data la presenza nel secolo di Piranesi e della sala egizia Borghese. Ma non è la sola ragione: il Settecento, in particolare quello della seconda metà è un secolo talmente ricco di incidenze fondamentali in cui infatti s'incardinano molteplici discorsi storici e artistici (la visione illuministica, Ercolano e Pompei, le propaggini tardo barocche, la nuova età neoclassica ecc.) rendendo più puntuale una trattazione che invece esclude riflessioni di ordine esoterico -massonico. Tutto sommato sembra potersi sostenere che “l'engouement pour l'Egypte antique, son architecture, ses objets, ses mythes représentent probablement une permanence rare de la curiosité occidentale, depuis l'antiquité grecque et romaine”. Nella porzione dei secoli analizzati: “Cette permanence, qui peut prendre la forme d'orientalisme, exotisme ou égyptomanie, connait, lorsque la mode s'en mêle, des poussées de fièvres […] attisées” nel XVIII secolo “par le récits de voyageurs et les découvertes archéologiques”. L'idea stereotipata di un Egitto misterioso e magico perdura anche dopo la riscoperta del suo passato più autentico. Se all'inizio del XV secolo, nell'ambito della rivalutazione della classicità, rinasce la curiosità per le cose all'egizia che affiorano dal sottosuolo di Roma e che cominciano ad apparire come oggetti sparsi nelle raccolte 'd'arte e di meraviglie', più avanti non smettono di risvegliare l 'interesse per la sapienza e la saggezza di ogni forma più caratteristica dell'intera civiltà egizia espressa da un'arte e una scrittura cosi particolare: “palazzi nobiliari romani (e non solo) monumenti, fontane della capitale vengono decorate utilizzando simboli egizi o geroglifici (veri o falsi), modelli di statue o monumenti originari giunti in Italia in epoca imperiale, mentre nobili, papi e imperatori fanno reinterpretare i propri stemmi allo scopo di rintracciare origini egizie nella propria discendenza” . L'entusiasmo suscitato non solo dalla riscoperta ma anche nel riutilizzo dei monumenti o reperti egiziani provocato da quella che Donadoni chiama 'ubriacatura neplatoneggiante' ne stimola anche lo studio più attento e puntuale, in parte aiutato dall'archeologia della Roma rinascimentale che aveva consentito di riportare alla luce molti dei monumenti provenienti dall'Egitto, ma anche di affinare le tecniche indispensabili alla rimozione dei reperti rinvenuti e dalla loro eventuale ricollocazione. Tali tecniche hanno permesso tra l'altro a papa Sisto V di realizzare il progetto che era stato di Niccolò V, ovvero il riassetto di una parte dell'area vaticana e la nuova allocazione dell'obelisco di San Pietro. Resta da domandarsi come fosse possibile che tanta attenzione all'Egitto fosse conciliabile con lo spirito contro- riformistico che costringe la Chiesa a prendere le distanze da tutti i fenomeni legati al paganesimo. Un eventuale tentativo di risposta, può venire dalla dedica incisa sulla base dell'obelisco di San Pietro, dove è sottolineata la chiara volontà del pontefice di riconquistare un perduto cristianesimo “pietra così meravigliosa” per sottrarla alla “gloria mondana de' Gentili […] consacrandola in sostegno” e per così dire ai piedi della “Santissima Croce”.


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