Gli Orienti
di Pier Paolo Pasolini Il fiore delle mille e una notte. Viaggio fotografico di Roberto Villa nel cinema Pasoliniano.
Gli Orienti di Pier Paolo Pasolini Il fiore delle mille e una notte. Viaggio fotografico di Roberto Villa nel cinema Pasoliniano. Testi / Text / textos Angela Felice Roberto Chiesi Paolo Nutarelli Roberto Villa Copertina e impaginazione / Cover and layout / Diseño Gianluca Puliatti, agenzia NFC - Rimini Catalogo edito da / Edited by / Publicado por Agenzia NFC di Amedeo Bartolini & C. sas - Rimini ISBN 9788867263066 © Roberto Villa © 2021 Agenzia NFC di Amedeo Bartolini & C. sas Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione anche parziale dell’opera, in ogni sua forma e con ogni mezzo, inclusa la fotocopia, la registrazione e il trattamento informatico, senza l’autorizzazione del possessore dei diritti. All right reserved. No part of this publication may be reproduced or trasmitted in any form or by any means, electronic or mechianical, including photocopy, recording or any information storage and retrieval system, without prior permission in writing from the publisher. Reservados todos los derechos. Queda prohibida la reproducción, incluso parcial, de la obra, en cualquier forma y por cualquier medio, incluida la fotocopia, el registro y el tratamiento informático, sin la autorización del titular de los derechos.
Gli Orienti
di Pier Paolo Pasolini Il fiore delle mille e una notte. Viaggio fotografico di Roberto Villa nel cinema Pasoliniano.
Indice / Index / Índice 9 Quando la pittura diventa fotografia Paolo Nutarelli 15 Fotografie dell’altrove. Suggestioni in margine agli scatti di Roberto Villa Angela Felice 25 La rivelazione dell’Altro. Le fotografie di Roberto Villa ‘dentro’ Il fiore delle Mille e una notte Roberto Chiesi 29 “Fotografare una Fiaba” partendo da una tavola rotonda su TV e linguaggio audiovisivo Roberto Villa
193 When Painting becomes Photography and vice versa Paolo Nutarelli 195 From a faraway world. Reflections and suggestions on the pictures by Roberto Villa Angela Felice 199 The revelation of the Other. The pictures by Roberto Villa “inside” The Thousand and One Nights Roberto Chiesi 201 “Photographing a Fairytale” starting from a panel discussion on TV and the audiovisual language Roberto Villa 225 Cuando la Pintura se vuelve Fotografía y viceversa Paolo Nutarelli 227 Fotografías de otra parte. Sugestiones al margen de las tomas de Roberto Villa Angela Felice 231 La revelación del Otro. Las fotografías de Roberto Villa “dentro” de La flor de las Mil y una noche Roberto Chiesi 233 “Fotografiar un Cuento de Hadas” partiendo de una mesa redonda sobre TV y lenguaje audiovisual Roberto Villa 225 Index of photographs 265 Índice de fotografías 273 Il film / The movie / El film 281 Biografia / Biography / Biografia
Roma Sabaudia
Italia
Wadi-Dhahr Khamir Sana’a
Eritrea Karen
Asmara Zebid Ta’izz
Aden
Yarim
Murcheh
Iran
Nepal
Esfahan
Katmandu Shibam Hadramaut Sayun
Yemen Suqra
Al Mukalla
I luoghi del film Luoghi delle riprese Luoghi in cui Roberto Villa seguì la lavorazione del film 7
Quando la pittura diventa fotografia
Paolo Nutarelli Studio in Genova Vico Sotto le Murette
L’invenzione della fotografia e la sua successiva affermazione hanno da subito stimolato una vivace disputa con la pittura e, di conseguenza, un attento confronto. La nuova scoperta che permetteva di “costruire” immagini dalla realtà con un procedimento automatico entusiasmò un vasto pubblico. L’argomento fu trattato e descritto nelle sue potenzialità sulla stampa dell’epoca tanto che, da parte di alcuni, si arrivò a decretare la fine della pittura. Non tutti i pittori ebbero timore della nuova scoperta, anzi ne individuarono i possibili vantaggi per cui all’inizio pittori e fotografi si imitarono a vicenda. Poi gradualmente il fotografo rinunciò al voler emulare la pittura con lo strumento fotografico e incominciò a definire i vari ambiti in cui agire: la storia, l’antropologia, la sociologia, la storia dell’arte, la geografia ecc. e i generi: il ritratto, il paesaggio, il reportage ed altro. In questi settori il fotografo ha incominciato ad operare con il presupposto della
documentazione perché la foto, fin da principio, era diventata il più credibile “oggetto” della memoria. Ma contemporaneamente c’era chi sperimentava altre modalità artistiche attraverso la nuova scoperta. Quindi, in un tempo relativamente breve, il fotografo fu riconosciuto come artista e la sua produzione entrò a far parte del mondo dell’arte. Sulla relazione tra il modo di operare del fotografo e quello del “pittore”, oltre alla corrispondenza di produrre immagini, esistono delle differenze che direi derivabili, nel caso della fotografia, dallo strumento stesso. La più significativa è che il fotografo agisce come uno spettatore che, di fronte alla visione del reale, sa scegliere il momento per bloccare un frammento di realtà in un’immagine. Mentre il pittore, di fronte a qualsiasi visione reale o pensata, agisce immediatamente con l’idea di costruire un’immagine attraverso un manufatto pittorico.
1973, Esfahan, Persia, Moschea del Venerdì. Fra Pasolini e me c’era un dibattito in atto sul concetto di linguaggio del cinema. PierPaolo sosteneva che il Cinema è “Il linguaggio della realtà” ed io che è “solo un linguaggio”. Ho colto PPP con una mano sulla cinecamera, vicino c’era un attore con il ciack, me lo sono fatto dare e l’ho porto a PPP, dicendogli “PierPaolo prendi, ti faccio un ritratto”, mentre lo prendeva mi ha detto “... ma è una finzione”, al che ho risposto, “Si, anche il cinema è una finzione”. Lui, memore del nostro dibattito, ha sorriso ed io ho scattato. È l’unica foto al mondo in cui lui guarda in macchina e sorride a chi lo fotografa! 9
Atterraggio di un Douglas Aircraft Company - DC3 - sulla rudimentale “pista” costruita nel deserto, in primo piano, in controluce due militari si proteggono dal sole sotto le ali di un aereo in sosta. La temperatura di quei giorni raggiungeva e superava i 40 gradi.
Infatti, se il reale fotografato è la traccia di un momento, per il pittore, se è ancora legato alla raffigurazione, il reale è “la sostanza” che può essere modificata. Di sicuro, questa differenza tra i due mezzi espressivi diminuisce nel caso della fotografia sperimentale e di ricerca (Man Ray, Moholy-Naghy, El Lissitzky). In ogni caso la fotografia, come nel praticare tutte le altre arti visuali, si esprime al meglio attraverso la cultura sulle immagini posseduta dall’autore. Ma se il pittore può avere tempo per progettare, costruire, configurare un’immagine riflettendo sulla sua genesi, il fotografo, nel nostro caso Roberto Villa, “progetta” nell’immediato l’immagine definitiva. Ogni scatto deriva dalla conoscenza specifica dell’autore: che sa inquadrare, ricercare l’equilibrio tra forme, luci, ombre 10
e colori, e sa considerare determinante il rapporto tra le figure e lo sfondo nel brevissimo tempo in cui decide di scattare la foto e tutto questo corrisponde alle qualità del “buon pittore”. Così procedendo Roberto Villa ha raccontato e ha reso permanenti molti degli istanti vissuti nei luoghi e durante i momenti e le situazioni che sono serviti a Pasolini per costruire la sua opera filmica. E nessun pittore può fare tutto questo: ecco un’altra delle differenze tra i due modi autoriali. Quindi, al di fuori dei generi, sono nate le fotografie sul set del “fiore delle mille e una notte”. La prima impressione guardandole è di un reportage fotografico. Ma Villa non si limita a documentare meccanicamente ciò che gli si presenta allo sguardo: sa scegliere i soggetti, i contesti
Scaricamento del «nostro» DC3 - Dakota - Il nome “DAKOTA” è stato dato dalla RAF (Royal Air Force) ai suoi velivoli dal 1942, questo nome lo contraddistinguerà in tutto il mondo sino a tutt’oggi. A dimostrazione della sua eccezionale flessibilità lo dimostra la longevità d’uso, ancora oggi non è difficile vedere un DC3 volare per i cieli di ogni continente.
e gli ambienti che vuole rappresentare, sa procedere come procede il lavoro del pittore quando con equilibrio identifica i soggetti da dipingere. La denominazione che Villa ha dato alla serie di foto da lui scattate indica la situazione ambientale in cui è avvenuto lo scatto (es “Pasolini sul set”; “Immagini oltre il set”; “Ritratti, volti, corpi, gente”, ecc) e in ogni situazione l’autore ha scelto la configurazione più pertinente per caratterizzare il momento del lavoro pasoliniano a dimostrazione che la specificità del fotografo è nel definire in un attimo l’immagine migliore. Consideriamo, inoltre, che in quel periodo le riprese fotografiche avvenivano con la macchina analogica e fotografare era un professione che richiedeva competenze approfondite. Pertanto con un approc-
cio diverso da chi, al giorno d’oggi, può servirsi, anche in modo eccessivo, della fotografia mediante la tecnologia digitale che fornisce strumenti facili da usare e sempre a portata di mano. La semplificazione dei mezzi di ripresa, che ha contribuito ad ampliare il numero delle persone che fotografano, è, affine, nell’ambito delle arti visuali all’incremento di tanti pittori dilettanti. La cui attività, spesso un po’ improvvisata e da incompetenti deriva, forse, da un inesatto e superficiale giudizio sulla produzione dell’arte del Novecento, dove il creare opere d’arte sembra quasi banale. Questo espandersi di “pittori” sembra aver diminuito le competenze richieste per lavorare con le immagini. In ciò un’altra analogia tra pittura e fotografia.
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Fotografie dell’altrove. Suggestioni in margine agli scatti di Roberto Villa Angela Felice
Esistono delle regole non scritte, ma non per questo meno vincolanti, nella stesura di premesse o di testi “parassitari” che corredino a latere le opere altrui. Si tratta, generalmente, di rendere omaggio all’autore, chiosarne le probabili intenzioni, fornire qualche fugace guida per i futuri lettori, auspicandone la condivisione numerosa, e dunque, per questo insieme di operazioni, di ricorrere all’arsenale delle buone maniere letterarie del galateo prefatorio. Ma ora tanti motivi mi inducono a saltare a piè pari le comode vie delle convenzioni, a imboccare percorsi più personali, estravaganti e a loro modo obliqui e a procedere per suggestioni e cortocircuiti. Tanti motivi, infatti, tra i quali metto in conto innanzitutto la stima e l’amicizia per il maestro Roberto Villa e, poi, il rispetto dovuto a questo suo “primo” libro, in cui egli mette a disposizione e ci fa rivivere con parole e per immagini un momento decisivo – forse il più esaltante e avventuroso – del suo lungo impegno di fotografo e lo eleva a cuore di tutta una vita professionale e, perché no, anche sentimentale ed emotiva. Prendo le mosse dunque da La Divina Mimesis, straordinario poema in prosa di Pasolini che uscì per Einaudi nel novembre 1975, a pochi giorni dal brutale assassinio del suo autore. Non postumo o
suo malgrado testamentario, questo testo va letto invece come l’ultima opera organizzata e licenziata dallo stesso Pasolini, come “documento” di cui non poté vedere la stampa o semmai, col pensiero a Petrolio – questo sì postumo a tutti gli effetti – come sua anticipazione formale: un palinsesto sperimentale di testo-progetto, frammentario, stratificato per accumulazioni orizzontali, volutamente esibito nell’incompiutezza dell’antiromanzo o del romanzo impossibile. Non è il caso qui di entrare nella raggiera di significati di questo affascinante scritto-capolinea, in cui Pasolini raccolse materiali risalenti al 1963 e poi altri, slabbrati, di anni immediatamente successivi e in cui si impegnò non tanto a imitare la Commedia di Dante – e come farlo a confronto con l’“ideologia di ferro” che ne compattava la solida architettura medioevale? – quanto a ricreare un’opera “altra” e tutta sua, memore più di Rimbaud che del sommo poeta, il cui poema fosse usato semmai come traccia allusiva e ipotesto. Di fatto, nella sua Divina Mimesis, Pasolini ricapitolò l’ennesimo bilancio di se stesso e testimoniò la crisi del proprio tempo e del proprio essere scrittore, nella frattura irrimediabile tra un sé – Virgilio fragile e “ingiallito” e un sé – Dante smarrito nella “Selva” oscura del consumismo mercanti15
Questo DC3, autentico “muletto dei cieli” dell’Alyemda, compagnia aerea nota come Democratic Yemen Airlines o, più semplicemente, come Yemen Airlines, allora era la compagnia aerea nazionale dello Yemen del sud. Nata ad Aden nel 1971 dopo la nazionalizzazione della Brothers Air Services, compagnia di proprietà dei fratelli Ba Haroon.
le, ossia tra gli Anni Cinquanta e gli Anni Sessanta, tra le speranze civili e gramsciane dei primi e le delusioni dei secondi, corrotti dall’inferno neocapitalistico della Dopostoria e, per il poeta, incupiti anche dallo spettro della paralisi creativa e dalla coazione a ripetersi. Lo scacco, invece che essere dichiarato ideologicamente, trovava così la sua necessaria espressione nella stessa organizzazione formale di un testo progettato come work in progress, in evoluzione antistoricistica come la vita: un conglomerato eterogeneo di parole, per appunti, frammenti, note a piè di pagina lasciate in bianco, postfazioni redazionali fini a sé. E tuttavia a questo magma della scrittura incapace di coagularsi, proprio nella fase finale della progettazione editoriale del 1975, Pasolini pensò di aggiungere in 16
appendice un dossier di venticinque fotografie in bianco e nero: un’“Iconografia ingiallita”, la definì, che desse prova di una collaterale e allusiva “poesia visiva”. A ben vedere, alla fluidità della parola sperimentalmente centrifuga si opponeva così la fissità dell’immagine, che è in sé definitiva, non equivocabile e con quel tanto di vagamente mortuario che ogni scatto trascina con sé. Per Pasolini quello era certamente un espediente per arricchire l’intenzione documentaria del libro anche con un ulteriore strato linguistico, in questo caso visivo, “peraltro assai leggibile”, come chiosò lui stesso nella prefazione datata 1975. E in sostanza egli scelse di accostare per contrasto foto significative del suo percorso autobiografico e, per estensione simbolica, del dissidio più generale tra gli Anni Cinquanta
delle illusioni e gli Anni Sessanta dei disincanti. Eppure in questa sorprendente e anomala galleria di fotografie, vi è una sorpresa, che occhieggia proprio al termine di quella sorta di album soggettivo e collettivo. L’inserto si conclude infatti con l’accostamento-choc tra le due fotografie, da un lato, della Chiesa parrocchiale di Casarsa, affacciata su un piazzale desolatamente vuoto, e dall’altro di un gruppo di bambini africani in primo piano, laceri, serissimi e dignitosi, sullo sfondo un generico e povero villaggio di capanne. Per chi conosca la biografia artistica e intellettuale di Pasolini, il significato di questo abbinamento spiazzante non è inafferrabile, anche se di primo acchito tanto leggibile non è, come pensava l’autore. In quegli ultimi due tasselli della sua “Iconografia”, Pasolini congiungeva ver-
tiginosamente l’Alfa e l’Omega della sua vicenda esistenziale e creativa, sollecitata sentimentalmente da una spiccata sensibilità e sensualità topografica. Ed ecco, da un lato, l’eco di un’originaria ispirazione da meglio gioventù friulana, ma ora vuota, allontanata e definitivamente “ingiallita”; e dall’altro ecco la scheggia africana di una geografia della fame e insieme della verità, da contrapporre (ancora? e fino a quando?) all’Irrealtà del benessere occidentale. Ed è sintomatico che Pasolini abbia scelto di sigillare questa sua Mimesis, che poi si è rivelata ultima, con una enigmatica proiezione terzomondista, che tra l’altro non trova appigli nel palinsesto mobile del testo verbale, come avviene sia pur allusivamente per le altre immagini della galleria, e apre così interrogativi sul senso del suo spaesato inseri17
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La grande tradizione dell’architettura araba, è ben visibile con i suoi muri bianchi, i suoi muri color sabbia e di mattoni cotti al sole, ma anche per le residenze dei potenti e piccole moschee, per le modeste case private come per i grandi palazzi delle istituzioni.
mento. Foto “ingiallita” anch’essa, come la speranza? O non piuttosto spiraglio su una via possibile di fuga dall’inferno consumistico e dall’impasse della parola? Di fatto, sia Casarsa che l’Africa rinviano a due “altrove”, temporalmente e simbolicamente sfasati: il primo è un altrove contadino e popolare, ormai cancellato e perduto; il secondo è un altrove da “Africa, unica mia alternativa”, ipotesi e miraggio di una geografia da spostare più in là, o più in giù, per la ricerca di verità umane in via di estinzione. Era qui, nel divagare di questa promessa, che il discorso puntava e tendeva. Qui, perché appunto foto dell’“altrove” sono anche quelle scattate da Villa al seguito della troupe del Fiore delle Mille e una notte, sul set e fuori. Sono foto infatti che, da un lato, fissano il lavoro del visionario regi20
sta-antropologo che scrisse di conoscere gli arabi più dei milanesi, perché la sua era conoscenza “esistenziale”, non libresca, e perché nella cultura tradizionale di quei popoli da terzo Mondo, “da Napoli in giù”, egli intravvedeva isole “altre” di sopravvivenza dell’arcaico, per quanto minacciate dall’omologazione su confini sempre più porosi. E sono foto, dall’altro lato, che lo stesso Villa, chissà quanto contagiato dal maestro, ha poi scattato da solo per raccogliere un suo personale dossier dell’“altrove”, stampato su facce, corpi, gesti, fogge degli abiti, luoghi, case, colori. E perciò tutto questo complesso di immagini trasmette un valore che va al di là del puro significato documentario, che pure c’è, e preziosissimo, come anche al di là dell’indiscutibile perfezione tecnica o del risultato estetico. Di più, esse pa-
iono siglate dal dono della curiosità non invasiva e non invadente, dal piacere della scoperta e dal principio guida del rispetto, oggi diremmo, “interculturale”, sfumato poi di ammirazione stupefatta quando in campo è il geniale, febbrile regista Pasolini fotografato al centro della sua fucina creativa, in cui all’“altro” imprime la sua visione “altra”. E insomma, dietro l’impaginazione impeccabile, queste foto stupiscono perché in prima battuta sono esse stesse originate dallo stupore, che è la virtù e il motore di chi sa incantarsi davvero davanti all’incognito e vuole non adulterarlo ma semmai osservarlo e forse tentare di capirlo, metà fuori e metà dentro, un po’ sguardo partecipante e un po’ sentimento di estraneità, nella consapevolezza che poi, alla fine del gioco, ci si dovrà allontanare e si dovrà ri-
entrare, portandosi dietro solo frammenti di mistero. Piace allora ricorrere alla parole, datate 1965 ma riutilizzate ancora dieci anni dopo, che Pasolini scelse a chiusa della Divina Mimesis da cui sono partita per queste rapide note. Parole che qui possono fungere come una struggente didascalia non solo del desolato ma non arreso Pasolini dell’ultima fase, ma di chiunque vada in cerca di realtà sconosciute (da fotografare?) e sia in perenne cammino, mentre la verità resta sfuggente, la parola frana e l’inferno, inarrestabile, avanza. “Sono passato, così, come un vento dietro gli ultimi muri o prati della città o come un barbaro disceso per distruggere, e che ha finito col distrarsi a guardare, e a baciare, qualcuno che gli assomigliava prima di decidersi a tornarsene via (1965)”. 21
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Shibam - Yemen - Hadramaut La capitale della dinastia degli Yafur, nel IX secolo, quando fu costruita la sua grandiosa moschea, una delle più antiche dello Yemen. La Città dei Grattacieli di mattoni cotti al sole nota, nei tempi moderni, come la Manhattan del Deserto. 23
La rivelazione dell’Altro. Le fotografie di Roberto Villa ‘dentro’ Il fiore delle Mille e una notte Roberto Chiesi Centro Studi – Archivio Pier Paolo Pasolini della Fondazione Cineteca di Bologna
Gli sguardi degli intrusi, a volte, sono illuminanti, perché la casualità, più o meno voluta, delle intrusioni può essere fertile di angolazioni inedite, può catturare dettagli rivelatori, può rivelarsi più necessaria della presenza di chi era previsto. Fra i membri della troupe che lavorava al film Il fiore delle Mille e una notte di Pier Paolo Pasolini, c’era un intruso privilegiato e si chiamava Roberto Villa. Fotografo professionista e eclettico appassionato di linguistica e audiovisivi, aveva avvicinato Pier Paolo Pasolini al termine di una tavola rotonda sul linguaggio audiovisivo organizzata a Milano nel 1972, ai tempi della pubblicazione della celebre raccolta di saggi Empirismo eretico. Correvano gli anni del trionfo, più commerciale che critico (la rivalutazione sarebbe venuta dopo) della Trilogia della vita: il nome di Pasolini era legato ad una raffica di scandali ancora più violenta che in passato e ad un erotismo ‘liberato’ che l’industria subito si era affrettata a sfruttare in una serie di sottoprodotti. Villa si interessava di linguistica ma anche di cinema e aveva seguito i film di Pasolini fin dai tempi delle proiezioni nei cineforum di Genova, sua città natale. In qualità di fotografo aveva già intrapreso numerosi viaggi in tutto il mondo e
così, quando seppe che nella primavera del 1973 lo scrittore-regista avrebbe realizzato le riprese del suo prossimo film, Il fiore delle Mille e una notte, l’ultimo della Trilogia (che all’inizio si intitolava solo Le Mille e una notte) in Arabia e in Persia (oltre che in Africa), pensò di realizzare un servizio fotografico sulle riprese. Sarebbe stata anche l’occasione per continuare, nei limiti del possibile, le conversazioni con Pasolini. Un altro forse non avrebbe affrontato un viaggio nello Yemen e in Iran per motivazioni che andavano oltre la sfera strettamente professionale ma per fortuna Villa era ed è un uomo di passioni e anche quella volta fu più forte di lui. Così, accanto alle immagini di Angelo Pennoni, fotografo di scena ufficiale inviato dalla PEA (la società di Alberto Grimaldi produttrice del film), si aggiunsero quelle di un intruso che poteva vagare liberamente con lo sguardo dentro e fuori dal set. L’anomalia di Il fiore delle Mille e una notte, come di quasi tutti i film di Pasolini, consiste anche nei confini non facilmente definibili del set, ossia del quadro di realtà che sarebbe entrata a nutrire il film. In realtà, tutto ciò che palpitava e respirava del mondo intorno ai luoghi dove Pasolini girava, ne era diventato parte, era investito dalla finzione 25
Cielo e alture, entrambi immanenti sulle basse costruzioni a due piani di collegi o residenze militari, o ancora su case “grattacieli” di otto piani di mattoni cotti al sole, in parte dipinti di bianco, altri in color ocra, chiaro e scuro, il colore proprio dei mattoni.
pasoliniana che reinventava la materia e la corporalità di luoghi e individui che si trovavano in quelle ore a Ta’izz, Aden, Al Mukalla, Hadramaut, Shibam o Murcheh Khvort o Esfahan o altrove. Questo perché non erano luoghi e spazi qualsiasi: erano gli ambienti dove si era ancora conservata quell’identità popolare, con tutta la sua fisicità e violenza, autenticità e pericolosità, che apparteneva al mondo antico, il mondo delle differenze culturali e delle particolarità, il mondo contadino che seguiva le leggi delle stagioni e dei rituali religiosi. Quel mondo che in Occidente e nell’Italia così appassionatamente amata da Pasolini, si stava estinguendo, per lasciarsi sedurre e corrompere dalle esiziali, irresistibili sirene del consumismo. Ma il mondo arabo e persiano delle Mil26
le e una notte era altro. Nel film si assiste ad una continua, permeabilità fra l’identità reale dei luoghi e degli individui e la loro trasfigurazione nell’immaginazione pasoliniana che si nutre proprio della loro realtà per rivelarla attraverso la finzione visionaria. Il fiore delle Mille e una notte è l’unico film di Pasolini che si concluda felicemente e non a caso è un film calato in un mondo non cristiano, non cattolico, non occidentale, remoto nella sua cristallizzazione (ancora intensa, nel 1973). Villa entrò in quell’universo e fece quello che un fotografo del suo valore doveva fare: guardò, osservò, contemplò e dedicò un’attenzione avida, all’umanità che gli formicolava intorno. Ne è derivato un affresco di migliaia di fotografie, tessere del mosaico di un mondo remoto
e indecifrabile, probabilmente in buona parte scomparso o comunque di arduo accesso agli sguardi occidentali. I volti dei ragazzi e delle bambine che scrutano da un’altra sponda dell’esistenza, la dimensione dei beni necessari, con un ventaglio di espressioni dove Villa ha catturato curiosità, interrogativi, diffidenza, indifferenza e una serie di posture, gesti, azioni, immobilità che disegnano la quotidianità e l’umiltà profonda di un altro mondo, di un’altra cultura, magica e favolosa proprio per la sua lontananza remota dalla nostra. Le forme degli edifici bianchi e calcinati, le sagome lunari dei cammelli, gli incendi sgargianti dei rossi, la severità dei neri: tutto il mondo di dignità e miseria umana che Pasolini amava oltre ogni limite. E poi c’è, appunto, un protagonista, lo
stesso Pasolini. Villa lo segue nei momenti di riflessione e nella congestione delle riprese, nelle corse e nell’attenzione accanita alle cose e agli esseri che vuole filmare e al modo di filmarli, di catturarli e possederli. Lo sguardo di Villa ha saputo catturare magistralmente la sicurezza e la frenesia di un artista ritratto dentro il suo teatro visionario, osservatore e burattinaio al tempo stesso dei fenomeni che egli stesso muove e di quelli che ruba ad una realtà che è appena lì. Le fotografie di Villa sono bellissime, non tanto e non solo per la qualità della composizione e i cromatismi ma perché catturano quei gesti, quegli sguardi, quelle sospensioni dove si può trovare la personalità di Pasolini e il mondo di un film che sta nascendo in quegli istanti. 27
“Fotografare una Fiaba” partendo da una tavola rotonda su TV e linguaggio audiovisivo Roberto Villa
Nel Novembre del 1972, alla Casa della Cultura di Milano, ad una tavola rotonda sulla televisione ed il cinema ho avuto l’occasione di incontrare PierPaolo Pasolini. Il tema trattato in quella circostanza era stato la “Scrittura e Lettura” nella comunicazione basata su processi e sistemi audiovisivi televisivi, anche se i relatori ne parlavano a loro insaputa. Mi ero limitato scattare delle foto e ad ascoltare anche se i motivi di intervento non erano mancati. Ero particolarmente interessato al punto di vista di Pasolini sulla presenza del Cinema in TV e le conseguenze relative alle interruzioni pubblicitarie. Da qualche anno, in Italia, erano operative alcune TV “private”, (Tele Biella etc), alternative alla RAI, la “TV di Stato”. Alcune di queste trasmettevano film, sia via etere sia via cavo, limitandosi alle inserzioni pubblicitarie negli intervalli propri (1°-2°-3° tempo) altre avevano già imparato ad interrompere il film nei momenti di massimo coinvolgimento dello spettatore. La parte più importante del dibattito era, per l’appunto, anche se indirettamente, il processo linguistico, lo spostamento di contesto, dal “rituale” della Sala Cinematografica al “Cinema”, alla visione del film, in cucina, nella sala da pranzo,
eccetera, senza escludere lo slittamento semantico dovuto alla riduzione della grandezza dello schermo, e cosivvia. Era immediatamente apparso chiaro che, in TV, non fosse possibile trasmettere tutto, senza tagli, ma per logiche completamente diverse. Da una parte i dispositivi di legge dall’altra una pseudo morale eletta come auto censura. Su questi punti, gli addetti ai lavori televisivi sostenevano, mentendo clamorosamente, l’”arricchimento culturale” che ne sarebbe derivato allo spettatore. Arricchimento i cui limiti avrebbero potuto risiedere solo nella rigida censura di mamma RAI. Va ricordato che la terminologia in uso dei giornalisti, speaker, commentatori, in radio e TV era, allora, fortemente controllata e, una per tutte, l’espressione “Membro del consiglio” era censurata e sostituita con “Componente”, in termine “membro”, cosiccome molti altri, erano stati cassati dalla lingua italiana di chi “parlava in TV”. In sostanza la presunta maggior scioltezza dell’emittenza privata, avrebbe fatto scuola per tutta la nascente emittenza. Altri televisivi ipotizzavano che i privati, più dinamici, più aperti, meno disponibili alla censura e più orientati al profitto, avrebbero potuto indurre “mamma 29
I sentieri dei dromedari, che tutti indicavano come cammelli, erano parte integrante del film, nei momenti di “esterno giorno” come quelli nei suk, omologhi in “interno giorno” dove si mescolavano comparse del film, indistinguibili dalla presenza della parte curiosa ed onnipresente della popolazione locale.
Rai” ad una riduzione delle restrizioni correnti, pena la perdita di audience. Fuori da quelle logiche, per così dire “operative”, Pasolini sosteneva che non tutto poteva essere trasmesso, e non solo per banali ragioni censorie, ma per riguardo di tutti coloro che potevano essere offesi, nella loro sensibilità, nella loro modesta cultura, dalla visione di qualcosa che non avrebbero potuto capire. In altri termini, un film sofisticato e complesso come “La via Lattea” di Buñuel, ben difficilmente avrebbe potuto essere compreso da uno spettatore con scarsa cultura generale ed ancor minor cultura cinematografica. Aveva anche manife30
stato il suo totale disinteresse alla trasmissione dei suoi lavori in TV anche se non interrotti dalla pubblicità. Cessata la tavola rotonda, quando già tutti erano usciti dalla Casa della Cultura, sotto i portici di via Borgogna, avevo avvicinato Pasolini per dirgli del mio interesse sui meccanismi della comunicazione audiovisiva che aveva trattato nella saggistica, e che sarei stato interessato ad incontrarlo per parlarne ed ascoltarlo in merito. Senza esitare mi aveva dato il suo indirizzo di Roma di via Eufrate, dicendomi anche della sua prossima partenza per girare “Il fiore delle 1001 notte”. Poi, con il piacere di chi parla con qualcu-
no che sappia apprezzare, aveva aggiunto che di li a pochi giorni sarebbe partito per la Nigeria, affrontando anche questo viaggio proprio nella speranza di trovare i posti adatti al suo nuovo film. Aveva già visitato molti paesi ed in altri doveva ancora andare, Persia, India, Afganistan, Yemen. “Sarà un film fiume. Tre ore e mezzo. Ho fatto una sceneggiatura di oltre mille pagine. Con mille volte il sesso che è comparso in questi miei lavori. Un sesso felice, gioioso. Voglio la stessa libertà d’espressione dei vari Decameroticus. Eppoi, anche se costituisce una apparente contraddizione, la pornografia è stata scoperta dal sistema capitalistico come merce di consumo e come tale viene usata. Com’è possibile a questo punto stabilire dove il nudo, il sesso, sono usati come “arte impegnata” o come merce,
come prodotto di consumo?”. Poi, aggiungendo ad alta voce, ma quasi fra se e se, mi disse che, se fossi stato interessato, avrei potuto raggiungerlo in medio oriente sul set. Lì avrei potuto vederlo al lavoro nell’applicazione delle sue idee sul cinema, e magari, parlarne. La risposta non poteva che essere positiva. A questo punto, Pasolini, aveva aggiunto che avrebbe informato la produzione della presenza sul set di un fotografo freelance. Il viaggio nel viaggio L’ufficio stampa della PEA, la casa produttrice del film, mi aveva immediatamente contattato chiedendomi di proporre una rivista su cui presentare le mie foto del film con il testo di Pasolini, ed una serie di altre che, con o senza testo 31
Nelle presenze nei suk si notavano personaggi che, affascinati dagli abiti fantasiosi e colorati di comparse e protagonisti del film, avevano indossato, a loro volta, improbabili abiti e copricapo quasi per una cerimonia a cui non avrebbero mai partecipato.
di Pasolini avrebbero pubblicato il lavoro. L’ampia collaborazione che avevo con molte note testate aveva facilitato i contatti di vertice, infatti erano solo i direttori a decidere le collaborazioni ritenute impegnative. L’interesse ed i consensi per la mia proposta erano stati largamente superiori alle richieste della PEA. Le riviste con le quali avevo concordato la pubblicazione del lavoro sul set del “Fiore” erano state; Esquire & Derby Magazine Giorni diretta da Davide Lajolo - Photo13 edita e diretta dallo storico della fotografia Ando Gilardi - Playboy Italiano edito da Rizzoli, allora diretto da Furio Lettich. A proposta accettata, sia dalle testate, sia dalla PEA, come nei racconti di appendice “alcuni mesi dopo” ero ad Aden. Nell’antico porto abbandonato dagli inglesi, dopo che in seguito alla rivoluzio32
ne era diventata capitale dello stato della Repubblica Democratica Popolare dello Yemen, la troupe di Pasolini era in attesa di partire per quella lunga sequenza di località e posti fantastici che, a tavolino, componevano il puzzle degli sfondi delle 1001 riprese per le 1001 notte. Ma il percorso Milano – Aden non era stato esattamente così diretto come poteva apparire, ed ancor meno veloce ma, certamente, molto più avventuroso del previsto. Il “ticket” di viaggio che avevo ricevuto, non era nato in una qualsiasi agenzia di viaggi e nemmeno in un’agenzia specializzata per viaggi in medio oriente, ma, anche questo, era stato costruito a tavolino, negli uffici della produzione del film, sulla base delle esperienze di viaggio maturate in un medio oriente vero, alla ricerca delle
location che Pasolini voleva per filmare. Poco per volta mi era apparso che mi volessero far ripercorrere, e conoscere, le difficoltà avute dalla troupe, quelle che avrei incontrato nel mio “viaggio alla conoscenza di Pasolini”. Il primo trasferimento richiesto, intanto, era stato Milano - Roma, infatti, il primo scalo a sud-est, Beirut, si raggiungeva proprio dall’aeroporto romano. Nell’aeroporto della capitale libanese, sia nelle fasi di atterraggio del volo Alitalia sia nelle successive fasi di decollo del volo MEA (Middle East Airlines) siamo stati accompagnati da una battaglia aerea, vera, tra elicotteri, presumibilmente governativi, e contingenti di terra non identificabili. Forse non esisteva altra possibilità di atterraggio, forse operare in condizioni di guerra era una normalità, ma le raffiche di mitragliatori pesanti, che attraversavano l’aria lasciando dense tracce del loro percorso, non avevano intimorito per nulla i piloti che avevano felicemente condotto il volo alla sua conclusione con un atterraggio perfetto e nessun foro su ali o fusoliera. Alla ingenua domanda su cosa accadesse, rivolta al desk della MEA, con la stessa preoccupazione di chi parlasse di un acquazzone estivo, la risposta era stata “Da un po’ di giorni è cosi, basta aspettare un poco e smettono”. Dopo quasi altre quattro ore di volo, su un non “modernissimo” jet, ero a l’Asmara. Li il compito, signor Araya Assefaw, titolare di una agenzia viaggi “tuttofare”, import, export, auto, e molto ancora, mi aveva atteso, non tanto per curiosità sull’importante lavoro che avrei dovuto fare, o per chissà quali informazioni e raccomandazioni di viaggio da suggerirmi, ma perché era venuto
a conoscenza che ero un collaboratore di Playboy. Fra le sue mani, c’era una copia della rivista italiana, con il trittico del paginone centrale, che avevo realizzato, dispiegato e le foto che mi ritraevano nel colophon, nell’apertura della rivista e nella rubrica “Fra noi”, dove si parlava dei collaboratori di quel numero, bene in mostra. Dopo qualche convenevole e qualche complimento sulle foto e sulla bellezza della modella, nonché la richiesta dell’autografo sul paginone centrale della Playmate, il mio ospite, dopo il rituale del “te alla menta”, mi aveva salutato per rientrare in ufficio ai propri molteplici “business” lasciandomi davanti al desk della reception MEA. La bellissima hostess eritrea, dai lineamenti orientali e dalla pelle abbronzata, che mi aveva visto con l’agente di viaggi, individuate le mie origini, si era rivolta a me, in perfetto italiano, per indicarmi il gate, il volo e l’ora di partenza. Vedendomi palesemente sorpreso dal suo perfetto italiano mi aveva spiegato che suo nonno e suo papà, avevano imparato la lingua “lavorando con gli italiani”. Il ricordo dell’“Impero” e che l’Eritrea, fino a pochi decenni prima, era stata una nostra “colonia”, mi aveva fatto provare uno sgradevole senso di vergogna. Sull’altra sponda del Mar Rosso La nuova destinazione era Hodeida e, già nel suono del nome originale “al Hudaydah” si poneva come una anticipazione avventurosa del Medio Oriente, lo Yemen, e l’aereo della MEA, che non era nemmeno un jet pari a quello con cui ero arrivato, stava volando in quella direzione. Era un Douglas DC3, soprannominato 33
Un personaggio, un miliziano del «National Liberation Front» che si era fatto notare più volte per il suo consistente armamento, ci aveva fatto capire che sarebbe ritornato, e lo ha fatto, ancor più armato, ma, questa volta, a cavallo!
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“Dakota”, degli anni ‘40. Un bimotore di quelli che poggiavano la coda a terra con una “rotellina”, quelle ruote che, si racconta, erano state usate dalla Piaggio, nel dopoguerra, per la realizzazione della famosa “Vespa”. Il ricordo che avevo di quel bimotore, e del suo duplice nome, era legato a memorie radiofoniche del tempo di guerra, quando l’annunciatore, indicando la caduta, o meglio, l’abbattimento di un aereo, chiudeva con “... tipo DC3 Dakota” per enfatizzare l’appartenenza al nemico, agli “alleati”. Appena salito, con una scaletta di ferro appoggiata sul fianco, all’altezza del portellone, avevo potuto vedere i sedili ancora originali, d’”epoca”, con la tela sdrucita e, in taluni punti, anche strappata, cose che dimostravano ampiamente sia l’età sia la provenienza del mezzo, cioè, le vendite ai paesi medio orientali e africani, del “surplus” bellico o dei mezzi obsoleti. A bordo, fra i pochi passeggeri c’era il produttore Roberto Loyola, timoroso, senza riserve, del volo e del velivolo. Era salita anche una paffuta giovane dalla pelle scura, viso rotondo capelli nerissimi, grandi occhi neri, sempre timidamente sorridente ma che non nascondeva per nulla i bianchissimi denti. L’aeroporto di Hodeida, diversamente da quello di Beirut, era comparso così, improvvisamente dopo le dune del deserto, dopo un lungo volo a bassa quota, ed aveva dato la sensazione di essere molto tranquillo, troppo. Il nostro era apparso come l’unico aereo in pista, mentre attorno, in aperto deserto, qualche capannone voleva suggerire le sembianze di un volenteroso hangar. Ad un lato di uno di questi era ferma, molto, molto polverosa, una autopompa, un tempo di color rosso. Non era
comprensibile se fosse un mezzo per un ipotetico servizio antincendi o per il rifornimento carburante. Più volte mi ero reso conto di osservare quanto mi accadeva attorno con l’occhio dello spettatore di un film più che con l’occhio e la visione di chi era inserito in quel contesto mentre si muoveva in una realtà, lontana dalla sua abituale, ma realtà. Prima di scendere, dalla scaletta a palchetto, appoggiata a mano all’apertura del portellone da un’inserviente in tuta dal presunto colore blu, nonostante il sole ed il caldo feroce, avevo pazientemente atteso che il potente motore, Pratt & Whitney dal mio lato, si fermasse per evitare quei tipici spruzzi d’olio nero, anche un po’caldo, che venivano spinti verso la coda dal vento delle eliche. Appena a terra un sedicente taxi, con una sorta di piccolo autentico giardino sotto il lunotto posteriore, con una non meno autentica terra ed erba verde, ed una infinità di Tasbeeh (rosari musulmani), di diverse forme e colori, appesi allo specchietto retrovisore, mi aveva raccolto e, con molte fermate, e continue raccolte di soggetti degni del film “Le quattro piume” di Zoltán Korda, mi aveva portato in una zona turbolenta e chiassosa dove era sito il mio hotel. Al momento del pagamento della corsa, non conoscendo le monete, ne il loro valore, ne avevo preso alcune e le avevo porte sul palmo della mano al taxista, che contando in arabo ne aveva scelto alcune, e forse alcune di troppo, poi con un sonoro “shukran” aveva ripreso il suo andare con il suo affollato, rumoroso e polveroso taxi giallo. All’Ikhwa Hotel, di Hodeida, dovevo chiedere di Mario Di Biase, il direttore della produzione. 35
La macchina fotografica era sempre fonte di una curiosità, infatti non era mai difficile trovare soggetti da riprendere perché questi ponevano davanti all’obbiettivo in attesa dello scatto, di quella fotografia in cui volevano essere ma che non avrebbero visto mai. Qui, in un angolo di suk, giovani e meno giovani si sono raccolti per farsi immortalare.
Fino dalla prima vista mi era parso molto, molto improbabile che quel posto, adatto come location per un film mediorientale, anni ‘30, di Tay Garnett con Marlene Dietrich, potesse ospitare un moderno operatore del mondo del cinema italiano. Alla reception, distinguibile dal bancone del bar, solo per una scritta bilingue, di non facile lettura per via della non nascosta anzianità e della non perfetta pulizia, mi avevano indicato la disponibilità di una stanza prenotata e pagata, dove avrei potuto attendere la persona che aveva effettuato la reservation. Quell’atmosfera levantina da “Taverna dei sette peccati” non era solo apparentemente pericolosa, infatti, molto tempo dopo a Sanaa, avevo appreso dalla truccatrice della troupe, Iole Cecchini, che la bravissima segretaria di produzione, Beatrice Banfi, aveva corso il rischio di essere rapita da un gruppo di donne del posto, forse per essere inserita in qualche harem. Beatrice era riuscita a sfuggire a quel tentativo di rapimento, non solo usando tutte le sue forze, ma grazie anche all’improprio uso del pesante copione del film di oltre 500 pagine. La stanza era coerente con le qualità generali dell’Ikhwa Hotel, l’ambiente di circa due metri per tre era dotato di una sorta di branda con un paio di coperte, ed una finestra, priva di persiane dalla quale, grazie ad una tenda di tela giallina a trama larga, entrava una luce dalla forza solo inferiore al rumore che perveniva dalla polverosa strada sottostante. Ero convinto che la produzione non sapesse esattamente delle qualità “na36
scoste” di quel “Hotel”, l’avrebbe certamente utilizzato per qualche ripresa. Non era nemmeno conoscibile la qualificazione, almeno quella dichiarata all’atto della prenotazione, di quell’hotel poiché, se si fosse dovuta misurare in “stelle”, beh, queste non avrebbero rappresentato proprio una notte molto, molto luminosa od avrebbero ornato solo una piccola, molto piccola targa con il suo nome. Nella “lounge bar”, affollata da fumatori di narghilè e degustatori di indefinibili bevande, ero riuscito ad ottenere un te alla menta solo pochi minuti prima che arrivasse l’incaricato della produzione che avrebbe dovuto trasportarci ad Aden. Trasportarci perché con lui, in macchina, oltre ad un accompagnatore, ed interprete del posto, un conoscitore delle strade, era apparsa anche la rubiconda fanciulla di colore salita in aereo a l’Asmara e che, dopo l’atterraggio avevo perso di vista fra le dune dell’aeroporto. Dall’incaricato della produzione, in auto, avevo appreso che la fanciulla era un’interprete del film. I circa 450 kilometri di percorso, di una strada fra quelle costruite dai cinesi tra le montagne dell’interno, ricca di curve, salite e le molte fermate, imposte da una sedicente polizia stracciona, che concedeva il diritto di transito, riconsegnando patenti e documenti di circolazione, dopo lunghe trattative ed in cambio di diverse banconote, non mi avevano consentito di scambiare nemmeno una parola con la graziosa compagna di viaggio poiché, pur essendo eritrea come la
hostess dell’aeroporto, non conosceva una sola parola che non fosse arabo o, forse, tigrino. Era ormai notte quando eravamo entrati nella dining room, di quello che era stato il più importante hotel di Aden al tempo della presenza degli inglesi. Dopo di allora, dalla “Rivoluzione popolare”, era stato destinato in parte ad attività di governo ed in parte ad ospitare personalità dei potentati locali per i quali svolgeva, contemporaneamente, la sua funzione originale, quella di Grand Hotel e di Night Club, con standard di livello internazionale. Erano anche ospitati, a spese dello stato, alcuni “eroi” della rivoluzione, militari, fortemente mutilati in combattimento, ai quali era stata affidata la gestione di una biblioteca di scienze marxiste con documenti e saggistica in
arabo, russo ed inglese. Testi provenienti dall’Unione Sovietica. All’ultimo piano, nella “Penthouse” dalle grandissime vetrate, con aria condizionata, era stato mantenuto anche una sorta di Night Club nel quale si esibiva, nella più classica danza del ventre, una ballerina il cui viso ricordava tratti di Rita Hayworth e Claudia Cardinale, con quei chili di troppo molto apprezzati dai frequentatori locali, uomini d’affari, ricchi signori, funzionari e politici potenti. Nel grande salone al penultimo piano, anche questo circondato da vetrate, ai molti tavolini, era seduta quasi tutta la troupe che aveva cenato da poco. Gli attori professionisti Franco Citti e Ninetto Davoli, certamente la spesa più cospicua per la produzione, poiché tutti gli altri, come vuole la consuetudine e la “poeti37
ca” pasoliniana erano scelti dalla “strada”, non erano presenti. Ad una tavolo, da solo con il copione, e molti fogli e foglietti di appunti sparsi, immerso nella lettura, era Pasolini. L’accoglienza era stata pari a quella riservata a vecchi amici. Molto di più la simpatia riversata, da tutti i giovani attori, nei confronti della nuova rubiconda “collega”, letteralmente circondata, talché, intimidita, si era rifugiata al mio tavolo. Ero l’unico che “conoscesse”, avevamo viaggiano un’intera giornata insieme, anche se la comunicazione aveva incontrato serie problematiche linguistiche. La circostanza non era sfuggita, alla possibilità della battuta dei romani presenti, talché ero stato raggiunto da un “A Robbè, tu non sei er fotografo de Playboy! Tu sei er playboy dei fotografi”! 38
Era emerso che, almeno di una testata, per cui avrei dovuto “lavorare” era già conosciuto il nome “Playboy”! A questo proposito, la prima notizia che mi avevano dato era che le scene erotiche, quelle a cui Playboy era più interessato, non si sarebbero potute girare poiché in quel paese le autorità rivoluzionarie non lo avrebbero permesso. Dopo una sommaria cena, quando il sonno aveva cominciato a farsi sentire e tutti avevano iniziato a dirigersi alle proprie stanze, Pasolini, salutando ci aveva detto “Io vado a dormire sulla spiaggia”. Ma la velocità con cui si erano ritirati i nostri attori mi era sembrata molto sospetta perché era avvenuta una frazione di secondo dopo che la timida eritrea aveva preso la direzione della sua stanza. Solo il sonno, quello vero, aveva, poi,
fatto cessare lo scalpiccio per le scale e l’insistente bussare a quella porta che non aveva voluto aprirsi. La sveglia alle sei della mattina successiva aveva dato il via, al vero viaggio, quello verso la conoscenza del cinema di Pasolini, del suo pensiero su teorie e linguaggi, quello per cui ero arrivato lì. Foto e pellicole al buio della notte ed al sole di mezzogiorno Avevo caricato le mie tre Nikon F2, una per il colore, una per il negativo bianco e nero, l’altra di riserva, una serie di ottiche, in una grande borsa Nikon di cuoio, che posseggo ancora, e, ancora una volta, rinunciando, per un lungo periodo all’attività professionale di studio, ero andato su un set, quel set, per documentare qualcosa di imperdibile e irripetibile.
Parrà quasi impossibile da credersi, oggi, ma nel 1973, e per molti anni ancora, esistevano e sarebbero a lungo esistite, incredibili difficoltà di ordine tecnico-fotografico che impedivano la standardizzazione del materiale sensibile invertibile (diapositive) da usare per un lavoro comprendente le più differenti situazioni d illuminazione, quelle delle sei della mattina, per esempio, o del pieno sole di sei ore dopo nonché il crepuscolo, per non parlare del colore della luce, quella del giorno e quella delle lampade da ripresa, in interni, sul set. La scelta operativa, per svolgere il lavoro che avevo previsto, era stata quella di usare le pellicole, allora disponibili sul mercato, come se fossero otto volte più sensibili, quindi sottoesponendole fortemente, per fare compensare quel mal39
Gruppi di signore nel suk durante differenti modi di essere in una pausa dello “shopping”.
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trattamento con un ulteriore maltrattamento, un apposito allungamento dei tempi, ed un aumento delle temperature, dei bagni di sviluppo in laboratorio. Questi processi avrebbero ingrossato la “grana”, ridotto la risoluzione, variato la colorimetria, ma mi avrebbero consentito di riportare le immagini di quel lavoro e consentirne la loro visione in posti diversi ed in un altro tempo. Le immagini, sia in diapositiva sia negativo bianco e nero, invece, scatto dopo scatto, erano state costruite seguendo le filosofie compositive proprie delle arti spazio visive, nel rispetto delle sezioni auree e della prospettiva centrale, dei rapporti per forme armoniche e per rapporti cromatici, non tralasciando gli assunti delle analisi del linguaggio e della più rigorosa teoria dell’informazione. 42
Non va dimenticato che il formato “Leica”, della pellicola per fotocamera, era derivato da quello della pellicola cinematografica ma usata con scorrimento orizzontale invece che verticale come nella cinecamera, era, ed è, un rettangolo costruito con i rapporti propri della sezione aurea. Il nome di “formato Leica” era ed è dovuto al fatto che questa fotocamera è stata la prima a farne uso, mentre in commercio, questo tipo di pellicola, è nota come “formato 135” o “35mm”, in grado di fornire un’immagine nelle dimensioni di 24x36 mm. Dalle pellicole alle immagini Mi muovevo liberamente, all‟interno e all‟esterno del set, cioè di quel caos organizzato, incomprensibile per le produzioni made in USA, ma che la storia
del Cinema ha dimostrato essere un peculiarità italiana sulla quale si sono costruiti i più grandi capolavori della storia del cinema. Proprio durante uno spostamento, per migliorare il punto di ripresa, con un piede ero salito su un tappeto che copriva un piccolo treppiede di una lampada che, in quel momento, illuminava la scena ripresa da Pasolini e che, alla improvvisa scomparsa della luce, aveva esclamato “Che peccato veniva così bene!”. Non avevo fatto a tempo a profondermi in scuse che un elettricista era intervenuto dicendo “È saltata una lampada dottò la cambiamo subito!”. Nessuno era stato sfiorato dall’idea di inveire contro quel fotografo “esterno” così maldestro. Ero stato adottato! E definitivamente considerato come parte del gruppo. Come per il teatro classico, quello delle grandi rappresentazioni, volevo catturare le immagini dei movimenti del “coro‟ e dei singoli attori e non solo in scena, ma in tutti i momenti della lavorazione. La mobilità di cui godevo mi consentiva di ritrarre anche il fuori set, i posti e le genti, cogliendo nei loro volti espressioni autentiche, di posa o di curiosità, ma sempre di commovente disponibilità e quasi di amicizia. Cercavo le composizioni e la luce della pittura fiamminga che, spesso, soprattutto negli interni, sia per la tipologia della illuminazione, sia per il maggior controllo che potevo operare sugli spazi, potevano essere colte e fermate dalla fotocamera ad imitazione di famose rappresentazioni pittoriche. Così ricordando Rembrandt o Velasquez costruivo, solo con piccoli spostamenti del punto di ripresa, o con il cambio dell’obiettivo, quelle immagini che avevano un poco più di qualità che
non quella del solo documento.Per ragioni opposte, gli spazi angusti in interno, o di spazi immensi in esterno, usavo ottiche grandangolari, il 24mm e il 21mm, con un ampiezza d’angolo di oltre cento gradi. Anche quando i soggetti erano vicini, proprio per non utilizzare il teleobiettivo che non avrebbe consentito lo stesso effetto di presenza. Oltre ad i grandangolari usavo tutta la gamma dei teleobiettivi, dal 135mm, per il ritratto, al 200mm o 400mm, a seconda delle esigenze valutate di volta in volta. Riprendevo molto anche l’esistente e l’umanità circostante. Tutto, sempre, con la luce ambiente, quella che ben controllata ed interpretata, può essere “altamente pittorica”. I molti ritratti, che avevo realizzato raccontano ancora di una affascinante realtà fisica, di volti “antichi” di un mondo autentico che era sull’orlo di quel precipizio di quel “progresso” che ne avrebbe sentenziato la scomparsa. Sul set Fin da subito avevo visto che Pasolini era sempre concentratissimo sulla lettura e riscrittura, quasi ininterrotta, di un fascicolo di pagine, carte, con mille foglietti mobili, il “copione”. Sembrava che nulla lo disturbasse. Tutti i collaboratori, sia sui set in interni sia sui set in esterni, assumevano un atteggiamento di non-disturbo. Ogni tanto qualcuno sussurrava “… speriamo bene …”. Era dovuto al timore di spostamenti o costruzioni non previste che potessero complicare le non semplici attività che ruotavano attorno alle riprese. Il punto non era il timore di un imprevisto aumento dei lavori, ma l’ipotesi di non riuscire a soddisfare le richieste di Pasolini, quello era l’ulteriore, vero, elemento di preoccupazione. 43
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Qui, fuori suk, alcune comparse simulano il trasporto di verdure e frutta mentre ridono divertite. Il fatto è dovuto ad una mia osservazione che, tradotta dall’interprete, aveva causato una diffusa ilarità.
Tutti attorno a lui operavano velocemente e silenziosamente, il direttore della fotografia e l’operatore alla macchina da ripresa non solo avevano rinunciato alla loro funzione operativa, sostituita sempre in prima persona da Pasolini, ma avevano sviluppato una elevata capacità di approntamento dei cavalletti e delle cinecamere con debita sostituzione delle ottiche, prima ancora di ogni richiesta, ormai, sapevano quali sarebbero state le richieste di Pasolini che, come appare dalle foto, era spesso, molto spesso, personalmente alla cinepresa. Sembrava che Pasolini volesse risparmiare anche il tempo di spiegare quello che 48
gli serviva e che intendeva fare, per cui aveva scelto di farlo direttamente. Quando, ancora a Milano, avevo avuto in mano il copione del film, che la PEA mi aveva fatto pervenire a pochi giorni dal primo ciack, il suo spessore, per le molte limature era già dimezzato, era sceso al livello delle 500 pagine ma, le successive modifiche ed aggiunte, avevano garantito che la durata “fiume” preventivata si mantenesse sempre sulle tre ore ed il sesso previsto, come mi aveva detto Pasolini, c’era tutto, e forse anche di più. La stesura delle parti scritte per le interpreti femminili, dovuta alla sceneggiatura di Dacia Maraini, di fatto veniva conti-
Nel Suk: abitazione, laboratorio, cucina e negozio. Era spesso un tutt’uno e, in questo caso, sono presenti anche i bimbi eredi dell’artigianato e del commercio di famiglia.
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Civili e militari, con ufficiali in divisa e armati tutti affascinati e dilettati dalla presenza di Ines Pellegrini che, in abiti europei, appare come una bella e irraggiungibile presenza proveniente da un altro mondo.
nuamente riscritta o modificata poiché, molto spesso, Pasolini, si rivolgeva alle attrici suggerendo variazioni del testo recitato. L’attesa nell’aeroporto di Aden. Un’avventura più avventurosa del viaggio. Il viaggio era iniziato con oltre nove ore di attesa in aeroporto, che, al sentire i responsabili, era dovuto a generici, misteriosi, quanto temuti, interventi tecnici. Va detto che l’aeroporto del 1973, in medio oriente, ad Aden in particolare, nulla aveva a che fare con quello che chiunque conosce e sa dei moderni aeroporti. 50
La nostra attesa si era svolta, in parte, con informazioni vissute in diretta, guardando, attraverso le finestrone e le grandi vetrate di questa “sala d’attesa”, costituita da uno stanzone poco illuminato con pareti di un colore verdolino spento, illuminato da fioche lampadine elettriche ad incandescenza, che irradiavano una luce giallastra. Scomode panche di legno ed un gruppo di sedie di metallo costituivano la rumorosa sgangherata dotazione d’arredamento per la comodità dei passeggeri. I lavori che venivano attuati sul bimotore ad elica, che avrebbe dovuto imbarcarci, non ci erano apparsi molto rassicuran-
Due miliziani armati, si fa per dire, posti a guardia di una dépendance istituzionale.
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Miliziani orgogliosamente in posa con le armi. In quei giorni tutto lo Yemen era in preallarme per quanto sarebbe accaduto di lì a poco, cioè la guerra del Kippur dal 6 al 25 Ottobre 1973, che avrebbe visto la partecipazione del National Liberation Front.
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ti, anche perché, vedere un aereo senza un motore, con un grande buco nero su un’ala, dal quale penzolavano cavi e tubicini, con macchie di olio in terra, il tutto, poco prima della partenza, beh, faceva un certo effetto. Dopo alcune ore di lavoro, la squadra di meccanici inglesi, giapponesi ed arabi, aveva nascosto il proprio operato con dei pannelli attorno all’aeromobile e dei teli scuri alle vetrate, per cui non era stato più possibile cercare di interpretare cosa, i tecnici, stessero facendo e quale fosse lo stato dei lavori. Diverse volte il motore era stato avviato e poi spento, forse con pause di pochi minuti ma che apparivano molto più lunghe della realtà. Alla nona ora d’attesa, alla troupe, oramai disfatta dal caldo e dal mancato
sonno, dalla preoccupazione e dalla stanchezza, era arrivata la buona notizia. La riparazione era positivamente conclusa con la sostituzione del motore, che alla rimozione dei pannelli e delle tende che ostruivano la visione, era apparso li, ritornato al suo posto, perfettamente rimontato! L’attesa era terminata. I Capricci di Citti, che non erano mai mancati, e che erano stati sempre contemperati dalla sua compagna, sempre al suo fianco, alla notizia della riparazione avvenuta con la sostituzione di un motore, erano nuovamente esplosi e si erano manifestati con furibondo “Io non parto” dovuto anche alla paura del volo che non aveva mai nascosto. In modo scaramanticamente silenzioso, privo di forme eclatanti, la paura di quel 53
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Yemen - Ta’izz - Suk Pasolini, il direttore della fotografia Giuseppe Ruzzolini e il fotografo di scena Angelo Pennoni, in un momento di riflessione sui lavori in corso. 58
volo, di quell’aereo, uno di quei Douglas DC3 degli anni ‘40, quelli che poggiavano la coda a terra “sulla rotellina”, l’avevano dimostrata tutti. Oltre a me, che conoscevo tutto sull’aereo fin da bambino, solo il pilota sapeva che la portata dell’aereo era di 3000 Kg e che le quaranta persone e l’imponente carico lo superavano largamente e che, nonostante i due potenti motori da 1200 Hp la fatica da sopportare non sarebbe stata poca. Ma i motivi non erano solo nella dubitata efficienza dell’anziano DC3, appena riparato, peraltro noto anche per la sua eccezionale capacità di superare i limiti stabiliti dalla casa produttrice, ma perché quel carico mostruoso di persone ed apparecchiature, allestimenti ed altro, l’aereo l’avrebbe dovuto trasportare per una rotta montuosa ricca di venti e correnti, nient’affatto tranquilla. La presenza del cinquantenne pilota giapponese, certamente formatosi durante gli ultimi eventi bellici, il “Kamikaze”, come era stato subito definito, non aveva per niente tranquillizzato la troupe, anzi. Le turbolenze incontrate in volo avevano fatto considerevolmente ballare l’aereo aumentando le lamentazioni di tutti e quelle, tutt’altro che moderate di Citti, alle quali si aggiungevano i forti scricchiolii dei grandi cassoni caricati che, non perfettamente ancorati, fornivano una ulteriore senso di precarietà per i loro spostamenti, modesti, ma, comunque, spostamenti sul pavimento che non lasciavano indifferenti. Il volo, diventato notturno per il ritardato decollo, aveva goduto di venti forti, di cattivo tempo con pioggia, tuoni e lampi come corollario della trasferta. Di converso ci aveva consentito di osservare 59
A giornata di riprese finita, la foto non lo fa capire, ma è già buio. Pasolini con la pesante Arriflex, si inerpica su una scala improvvisata con l’aiuto di ben sei collaboratori, per capire come dovrà fare le riprese la mattina successiva.
tutte le fasi meteorologiche in alta quota, dalla scomparsa della tempestosa notte fino alla comparsa del sole con l’aurora ed il cielo, oltre le nuvole, ormai completamente azzurro prima dell’atterraggio. L’aeroporto che ci aveva visto atterrare, in una giornata di sole accecante, era costituito da una pista di terra battuta nel deserto, ed il movimento degli aerei della Alyemda, la Democratic Yemen Airlines, era costituito da DC3, come il nostro, e dai fratelli maggiori DC6, quelli che non appoggiavano la coda a terra, ma li, l’unico aereo presente era solo il nostro. Reception, uffici, bar, cucina, dell’aeroporto erano un tutt’uno, un unico am60
biente di circa tre metri per quattro. Le pareti erano ricoperte da grottesche caricature del famoso “I want you” circondato da scritte in arabo ed immagini di ribelli armati. La temperatura era molto, molto alta, al riparo dell’ombra delle ali degli aerei, che nel frattempo erano atterrati. Eravamo in attesa dei mezzi che dovevano trasportare strumenti e persone alla base. In altra circostanza, ma perfettamente identica a questa, mi era pervenuto un “recitativo” in romano “Sò ccazzi d’appendere a Robbè!” Non mi ero ancora riavuto dalla violenza dell’immagine dei miei organi genitivi maschili esteriori,
Sana’a. Un momento di attesa del ricongiungimento della troupe in un punto tra i meno felici, l’acqua che si vede non è quella di una fresca roggia, ma quella degli scarichi fognari a cielo aperto, come il colore può confermare.
per dirla con Arbasino, appesi ad un chiodo, che una non meno violenta pacca si abbatteva sulle mie spalle mentre il recitativo continuava. “Qui si nun ce se pone rimedio annamo affà puro noi la fine d’a scimmia”. Era il cordiale commento, ad indirizzo personale, che mi perveniva da Angelo Pennoni, il fotografo di scena, per la temperatura che ossessionava le quaranta persone della troupe, e che, in quella circostanza era solo di 45 gradi all’ombra! Mentre, il riferimento alla scimmia-attrice era dovuto alla immatura scomparsa della stessa probabilmente non abituata alle temperature del de-
serto medio orientale. Quando alcuni attori ed io, avevamo considerato che era oramai trascorso il tempo del “cestino”, senza alcun esito positivo, quasi come un miraggio, erano comparsi due pescatori con un enorme pesce, appena pescato, facendocene offerta. Non senza difficoltà eravamo riusciti a far capire che non sapevamo cosa farcene poiché non mangiavamo pesce crudo e non avremmo saputo come cucinarlo. Se ne erano andati lasciandoci con tenue sentimento di disperazione, ma erano scomparsi per ricomparire, dopo qualche po’, con quel pesce cotto al cartoccio! Forse era la fame, ma non ricordo nulla 61
Un’immagine che parrebbe frutto di una attenta regia, otto donne di sfondo, in ombra con burqa nero e cinque bimbi con un uomo, al sole, con turbanti e abiti bianchi. Quel mondo distribuiva immagini affascinanti ad ogni passo.
di più gustoso di quel pesce, perfettamente cotto e ripulito ottenuto con una manciata di spiccioli, cioè per il controvalore di una bibita commerciale. Shibam La decantata “Manhattan del deserto”, con gli oltre 500 palazzi di 8 e 9 piani fatti di mattoni cotti al sole, circondata dalle antiche mura, ora patrimonio dell’Unesco, era li, con la sua incredibile bellezza. A Shibam eravamo alloggiati fuori dal centro, in una bellissima casa sequestrata dalla rivoluzione ad un potente. Era stata la base di riferimento per tutte le riprese che ci avevano visto costantemente 62
nel suk e nei dintorni, con le molte spedizioni dalle molte ore di viaggio. Un ambiente da fiaba, soprattutto la notte, quando questa costruzione bianca, le palme, le stelle, la luna componevano il più classico quadro di una visione medio orientale “da cartolina”. Ma non basta, quasi ogni notte, il più importante cantore yemenita si aggiungeva al gruppo e intonava il meglio del repertorio nazionale. Era stato proprio dopo una di quelle serate li che, Shepherd, l’assistente alla regia, mi aveva riferito che avevo rischiato di essere espulso dallo Yemen, come persona sgradita perché fotografo indicato da Playboy, una rivista statunitense,
Suk. La focacciera, l’acquirente di spalle che allunga la mano per servirsi e la bimba assistente incuriosita dalla fotocamera.
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Suk. Macelleria e abitazione in uno, con il cliente già servito e il padrone di casa e del negozio in uno, nelle sue vesti di papà con il bimbo che scherza a nascondersi.
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capitalista. Ma l’espulsione mi era stata evitata grazie all’intervento di un militare del controspionaggio con il quale, senza saperlo, poiché, mai in divisa, avevo parlato dei problemi della religione musulmana, del Nasserismo ed il Marxismo. Proprio li, in quella costruzione bianca di un ex potente, nella piccola piscina coperta interna, avevamo scattato alcune foto che vedevano Ines Pellegrini, la Zumurrud del film, divertita fare abluzioni. Ne erano risultate “le immagini meno erotiche che avessi mai realizzato per Playboy”, era stato il parere dell’art director. Sana’a Sana’a, nello Yemen del Nord, aveva colpito il cuore e la mente di tutti, talché Pasolini ne aveva già fatto soggetto, ed oggetto, di un suo film nel 1970, Le mura di Sana’a, un film documentario in forma di appello all’UNESCO, prodotto da Franco Rossellini. La bellezza del posto aveva solo parzialmente compensato il lavoro della troupe. Non era stato facile, ne per la temperatura ne per l’incredibile cattivo odore dovuto alle fogne a cielo aperto, peggiorato dai caravan serragli, dalla mancanza di un filo di aria nonché dalla inesistente simpatia della gente del posto. In realtà erano gli uomini che si erano trovati imbarazzati di fronte all’accoglienza dimostrata dalle loro donne, per quei risolini ed altri gesti di simpatia rivolti ai giovani della troupe. L’atteggiamento padronale dei propri parenti maschi era intervenuto ed aveva immediatamente nullificato ogni tentativo di dialogo con i loro sguardi vigili, duri, severi. Questi, come tradizione impone, portavano il simbolo dell’età adulta, cioè la jambiya il pugnale dalla larga lama ricurva, nella
fascia cintura che li cingeva in vita. Solo a posteriori avevamo appreso che un canto della popolazione locale, a cui avevamo partecipato, ere indirizzato contro di noi, colpevoli di non far cadere la pioggia e di altre nequizie. Le diverse complicazioni, insorte durante gli spostamenti per le riprese, erano state tutte risolte grazie alla diplomazia ed abilità del direttore di produzione Mario Di Biase, cosicché la lavorazione aveva potuto sempre proseguire senza intoppi. Nonostante i molti lati negativi, era rimasto negli occhi di tutti proprio quell’incredibile architettura di case grattacielo di otto piani dalle pareti esterne disegnate e dalle finestre ornate da cornici dai contrastanti colori chiari. Sayun Anche qui, la prima notizia che mi avevano dato era che le scene erotiche non si sarebbero potute girare poiché sia nello Yemen del Nord sia nel Sud le autorità religiose e politiche non lo avrebbero permesso. La forte presenza del potere religioso islamico, all’interno della gestione del potere politico centrale e locale, aveva immediatamente attaccato tutte le più comuni forme di espressione e comportamento dei miscredenti, dei costumi occidentali. Colmo dell’ironia poiché in quel favoloso posto dell’l’Hadramaut, nello Yemen del Sud, Sayun era nota come “la città dell’amore”. Barbara Grandi, era un’altra notevole interprete del film, la partner di Franco Citti, nell’episodio del Demone. Italiana, di Ferrara, con una pelle bianchissima ed una grande chioma di capelli che, per contrasto apparivano, ancora più neri. Barbara era accompagnata dalla 65
Suk. Altra macelleria con maggiore presenza di prodotto e di clientela nonché un collaboratore che invita, ad alta voce, ad acquistare le carni appese a frollare.
mamma che, per l’incombenza, aveva interrotto il suo lavoro di impiegata. Barbara era stata vista da Pasolini per il Decamerone ma allora era stata giudicata troppo giovane; oramai, a tredici anni, “quasi quattordici” diceva lei, era donna quanto bastava per sentirsi defraudata dalla controfigura in una sequenza in cui il suo personaggio faceva l’amore con il proprio eroe. Era un’esigenza legale, per la nostra legge Barbara, italiana, era troppo giovane, per lo Yemen e per la Persia, invece, non c’era distinzione, italiana od iraniana che fosse erano in ballo le stesse pene e sufficientemente pesanti, qualcuno aveva 66
detto il taglio della testa, e non solo alle attrici. “A Robbè, qui bisogna mettere le cose in chiaro!” era ancora Angelo Pennoni, che parlava rivolgendosi a Barbara ed alla mamma che accompagnava la fanciulla, “Io non so se il film uscirà, ne come, ne quando e non penso nemmeno a quello che potrà accadere, però fin d’ora Barbara deve promettere che se le cose non vanno a pallino almeno ai fotografi gli aranci li deve portare!” Angelo si era dimenticato che senza teste difficilmente avremmo potuto ricevere ed apprezzare aranci! La realizzazione delle riprese del Demone, interpretato da Franco Citti e Sal-
Suk. Il controllo del colore in ripresa per il successivo momento della stampa della pellicola. Il film era costituito da una pellicola a colori negativa che, successivamente veniva stampata nel numero di copie necessarie da immettere sul mercato per la proiezione.
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Suk. Nur Ed-Din e Zumurrud, rispettivamente Franco Merli e Ines Pellegrini, i due principali interpreti, sorridenti, in una scena del film che racconta il loro incontro.
vatore Sapienza, in un interno giorno, di una tipica abitazione locale, aveva richiesto che questa fosse preparata per equilibrare la qualità della luce che entrava dalle finestre, alla qualità della luce emessa dalle lampade al tungsteno in interno. Il risultato era stato ottenuto con delle grandi lastre di gelatina color ocra fissate, dall’esterno, su ogni finestra cosa che, se aveva ottenuto il risultato voluto per la luce, aveva anche aumentato consistentemente la temperatura interna, già alta per le lampade ad incandescenza, eliminando ogni circolazione d’aria. Nel lavoro di copertura erano state dimenticate le finestrelle alte, e da queste arrivava la luce del cielo, molto forte che, al confronto di quella filtrata in ocra, appariva di color azzurro. Avevo visto quell’incidente di percorso e ne avevo av68
vertito, parlando a mezza voce, all’aiuto Umberto Angelucci che, senza mezze misure, era sbottato con un “A Robbè, ma che te frega!”. Ma, quanto detto da me e dall’aiuto era arrivato all’orecchio del direttore della fotografia, Giuseppe Ruzzolini, che aveva immediatamente replicato “Roberto ha ragione”. Un attimo dopo le diverse fonti di “luce blu” erano state debitamente filtrate come tutte le altre. In quei giorni, Sayun, non appariva una città molto tranquilla, era adibita a centro di addestramento di tutte le forze armate rivoluzionarie della Repubblica Democratica dello Yemen del Sud, per cui l’accesso era rigorosamente vietato a tutti gli stranieri mentre le vie della città erano percorse da un grande numero di armati, borghesi o in divisa, in circolazione ogni dove.
Suk. Una ripresa in “soggettiva”, cioè come chiunque potrebbe vedere l’interprete attraverso lo spazio lasciato tra due persone davanti a sé.
La Manifestazione Che la situazione militare in medio oriente non fosse fra le più tranquille lo avevamo verificato ad Aden quando una manifestazione di protesta aveva attraversato la città. Era rivolta contro i raid che gli aerei israeliani avevano fatto in Libano causando molte morti fra le organizzazioni palestinesi. Dagli striscioni, scritti in inglese, si poteva leggere che la rabbia era rivolta anche contro l’imperialismo e capitalismo anglo americano, non esattamente privo di responsabilità per quanto era accaduto da molti anni e per quanto accadeva ancora in medio oriente. In corteo, come disgraziatamente avremmo imparato a conoscere molti anni dopo, venivano portate ingrandimenti fotografici delle immagini dei
molti caduti civili sotto i bombardamenti. Lo Yemen del Sud da pochi anni si era costituito in una Repubblica Democratica Popolare dopo la cacciata degli inglesi del 1967. Il sistema politico antiamericano e antimperialista era, per ovvie ragioni, piuttosto “energico” e poco “elastico”. In quella situazione giornalisti e fotoreporter erano tutt’altro che ben visti, molti avevano potuto personalmente provare, non solo il clima di diffidenza, da parte delle autorità e della polizia, ma anche concrete difficoltà essendosi trovati incriminati con l’accusa di spionaggio per aver scattato le più banali immagini foto turistiche, altri per immagini non esattamente innocenti. In quelle condizioni, non essendo permesso effettuare riprese in modo aperto ed ufficiale, ero ricorso all’uso di una 69
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Ritratti. Le bellezze locali erano tali e tante, in condizioni autentiche e diverse, che non era possibile ignorare la possibilità di trasformare quel volto e quel momento, in un documento visivo che potesse trascendere tempo e spazio arrivando a tutti.
mini-fotocamera automatica e tascabile “mezzo formato” che consentiva una autonomia di ben 72 immagini con una normale pellicola. Questa, nascosta in una tasca del giubbotto, aveva realizzato riprese che, anche se non tecnicamente perfette, potevano documentare la drammaticità dell’evento. Subito dopo, dall’Hadramaut, ed i suoi centri militari di addestramento (va ricordato che di li a poco ci sarebbe stata la guerra del Kippur) dallo Yemen del Sud, via Aden, Kuwait, Abadan eravamo giunti ad Esfahan in Persia. Oltre la regia Pasolini appariva instancabile, si arrampicava sui muri con la cinepresa per vedere quale poteva essere la migliore inquadratura, correva da una parte all’altra del grande piazzale della moschea di Isfahan per controllare “campo e controcampo”, sostituiva l’operatore e riprendeva direttamente la scena, parlava con il grande Dante Ferretti per lo sviluppo delle scenografie e l’aspetto scenografico dei costumi, in sostanza copriva una dozzine di quei ruoli così ben dettagliati nei titoli di coda dei film di produzione hollywoodiana. L’aiuto Angelucci, l’assistente Shepherd, il direttore della fotografia, Giuseppe Ruzzolini, l’operatore alla cinepresa Alessandro Ruzzolini, il direttore di produzione De Biase, avevano da tempo rinunciato a tenergli dietro. Quando durante qualche pausa mi era capitato di chiedere ai nostri responsabili, quelli ufficiali, “Ora cosa facciamo?” la risposta era sempre stata la stessa “Ora ce lo dice Lui”. Se la domanda veniva posta
alla segretaria di edizione Beatrice Banfi, lei consultava il copione, guardava l’ora e poi diceva quello che “avremmo” dovuto fare, ma la decisione finale era in mente dei. La produzione, di fatto, era gestita direttamente dal regista, e cosivvia, in realtà la travalicazione delle categorie assegnate dai ruoli codificati era una costante, gli attori che diventavano carpentieri, i trasportatori del posto che diventavano comparse, la giovane iraniana che diventava una controfigura in una scena di nudo ed un ragazzino italo-persiano che diventava una paffuta fanciulla in un episodio del film. I costumi, appositamente disegnati da Danilo Donati, per le Mille e una notte, si erano immediatamente “confusi” con gli antichi abiti locali talché spesso presenze esterne al set venivano, per così dire, inserite come comparse. Diversamente da molti, Donati era rimasto a Roma. Al tutto va aggiunto che la scelta ideologico-linguistica dell’uso di giovani popolani completamente ignari di cinema, di recitazione e dizione obbligava, Pasolini alla macchina da presa, ad infinite ripetizioni di una stessa scena. Una di queste ad Isfahan, sul piazzale della moschea, è stata ripetuta ben quarantatre volte! Nessuno, per il grande rispetto che portava a Pasolini, si era permesso di intervenire per suggerire una soluzione al problema che pareva irrisolto, talché, in una frazione di minuto, prima del quarantaquattresimo ciack, mi sono avvicinato a Pasolini dicendogli “PierPaolo il personaggio che riprendi, quando raggiunge il punto dove deve fermarsi, si alza in punta di piedi e ricade sui tal73
Ritratti complementari sia per genere sia per colore della pelle, un dignitario di corte bianco in bianco e una funzionaria nera in nero; come ignorarli.
loni”. Mi ha guardato come se ricevesse una grande rivelazione, poi rivolgendosi ai collaboratori, senza nessun segno di irritazione ma con il solo tono di chi fa una domanda aveva detto “Perché nessuno me lo ha detto?” ed aveva aggiunto “Ecco perché mi usciva dall’inquadratura!” Non perdeva mai il controllo e non mi è mai capitato di sentirlo recriminare od offendere qualcuno. Davanti ad una clamorosa sciocchezza di un collaboratore, che stava per far crollare un fondale od un’impalcatura, mi ero preparato a scattare una foto per avere una immagine delle sue reazioni, cosa che avevo poi fat74
to, ma ne è uscito un Pasolini sorridente mentre diceva all’incauto “Che salame”! Pasolini e il turpiloquio. Accadeva che si facessero levatacce alle quattro di mattina, o di notte a seconda dei punti di vista, e si ritornasse ventidue ventiquattro ore dopo. Per muoversi avevamo dei pullman carrette, ma raggiungevamo posti da fiaba che le lunghe ombre rosate delle luci dell’alba rendevano ancor più fantastici e “fotogenici”. Attorno a noi era sempre presente molta gente, ragazzini e polizia, nei suk come nei grandi spazi esterni, gli agenti, che parlavano solo iraniano, si occupavano
Ritratti. Due sorelline in “divisa” della scuola troppo autenticamente interessate all’avere quello scatto fotografico che non potevano non essere premiate, anche se quella foto non l’avrebbero vista mai.
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Ritratti di bimbi bellissimi con mamme di differenti provenienze sociali e bellissimi volti di donne mature e di uomini anziani. Golosità per fotografi.
di tenere lontana la moltitudine di curiosi e, a volte, in modo decisamente violento soprattutto quando, quelli intontiti dal “Qat”, apparivano più lenti o riottosi. Il Qat è quell’erba che tenevano tutto il giorno in un lato della bocca e li faceva apparire come con una guancia fortemente gonfia. Di fatto, il Qat è una autentica droga che riduce il senso dell’appetito e rallenta i riflessi. Mentre quella macchina da film si muoveva con la forma di un “caos organizzato”, il mio lavoro fotografico era proprio quello di muovermi all’interno ed all’esterno di quel caos, non apparente, per catturare le immagini dei movimenti del “coro” e dei singoli “attori”, per descrivere i posti e le persone, per cogliere volti ed espressioni, recitate e non. Le conversazioni sul “linguaggio assente” Ero riuscito ad iniziare il mio dialogo sul linguaggio del cinema con PierPaolo fin dal primo giorno, cogliendolo subdolamente durante la distribuzione del “cestino”, in altri termini il pranzo che, come sempre, non avveniva mai all’“ora del pranzo” ma a qualsiasi ora in cui fosse possibile fermare le riprese. Con la reverente attenzione di chi sa di rivolgersi ad un Grande Maestro ho iniziato a chiedere quale fosse il suo pensiero sulla modifica del linguaggio apportata dagli strumenti, che io definivo propri del “sistema linguistico del cinema”, e della fotografia, come l’impiego di ottiche speciali, tele o grandangoli, con la zoomata ed processi tutti, come il rallentamento od accelerazione dello scorrimento delle immagini, sovrapposizioni, etc.
La prima osservazione che mi aveva fatto era un appunto sulla “volgarità dell’effetto dovuto alla zoomata” ed aveva aggiunto “Io non la uso mai”. Va detto che il riferimento al concetto di zoomata era quello dell’effettaccio, abusato negli anni ‘70, del passaggio violento da una panoramica al primissimo piano di un soggetto o viceversa. Non era stato altrettanto chiaro e deciso sul tema della modifica del senso dovuto alla scelta delle ottiche. Il grandangolo, ad esempio, sia negli spazi sia sugli attori, introduce deformazioni prospettiche rilevanti che non possono essere ignorate in quanto acquisiscono un concreto peso “semantico”. Un esempio celebre era Orson Welles di “Citizen Kane!” Aveva risposto parlando genericamente di un uso di tipo creativo, poetico. Una Tautologia, avevo replicato. Aveva aggrottato la fronte dicendo “Beh, si ...” Quegli elementi che indicavo come “segni specifici”, facendo riferimento alla linguistica ed a Kracauer, come i fogli del calendario che volano via, le ruote della locomotiva in movimento, l’orologio con le lancette che girano veloci, tutte forme cinematografiche molto usate fino agli anni ’60, li considerava come lavori di truka e non confacenti la sua poetica. La sua scelta era l’interruzione dell’azione e la ripresa in un contesto che connotasse il tempo passato senza alcun effetto speciale e pochi movimenti di macchina per non farne sentire la presenza. All’osservazione che di fatto un lavoro così improntato, con una forte riduzione della dinamica cinematografica, dovuta alla ridotta azione della cinecamera, ap77
Lei sul trono, una finzione, è un giovane italo persiano che rappresenta la sposa del principe, finzione nella finzione, rappresentato dalla schiava Zumurrud. Un dignitario di corte con capi coloratissimi, come voleva Pasolini, dietro un altro dignitario che curiosa durante la foto.
parisse più un teatro al cinema che un film vero e proprio, aveva risposto che si tratta di una scelta stilistica e che cinema e teatro sono linguaggi profondamente differenti. Appariva sempre più chiaro che Pasolini tentasse, non senza alcune palese ingenuità, di integrare i processi della linguistica alle modalità della interpretazione e lettura delle immagini, derivate sia dalla esperienza delle arti spazio visive sia dalla linguistica applicata alla letteratura. Attraverso la sua visione poetica del cinema, “comunicava” senza rendersi effettivamente, e completamente, conto del senso e della fruibilità del suo lavoro. 78
In altri termini nei suoi lavori usava codici, o meglio, sottocodici, che non erano in possesso del fruitore dei suoi film. In quella circostanza avevo fatto l’esempio di un tale che, estraesse da un sacchetto delle sconosciute parole in persiano e che, una volta messe in ordine, significassero “A morte lo Scià”, causando così, all’inconsapevole, la pena di morte. In buona sostanza, osservavo, come è possibile comunicare un pensiero complesso attraverso un sistema linguistico non completamente sotto controllo?
Salvatore Sapienza e Salvatore Verdetti, rispettivamente Yunan e Barsúm nel racconto cinematografico, durante lo studio del copione.
Tra “linguaggio della realtà” e metalinguaggio della critica La nostra conversazione continuava in tutti quei momenti in cui riuscivo ad inserirmi fra cinecamera e appunti sul copione, le brevi conversazioni con Dante Ferretti, i suggerimenti ai suoi assistenti o le piccole lezioni di cultura che, con la tecnica di facili domande, impartiva ai suoi giovani attori. Facevo riferimento alla teoria dell’informazione del 1949, ad Umberto Eco ed ai suoi scritti sulla linguistica, alla scuola francese con Saussure, Roland Barthes e Christina Metz, per meglio inquadrare la possibilità di comunicare sia a livello della
narrazione (denotativa) sia al livello della connotazione, per i significati più complessi ed articolati, e per raggiungere più efficacemente il pubblico dei fruitori. Avevo fatto ampio riferimento anche allo strutturalismo, che consentiva e contemplava una diversa lettura del lavoro di un artista, di un regista, e che permetteva di trovare in un lavoro elementi che l’autore non aveva considerato rivelandone genialità o limiti. PierPaolo non amava pensare che la visione di un suo film, cosiccome uno scritto, una poesia, fossero visti o lette alla luce dello strutturalismo e che, come conseguenza possibile, il suo lavoro, rigorosa79
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mente determinato, fosse interpretabile in modo completamente diverso dalle sue intenzioni di autore, anche se quest’altra modalità di “lettura” fosse non diversamente rigorosamente determinata. Ma gli strumenti a cui facevo riferimento come appartenenti al “sistema linguistico del cinema”, non erano solo quelli relativi alle tecniche di ottiche e meccaniche, ma anche quelli della composizione dell’immagine e delle inquadrature, delle sequenze di ripresa e del montaggio. Intanto il copione, già “ridotto” a 500 pagine, era sostanziosamente aumentato di volume, straripava di fogli mobili, foglietti di appunti e di parti riscritte che vedevano Pasolini impegnato continuamente. PierPaolo, si era sempre dimostrato un paziente ed attento ascoltatore e, anche se non senza difficoltà mi aveva illustrato
la sua visione del cinema come “linguaggio della realtà”. Ad una domanda su quale pubblico immaginasse per la visione dei suoi film, mi aveva risposto “Non so immaginare un ‘pubblico’ in astratto, io scrivo e faccio cinema per persone come me”. Avevo osservato che il “linguaggio della realtà” appariva già infirmato dal fatto che un film non si poneva il problema di rappresentare il reale e che al contrario, questo nello specifico, raccontava, una fiaba, una favola. Questa poteva apparire più o meno “veritiera”, in funzione della qualità della sua realizzazione, ma era, e rimaneva pur sempre, una finzione. Avevo osservato che solo nei primi esperimenti della cinematografia, negli anni ’20, si ipotizzava una visione quasi oggettiva del re81
Pasolini aveva dichiarato: “Sarà un film coloratissimo” e i costumi di Danilo Donati hanno assolto brillantemente il compito.
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ale, della verità, attraverso la macchina da presa, il ”kinoglaz”, il “cine occhio”, di Dziga Vertov. Speranza e ottimismo avevano fatto fare grandi errori, ma erano i primordi della ricerca “linguistica” di un processo sconosciuto, il Cinema! L’apporto della “critica cinematografica” alla ricerca sul linguaggio cinematografico era prossima allo zero. Al di fuori di settori ad alto livello, dove la critica appariva utilizzare un linguaggio quasi esoterico, criptico per adepti, non era solo prossima allo zero, era zero! Lo schema con cui il film era visto dal critico non era certamente improntato ad una analisi linguistica ma era di tipo banalmente “contenutistico”. Non superava il racconto se non per gratificare la recitazione di qualche firma famosa, lo stesso regista era spesso dimenticato.
Sotto questo aspetto PierPaolo sosteneva che “La critica di un film si esprime con la lingua scritta, con il linguaggio della letteratura, cioè un ‘metalinguaggio’. Il Cinema – diceva – si critica con il cinema. Criticare un mio film è possibile solo facendo un altro film!” Molto più chiaro e determinato era l’impianto ideologico a cui Pasolini faceva riferimento “Il nudo, il sesso, il raccontare visivamente di sesso, usare il sesso per raccontare, non offende solamente la vuota retorica di uno sclerotico sistema borghese, ma offende soprattutto la vuotezza ideologica di coloro che borghesemente si comportano al di la della loro appartenenza di classe. Non a caso, diceva, ci sono i proletari fascisti, doppiamente alienati dalla pochezza dei beni materiali e dei beni spirituali. 83
Pareva quasi, in perfetto allineamento con la teoria dell’informazione e con Mc Luhan, su il modo di raccontare, su “la forma è il messaggio”. Durante le riprese a Esfahan, nella Moschea “Naghsh e Jahan Masjed e Shah”, in esterni, avevo visto PierPaolo, in “piano americano”, a fianco alla cinepresa che teneva con la mano sinistra mentre si guardava attorno in attesa. Ero lì di fronte con le fotocamere. Lo avevo chiamato e, mentre gli porgevo il ciack, gli avevo detto “PierPaolo... tieni un momento il Ciack... faccio una foto”. Lui, perplesso aveva risposto “... ma ... è una finzione...”. La mia risposta era stata “beh, anche il cinema è una finzione...”. Il regista, certamente ricordando le nostre conversazioni su cinema come linguaggio della realtà e cinema come linguaggio di finzione, mi aveva sor84
riso. È l’unica foto in cui PierPaolo sorride direttamente alla fotocamera. Esfahan la Moschea del Venerdì Proprio qui, ad Esfahan in Persia, nella Moschea dell’antica capitale, dove la troupe era arrivata dopo un avventuroso viaggio; Aden, Kuwait, Abadan ed Esfahan, era stato possibile girare le famose “scene proibite”. Lì ad aspettarci c’era già Barbara Grandi che con Ines Pellegrini, la ventenne, italiana dalla “pelle di luna”, aveva il ruolo “erotico” più importante. Ines era la principale protagonista di queste sequenze, proibite non solo dalla morale musulmana. Era una bella fanciulla nata vent’anni prima a Massaua ma che lavorava a Roma come fotomodella. Escludendo i vari caroselli televi-
Alcuni abbigliamenti dei locali, con i loro tessuti e le loro fantasie, sono stati un ottimo contributo come le immagini ben ricordano.
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Certamente i costumi di Danilo Donati hanno potuto incorniciare i volti pregnanti e ben rappresentanti sia dei giovani, sia dei meno giovani abitanti dello Yemen.
sivi era alla prima esperienza cinematografica e, pareva, che la sua carriera fosse già assicurata visto che il produttore Roberto Loyola l’aveva interpellata per un prossimo lavoro. Nonostante le parti che doveva sostenere nel film, nella vita privata Ines era esattamente il contrario, timida, riservata, ma simpatica. Esfahan nella moschea Naghsh e Jahan Masjed e Shah, le riprese erano state lunghe e “pericolose”. La scena che era stata ambientata nella “sala degli specchi”, in realtà, era stata ricavata dalla parte alta di una navata della moschea stessa dovuta alla creati86
vità di Dante Ferretti. Era stato costruito un soppalco per elevare il piano da terra, debitamente controllato e “oscurato” agli occhi esterni. Si stava compiendo un sacrilegio che, se fosse stato scoperto, sarebbe costato caro a tutti. Si trattava della sequenza in cui Ines, nella parte di Zumurrud, ritrova Nur ed-Din, e lei, nelle vesti del potente signore locale, lo obbliga, con un piccolo gioco sadico a mettersi col sedere all’aria, pronto alla sodomizzazione pena la morte, prima di rivelarsi donna e la sua amata di cui lui era alla disperata ricerca. Distogliere PierPaolo dal lavoro sul copione, dalla stesura di articoli, e di appunti
Il giovanissimo militare, quattordici anni, è stato ingaggiato dall’esercito al posto del padre caduto nella guerra infinita con lo Yemen del Nord.
per il suo lavoro letterario, non appariva facile. Sembrava che riuscisse ad isolarsi completamente. Di molte immagini che lo ritraggono in quei momenti ne ha avuto consapevolezza solo a posteriori. Di converso, sul set, appariva sempre attento e scattante, non sembrava mai stanco, diversi componenti della troupe, abbondanti nelle forme e nel peso, in qualche circostanza avevano detto “... nbè nsò mica pelle e ossa come lui!”. Durante una lunga lavorazione nel suk, umido e caldo, in molti avevamo cercato qualcosa da bere, anche semplice acqua. Da un “negozio” avevamo visto emergere una rossa e rotonda targa della Coca
Franco Citti, interprete del Demone nel film. Uno dei pochi attori professionisti già sperimentati da Pasolini e le cui presenze sono ricorrenti nelle sue regie fino dai primordi degli anni ‘60.
Cola, ci eravamo precipitati. Quella targa era li solo come decorazione. Però con atto di grande ospitalità, il “barista” aveva preso un bicchiere. Sembrava uno di quelli che in campagna venivano usati, rovesciati, come supporto per le candele e che fosse rimasto opaco per via della molta cera. Lo aveva immerso, mano compresa, in un barile riempiendolo d’acqua per offrircelo. Molto scortesemente non avevamo accettato. Certamente non è stata la sola impressione di quell’acqua ma la notte successiva, per me, era stata veramente una brutta notte, talché Luciano Welsh, il fonico, la mattina successiva aveva fatto 87
chiamare un medico che mi era apparso la copia di Reza Pahlavi, lo Scia di Persia, in blazer blu con cravatta e fazzoletto bianco nel taschino, e che aveva sentenziato “Intossication food”! Per il resto, tra scottature impressionanti da sole, la morte di una scimmia per il troppo caldo, nonché un pizzico di gastroenterite qua e la fra la troupe, tutto andava abbastanza bene. A me accadeva che, ancora abituato alla vita milanese, facessi le tre del mattino leggendo e prendendo appunti su luoghi ed avvenimenti o sulle conversazioni con PierPaolo, un’ora dopo, però mi ritrovavo con tutti gli altri sul pullman, o il camion, che ci conduceva a città come Ta’izz o Zabid, la città delle duecento moschee bianche, o a villaggi a centocinquanta chilometri di distanza, dove la troupe girava spesso fino ad ore impossibili talché il rientro avveniva, non di rado a mezzanotte ed oltre, con un totale di ben venti ore di lavoro in condizioni che, tutti, con toni eroici, definivamo “folli”. Il tutto non aveva mancato di farsi sentire sul fisico di alcuni mentre, apparentemente di acciaio, Pasolini era stato colpito da una dolorosa forma di otite e tutto, anche per poco, si era improvvisamente bloccato. Frattanto eravamo passati allo Yemen del Sud e, superata la crisi, il regista aveva ripreso a girare a Sayun, nell’Hadramaut, quella detta “la città dell’amore”. Cosa che, come già detto, suonava abbastanza ironica visto che proprio le scene d’amore non si potevano girare ed era stato ipotizzato che la loro ripresa si dovesse effettuare a Roma, a Cinecittà negli interni appositamente ricostruiti. Va detto che a Esfahan tutto era apparso più facile, più semplice, persino più organizzato, e la troupe si muoveva non solo con apparente facilità. 88
Pasolini aveva ottenuto il sostegno ufficiale dello Scià e della sorella. Dopo la prima sospensione delle riprese, dovuta all’indisposizione di Pasolini, un’altra assurda sospensione era intervenuta proprio in Persia e, come la precedete, non doveva essere costata poco, a tutti i livelli. La motivazione appariva molto fantasiosa, mentre ufficialmente si diceva che la revoca dei permessi era dovuta ad alcune infrazioni commesse dalla troupe, quali l’aver fatto entrare asini nella moschea, o donne con il viso scoperto ed un poco di pelle più del dovuto in mostra, oppure non aver interrotto i lavori durante la preghiera ed aver fatto danzare alcune comparse maschili, anche se perfettamente coperte, ufficiosamente circolava la voce, vera, che si trattasse di una sorta di ricatto ad “alto livello” perché Pasolini non avrebbe aderito alla richiesta, più o meno esplicita, di far lavorare nel film un fusto molto robustamente appoggiato dalla sorella dello Scia. La “Conversazione” Tuttavia, ogni qualvolta era mentalmente libero dal lavoro PierPaolo riprendeva la conversazione sul cinema, e non solo per convincere me. Certamente la mia visione, improntata alla “teoria dell’informazione”, nota fino dai primi anni ’50, costituiva un forte spunto di analisi e studio. Lo schema, che Umberto Eco riprendeva ne “L’Almanacco Bompiani del 1967”, era semplice, quanto disarmante per tentativi di ordine “poetico”. Gli elementi che costituivano il processo di trasferimento dell’informazione erano; un “emittente”, un “canale”, un “codice” e un “ricevente”. Quello che appariva impreciso, carente, ma non del tutto assente, era proprio il “codice”!
Un primissimo piano di Ines Pellegrini, l’interprete femminile principale del film nei panni di Zumurrud.
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Le acrobazie dialettiche che ho avuto il piacere di sentire da parte di PierPaolo, nel tentativo di formulare una “teoria del linguaggio cinematografico”, così chiaramente definita, come era la teoria dell’informazione, mi hanno consentito di parlare quasi tutti i giorni, per oltre tre mesi, non solo con uno dei più importanti saggisti di cinema e letterati del secolo scorso ma con un regista che, diversamente da altri, solo saggisti e studiosi, portava le sue teorie nei suoi film! Un provvido, quanto imprevisto sorprendente interlocutore, sia per il cinema sia per la musica, e per la cultura classica era stato Luciano Welsh, il fonico, un gentleman che non era riuscito a legare con talune forme di rudezza di attori e componenti della troupe talché, quando mi vedeva apparentemente non impegnato mi raggiungeva per colloquiare. Proprio Luciano è stato l’ultimo a salutarmi rincorrendomi lungo un viale dicendo ad alta voce e con grande amicizia e simpatia “Non si può non salutare Roberto Villa!”. Il ritorno e l’incontro Il mio rientro da Esfahan aveva seguito un diverso percorso di quello dell’arrivo. Da Esfahan avevo raggiunto Teheran dove mi ero fermato un paio di giorni, quindi il Kuwait dove avevo fatto altrettanto, quindi Roma e Milano. Episodio curioso era stato quello di un poliziotto in borghese che, in cima alla scaletta che dava accesso al portellone dell’aereo per Teheran, mi aveva chiesto la piccola fotocamera, mezzo formato, per scattarmi una foto. Scattata la foto mi aveva detto, con un inglese da Peter Seller nel personaggio di Hrundi V. Bakshi, “Se era una pistola truccata avremmo risolto il problema. Buon Viaggio!”
Frattanto gran parte degli oltre centomila metri di pellicola del film erano stati girati, quella primavera alla temperatura di ben 45° all’ombra e 56° al sole. Ma per quanto concerne le cifre, questa, non era l’unica a costituire un record, Mario De Biase, direttore di produzione, aveva indicato che il film, prodotto dalla PEA, sarebbe costato oltre il miliardo e mezzo. Trovare “fondali” o location, cioè i posti autentici che Pasolini aveva in mente per il suo film, in Nigeria ed in Etiopia, nello Yemen del Nord e nello Yemen del Sud, in Nepal o in Persia, non era stato solo un costo per viaggi e trasporti ma anche un cospicuo costo di energie e di fatica da parte del gruppo composto, da Pasolini, dall’aiuto Angelucci, dall’assistente Shepherd, dal direttore della fotografia, Ruzzolini e dal direttore di produzione De Biase. Le ricerche durate un anno, erano continuate ancora durante le pause di lavorazione del film. Ma altri investimenti importanti testimoniavano l’intenzione della PEA di realizzare un “grande film”. Quaranta milioni erano stati spesi per i costumi che, come mi era stato detto, erano stati usati solo in piccola parte. Quando mi sono recato a Roma, per alcune riprese a Cinecittà, dovute ad un problema tecnico, una “pizza” di pellicola, forse per il troppo caldo, si era deformata ed era stato necessario girare di nuovo quella parte, nella scenografia perfettamente ricostruita dal grande Dante Ferretti, ho incontrato PierPaolo che ha potuto vedere una selezione delle foto del film. Era un raccoglitore con quattrocento diapositive. Le aveva percorse lentamente con lo sguardo dicendo, di tanto in tanto, “Che bei paesaggi... che bei colori ... che volti...” e, con quel genuino stupore di cui era capace, aveva poi detto “Hai 91
raccontato le 1001 notte dove io sono l’attore e tu il regista, un film che non avevo visto! Una fiaba nella fiaba!” Fotografia e sregolatezza. Perché un fotografo parla di Cinema. Fin da piccolo... volevo fare lo scrittore... Anche se mio padre non possedeva una fotocamera la fotografia era una cosa di uso molto comune in famiglia ed alla quale ero designato come “operatore”, ma solo perché l’uso delle fotocamere era complicato, i nonni, gli anziani, non vedevano bene i comandi erano piccoli e scritti in piccolo, complicati e non li capivano. Le macchine fotografiche erano sempre un prestito di zii che, più giovani e con diverse fidanzate, ne facevano uso. I sistemi di visione del soggetto, molto imprecisi, facevano si che nelle foto 92
qualche adulto perdesse la testa, tagliata dalla mia pessima interpretazione dei delimitatori d’inquadratura disegnati nel mirino. A circa 10 anni ho deciso di fare un grande passo, l’acquisto di una mia fotocamera! Era una Comet Bencini del costo di 3.000 lire! Una somma importante, allora lo stipendio medio mensile oscillava fra le 15.000 e le 20.000 lire! La Comet era una minuscola macchina fotografica con il corpo in alluminio pressofuso. In quegli anni l’alluminio aveva un “grande futuro”. La fotocamera era dotata di un obiettivo “azzurrato” ed usava una pellicola denominata 127, i cui negativi di 30x40 mm, erano sensibilmente più grandi del formato Leica. L’avevo comperata a “rate” e la pagavo a 500 lire al mese.
Un dignitario di corte negli opulenti coloratissimi costumi voluti dal regista e disegnati da Donati.
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Il volto parzialmente oscurato dal cappuccio copricapo, lo sguardo diritto e pensoso, hanno costruito, di questo dignitario, un’immagine ieratica dal grande carisma.
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Somma che mettevo insieme realizzando aeromodelli, alianti, e radio “a galena” su commissione di amici. I miei quattro fratelli, mamma, papà e parenti tutti, volenti o nolenti, sono stati cavie e beneficiari della mia mania di fare foto che prendeva spunto dalle immagini dei film che trovavo sul settimanale “Novella film”. Il ritratto è sempre stato una necessità fondamentale ed il mio interesse primario. Le foto erano in bianco e nero. Raramente a colori, pellicole e stampa costavano troppo. La curiosità verso le novità della tecnica elettronica, che coltivavo contemporaneamente, aveva diversi, interessanti, ed affascinanti indirizzi, la radio, la registrazione magnetica, la televisione e la nascente “alta fedeltà” di riproduzione. Le costose, riviste americane di tecnologia elettronica che seguivo, portavano, insieme alla difficoltà della lingua, mille informazioni e, proprio fra queste, nel 1949 avevo letto che un lontano parente di Edison, un ingegnere e matematico, Claude E. Shannon, congiuntamente ad uno scienziato e matematico, Warren Weaver, aveva elaborato “La Teoria dell’Informazione”. Mi era immediatamente apparso chiaro che potevo “leggere” un’immagine, un quadro, una foto, un film, senza chiederne il senso agli “anziani”, ai sapienti di famiglia. Più tardi, intorno ai quattordici anni, avevo iniziato a leggere complicatissime riviste di tecnica fotografica, italiane e no, e di saggistica su arte e cinema tutte portatrici di “filosofie” della realizzazione e della visione dell’immagine. Frattanto, come fotografo, ero diventato un “esperto”, anche per via del “laboratorio” di sviluppo e stampa che ave-
vo creato nel bagno di casa. Neanche a dirlo stampavo di notte, il buio era indispensabile, nella speranza che nessuno avesse urgenze. In quegli anni le macchine in mio possesso si erano susseguite con un crescendo; Agfa, Voigtlander, Contax, Edixa, Praktica e, infine, nel 1960 la prima Nikon. Era stato un passo lunare. Mentre svolgevo la mia attività di fotografo dilettante e finto semi professionista, con piccoli lavori per riviste locali, per i teatri genovesi, evvia, continuavo gli studi. La presenza di una fotocamera professionale, di grande nome e prestigio, come la Nikon, faceva pensare ad una professionalità autentica piuttosto che ad un “fotoamatore evoluto”, come si diceva allora, ma di fatto alle prime armi. Una serie di lavori, anche importanti, per le aspirazioni di un fotografo, mi avevano visto protagonista negli anni ‘60 fino al ‘70, mentre studiavo ingegneria elettronica. Collaborazioni significanti, ma extra-fotografiche, come quella con il Gruppo Studio di Genova, costituito da; Guido Ziveri, Olga Casa, Maurizio Guala, Daniela Zampini e Luigi Tola, e la Famosa Cineteca di Monte Olimpino, con Marcello Piccardo e Bruno Munari, mi avevano consentito di mettere a disposizione il frutto dei miei studi sia della teoria dell’informazione sia di cinema, di elettronica e di linguistica. Mi sembrava di essere più ricercatore, un ingegnere prestato alla fotografia, che un fotografo a pieno titolo, almeno secondo i canoni “dell’epoca”. Va anche detto che, negli anni ‘70, per essere un fotografo, occorreva chiedere un permesso di pubblica sicurezza ed una licenza comunale per ottenere la paten95
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te di “fotografo ambulante”. Da quel momento si era autorizzati, chiedendo il permesso di volta in volta, e pagando una tassa comunale per “occupazione di suolo pubblico”, ad appoggiare al suolo un treppiede, un cavalletto, per fare fotografie. Mentre usavo una delle più avanzate fotocamere allora disponibili, le Nikon F2, la burocrazia considerava l’attività fotografica come quella dei primi fotografi dell’‘800, il fotografo era considerato come chi, dotato di macchina a soffietto e cavalletto, e di una tenda “cappuccio”, nonché alambicchi vari, si aggirava per le strade per “catturare” immagini di passanti, o di paesaggi, per farne sviluppo immediato e riceverne compenso. Aggiunta burocratica era costituita dall’obbligo di tenere sempre a disposizione della polizia i negativi delle riprese effettuate. Lo “Studio fotografico” non era nemmeno indicato nelle attività professionali previste dall’ufficio IGE e poi IVA. Questa logica molto restrittiva, sia in termini burocratici sia in termini operativi, mi aveva obbligato ad iscrivermi agli artigiani come “grafico pubblicitario”, condizione che, invece, consentiva di usare qualsiasi strumento per realizzare il proprio lavoro, fotocamere comprese. La monotonia creativa, della committenza, delle pubblicazioni e della pubblicità di quel tempo, mi aveva portato ad operare su due livelli, uno commerciale ed altro, remunerativamente prossimo allo zero, ma del più alto livello culturale possibile. La guida per le mie scelte operative era stata, ed è, la costruzione di immagini documento per la memoria, dotate di un senso estetico che, diversamente dalle comuni conoscenze fotografiche, 99
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considerasse la fotografia costruita con le stesse modalità delle arti spazio visive; prospettiva, sezioni auree rapporti cromatici, evvia. Nelle letture, dai dieci anni in poi, mi era rimasta bene impressa l’idea, diventata ricorrente che, ai contemporanei di tutti i tempi, non interessava nulla del loro lavoro rispetto al futuro. Cosa che, ancor oggi, continua a non essere chiara e forse nemmeno nota. L’unica domanda che il contemporaneo si è posto e si pone, anche se in termini meno eleganti, ma sempre gli stessi, è “Qui prodest?” Per le categorie di filmaker, videomaker, fotografi, la mancata associazione di una valenza culturale alla loro professionalità era, ed è, il problema che ha sempre reso difficile il libero accesso a qualsiasi evento culturale dove, non solo era, ed è, previsto un costo, ma dove era, ed è, prevista una serie di complicati permessi burocratici ed altro. Non è un caso che il Grande Gillo Dorfles, intorno a fine anni ‘60, al Teatro dell’Arte a Milano avesse accusato i fotografi, con una intenzionale mancanza di fair play, di ignoranza. Nel 1970, a Torino, partecipando alla proiezione di “Alice’s Restaurant” ero intervenuto diverse volte durante una tavola rotonda condotta da Ettore Sottsass Jr e Fernanda Pivano, ad un certo punto, incuriositi, mi avevano chiesto quale attività svolgessi, la mia risposta era stata “il fotografo”. La loro replica, secca ed esaustiva, era stata “ma fammi il piacere. Macché fotografo!” Più tardi, nel 1978, a Milano, al Primo convegno di semiotica avevo avuto modo di parlare con Umberto Eco
sui problemi del linguaggio cinematografico e fotografico, concludendo la conversazione avevo chiesto se avesse in programma di scrivere un libro sul linguaggio fotografico, per tutta risposta inchinò la testa in avanti e, guardandomi di sottecchi, mi chiese “E poi chi lo legge?”. Va detto che tutto quello che avrebbe potuto scrivere probabilmente era già contenuto nella sua non irrilevante saggistica e chi avesse voluto informarsi già disponeva di una doviziosa documentazione da esplorare. Così, mentre “lavoravo” per riviste, insignificanti nel mercato editoriale, avevo ottenuto tessera stampa ed accrediti, per fotografare dai Beatles a Vittorio Gassman, dai New Trolls a Dario Fo, da Alberto Sordi a Giorgio Albertazzi, e cosivvia. Visto il basso credito di cui i “fotografi” godevano, sia presso i giornalisti sia presso gli ambienti culturali in genere, la mia iscrizione ai “grafici pubblicitari”, si era verificata la scelta migliore. A quella categoria era concesso di svolgere qualsiasi attività di “comunicazione”, dalle riprese video ai lay out grafici, dalle interviste scritte a quelle Tv, dalle riprese fotografiche alla registrazione magnetiche audio, alla produzione di dischi, ed altro. Ma Genova non era la sede migliore per dare lo spazio fotografico adatto a chi aveva creduto che la “grande fotografia” fosse quella raccontata dalla stampa di settore. Il passaggio all’attività professionale è iniziata nell’Ottobre del 1970, con il mio trasferimento a Milano dove, due anni dopo incontravo Pasolini.
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Momenti della Cerimonia dello sposalizio del Re. In dettaglio i paramenti e gli ospiti del popolo, importanti anfore di materiali preziosi per cibi altrettanto speciali. 108
Il “totale” del baldacchino con gli sposi e due grandi ali con molti dignitari di corte. Nel racconto a Zumurrud, travestita da uomo, viene offerta una sposa che non può rifiutare, pena la vita. 109
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Persia - Isfahan Interni della Moschea del Venerdì. I Dignitari presentano i loro omaggi al Re e alla Regina. 112
Roma - Cinecittà Rifacimento di una scena girata nello Yemen che si è resa necessaria poiché la scatola di metallo della “pizza” del girato, incidentalmente esposta al sole, si era deformata e si è reso necessario ricostruire l’ambiente come l’originale per poi ripetere il tutto con Nur Ed-Din e Zumurrud. 113
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Persia - Isfahan Esterni della Moschea del venerdì. Durante le pause di lavorazione chi non si fermava mai era Lui, il Regista. 119
Persia - Isfahan Esterni della Moschea del Venerdì. Pasolini, al centro dell’immagine, ma al centro dello spazio occupato da un centinaio di comparse, controlla quali dovranno essere i prossimi movimenti della Cinepresa. In primo piano il ciack, subito dietro la segretaria di redazione che si nasconde, nonché il direttore della fotografia. 120
Il controllo di tutti i momenti di ogni ripresa era una costante per il Regista, quando, sostituendosi all’operatore, non riprendeva lui stesso. 121
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Persia - Isfahan Esterni della Moschea del Venerdì. Il grande numero degli invitati al banchetto della cerimonia nuziale, seduti in quei cerchi propri delle famiglie di potere alla corte del Re. 124
Grandi caraffe di metallo intarsiato e giganteschi vassoi preziosamente lavorati, portano bevande non alcoliche e piatti con leccornie da “mille e una notte”. 125
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Persia - Isfahan Esterni della Moschea del Venerdì. Pasolini, circondato dai collaboratori, opera direttamente alla Arriflex che, completa di ottiche, paraluce, motore elettrico e pellicola, avevano detto aggirarsi intorno ai 25 Kg. 127
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Persia - Isfahan Interni della Moschea del Venerdì. Tutto è fermo. Un momento di pausa. Tutti sono in attesa del prossimo invito di Pasolini al ricomporsi per le riprese. 130
Ancora interni nella Moschea del Venerdì. Pasolini, instancabile, opera alla cinepresa dotata di un potente teleobiettivo. 131
Persia - Isfahan Esterni della Moschea del Venerdì. Pasolini, riprende un primo piano di Zumurrud. 132
Persia - Murcheh Khvort Un momento delle riprese dell’incontro di Nur-ed-Din con le “grassone”. 133
Moschea del Venerdì. Franco Citti non ha resistito all’idea di farsi fotografare dietro la cinepresa come il suo maestro. 134
Persia - Iran - Murcheh Khvort Gideon Bachmann, un famoso Film Maker, tedesco, riprende Pasolini mentre indica i movimenti e i percorsi degli attori nel giardino sottostante.
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Persia - Iran - Murcheh Khvort Nur Ed-Din sopra il Giardino delle Grassone dove sta per essere calato.
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Yemen - Ta’izz La troupe in attesa di accedere alla location dove verranno fatte le riprese della “Stanza del Demone” con Franco Citti.
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Persia - Iran - Murcheh Khvort Il posizionamento della cinepresa per le riprese del Giardino delle Grassone. 139
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Yemen - Ta’izz Episodio della “Stanza del Demone” con Franco Citti e Alberto Argentino (Shahzamàn); questi, per la sua codardia, verrà trasformato dal Demone in una scimmia. 146
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Yemen - Ta’izz La stanza del Demone, Franco Citti, il Demone, incontra Shahzamàn, dopo che questi ha concupito la sua schiava che verrà punita con il taglio delle mani. 150
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Yemen - Ta’izz La Stanza del Demone. Il direttore della fotografia prende le misure per il movimento della macchina da ripresa tra i due amanti, Alberto Argentino (Shahzamàn) e Barbara Grandi, la schiava. 153
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Yemen - Ta’izz La Stanza del Demone dove avviene il “tradimento” tra Shahzamàn e Barbara Grandi, la schiava. 159
Yemen - Ta’izz L’assistente alla Regia Umberto Angelucci, Alberto Argentino e PierPaolo Pasolini discutono delle modalità di ripresa mentre, dietro di loro, si allontana lo scenografo Dante Ferretti, tre volte premio Oscar. 160
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Yemen - Ta’izz Una “pausa caffè” che vede Argentino, Pasolini, diversi in movimento nonché lo scenografo plurioscar Dante Ferretti. 162
Yemen - Ta’izz Pasolini spiega i movimenti della prossima scena a Citti e Argentino. 163
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Yemen - Ta’izz Barbara Grandi vittima predestinata del demone, letteralmente “messa in croce” dalla codardia di Shahzamàn e la crudeltà del Demone. 172
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Iran - Isfahan Moschea del Venerdì. Nella «Stanza degli Specchi», sul soppalco voluto da Dante Ferretti, costruito appositamente e debitamente «blindato», Pasolini effettua le riprese con Peter Shepherd, assistente alla regia, il direttore della fotografia e la segretaria di edizione Beatrice Banfi. 175
Iran - Isfahan - Moschea del Venerdì Nella Stanza degli Specchi, durante una pausa delle riprese, Pasolini, sorridente, chiede ai due interpreti: «Ma sapete cosa state recitando?» e i due: «Boh!». 176
Nella Stanza degli Specchi, gli spazi angusti hanno anche obbligato a contorsionismi che hanno visto sacrificare l’assistente Shepherd.
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Nella Stanza degli Specchi appare un lavorio intenso finalizzato alla realizzazione delle riprese conclusive del racconto. 178
Mentre Franco Merli aiuta Ines Pellegrini a fissare i bordi del suo abito, Pasolini, con ampie falcate continua a spostarsi per stabilire i punti migliori per realizzare i “campo-controcampo” che dovrà effettuare. 179
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Stanza degli Specchi. Ines Pellegrini in attesa del ciak che animerà anche Franco Merli, nelle ultime scene del racconto. 182
Pasolini riprende la scena da un punto di vista più alto, quello proprio dell’occhio, supportato dall’operatore mentre il fotografo di scena svolge il suo lavoro.
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Zumurrud, sempre nelle vesti di Re, attende pazientemente lo sviluppo della sua storia. 184
Pasolini con l’aiuto dell’operatore effettua una serie di riprese a mezza altezza, cioè a quella che meglio può descrivere i totali e i primi piani di quanto accade sul “letto delle rivelazioni”. 185
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Stanza degli Specchi. Mentre si stanno approntando le luci e le macchine per le riprese, Salvatore Sapienza collabora esponendo verso la cinepresa il test dei colori. 187
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Nella Stanza degli Specchi Zumurrud rivela a Nur Ed-Din di essere la sua amata e non già il Re che lui credeva. Ancora una volta Pasolini, supportato dal direttore della fotografia, Peppino Ruzzolini, riprende le sequenze delle scene finali del film, non più a mano libera, ma con un solido treppiede, la vicinanza della segretaria di edizione e l’assistente alla regia, mentre Ines Pellegrini, si toglie il vestito regale che ne nascondeva la sua femminilità.
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When Painting becomes Photography and vice versa Paolo Nutarelli Painter in Genova Vico Sotto le Murette
The invention of photography and its subsequent success have immediately raised a lively debate with painting, and, as a consequence, a careful comparison between these two arts. The new discovery which permitted to “create” pictures of the reality with an automatic process thrilled a wide audience. The topic was discussed and its potentialities were described on the press of the time so much that someone even declared that the age of painting was over. However, not all the painters were afraid of the new discovery. On the contrary some of them identified its possible advantages and so, at the beginning, painters and photographer imitated each other. Gradually though, the photographer gave the imitation of painting up and began to define the various fields where his competence could be used: History, Anthropology, Sociology, History of the arts, Geography and so on. He began also to define the genres of his work: the portrait, the landscape, the reportage and much more. The photographer started to work on these fields with the premise of the documentary quality of his work, because, since the beginning, the picture had become the most truetolife “object” of memory. However, at the same time, some experimented other artistic modalities through the new discovery. And thus, in a relatively short period, the photographer became an artist and his
production became part of the world of the arts. Both the photographer and the painter produce images. However, there are some differences in the way they work which derive, in the case of photography, from the device itself. The most significant difference is that the photographer acts as a spectator who is able to choose the right moment to block a fragment of reality into a picture. On the other hand, the painter immediately works with the idea of creating a picture through a painting, regardless of any real or thought vision. To the photographer, reality is the trace of a moment whereas to painter, even though he is still concerned with the representation, reality is a “matter” that can be modified. Certainly, this difference between the two means of expression is reduced in the case of the experimental photography (Man Ray, Moholy-Naghy, El Lissitzky). In any case, photography, as all of the other visual arts, finds its best expression through the culture of the images mastered by its author. The painter has the time to build and create an image while reflecting on its origins. On the other hand, the photographer, in this case Roberto Villa, must “create” his picture in a moment. Each picture derives from the specific knowledge of its author. The photographer knows how to frame, how to find the right balance of shape, lights, shades and colours, he also knows that the relation between the figures and their background is essential in the incredibly short time in which he decides to shoot. And these are all the qualities of a “good painter”. Roberto Villa narrated and eternalised many of the moments he had lived in 193
the places and in the situations Pasolini used to build his film. Something that no painter could have done: and this is another difference between the two authorial methods. Thus, beyond any genre, the pictures of the set of “The Thousand and One Nights” were born. At first, they resemble a photographic reportage. However, Villa does not simply provide a document of what was going on: he knows how to choose the subjects, the context and the environment and he knows how to proceed like a painter when he chooses the subjects he wants to portray. The title Villa has given to his pictures refers to the situation in which he had took the picture (in example: “Pasolini on the set”, “Pictures beyond the set”, “Portraits, faces, body, people” and so on) and in each situation the author had chosen the best arrangement to characterise a moment in Pasolini’s work. This proves that the peculiarity of a photographer is the ability to define in a moment the best picture possible.
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We must not forget, moreover, that at the time the pictures were taken with an analogical camera and that photographing was a profession which required specific expertise. It was a different approach from the current modalities of photography, where the new digital technology provides new, more approachable tools. The simplification of the photographic tools, which has contributed in the increase of the people who photograph. Similarly, in the field of the visual arts, there has been an increase of the amateur painters, whose activity is often a bit improvised and shows some incompetence which derives, probably, from a superficial and wrong understanding of the art in the Twentieth century, where creating art seemed almost trivial. The increase of these “artists” seems to have determined a diminishing in the competences required to work with the images. And this is another similarity with photography.
From a faraway world . Reflections and suggestions on the pictures by Roberto Villa Angela Felice
There are some unwritten rules, but not for this are them less restrictive, to write a foreword or some other “parasitic” texts to accompany the works of others. Generally, it is a matter of paying an homage to the author, or explaining his intentions, of giving some fleeting guideline to his future readers, hoping them to be numerous. In short, to complete this operations, one must draw upon the arsenal of the etiquette of the foreword. However, many reasons persuade me to avoid the comfortable route of conventions and to step into more personal, extravagant and somehow oblique paths and to go ahead through suggestions and short circuits. There are many reasons to do so, and among them I count above all my respect and my friendship for a master such as Roberto Villa is, and then, the respect owed to his “first” book, in which he shares with us and makes us relive through his words and his pictures a crucial momentmaybe the most exalting and adventurous one – of his long career as a photographer; a moment he raises as the core of his professional life and, why not, sentimental and emotional life too. I will start thus from La Divina Mimesis, an extraordinary prose poem by Pasolini which was published by Einaudi in November 1975, only a few days after the brutal assassination of its author. It is not a posthumous work, and it is only against his wishes that it is a testamentary one: it must be read
instead as the last work Pasolini himself organised and released, as a “document” that he did not have the opportunity to see printed. Or, it can be considered as the formal preview of Petrolio, which indeed was a posthumous work: an experimental palimpsest of text-project, fragmented, layered in horizontal accumulations, willingly displayed in the incompleteness of the anti novel or of the impossible novel. I will not go into the details of the meanings of this fascinating last work, in which Pasolini collected material which went back to 1963 and some other, fragmented, of the immediately following years. In it, he worked not so much in the imitation of the Comedy by Dante – and how could he do so, when confronting the “iron ideology” which is at the base of the compact medieval structure? – but rather in creating a work on his own, which reminded more of Rimbaud than of Dante, whose poem was used only in an allusive perspective and as an hypotext. In his Divina Mimesis, Pasolini summarised another analysis of himself and documented the crisis of his time and of himself as a writer. A crisis which emerges in the irreparable fracture between a Virgil-self, who is fragile and “faded”, and a Dante-self, lost in the dark forest of the mercantile consumerism, that is, between the Fifties and the Sixties, between the Gramscian hopes of the former and the disappointments of the latter, corrupted by the new-capitalistic hell of the “Afterhistory”. To the poet, those were also the years doomed by the ghost of the creative paralysis and by the duress to repeat himself over and over again. The checkmate, thus, instead of being 195
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ideologically declared, was expressed in the formal organisation of a text who had been thought as a work in progress, which developed according to anti-historicism, like life itself: an heterogeneous mix of words, notes, fragments, blank footnotes, idle editorial afterwords. However, in this magma of a writing incapable of coagulate, and precisely in the final phase of the editorial structuring in 1975, Pasolini decided to add an appendix of a dossier of twentyfive pictures in black and white. He defined it a “Faded iconography” which should prove an allusive and secondary “visual poetry”. On closer inspection, the fluidity of the experimental centrifugal word was opposed the fixity of the picture, which is final in itself, cannot be misunderstood and usually carries with it a certain deadly halo. Pasolini thought this to be a device to enrich even further the documentary nature of the book with another linguistic layer, in this case a visual one, “on the other hand really readable”, as he himself wrote in the preface in 1975. In short, he chose to combine in a contrast pictures which were meaningful in his autobiographic tale and, in a more symbolic perspective, in the general contrast between the illusory Fifties and the disenchanted Sixties. And yet, in this surprising and unexpected gallery there is a surprise which comes out at the end of that sort of personal and collective album. The appendix, in fact, ends with the shocking combination of two pictures: on the one side, the parish Church in Casarsa, raising in an empty square; on the other side, a group of African children on the forefront, tattered, serious and dignified, and on the background an average and poor village of shacks. The meaning
of this flooring combination is not completely out of reach for those who know Pasolini’s artistic and intellectual biography, even though at first sight it is not as readable as the author thought. In those two last tiles of his “Iconography”, Pasolini joined the Alpha and the Omega of his life and of his creative existence, sentimentally pressurised by a deep sensibility and by a certain topographic sensuality. And thus, on the one side there is the echo of the inspiration of his youth, rooted in Friuli, but which by now is empty, faraway and definitely “faded”; on the other side, there is the African sliver of a geography which is both of the hunger and of the truth that must be counterposed (still now? and until when?) to the Unreal nature of the Western wealthiness. It is meaningful that Pasolini chose to seal his last Mimesis with an enigmatic projection of the Third World which, differently from the other pictures present in this section, does not find any connection with the written part of the book thus inducing the reader to pose some questions on its presence there. Is this a “faded”, hopeless picture, too? Or is it a crack on a possible escape route from the consumeristic hell and from the impasse of the word? To say the truth, both Casarsa and Africa suggest two different “elsewhere”, out of sync in time and symbolically: the former is an agricultural and working class elsewhere, which now has been lost and cancelled; the latter is the elsewhere intended as “Africa, my only alternative”, an idea and a mirage of a geography that must be displaced farther or below, in order to search for those human truths which are by now in 197
danger of extinction. And this is where my foreword tended in its wanderings. Here, because the pictures Villa took following the troupe of “The Thousand and One Nights”, both on the set and outside it, are pictures of the elsewhere. These are pictures which, on the one side, document the work of the visionary directoranthropologist, who once wrote that he knew the Arabs more than the people from Milan: first because his knowledge was “existential” and not bookish, and then because in the traditional culture of those Third World peoples, “from Naples downwards”, he perceived “other” islands where the archaic still survived, despite being endangered by the homologation, due to their porous borders. And on the other hand these are pictures Villa took on his own, and who knows how much he had been infected by the Master, to collect his own portfolio on the “elsewhere”, printed on the faces, on the bodies, on the gestures, on the dresses, on the places, on the houses, on the colours. And so, these pictures convey a value which goes beyond the mere documentary meaning, which nevertheless is clearly there in all of its preciousness, and which goes beyond the unquestionable technical perfection and the aesthetic result too. Moreover, these pictures seem signed with the gift of curiosity, never invasive nor intrusive, with the pleasure of discovery and with the guideline of an “intercultural” respect, as we would say nowadays; something which is then blurred in a dazzled admiration when Pasolini appears on the scene, the gifted, feverish director portrayed at the centre of his creative forge, where he impressed his “other” vision to “the other”.
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Therefore, beyond their flawless lay out, these pictures astonish because they originated in astonishment themselves, which is the virtue and the engine of those who are really able to be enchanted by the unknown and do not want to alter it, but only to observe it and, maybe, to understand it; half inside and half outside, with a glance which is half participating and half external to it, aware that, at the end of the game, one should move away and get back home, carrying with oneself only a few fragments of the mystery. It is thus pleasant to draw upon those words, written in 1965 but still used ten years later, which Pasolini chose to close his Divina Mimesis and from where I began my brief foreword. Words which can work as a moving caption not only of the sorrowful but still not surrendered Pasolini in his last phase, but of all those who are searching for unknown realities (to photograph?) and are constantly moving, while truth remains elusive, word collapses and hell, relentlessly, moves forward. “Sono passato, così, come un vento dietro gli ultimi muri o prati della città – o come un barbaro disceso per distruggere, e che ha finito col distrarsi a guardare, e a baciare, qualcuno che gli assomigliava – prima di decidersi a tornarsene via (1965)”. “I ended up, thus, like a wind behind the last walls or the last fields of the city – or like a barbarian descended to destroy, and who ended up distracting himself to look, and to kiss, someone who resembled himbefore deciding to go away (1965)”.
The revelation of the Other. The pictures by Roberto Villa “inside” The Thousand and One Nights Roberto Chiesi (Study Centre - Pier Paolo Pasolini Archive in the Bologna Film Library Foundation)
Sometimes the intruder’s glance is illuminating, because the more or less wanted randomness of the intrusions can offer new perspectives, can catch revealing details, can even be more necessary than the presence of those who were expected to be there. Among the members of the troupe who was working on the “A Thousand and One Nights” by Pier Paolo Pasolini, there was a privileged intruder and his name was Roberto Villa. A professional photographer and an eclectic who was interested in linguistics and audio visual expressions, Villa apprached Pier Paolo Pasolini at the end of a debate on the audio visual language organised in Milan in 1972, at the time when his famous collection of essays Empirismo eretico had been published. Those were the years of the triumph of the Trilogy of Life, a success which was more commercial that critical (the reevaluation of this work would happen only later on): Pasolini’s name was linked to a series of scandals, even more violent than in the previous years, and to a “freed” erotism which the industry had immediately exploited in a series of sub-products. Villa was interested in linguistics but also in cinema and he had followed Pasolini since the first screening of his works in the cinema discussions in Genoa, his hometown. As a photographer, he had already
travelled all over the world so, when he got to know that in the Spring of 1973 the writer-director would film his next movie, The Thousand and One Nights, the last chapter of the Trilogy in Arabia and Persia (and in Africa) he thought he could realise a shooting on the set. That would have given him the opportunity to continue, when possible, his conversations with Pasolini. Maybe another person would have never travelled to Yemen and Iran but for professional reasons. Fortunately, Villa is also a man of passions and even on that occasion, the passion was stronger than himself. Thus, to the pictures taken by Angelo Pennoni, who was the official photographer on the set, sent by the PEA (Alberto Grimaldi’s company, which produced the movie), were added those taken by an intruder who could freely wonder inside and outside the set. The anomaly of The Thousand an One Nights, present in all the movies by Pasolini, was that the border between “set” and “outside of the set” could not be clearly defined. To say the truth, everything which moved and breathed in the places surrounding the set became part of it, and was appointed by the fiction according to Pasolini’s vision, which reinvented the matter and the body both of the places and of the individuals who at the time were in Ta’izz, Aden, Al Mukalla, Hadramaut, Shibam or Murcheh Khvort or Esfahan or somewhere else. Those were not average places or spaces: those were the places where the popular identity still survived, with all of its physicality, its violence, its authenticity and its dangerousness. Something which belonged to the 199
ancient world, that of the cultural differences and of the peculiarities, the rural world which followed the seasons and the religious rituals. It was a world which was disappearing in the West and specifically in that Italy which Pasolini had loved so ardently, seduced and corrupted by the irresistible sirens of consumerisms. However, the Arab and the Persian world of the Thousand and One Nights was something else. In the movie there is a constant permeability between the real identity of the places and of the individuals and their transfiguration in Pasolini’s imagination, which feeds on their reality to reveal it through the visionary fiction. The Thousand and One Nights is the only movie by Pasolini with an happy ending. In fact, it is a movie set in a world which is not Christian, catholic or Western, whose Christianisation was yet to come (and was still massive in 1973). Villa entered that universe and made what a photographer of his value had to to: he looked, observed, contemplated, and dedicated an avid attention to the humanity who moved around him. The result was a fresco made of thousand of pictures: they are tiles of the mosaic of a remote and inscrutable world, mostly disappeared and probably mostly inaccessible to the Western glances. The faces of the boys and of the little girls who look from the other bank of life, the dimension of the necessary goods, the range of expressions where
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Villa caught curiosity, questions, caution, indifference and a series of postures, gestures, actions and stillness paint a fresco of the everyday life and of the deep humility in another world, in another culture, which seems magic and wonderful because it is so far and remote from our own. The shape of the white buildings, the moonlike shapes of the camels, the gaudy blaze of the red, the severity of the black: all that world of dignity and misery which Pasolini loved beyond imagination. And then there is a protagonist who is, precisely, Pasolini. Villa followed him in his moments of reflection and in the congestion of the filming, in his runnings and his ardent attention to the things and the human beings he wanted to film and in his way of filming them, of catching and possessing them. Villa’s glance skilfully caught the selfconfidence and the urge of an artist who was portrayed inside his visionary theatre, where he was both the observer and the puppeteer of the phenomenons which he himself created and of the phenomenons he stole from the surrounding reality. Not only the pictures by Villa are beautiful for the quality of their composition and the skilful use of colour, but also because they catch the gestures, the glances, the suspensions where one can find Pasolini’s personality and the world of a movie which was developing in those very moments.
“Photographing a Fairytale” starting from a panel discussion on TV and the audiovisual language Roberto Villa I had the opportunity to meet PierPaolo Pasolini in November 1972, at the Casa della Cultura (Culture Home) in Milan, during a panel discussion on television and the cinema. On that occasion, the topic of the debate was “Writing and Reading” in the communication based on audiovisual processes and systems, even though the lecturers spoke about it unawarely. I simply took some pictures and listened to them, although there were many reasons to intervene. I was particularly interested to Pasolini’s point of view on the presence of the cinema on TV and the consequences deriving from advertising breaks. For a few years in Italy there had been some “private” TV channels (as Tele Biella) in alternative to the RAI, the “National” TV. Some of them broadcast movies, both via ether and via cable, but they limited the advertising breaks to the proper intervals (first, second and third part). Some others had already learnt to interrupt the movie in the most involving moments for the audience. The most important part of this debate was, although indirectly, the linguistic process. It turned around the change of context, from the “rituals” of the Movie Theatre to the viewing of the movie at home (in the kitchen, in the dining room and so on) without excluding a semantic slip due to the smaller dimension of the screen and many other reasons. It immediately occurred that on TV it was almost impossible to broadcast an uncut version, but for completely different
reasons. On the one side there was the law which regulated it, and on the other there were some pseudo-morals which determined a sort of selfcensorship. The insiders of the television system sensationally lied on these topics, stressing that it would produce a “cultural enrichment” for the audience. An enrichment whose limits would have been decided only by the rigid censorship of “mother” RAI. It is useful to remind that the language used then by journalists, speakers and commentators, both on radio and on TV, was severely controlled and restricted. In example, the expression “Member of the Board” had been censored and substituted with “Part of ”. The word “member” and many others had been canceled from the Italian language spoken by those who worked on TV. Ultimately, the presumed greater freedom of the private TV channels would mark the path for the new TV. Some other TV insiders said that the private channels, which were more dynamic, more open minded, less prone to censorship, would possibly persuade “mother RAI” to decrease the current restrictions, for fear of losing its audience. Pasolini, who was out of this “working” logic, claimed that it was not conceivable to broadcast everything: according to him, it was not a trivial matter of censorship, but it was rather a matter of respect of all those who could be offended, in their sensibility, or in their modest education, by viewing something they could not understand. In other words, a sophisticated and complex movie like “The Milky Way” by Buñuel would have unlikely been understood by a spectator with a limited general culture and an even more limited cinematographic culture. This 201
kind of audience had already expressed a complete indifference to his works even if they were broadcast without any advertising interruption. Once the panel discussion was over, when everybody else had already gone, I went close to Pasolini, under the arcades in via Borgogna. I told him how much I was interested in the mechanisms of audiovisual communication which he had written about in his essays and that I would have loved to meet him to talk about it. Without any hesitation, he gave me his address in Rome, in via Eufrate, and he told me about his forthcoming departure to shoot “A Thousand and One Nights”. Then, knowing I would appreciate, he added that he was leaving in a few days for Nigeria, hoping to find there some suitable locations for his new film. He had already visited many Countries and he still had to visit many others: Persia, India, Afghanistan and Yemen. “It is going to be a very long movie. Three hours and a half. I wrote a screenplay of more than a thousand pages. And a thousand times sex appeared in my works. A happy, joyful sex. I want the same freedom of expression of the various Decameroticus. And then, even if apparently it is contradictory, pornography has been discovered as a merchandise by the capitalistic system. And it is used as a merchandise. At this point, how can we decide wether the naked body and sex are used as a form of “committed art” or as a commercial product? Then, he added in a low voice, but rather as if he was speaking to himself, that I could join him on the set in the MiddleEast, if I was interested. There I could watch him working, while he applied his theories on cinema, and, maybe, we could talk about it. 202
My answer could not be but positive. At this point, Pasolini said that he would inform the production of the presence of a freelance photographer on the set. The journey within the journey The PEA press office, the production house of this film, immediately got hold of me asking me to propose a magazine which would publish my pictures of the set and a comment Pasolini would wrote on some of them. The broad spectrum of my collaborations with many famous newspapers helped me in contacting the directors. In fact, at the time, only directors could make a definite decision on collaborations that were considered demanding. The interest and the agreement on my proposal were largely superior to those required by the PEA. I agreed upon the publication of the work on the set of “A Thousand and One Night” with: Esquire & Derby Magazine Giorni directed by Davide Lajolo - Photo13 edited and directed by the historian of photography Ando Gilardi - Playboy Italy, edited by Rizzoli, which was then directed by Furio Lettich. Once the agreement was accepted both by the magazines and by the PEA, as in a short tale, “some months later” I arrived in Aden. Pasolini’s troupe was there, in the ancient port abandoned by the English after the revolution that had made Aden the capital of Yemen; they were waiting to leave for the long series of wonderful places that, by default, composed the jigsaw puzzle of the backgrounds of the 1001 shoots of the 1001 nights. However, the journey from Milan to Aden had not been as direct as it could have seemed, and it had been even less fast but, certainly, it had been much
more adventurous that I had thought. The ticket for the journey I received was not coming from any travel agency, and not even from one specialised in journeys to the Middle-East. Even this ticket was created by default, in the film production offices, and it was based on the journey experiences through the real Middle East, searching for the locations that Pasolini wanted to shoot. Little by little it occurred to me that they wanted me to travel through and be acquainted with the difficulties the troupe had met, those that I would meet during my “journey to the discovery of Pasolini”. The first transfer required was, for the moment, from Milan to Rome. In fact, Beirut, the first stopover in the South-East, could be reached only from the Roman airport. In the airport of the Lebanese capital, both the landing with Alitalia and the taking off with MEA (Middle East Airlines) happened in the middle of a real air combat, among helicopters presumably belonging to the government and nonidentifiable land troops. Maybe that was the only permitted place to land or maybe working during a war was normal to them. Nevertheless, the pilots were not at all afraid by the spray of gunfires that crossed the air leaving thick traces of their passage, and they happily landed, with a perfect operation and not a single hole on the wings or on the fuselage. I naïvely asked the desk of MEA what was happening and the answer was, as if we were talking about a Summer storm, “It has been so for a few days. Don’t worry: they will stop after a while.” After almost another four hour flight, on an ex “super modern” jet, I landed in Asmara. There, I found the polite Araya Assefaw, who was the owner of a travel
agency, a handyman, involved in import, export, cars and many other things. He waited for me, not because he was curious about the job I was going to do, or to give me travel advice or some other suggestions I might need. No, he waited for me because he had got to know I worked with Playboy. In his hands, he held a copy of the Italian edition, displaying the three pictures of the centrefold, which I had taken, the pictures portraying me on the colophon, on the opening of the issue and in the column “Among us”, where the participants of that issue were introduced. After some pleasantries, some compliments on the pictures and on the beauty of the model, and the request of my signature on the centrefold Playmate, and after the ritual of the “mint tea”, my guest took his leave to get to his many “businesses”, leaving me in front of the MEA reception desk. The beautiful hostess from Eritrea, bronzed skinned and with oriental traits, had seen me with the travel agent and, as she had understood where I came from, addressed me in a perfect Italian to tell me the the gate, the number of the flight and the time of departure. As I looked surprised at her perfect Italian, she explained me that her grandfather and her father had learnt the language “working with the Italians”. The memory of our “Empire” and that, until a few decades earlier, Eritrea had been one of our “colonies” made me feel and unpleasant sense of shame. On the other bank of the Red Sea The new destination was Hodeida. A city that since the sound of its original name “al Hudaydah” introduced itself as an adventurous preview of the Middle East, of Yemen. And the MEA plane, which was not even a jet comparable to 203
that with which I had arrived, was flying in that direction. It was a Douglas DC3, nicknamed “Dakota”, dating back to the Forties. It was a twin motor which rested the tail on one of those “little wheels” that, rumour had it, had been used by Piaggio, after the war, to realise the famous Vespa. The memories I had of that twin motor, and of his double name, were linked to radiophonic recollections of war time, when the speaker would announce the fall, or, better, the knocking down of a plane, and would close the announcement with “...type DC3 Dakota” to stress its belonging to the enemy, to “the alleys”. Once I went onboard, with an irony stair placed on its side on the hold door, I noticed that the seats were the original ones, that their canvas was torn and even ripped in some points. Things that clearly gave off both the age and the origin of the aircraft: the military surplus or the outdated means were usually sold to Middle East or African Countries. Onboard among the few passengers there was the produces Roberto Loyola, who was unreservedly afraid both of the flight and of the aircraft. There was also a young, chubby, dark skinned woman. Her face was round and her hair was deep black, her dark eyes were huge. She was shyly smiling, but she was not hiding the extreme whiteness of her teeth. The airport in Hodeida, differently from the one in Beirut, appeared suddenly behind the desert dunes, after a long low flight and it gave the idea it was quiet, even too much quiet. Our airplane was the only one on the strip, while all around, in the open desert, some warehouses suggested the appearance of some willing hangars. At the side of one of these, stayed a fire engine, which was 204
very, very dusty and once had been red. I could not understand wether it was a mean for a possible fire prevention system or for refuelling. On many occasions I realised that I was looking around me more through the eye of a movie viewer than of somebody that was involved in that context. A context which was very different from the one he had been used to, but that nevertheless was real. Before climbing down from a stepladder placed on the hold door by an attendant, whose coverall was presumably blue, despite the sun and the fiercely hot weather, I waited patiently the powerful Pratt&Whitney motor, which was on my side, to stop. Basically I wanted to avoid all those typical spurts of hot black oil which were pulled towards the tail by the propeller’s wind. As soon as I climbed down I was collected by a so called taxi. It has a kind of real garden joust below the back window, with real earth and green grass and an infinite variety of Tasbeeh (Muslim rosaries) of different colours and shapes hung on the rearview mirror. We stopped many times and we collected a series of characters well worth of the movie “The Four Feathers” by Zoltán Korda. Finally, he left me in the unruly and noisy area where my hotel was. When I paid, as I did not know the local currency, I put some coins in the hands of the taxi driver: counting in Arab, he chose some of them, well, maybe he chose much more than needed. Then, with a loud “shukran” he went on with his crowded, noisy and dusty yellow taxi. At the Ikhwa Hotel in Hodeida, I was supposed to ask for Mario Di Biase, the executive producer. Since my first visit I had thought it very, very unlikely that this place, suitable for
shooting a movie set in the Thirties in the Middle-East, something by Tay Garnett featuring Marlene Dietrich, could possibly host a modern operator of the Italian cinema. At the reception, which could be distinguished from the bar only thanks to a bilingual notice, not easy to read to say the truth, as it was quite old and required cleaning, somebody told me that there was a room previously booked and paid for me, where I could wait for the person who had made the reservation. That Levantine atmosphere, like in the movie “Seven Sinners”, was not only apparently dangerous. In fact, after a long time, in Sanaa, I was informed by Iole Cecchini, the make up artist of the troupe, that our splendid production secretary, Beatrice Banfi, was almost kidnapped by a group of local women, maybe because they wanted to put her in some harem. Beatrice eventually slipped away from that attempt of abduction not only by using all of her strength, but also using improperly the heavy script, which was more than 500 pages long. My room was consistent with the general qualities of the Ikhwa Hotel. It was quite small and came with a sort of camping bed and two blankets. The window did not have any shutter and from the yellowish open-weave curtains filtered a light whose strength was only inferior to the noise which came from the underlying road. I was convinced that the production was not completely aware of the “hidden” qualities of the hotel, and that it would have certainly used it in some shot. It was not even possible to explain its category, al least the one that was declared on the reservation, because, if one had to measure it in “stars”... well, these would not have represented a particularly bright
night, or they would have decorated only a tiny, tiny plaque with its name on. In the “lounge bar”, crowded with hookah smokers and tasters of indefinable drinks, I had finally managed to ask for a mint tea, just shortly before the production appointee who was supposed to bring us in Aden arrived. I said “to bring us” because with him, in the car, there were not only a local guide and interpreter but also the florid young woman who had come onboard in Asmara and who I had lost sight of among the desert dunes at the airport. I learnt from the production appointee, while we were in the car, that the girl was one of the interpreters of the movie. We travelled for about 450 km, on a road that had been built by the Chinese among the inland mountain region, with plenty of curves, jumps and stops. We were forced to stop many times by some dowdy policemen who granted the right of way and gave us back our driving licenses and passports only after long negotiations and in return for many banknotes. So, I did not have the opportunity to talk at all with our lovely travel companion who, although being from Eritrea like the hostess I had met at the airport, did not understand anything but Arab or, maybe, the Tigrinya language. It was by then night when we entered the dining room of what once had been the most important hotel in Aden when the English had been there. Since the “Popular Revolution”, though, it had been used part for government activities and part to host local powerful people. For them it still worked both as a Grand Hotel and as a Night Club, according to the international standards. Some “heroes” of the revolution also lived there, at the expense of the State. 205
They were military who had suffered severe mutilation during the combats and to whom had been entrusted the management of a library of Marxist sciences with documents and essays in Arab, Russian and English. All of these were texts coming from the Soviet Union. In the upper floor, in the “Penthouse” with its large windows and its air conditioning, there was still a kind of Night Club. In it, a dancer whose face reminded me of Rita Hayworth or Claudia Cardinale, performed the traditional belly dance; her body, typically, was slightly overweight, and was much appreciated by the local regulars: businessmen, rich men, influent officials and politicians. In the huge hall at the second to last floor, which was surrounded by large windows too, there was almost all the troupe sitting, after dinner. The professional actors, Franco Citti and Ninetto Davoli, were not there. They represented the most notable expense of the production, because all of the other actors, consistently with Pasolini’s habit and his “poetics”, were chosen from “the street”. Sitting at a table, alone with the script, surrounded by many papers and notes, absorbed in reading, there was Pasolini. Their welcome was that of some old friends. All of the young actors poured much more affection on the new florid “colleague”, who was literally surrounded, so much that, intimidated by them, she sought refuge at my table. I was the only one she “knew”, because we had travelled together a whole day, even though our communication was affected by serious linguistic obstacles. The event was noticed by our Roman colleagues, who immediately commented with me: “Robbie! You are not a photographer for Playboy! You 206
are the playboy of the photographers!” So it was clear that at least one of the magazines for which I was “working” was known: “Playboy”! Hereto, the first thing I was told was that the erotic scenes, to which Playboy was more interested, could not be filmed because in that Country the Revolutionary Authorities would not allow it. After a hasty dinner, when I began to feel sleepy and all of the others were going to their room, Pasolini greeted us saying “I am going to sleep on the shore”. However, the quick withdrawal of our actors seemed to me suspicious, mostly because it happened a few seconds after the shy girl from Eritrea had gone to her room. Only the sleep, the true deep one, had then stopped the shuffling on the stairs and the harassing knocking on her door, which she did not open. The alarm clock, at six sharp the following morning, marked the beginning of the real journey. The one towards a real knowledge of Pasolini’s cinema, his thought on theories and languages. The journey I had arrived there to undertake. Pictures and films in the dark of night and under the Midday sun I put my three Nikon F2 and a series of lens in a huge leather bag, which I still have: one was for the colour pictures, one for the black and white negative and the other was on stock. Once again I gave up a long period of professional work in a studio and I went on a set. I actually went on that set to record something unmissable and unique. It may be hard to believe it today but in 1973, and for many years onwards, there were many technical and photographical difficulties which prevented the standardisation of sensible invertible
material (diapositives) that should be used for a work involving the most various conditions of light: those of the six in the morning, for instance, or those of full sunlight six hour later, or those of sunset; let alone the colour of the light, that of the day and that of the shooting lamps, inside, on the set. My operative choice to complete the work I planned, was to use the films, then available on the market, as if they were eight times more sensible. So, I strongly underexposed them, to compensate for that mistreatment with another mistreatment, with a specific prolonging of the time and an increase of the temperatures of the development bath in the laboratory. These processes would increase the grain, reduce the resolution and vary the colorimetry but they would allow me to bring back the images of that work and to permit their vision in other places and other times. On the other hand, the images, both in diapositive and in black and white negative, were built, snapshot after snapshot, following the composition philosophies of the visual arts, respecting the golden section and the central perspective, the relation for harmonic shapes and chromatic relations. All of this also considering the principles of language analysis and of the strictest theory of information. One must never forget that the “Leica” seize of the film for camera derived from the cinematographic film, but it was used with the horizontal scrolling rather than the vertical one, as in the cinematographic camera, and that it is a rectangle build on the relation of the golden section. The name “Leica seize” was due to the fact that this camera was the first to adopt it, whereas on the market it is known as the “135 seize” or “35mm”, and it can give an image shaped 24x36mm.
From films to pictures I moved freely inside and outside of the set, that is, of that organised chaos, which was unthinkable for the USA production, but which the history of Cinema proved to be and Italian peculiarity on which some of the greater masterpieces of cinema had been built. It was during one of my changes of position to improve the shot point, that I stepped on a carpet which covered the small tripod of a lamp that illuminated the scene filmed by Pasolini. He, when the light suddenly disappeared, exclaimed: “What a pity! It was turning out so nice!” As soon as I tried to apologise an electrician stepped in saying “The lamp had gone off, sir! We change it immediately!”. No one had thought of railing against that “external” photographer who had been so clumsy. I had been adopted! I was definitely considered one of the group. As in the Classical theatre, that of the great representations, I wanted to capture the pictures and the movements both of the “chorus” and of the single actors. And not only on the set, but during all the making of the film. The mobility I enjoyed allowed me to portray what was outside of the set too: the places and the people. I was able to catch on their faces the true expression of pose or curiosity, but always of moving willingness and almost friendliness. I looked for the composition and the light of the Flemish paintings which, especially on the inside, both for the kind of illumination and for the greater control I could practice on the spaces, could be shot on camera as an imitation of some famous painting. And so, remembering Rembrandt or Velasquez, I built, only through small movements of the shooting point or by changing the lens, those images which 207
turned out to be something more than a mere document. For opposite reasons (the narrow spaces on the inside, and the measureless spaces on the outside) I used wide angle lens, the 24mm and the 21mm, with an angle width of 100 degrees. I used them even when the subjects were close, in order not to use the telephoto lens, because it would not have granted the same effect of presence. As well as the wide angle lens I used all of the range of telephoto lens, from the 135mm for the portraits, to the 200mm or the 400mm, according to my needs. I also shot the environment and the humanity that surrounded us. I did everything using the natural light: the one that, if controlled and interpreted, can be “highly pictorial”. The many portraits I realised revealed something about a fascinating physical reality, of “ancient” faces belonging an authentic world which at the time was on the edge of that “progress” that would soon mark its disappearance. On the set Since the early days, I saw that Pasolini was always incredibly focused on the reading and the rewriting, which was an almost uninterrupted activity, of the script: it was a folder full of sheets of paper and notes. It seemed nothing could disturb him. All of the collaborators, both on the set and on the outside, tried not to disturb him in any way. Sometimes someone murmured “let’s hope for the best...”. It was mainly due to the fear of unexpected movings or structures that could further complicate the complex activities of the filming. Their main fear, though, was not that of an unexpected increase of the work, but the idea that they could not meet Pasolini’s requests. That was their real concern. Everybody around him worked quickly 208
and silently. The director of photography and the camera operator had given up their proper function, as they were always substituted directly by Pasolini. However, they had developed a great ability in placing the tripods and the cinema cameras (with the due lens) even before they were actually needed. By then, they knew very well what Pasolini’s requests would be: in fact, as proved by many pictures, he was often, very often, personally filming. It seemed that Pasolini wanted to save the time he needed to explain what he needed and what he intended to do, so he decided to do it directly. When, while I was still in Milan, I had received the script, which the PEA had sent me shortly before the first clapboard, its length had already decreased due to the many revisions. It was by then 500 pages long: however, the following variations and additions still guaranteed that the long length of the movie would be three hours, as planned. And the sex Pasolini told me about, was all there, maybe there was even more than before. The draft of the parts written for the female performers, written by Dacia Maraini, were continuously re-written or modified because, very often, Pasolini addressed the actresses suggesting some variation of the text they were playing. Waiting in the port of Aden. An adventure more adventurous than the journey itself. The journey began with a delay of more than nine hours of our flight due to, according to the supervisors, generic, mysterious and much feared technical problems. Please, mind that an airport, in 1973, in the Middle-East and in Aden much more, had nothing to do with what could be experienced in any other modern airport elsewhere. During our long waiting we
were directly informed on the events by looking on the outside from the big windows of the “waiting room”: it was a big room, whose walls were greenish, scarcely illuminated by some light bulbs which emanated a yellowish light. Some uncomfortable wooden benches and a series of metal chairs provided the rickety furnishing equipment for the “comfort” of the passengers. The works that in the meanwhile were done on our propeller twin motor did not seem to us very reassuring. Actually, seeing an aircraft missing one of its engines, with a big dark hole on its wing from which some cables and hoses were hanging and with plenty of oil stains below shortly before leaving was quite an experience. After working for a few hours, the team of English, Japanese and Arab mechanics had hidden their work with some panels around the aircraft so it was not possible to see what they were doing or how much they were progressing anymore. Many times the engine had been turned on and then turned off, maybe with a few minutes pauses between each attempt. However, those pauses seemed to us more long than in reality. The troupe received good news after waiting for nine hours, tired from the hot weather, the lack of sleep and the concern. The aircraft had been fixed and the engine had been substituted: in fact, after the mechanics removed the panes and the curtains, it appeared in its place, perfectly re-assembled! The wait was over. Citti’s tantrums, of which we had never run out, had been so far moderated by his girlfriend, who had always been by his side, exploded once again as he learnt that the aircraft had been repaired. He
fiercely exclaimed “I will not leave”, mostly due to his fear of flying, which he had never denied. Silently, avoiding such striking performances, we were all afraid of that flight and of that aircraft: it was in fact one of those Douglas DC3 of the Forties, those which rested their tale on “the little wheel”. Apart from me, as I did know everything about that plane since I had been a child, only the pilot knew that the aircraft’s payload was 3000 kg and that the weight of the forty people and of the massive load largely exceeded it. We knew that, despite the two powerful 1200 Hp engines, the strain would have been prominent. The reasons for this concern regarded not only the old DC3: after all, it had been repaired shortly before, and it was famous for its ability to exceed the limits established by its factory. However, that aircraft had to transport the massive load of people, devices and trims on a mountain route full of winds and streams. The presence of a Japanese pilot in his fifties did not reassure the troupe at all: they immediately nicknamed him “the Kamikaze”, supposing he had been trained during the recent war. The turbulences we met during the flight made the plane move very much, thus increasing everybody’s concern and particularly Citti’s lamentations. To this, the strong creackings, coming from the big boxes that had been loaded up but which had not been tied perfectly, were added. They increased the general feeling of precariousness with their movements, which were small, but still were clearly perceived. The flight, which became a night flight due to the delayed take off, experienced strong winds and bad weather conditions with rain, thunders and lightings. On the 209
other hand, this allowed us to observe every variation of the weather while we were flying high: from the disappearance of the stormy night to the raising of the sun and the sky, beyond the clouds, which was completely serene by the time we landed. The airport we landed in, on a bright, sunny day, consisted in a single hard court trail in the desert. The airplanes which landed or took off there, belonging to Alyemda, the Democratic Yemen Airlines, were mostly DC3, as the one we had travelled on, or the bigger DC6, those who did not rest their tail on the earth. However, on that day, ours was the only plane present. The reception, the bar and the kitchen of the airport were all placed in one single room, measuring 3x4 meters. The walls were covered in grotesque caricatures of the famous “I want you” poster, surrounded by sentences written in Arab and other images of armed rebels. It was very, very hot even under the shadow of the aircrafts’ wings, which in the meanwhile had landed. We were waiting for the means that would carry people and devices to our headquarters. On another occasion, but identical to this one, I overheard a Roman dialect expression “Sò cazzi d’appendere a Robbé!” (“These are dicks hanging, Robbie”, a colourful expression that means: “Things are getting more and more complex, Robbie!”). I still had to recover from the violent image of my exterior privates hanging from a spike, as Arbasino would have said, that a non less violent pat fell on my shoulder as the Roman conversation went on. “Qui si nun ce se pone rimedio annamo affà puro noi la fine d’a scimmia” (“If things are not going to be fixed we will end up as the monkey”). It was the friendly comment Angelo Pennoni had addressed 210
to me: he was the stage photographer. He was commenting on the temperature which by then obsessed the forty people of the troupe and that, on that occasion, was only 45 degrees...in the shade! The reference to the “monkey-actress” was addressed to the premature passing of the monkey itself, which was most probably not used to the temperatures of the Middle-Eastern desert. As soon as some actors and I considered that the time for lunch had long gone, and with no positive result, like in a mirage, two fishermen appeared carrying a huge fish they had just catched, and offered it to us. We had some difficulties in explaining them that we did not know what to do with it, because we did not eat raw fish and we did not know how could we cook it. They went away leaving us with a slight feeling of despair, but they reappeared after a while carrying that very same fish oven cooked! Maybe I was very hungry, but I cannot remember nothing as tastier than that fish, which was perfectly cooked and cleaned and which we obtained with a handful of coins, what would now be the price of a drink. Shibam The so much praised “Manhattan of the desert”, now Unesco heritage, was there in all of its beauty, with its 500, eight or nine floors high palaces, made of sun dried bricks and surrounded by its ancient walls. In Shibam we stayed far from the city centre, in a beautiful house confiscated by the revolutionaries. It was the reference headquarter for all the filming we took in the suk and in the surroundings, and in the many expeditions that took us away for long hours. It was a fairly tale place, especially at night, when this white building, with the palms,
the stars and the mood composed the most typical “postcard” Middle-Eastern vision. But this was not enough: almost every night, the most important Yemenite singer joined us and sang for us the best of the National repertoire. It was after one of those nights that Shepherd, the assistant director, told me that I had almost been expelled from Yemen as an unwelcome guest, because I was a photographer who worked with Playboy, a magazine from the US, a capitalist product. However, my expulsion was avoided thanks to the intervention of a military member of the counter-intelligence with whom I had a conversation. I was unaware of his role, as I had never seen him wearing a uniform, and we had talked about the problems of the Muslim religion, of Nasserism and of Marxism. It was in that place, in the white building once belonging to a powerful man, in the small indoor swimming pool that I took some pictures of Ines Pellegrini, Zummurrud in the movie, while she had fun playing in it. According to the art director, those were “the least erotic pictures I had never produced for Playboy”. Sana’a Sana’a, in the North of Yemen, deeply involved the heart and the mind of us all. Pasolini had already realised a movie on it in 1970, Le mura di Sana’a, which had been produced by Franco Rossellini. The beauty of this place only partially compensated for the work of the troupe. It was not easy to work there: it was very hot and the place was horribly stinking, because there were open air sewers, caravanserais, the air was too still and the local people were not particularly friendly. To say the truth, it were the men who felt
uncomfortable due to how their women welcomed us; they felt uncomfortable especially for the sniggers and other friendly gestures women addressed to the youngsters in the troupe. The patronising attitude of their male relations intervened with their vigilant, hard, strict glances and this suddenly stopped any kind of dialogue. Traditionally, they wore the symbol that testified their coming of age: the ambiya. It was a large, curved blade and they wore it in a belt. It was only afterwards that we learnt that a local song, which we sang with them, was actually addressed against us, because we were considered guilty of the drought and of other bad deeds. The many complications which emerged during the changes of place for filming had been sorted out by the diplomacy and the ability of the executive producer Mario Di Biase, and so the filming went on smoothly. Despite the many negative aspects, everyone was fascinated by the incredible architectures of the city: these houses skyscrapers, which developed in eight or more floors, whose external walls were painted and whose windows were decorated with frames of lighter colours. Sayun In this place as well, the first thing I was told was that the erotic scenes could not be filmed, because both in the South and in the North of Yemen the religious authorities would forbid it. The strong presence of the Muslim religious power in the management of the central and of the local policy immediately restricted all of the most common forms of expression and of behaviour of the unfaithful, and most of the Western habits. And this appeared as even more ironic, 211
because that marvellous place in the Hadramaut, in the South of Yemen, was known as the “city of love”. Barbara Grandi was another remarkable performer in the film, she was the partner of Franco Citti in the episode of the Demon. She was from Ferrara. Her pale skin which contrasted beautifully with her dark head of hair, making it even darker. Barbara came with her mother who, for the occasion, had left her employee job. Barbara had auditioned for Pasolini for the Decameron, but then he had thought her too young; by now she was thirteen, “almost fourteen” as she used to say, and she was old enough to think herself overcharged by her body double when her character made love with her hero. It was a legal matter: for the Italian law Barbara was too young,; whereas for the Yemen and for Persia there was no distinction: Iranian or Italian might she be, the punishment would be very severe. Somebody even said that the punishment would be the cut of the head, and not only for the actresses. “A Robbè, qui bisogna mettere le cose in chiaro!” (“Robbie, things must be very clear!”): it was Angelo Pennoni once again, who was addressing Barbara and her mum, “I don’t know wether the film will be released, or how or when, but Barbara must promise me that if things do not end up happily, she will bring oranges [in prison] at least to the photographers!” Evidently, Angelo did not consider that without our heads, we would not have received or appreciated any orange at all! The filming of the episode “The Demon”, interpreted by Franco Citti and Salvatore Sapienza, inside a typical local house during the day required the set to be prepared in order to balance the quality of the light entering the house from 212
the window, and that of the light of the tungsten lamps inside it. In order to achieve it, some huge ochre gel plates were fixed to the windows. If on the one side it met the needs concerning the lights, on the other hand it considerably increased the temperature indoor, which had already been very high due to the spotlights. In covering the windows the upper ones had been forgotten. From these came the light of the sky, which was very strong and, if compared to the one filtered in ochre, was light blue. I noticed what happened and I told demurely the assistant director Umberto Angelucci about it. He abruptly told me “A Robbè, ma che te frega!” (“Robbie, this is none of your business!”) However, this conversation was overheard by the director of photography Giuseppe Ruzzolini, who immediately said “Roberto is right”. Shortly afterwards the various sources of “blue light” were filtered as all the other windows. In those days Sayun did not seem such a quiet city. It was used as a training centre by all the army forces of the Democratic Republic of South Yemen: therefore, the access was severely forbidden to all the foreigners, while the roads of the centre were full of soldiers, in uniform and not. The Demonstration We realised that the military situation in the Middle-East was not particularly quiet in Aden, when a demonstration crossed the town. It was a demonstration against the air raids Israel made in Lebanon, causing many victims amongst the Palestinian organisations. On the banners, written in English, one could read that the rage was also addressed against the Anglo-American imperialism and capitalism, which was not precisely lacking responsibilities in what what had
happened for many years and what was still happening in the Middle-East. In the demonstration, as unfortunately we would learn in the following years, people carried posters with the images of the many civilian victims of the bombings. The South of Yemen had established itself as a Democratic Popular Republic a few years before, after the banish of the English in 1967. The political system, anti-American and anti imperialism was, for obvious reasons, rather “assertive” and hardly “flexible”. In this context both journalists and photojournalists were not welcomed at all. Not only did many of them experience the suspicious attitude of the police and of the local authorities, but they also found themselves accused of being spies after having taken the most ordinary touristic pictures. Some of them were actually accused for having taken pictures which were not that innocent. In such an atmosphere, as it was not allowed to shoot openly and officially, I decided to use a pocket size, automatic minicamera: it was “half-size” and it permitted me to take 72 pictures with a normal film. I kept it hidden in the pocket of my jacket and this enabled me to realise some shoots which, despite not being not technically perfect, at least proved the dramatic events. Immediately after that, we left Hadramaut and its military training centres (it is important to remind that soon afterwards the Kippur war crashed out) in the South of Yemen. We travelled through Aden, Kuwait, Abadan and we arrived in Esfahan in Persia. Beyond Direction Pasolini seemed tireless: he climbed on and off the walls with the camera to check
which framing would be the best one, he ran from one side to the other of the great square in front of the Ishafan mosque to check the “field and reverse shot”, he replaced the camera operator and filmed personally the scene, he talked with the great Dante Ferretti on how to develop the scenic design and the costumes. In short, he held at least a dozen of the tasks which are so well detailed in the credits of the Hollywood productions. The director’s assistant Angelucci, the assistant Shepherd, the director of photography Giuseppe Ruzzolini, the camera operator Alessandro Ruzzolini, the executive producer De Biase had given up following him long time before. When, during a pause, it happened to me to ask those who were officially in charge “And now, what shall we do?”, the answer was invariably “Now he will tell us what to do”. If the question was asked to the production secretary Beatrice Banfi, she would consult the script, then she would look at the clock, and only then she would tell us what we should “presumably” do. However, the final decision was always “in mente dei” (in the mind of God). The production was, actually, managed entirely by the director. To say the truth, the appointed categories were constantly mingled: the actors became carpenters, the local carriers became extras, the young Iranian woman became a body double in a nude scene and an ItalianIranian boy became a chubby girl in an episode of the film. The costumes, specifically designed by Danilo Donati for the Arabian Nights, were immediately “mixed up” with the ancient local costumes and sometimes local people, external to the production, were used as extras in a scene. Unlike many others, Donati had remained in Rome. 213
On top of all of this, Pasolini’s ideological and linguistic choice of using young working class people who were totally unaware and ignorant of cinema, of acting and of diction forced him to repeat the same scene over and over again. One of the scenes on the square in front of the Isfahan mosque war repeated fortythree times! Nobody, due to the great respect they had for Pasolini, dared to suggest a solution to the problem, which until then had seemed unsolvable. However, a few seconds before the fortieth “action”, I went close to Pasolini and told him: “PierPaolo, the character you are filming raises on his tiptoes and then falls on his heels when he reaches the point where he must stop”. He looked at me as if he had had an epiphany and then, addressing his collaborators, with no sign of irritation but rather as a person who was simply asking a question, he said “Why did nobody tell me that?” and then he added “That’s why he went out of framing!” He had never lost his temper and it had never happened to me to hear him complaining about something or offending someone. Once a collaborator had almost destroyed a backdrop or a scaffolding, so I had prepared to take a picture of Pasolini’s reactions, which I actually had taken. However, the picture portrayed Pasolini smiling as he told the clumsy collaborator “What a dork you are!” Pasolini and vulgarity. It happened that we had to get up at four in the morning (or at night, according to the point of view) and that we could get back only twenty-two or twenty-four hours later. We moved on very old coaches, but they brought us to fairy tale places which were made even more wonderful and “photogenic” by the light at dawn. There were always plenty of people around 214
us, like young people and policemen, both in the suk and in the great external spaces. The policemen, who spoke only Iranian, had to keep the curious crowds away from the set. Sometimes, when those who were stunned by the “Qat” seemed more riotous or slow, they had to be quite violent. The qat is a proper drug, which reduces the appetite and slows the reflexes down. While this “organised chaos” called cinema went on, my duty as a photographer was to move inside and outside that chaos (which was not only apparent) to catch the images and the movements of the “choir” and of the single “actors” in order to describe the places and the people, their faces and their expressions, both performed and natural. The conversations on the “missing language” I could begin my dialogue on the language of cinema with PierPaolo since the first day. I sneakily seized him during the distrbution of the “basket”, that is of the packed lunch which, as usual, did not happen at “lunchtime” but at whatever time it was possible to stop the filming. I was well aware that I was talking with a Great Master, so I began to ask him about his opinion on the changing in the language derived from the introduction of those tools, which I defined as “proper of the cinema linguistic system” and of photography. I was thinking of the adoption of specific lens, telephoto lens or wide-angle lens, of the zoom and all of the other processes, like the slow-motion or the acceleration of the images, or their superimposition and so on. The first remark he made was on the “vulgarity” of the zoom effect and he added: “I never use it”. One must underline that the idea of zoom we were talking about was of that horrible effect, on which many overindulged in the
Seventies, consisting in a violent passage from an overview to the close-up of a character and vice versa. He was not as clear concerning the topic of a modification of the sense due to the choice of the lens. The wide-angle lens, for instance, introduced prospective deformations both in the spaces and on the actors and they were so relevant that could not be ignored, as they acquired a specific “semantic” weight. A good example in this case was Orson Welles in “Citizen Kane!” He answered to my question in general terms, talking about a creative and poetic use of them. “A tautology”, I replied. “Well, yes...” he said, frowning. He valued as “tricks”, unsuitable for his poetics, all those elements I considered “specific marks” in reference to the Linguistics and to Kracauer. Those were all the cinematographic elements widely adopted until the Sixties, like the calendar pages which flew away, the locomotive wheels moving, the clock whose minute and hour hands turn fast. His choice was to interrupt the action and the filming in a context which should mark the passing of time without the use of special effects and with a few movements of the camera, whose presence should never be “felt”. As I observed that a work structured in that way, with such a strong reduction of the cinematographic dynamics due to the reduced action of the camera, seemed more theatrical than cinematographic, he told me that it was a stylistic choice and that cinema and theatre were deeply different languages. It seemed clear that Pasolini was trying, not without a certain naivety, to complement the processes of Linguistics and the processes of interpretation and reading of the images, which derived both from the experience in the space and
visual arts and from the linguistic studies applied to literature. Through his poetic vision of the cinema he “communicated” something without even being completely aware of the meaning and of the usability of his work. In other words, he adopted in his works some codes or, better to say, some sub codes, which his audience did not understand. On that occasion, I made him an example: if one took out of a bag some unknown words in Persian and, once he put them in order, they formed the expression “Death to the Shah”, this would condemn him to death, and he would not know why. In short, I wondered: how is it possible to express a complex thought through a linguistic system which is not completely under control? Between the “language of reality” and the metalanguage of critics Our conversation continued whenever I could slip between him and the camera or him and the notes on the script, or him and the brief conversations with Dante Ferretti, or him and the suggestions he made to the assistants or him and the short culture lessons that, with his technique of easy questions, he gave to his young actors. I referred to the theory of information of 1949, to Umberto Eco and his works on Linguistics, to the French school of Saussure, Roland Barthes and Christina Metz in order to better contextualise the possibility to communicate both at a denotative and at a connotative level, for the more complex and structured meanings and in order to reach more effectively the audience. I made wide references to Structuralism too, because it permitted and considered also a different interpretation of the work of an artist, such a director was, and 215
because it permitted to put in evidence some elements of a work which the author had not considered and which, in fact, revealed his genius or his limits. PierPaolo did not like to think that one of his films, of his writings or of his poems could be interpreted through the structuralist theories. He did not like to think that his work, so severely structured, could be interpreted in a way which differed from his intentions as an author, despite the fact that this different way of “reading” his work was severely structured too. However, the devices I referred to as belonging to the “linguistic system of the cinema” not only were those related to the optical and mechanical devices, but were also those related to the structure of the image and of the framing, of the sequences and of the editing. In the meanwhile the script, which had been “reduced” to 500 pages, increased its volume once again: it was flooded with paper sheets, notes and parts which had been re-written. Pasolini was endlessly working on it. PierPaolo, who had always been a patient and careful listener, explained me, not without some difficulty, his vision of the cinema as a “language of reality”. When I asked him what kind of audience did he imagine for his movies, he answered me, “I cannot imagine an abstract ‘audience’, I write and direct movies for people like me”. I noticed that this “language of reality” had already been invalidated by the fact that the movie did not represent the real world. On the contrary, in this specific case, it represented a fairy tale. This fairy tale could seem more or less “true to life” according to the quality of its realisation, but it was, nevertheless, a fiction. I noticed that it had been only in the first cinematographic experiments, back 216
in the Twenties, that an almost objective representation of the real life through a camera had been taken into consideration: it was the “kinoglaz” or the “cinema-eye”, which had been theorised by Dziga Vertov. The hope and the optimism had then lead to great mistakes, but those had been the early stages of the “linguistic research” of an almost unknown process, the Cinema! The contribution of the “cinematographic critics” to the research on the cinematographic language was almost non existent. Outside of the highest levels, where critics adopted an almost esoteric, cryptic language, it was really, really non existent! The perspective in which the film was analysed by critics was simply based on its “content” rather than on a linguistic analysis. It rarely exceeded the mere summary of the plot, and only to praise the performance of some famous actor or another, while the director was often neglected. On this topic, PierPaolo claimed that “The critique of a movie must be expressed through the written language, with the language of literature, that is, through a ‘metalanguage’. One of my movies could be criticised only by making another movie!” The ideological structure he referred to was much clearer: “The nude, the sex, to visually tell about sex, to use sex in order to tell something, does not only offend the empty rhetoric of a sclerotic middleclass system, but above all it offends the ideologic emptiness of those who, in a bourgeois way, behave differently from their real social background.” “It is by chance,” he said, “that there are fascist proletarians who are doubly alienated by the lack of material and spiritual goods”. He seemed to perfectly agree with the
theory of information and with McLuhan on his way to tell things, on his “the shape is the message”. During the shooting in Esfahan, in the “Naghsh e Jahan Masjed e Shah” Mosque, I saw PierPaolo in an “American shot” as he held the movie camera in his left hand and he looked around, waiting. I was in front of him with my cameras. I called him and, as I gave him the clapper board, I told him “PierPaolo, please... hold the clapper board for a moment, I am taking a picture of you.” And he said to me, puzzled, “But... this is fiction”. I replied “Well, the cinema is a fiction too...”. The director, surely aware of our conversations on the cinema as the language or reality and on the cinema as the language of fiction, smiled at me. It is the only picture where PierPaolo smiles directly to the camera. Esfahan and the Mosque on Friday It was in Eshafan, in Persia and precisely in the Mosque of its ancient capital that we could finally shoot the “forbidden scenes.” We arrived there after an adventurous journey: Aden, Kuwait, Abadan and eventually Eshafan. There Barbara Grandi had already been waiting for us with Ines Pellegrini, the twenty-something, fair skinned girl who had the most “erotic” role. Ines was the protagonist of those sequences which were forbidden, and not only by the Muslim morals. She was a beautiful girl, born in Massaua but who had been working in Rome as a model. It was her first cinematographic experience, excluding some television carousels. And it seemed that her career had already been guaranteed, because the producer Roberto Loyola recast her for a forthcoming work. Despite the character she performed on
the set, in her private life Ines was shy and discreet but nevertheless very pleasant. The filming in Esfahan in the Naghsh e Jahan Masjed e Shah mosque was long and “dangerous”. The scene set in the “mirrors room” was actually filmed in the highest part of a nave in the mosque, transformed by the creativity of Dante Ferretti. A mezzanine was built to raise the floor and it was conveniently controlled and “darkened” to avoid external glances. In fact, there a sacrilege was being performed. Something that, if discovered, would cost an arm and a leg to us all. It was the sequence in which Ines, in the role of Zumurrud, found again her lover Nur ed-Din. She, dressed as the local lord, forced him with a sadistic joke, to undress his bottom and to get ready to be sodomised or to be killed before revealing to be a woman and his beloved, whom he had been desperately searching for. It was not easy to divert PierPaolo when he was working on the script, or when he was writing articles or notes for his literary works. It seemed to be able to isolate himself completely. He actually became aware of the many pictures which portrayed him in those moments only afterwards. On the other hand, on the set he was always alert and quick, he never looked tired. Many other members of the troupe, who were quite fat, sometimes said “... nbè nsò mica pelle e ossa come lui!” (“Well, I am a bag of bones as he is!”) During a long day of work in the suk, which was wet and hot, many of us looked for something to drink, even some plain water. We saw a red and round plaque of Coke emerging from a “shop” and we rushed to it. Only to discover that the plaque was there as a decoration. However, the “barman” took a glass, showing us a 217
much appreciated hospitality. It seemed one of those glasses who were used in the countryside as a stand for candles, and it actually seemed that too much wax had made it opaque. He immersed it in a cask, his hand included, and he filled it up to offer it to us. Very unkindly, we rejected it. It was not certainly due to the simple vision of that water, but the following night seemed to me like a nightmare. I was so sick that Luciano Welsh, the sound engineer, the following morning asked for a doctor. He looked alike Reza Pahlavi, the Shah of Persia: he was wearing a blue blazer with a tie and a white handkerchief in his breast pocket. He declared “Intossication food”! (“Food intoxication”). However, things went on smoothly, despite: the massive sunburnt, a monkey which died because it was too hot and some gastroenteritis here and there among the troupe. I was still accustomed to the Milan lifestyle, so sometimes it happened to me to be awake reading or writing notes on the places or on my conversations with PierPaolo until three in the morning, only to find myself an hour later on the coach with all the others, travelling. We went to cities like Ta’izz or Zabid, the city of the two hundred Mosques, or to some villages one hundred and fifty kilometres far from our lodgings, where the troupe would work long hours. Often we got back at midnight or later, after almost twenty hours of work in condition that, being heroic, we used to define “crazy”. While many suffered physically the consequences of all this, Pasolini seemed to be a man of iron. He too, though, fell ill with a painful form of ear infection so, even if shortly, everything was suspended. In the meanwhile we had moved to the South of Yemen and, once the crisis had been overcome, the director got back 218
filming in Sayun, in the Hadramaut, the so called “city of love”. This was quite ironical because the sex scenes could not be filmed there and it was speculated wether to shoot them in Rome, in Cinecittà, in an inner set built specifically for those scenes. One must say that in Esfahan everything seemed easier, simpler and even more organised. The troupe moved with an easiness which was not only apparent. Pasolini, in fact, had obtained the official support of the Shah and of his sister. After a first interruption due to Pasolini’s illness, another absurd suspension happened in Persia. Like the previous one, it cost a lot at all levels. The explanation was very imaginative. Officially, the revocation of the permissions was due to some violations made by the troupe. For instance, they pulled some donkeys in the Mosque, they let women move barefaced or showing a bit more skin than it was allowed, or they did not interrupt the filming during the prayers, they made some male extras dance, although they were conveniently covered. Unofficially, rumour had it that it was some kind of extortion coming from “above”, because Pasolini refused to engage in the film a young man who was fiercely supported by the Shah’s sister, despite the more or less explicit pressures. The “Conversation” Every time he had a moment when he was mentally free from his work, Pasolini got back to our conversation on the cinema, and not simply to convince me. Certainly, my vision, based on the “theory of information”, which had been circulating since the early Fifties, was for him a good starting point for further analysis and studies. The scheme, which Umberto Eco had collected in the “L’Almanacco Bompiani del 1967”,
was simple and yet endearing for any attempt of the “poetic” kind. The elements which constituted the process of transfer of the information were: a “transmitting”, a “channel”, a “code” and a “receiver”. What seemed inaccurate, lacking but not completely absent was, in fact, the “code”! I had the pleasure to listen to Pierpaolo’s dialectic acrobatics while he tried to formulate a “theory of the cinematographic language” as clearly expressed as the theory of information. Thus, I had been able to chat with him almost every day, for three months, of the many cinema essayists and intellectuals of the past century. And I talked about them with a director who, differently from the others, who were only essayists or scholars, applied his theories to his movies! Luciano Welsh, the sound engineer, turned out to be a prudent, unpredicted and surprising speaker, both regarding the cinema and the music, and his classic education. Luciano was a gentleman who found difficult to relate to the somehow rude manners of the actors and of other members of the troupe so, whenever he noticed that I was not working, he joined me to talk. Luciano was indeed the last one who greeted me when he ran after me along a boulevard claiming, with great friendship and fondness “One must say good bye to Roberto Villa!” The comeback and the meeting My comeback from Esfahan followed a different route from the one we had travelled when we had arrived. From Esfahan I reached Teheran, where I stopped for a couple of days. Then I moved in Kuwait, where I did the same, and then I went to Rome and to Milan. A curious episode happened when I was getting onboard my flight to Teheran: a
policeman in plain clothes asked for my pocket size camera to take a picture of me. Once he had taken it, he said to me with an English accent that reminded me of Peter Seller’s famous character Hrundi V. Bakshi, “If this had been an altered handgun, we would have solved the problem! Have a nice journey!”. In the meanwhile, most of the hundred thousand metres of film of the movie had been filmed during that Spring, with a temperature of 45 degrees in the shade and 56 degrees in the sun. However, as far as it concerned figures, this was not the only record: Mario de Biase, the executive producer, said that the movie, produced by the PEA, would cost over one and a half million of lire. Not only finding the “backdrops” or locations, that is, the real places Pasolini had in mind for his movie, in Nigeria, Ethiopia, in the North and in the South of Yemen, in Nepal or in Persia had been expensive but it had also required a great effort of the working group. The group was composed by Pasolini, his assistant director Angelucci, his assistant Shepherd, the director of photography Ruzzolini and by the executive producer De Biase. The researches, which had lasted for a year, continued during the pauses of the making of the film. However, other massive investments proved the intention of the PEA to realise “a great movie”. Forty million lire were used to realise the costumes and, as I was told, only a bit part of them had actually been used. I met PierPaolo when I went to Rome: he was filming there in Cinecittà because of a technical problem. In fact, probably due to the hot weather, a “pizza” (a film can) had deformed and thus it had been necessary to film that sequence once again. The 219
scenery had been perfectly re-built by the great Dante Ferretti. PierPaolo could thus see a selection of my pictures of the movie. It was a portfolio containing four hundred diapositives. He slowly looked at them, saying from time to time, “Such beautiful landscapes...such beautiful colours... such faces...” and, with the genuine astonishment he was capable of, he said “You have told the 1001 Nights where I was the actor and you were the director. A movie I haven’t watched! A fairy tale within the fairy tale!” Photography and intemperance. The reason why a photographer talks about Cinema Since I was a child... I have dreamt of being a writer... Even though my father did not possess a photo camera, photography was something quite common in our family and I was the appointed “operator” in this field. However, it was only because the use of cameras was quite complicated and the elderly, like the grandparents, could not see the controls very well, because they were small and complicated and they did not understand them. The cameras were regularly borrowed from the uncles who, being younger and with plenty of girlfriends, made wide use of them. The very imprecise system of vision of the subject frequently determined the loss of the head of some of the adults, because they were often cut off by my horrible interpretation of the framing as they were designed in the viewfinder. When I was ten, I decided to take a big step and I bought my first camera! It was a Comet Becini which cost me 3.000 lire! It was a considerable amount of money, if one considers that the average salary went 220
from 15.000 to 20.000 lire per month! The Comet was a tiny camera with a diecast aluminium body. Back in those years, the aluminium was expected to have “a great future”. The camera had “azured” lens and it used a film called 127, whose negatives measured 30x40 mm, and were sensibly bigger than the Leica size. I bought it in instalments and I payed it. 500 lire per month. I used to collect that money creating airplane models, gliders and crystal set radios, usually commissioned by my friends. My four brothers, my mum, my dad and all of my relatives were, willing or not, test subjects and beneficiaries of my photo mania. I took my inspiration from the pictures of movies I found on the magazine “Novella film”. The portrait has always been a my primary interest and a fundamental necessity. The pictures were in black and white. Rarely were they in colour, because both the film and the print were too expensive. The curiosity I felt for the novelties of the electronic devices, which I simultaneously nurtured, had different, interesting and fascinating directions: the radio, the magnetic recording, the television and the rising “high fidelity” of reproduction. The pricey American magazines of electronic technology I read presented, together with a certain difficulty with the language, plenty of information. And it was precisely in one of them, in 1949, that I read that Claude E. Shannon, a distant relative of Edison, who was an engineer and a mathematician, together with Warren Weaver, who was a scientist and a mathematician, had developed the “Theory of Information”. It was immediately clear to me that I could “read” an image, a painting, a
picture or a movie without asking the “elderly”, the wise men in the family, about its meaning. Later, when I was about fourteen years old, I began to read complicated magazines of photography, both Italian and foreign, and essays on the art and on cinema. They all presented the “philosophies” of the realisation and of the vision of the image. In the meanwhile, I became an “expert” photographer, also due to the “laboratory” of development and print which I had created in the bathroom. I used to print at night, because darkness was essential, hoping that nobody needed the bathroom. In those years I had many different cameras: Agfa, Voigtlander, Contax, Edixa, Praktica and, eventually, in 1960 my first Nikon. That was the biggest of all steps. I carried on my education while I worked as an amateur or semi-professional photographer, getting small jobs for local magazines, for the theatres in Genoa and so on. The fact that I owned a renowned and prestigious professional camera like a Nikon made me look like a real professional photographer rather than an “advanced amateur photographer” who, in fact, was a beginner. During the Sixties and the Seventies, while I studied electronic engineering, I did a series of jobs which were quite important, especially for a photographer’s expectations. There were meaningful collaborations, but not concerning photography, like the collaboration with the Gruppo Studio Genova, formed by: Guido Ziveri, Olga Casa, Maurizio Guala, Daniela Zampini and Luigi Tola. And then I worked with the Famosa Cineteca of Monte Olimpino,
with Marcello Piccardo and Bruno Munari. These experiences allowed me to share what I had learnt with my studies on the Theory of Information, on cinema, on electronics and on linguistics. I felt I was a more a researcher, an engineer lent to photography, than a proper photographer, at least according to the standards “of the time”. It must be stressed that, in the Seventies, being a professional photographer required a special authorisation from the local council to obtain the licence of “itinerant photographer”. From that moment only was one allowed to place the tripod or a sawhorse on the ground to take pictures; and the authorisation had to be obtained each time, paying a council fee for the “occupation of public soil”. While I used one of the most innovative cameras then available, the Nikon F2, the bureaucracy still perceived the photographical activity as it had been back in in the XIX century. The photographer was considered like someone who wandered in the streets with his tripod and his huge camera and a “hook” curtain, together with all his various stills to catch some picture of the landscape, or of the passers-by, to develop them immediately and to earn something. Another bureaucratic burden was the obligation to keep the negatives of all the pictures at disposal of the police. The “Photographic Study” was not even mentioned in the list of professions of the IGE and then IVA office. This restrictive logic, both in terms of bureaucracy and of working conditions, forced me to register myself to the craftsmen’s guild as a “commercial artist”. This, in fact, was a role which would allow me to use any tool to realise my works, including cameras. At that time, the monotony of the 221
customers, of the publications and of advertisement induced me to work on two levels: a commercial one and another one, which basically unrewarding from an economical point of view, but nevertheless was of the highest cultural level possible. The guideline for my working choices was, and it still is, the construction of images and documents to be remembered, which carry an aesthetic meaning and which, differently from the most diffused photographic notions, would consider photography as one of the visual arts; thus, they are images which are built according to the rules of perspective, of the golden section, of the chromatic relations and so on. In my lectures, since I was ten years old, I acknowledged very clearly the recurrent notion that the contemporary of all ages did not care at all about how their work would have been perceived in the future. It is an idea that, still nowadays, continues to be unclear or not even acknowledged. The only question that a contemporary asked himself, and still asks himself nowadays, even though maybe in a less elegant expression, is “cui prodest?” (to whose benefit?). Both in the past and in the current times, the lack of an association with the cultural value of their work has made very difficult to many categories (such as filmmakers, video makers, photographers) to have a free access to any cultural event where there was (and still is) an expected expense and where there was (and still is) expected a series of complicated bureaucratic permissions. It was not a chance that in the late Sixties, at the Teatro dell’Arte in Milan, the great Gillo Dorfles, with a certain lack of fair play, openly blamed the photographers 222
for their ignorance. In 1970 in Turin, when I took part to the première of “Alice’s Restaurant” I intervened many times during a debate chaired by Ettore Sottsass Jr and Fernanda Pivano: at a certain moment, as they were intrigued, they asked me what I did for a living and I answered “the photographer”. Their reply, short and complete, was “oh please, there’s no way you are a photographer!” Later, in 1978 in Milan, at the First Conference on Semiology I could talk with Umberto Eco about the problems of the photographic and the cinematographic language. In concluding our conversation, I asked him if he had the intention to write a book on the photographic language and he bent closer, he stole a glance at me and he asked me “and then, who would ever read it?” One must say that everything that he could have ever written in such a book was already included in his wide production of essays and so, whoever wanted to develop this topic already disposed of a lavish production to explore. Thus, while I “worked” for many magazines which were almost insignificant for the publishing market, I obtained the press badge and the credits to photographs many celebrities: the Beatles, Vittorio Gassman, the New Trolls, Dario Fo, Alberto Sordi, Giorgio Albertazzi and many others. Considering the reputation the “photographers” had both with journalist and the cultural environment in general, my choice to register as a “commercial artist” had been the best possible one. That category, in fact, was allowed to do any activity concerning the “communication”: from the video filming to the graphic layouts, from the written interviews to those on TV, from photographic
reportages to the audio recording or to the musical production and much more. However, Genoa was not the best place to give the suitable space to someone who believed that the “great photography”
was the one narrated by the specialised press. I moved to a professional activity in the October 1970, when I moved in Milan. There, two years later, I would meet Pasolini.
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Index of photographs Page 8 1973, Isfahān, Persia, Jāmeh Mosque An ongoing debate existed between Pasolini and myself on the concept of film language. PierPaolo claimed that Cinema is ‘the language of reality’ and I claimed that it is ‘just a language’. I caught PPP with his hand on the camera. Nearby was an actor with a clapperboard. I took it from him and brought it to PPP, saying “PierPaolo, take it, I’ll take a portrait picture of you”. As he took it, he said “... but it’s not for real”, to which I replied, “Neither is cinema”. He, mindful of our debate, smiled and I took the picture. It’s the only photo in the world in which he looks into the camera and smiles at the photographer. Page 10 Landing of a Douglas Aircraft Company - DC3 - on the rudimentary “runway” built in the desert, in the foreground; in backlight, two soldiers protect themselves from the sun under the wings of a stationary aircraft. The temperature at the time was 40+ degrees. Page 11 Unloading «our» DC3 Dakota - The RAF (Royal Air Force) first started giving the name “DAKOTA” to its aircraft in 1942 and it is one that has stuck until the present day. The exceptional flexibility of this plane is demonstrated by its longevity, and even today it is not difficult to see a DC3 flying in the skies over every continent.
Pages 16/17 This DC3, the authentic ‘workhorse of the skies’ belongs to Alyemda, an airline known as Democratic Yemen Airlines or, more simply, as Yemen Airlines, which at the time was the national airline of South Yemen. It was established in Aden in 1971 after the nationalisation of Brothers Air Services, a company owned by the Ba Haroon brothers. Pages 20/21 The great tradition of Arab architecture, with its white walls and sand-coloured, sun-baked bricks, can be clearly seen in the residences of the ruling classes, the small mosques, modest private homes or large institutional buildings. Pages 22/23 Shibam - Yemen - Hadramaut - The capital of the Yafur dynasty in the 9th century, when its great mosque, one of the oldest in Yemen, was built. The City of Sun-baked Brick Skyscrapers, known in modern times as the Manhattan of the Desert. Pages 26/27 Sky and heights, both immanent on the low twostorey military academies or residences, or again on eight-storey ‘skyscraper’ houses made of sun-baked bricks, some painted white and some ochre, light and dark, the true colour of bricks. Pages 30/31 The trails of the dromedaries, which everyone referred to as camels, were
an integral part of the film, in moments of “outdoors daytime” like those in the souks, and “daytime interior” where extras from the film mingled, indistinguishable from the presence of the curious and omnipresent part of the local population. Pages 32/33 In the souks were people who, fascinated by the imaginative and colourful outfits of the film’s extras and protagonists, had themselves donned unlikely outfits and headgear as if for a ceremony they would never attend. Pages 34/35 A real character, a militiaman of the “National Liberation Front”, whose weapons made him highly apparent, had hinted that he would be back again; and in fact he did come back, this time even more heavily armed…and on horseback! Pages 36/37 The camera was always a source of curiosity; in fact, it was never difficult to find people ready to stand in front of the lens and have their photos taken; a photo they wanted to be in, but would never see. Here, in a corner of the souk, young and old are gathered, ready to be captured on film. Pages 40/41 Groups of ladies in the souk, all dressed differently, during a “shopping” break. Page 48 Here, outside the souk, some of the extras simulate transporting vegetables and fruit while laughing
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with amusement, due to a remark I made which, when translated by the interpreter, caused widespread hilarity. Page 49 In the souk, home, workshop, kitchen and shop were often one and the same and, in this case, the children also inherited the family’s craft and trade. Page 50 Civilians and soldiers, with uniformed and armed officers, all fascinated and delighted by the presence of Ines Pellegrini who, in European dress, appears as a beautiful and unreachable presence from another world Page 51 Two armed militiamen, so to speak, guarding a government depot. Page 52 Militiamen proudly posing with weapons. In those days, the whole of Yemen was on high alert for what was to come, the Yom Kippur war, staged between 6/25 October 1973, which saw the participation of the National Liberation Front.
show it, but it’s already dark, and Pasolini with the heavy Arriflex, climbs up an improvised ladder, with the help of no less than six collaborators, to figure out how he’s going to shoot the next morning Page 61 Sana’a – waiting for the crew to convene in one of the worst possible spots. The water you see is not that of a cool irrigation channel but of an open sewage drain, as the colour goes to show. Page 62 An image that would seem to be the result of careful direction: eight women in the background, in the shadows and wearing black burqas, and, five children with a man, in the sun, wearing a turban and white clothes. A world that conveys fascinating images at every step. Page 63 Souk - The focaccia-maker and the buyer taken from behind, extending his or her hand to serve himself/ herself, and the child assistant intrigued by the camera
Page 53 A picture of Sana’a reality - a group of women attired in black, wearing the traditional burqa, a group of dromedaries tied to prevent them straying from their masters.
Page 64 Souk - Butcher’s shop and home in one, with the customer already served and the owner of the house and shop in one, in his role as father with the child hiding his face behind his hand
Pages 58/59 Yemen - Ta’izz - Souk - Pasolini, director of photography Giuseppe Ruzzolini and set photographer Angelo Pennoni, in a moment of reflection on the work in progress.
Page 66 Souk - Another butcher’s shop with a greater assortment of meat for sale and more customers, and a shop assistant loudly inviting people to buy the meat hung up to dry.
Page 60 When the day’s shooting is over, the photo doesn’t
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Page 67 Souk - Checking the film colour before printing. The film consisted of a
negative colour film, which was then printed in the number of copies needed to be placed on the market for projection. Page 68 Souk - Nur Ed-Din and Zumurrud, with Franco Merli and Ines Pellegrini respectively; the two leading actors smile in a film shot that recounts their meeting Page 69 Souk - A ‘subjective’ shot, i.e. just like anyone might see the actress through the gap left between two people in front of us. Page 72 Portraits. The local beauties were so many, and in such authentic and diverse conditions, that it was impossible not to take the chance of transforming a face and a moment into a visual document able to transcend time and space and reach everyone. Page 74 Complementary portraits in terms of both gender and skin colour, a white court dignitary dressed in white and a black civil servant in black, how could you ignore them? Page 75 Portraits. Two little sisters in school ‘uniforms’ who were so genuinely interested in having their photo taken that they just had to be satisfied, even though they would in fact, never see the photo. Page 76 Portraits of beautiful children with mothers from different social backgrounds and beautiful faces of mature women and elderly men. Photographer’s delight. Page 78 Sat on the throne, a makebelieve, is a young Italian-
Persian who represents the bride of the prince, make-believe within makebelieve, represented by the slave girl Zumurrud. A court dignitary with brightly coloured garments, as Pasolini wanted, and behind him, another dignitary who peeks while the photo is being taken. Page 79 Salvatore Sapienza and Salvatore Verdetti, who in the film play Yunan and Barsúm respectively, while they study the script Pages 82/83 Pasolini had stated ‘It will be a very colourful film’ and Danilo Donati’s costumes did the job brilliantly.
Page 90 Portrait of Nur Ed-Din, the Roman actor Franco Merli, the leading male performer in the complicated story which sees the two main actors searching for each other throughout the film. Page 92 Two portraits of authentic encounters in the souk; as in a revolving door, they entered and left the group of extras without needing to change costumes Page 93 A court dignitary in the opulently coloured costumes commissioned by the director and designed by Donati
Pages 84/85 Some of the locals’ apparel, made up of an array of fabrics and patterns, was an excellent contribution as the pictures clearly show.
Page 94 A face partially obscured by the hooded headdress and a straight and thoughtful gaze give this dignitary a hieratic and strongly charismatic appearance.
Page 86 The costumes by Danilo Donati were certainly able to frame many meaningful faces, well representative of both the young and the not-so-young inhabitants of Yemen.
Page 108 Moments of the King’s Wedding Ceremony. In detail the vestments and the guests of the people, important amphorae made of precious materials for equally special foods.
Page 87 This young 14-year-old soldier was recruited by the army to replace his father who died in the endless war with North Yemen.
Page 109 The ‘total’ canopy with the bride and groom and two large wings with many court dignitaries. In the story, Zumurrud, disguised as a man, is offered a bride whom she cannot refuse on pain of death.
Franco Citti, who plays the Demon in the film, was one of the few professional actors Pasolini had already used and who had starred in the director’s films since the early 1960s. Page 89 A close-up of Ines Pellegrini, the film’s main female protagonist, who plays Zumurrud
Page 112 Persia - Isfahān - Interior of the Jāmeh Mosque Dignitaries pay their respects to the King and Queen Page 113 Rome - Cinecittà - Remake of a scene shot in Yemen,
which became necessary because the metal film can, accidentally exposed to the sun, had become deformed and this had made it necessary to reconstruct the original environment and then repeat the whole thing with Nur Ed-Din and Zumurrud. Pages 118/119 Persia - Isfahān - Exterior of the Jāmeh Mosque. During the breaks in production, the man who never stopped for a second was the Director. Page 120 Persia - Isfahān - Exterior of the Jāmeh Mosque. Pasolini, in the centre of the picture, but in the midst of a hundred or so extras, controls what the next movements of the camera should be. In the foreground is the clapperboard, immediately behind the secretary of the editorial office who is hiding, and the director of photography. Page 121 Controlling every moment of every shot was a constant for the director, when he was not filming in place of the operator. Page 124 Persia – Isfahān - Exterior of the Jāmeh Mosque. The large number of guests at the wedding banquet, seated in the circles occupied by the ruling families at the king’s court. Page 125 Large carafes of inlaid metal and gigantic preciously crafted trays, carrying nonalcoholic drinks and dishes with delicacies from “the Thousand and One Nights”. Pages 126/127 Persia - Isfahān - Exterior of the Jāmeh Mosque. Pasolini, surrounded by
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his collaborators, works directly on the Arriflex which, complete with optics, lens hood, electric motor and film, was said to weigh around 25 kg. Page 130 Persia - Isfahān – Interior of the Jāmeh Mosque. All work has stopped. A short break. Everybody is waiting for Pasolini to ask them to reassemble before shooting starts again. Page 131 Again, the interior of the Jāmeh Mosque. Pasolini, untiring, operates the camera, equipped with a powerful telephoto lens Page 132 Persia - Isfahān - Exterior of the Jāmeh Mosque. Pasolini, takes a close-up of Zumurrud. Page 133 Persia - Murcheh Khvort - A moment during the filming of Nur-ed-Din’s encounter with the ‘fat women’. Page 134 Jāmeh Mosque. Franco Citti could not resist the idea of having his photo taken behind the camera like his maestro Page 135 Persia - Iran - Murcheh Khvort - Gideon Bachmann, the well-known German filmmaker, shoots Pasolini while the latter is indicating movements and giving directions to the actors in the garden below.
waiting to access the location where the filming of “Stanza del Demone” (the Demon’s Room) with Franco Citti will take place
break’ with Argentino, Pasolini, and several others moving about, along with set designer and three-times Oscar winner, Dante Ferretti
Pages 138/139 Persia - Iran - Murcheh Khvort – Positioning the camera for filming the Fat Women’s Garden
Page 163 Yemen - Ta’izz - Pasolini explains the movements of the next scene to Citti and Argentino
Pages 146/147 Yemen - Ta’izz – Episode of the “Stanza del Demone” starring Franco Citti and Alberto Argentino (Shahzamàn); because of his cowardice, the latter will be turned into a monkey by the Demon.
Pages 172/173 Yemen - Ta’izz - Barbara Grandi, the predestined victim of the demon, literally ‘crucified’ by Shahzamán’s cowardice and cruelty.
Pages 150/151 Yemen - Ta’izz - The Demon’s Room, Franco Citti, the Demon, meets Shahzamàn, after the latter has pined after his slave who will be punished by having her hands cut off. Pages 152/153 Yemen - Ta’izz - The Demon’s Room, the director of photography takes measurements for the movement of the camera between the two lovers, Alberto Argentino (Shahzamàn) and Barbara Grandi, the slave girl. Pages 158/159 Yemen - Ta’izz - The Demon’s Room where the “betrayal” occurs between Shahzamàn and Barbara Grandi, the slave girl.
Page 136 Persia - Iran - Murcheh Khvort - Nur Ed-Din above the Fat Women’s Garden into which he is about to be dropped
Pages 160/161 Yemen - Ta’izz - Assistant director Umberto Angelucci, Alberto Argentino and Pier Paolo Pasolini discuss the filming methods while, behind them, three-time Oscar-winning set designer Dante Ferretti walks away.
Page 137 Yemen - Ta’izz – The crew
Page 162 Yemen - Ta’izz - A ‘coffee
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Pages 174/175 Iran - Isfahān - Jāmeh Mosque - In the “Room of Mirrors”, on the purposebuilt and duly “unassailable” mezzanine commissioned by Dante Ferretti, Pasolini shoots with Peter Shepherd, assistant director, the director of photography and Beatrice Banfi, the production secretary. Page 176 Iran - Isfahān - Jāmeh Mosque - In the Room of Mirrors, during a break in filming, Pasolini, smiling, asks the two actors “But do you know what you are doing?” and they answer “Not really!” Page 177 The cramped spaces of the Mirror Room called for contortionist skills that forced assistant director Shepherd to get out of the way. Page 178 Hard at work in the Room of Mirrors filming the final shots of the story. Page 179 While Franco Merli helps Ines Pellegrini to fix the edges of her dress, Pasolini, with wide strides continues to move to establish the best points
to obtain the “shot-reverse shot” he wants to take. Page 182 The Room of Mirrors. Ines Pellegrini waits for the clapperboard that will also animate Franco Merli, in the last scenes of the story. Page 183 Pasolini shoots the scene from a higher point of view, that of the eye, supported by the cameraman while the set photographer does his work. Page 184 Zumurrud, still in the guise of the king, patiently awaits the development of his story. Page 185 Pasolini, with the help of the cameraman, takes a series of shots at half-height, that is, at the height that best
describes the long shots and close-ups of what is happening on the ‘bed of revelations’. Pages 186/187 Room of Mirrors. While the lights and cameras are being set up for filming, Salvatore Sapienza collaborates by showing the colour test to the camera. Pages 190/191/192 In the Room of Mirrors, Zumurrud reveals to Nur Ed-Din that she is his beloved and not the king he thought she was. Once again Pasolini, supported by the director of photography, Peppino Ruzzolini, shoots the sequences of the film’s final scenes, no longer freehand, but with a solid tripod, the proximity of the script secretary and the
assistant director, while Ines Pellegrini removes the royal dress that hid her femininity. Page 230 Persia - Isfahān - Jāmeh Mosque - Interiors, decorative details alternating with the tiny blue tiles that make up the mosaics with which the Mosque is covered on the outside. Page 234 Persia - Isfahān - Jāmeh Mosque - One of the large forecourts of this immense mosque. Pages 263 Persia - Isfahān - Jāmeh Mosque - One of the fine Persian capitals that appear in many places in the architectural complex.
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Persia - Isfahan - Moschea del Venerdì Interni, dettagli decorativi che si alternano alle piccolissime piastrelle azzurre che compongono i mosaici di cui la Moschea è ricoperta all’esterno.
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Cuando la Pintura se vuelve Fotografía y viceversa Paolo Nutarelli Estudio en Génova Vico Sotto le Murette
La invención de la fotografía y su sucesiva afirmación estimularon de inmediato una vivaz disputa con la pintura y, en consecuencia, una atenta comparación. El nuevo descubrimiento que permitía “construir” imágenes desde la realidad con un procedimiento automático entusiasmó un vasto público. El argumento fue tratado y descrito en sus potencialidades en la prensa de la época tanto, que por parte de algunos, se llegó a decretar el fin de la pintura. No todos los pintores tuvieron temor del nuevo descubrimiento; es más individualizaron sus posibles centajas por lo que, en un inicio, pintores y fotógrafos se imitaron recíprocamente. Después, gradualmente, el fotógrafo renunció a querer emular la pintura con el instrumento fotográfico y comenzó a definir los varios ámbitos en los cuales podía actuar: la historia, la antropología, la sociología, la historia del arte, la geografía, etc. Y los géneros: el retrato, el paisaje, y reportaje y otras cosas. En estos sectores, el fotógrafo ha empezado a operat con el presupuesto de la documentación porque la foto, desde un principio, había llegado a ser el más creíble “objeto” de la memoria. Pero contemporáneamente había quienes experimentaba otras modalidades artísticas a través del nuevo descubrimiento. Luego, en un tiempo relativamente breve, el fotógrafo fue reconocido como artista y su producción entró a formar parte del mundo del arte.
Sobre la relación entre el modo de operar del fotógrafo y el del “pintor”, además de la correspondencia de producir imágenes, existen algunas diferencias que diría derivables, en el caso de la fotografía, del instrumento mismo. La más significativa es que el fotógrafo actúa como un espectador que, ante la visión de lo real, sabe escoger el momento para bloquear un fragmento de realidad en una imagen. Mientras el pintor, ante cualquiera visión real o pensada. Actúa inmediatamente con la idea de construir una imagen a través de una manufactura pictórica. En efecto, si lo real fotografiado es el rastro de un momento, para el pintor, está todavía ligado a la representación, lo real es “la substancia” que puede ser modificada. De seguro, esta diferencia entre los dos medios expresivos disminuye en el caso de la fotografía experimental y de investigación (Man Ray, Moholy-Naghy, El Lissitzky). En todo caso, la fotografía, como en la práctica de todas las artes visuales, se expresa de la mejor manera a través de la cultura acerca de las imágenes que posee su autor. Pero si el pintor puede tener tiempo para proyectar, construir, configurar una imagen reflexionando acerca de su génesis, el fotógrafo, en nuestro caso Roberto Villa, “proyecta” en lo inmediato la imagen definitiva. Cada toma deriva del conocimiento específico del autor: que sabe encuadrar, buscar el equilibrio entre formas, luces, sombras y colores, y sabe considerar determinante la relación entre las figuras y el fondo en el brevísimo tiempo en el que decide tomar la foto y todo esto corres231
ponde a las cualidades del “buen pintor”. Procediendo así, Roberto Villa ha contado y ha hecho permanentes muchos de los instantes vividos en los lugares y durante los momentos y las situaciones que han servido a Pasolini para construir su obra fílmica. Y ningún pintor puede hacer todo esto: he aquí otra de las diferencias entre los los modos autorales. Por lo tanto, fuera de los géneros, han nacido las fotografías en el set de la “flor de las mil y una noche”. La primera impresión mirándolas es la de un reportaje fotográfico. Pero Villa no se limita a documentar mecánicamente lo que se le presenta ante la mirada: sabe escoger los temas, los contextos y los ambientes que quiere representar, sabe proceder como procede el trabajo del pintor cuando con equilibrio identifica los temas que hay que pintar. La denominación que Villa ha dado a la serie de fotos tomadas por él indica la situación ambiental en que ha ocurrido la toma (ejemplo: “Pasolini en el set”; “Imágenes más allá del set”; “Retratos, rostros, cuerpos, gente, etc.) y en cada situación el autor ha escogido la configuración más pertinente para caracterizar el momento del trabajo pasoliniano
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como demostración que la especificidad del fotógrafo está en el definir en un instante la imagen mejor. Consideramos, además, que en ese período las tomas fotográficas ocurrían con la máquina analógica y fotografiar era una profesión que requería de competencias profundas. Por lo tanto con una aproximación diversa del que, hoy en día, puede servirse, también en modo excesivo, de la fotografía mediante la tecnología digital que entrega instrumentos fáciles de usar y siempre al alcance de la mano. La simplificación de los merdios de toma, que ha contribuido a ampliar el número de las personas que fotografían, es, afín, en el ámbito de las artes visuales al incremento de tantos pintores aficionados. Cuya actividad, a menudo un poco improvisada y propia de incompetentes deriva, tal vez, de un inexacto y superficial juicio acerca de la producción del arte del Siglo XX, donde crear obras de arte parece casi banal. Este expandirse de “pintores” parece haber disminuido las competencias requeridas para trabajar con las imágenes. En ello hay otra analogía entre pintura y fotografía.
Fotografías de otra parte. Sugestiones al margen de las tomas de Roberto Villa Angela Felice
Existen reglas no escritas, pero no por esto menos vinculantes, en la redacción de premisas o de textos “parasitarios “que acompañan a latere las obras ajenas. Se trata, generalmente, de rendir homenaje al autor, glosar sus probables intenciones, entregar algunas guías fugaces para los futuros lectores, auspiciando su condivisión numerosa, y por lo tanto, para este conjunto de operaciones, debe recurrir al arsenal de las buenas maneras literarias de la urbanidad prologuista. Pero ahora tantos motivos me inducen a saltar a pie juntillas las cómodas vías de las convenciones, a embocar recorridos más personales, extravagantes y a su modo oblicuos y a peroceder por sugestiones y cortocircuitos. Tantos motivos, en efecto, entre los cuales pongo en la cuenta antes que todo la estima y la a-mistad por el maestro Roberto Villa y, después, el respeto debido a este su “primer” libro, en el que él pone a disposición y nos hace revivir con palabras y por imágenes un momento decisivo – tal vez el más exaltante y aventuroso – de su largo compromiso de fotógrafo y lo eleva a corazón de toda una vida profesional y, por qué no, también sentimental y emotiva. Empiezo, por lo tanto, por La Divina Mímesis, extraordinario poema en prosa de Pasolini que apareció por Einaudi en noviembre de 1975, a pocos días del brutal asesinato de su autor. No póstumo o, a pesar suyo, testamentario, este texto hay que leerlo en cambio como la última obra organizada y despachada por el mismo Pasolini, como “documento”
que no pudo ver impreso o a lo sumo, con el pensamiento en Petróleo – éste sí póstump a todos los efectos – como su anticipación formal: un palimpsesto experimental de texto-proyecto, fragmentario, estratificado por acumulaciones horizontales, intencionalmente exhibido en lo in-completo de la antinovela o de la novela imposible. No es el caso aquí de entrar en la corona de significado de este fascinante escrito-terminal, en el que Pasolini recogió materiales que se remontan a 1963 y después otros, desbocados, de años inmediatamente sucesivos y en el que se empeñó no tanto en imitar la Commedia de Dante – y ¿cómo hacerlo en comparación con la “ideología de hierro” que compactaba su sólida arquitectura medioeval? – cuanto en recrear una obra “otra” y toda suya, que recuerda más a Rimbaud que al sumo poeta, cuyo poema fuese usado a lo más como rastro alusivo e hipotexto. De hecho, en su Divina Mímesis, Pasolini recapituló el enésimo balance de sí mismo y testimonió la crisis del propio tiempo y deel propio ser escritor, en la fractura irremediable entre un sí – Virgilio frágil y “amarillento” y un sí – Dante extraviado en la “Selva” obscura del consumismo mercan-til, o sea entre los años Cincuenta y los años Sesenta, entree las esperanzas civiles y gramscianas de los primeros y la desilusiones de los segundos, corrompidos por el infierno neocapitalístico de la Posthistoria y, para el poeta, ensombrecidos también por el espectro de la parálisis creativa y por la coacción a repetirse. La derrota, en vez de ser declarada ideológicamente, encontraba así su necesaria expresión en la misma organización formal de un texto proyectado como work in progress, en evolución 233
Persia - Isfahan - Moschea del Venerdì Uno dei grandi piazzali di cui questa immensa moschea dispone
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antihistoricística como la vida: un conglomerado heterogéneo de palabras, por apuntes, fragmentes, notas a pie de página dejadas en blanco, epílogos redaccionales fines a sí mismos. Y no obstante este magma de la escritura incapaz de coagularse, justamente en la fase final de la proyectación editorial de 1975, Pasolini pensó en agregar en apéndice un dossier de venticinco fotografías en blanco y negro: una “Iconografía amarillenta”, la definió, que diese prueba de una colateral y alusiva “poesía visiva. Viendo bien, a la fluidez de la palabra experimentalmente centrífuga se oponía así la fijeza de la imagen, que es en sí definitiva, no equivocable y con ese tanto de vagamente mortuorio que toda toma arra-stra consigo. Para Pasolini aquello era ciertamente un expediente para enriquecer la intención documenta-ria del libro también con un ulterior estrato lingüístico, en este caso visivo, “por lo demás muy legible”, como glosó él mismo en el prefacio fechado 1975. Y en substancia él escogió acercarse por contraste fotos significativas de su recorrido autobiográfico y, por extensión simbólica, de la discrepancia más general entre los años Cincuenta de las ilusiones y los años Sesenta de los desencantos. Sin embargo, en esta sorprendente y anómala galería de fotografías, hay una sorpresa, que se entrevé precisamente al término de esta suerte de álbum subjetivo y colectivo. El inserto se concluye en efecto con el acercamiento-shock entre las dos fotografías, por un lado, de la Iglesia parroquial de Casarsa, que se asoma a una explanada desoladamente vacía, y por el otro de un grupo de niños africanos en primer plano, lacerados, serísimos y dignos, sobre el fondo de un genérico y pobre aldea de cabañas. Para quien conozca la biografía
artística e intelectual de Pasolini, el significado de esta combinación deso-rientante no es inaferrable, aunque a primera vista no es tan legible, como pensaba el autor. En estos últimos dos tarugos de su “Iconografía”, Pasolini juntaba vertiginosamente el Alfa y el Omega de su vicisitud existencial y creativa, exigida sentimentalmente por una resaltante sensibilidad y sensualidad topográfica. Y he aquí, por un lado, el eco de una originaria inspiración de la mejor juventud friulana, pero ahora vacía, alejada y definitivamente “amarillenta”; y por el otro he aquí la esquirla africana de una geografía del hambre y al mis tiempo de la verdad, para contraponer (¿todavía? ¿y hasta cuándo?) a la Irrealidad del bienestar occidental. Y es sintomático que Pasolini haya escogido sellar esta Mímesis suya, que después se ha revelado última, con una enigmática proyección tercermundista, que entre otras cosas no encuentra aside-ros en el palimpsesto móvil del texto verbal, como ocurre aunque alusivamente con otras imágenes de la galería, y abre así interrogativos sobre el sentido de su desplazada inserción. ¿También ella foto “amarillenta”, como la esperanza? ¿O más bien resquicio de una posible vía de fuga desde el infierno consumista y desde el impasse de la palabra? De hecho, tanto Casarsa como África reenvían a dos “otros lugares”, temporal y simbólicamente desfasados: el primero es un otro lugar campesino y populat, ya borrado y perdido; el segundo es un otro lugar de “África, única alternativa mía”, hipótesis y espejismo de una geografía que hayu que trasladar más allá, o más abajo, para la búsqueda de verdades humanas en vía de extinción. Estaba aquí, en el divagar de esta promesa, a lo que el discurso apuntaba y tendía. 235
Aquí, justamente porque fotos de “otro lado” son también aquéllas tomadas por Villa siguiendo a la troupe de la Flor de las Mil ye una noche, en el set y fuera de éste. Son fotos, en efecto, que, por un lado, fijan el trabajo del visionario directorantropólogo que escribió que conocía mejor a los árabes que a los milaneses, porque el suyo era conocimiento “existenciale”, no libresco, y porque en la cultura tradicional de esos pueblos del tercer Mundo, “de Nápoles abajo”, él entreveía “otras” islas de supervivencia de lo arcaico, por cuanto amenazadas por la homologación en confines siempre más porosos. Y son fotos, por otro lado, que el mismpo Villa, quizás cuanto contagiado por el maestro, ha tomado después él solo para recoger un dossier suyo personal del “otro lado”, impreso en caras, cuerpos, gestos, tipos de trajes, lugares, casas, colores. Y por eso todo este conjunto de imágenes transmite un valor que va más allá del puro significado documental, que también está, y preciosísimo, como también más allá de la indiscutible perfección técnica y el resultado estético. A-demás, ellas aparecen rubricadas por el don de la curiosidad no invasiva y no invadente, por el placer del descubrimiento y por el principio guía del reswpeto, hoy diríamos, “intercultural”, matizado después de admiración estupefacta cuando en campo está el genial, febril director Pasolini fotografiado al centro de su fragua creativa, en el que al “otro” imprime su visión “otra”.
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Y en suma, detrás de la impaginación impecable, estas fotos asombran porque en un primer momento son ellas mismas originadas por el estupor, que es la virtud y el motor de quien sabe encantarse de verdad ante lo incógnito y quiere no adulterarlo sino a lo más observarlo y tal vez tratar de entenderlo, mitad afuera y mitad adentro, un poco mirada participante y un poco sentimiento de ajenidad, en la conciencia que después, al final del juego, habrá que alejarse y se deberá regresar, trayéndose consigo sólo fragmentos de misterio. Gusta entonces recurrir a las palabras, fechadas en 1965, pero reutilizadas diez años después, que Pasolini escogió para cerrar La Divina Mímesis de las cuales partí para estas rápidas notas. Palabras que aquí se desempeñan como una destructora didascalía no sólo del desolado pero nunca rendido Pasolini de la última fase, sino de cualquiera que vaya en busca de realidades desconocidas (¿para fotografiar?) y esté en perenne camino, mientre la verdad permanece huidiza, la palabra se desmorona y el infierno, imparable, avanza. “He pasado, así, como un viento detrás de los últimos muros o prados de la ciudad – o como un bárbaro venido para destruir, y que ha terminado con distraerse a mirar, y a besar, a alguien que se le asemejaba – antes de decidirse a retornar (1965)”.
La revelación del Otro. Las fotografías de Roberto Villa “dentro” de La flor de las Mil y una noche Roberto Chiesi Centro de Estudios – Archivo Pier Paolo Pasolini de la Fundación Cineteca de Boloña
Las miradas de los intrusos, a veces, son iluminantes, porque la casualidad, más o menos deseada, de las intrusiones puede ser fértil de angulaciones inéditas, puede capturar detalles reveladores, puede revelarse más necesaria que la presencia de quien estaba previsto. Entre los miembros de la troupe que trabajaba en el filme La flor de las Mil y una noche de Pier Paolo Pasolini, había un intruso privilegiado y se llamaba Roberto Villa. Fotógrafo profesional y ecléctico apasionado de lingüística y audiovisuales, se había acercado a Pier Paolo Pasolini al término de una mesa redonda sobre el lenguaje audiovisual organizada en Milán en 1972, en los tiempos de la publicación de célebre colección de ensayos Empirismo herético. Corrían los años del triunfo, más comercial que crítico (la reevaluación habría de venir después) de la Trilogía de la vida: el nombre de Pasolini estaba ligado a una ráfaga de escándalos aun más violenta que en el pasado y a un erotismo ‘liberado’ que la industria de inmediato se había apurado en explotar en una serie de subproductos. Villa se interesaba por la lingüística, pero también por el cine y había seguido los filmes de Pasolini desde los tiempo de las proyecciones en los cine foros de Génova, su ciudad natal. En calidad de fotógrafo ya había emprendido numerosos viajes en todo el mundo y así, cuan-
do supo que en la primavera de 1973 el escritor- director habría de realizar las filmaciones de su próximo filme, La flor de las Mil y una noche, el último de la Trilogía (que en un comienzo se intitulaba sólo Las Mil y una noche) en Arabia y en Persia (además de África), pensó en realizar un servicio fotográfico sobre las filmaciones. Habría sido también la ocasión para continuar, en los límites de lo posible, la conversaciones con Pasolini. Tal vez otra persona no habría afrontado un viaje a Yemen y a Irán por motivaciones que iban más allá de la esfera estrictamente profesional, pero por suerte Villa era y es un hombre de pasiones y también esa vez fue más fuerte que él. Así, junto a las imágenes de Angelo Pennoni, fotógrafo de escena oficial enviado por la PEA (la sociedad de Alberto Grimaldi productora del filme), se agregaron las de un intruso que podía vagar libremente con la mirada dentro y fuera del set. La anomalía de La flor de las Mil y unas noche, como de casi todos los filmes de Pasolini, consiste también en los confines no fácilmente definibles del set, o sea del cuadro de realidad que habría de entrar a nutrir el flme. En realidad, todo lo que palpitaba y respiraba del mundo alrededor de los lugares donde Pasolini filmaba, había llegado a ser parte de éste, estaba investido por la ficción pasoliniana que reinventaba la materia y la corporalidad de lugares e individuos que se encontrabam en esas horas en Ta’izz, Aden, Al Mukalla, Hadramaut, Shibam o Murcheh Khvort o Esfahan o en otra parte. Esto porque no eran lugares y espacios cualquieras: eran los ambientes donde se había conservado todavía la identidad popular, con toda su corporeidad y violencia, autenticidad y peligrosidad, que pertenecía al mundo antiguo, el mun237
do de las diferencias culturales y de las particularidades, el mundo campesino que seguía las leyes de las estaciones y de los rituales religiosos. Aquel mundo que en Occidente y en Italia tan apasionadamente amada por pasolini, se estaba extinguiendo, para dejarse seducir y corromper por las dañinas, irrestibles sirenas del consumismo. Pero el mundo árabe y persa de las Mil y una noche era otra cosa. En el filme se asiste a una continua permeabilidad entre la identiddad real de los lugares y de los individuos y su transfiguración en la imaginación pasoliniana que se nutre precisamente de su realidad para revelarla a través de la ficción visionaria. La flor de las Mil y una noche es el único filme de Pasolini que se concluye felizmente y no es casualidad que sea un filme colocado en un mundo no cristiano, no católico, no occidental, remoto en su cristalización (aún, en 1973). Villa entró en ese universo e hizo lo que un fotógrafo de su valor debía hacer: miró, observó, contempló y dedicó una atención ávida, a la humanidad que le hormigueaba alrededor. Derivó de esto un fresco de millares de fotografías, teselas del mosaico de un mundo remoto e indescifrable, probablemente desaparecido en buena parte o, de todas maneras, de arduo acceso para las miradas occidentales. Los rostros de los muchachos y de las niñas que escrutano desde la otra orilla de la existencia, la dimensión de los bienes necesarios, con un abanico de
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expresiones donde Villa ha capturado curiosidad, interrogativos, desconfianza, indiferencia y una serie di posturas, gestos, acciones inmovilidad que dibujan la cotidianidad y la humildad profunda de otro mundo, de otra cultura, mágica y fabulosa justamente por su lejanía remota de la nuestra. Las formas de los edificios blancos y retocados con cal, las siluetas lunares de los camellos, los incendios chillones de los rojos, la severidad de los negros: todo el mundo de dignidad y miseria humana que Pasolini amaba más allá de todo límite. Y después está, justamente, un protagonista, el mismo Pasolini. Villa lo sigue en los momentos de reflexión y en la congestión de las filmaciones, en las carreras y en la atención enarnizada en las cosas y en los seres que quiere filmar y en el modo de filmarlos, de capturarlos y poseerlos. La mirada de Villa ha sabido capturar magistralmente la seguridad y el frenesí de un artista retratado dentro de su teatro visionario, observador y titiritero al mismo tiempo de los fenómenos que él mismo mueve y de aquéllos que roba a una realidad que está apenas allí. Las fotografías de Villa son bellísimas, no tanto y no sólo por la calidad de la composición y los cromatismos, sino porque capturan esos gestos, esas miradas, esas suspensiones donde se puede encontrar la personalidad de Pasolini y el mundo de un filme que está naciendo en esos instantes.
“Fotografiar un Cuento de Hadas” partiendo de una mesa redonda sobre TV y lenguaje audiovisual Roberto Villa En Noviembre de 1972, en la Casa de la Cultura de Milán, en una mesa redonda sobre la televisión y el cine tuve la ocasión de encontrar a Pier Paolo Pasolini. El tema tratado en esa circunstancia había sido la “Escritura y Lectura” en la comunicación basada en procesos y sistemas audiovisuales televisivos, aunque los relatores hablaban de ella sin saberlo. Me había limitado a tomar algunas fotos y a escuchar aunque los motivos de intervención no habían faltado. Estaba particularmente interesado en el punto de vista de Pasolini acerca de la presencia del Cine en la TV y las consecuencias relativa a las interrupciones publicitarias. Desde hacía algunos años, en Italia, estaban operando algunas TV “privadas”, (Tele Biella etc.), alternativas a la RAI, la “TV de Estado”. Algunas de éstas trasmitían filmes, tanto vía éter como vía cable, limitándose a las inserciones publicitarias en los intervalos propios (1°-2°-3° tiempo) otras habían ya aprendido a interrumpir el filme en los momentos de mayor involucración del espectador. La parte más importante del debate era, justamente, aunque de forma indirecta, el proceso lingüístico, el desplazamiento de contexto, del “ritual” de la Sala Cinematográfica al “Cine”, a la visión del filme, en la cocina, en el comedor, etcétera, sin excluir el deslizamiento semántico debido a la reducción del tamaño, y así sucesivamente. Había aparecido inmediatamente que, en TV, no era posible transmitir todo, sin cortes, pero por lógicas completamente diversas. Por una parte, los dispositivos
de ley por otra una pseudo moral elegida como autocensura. Sobre estos puntos, los encargados de los trabajos televisos sostenían, mintiendo clamorosamente, el “enriquecimiento cultural”, que habría derivado hacia el espectador. Enriquecimiento cuyos límites pueden residir sólo en la rígida censura de mamá RAI. Hay que recordar que la terminología en uso de los periodistas, locutores, comentaristas, en radio y TV estaba, entonces, fuertemente controlada y, una por todas, la expresión “Miembro del consejo” fue censurada y reemplazada con “Componente”, en el término “miembro”, así como muchos otros eran tachados de la lengua italiana de quien “hablaba en TV”. En substancia, la presunta mayor soltura de la emisión privada, habría hecho escuela para toda la naciente emisión. Otros televisivos hipotizaban que los privados, más dinámicos, más abiertos menos disponibles a la censura y más orientados a la ganancia, habrían podido inducir a “mamá Rai” a una reducción de las restricciones corrientes, pena de la pérdida de audiencia. Fuera de esas lógicas, por así decir “operativas”, Pasolini sostenía que no podía ser transmitido, y no sólo por banales razones censorias, sino por referencia a todos aquéllos que podían ser ofendidos, en su sensibilidad, en su modesta cultura, de la visión de algo que no habría podido comprender. En otros términos, un filme sofisticado y complejo como “La vía Láctea” de Buñuel, bien difícilmente habría podido ser comprendido por un espectador con escasa cultura general y aun menor cultura cinematográfica. También había manifestado sui total desinterés en la transmisión de sus trabajos en TV incluso no interrumpidos por la publicidad. 239
Terminada la mesa redonda, cuando ya todos habían salido de la Casa de la Cultura, bajo los pórticos de via Borgogna, me había acercado a Pasolini para hablarle de mi interés por los mecanismos de la comunicación audiovisual que había tratado en sus ensayos, y que habría estado interesado en encontrarle para hablar de ello y escucharlo al respecto. Sin dudar, me había dado su dirección de Roma en via Eufrate, anunciándome también de su próxima partida para rodar “La flor de las 1001 noches”. Después, con el placer de quien habla con alguien que sepa apreciar, había agregado que de allí a pocos días habría de partir para Nigeria, enfrentado también este viaje justamente con la esperanza de encontrar los lugares adecuados para su nuevo filme. Había ya visitado muchos países y a otros debía todavía ir, Persia, India, Afganistán, Yemen. “Será un filme interminable. Tres horas y media. Confeccioné un guion de más de mil páginas. Con mil veces el sexo que ha aparecido en estos trabajos míos. Un sexo feliz, gozoso. Quiero la misma libertad de expresión de los varios Decameroticus. Y después, aunque constituya una aparente contradicción, la pornografía ha sido descubierta por el sistema capitalista como mercadería de consumo y como tal viene usada. ¿Cómo es posible establecer dónde el desnudo, el sexo, están usados como “arte comprometido” o como mercadería, como producto de consumo? Después, agregando en alta voz, pero casi entre sí y sí, me dijo que, si estuviese interesado, habría podido alcanzarlo en el medio oriente en el set. Allí habría podido verlo al trabajo en la aplicación de sus ideas sobre el cine, y a lo mejor, hablar de ellas. La respuesta no podía ser más que positiva. A este punto, Pasolini había agregado 240
que habría informado a la producción de la presencia en el set de un fotógrafo freelance. El viaje en el viaje La oficina de prensa de la PEA, la casa productora del filme, me había contactado inmediatamente pidiéndome que propusiera una revista en la cual presentar mis fotos del filme con el texto de Pasolini, y una serie de otras que, con o sin texto de Pasolini, habrían publicado el trabajo. La amplia colaboración que tenía con muchas empresas periodísticas había facilitado los contactos de vértice, en efecto eran sólo los directores los que decidían las colaboraciones que se consideraban comprometedoras. El interés y los consensos para mi propuesta habían sido ampliamente superiores a las peticiones de la PEA. Las revistas con las cuales había concordado la publicación del trabajo en el set de la “Flor” habían sido; Esquire & Derby Magazine - Giorni dirigida por Davide Lajolo - Photo13 editada y dirigida por el historiador de la fotografía Ando Gilardi - Playboy Italiano editado por Rizzoli, entonces dirigido por Furio Lettich. Con la propuesta aceptada, tanto de las empresas editoriales, como de la PEA, como en los cuentos por entregas “algunos meses después” estaba en Adén. En el antiguo puerto abandonado por los ingleses, que después de la revolución había llegado a ser la capital del Estado de la República Democrática Popular de Yemen, la troupe de Pasolini estaba esperando partir para aquella larga secuencia de localidades y puestos fantásticos que, en teoría, componían el puzzle de los telones de fondo de las 1001 tomas para las 1001 noche. Pero el recorrido Milano - Adén no había sido exactamente tan directo como podía aparecer, y aún menos veloz pero, ciertamente, mucho más aventurero de lo previsto.
El “ticket” de viaje que había recibido, no había nacido en una cualquiera agencia de viajes ni tampoco en una agencia especializada para viajes al Medio Oriente, sino que, también éste, había sido construido en teoría, en las oficinas de la producción del filme, sobre la base de las experiencias de viaje maduradas en un Medio Oriente verdadero, en la búsqueda de las locaciones que Pasolini quería para filmar. Un poco a la vez me había aparecido que me quisieran hacer recorrer, y conocer, las dificultades que tuvo la troupe, aquéllas que habría encontrado en mi “viaje al conocimiento de Pasolini”. Mientras tanto, el primer traslado requerido había sido Milano - Roma. En efecto, la primera escala a Sud-Este, Beirut, se alcanzaba justamente desde el aeropuerto romano. En el aeropuerto de la capital libanesa, tanto en la fase de aterrizaje del vuelo Alitalia como en las sucesivas fases de despegue del vuelo MEA (Middle East Airlines) fuimos acompañados por una batalla aérea, verdadera, entre helicópteros, presumiblemente gobernativos, y contingentes de tierra no identificables. Tal vez no existía otra posibilidad de aterrizaje, tal vez operar en condiciones de guerra era una normalidad, pero las ráfagas de las ametralladoras pesadas, que atravesaban el aire dejando densas huellas de su recorrido, no habían atemorizado para nada a los pilotos que había conducido felizmente el vuelo a su conclusión con un aterrizaje perfecto y ningún agujero en sus alas o fuselaje. A la ingenua pregunta acerca de si ocurría algo, planteada en el desk de la MEA, con la misma preocupación de quien hablara de un aguacero veraniego, la respuesta había sido “Desde hace unos días es así, basta esperar un poco y paran.
Después de casi otras cuatro horas de vuelo, en un no “modernísimo” jet, estaba en Asmara. Allí el amable señor Araya Assefaw, titular de una agencia de viajes “todo servicio”, import, export, auto, y mucho más todavía, me había esperado, no tanto por curiosidad acerca del importante trabajo que habría debido hacer, o por quizá cuáles informaciones y recomendaciones de viaje podía sugerirme, sino porque había sabido que yo era colaborador de Playboy. Entre sus manos había una copia de la revista italiana, con el tríptico de la gran página central, que había realizado, desplegado y las fotos que me retrataban en el colofón, en la apertura de la revista y en la sección “Entre nosotros”, donde se hablaba de los colaboradores y de ese número, bien en muestra. Después de algunas formalidades y de algunas felicitaciones sobre las fotos y sobre la belleza de la modelo, además de la solicitud del autógrafo en la gran página central de la Playmate, mi anfitrión, después del ritual del “té con menta”, se despidió de mí para volver a su oficina a sus múltiples “business” dejándome delante del desk de la recepción MEA. La bellísima hostess eritrea, de lineamientos orientales y de piel bronceada, que me había visto con el agente de viajes, individualizados mis orígenes, se había dirigido a mí, en perfecto italiano, para indicarme el gate, el vuelo y la hora de partida. Viéndome evidentemente sorprendido por su perfecto italiano, me había explicado que su abuelo y su papá habían aprendido la lengua “trabajando con los italianos”. El recuerdo del “Imperio” y que Eritrea, hasta pocas décadas antes, había sido una “colonia” nuestra, me había hecho probar un desagradable sensación de vergüenza. 241
En la otra orilla del Mar Rojo El nuevo destino era Hodeida y, ya en el sonido del nombre original “al Hudaydah” se ponía como una anticipación aventurara del Medio Oriente, Yemen, y el avión de la MEA, que no era tampoco un jet semejante a aquél en el que había llegado, estaba volando en esa dirección. Era un Douglas DC3, apodado “Dakota”, de los años ‘40. Un bimotor de aquéllos que apoyaban la cola en tierra con una “ruedecita”, esas ruedas que, se cuenta, habían sido usadas por la Piaggio, en la postguerra, para la realización de la famosa “Vespa”. El recuerdo que tenía de ese bimotor, y de su doble nombre, estaba ligado a memorias radiofónicas del tiempo de guerra, cuando el locutor, indicando la caída, o mejor dicho, el abatimiento de avión, cerraba con “... tipo DC3 Dakota” para enfatizar la pertenencia al enemigo, a los “aliados”. Apenas subí, con una escalita de fierro apoyada en un flanco, a la altura del portalón, pude ver los asientos todavía originales, de “época”, con la tela ajada y, en algunos puntos, incluso desgarrada, cosas que demostraban ampliamente tanto la edad como la proveniencia del medio, esto es, las ventas a los países medio orientales y africanos, del “surplus” bélico o de los medios obsoletos. A bordo, entre los pocos pasajeros estaba el productor Roberto Loyola, temeroso, sin reservas, del vuelo y del velívolo. Había subido también una joven regordeta de piel obscura, rostro redondo, cabellos negrísimos, grandes ojos negros, siempre tímidamente sonriente, pero que no escondía para nada los dientes blanquísimos. El aeropuerto de Hodeida, diversamente del de Beirut, había aparecido así, improvisamente después de las dunas del desier242
to, después de un largo vuelo en baja cuota, y había dado la impresión de ser muy tranquilo, demasiado. El nuestro había aparecido como el único avión en la pista, mientras en torno, en abierto desierto, algunos galpones querían sugerir los semblantes de un voluntarioso hangar. A un lado de uno de éstos estaba detenida, muy, muy llena de polvo, una autobomba, un tiempo de color rojo. No era comprensible si era un medio para un hipotético servicio antincendios o para el reabastecimiento de carburante. Varias veces me había dado cuenta de observar lo que me ocurría en torno con el ojo del espectador de un filme más que con el ojo y la visión de quien estaba inserto en ese contexto mientras se movía en una realidad, lejana de la suya habitual, pero realidad. Antes de descender, por la escalita de anaquel, apoyada a mano en la apertura del portalón por un mozo en mameluco de presunto color azul, no obstante el sol y el calor feroz, había esperado pacientemente que el poderoso motor, Pratt & Whitney desde mi lado, se detuviese para evitar los típicos salpicados de aceite negro, también un poco caliente, que eran empujados hacia la cola por el viento de las hélices. Apenas en tierra un sediciente taxi, con una especie de pequeño auténtico jardín bajo la luneta posterior, con una no menos auténtica tierra y pasto verde, y una infinidad de Tasbeeh (rosarios musulmanes), de diversas formas y colores, colgados del espejo retrovisor, me había recogido y, con muchas detenciones, y continuas colecciones dignas del filme “Las cuatro plumas” de Zoltán Korda, me había llevado a una zona turbulenta y bulliciosa donde estaba ubicado mi hotel. En el momento de pagar la carrera, no conociéndolas monedas, ni su valor, ha-
bía tomado algunas y las había puesto sobre la palma de la mano del taxista, que contando en árabe había escogido algunas, y tal vez algunas de más, después con un sonoro “shukran” había retomado su andar con su atestado, ruidoso y polvoriento taxi amarillo. En el Ikhwa Hotel, de Hodeida, debía preguntar por Mario Di Biase, el director de la producción. A primera vista me había parecido muy, muy improbable que ese lugar, adecuado como locación para un filme medioriental, años ‘30, de Tay Garnett con Marlene Dietrich, pudiese hospedar a un moderno operador del mundo del cine italiano. En la recepción, distinguible del mesón del bar, sólo por un letrero bilingüe, de non fácil lectura por la no escondida vejez y por la no perfecta limpieza, me habían indicado la disponibilidad de un cuarto reservado y pagado, donde habría podido esperar a la persona que había efectuado la reserva. Esa atmósfera levantina de “Taberna de los siete pecados” no era sólo aparentemente peligrosa, en efecto, mucho tiempo después en Sanaa, había sabido por la maquilladora de la troupe, Iole Cecchini, que la eficientísima secretaria de producción, Beatrice Banfi, había corrido el riesgo de ser raptada por un grupo de mujeres del lugar, tal vez para ser incorporada a algún harem. Beatrice había logrado escapar a ese intento de rapto, no sólo usando todas sus fuerzas, sino gracias también al impropio uso del pesado guion del filme de más de 500 páginas. El cuarto era coherente con las cualidades generales del Hotel, el ambiente de alrededor de dos metros por tres estaba dotado por una especie de camastro con un par de frazadas, y una ventana, sin persianas desde la cual, gracias a una cortina de tela
amarillenta de trama ancha, entraba una luz por la fuerza sólo inferior al ruido que llegaba de la polvorienta calle de abajo. Estaba convencido que la producción no supiese exactamente de las cualidades “escondidas” de ese Hotel, lo habría ciertamente utilizado para algunas filmaciones. No era tampoco conocible la calificación, por lo menos aquélla declarada por el acto de la reserva, de ese hotel puesto que, si se hubiese debido medir en “estrellas”, ¡bien!, éstas no habrían representado justamente una noche muy, muy luminosa o habrían adornado sólo una pequeña, muy pequeña placa con su nombre. En el “lounge bar”, atestado por fumadores de narghilè y degustadores de bebidas indefinible, había logrado obtener un té con menta sólo pocos minutos antes que llegase el encargado de la producción que habría debido transportarnos a Adén. Transportarnos porque con él, en auto, además de un acompañante, e intérprete del lugar, un conocedor de los caminos, había aparecido también la rubicunda muchacha de color que había subido al avión en Asmara y que, después del aterrizaje había perdido de vista entre las dunas del aeropuerto. Por el encargado de la producción, en auto, me había enterado que la muchacha era una intérprete del filme. Los cerca de 450 kilómetros recorridos, de un camino de aquéllos construidos por los chinos entre las montañas del interior, ricos de curvas, subidas y las muchas detenciones, impuestas por una sediciente policía andrajosa, que concedía el derecho de tránsito, devolviendo los permisos y documentos de circulación, después de largas tratativas y a cambio de varios billetes, no me habían permitido siquiera intercambiar una palabra con la atractiva compañera de viaje porque, a pesar de ser 243
eritrea como la hostess del aeropuerto, no conocía una sola palabra que no fuese árabe o, tal vez, tigrino. Era ya de noche cuando habíamos entrado en la dining room, de aquél que había sido el más importante hotel de Adén al tiempo de la presencia de los ingleses. Después de entonces, desde la “Revolución popular”, había sido destinado en parte para hospedar a personalidades de los potentados locales para los cuales desarrollaba, contemporáneamente, su función original, la de Grand Hotel y de Night Club, con standard de nivel internacional. También estaban hospedados, a expensas del Estado, algunos “héroes” de la revolución, militares, fuertemente mutilados en combate, a los cuales había sido confiada la gestión de una biblioteca de ciencia marxistas con documentos y ensayos en árabe, ruso e inglés. Textos provenientes de la Unión Soviética. En el último piso, en el “Penthouse” de grandísimos ventanales, con aire acondicionado, había sido mantenido también una especie de Night Club en la cual se exhibía, en la más clásica danza del vientre, una bailarina cuyo rostro recordaba rasgos de Rita Hayworth y Claudia Cardinale, con esos kilos de más muy apreciados por los frecuentadores locales, hombres de negocios, ricos señores, funcionarios y políticos poderosos. En el gran salón del penúltimo piso, también éste rodeado de ventanales, a las muchas mesitas, estaba sentada casi toda la troupe que había cenado hacía poco. Los actores profesionales Franco Citti y Ninetto Davoli, ciertamente el gasto más conspicuo para la producción, porque todos los otros, como quiere la costumbre y “poética” pasoliniana eran escogidos de la “calle”, no estaban presentes. En una 244
mesa. Solo con el guion, y muchas hojas y hojitas de apuntes dispersos, inmerso en la lectura, estaba Pasolini. La acogida había sido semejante a la reservada a viejos amigos. Mucho más la simpatía derramada, por todos los jóvenes actores, sobre la nueva rubicunda “colega”, literalmente rodeada, al punto que, atemorizada, se había refugiado en mi mesa. Era el único que “conocía”, habíamos viajado una jornada completa juntos, aunque la comunicación había encontrado serias problemáticas lingüísticas. La circunstancia no había escapado, a la posibilidad de la acogida de los romanos presentes, de modo que había sido alcanzado por un “¡Eh, Robbè, tú no eres el fotógrafo de Playboy! ¡Tú eres el playboy de los fotógrafos!”. ¡Había emergido que, por lo menos de un periódico, para el cual habría debido “trabajar” era ya conocido el nombre “Playboy”! A este propósito, la primera noticia que me habían dado era que las escenas eróticas, aquéllas a las que Playboy estaba muy interesado, no se habrían podido filmar porque en ese país las autoridades revolucionarias no lo habrían permitido. Después de una sumaria cena, cuando el sueño había comenzado a hacerse sentir y todos habían iniciado a dirigirse a sus cuartos, Pasolini, saludando nos había dicho “Yo voy a dormir en la playa”. Pero la velocidad con la cual se habían retirado nuestros actores me había parecido muy sospechosa porque había ocurrido en una fracción de segundo después de que la tímida eritrea había tomado la dirección de su cuarto. Sólo el sueño, el verdadero, había, después hecho cesar las pisadas por las escalas y el insistente golpear a esa puerta que no había querido abrirse. El despertador a las seis de la mañana
sucesiva había dado el inicio al verdadero viaje, aquél hacia el conocimiento del cine de Pasolini, de su pensamiento sobre teoría y lenguajes, aquello para lo cual yo había llegado allí. Fotos y películas en la oscuridad de la noche y en el sol del mediodía Había cargado mis tres Nikon F2, una para el color, una para el negativo blanco y negro, la otra de reserva, una serie de objetivos, en un gran maletín Nikon de cuero, que todavía poseo, y, una vez más, renunciando, por un largo período a la actividad profesional de estudio, había ido a un set, ese set, para documentar algo imperdible e irrepetible. Parecerá casi imposible de creer, hoy, pero en 1973, y todavía por muchos años, existían y habrían de existir largamente, increíbles dificultades de orden técnico-fotográfico que impedían la estandarización del material sensible invertible (diapositivas) para ser usado en un trabajo que comprendiera la más diferentes situaciones de iluminación, aquéllas de las seis de la mañana, por ejemplo, o del pleno sol de seis horas después además del crepúsculo, para no hablar del color de la luz, aquélla del día y aquélla de las lámparas de filmación, en interiores, en el set. La elección operativa, para desarrollar el trabajo que había previsto, había sido usar las películas entonces disponibles en el mercado, como si fuesen ocho veces más sensibles, por lo tanto subexponiéndolas fuertemente para hacer compensar ese maltratado con un ulterior maltrato, una apropiada prolongación de los tiempos, y un aumento de las temperaturas, de los baños de desarrollo en laboratorio. Estos procesos habrían engrosado el “grano”, reducido la resolución, variado la colorimetría, pero me habrían permitido
reportar las imágenes de ese trabajo y consentido la visión de ellas en lugares diversos y en otro tiempo. Las imágenes, tanto en diapositiva como en negativo blanco y negreo, en cambio, toma tras toma, habían sido construidas siguiendo las filosofías compositivas propias de las artes espacio visivas, en el respeto de las secciones áureas y de la perspectiva central, de la relación por formas armónicas y por relaciones cromáticas, no dejando a medias los asuntos de los análisis del lenguaje y de la más rigurosa teoría de la información. No hay que olvidar que el formato “Leica”, de la película para cámara fotográfica, estaba derivado de aquél de la película cinematográfica pero usada con desplazamiento horizontal en vez de vertical como en la filmadora, era, y es, un rectángulo construido con las relaciones propias de la sección áurea. El nombre de “formato Leica” se debía y se debe al hecho que esta cámara fotográfica fue la primera que la usó, mientras que en el comercio, este tipo de película, es conocida como “135” o “35mm”, en grado de proporcionar una imagen en las dimensiones de 24x36 mm. Desde las películas a las imágenes Me movía libremente, al interior y el exterior del set, esto es de ese caos organizado, incomprensible para las producciones made in USA, pero que la historia del Cine ha demostrado ser una peculiaridad italiana sobre la cual se han construido las más grandes obras maestras de la historia del cine. Justamente durante un desplazamiento, para mejor el punto de toma, había subido con un pie sobre una alfombra que cubría un pequeño trípode de una lámpara que, en ese momento, iluminaba la 245
escena filmada por Pasolini y que, ante la improvisa desaparición de la luz, había exclamado: “¡Qué lástima, estaba saliendo tan bien!”. No había tenido tiempo para deshacerme en excusas que un electricista intervino diciendo “¡Saltó una ampolleta, dottò, la cambiamos de inmediato!”. Ninguno había sido rozado por la idea de despotricar contra ese fotógrafo “externo” tan mal diestro. ¡Había sido adoptado! Y definitivamente considerado como parte del grupo. Como para el teatro clásico, ése de las grandes representaciones, quería capturar las imágenes de los movimientos del “coro” y de cada actor y no sólo en escena, sino en todos los momentos de la elaboración. La movilidad de la que gozaba me permitía retratar también fuera del set, los lugares y la gente, cogiendo en sus rostros expresiones auténticas, de pose o de curiosidad, pero siempre de conmovedora disponibilidad y casi de amistad. Buscaba las composiciones y la luz de la pintura flamenca que, a menudo, sobre todo en los interiores, tanto por la tipología de la iluminación, como por el mayor control que podía operar sobre los espacios, podían ser captadas y retenidas por la cámara a imitación de famosas representaciones pictóricas, Así recordando a Rembrandt o a Velázquez construía, sólo con pequeños desplazamientos del punto de toma, o con el cambio del objetivo, aquellas imágenes que tenían un poco más de calidad que no únicamente aquélla del documento. Por razones opuestas, los espacios angostos en interiores, o los espacios inmensos en exteriores, usaba ópticas gran angulares, el 24mm y 21mm, con una amplitud de ángulo de más de cien grados. También cuando los sujetos estaban cercanos, justamente para no utilizar el teleobjetivo 246
que no habría permitido el mismo efecto de presencia. Además de los gran angulares, usaba toda la gama de los teleobjetivos, desde el 135mm, para el retrato, al 200mm o 400mm, según las exigencias evaluadas de vez en vez. Captaba mucho también lo existente y a la humanidad circunstante. Todo, siempre, con la luz ambiente, ésa que bien controlada e interpretada, puede ser “altamente pictórica‟. Los muchos retratos, que había realizado relatan todavía una fascinante realidad física, de rostros “antiguos” de un mundo auténtico que estaba en el borde de aquel precipicio de aquel “progreso” que habría de sentenciar su desaparición. En el set De inmediato había visto que Pasolini estaba siempre muy concentrado en la lectura y reescritura, casi ininterrumpida, de un fascículo de páginas, papeles, con miles de hojitas móviles, el “guion”. Parecía que nada lo importunara. Todos los colaboradores, tanto en los sets en interiores como en los sets en exteriores, asumían una actitud de no-molestar. Cada cierto tiempo alguien susurraba “...esperemos que todo ande bien...”.Era debido al temor de desplazamientos o construcciones no previstas que pudiese complicar las no simples actividades que daban vueltas en torno a las filmaciones. El punto no era el temor de un imprevisto aumento de los trabajos, sino la hipótesis de no lograr satisfacer las peticiones de Pasolini, ése era el ulterior, verdadero, elemento de preocupación. Todos en torno a él operaban veloz y silenciosamente, el director de fotografía y el operador de la máquina filmadora no habían sólo renunciado a su función operativa, reemplazada siempre en primera persona por Pasolini, sino que habían desarrollado una elevada capacidad de insta-
lación de los caballetes y de las filmadoras con debida substitución de los objetivos, antes incluso de cualquiera petición, ya, sabían cuáles habrían sido las peticiones de Pasolini que, como aparece en las fotos, estaba a menudo, muy a menudo, personalmente en la filmadora. Parecía que Pasolini quisiese ahorrar también el tiempo de explicar aquello que le servía y que pensaba hacer, por lo cual había elegido hacerlo directamente. Cuando, todavía en Milán, había tenido en la mano el guion del filme, que la PEA me había hecho llegar pocos días antes de la primera claqueta, su espesor, por las muchas limaduras ya estaba reducido a la mitad, había bajado al nivel de las 500 páginas pero, las sucesivas modificaciones y agregados, habían garantizado que la duración “interminable” presupuestada se mantuviese siempre en torno a las tres horas y el sexo previsto, como me había dicho Pasolini, estaba todo, y tal vez aún más. La redacción de las partes escritas para las intérpretes femeninas, debida al libreto de Dacia Maraini, de hecho había sido continuamente reescrita o modificada porque, muy a menudo, Pasolini, se dirigía a las actrices sugiriendo variaciones del texto actuado. La espera en el aeropuerto de Adén. Una aventura más aventurera que el viaje. El viaje se había iniciado con más de nueve horas de espera en el aeropuerto, que, según los responsables, se debía a genéricos, misteriosos, cuanto temidas intervenciones técnicas. Hay que decir que el aeropuerto de 1973, en Medio Oriente, en Adén en particular, no tenía nada que ver con aquello que cualquiera conoce y sabe de los modernos aeropuertos. Nuestra espera se había desarrollado, en
parte, con informaciones vividas en directo, mirando, a través de los ventanales y las grandes vidrieras de esta “sala de espera”, constituida por un galpón poco iluminado con paredes del color verdoso apagado, iluminado por mortecinas ampolletas eléctricas incandescentes, que irradiaban una luz amarillenta. Incómodas bancas de madera y un grupo de sillas de metal constituían la ruidosa desvencijada dotación de mobiliario para la comodidad de los pasajeros. Los trabajos que estaban siendo ejecutados en el bimotor a hélice, que habría debido embarcarnos, no nos habían parecido muy tranquilizadores, incluso porque, ver un avión sin un motor, con un gran agujero negro sobre un ala, de la cual pendían cables y tubos, con manchas de aceite por tierra, todo poco antes de la partida, ¡bueno!, hacía un cierto efecto. Después de algunas horas de trabajo, el equipo de mecánicos ingleses, japoneses y árabes, había escondido su labor con unos paneles en torno al aeromóvil y a las telas obscuras de las ventanas, por lo que no había sido posible tratar de interpretar qué cosa, los técnicos, hubiesen estado haciendo y cuál fuese el estado de los trabajos. Varias veces el motor había sido encendido y apagado, tal vez con pausas de pocos minutos, pero que parecían mucho más largas que la realidad. A la nona hora de espera, a la troupe, ya deshecha por el calor y por la falta de sueño, por la preocupación y por el cansancio, había llegado la buena noticia. La reparación se había concluido positivamente con la substitución del motor, que a la remoción de los paneles y de las cortinas que obstruían la visión, había aparecido allí, vuelto a su lugar, ¡perfectamente remontado!
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La espera había terminado. Los Caprichos de Citti, que nunca habían faltado, y que habían sido siempre atemperados por su compañera, siempre a su lado, a la noticia de la reparación ocurrida con la substitución del motor, habían explotado nuevamente y se habían manifestado con un furibundo “Yo no parto” debido también al miedo a volar que no había escondido nunca. Como un conjuro silencioso, sin formas eclatantes, el miedo a ese vuelo, a ese avión, uno de esos Douglas DC3 de los años ’40, aquéllos que apoyaban la cola en tierra “sobre la ruedecita”, lo había demostrado a todo. Además de mí, que conocía todo sobre el avión desde año, sólo el piloto sabía que el tonelaje del avión era de 3000 Kg y que las cuarenta personas y la imponente carga lo superaban ampliamente y que, no obstante los dos poderosos motores de 1200 Hp el esfuerzo que habría debido soportar no habría de ser poco. Pero los motivos no estaban sólo en la dudosa eficiencia del anciano DC3, apenas reparado, por lo demás conocido por su excepcional capacidad de superar los límites establecidos por la casa productora, sino porque esa carga monstruosa de personas y aparejos, instalaciones y otras cosas, el avión lo habría debido transportar por una ruta montañosa rica de vientos y corrientes, para nada tranquila. La presencia del cincuenteañero piloto japonés, que se había formado ciertamente durante los últimos eventos bélicos, el “Kamikaze”, como había sido definido de inmediato, no había tranquilizado para nada a la troupe, al contrario. Las turbulencias encontradas durante el vuelo había hecho bailar considerablemente al avión aumentando las lamentaciones de todas y aquéllas, para nada mo248
deradas de Citti, a las cuales se agregaban los fuertes crujidos de los grandes cajones cargados que, no anclados perfectamente, entregaban un ulterior sensación de precariedad por sus deslizamientos, modestos, pero, de todas maneras, deslizamientos sobre el pavimento que no dejaban indiferentes. El vuelo, que se había vuelto nocturno por el retardado despegue, había gozado de fuertes vientos, de mal tiempo con lluvia, truenos y relámpagos como corolario del traslado. De converso nos había permitido observar todas las fases meteorológicas en alta cuota, desde la desaparición de la noche tempestuosa hasta la aparición del sol con la aurora y el cielo, más allá de las nubes, ya completamente azul antes del aterrizaje. El aeropuerto que nos había visto aterrizar, en una jornada de sol enceguecedor, estaba constituido por una pista de tierra apisonada en el desierto, y el movimiento de los aviones de la Alyemda, la Democratic Yemen Airlines, estaba constituido por DC3, como el nuestro, y por los hermanos mayores DC6, ésos que no apoyaban la cola en tierra, pero allí, el único avión presente era sólo el nuestro. Recepción, oficinas, bar, cocina, del aeropuerto eran una sola cosa, un único ambiente de alrededor de tres metros por cuatro. Las paredes estaban recubiertas por grotescas caricaturas del famoso “I want you” circundado por inscripciones en árabe e imágenes de rebeldes armados. La temperatura era muy, muy alta, al amparo de la sombra de los aviones, que mientras tanto habían aterrizado. Estábamos esperando los medios que debían transportar instrumentos y personas a la base. En otra circunstancia, pero perfectamente idéntica a ésta, me había venido un “recitativo” en romano “Sò ccazzi d’appendere a Robbè!” [¡Son carajos que hay que col-
gar a Robbè!] No me había todavía recuperado de la violencia de la imagen de mis órganos genitivos masculinos exteriores, para decirla con Arbasino, colgados de un clavo, que una no menos violenta palmada se abatía sobre mis espaldas mientras el recitativo continuaba. “Qui si nun ce se pone rimedio annamo affà puro noi la fine d’a scimmia” [Aquí, si no se pone remedio, vamos a hacer nosotros también el final de la mona”]. Era el cordial comentario, con dirección personal, que me llegaba de Angelo Pennoni, el fotógrafo de escena, por la temperatura que obsesionaba a las cuarenta personas de la troupe, y que, en esa circunstancia ¡era sólo de 45 grados a la sombra! Mientras, la referencia a la mona-actriz se había debido a la inmadura desaparición de la misma probablemente no acostumbrada a las temperaturas del desierto medio oriental. Cuando algunos actores y yo, habíamos considerado que había ya transcurrido el tiempo de la “merienda”, sin éxito positivo alguno, casi como un espejismo, habían aparecido dos pescadores con un pescado enorme, recién pescado, haciendo oferta de éste. No sin dificultad habíamos logrado hacer entender que no sabíamos qué hacer con él, porque no comíamos pescado crudo y no habríamos sabido cómo cocinarlo. Se habían ido dejándonos con tenue sentimiento de desesperación, pero había desaparecido para volver a aparecer, después de un poco, con ese pescado ¡cocido en cartucho! Tal vez era el hambre, pero no recuerdo nada más gustoso que ese pescado, perfectamente cocido y limpio obtenido con un puñado de monedas, esto es por el valor de una bebida comercial.
Shibam La decantada “Manhattan del desierto”, con más de 500 palacios de 8 y 9 pisos hechos de ladrillos cocidos al sol, rodeada por las antiguas murallas, ahora patrimonio de Unesco, estaba allí, con su increíble belleza. En Shibam estábamos alojados fuera del centro, en una bellísima casa embargada por la revolución a un poderoso. Había sido la base de referencia para todas las filmaciones que nos habían visto constantemente en el suk y en los alrededores, con las muchas expediciones, por las muchas horas de viaje. Un ambiente de cuento de hadas, sobre todo la noche, cuando esta construcción blanca, las palmeras, las estrellas, la luna componían el más clásico cuadro de una visión medio oriental “de postal”. Pero no basta, casi cada noche, el más importante cantor yemenita se agregaba al grupo y entonaba lo mejor del repertorio nacional. Había sido justamente después de una de esas veladas allí que, Shepherd, el ayudante de la dirección, me había referido que había corrido el riesgo de ser expulsado de Yemen, como persona no grata porque indicado como fotógrafo de Playboy, una revista estadounidense, capitalista. Pero la expulsión me había sido evitada gracias a la intervención de un militar del contraespionaje con el cual, sin saberlo, porque, nunca estuvo en uniforme, había hablado de los problemas de la religión musulmana, del Nasserismo y el Marxismo. Precisamente allí, en esa construcción blanca de un ex poderoso, en la pequeña piscina cubierta interna, habíamos tomado algunas fotos que veían a Ines Pellegrini, la Zumurrud del filme, divirtiéndose al hacer abluciones. Habían resultado ser “las imágenes menos eróticas que hubiese realizado nunca para Playboy”, había sido el parecer del director artístico. 249
Sana’a Sana’a, en Yemen del Norte, había golpeado el corazón y la mente de todos, de modo que Pasolini la había ya hecho sujeto, y objeto, de un filme suyo en 1970, Las murallas de Sana’a, un filme documental en forma de apelación a la UNESCO, producido por Franco Rossellini. La belleza del lugar había sólo parcialmente compensado el trabajo de la troupe. No había sido fácil, ni por la temperatura ni por el increíble mal olor debido a las alcantarillas a tajo abierto, empeorado por los serrallos de las caravanas, por la falta de un hilo de aire además de la inexistente simpatía de la gente del lugar. En realidad, eran los hombres que se habían encontrado en embarazo ante la acogida demostrada por sus mujeres, por esas risitas y otros gestos de simpatía dirigidos a los jóvenes de la troupe. La actitud patronal de los propios parientes masculinos había intervenido y había inmediatamente anulado todo intento de diálogo con sus miradas vigilantes, duras, severas. Éstos, como la tradición impone, llevaban el símbolo de la edad adulta, esto es la jambiya el puñal de hoja ancha y curvada, en la faja de la cintura que les ceñía el talle. Sólo a posteriori habríamos de saber que un canto de la población local, al cual habíamos participado, estaba dirigido contra nosotros, culpables de no hacer caer la lluvia y otras nequicias. Las diversas complicaciones, surgidas durante los desplazamientos para las filmaciones, habían sido todas resueltas gracias a la diplomacia y habilidad del director de producción Mario Di Biase, de modo que la elaboración había podido siempre proseguir sin tropiezos. No obstante los muchos lados negativos, había quedado en los ojos de todos justamente esa increíble arquitectura de casas 250
rascacielos de ocho pisos con paredes externas dibujadas y con ventanas adornadas por marcos de contrastantes colores claros. Sayun También aquí la primera noticia que me habían dado era que las escenas eróticas no se habrían podido filmar porque tanto en Yemen del Norte como en el del Sur las autoridades religiosas y políticas no lo habrían permitido. La fuerte presencia del poder religioso islámico, al interior de la gestión del poder político central y local, había atacado inmediatamente todas las más comunes formas de expresión y comportamiento de los descreídos, de las costumbres occidentales. El colmo de la ironía puesto que, en ese fabuloso lugar del Hadramaut, en Yemen del Sur, Sayun era conocida como “la ciudad del amor”. Barbara Grandi, era otra notable intérprete del filme, la partner de Franco Citti, en el episodio del Demonio. Italiana, de Ferrara, con una piel blanquísima y una gran cabellera de cabellos que, por contraste aparecían, aun más negros. Barbara estaba acompañada por su mamá que, para la incumbencia, había interrumpido su trabajo de empleada. Barbara había sido vista por Pasolini para el Decamerone, pero entonces había sido considerada demasiado joven; ya, a los trece años, “casi catorce” decía ella, era mujer cuanto bastaba para sentirse defraudada por la doble en una secuencia en la que su personaje hacía el amor con su propio héroe. Era una exigencia legal, para nuestra ley Barbara, italiana, era demasiado joven, para Yemen y para Persia, en cambio, no había distinción, fuese italiana o iraní estaban en baile las mismas penas y suficien-
temente pesadas, alguien había dicho el corte de la cabeza, y no sólo a las actrices. “¡Ah, Robbè, aquí hay que poner las cosas en claro!”, era de nuevo Angelo Pennoni, que hablaba dirigiéndose a Barbara y a la mamá que acompañaba a la niña, “¡Yo no sé si el film saldrá, ni cómo, ni cuándo ni pienso siquiera a que eso pueda ocurrir, pero desde ahora Barbara debe prometer que se las cosas se esfuman por lo menos a los fotógrafos les debe llevar las naranjas!” Angelo se había olvidado que sin cabezas ¡difícilmente habríamos podido recibir y apreciar las naranjas! La realización de las tomas del Demonio, interpretado por Franco Citti y Salvatore Sapienza, en un día entero, en una típica habitación local, había requerido que ésta fuese preparada para equilibrar la calidad de la luz emitida por las lámparas al tungsteno del interior. El resultado había sido obtenido con una grandes láminas de gelatina color ocre fijadas, desde el exterior, en casa ventana de manera que, se había obtenido el resultado obtenido por la luz, había también aumentado consistentemente la temperatura interna, ya alta por las lámparas de incandescencia, eliminando toda circulación de aire. En el trabajo de cobertura habían sido olvidadas las ventanitas altas, y desde ellas llegaba la luz del cielo, muy fuerte que, en comparación con la filtrada en ocre, aparecía de color azul. Había visto ese incidente de recorrido y se lo había advertido, hablando a medias voz, al ayudante Umberto Angelucci que, sin medios términos, había estallado “¡Ah Robbè, pero qué te importa!”. Pero, cuanto yo había dicho había llegado al oído del director de fotografía, Giuseppe Ruzzolini, que había replicado inmediatamente “Roberto tiene razón”. Un momento después las diversas fuentes de “luz azul” habían sido debida-
mente filtradas como todas las otras. En esos días, Sayun, no aparecía una ciudad muy tranquila, estaba destinada a centro de adiestramiento de todas las fuerzas armadas revolucionarias de la República Democrática de Yemen del Sur, por lo que el acceso estaba rigurosamente prohibido a todos los extranjeros mientras las calles de la ciudad eran recorridas por un gran número de armados, de civil o de uniforme, en circulación por todas partes. La Manifestación Que la situación militar en Medio Oriente no estaba entre las más tranquilas lo habíamos verificado en Adén cuando una manifestación de protesta había atravesado la ciudad. Estaba dirigida contra los raids que loa aviones israelitas habían hecho en Líbano causando muchas muertes entre las organizaciones palestinas. Por las pancartas, escritas en inglés, se podía leer que la rabia estaba también dirigida contra el imperialismo y capitalismo anglo americano, no exactamente exento de responsabilidad por cuanto había acaecido desde hacía muchos años y por cuanto acaecía aún en Medio Oriente. En el cortejo, como desgraciadamente habríamos de saber muchos años después, eran llevadas ampliaciones fotográficas de las imágenes de los muchos civiles caídos bajo los bombardeos. Yemen del Sur, desde hacía pocos años, se había constituido en una República Democrática Popular después de la expulsión de los ingleses en 1967. EI sistema político antiamericano y antiimperialista era, por razones obvias, más bien “enérgico” y poco “elástico”. En esa situación periodistas y reporteros gráficos eran cualquier cosa menos que bien vistos, muchos habían podido personalmente probar, no sólo el clima de 251
desconfianza, por parte de las autoridades y de la policía, sino también concretas dificultades habiéndose encontrado incriminados con la acusación de espionaje por haber captado las más banales imágenes de fotos turísticas, otros por imágenes no exactamente inocentes. En esas condiciones, no estando permitido efectuar tomas de modo abierto y oficial, había recurrido al uso de una mini-cámara fotográfica automática y de bolsillo “medio formato” que permitía una autonomía de nada menos que 72 imágenes con una película normal. Ésta, escondida en un bolsillo de la casaca, había realizado tomas que, aunque no son técnicamente perfectas, podían documentar la dramaticidad del evento. Inmediatamente después, desde el Hadramaut, y sus centros militares de adiestramiento (hay que recordar que de allí a poco habría de ser la guerra del Kippur) desde Yemen del Sur, vía Adén, Kuwait, Abadan habíamos llegado a Esfahan en Persia. Más allá de la dirección Pasolini aparecía incansable, trepaba a las murallas con la filmadora para ver cuál podía ser el mejor encuadre, corría de una parte a otra de la gran explanada de la mezquita de Isfahan para controlar “campo y contracampo”, reemplazaba al operador y tomaba directamente la escena, hablaba con el gran Dante Ferretti para el desarrollo de las escenografías y el aspecto escenográfico de los trajes, en substancia cubra una docena de esos roles tan bien detallados en los créditos finales de los filmes de producción hollywoodense. El ayudante Angelucci, el asistente Shepherd, el director de fotografía, Giuseppe Ruzzolini, el operador de la filmadora Alessandro Ruzzolini, el director de producción De Biase, habían desde ha252
cía tiempo renunciado a seguirlo. Cuando durante algunas pausas me había ocurrido preguntar a nuestro responsables, los oficiales, “¿Ahora, qué hacemos?” la respuesta había sido siempre la misma “Ahora nos lo dice Él”. Si la pregunta era formulada a la secretaria de edición Beatrice Banfi, ella consultaba el guion, miraba la hora y después decía lo que “habríamos” debido hacer, pera la decisión final estaba in mente dei. La producción, de hecho, estaba manejada directamente por el director, y así por el estilo, en realidad ir más allá de las categorías asignadas por los roles codificados era una constante, los actores que se volvían carpinteros, los transportadores del lugar que se volvían extras, la joven iraní que se volvía una doble en una escena de desnudo y un muchachito ítalo-persa que se volvía una regordeta muchacha en un episodio del filme. Los trajes, especialmente diseñados por Danilo Donati, para las Mil y una noche, ha habían inmediatamente “confundidos” con los antiguos hábitos locales de modo que a menudo presencias externas set venían, por decir así, insertas como extras. Diversamente a muchos otros, Donati se había quedado en Roma. A todo esto hay que agregar que la elección ideológico-lingüística del uso de los jóvenes pobladores completamente ignorantes de cine, de actuación y dicción obligaba, Pasolini en la filmadora, a infinitas repeticiones de una misma escena. Una de éstas en Isfahan, en la explanada de la mezquita, ¡fue repetida nada menos que por cuarenta y tres veces! Nadie, por el gran respeto que se tenía a Pasolini, se había permitido intervenir para sugerir una solución al problema que parecía sin solución, de modo que, en una fracción de minuto, antes de la cuadragésima
cuarta claqueta, me acerqué a Pasolini diciéndole “Pierpaolo el personaje que filmas, cuando llega al punto en que debe detenerse, se levanta en punta de pies y cae sobre los talones”. Me miró como si recibiera una gran revelación, dirigiéndose después a los colaboradores, sin signo alguno de irritación, pero sólo con el tono de quien hace una pregunta, había dicho “¿Por qué nadie me lo dijo?” y había agregado “¡He ahí por qué no me resultaba el encuadre!” No pedía nunca el control y no me ocurrió nunca de oírlo recriminar u ofender a alguien. Ante una clamorosa tontería de un colaborador, que estaba por hacer caer un telón de fondo o un andamio, me había preparado para tomar una foto y tener una imagen de sus reacciones, cosa que había después hecho, pero no salió más que un Pasolini sonriente mientras decía al incauto “¡Qué salame”! Pasolini y el turpiloquio. Ocurría que nos levantábamos de madrugada a las cuatro de la mañana, o de noche según los puntos de vista, y se volvía veintidós o veinticuatro horas después. Para moverse teníamos unos pullmans carretas, pero alcanzábamos lugares de cuento de hadas que las largas sombras rosadas de las luces del alba volvían aun más fantásticos y “fotogénicos”. En torno a nosotros siempre estaba presente mucha gente, muchachitos y policía, tanto en los suks como en los grandes espacios externos, los agentes, que hablaban sólo iraní, se ocupaban de tener lejana a la multitud de curiosos y, a veces, de modo decididamente violento sobre todo cuando, aquello entontecidos por el “Qat”, aparecían más lentos o renuentes. El Qat es esa hierba que tenían todo el día en un lado de la boca y los hacía aparecer como con una mejillas fuertemente hin-
chada. De hecho, el Qat es una auténtica droga que reduce el sentido del apetito y ralenta los reflejos. Mientras en la máquina filmadora se movía con la forma de un “caos organizado”, mi trabajo fotográfico era justamente el de moverme al interior y al exterior de ese caos, no aparente, para capturar las imágenes de los movimientos del “coro” y de cada “actor”, para describir los lugares y las personas, para captar rostros y expresiones, actuadas y no. Las conversaciones sobre el “lenguaje ausente” Había logrado iniciar mi diálogo acerca del lenguaje de cine con PierPaolo desde el primer día, tomándolo solapadamente durante la distribución de la “merienda”, e otros términos el almuerzo que, como siempre, no ocurría nunca en la “hora de almuerzo”, sino a cualquier hora en la que fuese posible detener las filmaciones. Con la reverente atención de quien sabe dirigirse a un Gran Maestro empecé a preguntar cuál fuese su pensamiento acerca de la modificación del lenguaje aportada por los instrumentos, que yo definía propios del “sistema lingüístico del cine”, y de la fotografía, como el empleo de objetivos especiales, tele o gran angulares, con el uso del zoom y todos los procesos, como el ralentamiento o aceleración del desplazamiento de las imágenes, sobreposiciones, etc. La primera observación que me había hecho era justamente acerca de la “vulgaridad del efecto debido al uso del zoom” y había agregado “Yo no lo uso nunca”. Hay que decir que la referencia al concepto del uso del zoom era aquél del mal efecto, abusado en los años ‘70, del pasaje violento de una panorámica al primerísimo plano de un sujeto o viceversa. No había sido igualmente claro y decidi253
do acerca del tema de la modificación del sentido debido a la elección de los objetivos. El gran angular, por ejemplo, tanto en los espacios como en los actores, introduce deformaciones de perspectiva relevantes que no pueden ser ignoradas en cuanto adquieren un concreto peso “semántico”. ¡Un ejemplo célebre era el Orson Welles de “Citizen Kane!” Había respondido hablando genéricamente de un uso de tipo creativo, poético. Una Tautología, había replicado. Había fruncido el ceño diciendo “Bueno, sí...”. Esos elementos que indicaba como “signos específicos”, haciendo referencia a la lingüística y a Kracauer, como las hojas del calendario que vuelan lejos, las ruedas de la locomotora en movimiento, el reloj con las agujas que dan vuelta veloces, todas formas cinematográficas muy usadas hasta los años ’60, los consideraba como trabajos de truka y no adecuado a su poética. Su elección era la interrupción de la acción y su retoma en un contexto que connotase el tiempo pasado sin efecto especial alguno y pocos movimientos de máquina para no hacer sentir su presencia. A la observación de que un trabajo planteado así, con una fuerte reducción de la dinámica cinematográfica, debida a la reducida acción de la filmadora, apareciese más como un teatro que como un filme propiamente tal, había respondido que se trata de una elección estilística y que cine y teatro son lenguajes profundamente diferentes. Aparecía siempre más claro que Pasolini tratase, no sin alguna evidente ingenuidad, integrar los procesos de la lingüística a las modalidades de la interpretación y lectura de las imágnes, derivadas tanto de la experiencia de las artes espacio visivas como de la lingüística aplicada a la literatura. A través de su visión poética del cine, “comunicaba” sin darse cuenta efectiva, y 254
completamente, del sentido de la fruibilidad de su trabajo. En otros términos, en sus trabajos usaba códigos, o mejor, subcódigos, que no están en posesión del fruidor de sus filmes. En esa circunstancia, había dado el ejemplo de un tal que extrajese de un saquito unas desconocidas palabras en persa, y que, una vez puestas en orden, significarían “A muerte el Sha”, causando así al desavisado, la pena de muerte. En buena substancia, observaba, ¿cómo es posible comunicar un pensamiento complejo a través de un sistema lingüístico no completamente bajo control? Entre “lenguaje de la realidad” y metalenguaje de la crítica Nuestra conversación continuaba en todos esos momentos en los que lograba insertarme entre filmadora y apuntes acerca del guion, las breves conversaciones con Dante Ferretti, las sugerencias a sus ayudantes o las pequeñas lecciones de cultura que, con la técnica de preguntas fáciles, impartía a sus jóvenes actores. Hacía referencia a la teoría de la información de 1949, a Umberto Eco y a sus escritos acerca de la lingüística, a la escuela francesa con Saussure, Roland Barthes y Christina Metz, para encuadrar mejor las posibilidades de comunicar tanto a nivel de la narración (denotativa) como a nivel de la connotación, para los significados más complejos y articulados, y para llegar más eficazmente al público de los fruidores. Había hecho amplia referencia también al estructuralismo, que permitía y contemplaba una diversa lectura del trabajo de un artista, de un director, y que permitía encontrar en un trabajo elementos que el autor no había considerado revelando su genialidad o límites.
PierPaolo non amaba pensar que la visión de un filme suyo, así como de una escrito, una poesía, fuesen vistos o leídos a la luz del estructuralismo y que, como consecuencia posible, su trabajo, rigurosamente determinado, fuese interpretable, de modo completamente diverso de sus intenciones de autor, aunque esta otra modalidad de “lectura” fuese no diversamente rigorosamente determinada. Pero los instrumentos a los cuales hacía referencia como pertenecientes al “sistema lingüístico del cine”, no eran sólo aquéllos relativos a las técnicas de objetivos y mecánicas, sino también aquéllos de la composición de la imagen y de los encuadres, de las secuencias de filmación y del montaje. Mientras tanto el guion, ya “reducido” a 500 páginas, había aumentado de volumen substanciosamente, desbordaba de hojas sueltas, hojitas de apuntes y de partes reescritas que veían a Pasolini empeñado continuamente. PierPaolo, se había siempre demostrado que escuchaba con paciencia y atención y, aunque si no sin dificultad me había ilustrado su visión del cine como “lenguaje de la realidad”. A una pregunta acerca de cuál público imaginaba para la visión de sus filmes., me había respondido “No sé imaginar un ‘público’ en abstracto, yo escribo y hago cine para personas como yo”. Había observado que el “lenguaje de la realidad” aparecía ya infirmado por el hecho que un filme no se ponía el problema de representar lo real y que, al contrario, éste en lo específico, relataba, un cuento de hadas, una fábula. Ésta podía aparecer más o menos “veraz”, en función de la calidad de su realización, pero era, y de todas maneras sigue siendo siempre, una ficción. Había observado que sólo en los primeros experimentos de la cinematografía, en los años ’20, se hipo-
tizaba una visión casi objetiva de lo real, de la verdad, a través de la máquina filmadora, el “kinoglaz”, el “cine ojo”, de Dziga Vertov. Esperanza y optimismo habían hecho hacer grandes errores, pero eran los primordios de la investigación “lingüística” de un proceso desconocido, ¡el Cine! El aporte de la “crítica cinematográfica” a la investigación acerca del lenguaje cinematográfico estaba próxima a cero. Fuera de sectores de alto nivel, donde la crítica parecía utilizar un lenguaje casi esotérico, críptico para adeptos, no sólo estaba próxima a cero, ¡era cero! El esquema con el que el filme era visto por el crítico no estaba ciertamente planteado como un análisis lingüístico, sino que era de banalmente “contenutístico”. No superaba el relato sino para gratificar la actuación de algunas firmas famosas, el mismo director a menudo era olvidado. Bajo este aspecto, PierPaolo sostenía que “La crítica de un filme se expresa con la lengua escrita, con el lenguaje de la literatura, esto es un ‘metalenguaje’. El Cine - decía - se critica con el cinema. ¡Criticar un filme mío es posible sólo haciendo otro filme!” Mucho más claro y determinado era el planteamiento ideológico al que Pasolini hacía referencia “El desnudo, el sexo, el contar visivamente el sexo, usar el sexo para contar, no ofende solamente la vacía retórica de una esclerótico sistema burgués, sino que ofende sobre todo la vacuidad ideológica de aquéllos que burguesamente se comportan más allá de su pertenencia de clase. No por casualidad, decía, están los proletarios fascistas, doblemente alienados por la poquedad de los bienes materiales y de los bienes espirituales. Parecía casi, en perfecta alineación con la teoría de la información y Mc Luhan, sobre el modo de contar, sobre “la forma está el mensaje”. 255
Durante las filmaciones en Esfahan, en la Mezquita “Naghsh e Jahan Masjed e Shah”, en los exteriores, había visto a PierPaolo, en “plano americano”, al lado de la filmadora que sostenía con la mano izquierda mientras se miraba entorno esperando. Yo estaba allí delante con las cámaras fotográficas. Lo había llamado y, mientras le entregaba la claqueta, le había dicho “PierPaolo... sujeta un momento la claqueta… tomo una foto”. Él, perplejo había respondido “…pero... es una ficción...”. Mi respuesta había sido “bueno, también el cine es una ficción...”. El director, ciertamente recordando nuestras conversaciones sobre el cine como lenguaje de la realidad y cine como lenguaje de ficción, me había sonreído. Es la única foto en la que PierPaolo sonríe directamente a la cámara fotográfica. Esfahan la Mezquita del Viernes Justamente aquí, en Esfahan en Persia, en la Mezquita de la antigua capital, donde la troupe había llegado después de un venturoso viaje; Adén, Kuwait, Abadan y Esfahan, había sido posible filmar las famosas “escenas prohibidas”. Allí, esperándonos, ya estaba Barbara Grandi que con Ines Pellegrini, la veinteañera, italiana de la “piel de luna”, tenía el rol “erótico” más importante. Ines era la principal protagonista de estas secuencias, prohibidas no sólo por la moral musulmana. Era una bella muchacha nacida veinte años antes en Massaua, pero que trabajaba en Roma como fotomodelo. Excluyendo los varios carruseles publicitarios televisivos, estaba en su primera experiencia cinematográfica y, parecía, que su carrera ya estaba asegurada en vista de que el productor Roberto Loyola la había interpelado para un próximo trabajo. No obstante los papeles que debía soste256
ner en el filme, en la vida privada Ines era exactamente lo contrario, tímida, reservada, pero simpática. Esfahan, en la mezquita Naghsh e Jahan Masjed e Shah, las filmaciones habían sido largas y “peligrosas”. La escena que había sido ambientada en la “sala de los espejos”, en realidad, había sido obtenida de la parte alta de una nave de la mezquita misma, debida a la creatividad de Dante Ferretti. Había sido construido un altillo para elevar el piso desde la tierra, debidamente controlado y “obscurecido” para los ojos externos. Se estaba cumpliendo un sacrilegio que, si hubiese sido descubierto, habría costado caro a todos. Se trataba de las secuencia en la que Ines, en el papel de Zumurrud, reencuentra a Nur ed-Din, y ella, con las vestiduras del poderoso señor local, lo obliga, con un pequeño juego sádico, ponerse con el trasero al aire, listo para la sodomización so pena de muerte, antes de revelarse mujer y su amada, de la cual él estaba en desesperada búsqueda. Apartar a PierPaolo del trabajo sobre el guion, de la redacción de artículos, y de apuntes para su trabajo literario, no aparecía fácil. Parecía que lograba aislarse completamente. De muchas imágenes que lo retratan en esos momentos tuvo conciencia sólo a posteriori. Al contrario, en el set, aparecía siempre atento y ágil, no aparecía nunca cansado, diversos componentes de la troupe, abundantes en las formas y en el peso, e algunas circunstancias habían dicho “... nbè nsò mica pelle e ossa come lui!” [Bueno, ¡no soy para nada piel y huesos como él!]. Durante una larga elaboración en el suk, húmedo y cálido, en muchos habían buscado algo para beber, incluso simple agua. Desde un “negocio” habíamos visto emer-
ger una roja y redonda letrero de la Coca Cola; nos habíamos precipitado. Ese letrero estaba allí sólo como decoración. Pero, con acto de gran hospitalidad, el “barista” había tomado un vaso. Parecía uno de aquéllos que en el campo se usaban, dados vuelta, como soporte para las velas y que hubiese quedado opaco debido a la mucha cera. Lo había inmerso, incluyendo la mano, en un barril llenándolo de agua para ofrecérnoslo. Muy descortésmente no lo habíamos aceptado. Ciertamente no fue la única impresión de esa agua, pero la noche sucesiva, para mí, había sido verdaderamente un malanoche, de modo que Luciano Welsh, el encargado del sonido, la mañana sucesiva había hecho llamar a un médico que me había parecido la copia de Reza Pahlavi, el Sha de Persia, en blazer azul con corbata y pañuelo blanco en el bolsillo, y que había sentenciado ¡”Intossication food”! Por lo demás, entre las quemaduras impresionantes de sol, la muerte de un mono por el demasiado calor, además de una pizca de gastroenteritis acá y allá entre la troupe, todo iba bastante bien. Me ocurría que, todavía acostumbrado a la vida milanesa, me daban las tres de la mañana leyendo y tomando apuntes sobre lugares y acontecimientos o sobre las conversaciones con PierPaolo, pero una hora después me encontraba con todos los otros en el pullman, o en el camión, que nos conducía a ciudades como Ta’izz o Zabid, la ciudad de las doscientas mezquitas blancas, o a aldeas a ciento cincuenta kilómetros de distancia, donde la troupe filmaba a menudo hasta horas imposibles de modo que el regreso acaecía, no raramente a medianoche o más tarde, con un total de veinte horas de trabajo en condiciones que, todos, con tonos heroicos, definíamos “locas”.
Todo esto no había dejado de hacerse sentir en el físico de algunos mientras, aparentemente de acero, Pasolini había sido afectado por una dolorosa forma de otitis y todo, aunque por poco tiempo, se había improvisamente detenido. Mientras tanto habíamos pasado por Yemen del Sur y, superada la crisis, el director había retomado la filmación en Sayun, en el Hadramaut, aquélla denominada “la ciudad del amor”. Cosa que, como ya he dicho, sonaba bastante irónica visto que justamente las escenas de amor no se podían filmar y había sido hipotizado que su filmación se debería efectuar en Roma, en Cinecittà en los interiores especialmente reconstruidos. Hay que decir que en Esfahan todo había aparecido más fácil, más simple, incluso más organizado, y la troupe se movía no sólo con aparente facilidad. Pasolini había obtenido el apoyo oficial de Sha y de la hermana. Después de la primera suspensión de las filmaciones, debida a la indisposición de Pasolini, otra absurda suspensión había intervenido justamente en Persia y, como la precedente, no debía haber costado poco, a todos los niveles. La motivación parecía muy fantasiosa, mientras oficialmente se decía que la revocación de los permisos se había debido a algunas infracciones cometidas por la troupe, tales como haber hecho entrar asnos en la mezquita, o mujeres con rostro descubierto y un poco de piel en muestra más de lo debido, o de no haber interrumpido los trabajos durante la plegaria y haber hecho danzar a algunos extras masculinos, aunque perfectamente cubiertas, oficiosamente circulaba la voz, verdadera, que se trataba de una suerte de chantaje a “alto nivel” porque Pasolini no habría adherido a la petición, más o menos ex257
plícita, de hacer trabajar en el filme a un guapo muy robustamente apoyado por la hermana del Sha. La “Conversación” Sin embargo, cada vez que PierPaolo estaba libre mentalmente del trabajo retomaba la conversación acerca del cine, y no para convencerme sólo a mí. Ciertamente mi visión, sustentada en la “teoría de la información”, conocida desde principios de los años ‘50, constituía un fuerte motivo de análisis y estudio. El esquema, que Umberto Eco retomaba en “El Almanaque Bompiani de 1967”, era simple, y también desarmante para intentos de orden “poético”. Los elementos que constituían el proceso de transferencia de la información eran: un “emisor”, un “canal”, un “código” y un “receptor”. Aquello que aparecía impreciso, carente, pero no del todo ausente, ¡era justamente el “código”! Las acrobacias dialécticas que tuve el placer de escuchar de parte de PierPaolo, en el intento de formular una “teoría del lenguaje cinematográfico”, así claramente definida, como era la teoría de la información, me han permitido hablar casi todos los días, por más de tres meses, no sólo con uno de los más importantes ensayistas de cine y literatos del siglo pasado, sino con un director que, diversamente de otros, sólo ensayistas y estudiosos, ¡llevaba sus teorías a sus filmes! Un próvido, cuanto imprevisto y sorprendente interlocutor, tanto para el cine como para la música, y para la cultura clásica había sido Luciano Welsh, el director de sonido, un gentleman que no había logrado ligar con algunas formas de rudeza de actores y componentes de la troupe de modo que, cuando me veía aparentemente no empeñado me alcanzaba para coloquiar. Precisamente Luciano fue el último el úl258
timo en despedirse de mí, persiguiéndome a lo largo de una avenida, diciendo en alta voz y con gran amistad y simpatía “¡No se puede no despedirse de Roberto Villa!”. El regreso y el encuentro Mi regreso de Esfahan había seguido un recorrido diverso del de la llegada. Desde Esfahan había alcanzado Teheran donde me había quedado un par de días, después Kuwait donde había hecho lo mismo, en seguida Roma y Milano. Episodio curioso había sido el de un policía de civil que, en la cima de la escalita que daba acceso al portalón del avión para Teheran, me había pedido la pequeña cámara fotográfica, de medio formato, para tomarme una foto. Tomada la foto me había dicho con un inglés a lo Peter Sellers en el personaje de Hrundi V. Bakshi, “Si era una pistola disfrazada habríamos resuelto el problema. ¡Buen Viaje!” Mientras tanto, gran parte de los más de cien mil metros de película del filme que habían sido filmados, esa primavera a la temperatura de nada menos que 45° a la sombra y 56 al sol. Pero en lo que concierne a las cifras, ésta no era la única que constituía un récord. Mario De Biase, director de producción, había indicado que el filme, producido por la PEA, habría de costar más de mil millones y medio. Encontrar “telones de fondo” o locaciones, esto es los lugares auténticos que Pasolini tenía en mente para su filme, en Nigeria y en Etiopía, en Yemen del Norte y en Yemen del Sur, en Nepal o en Persia, no había sido sólo un costo para viajes y transportes, sino también un conspicuo costo de energías y de esfuerzo por parte del grupo compuesto, por Pasolini, por el ayudante Angelucci, por el asistente Shepherd, por el director de la fotografía, Ruzzolini y por
el director de producción De Biase. Las investigaciones, que habían durado un año, habían continuado aun durante las pausas de elaboración del filme. Pero otras inversiones importantes atestiguaban la intención de la PEA de realizar un “gran filme”. Cuarenta millones habían sido gastados para los trajes que, como ya se me había dicho, habían sido usados sólo en pequeña parte. Cuando me dirigí a Roma, para algunas filmaciones en Cinecittà, debidas a un problema técnico, un rollo de película, tal vez por el demasiado calor, se había deformado y había sido necesario filmar de nuevo esa parte, en la escenografía perfectamente reconstruida por el gran Dante Ferretti, encontré a PierPaolo que pudo ver una selección de las fotos del filme. Era un álbum con cuatrocientas diapositivas. Las había recorrido lentamente con la mirada diciendo, de tanto en tanto, “Qué bellos paisajes... qué bellos colores... qué rostros...” y, con ese genuino estupor del que era capaz, había dicho después “¡Has contado las 1001 noche donde yo soy el actor y tú el director, un filme que no había visto! ¡Un cuento de hadas en el cuento de hadas!” Fotografía y desarreglo. Por qué un fotógrafo habla de Cine Desde pequeño... quería ser escritor... Aunque mi padre no poseía una cámara fotográfica, la fotografía era una cosa de uso muy común en la familia y a la cual estaba designado como “operador”, pero sólo porque el uso de las cámaras fotográficas era complicado, os abuelos, los ancianos, no veían bien, los comandos eran pequeños y escritos en letras chicas, complicados y no los entendían. Las máquinas fotográficas eran siempre un préstamo de los tíos que, más jóvenes y
con varias novias, hacían uso de ellas. Los sistemas de visión del sujeto, muy imprecisos, hacían de modo que en las fotos algunos adultos perdieran la cabeza, cortada por mi pésima interpretación de los delimitadores del encuadre diseñados en la mirilla. Alrededor de los 10 años decidí dar un gran paso, ¡la adquisición de mi propia máquina fotográfica! ¡Era una Comet Bencini del costo de 3.000 liras! Una suma importante, entonces el sueldo promedio mensual ¡oscilaba entre las 15.000 y las 20.000 liras! La Comet era una minúscula máquina fotográfica con el cuerpo en aluminio vaciado a presión. En esos años el aluminio tenía un “gran futuro”. La cámara fotográfica estaba dotada de un objetivo “azulino” y usaba una película denominada 127, cuyas negativos de 30x40 mm, eran sensiblemente más grandes que el formato Leica. La había comprado en “cuotas” y la pagaba a 500 liras al mes. Suma que juntaba realizando modelos de avión, planeadores, y radios “a galena” por encargo de amigos. Mis cuatro hermanos, mamá, papá y todos los parientes, volentes o nolentes, fueron los conejillos de Indias y beneficiarios de mi manía de hacer fotos que arrancaba de las imágenes de los filmes que encontraba en el semanario “Novella film”. El retrato ha sido siempre una necesidad fundamental y ni interés primario. Las fotos eran en blanco y negro. Raramente en colores, películas e impresión costaban demasiado. La curiosidad para con las novedades de la técnica electrónica, que cultivaba contemporáneamente, tenía diversas, interesantes, y fascinantes direcciones: la radio, la grabación magnética, la televisión y la 259
naciente “alta fidelidad” de reproducción. Las costosas revistas norteamericanas de tecnología electrónica que seguía, llevaban, junto a la dificultad de la lengua, mil informaciones y, justamente entre éstas, en 1949 había leído que un lejano pariente de Edison, un ingeniero y matemático, Claude E. Shannon, conjuntamente a un científico y matemático, Warren Weaver, había elaborado “La Teoría de la Información”. Me apareció de inmediato claro que podía “leer” una imagen, un cuadro, una foto, un filme, sin preguntar el sentido de ellos a los “ancianos”, a los sabios de familia. Más tarde, en torno a los catorce años, había iniciado la lectura de complicadísimas revistas de técnica fotográfica, italianas y no, y de ensayos sobre arte y cine todas portadoras de “filosofías” de la realización y de la visión de la imagen. Mientras tanto, como fotógrafo, había llegado a ser un “experto”, también gracias al “laboratorio” de desarrollo e impresión que había creado en el baño de mi caso. No hay que decirlo: imprimía de noche, la obscuridad era indispensable, con la esperanza de que ninguno tuviera urgencias. En esos años, las máquinas de mi propiedad se habían sucedido en con un crescendo; Agfa, Voigtlander, Contax, Edixa, Praktica y, por fin, en 1960 la primera Nikon. Había sido un paso lunar. Mientras desarrollaba mi actividad de fotógrafo aficionado y fingido semi profesional, con pequeños trabajos para revistas locales, para los teatros genoveses, y al mismo tiempo. Continuaba los estudios. La presencia de una cámara fotográfica profesional, de gran nombre y prestigio, como la Nikon, hacía pensar en una profesionalidad auténtica más bien que en un “fotoamador evolucionado”, como se decía entonces, pero de hecho en las pri260
meras armas. Una serie de trabajos, también importantes, para las aspiraciones de un fotógrafo, me habían visto protagonista en los años hasta el ‘70, mientras estudiaba ingeniería electrónica. Colaboraciones significantes, pero extra-fotográficas, como aquélla con el Grupo Studio de Génova, constituido por: Guido Ziveri, Olga Casa, Maurizio Guala, Daniela Zampini y Luigi Tola, y la Famosa Cineteca de Monte Olimpino, con Marcello Piccardo y Bruno Munari, me habían permitido poner a disposición el fruto de mis estudios tanto de la teoría de la información como de cine, de electrónica y de lingüística. Me parecía ser más bien un investigador, un ingeniero prestado a la fotografía que un fotógrafo a pleno título, por lo menos según los cánones “de la época”. Hay que decir también que, en los años ‘70, para ser un fotógrafo, era necesario pedir un permiso de pública seguridad y una licencia comunal para obtener la patente de “fotógrafo ambulante”. Desde ese momento se estaba autorizado, pidiendo el permiso de vez en vez, y pagando una tasa comunal para “ocupación de suelo público”, para apoyar en el suelo un trípode, un caballete, para tomar fotografías. Mientras usaba una de las más avanzadas cámaras fotográficas entonces disponibles, la Nikon F2, la burocracia consideraba la actividad fotográfica como aquélla de los primeros fotógrafos del ‘800, el fotógrafo era considerado como aquél que, dotado de cámara de fuelle y caballete, y de una tienda “capucho”, además de variados alambiques, daba vueltas por las calles para “capturar” imágenes de pasantes, o de paisajes, para hacer su desarrollo inmediato y recibir su compensación. Un agregado burocrático estaba constituido por la obligación de mantener siempre a
disposición de la policía los negativos de las tomas efectuadas. El “Estudio fotográfico” tampoco estaba indicado en las actividades profesionales previstas por la oficina IGE y después IVA. Esta lógica muy restrictiva, sea en términos burocráticos como en términos operativos, me había obligado a inscribirme entre los artesanos como “gráfico publicitario”, condición que, en cambio, permitía usar cualquier instrumento para realizar el propio trabajo, cámaras fotográficas incluidas. La monotonía creativa, de los comitentes, de las publicaciones y de la publicidad de ese tiempo, me había llevado a operar en dos niveles, uno comercial y otro, remunerativamente próximo a cero, pero del más alto nivel cultural posible. La guía para mis elecciones operativas había sido, y es, la construcción de imágenes-documento para la memoria, dotadas de un sentido estético que, diversamente de los comunes conocimientos fotográficos, considerase la fotografía construida con las mismas modalidades de las artes espacio visivas; perspectiva, secciones áureas, relaciones cromáticas, y otras hierbas. En las lecturas, desde los diez años adelante, me había quedado bien impresa la idea, que llegó a ser recurrente que, a los contemporáneos de todos los tiempos, no interesaba nada de su trabajo con respecto al futuro. Una cosa que, aun hoy en día, sigue no siendo clara y tal vez tampoco notorio. La única pregunta que el contemporáneo se ha puesto y se pone, aunque en términos menos elegantes, pero siempre los mismos, es “Qui prodest?” [¿A quién beneficia?] Para las categorías de filmmaker, videomaker, fotógrafos, la falta de una asociación de una valencia cultural para su
profesionalidad era, y es, el problema que ha hecho siempre difícil el libre acceso a cualquier evento cultural donde, no sólo estaba, y está, previsto un costo, sino donde estaba, y está, prevista una serie de complicados permisos burocráticos y otras cosas. No es una casualidad que el Gran Gillo Dorfles, en torno a fines de los años ‘60, en el Teatro dell’ Arte en Milano hubieses acusado a los fotógrafos, con una intencional falta de fair play, de ignorancia. En 1970, en Turín, participando en la proyección de “Alice’s Restaurant” había intervenido varias veces durante una mesa redonda conducida por Ettore Sottsass Jr y Fernanda Pivano. A un cierto punto, con curiosidad, me habían preguntado cuál actividad desarrollaba. Mi respuesta había sido “fotógrafo”. Su réplica, seca y exhaustiva, había sido “pero, por favor. ¡Qué va, fotógrafo!” Más tarde, en 1978, en Milán, en el Primer congreso de semiótica había tenido modo de hablar con Umberto Eco sobre los problemas del lenguaje cinematográfico y fotográfico, concluyendo la conversación yo había preguntado si tenía en programa escribir un libro sobre el lenguaje. Por toda respuesta, inclinó la cabeza hacia adelante y, mirándome de reojo, me preguntó “¿Y después quién lo lee?”. Hay que decir que todo aquello que habría podido escribir probablemente ya estaba contenido en su no irrelevante ensayística y quien hubiese querido informarse ya disponía de una copiosa documentación para ser explorada. Así, mientras yo “trabajaba” para revista, insignificantes en el mercado editorial, había obtenido carnet de prensa y acreditaciones, para fotografiar desde los Beatles a Vittorio Gassman, desde los New Trolls a Dario Fo, desde Alberto Sordi a Giorgio Albertazzi, y así sucesivamente. 261
Visto el bajo crédito del que los “fotógrafos” gozaban, sea entre los periodistas sea en los ambientes culturales en general, mi inscripción a los “gráficos publicitarios”, se había verificado la mejor elección. A esa categoría estaba concedido desarrollar cualquier actividad de “comunicación”, desde las tomas de video a los layouts gráficos, desde las entrevistas escritas a las televisivas, desde las tomas fotográficas a
la grabación magnética de audio, a la producción de discos, y otras cosas. Pero Génova no era la sede mejor para dar el espacio fotográfico adecuado a quien había creído que la “gran fotografía” era la relatada por la prensa de sector. El paso a la actividad profesional se inició en octubre de 1970, con mi transferencia a Milán donde, dos años después habría de encontrar a Pasolini.
Persia - Isfahan - Moschea del Venerdì Uno dei raffinati capitelli Persiani che compaiono in molti punti del complesso architettonico. 262
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Índice de fotografías Página 8 1973, Esfahan, Persia, Mezquita del Viernes. Pasolini y yo manteníamos un debate sobre el concepto de lenguaje del cine. PierPaolo sostenía que el Cine es «el lenguaje de la realidad»; yo, que es «solo es un lenguaje». Vi a PPP con una mano sobre la cámara. Cerca de ahí estaba un actor con la claqueta en la mano; se la pedí y se la llevé a PPP, diciéndole: «PierPaolo, toma esto, te voy a hacer un retrato». Él, tomando la claqueta, me dijo: «pero... es una ficción», y le contesté: «Sí, el cine también es una ficción». Él, acordándose de nuestra discusión, se sonrió, y yo disparé. Es la única foto de él mirando dentro de la cámara y sonriéndole a quien está tomando la foto. Página 10 Aterrizaje de un Douglas Aircraft Company - DC3 – en la rudimentaria “pista” construida en el desierto. En el primer plano, a contraluz, dos militares se protegen del sol bajo las alas de un avión aparcado. La temperatura de aquellos días alcanzaba e incluso rebasaba los 40 grados. Página 11 Descargando «nuestro» DC3 - Dakota – Fue en 1942 cuando la RAF (Royal Air Force) bautizó sus aviones con el nombre de «DAKOTA», que sería su marca distintiva en el mundo entero hasta nuestros días. La excepcional flexibilidad de estas aeronaves se demuestra por su longevidad: todavía hoy no es raro ver algún DC3 surcando los cielos
de todos los continentes. Páginas 16/17 Este DC3, auténtica «carretilla de los cielos» de Alyemda, la compañía aérea conocida como Democratic Yemen Airlines, o más brevemente, Yemen Airlines, que era por aquel entonces la compañía de bandera de Yemen del Sur. Nació en 1971 en Aden tras la nacionalización de la Brothers Air Services, la compañía propiedad de los hermanos Ba Haroon. Páginas 20/21 La gran tradición de la arquitectura árabe aparece bien visible. Las residencias de los poderosos y las pequeñas mezquitas, las viviendas modestas y los grandes edificios institucionales, se visten con paredes blancas y arena y muros de ladrillos cocidos al sol. Páginas 22/23 Shibam - Yemen - Hadramawt - La capital de la dinastía Yafur en el siglo IX, cuando se construyó su grandiosa mezquita, una de las más antiguas de Yemen. La Ciudad de los Rascacielos de ladrillos cocidos al sol, conocida en los tiempos modernos como el Manhattan del desierto. Páginas 26/27 Cielo y alturas, ambos inmanentes en las bajas construcciones de dos plantas de las escuelas o las residencias militares, así como también en los “rascacielos” de ocho plantas de ladrillos cocidos al sol, algunos pintados de blanco y otros de color ocre claro u oscuro, el color típico de las briquetas.
Páginas 30/31 Los senderos de los dromedarios – a los que todos llamaban camellos – eran parte integrante de la película en los momentos de «exterior día», así como, en los de «interior día», en los zocos los extras se mezclaban con la curiosa y omnipresente población local. Páginas 32/33 En los zocos se presentaban personajes que, fascinados por las ropas fantasiosas y coloristas de los extras y protagonistas de la película, se habían vestidos ellos también con sorprendentes atuendos y tocados, como para una ceremonia a la que nunca habrían de participar. Páginas 34/35 Un personaje, un miliciano del Frente de Liberación Nacional, que se había hecho notar varias veces por su imponente armamento, nos había dado a entender que volvería. Y lo hizo, todavía más armado, y esta vez ¡a caballo! Páginas 36/37 La cámara de fotos siempre despertaba curiosidad. Y nunca resultaba difícil encontrar sujetos para retratar, porque ellos mismos se colocaban delante del objetivo, esperando el disparo de aquella fotografía en la que querían estar pero que nunca llegarían a ver. Aquí, en una esquina del zoco, se observa a jóvenes y no tan jóvenes que se habían juntado para hacerse fotografiar. Páginas 40/41 Grupos de mujeres en el zoco en una variedad de
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poses durante una pausa en sus compras. Página 48 Algunos extras simulan transportar frutas y hortalizas fuera del zoco mientras ríen divertidos. Una observación hecha por mí y traducida por el intérprete había provocado una risa general. Página 49 En el zoco, a menudo vivienda, taller, cocina y tienda eran un único y mismo lugar. En este caso, también están presentes los niños, herederos del oficio y del comercio familiar. Página 50 Civiles y militares, con oficiales de uniforme y armados, cautivados y encantados contemplando a Ines Pellegrini que, con su vestimenta europea, aparece como una presencia hermosa e inalcanzable venida de otro mundo. Página 51 Dos milicianos armados es un decir – montando la guardia en una dependencia institucional. Página 52 Milicianos posando orgullosos con sus armas. En aquellos días se sentía en todo Yemen un clima de tensa espera por lo que estaba a punto de suceder, la guerra del Kippur que se desarrollaría del 6 al 25 de octubre de 1973, con la participación del Frente de Liberación Nacional. Página 53 Imagen del palacio real de Sana’a con un grupo de mujeres de negro vestidas con el tradicional burka y dromedarios que han sido atados para que no se alejen de sus dueños. Páginas 58/59 Yemen – Taiz – En el zoco
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– Pasolini, el director de la fotografía Ruzzolini y el fotógrafo de escena Angelo Pennoni, en un momento de reflexión sobre los trabajos en curso. Página 60 Terminada la jornada de rodaje, se ha hecho de noche, aunque en la imagen no lo parezca. Ayudado por seis colaboradores, Pasolini trepa encima de una improvisada escalera con la pesada Arriflex para estudiar cómo hacer las grabaciones el día siguiente. Página 61 Sana’a, esperando a que el equipo de rodaje se reuniera en uno de los puntos menos placenteros. Como se adivina por el color, el agua que se ve no es la de un fresco reguero, sino una cloaca a cielo abierto. Página 62 Una imagen que podría parecer fruto de una minuciosa puesta en escena: al fondo ocho mujeres, a la sombra y cubiertas con sus burkas negros, y al sol, cinco niños con un hombre con turbantes y ropas blancas. Aquel mundo ofrecía imágenes cautivadoras a cada paso. Página 63 En el zoco – La vendedora de tortas, un cliente de espaldas alarga la mano para servirse, mientras la niña mira hacia la cámara con curiosidad.
to y de clientela, así como un colaborador que anima a comprar las carnes que están colgadas a madurar. Página 67 En el zoco – El control del color en grabación para el momento posterior de impresión del filme. El filme se componía de una película en color negativa, que sucesivamente se imprimía en el número de copias necesario para ponerlas en el mercado para su proyección. Página 68 En el zoco - Nur Ed-Din y Zumurrud, respectivamente Franco Merli e Ines Pellegrini, los dos intérpretes principales, sonrientes, en una escena de la película que muestra el encuentro entre ellos. Página 69 En el zoco – Grabando en cámara subjetiva, es decir, como yo vería a la intérprete por el espacio libre entre las dos personas que están delante de mí. Página 72 Retratos. Tantos rostros y de tanta belleza, en entornos tan auténticos y diversos… No se podía no aprovechar la oportunidad de transformar aquel rostro y aquel momento en un documento visual capaz de trascender el tiempo y el espacio para llegar a todos.
Página 64 En el zoco – Carnicería y vivienda juntos, con un cliente ya servido y el dueño de la casa y de la tienda en su papel de padre con el niño jugando al escondite.
Página 74 Retratos complementarios en lo referente tanto al género como al color de la piel: un dignatario de la corte blanco de blanco, y una funcionaria negra de negro. Cómo no iban a capturar nuestra atención.
Página 66 En el zoco – Otra carnicería con más cantidad de produc-
Página 75 Retratos. Dos hermanas de “uniforme” escolar, con tanta
auténtica ilusión por hacerse esta fotografía que no se podía no concedérselo, aunque nunca fueran a ver esta imagen. Página 76 Retratos de niños hermosísimos con madres de diversas procedencias sociales, y bellos rostros de mujeres maduras y de hombres ancianos. Un deleite para fotógrafos. Página 78 Ella sobre el trono, una ficción, es un joven ítalo-persa quien interpreta a la esposa del príncipe, ficción dentro de la ficción, representado por la esclava Zumurrud. Un dignatario de corte con ropa colorida como la quería Pasolini. Detrás, otro dignatario curioseando durante la foto. Página 79 Salvatore Sapienza y Salvatore Verdetti, respectivamente Yunan y Barsúm en el relato cinematográfico, durante el estudio del script. Páginas 82/83 Pasolini había declarado: «Será una película llena de color». El vestuario creado por Danilo Donati cumplió la misión con sobresaliente. Páginas 84/85 Los trajes de los locales, con sus tejidos y sus estampados, aportaron en ocasiones una contribución destacada, como bien testimonian las imágenes. Página 86 Los ropajes creados por Danilo Donati supieron enmarcar rostros sobrecogedores de yemeníes jóvenes y no tan jóvenes. Página 87 Este jovencísimo militar de catorce años fue reclutado por el ejército en lugar du su
padre caído en la guerra infinita contra Yemen del Norte. Franco Citti, intérprete del Demonio en la película, uno de los pocos autores profesionales con quien Pasolini ya había trabajado. Constituye una presencia recurrente en sus realizaciones desde el principio de los años 60. Página 89 Primerísimo plano de Ines Pellegrini, la protagonista femenina de la película en el papel de Zumurrud Página 90 Retrato de Nur Ed-Din, el romano Franco Merli, el protagonista masculino de la intricada historia en la que los dos intérpretes principales se buscan el uno a la otra a lo largo de la toda la película. Página 92 Dos retratos de encuentros reales acaecidos en el zoco y que, como si de una puerta giratoria se tratase, entraron y salieron del grupo de los extras sin necesidad de cambiar de atuendo. Página 93 Un dignatario de corte con los opulentes y coloridos ropajes deseados por el director y diseñados por Donati. Página 94 La imagen hierática y de gran carisma de este dignatario se funda en un rostro parcialmente ensombrecido por la capucha y una mirada fija y pensativa. Página 108 Momentos de la ceremonia de la boda del Rey. En detalle, las vestimentas y los huéspedes del pueblo, valiosas ánforas de metales preciosos para manjares igualmente especiales.
Página 109 Vista total del baldaquino con los novios y los dignatarios de corte formando dos alas. En la historia, a Zumurrud, disfrazada de hombre, le ofrecen una esposa que no puede rechazar, so pena de perder la vida. Página 112 Persia - Esfahan- Interiores de la Mezquita del Viernes – Los dignatarios rinden homenaje al Rey y a la Reina. Pag 113 Roma - Cinecittà - Repetición de una escena rodada en Yemen, ya que la caja metálica de la película filmada se había quedado expuesta al sol accidentalmente, deformándose, por lo que se hizo necesario reconstruir el ambiente como el original y repetir toda la escena con Nur Ed-Din y Zumurrud. Páginas 118/119 Persia - Esfahan - Exteriores de la Mezquita del Viernes. Durante las pausas del rodaje había alguien que nunca se detenía: era Él, el Director. Página 120 Persia - Esfahan - Exteriores de la Mezquita del Viernes. Pasolini, al centro de la imagen, y al centro del espacio ocupado por un centenar de extras, define cuáles han de ser los siguientes movimientos de la cámara. En primer plano la claqueta, justo detrás la secretaria de redacción, que se esconde, y el director de la fotografía. Página 121 El Director controlaba todos y cada uno de los momentos de cada secuencia, cuando no se ponía a grabar él mismo, sustituyendo al cámara. Página 124 Persia - Esfahan - Exteriores de la Mezquita del Viernes.
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La multitud de los invitados al banquete nupcial, sentados en círculos que corresponden a las familias de poder en la corte del Rey. Página 125 Grandes jarras de metal incrustado y amplias bandejas con valiosos adornos traen bebidas no alcohólicas y platos con manjares de “mil y una noches”. Páginas 126/127 Persia - Esfahan – Exteriores de la Mezquita del Viernes. Pasolini, rodeado de colaboradores, trabaja directamente con la Arriflex que, con ópticas, parasol, motor eléctrico y película, rondaba los 25 kg de peso. Página 130 Persia - Esfahan – Interiores de la Mezquita del Viernes. Todo está detenido. Un momento de pausa. Todos esperan la próxima invitación de Pasolini a recomponerse para el rodaje. Página 131 Más interiores en la Mezquita del Viernes. Pasolini, incansable, rueda con la cámara provista de un potente teleobjetivo. Página 132 Persia - Esfahan – Exteriores de la Mezquita del Viernes. Pasolini graba un primer plano de Zumurrud. Página 133 Persia - Murcheh Khvort - Un momento del encuentro de Nur-ed-Din con las “gordas”. Página 134 Mezquita del Viernes. Franco Citti no pudo resistirse a la idea de ser fotografiado detrás de la cámara como su maestro. Página 135 Persia - Irán - Murcheh Khvort - Gideon Bachmann,
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un famoso cineasta alemán, graba a Pasolini mientras este indica los movimientos y los recorridos de los actores en el jardín que se encuentra en el nivel inferior. Página 136 Persia - Irán - Murcheh Khvort - Nur Ed-Din encima del Jardín delle Grassone, donde está a punto de ser descendido. Página 137 Yemen - Taiz – El equipo de rodaje mientras espera acceder al lugar donde se grabarán las escenas de la Sala del Demonio con Franco Citti Páginas 138/139 Persia - Irán - Murcheh Khvort - El posicionamiento de la cámara para filmar el Jardín delle Grassone. Páginas 146/147 Yemen - Taiz- Episodio de la “Sala del Demonio” con Franco Citti y Alberto Argentino (Shahzamàn), el cual, a causa de su cobardía, será transformado en mono por el Demonio.
Páginas 160/161 Yemen - Taiz- El asistente de dirección Umberto Angelucci, Alberto Argentino y PierPaolo Pasolini discuten las modalidades de filmación mientras detrás de ellos se aleja el escenógrafo Dante Ferretti, ganador de tres premios Óscar. Página 162 Yemen - Taiz- Una “pausa café” que reúne a Argentino, Pasolini, varias personas más en movimiento y el escenógrafo ganador de varios premios Óscar Dante Ferretti. Página 163 Yemen - Taiz- Pasolini explica los movimientos de la escena siguiente a Citti y Argentino. Páginas 172/173 Yemen - Taiz- Barbara Grandi, víctima predestinada del demonio, literalmente “crucificada” por la cobardía de Shahzamàn y la crueldad del Demonio.
Páginas 150/151 Yemen - Taiz- La Sala del Demonio. Franco Citti, el Demonio, se encuentra con Shahzamàn, después de que este haya pervertido a su esclava, la cual será castigada cortándole las manos.
Páginas 174/175 Irán - Esfahan - Mezquita del Viernes - En la Sala de los Espejos, en el altillo ideado por Dante Ferretti, construido especialmente y “blindado”, Pasolini graba con Peter Shepherd, asistente de dirección, el director de la fotografía y la secretaria de edición Beatrice Banfi.
Páginas 152/153 Yemen - Taiz- La Sala del Demonio. El director de la fotografía toma las medidas para el movimiento de la cámara entre los dos amantes, Alberto Argentino (Shahzamàn) y Barbara Grandi (la esclava).
Página 176 Irán - Esfahan - Mezquita del Viernes – En la Sala de los Espejos, durante una pausa en la grabación, Pasolini sonriente les pregunta a los dos intérpretes: «¿Sabéis lo que estáis interpretando?», y ellos: «¡No!»
Páginas 158/159 Yemen - Taiz- La Sala del Demonio, donde se consuma la “traición” entre Shahzamàn y Barbara Grandi, la esclava.
Página 177 En la Sala de los Espejos, los espacios angostos obligaron al asistente Shepherd a auténticas contorsiones.
Página 178 En la Sala de los Espejos se observa un intenso ajetreo ante la grabación de las últimas secuencias de la historia. Página 179 Mientras Franco Merli ayuda a Ines Pellegrini a sujetar los bordes de su vestido, Pasolini sigue moviéndose a grandes pasos para establecer los puntos mejores para los “campo-contracampo” que va a realizar. Página 182 Sala de los Espejos. Ines Pellegrini esperando la orden de rodar, que animará también Franco Merli, en las últimas escenas de la historia. Página 183 Pasolini graba la escena desde un punto de vista más alto, el proprio del ojo, con el apoyo del operador, mientras el fotógrafo de escena realiza su tarea.
Página 184 Zumurrud, todavía caracterizado como Rey, espera pacientemente el desarrollo de su historia. Página 185 Pasolini, con la ayuda del cámara, toma una serie de imágenes a media altura, la que mejor puede describir lo que ocurre en el lecho de las revelaciones con planos enteros y primeros planos. Páginas 186/187 Sala de los Espejos. Mientras las luces y las máquinas se preparan para grabar, Salvatore Sapienza ayuda exponiendo la paleta de colores ante la cámara. Páginas 190/191/192 En la Sala de los Espejos, Zumurrud le revela a Nur EdDin que ella es su amada, y no el Rey como él creía. Una vez más Pasolini, flanqueado por el director de la fotografía Peppino Ruzzolini, no graba las secuencias de las escenas finales de la película
a mano libre, sino con un sólido trípode, junto a la secretaria de edición y al asistente de dirección, mientras Ines Pellegrini se despoja de la vestimenta real que ocultaba su feminidad. Página 230 Persia - Esfahan - Mezquita del Viernes – Interiores, detalles decorativos que se alternan con los mosaicos de diminutas teselas azules que revisten el exterior de la Mezquita. Página 234 Persia - Esfahan - Mezquita del Viernes – Una de las grandes explanadas de esta inmensa mezquita. Páginas 263 Persia - Esfahan - Mezquita del Viernes – Uno de los refinados capiteles persas que figuran en muchos puntos del complejo arquitectónico.
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Il film Il fiore delle mille e una notte Regia e sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini, liberamente ispirata a Le Mille e una notte (in particolare la Storia di Ali Shar e della schiava Zumurrud, Storia di Azíz e Aziza, Storia dei re Shariyàr e Shahzamàn, Storia del facchino e delle ragazze, Storia di Harún ar-Rashíd e di Zobeida, Storia di Abu Nuwàs e di Harún ar-Rashíd, Harún ar-Rashíd e le due schiave, Harún ar-Rashíd e le tre schiave, Storia del re Omar an-Numàn, Storia dell’amante e dell’amato: Tagi al-Mulúk e Dúnya) Collaborazione alla sceneggiatura: Dacia Maraini Fotografia: Giuseppe Ruzzolini Operatore: Alessandro Ruzzolini Assistente operatore: Marcello Mastrogirolamo Scenografia: Dante Ferretti Costumi: Danilo Donati Costumi: realizzati dalla ditta Farani Musica: Ennio Morricone Suono: Luciano Welisch Montaggio: Nino Baragli, Tatiana Casini Morigi Assistente montaggio: Ugo De Rossi Aiuto Montaggio: Alfredo Menchini Aiuto regia: Umberto Angelucci, Peter Shepherd, Sergio Citti (non accreditato) Fotografo di scena: Angelo Pennoni Segretaria di edizione: Beatrice Banfi Parrucchiera: Iole Cecchini Truccatore: Massimo Cecchini Edizione: Enzo Ocone Interpreti: Franco Merli (Nur ed-Din) Ines Pellegrini (Zumurrud) Ninetto Davoli (Azíz) Tessa Bouché (Aziza) Franco Citti (il demone) Margareth Clementi (madre di Azíz) Luigina Rocchi (Budur) Francesco Paolo Governale (principe Tagi) Elisabetta Vito Genovese (Munis) Abadit Ghidei (Principessa Dúnya) Giana Idris (Giana) Alberto Argentino (Shahzamàn) 273
Salvatore Sapienza (Yunàn) Fessazion Gherentiel (Berhame) Gioacchino Castellini Salvatore Verdetti (Barsúm) Zeudi Biasolo, Barbara Grandi, Luigi Antonio Guerra, Francelise Noel, Christian Alegny, Jocelyn Munchenbach, Jeanne Gauffin Mathieu, Franca Sciutto Produzione: Alberto Grimaldi per PEA (Roma)/Les Productions Artistes Associés (Parigi) Direttore di produzione: Mario Di Biase Ispettori di produzione: Giuseppe Banchelli, Alessandro Mattei Segretaria di produzione: Carla Crovato Ufficio stampa: Nico Naldini Sincronizzazione: NIS Film Roma Missaggio: Fausto Ancillai Amministratori: Daniele Tiberi, 274
Maurizio Forti Effetti speciali ottici: Rank Film Labs Inghilterra Riprese: 2 marzo - 5 settembre 1973 Pellicola: Kodak Eastmancolor Formato: 35 mm, colore Macchine da ripresa: Arriflex Studi: stabilimenti DEAR, Roma Distribuzione: United Artists Europa Prima proiezione pubblica: Festival di Cannes, 20 Maggio 1974 Origine: Italia-Francia, 1974 Durata: 129” Gran Premio speciale della Giuria al Festival di Cannes 1974 (versione di 150”). Autorizzazione del Ministero del Turismo e dello Spettacolo: Nulla osta n. 64574 dell‟11 maggio 1974. Vietato ai minori di anni 18.
The movie A thousand and one nights (arabian nights) Direction and Screenplay: Pier Paolo Pasolini, loosely based on A Thousand and one Nights (specifically: Story of Ali Shar and of the slave Zumurrud, Storiy of Azíz and Aziza, Story of the kings Shariyàr and Shahzamàn, Story of the porter and of the maidens, Story of Harún ar-Rashíd and Zobeida, Story of Abu Nuwàs and Harún ar-Rashíd, Harún ar-Rashíd and the two slaves, Harún ar-Rashíd and the three slaves, Story of King Omar an-Numàn, Story of the lover and of the beloved: Tagi al-Mulúk and Dúnya) Screenplay written in collaboration with: Dacia Maraini Photography: Giuseppe Ruzzolini Operator: Alessandro Ruzzolini Assistant operator: Marcello Mastrogirolamo Scenic design: Dante Ferretti Costumes: Danilo Donati Costumes: realised by Farani Soundtrack: Ennio Morricone Sound: Luciano Welisch Editing: Nino Baragli, Tatiana Casini Morigi Editing assistant: Ugo De Rossi Editing assistant: Alfredo Menchini Director assistant: Umberto Angelucci, Peter Shepherd, Sergio Citti (not in the credits) Stage photographer: Angelo Pennoni Edition secretary: Beatrice Banfi Hairdresser: Iole Cecchini Make up artist: Massimo Cecchini Edition: Enzo Ocone Cast: Franco Merli (Nur ed-Din), Ines Pellegrini (Zumurrud), Ninetto Davoli (Azíz), Tessa Bouché (Aziza), Franco Citti (the Demon), Margareth Clementi (Azíz’s mother), Luigina Rocchi (Budur), Francesco Paolo Governale (prince Tagi), Elisabetta
Vito Genovese (Munis) Abadit Ghidei (Princess Dúnya), Giana Idris (Giana) Alberto Argentino (Shahzamàn) Salvatore Sapienza (Yunàn) Fessazion Gherentiel (Berhame) Gioacchino Castellini, Salvatore Verdetti (Barsúm), Zeudi Biasolo, Barbara Grandi, Luigi Antonio Guerra, Francelise Noel, Christian Alegny, Jocelyn Munchenbach, Jeanne Gauffin Mathieu, Franca Sciutto Production: Alberto Grimaldi per PEA (Rome)/Les Productions Artistes Associés (Paris) Executive producer: Mario Di Biase Production supervisors: Giuseppe Banchelli, Alessandro Mattei Production secretary: Carla Crovato Press office: Nico Naldini Sync: NIS Film Rome Mixing: Fausto Ancillai Administrators: Daniele Tiberi, Maurizio Forti Special optic effects: Rank Film Labs England Filming: 2nd March – 5th September 1973 Film: Kodak Eastmancolor Size: 35 mm, colore Cameras: Arriflex Studios: stabilimenti DEAR, Rome Distribution: United Artists Europe First screening: Cannes Film Festival, 20th May 1974 Origin: Italy - France, 1974 Duration: 129” Jury Prize at the Cannes Film Festival, 1974 ( 150” version). Authorisation of the Ministry of Tourism and of the Show Business: Nulla osta n. 64574 dell’11 maggio 1974. Vision forbidden to the under-age.
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El film La flor de las mil y una noches Dirección y guion: Pier Paolo Pasolini, libremente inspirada en Las Mil y una noche (en particular la Historia de Ali Shar y de la esclava Zumurrud, Historia de Azíz y Aziza, Historia del rey Shariyàr y Shahzamàn, Historia del cargador y de las muchachas, Historia de Harún ar-Rashíd y de Zobeida, Historia de Abu Nuwàs y de Harún ar-Rashíd, Harún ar-Rashíd y las dos esclavas, Harún ar-Rashíd y las tres esclavas, Historia del rey Omar an-Numàn, Historia del amante y del amado: Tagi al-Mulúk y Dúnya) Colaboración al guion: Dacia Maraini Fotografía: Giuseppe Ruzzolini Operador: Alessandro Ruzzolini Ayudante de operador: Marcello Mastrogirolamo Escenografía: Dante Ferretti 276
Vestuario: Danilo Donati Trajes: realizados por la firma Farani Música: Ennio Morricone Sonido: Luciano Welisch Montaje: Nino Baragli, Tatiana Casini Morigi Ayudante de montaje: Ugo De Rossi Ayudante de Montaje: Alfredo Menchini Ayudante de dirección: Umberto Angelucci, Peter Shepherd, Sergio Citti (no acreditado) Fotógrafo de escena: Angelo Pennoni Secretaria de edición: Beatrice Banfi Peluquera: Iole Cecchini Maquillador: Massimo Cecchini Edición: Enzo Ocone Intérpretes: Franco Merli (Nur ed-Din), Ines Pellegrini (Zumurrud), Ninetto Davoli (Azíz) Tessa Bouché (Aziza), Franco Citti (il demone), Margareth Clementi (madre di Azíz), Luigina Rocchi (Budur), Francesco
Paolo Governale (principe Tagi), Elisabetta Vito Genovese (Munis), Abadit Ghidei (Principessa Dúnya), Giana Idris (Giana), Alberto Argentino (Shahzamàn), Salvatore Sapienza (Yunàn), Fessazion Gherentiel (Berhame), Gioacchino Castellini,Salvatore Verdetti (Barsúm), Zeudi Biasolo, Barbara Grandi, Luigi, Antonio Guerra, Francelise Noel, Christian Alegny, Jocelyn Munchenbach, Jeanne Gauffin Mathieu, Franca Sciutto Producción: Alberto Grimaldi per PEA (Roma)/Les Productions Artistes Associés (Parigi) Director de producción: Mario Di Biase Inspectores de producción: Giuseppe Banchelli, Alessandro Mattei Secretaria de producción: Carla Crovato Oficina de prensa: Nico Naldini Sincronización: NIS Film Roma
Mixage: Fausto Ancillai Administradores: Daniele Tiberi, Maurizio Forti Efectos especiales ópticos: Rank Film Labs Inghilterra Filmaciones: 2 marzo - 5 settembre 1973 Película: Kodak Eastmancolor Formato: 35 mm, colore Máquinas de filmación: Arriflex Estudiosa: establecimientos DEAR, Roma Distribución: United Artists Europa Primera proyección pública: Festival di Cannes, 20 de mayo de 1974 Origen: Italia-Francia, 1974 Duración: 129” Gran Premio especial de Jurado en el Festival di Cannes 1974 (versión de 150”). Autorización del Ministerio del Turismo y del Espectáculo: Nulla osta n. 64574 del 11 de mayo de 1974. Prohibido a los menores de 18 años. 277
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Biografia Nato a Genova il 21 settembre del 1937, Roberto Villa risiede e lavora a Milano. Laureato in elettronica, costituisce nel 1957 la società AudioVisualCommunication che, oltre a operare come studio fotografico e pubblicitario, svolge anche attività di didattica nell’ambito della comunicazione audiovisiva. Dopo avere partecipato con Bruno Munari e Marcello Piccardo a progetti di ricerca e didattica sul linguaggio audiovisivo, Villa studia computergrafica al MIT (Massachussets Institute of Technology). Dal 1962 al 1969 opera a Genova con la Galleria di arte d’avanguardia Carabaga, frequentata da Ceccato, Chiesa, Fontana, Laura, Quartucci, Strehler, Piccardo e dallo stesso Munari. Nello stesso periodo inizia a collaborare con la televisione realizzando alcuni caroselli e scrive articoli per il quotidiano “Il Lavoro” di Genova, per la rivista di fotografia “Popular photography” e per altre testate. Nel 1967 inizia l’attività amatoriale di fotografo e nel 1969 diviene art director della rivista “Fotografiamo”. Dal 1973 collabora con “Playboy” e realizza numerosi servizi anche per “Arbiter”, “Petronio”, “Vogue”, “Photo Magazine”, “Harper’s Bazaar”, “Esquire”, “Photo13”, “Epoca”, “National Geographics”, “Manchete”, “Amica”, “Gioia” e “Grazia”. Nel 1973 viaggia nello Yemen e in Iran per un servizio fotografico dedicato ad una lunga serie di riprese del film Il fiore delle Mille e una notte di Pier Paolo Pasolini. L‟anno dopo, è sul set del film di Alberto Sordi Finché c’è guerra c’è speranza. All’inizio degli anni settanta collabora con la Rai come assistente alla regia e nel 1973 realizza le riprese fotografiche e televisive dello spet-
tacolo Pilato sempre, diretto e interpretato da Giorgio Albertazzi. Nel 1974 estende l’attività della sua agenzia, che da allora collabora con Aiwa, Mitsubishi, Tandberg, Olympus, Philips, Canton, gli editori Rusconi e Rizzoli. Sarà la prima ad adottare il personal computer IBM, importato dagli Stati Uniti. A partire dal 1978 cura la registrazione e l’edizione su LP e CD di numerose interpretazioni di celebri jazzisti quali Eddie Miller, Lino Patruno, Severino Gazzelloni, Spigle Wilcox, Enrico Intra, Bud Freeman, Carlo Bagnoli, Teddy Wilson, Tullio De Piscopo e W.B. Davison, Walter Ganda, Bob Wilber, Oscar Klein, Ralph Sutton, Woody Herman e Yank Lawson. Negli anni Ottanta collabora all’”Enciclopedia Multimediale Grolier”, a “La Domenica del Corriere” (utilizzando pionieristicamente l’illustrazione digitale e la foto elettronica), a “Millecanali”, all’Enciclopedia Multimediale edita da Kosmos, al “Fotonotiziario”; nel 1988 è incaricato della direzione tecnica della rivista “Monitor”, nel 1992 è responsabile della fotografia digitale per la rivista “Creative”, mentre nel 1994 è direttore tecnico di “Geotec”, rivista di architettura e tecnologie per l’edilizia. Svolge anche un’intensa attività didattica: nel 1968 tiene seminari sulla ripresa e regia televisiva per l’AFIP - Associazione Fotografi Italiani Professionisti; dal 1977 al 1980 insegna semiologia e fotografia presso l’Istituto Europeo di Design a Milano; nel 1979 dirige i corsi di formazione professionale per Sharp sulle tecniche di ripresa; nel 1990 collabora con la Thomson France, partecipando a stage sull’utilizzo del digitale e della TV a 16:9. Nello stesso anno, progetta e conduce il corso di scenografia digitale 281
per il COR (Centro Operativo Regione Lombardia). Nel 1993 partecipa al Sicof e a Icographics con il progetto di fotografia virtuale cui lavora da oltre un decennio e l’anno successivo organizza un convegno sulla realtà virtuale a Milano. Nel 1995 cura un ciclo di seminari per la facoltà di architettura dell’Università di Milano e dal 1996 tiene corsi di comunicazione e nuove tecnologie per la Regione Lombardia. Per il Fondo Sociale Europeo, tra il 1998 e il 2000,
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progetta e tiene corsi di archiviazione multimediale di beni culturali, telelavoro e internet, art direction multimediale e fotografia digitale. Nel 2008 Roberto Villa ha donato alla Cineteca di Bologna il suo archivio, comprendente fotografie, pubblicazioni e preziosa strumentazione tecnica audio, video e fotografica utilizzata durante tutta la sua attività. Si è così costituito il Fondo Roberto Villa, conservato dall’Archivio Fotografico della Cineteca di Bologna.
Biography Roberto Villa (21st September 1937), born in Genoa, currently lives and works in Milan. Graduated in Electronic Engineering, he created in 1957 the AudioVisualCommunication company, which works as a photographic and advertising agency and which also offers many didactic activities in the field of audio and visual communication. Villa studied computer graphics at the MIT (Massachussets Institute of Technology) after having worked with Bruno Munari and Marcello Piccardi in many research and didactic projects on the audiovisual language. From 1962 to 1969 he worked in Genoa at the Carabaga avantgarde art gallery, which was attended by Ceccato, Chiesa, Fontana, Laura, Quartucci, Strehler, Piccardo and by Munari too. In the same period he started to work with the television realising some carousels (advertising campaigns) and he wrote articles for the “Il Lavoro” newspaper in Genoa, for the photography magazine “Popular photography” and many others newspapers. In 1967 he started his amateur photographic activity and in 1969 he became art director of the “Fotografiamo” magazine. Since 1973 he had been collaborating with Playboy, he realised shootings for “Arbiter”, “Vogue”, “Photo Magazine”, “Harper’s Bazaar”, “Esquire”, “Photo13”, “Epoca”, “National Geographics”, “Manchete”, “Amica”, “Gioia” and “Grazia”. In 1973 he travelled in Yemen and Iran for a shooting on the filming of Thousand and One nights by Pier Paolo Pasolini. The following year he was on the set of Alberto Sordi Finché c’è guerra c’è speranza.
At the beginning of the Seventies he collaborated with RAI as assistant director and in 1973 he realised the photographic and television shooting for the show Pilato sempre, directed and interpreted by Giorgio Albertazzi. In 1974 he expanded the activity of his agency, which since then had worked with Aiwa, Mitsubishi, Tandberg, Olympus, Philips, Canton and the publishers Rusconi and Rizzoli His company has been the first in Italy to use the personal computer IBM, imported from the US. Since 1978 he had edited the recording and the publication on LP and CD of numerous interpretations of famous jazz players such as: Eddie Miller, Lino Patruno, Severino Gazzelloni, Spigle Wilcox, Enrico Intra, Bud Freeman, Carlo Bagnoli, Teddy Wilson, Tullio De Piscopo and W.B. Davison, Walter Ganda, Bob Wilber, Oscar Klein, Ralph Sutton, Woody Herman, Yank Lawson. In the Eighties he collaborated with the “Multimedia Encyclopaedia” Grolier, with “La Domenica del Corriere” (where he was a pioneer in the use of the digital illustration and of the electronic pictures) with “Millecanali”, with the “Multimedia Encyclopaedia” published by Kosmos, with “Fotonotiziario”. In 1988 he was the technical director of the “Monitor” magazine; in 1992 he was the digital photography manager for the “Creative” magazine and in 1994 he is the techical director of “Geotec”, a magazine of architecture and building technologies. He also had a massive didactic activity: in 1968 he lectured on television shooting and direction for the AFIP (Italian Professional Photographer Association); from 1977 to 1980 he taught semiology and photography at the IED (Institute 283
of European Design) in Milan; in 1979 he supervised the classes of professional education for Sharp on the filming techniques; in 1990 he collaborated with Thomson France, taking part to a workshop on the digital cable and on TV in 16:9. On that same year, he organised and taught the course of digital set design for the COR (Operative Centre of Lombardy). In 1993 he took part to Sicof and to Icographics with a project on virtual photography on which he had been working for over a decade. The following year he organised a conference on virtual reality in Milan. In 1995 he supervised a cycle of lectures for the faculty of Architecture at the University of Milan and in 1996
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he taught communication and new technologies for the Lombardy Region. Between 1998 and 2000 he organised and taught for the FSE (Social European Fund) courses of multimedia archiving of cultural resources, tele-work and internet, multimedia art direction and digital photography. In 2008 Roberto Villa donated to the Cineteca (Film Library) of Bologna his archive, which included: photographies, publications and the precious audio, visual and photographic equipment he used during all his career. Thus, the Roberto Villa Collection was created, which is presently kept in the Photographic Archives of the Film Library in Bologna.
Biografía Nacido en Génova el 21 de septiembre de 1937, Roberto Villa reside y trabaja en Milán. Titulado en electrónica, constituye en 1957 la sociedad AudioVisualCommunication que, además de operar como estudio fotográfico y publicitario, desarrolla también actividad de didáctica en el ámbito de la comunicación audiovisival. Después de haber participado con Bruno Munari y Marcello Piccardo en proyectos de investigación y didáctica sobre el lenguaje audiovisual, Villa estudia computergráfica en el MIT (Massachussets Institute of Technology). Desde 1962 a 1969 opera en Génova con la Galleria di arte d‟avanguardia Carabaga, frecuentada por Ceccato, Chiesa, Fontana, Laura, Quartucci, Strehler, Piccardo y por el mismo Munari. En el mismo período empieza a colaborar con la televisión realizando algunos carruseles publicitarios y escribe artículos para el cotidiano “Il Lavoro” de Génova, para la revista de fotografía “Popular photography” y para otras publicaciones. En 1967 comienza la actividad amatorial de fotógrafo y en 1969 llega a ser director de arte de la revista “Fotografiamo”. Desde 1973 colabora con “Playboy” y realiza numerosos servicios también para “Arbiter”, “Petronio”, “Vogue”, “Photo Magazine”, “Harper’s Bazaar”, “Esquire”, “Photo13”, “Epoca”, “National Geographics”, “Manchete”, “Amica”, “Gioia” y “Grazia”. En 1973 viaja a Yemen e Iran para un servicio fotográfico dedicado a una larga serie de filmaciones del filme La flor de la Mil y una noche de Pier Paolo Pasolini. El año después, está en el set del filme de
Alberto Sordi Hasta que hay guerra hay esperanza. Al inicio de los años setenta colabora con la Rai como ayudante de dirección y en 1973 realiza la tomas fotográficas y televisivas del espectáculo Pilato sempre, dirigido e interpretado por Giorgio Albertazzi. En 1974 extiende la actividad de su agencia, que desde entonces colabora con Aiwa, Mitsubishi, Tandberg, Olympus, Philips, Canton, los editores Rusconi y Rizzoli. Será la primera en adoptar el personal computer IBM, importado desde los Estados Unidos. A partir de 1978, se encarga de la grabación y la edición en LP y CD de numerosas interpretaciones de célebres jazzistas tales como Eddie Miller, Lino Patruno, Severino Gazzelloni, Spigle Wilcox, Enrico Intra, Bud Freeman, Carlo Bagnoli, Teddy Wilson, Tullio De Piscopo e W.B. Davison, Walter Ganda, Bob Wilber, Oscar Klein, Ralph Sutton, Woody Herman, Yank Lawson. En los años Ochenta colabora en la ‟Enciclopedia Multimediale Grolier, en “La Domenica del Corriere” (utilizando pionierísticamente la ilustración digital y la foto electrónica), en “Millecanali”, en la Enciclopedia Multimediale editada por Kosmos, en el “Fotonotiziario”; en 1988 se le encarga la dirección técnica de la revista “Monitor”, en 1992 es responsable de la fotografía digital para la revista “Creative”, mientras en 1994 es director técnico de “Geotec”, revista de arquitectura y tecnologías para la edilicia. Desarrolla también una intensa actividad didáctica: en 1968 dicta seminarios sobre la filmaciones y dirección televisiva para la AFIP - Asociación de Fotógrafos Italianos Profesionales; desde 1977 a 1980 enseña semiología y fotografía en el Istituto Europeo di Design en Milán; 285
en 1979 dirige los cursos de formación profesional para Sharp sobre las técnicas de filmación; en 1990 colabora con la Thomson France, participando como pasante en la utilización del digital y de la TV en 16:9. En el mismo año, proyecta y conduce el curso de escenografía digital para el COR (Centro Operativo Región Lombardía). En 1993 participa al Sicof y a Icographics con el proyecto de fotografía virtual en el que trabaja desde más de una década y el año sucesivo organiza un congreso sobre la realidad virtual en Milán. En 1995 se encarga de un ciclo de seminarios para la facultad de arquitectura de la Universi-
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dad de Milán y desde 1996 dicta cursos de comunicación y nuevas tecnologías para la Región Lombardía. Para el Fondo Social Europeo, entre 1998 y el 2000, proyecta y dicta cursos para preparación de archivos multimediales de bienes culturales, teletrabajo e internet, dirección artística multimedial y fotografía digital. En 2008, Roberto Villa ha donado a la Cineteca de Boloña su archivo, que incluye fotografías, publicaciones y precioso material técnico audio, video y fotográfico utilizado durante toda su actividad. Se ha constituido así el Fondo Roberto Villa, conservado por el Archivo Fotográfico de la Cineteca de Boloña.
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Le immagini del Fiore delle mille e una notte in giro per il mondo 2010 A Coruña - Spagna - Fundación Luis Seoane 2011 Bologna - Cineteca di Bologna - Expo 6 mesi 2011 Roma - Int Film Festival - scenografi Oscar Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo 2011 Roma - Università Roma Tre Dams - Teatro Palladio Proiezione 2012 Sao Paulo - MSI - Museu de Imagem e do Som - Consolato e IIC 2012 Casarsa della Delizia - Centro Studi Pasolini -3 mesi 2012 New York - MoMA - Expo limitata ad un piccolo gruppo di foto 2013 Londra - Istituto Italiano di Cultura 2013 Buenos Aires - Ambasciata Consolato Istituto Italiano Cultura 2013 Buenos Aires - Cinemateca Argentina- Fotogalería San Martín 2013 Los Angeles - Consolato e IIC - Hammer Museum 2013 Tallinn - Estonia - Architecture Design Gallery - Ambasciata e IIC 2013 Tallinn - Estonia - Proiezione Baltic Film Media University 2013 Tallinn - Estonia - Palazzo del Parlamento - Comm. Interparlamentare Estone 2013 Milano - Milano Art Gallery 2014 Toronto - Canada - proiezione al TIFF (Toronto International Film Festival) 2014 Toronto - Canada - Expo - Istituto Italiano di Cultura 2014 Milano - Biblioteca Comunale Sicilia - Proiezione 2014 Genova - Palazzo Ducale - Art Commission 2014 Chia - Viterbo - Comune Soriano nel Cimino - Gruppo Roccaltia 2014 Lima - Perù - Ambasciata - Istituto Italiano di Cultura 2014 Spoleto - Festival dei due Mondi - Curatore della mostra Vittorio Sgarbi 2014 Lecce - Castello Carlo V - Curatore Mostra prof Gianni Canova Preside IULM 2014 Como - Broletto - Curatrice Barbara Lombardi - Rosaria Gioia 2014 Venezia - Palazzo Rota Ivancich - Curatore prof Vittorio Sgarbi - Salvo Nugnes 2014 Casarsa della Delizia - Centro Studi Pasolini - Curatore prof. Angela Felice “Pasolini 1972-1973 - 36 ritratti” 2015 Minsk - Bielorussia - in attesa di data 2015 Edimburgo - Scozia - In attesa di data 2015 Sono prenotate altre decine di mostre in Italia ed all’estero Patrocini 2 Lettere del Presidente della Repubblica Presidenza della Repubblica Italiana Ministero dei Beni Culturali Regione Umbria Regione Veneto Provincia di Venezia Roma Capitale Comune di Bologna Comune di Casarsa della Delizia Comune di Como Comune di Genova 288
Comune di Lecce Comune di Milano Comune di Soriano Comune di Spoleto Comune di Venezia Vittoriale degli Italiani The images of Thousand and One Nights around the world 2010 A Coruña - Spagna - Fundación Luis Seoane 2011 Bologna - Cineteca di Bologna - Exhibited for six months 2011 Roma - Int Film Festival - scene designers Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo 2011 Roma - Università Roma Tre Dams - Teatro Palladio showing 2012 Sao Paulo - MSI - Museu de Imagem e do Som - Consulate e Italian Culture Institute 2012 Casarsa della Delizia - Centro Studi Pasolini -Exhibited for three months 2012 New York - MoMA - Exhibition of some selected pictures 2013 Londra - Istituto Italiano di Cultura (Italian Culture Institute) 2013 Buenos Aires - Embassy Consulate Italian Culture Institute 2013 Buenos Aires - Cinemateca Argentina - Fotogalería San Martín 2013 Los Angeles - Consolato e IIC - Hammer Museum 2013 Tallinn - Estonia - Architecture Design Gallery - Embassy and Italian Culture Institute 2013 Tallinn - Estonia - showing of the film Baltic Film Media University 2013 Tallinn - Estonia - Palazzo del Parlamento - Inter parliamentary Commission Comm. Interparlamentare Estone 2013 Milano - Milano Art Gallery 2014 Toronto - Canada - showing at TIFF (Toronto International Film Festival) 2014 Toronto - Canada - Exhibition at the Italian Culture Insttute - Istituto Italiano di Cultura 2014 Milano - Biblioteca Comunale Sicilia - Showing 2014 Genova - Palazzo Ducale - Art Commission 2014 Chia - Viterbo - Comune Soriano nel Cimino - Gruppo Roccaltia 2014 Lima - Perù - Embassy - Italian Culture Institute 2014 Spoleto - Festival dei due Mondi - Curator of the exhi- bition Vittorio Sgarbi 2014 Lecce - Castello Carlo V - Curator of the exhibition Gianni Canova Preside IULM 2014 Como - Broletto - Curatrice Barbara Lombardi - Rosaria Gioia 2014 Venezia - Palazzo Rota Ivancich - Curator prof Vittorio Sgarbi - Salvo Nugnes 2015 Pescara - Casa Natale di Gabriele d’Annunzio - Curator prof Vittorio Sgarbi 2015 Castelfranco Emilia - Centro Studi Cinema Pro Loco - Curator Maurizio Barone 2015 Casarsa - Centro Studi Pasolini- Curator Angela Felice “Pasolini 1972-73 - 36 ritratti” 2015 Milano - Teatro Parenti - Curator Regista Ruth Shammah 2015 Parma - Comune & Associazione Stanley Kubrick - Novembre
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Patronage officially granted, whereas some others, not present in this list, are still waiting to be confirmed 2 Letters from the President of the Republic Presidenza della Repubblica Italiana Ministero dei Beni Culturali Regione Umbria Regione Veneto Provincia di Venezia Roma Capitale Comune di Bologna Comune di Casarsa della Delizia Comune di Como Comune di Genova Comune di Lecce Comune di Milano Comune di Soriano Comune di Spoleto Comune di Venezia Vittoriale degli Italiani Las imágenes de La flor de las mil y una noche dando vueltas por el mundo 2010 A Coruña - España - Fundación Luis Seoane 2011 Boloña - Cineteca di Bologna - Exposición 6 meses 2011 Roma - Int Film Festival - escenógrafos Oscar Dante Ferretti y Francesca Lo Schiavo 2011 Roma - Università Roma Tre Dams - Teatro Palladio Proyección 2012 Sao Paulo - MSI - Museu de Imagem e do Som - Consulado e IIC 2012 Casarsa della Delizia - Centro Studi Pasolini - 3 meses 2012 New York - MoMA - Exposición limitada a un pequeño grupo de fotos 2013 Londra - Instituto Italiano de Cultura 2013 Buenos Aires - Embajada Consulado Instituto Italiano de Cultura 2013 Buenos Aires - Cineteca Argentina - Foto galería San Martín 2013 Los Angeles - Consulado e IIC - Hammer Museum 2013 Tallinn - Estonia - Architecture Design Gallery - Emnajada e IIC 2013 Tallinn - Estonia - Proyección Baltic Film Media University 2013 Tallinn - Estonia - Palacio del Parlamento - Comisión Interparlamentaria Estona 2013 Milano - Milano Art Gallery 2014 Toronto - Canadá - proyección en el TIFF (Toronto International Film Festival) 2014 Toronto - Canadá - Expo - Instituto Italiano de Cultura 2014 Milano - Biblioteca Comunale Sicilia - Proyección 2014 Genova - Palazzo Ducale - Art Commission 2014 Chia - Viterbo - Comune Soriano nel Cimino - Gruppo Roccaltia 2014 Lima - Perù - Embajada - Instituto Italiano de Cultura 2014 Spoleto - Festival dei due Mondi - Curador de la Muestra Vittorio Sgarbi 2014 Lecce - Castello Carlo V - Curador de la Muestra prof. Gianni Canova Preside IULM 290
2014 Como - Broletto - Curadora Barbara Lombardi - Rosaria Gioia 2014 Venezia - Palazzo Rota Ivancich - Curador prof Vittorio Sgarbi - Salvo Nugnes 2014 Casarsa della Delizia - Centro Studi Pasolini - Curador prof Angela Felice “Pasolini 1972-1973 - 36 retratos 2015 Minsk - Bielorussia - en espera de fecha 2015 Edimburgo - Escocia - en espera de fecha 2015 Están reservadas otras decenas de muestras en Italia y en el extranjero Patrocinios Obtenidos, mientras otros no mencionados, están en espera de confirmación 2 Cartas del Presidente de la República Presidencia de la República Italiana Ministerio de los Bienes Culturales Región Umbría Región Véneto Provincia de Venecia Roma Capital Comuna de Boloña Comuna de Casarsa della Delizia Comuna de Como Comuna de Génova Comuna de Lecce Comuna de Milán Comuna de Soriano Comuna de Spoleto Comuna de Venecia Victorial de los Italianos
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L’Oriente di Pasolini
Un viaggio per immagini nel suo Cinema L’Oriente, per Pasolini, è un posto dello spirito dove si trova quel mondo desiderato, sognato, che non esiste in questo Occidente e, in quel film fiaba, “Il Fiore delle Mille e una Notte”, è portato sullo schermo con una narrazione fantastica e con i colori del sogno. Il Regista non era venuto meno alla promessa “Sarà il mio film più colorato, il più ricco di bellissimi colori” e già le località scelte e le popolazioni mediorientali ne erano testimonianza, aiutati dai costumi di Danilo Donati su centinaia di comparse. Molto, al di là di tutto questo, è racchiuso nelle oltre 300 immagini inedite del libro che, costruite seguendo le filosofie compositive della storia dell’arte e della teoria della comunicazione, illustrano il set ed il fuori set del film. Sono convinto che sarebbe piaciuto molto a Pasolini, per le “coloratissime” immagini del film e per la sua unicità; è l’unico libro al mondo che presenta immagini originali, uniche ed irripetibili. In un incontro con Pasolini a Cinecittà, per il rifacimento di una scena nell’autunno del ‘73, avevo portato un album con alcune diapositive e, mentre PierPaolo le guardava affascinato diceva: “Ma che bei posti, che bei colori” – come se li vedesse per la prima volta – “Hai fatto un film dove io ero l’attore e tu il regista”. Roberto Villa
Finito di stampare nel mese di novembre 2021 in Italia, per conto di agenzia NFC di Amedeo Bartolini & C. sas www.nfcedizioni.com
Euro 48,00