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a chi non si è mai stancato di scrivere.
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“Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo guardare le cose sempre da angolazioni diverse” Robin Williams in “L’attimo fuggente” di Peter Weir. Un libro per racchiudere immagini e parole. Un libro per chiudere un’avventura cominciata due anni fa. Un libro, di per sé diverso dalla convenzionale idea del libro, per testimoniare come la diversità non sia contrapposizione, ma semplicemente un altro modo di vedere le cose. Un modo esistente e dunque possibile. “I volti dell’anima e “Il diverso pensato”: l’anima e il diverso. Due concetti che testimoniano la possibilità di intravedere le molteplici prospettive e sfumature di una realtà che prende vita solo quando questa viene raccontata, quando a questa si da la possibilità di esprimersi. Libera. Una macchina fotografica e una penna; due mezzi diversi per fissare un’immagine, un pensiero, un modo di essere. Il proprio. E sempre, a fare da raccordo, l’anima. L’anima che, diversa e per questo singolare, si racconta sfogliando le pagine di questo libro che trascrive visioni e sentimenti di chi vedendo ha scattato e sentendo ha narrato. Un fotografo, Michał Fundowicz, e gli scrittori Miriam, Annalisa, Vincenzo, Gabriella, Giulia, Nicole, Chiara, Lucia, Vittoria, Pietro, Chiara, Alessandro, Diletta, Giorgio, Letizia, Irene, Francesco, Piera, Guglielmo, che attraverso occhi per guardare e mani per scattare e scrivere si sono raccontati trasferendo se stessi nell’arte che meglio li rappresentasse. Due progetti, una mostra e un concorso letterario, differenti e complementari: “I volti dell’anima” e “I racconti dell’anima”, entrambi tesi a provvedere al crescente bisogno che i giovani hanno di essere ascoltati. Un bisogno colto e soddisfatto dai curatori dei progetti che con le iniziative proposte e con la tenacia in un credo condiviso hanno reso possibile un processo di crescita in grado di dotare i ragazzi coinvolti di quelle chiavi di accesso alle scelte future che trasformeranno i giovani di oggi in uomini di domani. I giovani sono un come i cieli stellati, bisogna andare lontano dalle luci artificiali per ammirarne lo splendore. La raccolta di queste foto e dei racconti, che li fa protagonisti assoluti, permette di ammirarli nella loro luce più splendente, i loro pensieri in parole e immagini. Buona lettura. Roberta Lanzalaco – Associazione Culturale Strauss 5
Controcorrente: l’identikit della scrittura (e dello scrittore) Scrittura: un fatto fondamentale per l’uomo e per l’umanità, un’esigenza nata per scopi pratici che è diventata lo strumento per eccellenza del bisogno ontologico di comunicare e così ha, nel corso della storia, via via acquisito caratteri eterei e incorporei, a tratti effimeri, per esprimere sentimenti ed emozioni, il proprio vissuto interiore; o si è caricata di valori e significati universali, procedendo, non senza scosse, nella strada dell’impegno per creare un mondo migliore, per denunciare le ingiustizie, esprimere le proprie verità e … si potrebbe continuare chissà per quanto a riflettere sugli scopi della scrittura, in particolare quella che ha dato vita alla letteratura. Letteratura: nell’immaginario collettivo di milioni e milioni di studenti l’input “letteratura” apre, sicuramente, tanti file in cui accanto ai nomi e alle opere studiate a scuola sono state registrate sensazioni di piacere o di noia, di interesse o di fastidio; è vero, non tutto ciò che è giunto fino a noi è destinato a piacere a tutti, per non parlare (con un pizzico di verve polemica) di tutto ciò che ci circonda oggi, della miriade di “opere letterarie” che vengono prodotte da miriadi di scrittori. Però, al di là dei gusti personali, una cosa è certa: la scrittura letteraria è un atto di coraggio e chi scrive è coraggioso perché si mette in gioco, rinuncia alle proprie difese e si dà agli altri. Come dice Daniel Pennac “Scrivere significa appagare un bisogno di gratuità, coinvolgendo al contempo gli altri, dato che non esiste atto più gratuito e libero della scrittura.” (L’amico scrittore, Feltrinelli). Proprio da un libero atto di coraggio e gratuità sono stati generati i grandi capolavori della letteratura e anche oggi , nella società della mercificazione e del consumo, la letteratura resiste e resiste persino di fronte ai nuovi media che sembrano avere tutte le carte in regola per soddisfare quel bisogno di comunicare (e sicuramente in maniera più immediata e diretta) così istintivo nell’uomo. La vera letteratura continua a dare forza ai sogni, agli ideali e, più semplicemente a ciò che si sente il bisogno di dire, magari andando controcorrente, perché non le è facile affermare le sue ragioni tra la “prosaicità” del mondo. La verità è che la letteratura è una cosa bella, di quella bellezza che ti appaga e di colma e ti permette di diventare migliore; pertanto, anche se sembriamo essere anacronistici e controcorrente, vogliamo continuare a sostenere con forza il primato della letteratura e a dire ai nostri ragazzi di continuare a crederci, come lettori, innanzitutto, ma anche come scrittori in erba, senza lasciarsi scoraggiare dalle difficoltà e dall’impegno che 6
ciò comporta. Chissà se un giorno qualcuno di loro potrà dire come Italo Calvino: “Scrivo perché non ero dotato per il commercio, non ero dotato per lo sport, non ero dotato per tante altre cose, ero un poco…, per usare una fase famosa (di Sartre), l’idiota della famiglia… In genere chi scrive è uno che, tra le tante cose che tenta di fare, vede che stare a tavolino e buttar fuori della roba che esce dalla sua testa e dalla sua penna è un modo per realizzarsi e per comunicare.” Professoressa Antonella Granatella
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Scuola Secondaria di Primo Grado Racconti premiati nell’anno scolastico 2014/2015
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Primo classificato I’m with You di Giulia Cacciatore Mi chiamo Hope, ho 15 anni e, per la milionesima volta, sto per trasferirmi. Il motivo?! Il lavoro di mia madre…E’ una manager e, in pratica, mi ha fatto passare metà della mia vita negli aeroporti e non mi ha mai permesso di avere “veri amici”. Generalmente ci trasferivamo in Germania, Svizzera, Gran Bretagna, posti del genere; questa volta, però, è diverso: da poco, infatti, ho respirato per la prima volta l’aria Statunitense. Vi risparmio i particolari della mia bellissima casa a tre piani da milionaria Europea e della mia prima notte negli USA, perché il motivo per cui state leggendo di me è un altro: voglio narrarvi una favola…Non aspettatevi uno di quei racconti che terminano con “E vissero tutti felici e contenti” né una fiaba in cui parlo di animali, bensì quello che ho imparato nel corso della mia disordinata vita, quello che solo Louise ha fatto capirmi. Il giorno dopo il mio decollo negli Stati Uniti, sono andata a scuola. Non avevo mai visto un istituto così: armadietti, ragazzi in divisa che riempivano i corridoi, campanelle che creavano un’infinità di suoni in quella che sarebbe stata la mia scuola per non so quanto tempo ancora. Alle 8:15 in punto, entrai in classe. Tutti mi guardavano sorridendo, ma capivo che non erano “entusiasti” dell’arrivo di una nuova compagna. Così, per non dare troppo nell’occhio, decisi di sedermi infondo all’aula, dove adocchiai subito una ragazza che dava l’aria di una timida adolescente, ma estremamente bella. Mi sedetti, le sorrisi e capii subito perché era l’unica a non essere neanche considerata: era su una sedia a rotelle. Per tutta la durata delle lezioni non ci degnammo di uno sguardo, poi, suonata la campanella dell’intervallo, mentre tutti uscivano fuori, io rimasi con lei e le sorrisi nuovamente. “Ciao!” le dissi, cercando di fare amicizia “Ciao.” rispose lei Non sapendo più che dire, cominciai a parlare di me, della mia vita passata tra aerei e taxi, della mia passione per la musica e i libri inglesi o americani, del papà che non avevo mai conosciuto, della mamma che era “l’artefice” delle mie giornate e della storia di tutta la mia vita. Quando finii, lei, che si era sciolta come la Nutella nel microonde, cominciò a parlarmi della sua storia. Da subito mi hanno colpita due 9
cose: la sua voce e la leggerezza con cui affrontava “la sua piccola palla al piede”, come lei stessa definiva il suo handicap. Proprio mentre terminavamo il nostro “interessante dialogo” con una bella risata, suonò la seconda campanella e ripresero le lezioni. Tornata a casa, mentre stavo pranzando, mia madre cominciò col suo interrogatorio quotidiano: “Cosa hai fatto?”, “Ti sei divertita?”, “Cos’hai imparato?”, “Hai fatto nuove conoscenze?”, “Ti sei innamorata di qualche bel ragazzo americano?”, e via dicendo. Nel pomeriggio non feci altro che pensare a Louise e al fatto di aver trovato finalmente una vera amica, un’amica di quelle di cui puoi fidarti ad occhi chiusi. I giorni passavano e devo ammettere che questa volta non mi sono sentita affatto “fuori luogo”, anche se ho attraversato un oceano intero, solo perché c’era una ragazza che riusciva a farmi sorridere in qualunque momento della giornata. Purtroppo, però, la società ragiona in modo opposto, quindi dovevamo combattere contro sguardi furtivi o risate sotto i baffi solo perché Louise era costretta a stare su una sedia a rotelle. Così mi sono fatta una domanda: perché la gente convive con terroristi mentre emargina la gente solo perché è “diversa”? Non ho saputo darmi una risposta. Sapete, mi fa male vedere Louise che sta male solo per questo…Mi fa male vedere in TV solo gente “perfetta”. Mi fa male vedere che la gente ormai la pensa allo stesso modo e mi dispiace vedere che non posso fare niente per risolvere tutto questo solo per fare un piccolo regalo alla mia migliore amica. Pensai tutta la notte a questo. Piansi parecchio, perché sapevo che una su sette miliardi non avrebbe fatto la differenza. L’indomani, a scuola, la prof ci annunciò che a breve ci sarebbe stato uno spettacolo in cui tutti noi avremmo potuto esibirci. Da un secondo a un altro, il mio cervello cominciò a ragionare; certo, uno spettacolo, quale migliore occasione per far capire alla gente che “i diversi” non esistono?! Così, dopo aver convinto Louise a partecipare (il che è stata un’impresa vera e propria), ci siamo iscritte. Restava solo un dubbio: cosa dovevamo fare una volta salite sul palco?! Cantare, questo è ovvio, ma cosa?! Ci pensammo un pomeriggio intero, ma nulla…Il mio sogno sembrava sfumarsi sempre di più. Si dice che la notte porti consiglio; beh, posso affermarlo!! Questa notte, infatti, ho ripensato alla prima volta in cui ci siamo incontrate e ai momenti in cui parlavamo della storia della nostra vita…La storia Della 10
Mia Vita…The Story Of My Life!! Ecco cosa avremmo cantato: The Story Of My Life, la mia canzone preferita, la canzone che rispecchia davvero la mia vita. Louise accettò subito di cantare questa, anche perché mancava una sola settimana al Talent Show. Per fortuna eravamo abbastanza intonate, il che era davvero di grande aiuto per fare una figura decente. Una settimana dopo, alle 19.00, eravamo in bagno e pensavamo di ritirarci; ma due secondi dopo, il ragazzo che presentava ci chiamò e ci disse “Ehi, che pensate di fare?! Andate sul palco, tocca a voi!!”. Le presi la mano, lei afferrò la mia. Si accesero le luci. Cominciammo a cantare. Finimmo. La gente era in piedi e applaudiva; c’era addirittura la madre di Louise che piangeva! Indovinate un po’: abbiamo vinto!! Appena hanno pronunciato i nostri nomi accanto alla parola “vincitrici” ho abbracciato Louise e ho cominciato a piangere anch’io. Alla fine ce l’ho fatta, ho raggiunto l’obbiettivo più grande che mi sia mai posta: far coincidere il primo posto con la ragazza considerata “diversa”, ma soprattutto, vedere finalmente negli occhi della gente gioia nel veder cantare una disabile. MORALE DELLA FAVOLA: Non ho ovviamente scritto una di quelle favole che narrano di principesse in posti perfetti che sposano principi perfetti, ma uno di quei racconti che amo definire “favole moderne”; favole in cui appaiono tutti i problemi della vita: il disagio di una disabile, la società che quasi non funziona più, la felicità che è fatta di piccole cose, non certo dai soldi. So che la mia favola non rispetta molti dei “caratteri o criteri fondamentali” di questo tipo di racconto, ma uno l’ho rispettato: insegnare qualcosa, in questo caso insegnare che i disabili sono persone speciali che vanno trattate con cura, non con disprezzo, perché coloro che sono considerati “diversi” non chiedono nulla, ma ti regalerebbero anche la Luna.
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Secondo classificato La rinascita di Yanù di Chiara Saglibene Salve bella gente! Ormai è opinione diffusa che viviamo in una società sorda, indifferente, insensibile ai problemi e alle necessità degli altri; tuttavia voglio raccontare la mia storia e dimostrare che esistono le eccezioni. Tanto tempo fa in un lontano villaggio dell’Uganda del Nord, in Africa, viveva con la sua bella famiglia una formichina di nome Yamù. Finché una tragica notte un violento scoppio non si portò via le case, le strade, la vita “normale” del villaggio. Yamù quando si “svegliò” trovò accanto a sé un mucchio di macerie ed i corpi senza vita dei suoi genitori, dei suoi tre fratelli e soldati dappertutto. Yamù terrorizzata dalla distruzione, disperata per aver perso tutto e tutti, presa dalla rabbia, dalla malinconia e dalla nostalgia di casa decise di spostarsi in cerca di una vita migliore lontana dai brutti ricordi. Yamù con il cuore addolorato e gli occhi gonfi per il pianto si incamminò lungo la savana, dopo aver tanto camminato si imbatté in un fiume in piena. La formichina capisce subito che si trova davanti ad una situazione difficile, ma al tempo stesso quella potrebbe essere la sua unica salvezza e si chiede tra sé e sé: “Che cosa devo fare? Potrò attraversarlo? Devo rischiare!” Si fermò incerta sulla riva. Non sapeva a chi chiedere aiuto. Si guardò intorno e vide una zebra. La formica le si avvicinò timidamente e le chiese “Scusi signora zebra, pensa che io possa attraversare il fiume senza pericoli?” La zebra rispose: “Penso di sì! L’acqua non è profonda, mi arriva appena al ginocchio. Provaci!” Yamù ringrazia e pian pianino si incamminò verso il fiume, ma quando stava sulla riva in procinto di attraversare, uno scoiattolo le si avvicinò saltellando e le disse tutto agitato: “Non passare, non passare! E’ pericoloso, rischi di annegare!” Yamù confusa e disperata dopo aver ascoltato lo scoiattolo, sempre decisa gli chiede: “Ma il fiume è così profondo?”. “Certo, un mio amico ieri è annegato!” rispose tristemente lo scoiattolo. Yamù la formichina era molto combattuta, non sapeva cosa fare. Allora chiese aiuto allo scoiattolo. “Signor scoiattolo vorrei provare ad attraversare il fiume, saresti così gentile da darmi un guscio vuoto delle tue noci?” “Certamente, rispose lo scoiattolo, ma sappi che così facendo rischi di annegare!” Lo scoiattolo aiuta Yamù a sistemarsi all’interno del guscio e con il cuore pieno d’angoscia le augura BUONA FORTUNA! Yamù intraprende il viaggio della speranza accompagnata dalla paura. Navigò per giorni fra intemperie e mille 13
difficoltà, fino a quando alla fine del terzo giorno scorse delle coste e pensò: “Saranno quelle siciliane rifugio di numerosi disperati! “. Spera con tutte le sue forze di essere avvistata e soccorsa. Di lì a poco infatti, vede arrivare verso di lei una barchetta ricavata da una noce di cocco, Yamù alza gli occhi ai cielo e ringrazia il buon Dio per averla fatta arrivare sana e salva. A bordo della barchetta, ci sono due coccinelle soccorritrici, Lulù e Fifi, che dopo averla prelevata dal guscio cercano di rassicurarla, riscaldarla e rifocillarla. Subito Yamù capisce che son esseri di cui può fidarsi così si abbandona tra le sue braccia e si sfoga in un pianto liberatorio. Da questo momento per Yanù inizia un percorso di una vita nuova, perché arrivare in un luogo diverso ed essere diversa non sarà facile. Implicherà un profondo cambiamento di vita, perché gli immigranti parlano un’altra lingua, mangiano altre cose, hanno altre usanze e un’altra religione. Le coccinelle dopo averla fatta rassicurare cercano di farsi raccontare la sua storia e il motivo della fuga, quindi cominciano a prepararla che da lì a poco verrà trasferita in un centro di accoglienza per minori, dove troverà esseri con storie simili alla sua e con il suo stesso scopo: LA SPERANZA DI UNA VITA MIGLIORE. I topi, Teresa e Giuliano, gli educatori del centro, saranno come i suoi genitori, questa adesso sarà la sua famiglia. Yamù ha constatato che per quanto diverse siano le loro culture e le loro identità ci sono molti valori che condividono. Per esempio la pace, la libertà o la giustizia. Rispettare la giustizia non significa essere d’accordo con tutti gli altri. Ma vuoi dire accettare che ci siano differenze tra loro e che, tuttavia, possono entrare in relazione L’amicizia e la condivisione sono un ponte assai solido tra esseri di culture diverse tessere generosi significa sapersi unire agli altri senza smettere di essere se stessi. Yamù apprezzando la nuova realtà finalmente è felice di affermare che: “Il mondo è come un giardino”. Ogni cultura è un delicato fiore che bisogna curare perché non marcisca, perché non scompaia, A volte possono sembrarci simili, ma ciascuno ha il suo aroma, la sua struttura, la sua tonalità particolare e bisogna farli vivere insieme nel rispetto reciproco con dignità e senza superbia. E anche se tra essi c’è un fiore di colore o profumazione a noi non graditi, ciò non significa che non va curato ed innaffiato, altrimenti che giardino sarebbe se non ci fossero fiori di vario tipo? MORALE: “E’ la diversità che dona a un giardino la sua bellezza...
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Terzo classificato La magia deII’amore di Pietro Mistretta L’amore che unisce due esseri umani, un bambino e una persona anziana che si è arresa alla vita e crede che sia alla fine del suo cammino. Precisiamo che l’amore è l’unica vera forza che fa muovere il mondo. Questa è la storia di Gianni e il suo vicino di casa Mario. Gianni un bambino di 10 anni e Mario di 80 anni. Si incontrano per caso in un giorno di pioggia, nonostante abitassero vicino e non si conoscevano. Gianni uscendo dal supermercato, carico di buste, si scontra con Mario che usciva dalla farmacia. L’urto è stato violento, nessuno dei due guardava, Mario cadde a terra. Subito, Gianni posa le buste e lo aiuta ad alzarsi assicurandosi che non si fosse fatto male, Il viso ansioso del piccolo strappa un triste sorriso a Mario. Scatta fra i due una simpatia reciproca. Così i due scoprono di abitare vicini facendo lo stesso tragitto e si lasciano promettendosi che si sarebbero rivisti. Gianni tutta la notte pensa a Mario; quell’incontro aveva creato un forte dolore nel suo cuoricino e gli ricordava il nonno perso da poco. Quell’uomo triste ma con mani forti, occhi azzurri come il cielo, molto tristi e dolci che lo facevano sentire al sicuro, come quando usciva con nonno Giuseppe, pensò, che non sarebbe più stato solo per la morte del nonno e sentiva una serenità accompagnata da un’energia così forte che non riusciva a comprenderla. Lui non era come tutti i ragazzini, amava essere un bravo ragazzo, aiutare la sua famiglia, studiare e leggere come gli aveva insegnato il nonno. Il nonno gli diceva leggendo: puoi viaggiare, conoscere e comprendere tutto quello che è esistente, anche oltre. La mattina si alzò molto presto, nonostante avesse dormito poco e fece colazione, chiese alla madre se poteva portare parte della colazione a Mario, il loro vicino di casa. Raccontandogli della nuova conoscenza, la madre, che spesso vedeva questa persona anziana solo sempre dietro una finestra o seduto nella veranda e che non proferiva parola con nessuno del vicinato, si sorprese dell’amicizia con il figlio ma vedendo l’entusiasmo di Gianni acconsentì. Gianni corse dal vicino e con molta delicatezza suonò il campanello; Mario fu sorpreso, da molto tempo quel campanello non suonava. Lo stesso postino gli imbucava la posta nella buca delle lettere senza suonare, andò ad aprire e si vide quel bambino con occhi castani luccicanti incorniciati da tanti riccioli dorati, trepidante dietro la porta. Non ebbero bisogno di parole: Gianni gli donò 16
la colazione, Mario lo fece accomodare. Si sedettero, Mario assaggiò la colazione e sempre con la tristezza che lo accompagnava guardava quegli occhi lucenti felici di stare con lui. Gianni pensava e lo guardava e visto che Mario non parlava fu il primo a parlare. Ti piace la colazione? L’uomo dagli occhi tristi annui, si alza e gli dà un album di foto. Gianni in quell’album vede l’intera vita di Mario. Lui da piccolo, all’età sua con una bici spensierato e felice. Il giorno della cresima, il matrimonio, Mario con la moglie e un figlio neonato, ancora loro con il figlio alla sua età, poi solo fogli bianchi. Stranizzato dal vuoto di quelle pagine alza gli occhi interrogativi. Mario non ha voglia di parlare, da quando ha perso in un incidente automobilistico moglie e figlio della stessa età di Gianni, non ha più parlato con nessuno e si è chiuso come un riccio. Tutto gli scivola addosso, non prova interessi per niente e nessuno. Chissà perché quel bambino dallo sguardo vivo si interessa al volto di quel vecchio, avvolto in un velo di tristezza che gli desta il suo interesse, lo sente vicino. Gli occhi di Gianni sono puntati su di lui ma Mario non parla. Il piccolo intuisce che non avrà nessuna risposta, chiude l’album, lo bacia sulla guancia e se ne va, deve andare a scuola. Tornato da scuola, fa i compiti e il pensiero è a Mario, si affaccia alla finestra e vede lui seduto sulla veranda con lo sguardo perso nel vuoto. Gianni prende un libro e corre da lui. Lo abbraccia, gli si siede accanto e comincia a leggergli quel libro. L’uomo l’ascolta silenzioso. Comincia a scendere la sera, chiude il libro, lo abbraccia e lo invita a mangiare a casa sua. Mario lo prende per mano e gli fa vedere la sua cena: frutta e pane; si salutano. La mattina dopo Gianni, con l’entusiasmo che solo l’amore può dare, corre da Mario, gli porta la colazione e scappa per andare a scuola. Dopo i compiti torna da Mario con un nuovo libro e glielo legge. Continua cosi per circa un mese, fino a quando Gianni, dopo aver fatto i compiti, va da Mario e lo trova a letto. Questa volta Mario gli parla e gli racconta delle pagine bianche dell’album. Lo prega di prenderlo e Gianni vede disegnate sulle pagine bianche lui con un libro in mano e Mario con un viso sereno. Mario ringrazia Gianni per aver riempito quelle pagine bianche con l’amore che gli ha donato, circondandolo come una calda coperta in pieno inverno e gli regala l’album raccomandandogli quando si sentiva triste e solo. Gli dice che ormai era arrivato finalmente il momento di ricongiungersi alla moglie e al figlio e con molta dolcezza gli dice di crescere come stava crescendo: un ragazzino che sa dare amore e quindi riceverlo, perché nella vita ciò che conta è amare e farsi amare. Lo abbraccia e si addormenta per sempre tra le sue braccia. Gianni non ha più paura dopo la morte di nonno Giuseppe, mentre prima aveva avuto sempre 17
paura di perdere persone amate, un forte trauma per lui. Ma adesso no, Mario era felice e grazie al suo amore era felice per lui. Era cresciuto in quel frangente e l’amore l’aveva reso forte e solido. Amore uguale magia che tutto riesce a fare, anche l’impossibile.
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Menzione speciale Voglio solo studiare! di Lucia Mangiapane Non molto tempo fa, viveva in una piccola casetta, un gatto nero chiamato Bianchino (un nome insolito per un gatto nero). Fu così che fin dalla sua nascita lo avevano chiamato i suoi genitori, quasi un po’ ironicamente; aveva una grande passione per la matematica, andava sempre tutto solo senza amici nella sua grande scuola, aveva soltanto un amico, era un vecchio gatto bidello. Era il primo della classe, insomma un alunno modello e per questa stupida ragione, veniva preso in giro da tutti i suoi compagni, in particolare da Rocky, un gatto grande di statura ma piccolo di cervello. I primi giorni di scuola, il gatto nero non fece caso all’invidia dei suoi stupidi compagni; ma con il passare dei giorni, delle settimane e dei mesi, gli insulti si fecero sempre più pesanti. Veniva preso in giro non solo per la sua intelligenza e per il suo massimo impegno nello studio ma anche per la sua “misera” statura, per il colore di pelo della razza a cui apparteneva e soprattutto dal, così chiamato dai suoi compagni, “ridicolo” nome. Il povero gatto non poteva far altro che sopportare le quotidiane prese in giro dei suoi compagni; con il passare del tempo non riuscì più a farcela. Un giorno volle “scontarsi” con i suoi compagni, in un primo momento con le parole, in un secondo momento se era necessario anche fisicamente. Arrivò in classe, era assente un insegnante, così volle approfittare della sua assenza per dire quattro parole o anche più a Rocky, il capo: «Oggi voglio affrontarti! Non sopporto più che tu ti prenda gioco di me». A Rocky sembrava che il gatto fosse diventato pazzo, così rise a non finire e rise talmente tanto da sentirsi male. Bianchino, ancora più arrabbiato poiché si sentiva preso in giro, continuò urlando: «Anche se tu sei più grande di me fisicamente, io stanotte riflettendo su me stesso ho capito che ho una dote che vale forse un p0’ più della tua, l’intelligenza: è una dote che non tutti hanno ma che modestamente io possiedo. E poi voglio anche dirti, che non importa essere grandi e belli fuori ma grandi e belli dentro». Rocky, essendosi offeso, cominciò a fare a botte con il piccolo gatto. Furono subito interrotti dall’arrivo del vice-preside, che non avendo assistito alla lotta fra gatti diede subito la colpa al piccolo gatto nero. Il vice-preside non diede la colpa a Rocky (il vero responsabile), poiché il preside era il padre del gatto. Ricevette la punizione che colpì moltissimo Bianchino: era l’espulsione a tempo indeterminato da ogni scuola di ogni altro 20
paese, ciò di cui lui, il gatto nero, non poteva fare a meno. Tutti gli altri non ribattevano per tale ingiustizia chiedendo al vice-preside che non fosse punito, anzi volevano che fosse punito ancora di più poiché erano tutti condizionati da Rocky (insomma avevano paura di ciò che poteva capitare se accusavano Rocky). Fu portato direttamente dal preside che lo mandò a casa pregandolo di non farsi più vedere. Il piccolo gatto nero trascorreva le sue giornate davanti alla finestra guardando la scuola che era di fronte casa sua: come desiderava essere tra quei banchi di scuola, essere attento alle lezioni della gatta insegnante, la maestra di matematica! Non desiderava altro. Veniva esortato dalla sua famiglia a staccarsi da quella finestra ma niente. Un giorno si svegliò molto presto, come faceva quotidianamente per mettersi al solito posto; però quella giornata era diversa non riusciva a capire cosa fosse cambiato: forse la giornata buia, oppure l’inverno che si faceva sentire. Mentre cercava una spiegazione, si accorse che era in corso una lotta fra gatti: era suo padre che si scontrava con il padre di Rocky; non fece in tempo ad arrivare davanti alla porta che sentì un fortissimo miagolio, lo riconobbe ... il grido del suo grande, forte e coraggioso papà; il padre di Rocky scappò subito. Bianchino corse immediatamente dal padre che era ormai in fin di vita, udì solamente un piccolo miagolio che diceva: «L’ho fatto solo per il tuo bene e per il tuo grande impegno che prima hai dato e che ora vorresti dare nello studio...» Portò via suo padre, trascinandolo verso casa. Furono celebrati i funerali nel piccolo cimitero felino. Da quel giorno la vita del gatto cambiò. Cosa che non avrebbero mai potuto immaginare i suoi familiari, si spostò dalla quella stupida finestra. Ogni giorno usciva all’alba e rientrava a notte fonda per andare direttamente la sera a letto. La sorella Micia si insospettì del nuovo comportamento del fratello e decise di seguire, la mattina seguente, Bianchino. Preparò lo zainetto e, travestitasi in modo insolito per non farsi riconoscere dal fratello, lo seguì. Capì che non si trattava di qualcosa di brutto, anzi scoprì che suo fratello aveva un nuovo amico che gli faceva scuola. Non scoprì soltanto questo ma anche che l’amico di Bianchino era il nipote dell’unico amico che il gatto nero aveva quando frequentava ancora quella grande scuola: però di questo non ne era a conoscenza Bianchino. Micia ritornò subito a casa non volendo interrompere quel momento poiché non aveva mai visto suo fratello così interessato e partecipe in una lezione fattagli da quel gatto che gli faceva solo un favore. Aspettò suo fratello fino a notte fonda (l’ora consueta di rientro di ogni giorno), si fece trovare sopra il suo letto e dopo avergli raccontato tutto, in un primo momento, il gatto non credette a ciò che le aveva detto sua sorella ma 21
poi si fece convinto e ringraziò moltissimo Micia. La mattina seguente si svegliò ancora più felice poiché non solo andava ad imparare qualcosa di nuovo ma aveva anche una minima possibilità di ritornare tra i banchi di scuola. Arrivato a casa dell’amico, cominciò a poco a poco a parlagli di suo nonno perché poteva anche essere falso ciò che gli aveva detto sua sorella. Bianchino volle domandare il giorno dopo una spiegazione al nipote del bidello sul perché di questo comportamento; quest’ultimo gli rispose che non voleva parlare di questo argomento perché aveva perso da poco suo nonno che faceva di professione il bidello; Bianchino approfittò di questa particolare confidenza del gatto per continuare a fargli altre domande su suo nonno, successivamente, capendo che stava nascendo una profonda amicizia e confidenza tra i due, gli raccontò la sua vera storia, poiché gliene aveva raccontata una falsa dicendogli che non si poteva permettere di frequentare quella scuola. La reazione del gatto fu perlopiù positiva. Dopo quella importante confidenza al gatto “insegnante” vennero in mente le ultime parole che aveva pronunciato prima di morire: «... Se nella vita ti capita di incontrare un gatto nero che ha una grande passione per la matematica ricordati di dirgli che suo padre ha combattuto contro un gatto cattivo proprio per lui perché ciò che gli avevano fatto era una vera e propria ingiustizia e che doveva lottare per far valere i suoi diritti di alunno ...». In realtà il vecchio bidello, aveva parlato la sera prima della tragica morte del padre di Bianchino con quest’ultimo e gli aveva detto, sapendo che era l’unico amico di suo figlio, ciò che avevamo detto prima. Dopo avergli detto ciò, fu straordinaria la reazione di Bianchino: Il gatto nero domandò alla madre se poteva restare a dormire dal suo amico; naturalmente accettarono vedendo il loro figlio così felice e che finalmente aveva un nuovo amico. Durante la notte i due gatti rifletterono su come farlo ritornare sui banchi di scuola Rifletterono tutta la notte su come fare. A Bianchino venne subito in mente di fingersi un altro gatto, per poi essere preso per uno appartenente ad un alto livello sociale e avere subito un posto tra i banchi di scuola. Fu immediatamente preso dall’entusiasmo e non fece in tempo a chiedergli un opinione che andando subito a travestirsi. L’amico lo fermò subito e gli consigliò di essere se stesso e di incitare anche gli altri ad amare lo studio. Organizzò una protesta contro la scuola insieme a tutti gli altri studenti. In un primo momento, non ci furono altri che protestavano ma alla frase del gatto insegnante: “... Ci sono certe persone che non dormono la notte perché vogliono andare a scuola, e voi in vece vorreste che non ci fosse: vi dovete ritenere fortunati! ... “A questa frase tutti cominciarono a gridare: “BIANCHINO DEVE STUDIARE!!!”. Anche 22
Bianchino partecipò a questa protesta dicendo: «Voglio solo studiare!» Questa protesta, però, non piacque al preside: in una scuola perfetta non ci dovevano mica essere proteste e né tanto meno gatti a cui sia stato tolto il diritto di studiare. Uno specialista gatto, in visita alla scuola, volle subito parlare con l’organizzatore principale di quella protesta (l’amico di Bianchino), il quale gli raccontò la triste storia e la voglia di Bianchino di volere studiare. Lo specialista chiamò subito la compagnia dei carabinieri dei gatti che fece subito arrestare il preside e che fece mandare Rocky in una casa-famiglia poiché era rimasto orfano sempre per la malignità del padre. Bianchino non sapeva come ringraziare il suo amico per essere stato così solidale nei suoi confronti. La solidarietà va espressa sempre a chiunque anche se non è un nostro amico.
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Menzione speciale TITOLO Alessandro Rossi Qualche anno fa, in una scuola media di Milano, era arrivato un ragazzo di colore, approdato in Italia con altri immigrati dalla Libia, devastata dalla guerra che aveva provocato già migliaia di vittime. Si chiamava “Hassan”. Lui, all’apparenza timido, era in realtà un ragazzo completamente diverso. Questa sua timidezza era accresciuta del fatto che fosse arrivato in Italia, un ambiente a lui nuovo. Ma purtroppo, questo suo “stare in disparte” finì con l’allontanarlo sempre di più dai compagni che Io consideravano inferiore, asociale, maleducato, ignorante e diverso per via dei suoi modi di fare e del colore della pelle. Uno di loro, Luca, spinto dalla voglia di conoscere si recò da Hassan e scambiò due parole con lui. “Ehi Ciao Hassan, io sono Luca! Felice di conoscerti” — disse il ragazzo - “Piacere mio” — rispose Hassan con una voce esile e dal tono basso. Visto che il nuovo arrivato rispose, Luca continuò con delle domande personali del tipo: “Che sport ti piace fare?” o “Qual è il tuo piatto preferito?” e infine scambiarono con Hassan, già dalle 8.00 orario di arrivo in classe, una conversazione così lunga che la professoressa alla fine delle 5 ore a scuola, tornò a casa con un forte mal di testa nonostante i vari rimproveri dati. Così Luca capì che avrebbe dovuto integrarlo meglio con la classe proponendo varie attività assieme ai suoi compagni. Inizialmente, a loro, questa, sembrò una pessima idea, convinti del fatto che gli uomini di colore fossero inferiori e avessero enormi difetti, ma dopo qualche settimana, cambiarono completamente idea: capirono che Hassan era molto intelligente e simpatico, e cominciarono ad affezionarsi a lui. Inoltre, impararono molte cose, come qualche frase in lingua araba, la concezìone della religione Islamica e l’insegnamento del Corano. Così il nuovo arrivato, si integrò perfettamente con la classe e con la scuola, e i suoi compagni capirono che “Il rispetto per le altre culture è essenziale per il funzionamento di una società multiculturale”, imparando a non fare pregiudizi di alcun tipo per culture, sesso, religione e colore della pelle. 24
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Scuola Secondaria di Secondo Grado Racconti premiati nell’anno scolastico 2014/2015
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Primo classificato La monotonia della mia coscienza La descrizione di me che non sono: il racconto del non racconto. di Giorgio Genuardi Ansia, gelo, tempesta dentro me. Questo è il racconto del non racconto; nel mio raccontare racconto che non racconto. Scrivo male. I graffiti somatici li mostro celati ed esoterici, quasi misantropici. Eppure è come se nella vita ci si stordisse nell’anima, sarà per via del sentire, o forse semplicemente sogniamo di sentire ciò che il sogno ricusa. Questo è uno di quei momenti in cui sembra naturalizzarsi la non azione, che è oggettivazione di sé nel grigio terso dell’esistenza. D’altronde come potrebbe comprendersi l’animo con i sensi? Dunque, la mia non è arte: essa si contempla nell’estetismo della banalità, il mio è, piuttosto, caos fobico: non si comprende ci se ne appropria, non si analizza, si interpreta, non è ascolto, è sentire. L’arte è spirito d’essere: l’arte di essere un costruttore, l’arte di essere un chimico, un medico?, l’arte di essere esseri che non sono, vegetali della socialità(rido), l’arte d’essere pazzi, d’essere muratori o cucitori di vertebre, cioè i libri: sarti della mia coscienza. Dunque l’artista è artista, in quanto possiede spirito d’essere nel suo essere e ciò ne determina un valore, appunto, d’artista. Ma io, io non sono artista. Non sono concepito come spirito d’essenza, sono soltanto il pezzo mancante di un’immagine mancata nel puzzle mai esistito della mia vita. Sono il frutto dell’egoismo comunicativo dei sensi, non miei (altrimenti non li avrei percepiti), appropriatisi della cultura e delle ormai retrograde e prolisse sensazioni in cui io, inerme, vorrei non essere mai nato e che io non avrei mai voluto conoscere. In modo assolutamente inconscio spezzetto i pensieri sbriciolando la convinzione e scopro d’avere filosofato, pensando, filosofie già scritte, mai rese: ma d’altronde cos’è il pensiero se non una filosofia di sentimenti? Rido, dunque, per un’esistenza che, irridente, si prende gioco di me. Piango spesso che rido; è tutto vero. Metto fine ad una frase per dame fine ad un’altra, come se ci fosse un senso, come se fosse sensato assorgersi nell’oblio, suggellando la coscienza... se soltanto credessi ai sensi! Se solo i sensi si fidassero di me e della mia vita; farei un dispetto all’anima se interpretassi, o tentassi quantomeno 27
di farlo, i richiami onirici della mia fornita interiorità submorta ed eclissata sul soffitto delle mie lucentezze scadute. Cola, acqua dopo goccia j’idolafrismo biasfemo della mia lucidità,fino a storcermi le ciglia,fino a bagnarmi l’iride,seccandomi le palpebre.. .annacquare i pensieri. Magari riuscissi a comprendenni.Eppure,osservo,inerte,la monotonia della pioggia che nel suo interrompersi lascia tregua ai sonisi,come se non bastasse l’esistenza a dire che sono morto.I pregressi pensieri scabrosi li racchiudo nell’ipocondria di un ombroso tetto empirico da cui depongo le occhiaie e gli occhi per la lotta tra senso e sistema. Intanto,ascolto i banali trapassi vegetali quasi per commiserazione intellettiva. In realta,però,non sono curioso senza volerlo,quindi?ascolto?sento?Non è importante,è solo un fantomatico discorso di troglodita notorietà retrograda;e allora depongo gli occhi per la lotta fra sogno e realttdepongo,mi rosseggia la sclem,gli occhi e le occhiaie per riposare,o quantomeno per non pensare.ll nero candido del cieco arrendersi al pensiero. Il mio titanismo tra sadico compiacimento ironico e automatismo intellettivo del regredire:anima mia,troppo spesso vorrei cullarti,sftingere e soffocarti e dormire insieme a te.Troppo spesso l’unica via d’uscita è giacere le insicurezze che giacciono in me.La monotonia del mio dormire. Eri penzodiazepina,una dipendenza che faceva male,ma che mi rendeva vivo. Mi rendo conto di quanto sia ridicolo il pensare di star pensando;è soltanto il pomeriggio uggioso in cui rido senza senso che mi porta alla considerazione di ciò che di più truce e distorto giace in me.Ogni forma di vita è tempesta e ogni foglio è intolleranza. E’ per questo,forse,ho sempre pensato di non poter dovere esprimenni,di non dover potermi esprimere in un testo saggistico o tematico.Ho il timore di dovermi bairnlizzare e di ledere l’intelletto nella travagliata voragine delle idee.Ho sempre pensato di non dover raccontare,di dialogare.La mia penna non domanda,mi bagna senza gelarmi. Ho sempre pensato di non potere,posso pensare di non dovere.Ho sempre pensato di non poter dovere.. .nel tramutarsi di un’interiorità deietica di cinismo e rassegnazione alla nullezza delle compresenze. Se solo potessi,darei carità d’intelletto,ma non sono poi così solo nella mia solitudine. Scrivo e non so che scdvo,come se la anima non riuscisse a decifrare l’intellefto.Non so oggettivamii alla soggezione di raccontare,non saprei non scrivere,se non smetto di scrivere. Fiele battezzata di dolore;scivola macabro il sangue infetto della mia anima:oscuro marasma dei sensi,indolente incredulità delle sensazioni,diadema della mia interiorità perduta. Sarà per via della riluttante anidride “psi-carbonica” mentale o sarà la diossina scialba dei miei pensieri ad appannare i miei vetri interiori o a convogliare 28
il mio non sogno nell’essere che non sono in me. So di non essere ciò che sono,non so del mio essere al di là dell’essere che so di conoscere. Avere opinioni è essere mediocri furfanti di grammatica,non avere opinioni è “essere poeti”;mentre io,che non sono poeta,poiché non so chi sono,non ho opinioni di me o di ciò che non sono e non pretendo di essere capito,d’altronde non sarò mai compreso nel mio sonnambolico vagabondaggio di disperazione. Magari mi sbaglio,eppure è peregrinando per i viali delle mie incertezze che consto la rabbia di dover sentire il peso di me che vivo e conduco gli strascichi della cieca realtà incastonata nel fiordo della mia coscienza. Se solo avessi potuto, avrei voluto tingenni di genio per non interpretare.Ai geni è concesso di non adempiere,è concesso di di non mostrare ciò che non sono;ai geni è concesso di essere,mentre io non so neanche interpretare. Eppure rimprovero me stesso per quello che sono,come se dovessi giustificarmi da me del grigio terso dell’esistenza avulsa dai miei giorni colanti dal soffino della morte fisica adiacente ai sogni.Ho perso animi di quiete guardandomi, bieco, le dita vibranti della mia volontà,tra rappresentazione e oggettivazione di me,che sia per cedere a un non so che di paranoico e ancestrale.Però è cosi;sono fragile e me ne rendo conto.Consapevole del palpito primario di uno stato patologico crepuscolare e,nonostante l’indole assassina,è cosi debole,anch’esso,da non potermi spegnere e lasciarmi in balia dei suoni sintetici delle corde di un ammuffito cuore:fremo sussulti e forse è il tremolio continuo della mia mano ad essere strumento della mia coscienza:simbolo morzato delle menti di flora e fauna di cui,stipato,mi trovo spesso a commiserame il banale:irridendoli e arrendendomi all’astuzia effimera della sonnolenza intellettiva.. .fraintendimento delle idee. Forse è proprio vero.L’esistenza è regolata da leggi di circoscrizione pratica che mi portano a realizzare l’idea che al mondo ci siano,essenzialmente ,seppur non integralmente,tre categorie di genti:La prima è costituita dai rimembranti dell’azione:coloro che credono di potersi bastare in lavoro,famiglia o,più eminentemente,nella società.Pretendono di vivere senza giustificare l’essere,considerano il pensiero come riduzione:loro,i progressisti del mio ieri mai nato. La seconda categoria riguarda i pedanti del sogno.Sono schiavi della illusione rilevata e tratta dal tempo.Essi individuano l’azione con assoluta razionalità diplomatica:sono i pensatori del pensiero,non nel pensiero,sono pedanti nell’intelletto,non dell’intelletto. La terza categoria assimila i controtendenti,gli anacoreti nella ragione ed è per essa che si esistenzialinano,conformi al pensiero che è nulla degradazione,se conforme all’idea di pensiero pensante. Chissà se è vero,chissà se lo 29
sono,chissà quanti Foscolo,Leopardi,Pessoa,Osho,Sousa sono in me,chissà quanta rabbia ho provato,o l’insofferenza del poeta che mai sarò,scrittore mediocre del vacuo morire della mia interiorità. Mi rendo ,ormai ,consapevole di quanto tale analisi sia soltanto il desiderio represso della mia anima di prendersi gioco di me; quasi commisemndomi,invece, io ,esente dal riso,rido per compatire la vegetazione autofrica che presume di vivere;Miro con sincera irriverenza la massa di umani che sanno di essere felici,senza considerare quanto in realtà non lo siano; e la mia penna pecca spesso di ego. Mi irrita l’assoluta certezza del vivere per vivere.é proprio dell’uomo,infatti,miraxe alla vita come alla realizzazione di ciò che l’individuo desume di poter o ,quantomeno,di dover essere.Realizzarsi socialmente,cosi come trovare una donna o costruirsi integralmente o magari ancora stabilirsi e creare una famiglia,sono gli aspetti che più deiettano l’esistenza,senza saziare lo spirito.Ho la certezza per questo, di aver fermamente cancellato dalla mia interiorità ogni forma di sentimentalismo esistenziale e,non so se nutro amaro odio o serena gratitudine, tale cosa risale meramente a un vegetale,peggio di voi, che mi ha sconvolto l’esistenza:bruciandomi l’anlina,ma lavandomi gli occhi. Forse è per questo che ‘vivo” per non sentire.Eppure,destinato a sentfre,smetto tutto ciò che è turbamento; oltre che l’amore per te e la vita che passa senza sflorarmi:niente è peggio di attendere che il tempo passi,senza mai vivere i giorni. Eppure nell’amare rientra l’idea della persona amata:venere mistificata di felicità mai resa e che ,però,è soltanto l’immagine di una disperata solitudine egoisticaDunque è per questo che credo non esista sostanza o sistema di deiezione mentale che possa eguagliarsi con l’arte,in quanto essa non rallenta o distrugge il ciclo che vitale non è. Medita che L’amore è illusione,in quanto delusionc;è proprio per questo che l’arte deve spesso non sapersi amare. Vedo e sento,nei sogni che non faccio,qualcosa che è prodotto dalla mia ansia indifferente all’insofferenzaPercepisco i miei respiri,ascolto i miei battiti e come si può non sentire di vivere?Chissà se nel sogno ho mai vissuto,sono stato me?O forse soltanto un granello d’inconsapevolezza della mia sincera incoerenza C’è chi scrive per scrivere e chi senza scrivere.Chi dice di scrivere,non scrive,chi non scrive,scrive e non smetto di scrivere perché è questo il mio solo modo di non sentire. Forse è perché ho la rabbia di chi da troppo tempo va litaniando senza mai ricevere qualcosa dal Dio inesistente e monolitico che è nell’individuo, credente appunto.lnfafti, consto come sia assolutamente incoerente credere nell’aldilà senza permeami di una tensione metafisica che convogli nelle angosce umane non ricambi 30
utili,che presumono una paradossale relazione umano divina,bensi speranza,propria di chi sonnambula certo delle mere certezze della vita Percepisco la ragione in relazione all’intelletto,percepisco i feticci della mia esistenza,tuttavia non riesco a comprendere la favolistica assunzione colta sul fantomatico Dio,non allo stesso modo comprendo l’universo al di sopra di me,mentre osservo ,inerte, l’universalità ridicola dei miei sogni che non ho mai assolutizzato,senza che abbia capito. Ho sempre pensato di essere figlio di una generazione ostile e che ha fornito fondamenta inesistenti per chiunque abbia mai posseduto un cervello e un cuore,così come sono schiavo di una generazione che non crede per moda e così come la generazione dei miei padri, schiava dell’idea di dover tendere al divino perché era logico,dato che tutti lo facevano,menfre io non credo realmente nell’adempienza del pensiero collettivo(eticamente insulso e disintegrante);tale accorgimento influenza la mia coscienza,come per l’esistenza il timore di un cataclisma ifituro. Ecco che me ne vado ,disperato, a vagheggiare tra i testi a me più cari e che sono quelli sempre taciuti;d’altronde i migliori ,per la verità,non sono mai stati compresi e ,per via delle credenze,taciuti dalla mediocrità,ripudiati e incompresi per poi ,però,mai essere dimenticati. Ecco,nutro il piacere di compatirli poiché sento e provo tutto questo ffiori di me e lo percepisco in me,senza ,però,che sia tra i migliori(non saprei definirmi con uno degli stereotipi che la società impone e che tu ,mio lettore, hai già esposto nei tuoi pensieri pensando io avessi peccato di superbia)e ne avrai la certezza se avrai deciso,come è tua libertà,di non leggere o ,quantomeno,di non lasciar risaltare agli occhi ciò che è contenuto nelle riluttanti parentesi del mio pensiero erroneamente impaginato e regolato dalla non nonna delle mie pur normali idee.Se ,invece, non è così che consideri si misuri la vita di un uomo,awai assunto la certezza della nullità del mio pensiero. Eppure mi si chiede di espormi,di esprimere i pensieri e di relazionanni mostrando il bello che marcisce in me.Ho spesso provato, e senza risultato ,ho bagnato di candido il micelio della mia interiorità: pago il prezzo di non essere compreso e non so se ne sono friste,data l’impossibilità di sentire le emozioni vivificate in me. Esprimere opinioni è essere ciarlatani nel pensiero,rilasciare al fiato la mente è uniformarsi al dissoluto e alquanto imbarazzante giomalismo;”chi vuole comprendeimi,mi legga.” Forse mi è dato adito di non scrivere?mi si chiede di essere ciò che sono realmente.Ma come si possono tacere le sensazioni?non saprei chi essere ,se non di sapere ciò che io non sono in me.Sono la negazione della negazione dell’essenza di essere uomo. E’ tutto vero. Ci sono notti che non mi lasciano dormire:non mi 31
sveglio,non dormo.Senza neppure provare il languore egocenMco di sentirmi vivo;la mia anima è scontro fra senso e sistema. Forse la notte prova un piacere compulsivo nel distogliermi da ciò che non faccio,da ciò che non sono. Mi ritorna in mente,come un negativo,l’infanzia dei miei sogni mai espressi,delle filosofie dei giorni e consto il silenzio e la sua musica e il brusio irritantemente banale di voci che scorticano l’epidermide intellettuale dei miei affimi,annichilendoli,senn lenirli:fortuna per questo! Voci che si rompono e che si interiorizzano ancora,voci che non hanno da dire,non hanno da dire perché non sanno e io,padrone delle mie delusioni,accantono le idee e le tengo accartocciate nella prigione della mia anima,meta mancata di una miope acutezzaFiamma di sensazioni che devo evocare per depositare l’intelletto e per i ricordi sommersi che resteranno per sempre incanalati nelle mie sinapsi e per considerare la saggezza del remitaggio:io eremita della mia vita,con il bisogno solo di esclusione e intolleranza repulsiva ai giorni e a ciò che è in essi;anche tu, mio amore mancato,sai quante volte non ti ho sognato? Em il ripetuto sbattersi di un’amore mai in uso. Per via dei battiti,è crescente in me il desiderio di sentirsi mancare al sentimento,stanco della contrapposizione tra stanchezza e ripugnante allegoria della stessa. Trafelato,ripongo con fatica le palpebre sui ricordi:la caffeina del mio vivere. Non ho tempo per odiarmi,lascio che siano gli albi a contemplarmi cupo nella mia apatica continuità al vivere,che per me è morire. E’ per ciò che non so raccontare e non è facile,per me,ridurmi all’omologazione della mistificante ragion d’essere letterari scrittori del racconto avulso e pressoché infimamente abietto per l’arte. La mia è la descrizione macabra della mia anima irridente,è la veritiera interpretazione della realtà celata dai sogni e repressa dai desideri. Ebbene ritengo saccente raccontare per il buon gusto di farlo.L’arte,così come la contemplazione delle angosce,nasce dal bisogno,dafl’esigenza fisica di distogliere il sistema dai sensi,di comprimere gli attimi ciecamente più belli ,in pillole amare di rancore volitivo. Il rumore del mio umore mi porta spesso a considerare quanto il mio udito si d’isinteressi alle parole della ridicola classe “simile” da cui il palpito spasmico della mia iride non sa distogliere l’indifferente considerazione. Forse è la mia coscienza a indicarmi di poterlo fare,forse è così che io sono:come presumo di essere;e supplico il mio animo di saziarsi dei miei spasmi d’umore e delle incerte insicurezze dell’intelletto per cui saprei soffocare,con serena rassicurazione, gelide coperte rese nel letto scomodo della disillusione.E’ per questo annullo la volontà “d’esistenza sociale” e mi approprio della mia solitudine che detengo con bramosa gelosia,per il 32
timore di sentirmene privato senza ottenere una reale compagnia:come 11 bambino che cerca la mano amica lungo il labirinto deIl’infanzia,non dimenticandosi,però,di essere rimasto a casa a giocare con i lego. In fondo il mio pensiero è quasi indicibile,una “filosofia” ineluttabile. E allora perché esprimersi?Troppo spesso il poco che si dice sarebbe meglio non esprimerlo. Mi fa male la testa e frantumo i miei sistemi,eppure consto la soavità in ciò che mi cfrconda.Se adesso qualcuno mi dicesse che una volta qui c’era la morte e la dissoluzione dell’anima,risponderei che nulla potrebbe pesare davvero su tale soavità.Sebbene io non possa mai cadere nel dirupo di poter suppone che una “logica” possa essere un’altra solo perché si trovano ambedue nello stesso luogo e nella rappresentazione della volontà corporale:la mia somacità e la mia ombra,il cervello e il mio cuore,che traducono ,con religiosa angustia,l’impazienza del tutto,che in quanto tutto,è niente in questo momento monotono e assurdo. Mi fa male la testa e provo un dolore fisico:è la mia coscienza che ride di me,così da farmi pulsare le tempie per la stanchezza di pensare,tanto che se mi rivoltassi le mani tra i capelll,soffiirebbero anch’essi per far soffrire me. La mia esistenza è un nodo gordiano che non so ignorare,finirò con il tagliarla o rinuncerò alla sua conquista!? Osservo ancora una volta me e... Lo stupore di non comunicare,per me che non ho mai comunicato. Ho un universo nell’armadio che suppongo non potrò mai,smanita la chiave,comunicare alla mia anima preda dell’intelletto. E’ per questo che non saprei e mai ho saputo “condire” i discorsi ed è per questo che ho sempre preferito l’estasi;infatti le belle parole sono soltanto sale e pepe per gli allergici ai sensi e la mia è soltanto una litania d’inquietudine e disperazione. Prodromi di nitore oscuro accarezzano la mia interiorià che è umana,in quanto io stesso sono uomo. Io uomo.Io,che non scrivo.
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Secondo classificato IL COVO DELL’ANIMA di Gabriella Indelicato “La dimora degli uccelli, il cielo; il rifugio dei pesci, l’acqua; infine la terra, la mia casa?” Era questa la domanda che sempre più spesso occupava il flusso infinito e ingarbugliato dei pensieri di tre giovani così dissimili, lontani, indifferenti l’uno all’altro. Una farfalla verde, bianca e infinitamente delicata si era appena poggiata sul freddo davanzale della finestra della cucina, Mattia osservava ogni macchia che appariva più chiara o estesa delle altre, amava le farfalle da quando era bambino e aveva capito la magia che possedevano oltre che la libertà cui da sempre aspirava. Aveva 16 anni. Semplice, perfetto all’apparenza, “un ragazzo modello”, è questo che i suoi genitori e tutti coloro che lo conoscevano pensavano. Lui però non riusciva a capacitarsi di cosa fosse la perfezione, cercava costantemente di raggiungerla e si ripeteva di essere forte, perché solo così tutti sarebbero stati orgogliosi di lui, ma era come vagare ad occhi chiusi per una strada sconosciuta e fosca, gli sarebbe piaciuto conoscere già il suo futuro e soprattutto le conseguenze di ogni sua azione. Quando qualcosa andava male, o meglio non come avrebbe desiderato cercava di ricordare che è inutile incupirsi; allora prendeva tra le mani un libro e leggeva fingendo di poter dimenticare tutto, voleva credere che questo fosse possibile, spesso tutti dicevano “i libri ti permettono di volare, di vivere nel mondo che desideri, di essere chi desideri”, perfetto, ecco come desiderava essere, e allora si ostinava a mantenere la propria attenzione sulla vicenda di quell’uomo, bambino così diverso da lui, ma mai perfetto, purtroppo ad ogni singola parola, lettera, virgola sentiva il suo respiro diventare più pesante, niente di somigliante alla leggerezza cui ambiva e allora diceva di essere lui il problema, di sbagliare tutto e di voler andar via, volare, sì ma per davvero, da dove poi non sarebbe più potuto tornare. Un pregio che certamente devo riconoscergli era la sua sovraumana voglia di controllare tutto per non smarrire il fiore delle speranza di poter cambiare, di poter inserire un nuovo punto nella sua storia e poi ricominciare con una nuova maiuscola, l’ultima si diceva, niente più errori da quel momento, non avrebbe più desiderato premere il tasto “cancella”, che purtroppo non esisteva nella vita reale. Nei momenti peggiori, quando non riusciva più a tirar fuori questa sua finta forza, uno scudo che usava 35
per difendersi probabilmente da me, pensava davvero di farla finita, di mollare, di chiudere quel libro che con tanta fatica stava scrivendo; era in quei momenti che intervenivo io, facendo posare una semplice farfalla sulla sua spalla o dipingendo nel cielo anche un banale arcobaleno, perché per altre persone sarebbe stato solo questo, su quell’anima aveva invece un potere diverso, lo faceva tornare quello che era sempre stato, l’uomo con la maschera di ferro, che sotto però è un semplice bambino che adora il latte con il miele, sentir suonare il pianoforte alla propria madre e abbracciarla, un bambino a cui manca il proprio padre e che vorrebbe gridare al mondo “Lui è mio, anzi nostro, è della mia famiglia!”: già perché suo padre lavorava lontano e tutti continuavano a ripetergli quanto fosse fortunato ad avere un lavoro, che avrebbe potuto garantirgli un futuro, degli studi, magari anche una cospicua eredità. No, a lui mancava il suo papà, qualcuno che gli spiegasse come montare i modellini, che lo rimproverasse anche, che gli desse uno schiaffo, se necessario, non gli aveva mai detto “Mi manchi!”, non poteva farlo, avrebbe solo fatto soffrire maggiormente sua madre, la sua sorellina e cosa peggiore il suo stesso padre, che nonostante cercasse di indossare anche lui quella stupida maschera che gli uomini spesso sono costretti a vestire, non ci riusciva bene come Mattia e allora soffriva il doppio: per la distanza e per far trasparire agli altri questa sua tristezza, suo padre, il nonno di Mattia, diceva sempre “Non dobbiamo permettere che gli altri vedano la nostra anima, le nostre sofferenza, se siamo veri uomini”. Il fiume su cui aveva da sempre fantasticato di navigare, con la sua barca di legno scuro, sotto un cielo stellato con il suo principe misterioso, era adesso il soggetto del suo capolavoro proibito, aveva trovato il coraggio di imprimere su quel foglio di carta cancellata e stropicciata il suo sogno. Secondo molte persone del paese Emma e Mattia condividevano solamente un’età complicata, se Mattia era il ritratto del retto adolescente, Emma era invece l’altra faccia della medaglia, quella che si vince una volta tagliato il traguardo della fine di quel tormentato periodo, che tale era anche per Mattia. Lei era una ragazza indisciplinata e testarda, farle cambiare idea era quasi impossibile, non cedeva ai ricatti che solitamente i genitori usano per sottomettere i figli, credeva di essere in grado di decidere cosa fosse più o meno giusto e forse questo era dettato anche dalla sua condizione familiare, immaginate una madre assente e un padre particolarmente attento all’immagine della famiglia agli occhi dei propri concittadini, ne risulta una bambina stressata e di conseguenza un’adolescente che rigetta le parole sopportazione, tolleranza e che 36
purtroppo si sentirà libera di straripare, come un fiume in piena. Sua madre era stata condotta a sposare quell’uomo per motivi noti all’intera cittadina, il padre della donna indebitato aveva creato un’alleanza con la famiglia del giovane ricco, portando però Margherita, il nome della donna, all’esasperazione e di conseguenza all’isteria, non perché il padre di Emma non fosse un uomo degno di amore, ma certamente non era adatto per lui quello che poteva offrirgli; spesso usciva di casa dicendo di andare a fare spese, ma tutti sapevano che non si sarebbe più rivista per giorni e suo padre si ostinava a coprire tale condotta, dicendo che qualche lontana cugina stava male e la buona moglie era dovuta correre in aiuto, in realtà al suo ritorno non mancavano mai silenziosa urla, sguardi accusatori che talvolta Emma tentava di nascondere al suo cuore chiudendo orecchie e occhi. Lei incolpava me, diceva che questa forza misteriosa, lontana, cattiva voleva punirla per qualcosa, in realtà non era così, ma purtroppo con lei i miei trucchi non funzionavano, non amava le farfalle e non si commoveva per un arcobaleno, in questa consisteva la principale differenza con Mattia: mentre quest’ultimo aveva ricevuto da me un’anima sensibile ad ogni piccolo chicco di sabbia o fiocco di neve regalato al mondo, Emma invece aveva un’anima veramente forte, che però non riusciva a scoprire e allora preferiva coprire la sua falsa debolezza con la maschera della ribelle e rivoluzionaria, non che non possedesse delle idee fuori dal comune, ma non sempre diverso deve essere sinonimo di sbagliato e lei questo lo sapeva bene, lo aveva sempre pensato dentro di se e scritto nel suo diario che si vergognava di avere, perché lì emergeva la vera Emma, quella che amavo maggiormente. In quei due ragazzi vedevo davvero il mio capolavoro più grande, dovevo solamente aiutarli a scoprirsi e a lasciar cadere quel drappo impolverato e freddo che per troppi anni li aveva ingiustamente nascosti. Emma possedeva una bellezza rara da trovare, nonostante questo arrossiva qualora le rivolgessero dei complimenti, aveva con il mondo un rapporto complicato, lo credeva un suo nemico, con tutte quelle sfaccettature che lei non riusciva a cogliere, con tutti quei colori che per lei erano certamente troppi, avrebbe desiderato che tutto fosse colorato solamente di bianco e di nero, come i suoi disegni, nient’altro a confonderla, distrarla; una figura che per lei era particolarmente importante era suo nonno, un uomo che aveva vissuto gli anni della guerra ancora adolescente e che riusciva a vedere tutto da un altro punto di vista, Emma non voleva mai ammettere che nella maggior parte dei casi nonno Guglielmo, quel vecchino dai capelli bianchi e dagli occhi vitrei, aveva ragione, da bambina dopo la morte della nonna, si 37
erano fatti compagnia a vicenda; nonno le diceva spesso che si era pentito di alcune comportamenti che aveva avuto in vita, per esempio se fosse potuto nascere una seconda volta non avrebbe mai imposto a sua figlia di sposare quell’uomo che allora sembrava tanto perfetto, lei aveva compreso che purtroppo gli uomini capiscono troppo tardi quale sia il modo d’agire esatto e che ognuno dovrebbe possedere il potere di poter tornare indietro, qualora lo desiderasse, ma lo aveva comunque perdonato con il suo immenso cuore; nonno Guglielmo spesso le diceva “il futuro e il passato sono come due poli di uno stesso pianeta, non abbiamo il potere di raggiungere l’uno se non riusciamo a salire sul treno diretto per sempre all’altro.” Kali aveva 17 anni e a differenza degli altri due combatteva veramente una battaglia più grande di lui, si trovava su un campo che mai nessuno avrebbe dovuto solcare, anche io lo pensavo, ma nonostante ciò non avevo il potere di cambiare gli eventi. Kali era partito dal suo paese, al centro dell’Africa più nera e selvaggia, il suo viaggio era stato programmato da circa un mese e sua madre aveva dovuto pagare una grande somma a degli uomini misteriosi, temuti e contemporaneamente amati, perché offrivano la possibilità di una vita migliore; lui non voleva abbandonare la sua famiglia o ciò che ne rimaneva: suo padre era infatti morto, ucciso solamente perché la pensava diversamente da quel regime che si era ormai impadronito della loro terra, ricordava spesso il suo volto impastato di sabbia e fango, i suoi occhi spalancati e le mani ancora tremanti, rammentava quando lo avevano condotto sulla sua tomba eterna e avrebbe voluto credere che non fosse lui, purtroppo era arrivato troppo tardi per salvarlo; adesso lottava solamente per le sue quattro sorelle e i due fratelli, il maggiore era già partito un anno circa prima di lui e aveva mandato a casa del denaro, che seppur poco era servito per nutrire i fratelli minori, adesso anche lui sentiva il dovere di sostenere la propria famiglia, una responsabilità ed un peso enorme sulle sue fragili spalle, doveva cercare di creare una situazione economica migliore, affinché tutta la famiglia a poco a poco potesse spostarsi in quella terra desiderata forse ancora prima di riuscire a capirne la ragione. Il suo viaggio era durato due giorni, le onde avevano più volte rischiato di travolgere quella nave che sembrava stanca quanto lui, infiacchita dal vedere bambini soffocati da quell’aria mortale e irrespirabile o uomini ammucchiati litigare per una briciola di pane, stremata dal portare, come Kali, un peso che non aveva scelto da sé. Aveva pregato di riuscire a sopravvivere, di trovare un modo per far scampare alla morte anche la 38
sua famiglia e si sentiva colpevole perché lui forse si sarebbe salvato, mentre altri, i suoi amici, non avevano avuto la stessa fortuna, correndo su quella sabbia calda avevano visto i propri corpi smembrarsi e le anime volare via, venire verso di me, tornando alla casa delle origini, altri invece erano passati dalla parte degli uomini neri, non l’avevano fatto per cattiveria, sia ben chiaro, ma solo perché perso tutto, l’unica luce che si mostrava ai loro occhi era quella, un bagliore nero nel mezzo del giallo del deserto. Sbarcato in un piccolo porto, in cui il mare si faceva più azzurro del luogo da cui era partito, in cui i pesci erano visibili e sembrava quasi di poterli afferrare, si era sentito rinato, rimaneva sempre quell’ombra di paura, di insicurezza, di colpevolezza che lo aveva afflitto per tutto il viaggio, ma adesso tornava a sperare o almeno desiderava farlo. Gli era stata consegnata una coperta luminosa, brillava come quelle perle che spesso durante la notte aveva visto nel cielo, avevano lo stesso colore e contemporaneamente riuscivano a trasmettere lo stesso calore. Aveva visto alberi alti e verdi, da piccolo adorava arrampicarsi “come un piccola scimmietta” diceva sua madre, adesso stava quasi per colare una lacrima sul suo viso scuro e sporco e avrebbe voluto veramente piangere, ma non poteva farlo, sarebbe diventato lo zimbello degli altri uomini, anche se lui non era un uomo, a lui la spensieratezza dell’infanzia, di quando tutto luccica e tutti sembrano dei gioielli pronti ad incastonare questa brillantezza della vita erano stati portati via troppo presto, era stato disilluso dalla vita, nel momento in cui ogni illusione deve essere permessa. Era stato portato in un palazzo grigio e freddo, un palazzo che per lui era un castello, aveva del cibo, degli abiti, tutto ciò di cui gli avevano parlato coloro che sapevano cosa c’era dall’altra parte, adesso era compito suo trovarsi un lavoro e compiere la missione che gli era stata affidata, talvolta si ripeteva che non ce l’avrebbe fatta, che avrebbe deluso tutti, ma lui voleva riuscirci, dimostrare al mondo e sì anche a me che lui era più forte, spesso ripensava alle parole di suo padre, le parole che gli aveva detto qualche giorno prima di morire, quando aveva già compreso che probabilmente sarebbe stato martire o vittima delle sue stesse idee “Credi che nessuno ti affiderà un compito che non sarai capace di portare a termine, con quella forza che i tuoi occhi mi hanno sempre donato, spingendomi ad andare avanti, per voi.” Mattia, Emma e Kali erano tre ragazzi che credevano che la loro vita fosse già prestabilita da qualcuno più grande, la stessa vita aveva impartito loro questa lezione cruda, ma forse giusta, in realtà neppure io so se sia veramente così, anche se lo volessi non potrei cambiare il destino di nessuno di loro, posso solamente fare in modo che si avveri. 39
“Mamma, sai quanto io ami la scrittura, sai che io non sono decisamente fatto per quelle formule assurde, mi conosci da sempre, ma non vuoi ....” era la voce di Mattia, che sussurrava con fremito queste parole, come spesso accadeva ultimamente dopo aver detto ciò che pensava, aveva abbassato lo sguardo e stava andando in camera sua, lì avrebbe potuto fare ciò che più amava, lasciarsi tutto alle spalle e cogliere quella nuova ispirazione per quel romanzo che aveva in mente di scrivere da tanto tempo, ci aveva pensato e ripensato, lo aveva tenuto nascosto a tutti, ma purtroppo sua madre, con quella sua foga di sapere tutto di lui aveva frugato nelle sue cose e letto quelle sole quattro pagine, che parlavano della figura che lui avrebbe tanto voluto incarnare, che aveva studiato, ricercato, amato fino alla follia: quella di un poeta maledetto, maledetto dal destino o dal mondo, un poeta con il coraggio che lui non aveva mai avuto, con tutte le caratteristiche dei suoi amati scrittori e in più con le sue lacrime, quelle che aveva segretamente versato, perché sentiva che avrebbe perso quella battaglia contro sua madre, più forte di lui, lei non voleva che lui scrivesse, perdesse tempo in sciocchezze che non lo avrebbero mai arricchito, nei suoi progetti, che non teneva nascosti a nessuno, sarebbe diventato un affermato medico, avrebbe sposato una donna proiettata esclusivamente verso i figli e la propria casa, purtroppo era solo nelle mie mani il potere di una scelta che avrebbe cambiato la vita di Mattia, direte voi, solo una persona su miliardi, ma a me, contrariamente a quanto lui credesse, stava a cuore il suo futuro e la sua stessa vita. In camera sua la madre, Barbara, lo raggiunse. “Farai quello che dico io, sono tua madre, ho dato la mia intera vita per te ed è con questo che mi ripaghi!” ripeteva che aveva lasciato gli studi per sposare quell’inetto di suo marito, che si era sacrificata e che la vita di Mattia era solo sua; Mattia avrebbe voluto confessarle che tutto ciò che diceva erano semplici falsità, che la vita non era sua e che non erano la famiglia perfetta che lei aveva sempre voluto fossero; Mattia tacque, prese quelle sue pagine stropicciate, la penna che aveva usato fino a quel momento, ritenuta quasi magica perché in grado di raccontare cose che lui aveva solo sognato di fare, il ricordo di suo padre a cui teneva maggiormente ed uscì correndo e sbattendo la porta, sentendosi felice perché per la prima volta nella sua vita aveva preso una decisione da solo, senza il consiglio, l’approvazione di Barbara e contemporaneamente triste, preoccupato, afflitto perché la sua vita era davvero in quella casa e lui senza sua madre non era assolutamente nessuno, ignorava dove andare una volta scese quelle scale che erano l’ultimo simbolo della sua prigionia, ripeteva a fior di labbra che non era 40
una marionetta nelle sue mani, che ormai era cresciuto e che un giorno nel mondo lui sarebbe rimasto solo e per causa sua non avrebbe avuto la forza necessaria ad andare avanti; esitò prima di poggiare il piede sull’ultimo gradino, ma non si fermò, chiuse gli occhi e vide Ismael era questo il nome del suo unico amico, il suo eroe, che seppur fosse molto diverso caratterialmente da lui e avesse abitudini che lui non avrebbe mai condiviso, gli aveva dato quella forza per gettarsi in quel mare sconosciuto e pericolosamente allettante e allora corse nuovamente fino in strada e, quando il suo volto sempre pallido e freddo venne colpito da quell’afa e da quel calore estivo, si sentì per la prima volta libero. “Emma, ti ho detto che non andrai, non farmi ripetere!” il padre di Emma, Carlo, aveva un modo tutto suo di rimproverare la moglie o la stessa figlia, non gridava per paura che la gente lo potesse sentire, teneva le mani dietro la schiena e dopo aver compiuto qualche passo lento si fermava e dava il suo decreto, sembrava quasi uno di quei cattivi ed ingiusti giudici, Emma da bambina aveva avuto paura di lui, benché sapesse che il suo comportamento era frutto di una mentalità sbagliata e contorta, “dà troppa importanza a ciò che gli altri pensano e conseguentemente non vive bene”, Emma lo pensava da sempre e spesso avrebbe desiderato ripeterlo ad alta voce facendo in modo che suo padre la potesse sentire. “Ma papà, non è giusto, vanno tutti! Mamma mi avrebbe lasciata andare …” “Tua madre non è qui, credo non abbia più il coraggio di tornare, sa solamente fuggire, lei non ci ama, spero tu non cresca come lei!” “Mamma non ci ama …” a questo stava pensando adesso Emma, davvero sua madre non l’amava? Davvero non gliene importava nulla di loro o meglio di lei? Suo padre le aveva comunque dato un’idea che lei riteneva geniale, si meravigliava di non averci pensato prima. “Hai ragione!” chiuse il discorso con queste fredde e davvero indifferenti parole, sapeva che era la frase più cara a suo padre e anche che così lui sarebbe uscito tranquillo del fatto che la figlia non avrebbe disubbidito, non la conosceva davvero. Così fece, salutò calmo, dicendo che sarebbe tornato fra qualche ora. Emma prese uno zaino, quello che aveva usato alle scuole medie, colmo di scritte come “Sei speciale, ti voglio un mondo di bene, non ci separeremo mai.” Gli autori erano diversi, la sua amica Zelia, poi ancora Tommy e infine Luca, e invece no, si era separata da tutti, scegliendo di andare al liceo artistico; mise dentro due bottiglie d’acqua, delle brioche, i soldi, di cui sapeva il nascondiglio, prese poi il cellulare e infine il suo album di disegni, amava disegnare e nonostante questo fosse manifesto a suo padre, lei non mostrava mai a nessuno 41
i propri disegni, erano la sua anima, la sua parte più sensibile e più segreta, la chiave per il suo stesso cuore; indossò una giacca e mise dentro un maglione, chiuse in fretta lo zaino e aprì la porta, per l’ultima volta, era certa, avrebbe guardato quella stanza, le foto di lei da bambina al mare con la sua dolce mamma, perché Margherita era dolce, era la donna più amabile del pianeta, con quella sua fiducia nel mondo, con quella sua voglia di vedere unicamente la parte buona delle persone, che purtroppo la portava a fuggire via ogni qualvolta non riusciva a coglierla, Emma sapeva che Margherita cercava altrove questa fiducia. Chiuse velocemente e silenziosamente la porta e cominciò a scalare quella faticosa parete di soppiatto, nessuno avrebbe dovuto vederla. Arrivata nel piccolo giardino che circondava la casa, rise, soddisfatta del fatto che adesso sarebbe potuta essere l’Emma che desiderava. Corse con il vento leggero che le scompigliava i biondi e lunghi capelli, che tutte le altre ragazze le avevano sempre invidiato, vide il mare luccicare sotto un sole testimone di quelle coraggiose fughe, scese sulla spiaggia e raggiunse il suo luogo segreto, una semplice barca rovesciata, da sempre si rifugiava là quando aveva voglia di dimenticare tutto della sua stessa vita, prese il blocco e cominciò a disegnare ciò che si rifletteva nei suoi occhi, quel mare limpido che invitava a tuffarsi e a cominciare una vita nuova sott’acqua, ad un tratto vide un’ombra alta e sovrastante che le copriva il sole proprio nel momento in cui stava riportando quello sulla carta. “Scusa.”disse con quella sua aria irrispettosa e sfacciata. “Scusami.” Rispose timido e impacciato dall’altra parte Mattia. “Tu sei, Mat …?” “Sì, sono Mattia, tu sei invece Emma, se non sbaglio!” “Già, cosa ci fai qui da solo? In realtà hanno sempre detto che sei strano.” Le scappò un piccolo ghigno. “Non è una novità …” abbassò nuovamente lo sguardo come suo solito, sapeva di essere considerato il ragazzo strano e diverso, gli altri non capivano che magari non era lui a voler essere così, che si sentiva costretto, nessuno si era mai impegnato troppo a cercare di leggergli dentro. “Bene, non hai risposto alla mia domanda!” “Potrei chiederti lo stesso, comunque nulla.” “Se proprio vuoi saperlo: sono fuggita, ho mollato tutto, non dirlo a nessuno però.” Sorrise ancora, con quel suo sorriso a cui non si poteva non sorridere, anche nel momento peggiore la sua dolce espressione ti avrebbe contagiato e trascinato nel mondo di quella ragazzina. 42
“Fuggita, mah?” “Già fuggita, sono andata via, e adesso sono finalmente libera.” “Anche io.” Mattia voleva darmi un’ulteriore prova del suo coraggio, voleva mostrarmi che lui aveva già vinto una battaglia. “Anche tu?” “Sì, anche io sono andato via.” “Tu, Mattia? Non ti conosco bene, ma tutti hanno sempre detto …” Emma si vide interrotta. “Credi che qualcuno possa conoscermi meglio di me stesso? Nessuno mi conosce, non la gente!” “Sta’ calmo, siediti!” Emma nascose il suo blocco e si spostò, facendo spazio a Mattia. “Sì, nulla di che, non potevo più sopportare quella situazione, non era giusto! Tu, perché?” “Beh, non potevo più sopportare quella situazione. Siamo forse uguali?” “Forse, anche se in realtà la gente dice di te che sei una ragazza un po’, non saprei come dire, diversa comunque da me. Amo scrivere e non ho molti amici, la gente mi giudica per ciò che appare ai loro occhi, incapaci di vedere ciò che io vorrei vedessero. Pensi ancora che possiamo essere uguali?” “Sono diversa da te, questo è ovvio, ma anche la gente non vede ciò che sono veramente e non comprende il perché io assuma determinati comportamenti, sono sempre sembrata quella scapestrata, ma nessuno mi ha mai chiesto se volessi esserlo e se mi impegnassi per cambiare.” “Hai ragione! Cosa hai intenzione di fare adesso?” “Certamente non ritornare a casa, non tornerò in prigione. Tu?” “Neppure io.” “Facciamo una promessa?” gli occhi di Emma erano illuminati, come se credesse di aver trovato l’idea geniale che cercava da sempre e infatti forse erano destinati ad incontrarsi fin dal primo giorno. “E’ la prima volta che parliamo e mi proponi di condividere una promessa con te?” “Perché no? Pensi di essere coraggioso, provalo!” Mattia era stato sfidato e non avrebbe permesso di essere sconfitto nuovamente, non da Emma. “Facciamolo!” “Non torneremo mai più, faremo sempre quello che crediamo più giusto e ci aiuteremo a vicenda.” “Ci sto!” Si strinsero la mano e risero come due bambini, in fondo un po’ lo erano o almeno desideravano esserlo, Mattia pensava che era 43
stato folle, che quella ragazza non lo avrebbe condotto sulla buona strada di cui tutti parlavano sempre, ma aveva trovato un’amica, più una compagna di avventura in realtà ed era felice di questo, sapeva che non doveva esserlo, che non era giusto perché neppure quello che stava facendo lo era, ma non si può frenare qualcosa che nasce dall’anima quando meno te lo aspetti su una spiaggia abbandonata e nascosta in una giornata in cui da questa è nato quel coraggio che da sempre avevi atteso, anche Emma si credeva folle perché lei, una delle ragazze più alla moda del paese, aveva parlato, aveva osato rivolgere la parola a quello sfigato di Mattia, chissà cosa ne avrebbero pensato Luca o Tommy, ma era arrivato il momento di dimenticarsi realmente di loro, la sua autentica quanto odiata prigione, era giunto il momento di cambiare per scoprire i confini fra cielo e terra che non aveva mai avuto il coraggio di setacciare. Rimasero in quel luogo per circa due ore, volando su nel cielo o navigando su quel mare, presto si ricordarono però di bisogni pratici, cibo, acqua, la notte da affrontare e tutti i pericoli che porta con sé, decisero di alzarsi e di vagare per il paese come dei ladri che dopo il colpo della loro vita non temono di venire rinchiusi. Camminavano nell’ombra, ma si riuscivano a vedere nel buio, Mattia aveva con sé del denaro così come Emma, entrarono in un supermercato con il cappuccio della felpa che copriva i loro volti contratti dalla gioia, presero del pane e delle patatine e usciti videro un ragazzo, non doveva essere molto distante da loro come età, aveva degli occhi simili al colore del legno della barca che Emma sognava ogni notte e ancora della stessa sfumatura del tronco dell’albero prediletto da Ismael, sotto il quale componeva indisturbato le proprie opere, anche il suo viso era scuro, ma a nessuno di loro due importava molto di questo. “Avete qualcosa da darmi?” disse con un filo di voce il ragazzo, come vergognandosi. “Scusa, ma siamo scappati di casa, abbiamo appena speso tutto il denaro di Mattia in patatine e pane e non sappiamo dove trascorrere la notte.” “Io avrei un luogo dove portarvi.” Quel giovane dagli abiti logori, dalle mani unte, dai capelli arruffati quasi come un nido di uccelli, aveva appena offerto loro un luogo in cui dormire, il mondo si era davvero capovolto con quella loro fuga, pensavano stupefatti Emma e Mattia. “Dici davvero?” Emma non lo temeva, non aveva paura di lui come spesso accade agli adulti o a coloro che si approssimano a diventare tali, lei non aveva paura, anzi le era già simpatico. “Ma non credi che potremmo disturbare?” Mattia si rivolse al ragazzo, in 44
realtà la domanda era più orientata ad Emma. “Non disturberete. Seguitemi, per favore, fate piano!” schiacciò loro l’occhiolino come se fossero amici da sempre, quando si conoscevano da pochi minuti, ma è questo che succede quando lo spicchio più sottile dell’anima emerge e quando ad incontrarsi sono tre fette che formano in realtà il frutto perfetto, perfetti insieme. Mattia lanciò uno sguardo ad Emma, ma lei sorrideva, non era preoccupata e si fidava del giovane. Percorsero viottole sperdute ed isolate fino ad arrivare ad una stanza a piano terra di un edificio lontano chilometri dalle abitazioni raffinate ed eleganti di Emma e Mattia, non parlarono, era stato gentile quello sconosciuto ad aiutarli magari per del semplice cibo, sapevano che la situazione degli uomini come lui non era semplice, era da apprezzare che stesse chiedendo del cibo e non lo stesse rubando. “Il mio nome è Kali e ho 17 anni, voi, come vi chiamate?” “Io sono Emma, ho 16 anni e lui è Mattia.” Kali guardò attentamente il ragazzo con i suoi jeans e le sue scarpe alla moda, con la camicia da bravo ragazzo, sua madre aveva sempre parlato non troppo bene dei giovani di strada, che lasciano il proprio paese attratti dal miraggio di chissà quale tesoro, l’opinione di Mattia era stata inequivocabilmente influenzata; i due ragazzi si studiavano a vicenda come prima di una lotta fra due leoni, in realtà si capivano e desideravano diventare amici, speciali l’uno per l’altro più di qualsiasi altra cosa, in questa età si vuole sempre essere speciale per gli altri. “Sì, io sono Mattia, anche io ho 16. Kali, da dove vieni?” “Vengo da un villaggio dell’Africa centrale, Tarbu.” “Deve essere un luogo molto differente da Gallico, come ti trovi qui?” Mattia era estremamente curioso, certamente una curiosità differente da quella che caratterizza Emma, lui voleva solamente scoprire ogni singola cosa che componeva il mondo, diceva che ci sarà sempre qualcuno più in alto, migliore di te, ma che ciò non significa non provare a scalare questa montagna. “Mi trovo abbastanza bene, rispetto alla mia vita a Tarbu, in realtà la mia famiglia mi manca moltissimo, non passa un secondo che non pensi a loro, siamo numerosi, ma ciascuno di loro è speciale per me.” Mattia ripensava a suo padre, quel padre che avrebbe sofferto più degli altri con Delia per la sua fuga; Delia era sua sorella, fin da molto piccola aveva dimostrato di essere diversa rispetto agli altri bambini, ma nessuno si era mai preoccupato, fino a scoprire che era affetta da una malattia rara, che la portava a momenti in cui le redini di quella che sarebbe dovuta essere la sua carrozza le sfuggivano di mano e allora solo la mamma 45
poteva starle vicina, aveva 9 anni, ma ne dimostrava in quei momenti forse neppure la metà, pensavano che io fossi stata ingiusta nei loro confronti, che avessi rovinato non solo la vita di Delia, ma anche quella di tutti loro, con il mio illimitato egoismo. “Beh non siamo poi così inospitali, noi italiani ed in particolare noi siciliani. Comunque non sei l’unico ad avere lontano la tua famiglia, sapete chi mi ha dato l’idea di fuggire, mio padre, mia madre fugge quando non sopporta più il peso di questo mondo, come se fosse lei a doverlo sostenere, allora ho deciso di fare come lei, proprio ciò che mio padre sperava non accadesse mai, forse io sono sempre stata destinata a diventare come lei!” Sembrava che Emma stesse rimpiangendo lontani giorni felici, che forse aveva solo la sensazione di ricordare, era troppo piccola per capire l’importanza di gesti che poi non avrebbe visto mai più. “Mi dispiace, non sapevo, non immaginavo che …” Kali sembrava dispiaciuto perché sentiva di aver tirato lui fuori quella piccola bomba. “Anche io devo dirvi qualcosa, mio padre lavora piuttosto lontano e non lo vedo spesso, mia madre crede di possedere la mia vita e non capisce che io amo scrivere, che è l’unico modo che conosco per aprire il mio cuore, per svolgerlo come una pergamena dagli estremi bruciati e leggere tutto ciò che c’è sopra scritto, lei non può dirmi quale strada imboccare, non è così, non secondo me almeno.” Mattia non aveva parlato di Delia, non poteva farlo, sarebbe stato come condurre tutti nei meandri, nei sotterranei della persona che era, ma che in realtà non sapeva ancora di essere. “Non credevo che la tua famiglia, insomma, che avesse dei problemi.” Emma sembrava quasi rincuorata del fatto che quella famiglia che aveva sempre spiato, che aveva sempre guardato come sentendosi inferiore, che aveva visto unita grazie a quella madre sempre presente, buona, amorevole che non sarebbe mai fuggita aveva portato lo stesso figlio alla fuga. “Tutte le famiglie, come ogni singola persona hanno una qualche sofferenza che viene loro data, tutto sta a come viene accettata e vissuta, no? Comunque parlaci della vita a Tarbu, dei costumi che avete, delle abitudini più ordinarie!” “Beh, i bambini sono curati dai genitori un po’ come qui, quando cominciano a crescere alcuni, grazie a delle organizzazioni, possono andare a scuola ed imparare a leggere o a scrivere, ricordo che per il periodo in cui anche io ci sono stato la sera andavo a studiare, dopo aver aiutato mio padre nel pomeriggio, a studiare con molti dei miei amici 46
vicino ad un aeroporto, lì grazie alle luci possiamo riuscire a vedere anche oltre il mare, è un posto che si trova ad un’altezza straordinaria, sembra di sovrastare il mondo, noi che eravamo così piccoli, poi siamo cresciuti e abbiamo cominciato a capire cos’è la sofferenza, abbiamo cominciato a vedere i nostri sogni infrangersi e adesso sono qui, grazie a mia madre, ha messo dei soldi da parte e continua a farlo per far partire ognuno di noi figli, perché in quel luogo la vita non esiste, si litiga per un bicchier d’acqua, perché tutti sentiamo di avere diritto a ciò che desideriamo, ma purtroppo non sempre c’è qualcuno che ha il dovere di esaudire, come le stelle, questi nostri desideri.” “Sono delle parole così vere e credimi io che vivo qui non mi sento poi così diversa da te, ho tutta l’acqua che desidero e non occorre nemmeno che io la desideri, ma mentre tu sovrastavi il mondo io non ho mai potuto farlo, se non con i miei disegni.” “E’ un po’ come la mia scrittura, con l’inchiostro che cade goccia a goccia è come se riempissi ogni vuoto, ogni abisso nel mare della mia vita ed è così che ognuno ha forse la possibilità di trovare la propria forza, le proprie ali in ciò che ama fare e si impegna al massimo per far in modo che riesca bene almeno quello, ma poi gli altri non apprezzano quanto te quel lavoro e ti sembra nuovamente di aver sbagliato tutto e vorresti stappare ogni pagina del libro come della vita, ma mentre nel primo è possibile non lo è nel secondo!” Mattia aveva voglia in quel momento di prendere fra le mani le pagine che gli sembrava di aver rubato e ricominciare a scrivere, sapeva di non poterlo fare, ma desiderava vedere Ismael e il suo albero e le sue pagine sporche di succo di mela e ancora le sue mani lisce, bianche e sottili da far paura e i suoi occhi chiari e freddi come l’acciaio, con quelle sfumature di inchiostro invisibile a tutti, tranne che a lui e con quella sua aria raffinata e colta, misteriosa e allettante che ti chiamava verso ciò che non avevi mai esplorato. “Già la tua scrittura, i miei disegni, quando disegno sento di stare aiutando me stessa per la prima volta, di compiere il mio dovere, ringraziando per questo dono.” Già lei ringraziava me, come solo poche persone erano in grado di fare, mi restituiva ciò che io le avevo regalato, così come Mattia faceva ed io sentivo quel famigerato abisso colmarsi di morbide pagine di mille colori, che brillano al sole che riesce ad acchiapparle mentre svolazzano nel cielo chiaro, come uccelli in primavera, perché quella era la primavera della mia stessa vita, in quel ciclo delle stagioni che ero sempre costretta ad affrontare, sottomettendomi alla volontà di qualcuno più grande persino di me. “Allora potete rimanere qui per tutto il tempo che volete, anche se credo 47
sia meglio se voi tornaste a casa, non sapete io cosa darei per farlo; tra un po’ dovrò uscire, ma voi potete rimanere!” “Grazie Kali, speriamo di non disturbare, noi … io non posso tornare a casa adesso, adesso che ho reagito dopo 16 lunghi anni.” Mattia sapeva in fondo che Kali aveva ragione, che erano stati fortunati a non nascere in un luogo come Tarbu, spesso Delia nei suoi momenti di lucidità gli poneva delle domande a cui pochi avrebbero avuto il coraggio di rispondere sinceramente, lui si limitava a dire il meno possibile e talvolta ad inventare o “distorcere la verità”, come preferiva dire, gli aveva chiesto quante religioni esistessero al mondo, se l’appartenenza ad una religione portava ad essere più o meno buoni, aveva poi affermato che credeva che tutti gli uomini fossero buoni, purtroppo Mattia non aveva potuto rispondere come avrebbe voluto, non tutti lo sarebbero stati con lei nella sua vita, aveva detto “non è la religione, Delia, a determinare l’indole della persona, non è il colore del viso, il paese di origine, niente di tutto questo, ciascuno è buono, ma purtroppo talvolta perde le chiavi del proprio cuore e allora comincia a cercare quella giusta per la serratura, ma talvolta durante le prove il cuore si ferisce e il dolore porta a diventare un po’ più cattivi.” Delia aveva chiesto di starle sempre vicino, perché così nessuno le avrebbe fatto del male e lui aveva risposto di sì, aveva detto che ovviamente non l’avrebbe mai lasciata sola, in fondo era un po’ compito suo, e allora ne era davvero certo, adesso invece aveva tradito quella promessa. “Già neppure io posso ritornare, non potrei mai più tornare dal mio carnefice, non sarebbe da me. Grazie, comunque!” Emma credeva davvero in quelle parole, aveva sempre vinto le scommesse con se stessa. “Io vado, non fatevi vedere o sentire. Ci vediamo, potete anche addormentarvi, non penso di tornare molto presto.” Kali uscì di corsa, non portando nulla con sé, era così indecifrabile quel suo comportamento, aveva lasciato Emma e Mattia nel suo piccolo rifugio e come loro si era fidato di sconosciut; era questa la dimostrazione delle parole un po’ astratte che il colore del viso non determina nulla. Sul pavimento erano stesi dei tappeti di tela pesante, sembravano fatti a mano, fibra a fibra, sotto il caldo sole africano e le fredde gocce di sudore sulla fronte di un qualche bambino troppo innocente per non giocare a palla o per non dondolarsi alto su un’altalena. Presero un filone di pane e lo spezzarono a metà, non dissero nulla e lo mangiarono in fretta, avevano voglia di chiudere gli occhi e rivedere ogni singola scena del teatro che era stata la loro vita quel giorno, così fecero, dopo essersi distesi e coperti con 48
degli stracci nascosti negli angoli più bui della stanza, si guardarono a lungo negli occhi, gli occhi verdi di lei, e gli azzurri di lui, nessuno sotto i suoi grandi occhiali se ne era mai accorto e lui non faceva niente per far in modo che avvenisse, ma adesso Emma aveva incrociato quello sguardo nuovo e ingenuo e sembravano perdersi, per ritrovare nel profondo lago dell’eternità, il porto sicuro in cui approdare. Il ragazzo con i suoi ricci capelli scompigliati e adagiati a coprire l’occhio destro, la ragazza li aveva invece raccolti in una treccia che ne esaltava ogni grammo di bellezza. “Notte!” Emma non era mai andata a dormire senza ricevere un messaggio da qualche ammiratore speciale solo per quel momento, quella sera non aveva intenzione di controllare ansiosa il cellulare, l’unico ad ammirarla era e doveva essere Mattia, che non si era avvicinato a lei, come gli altri, per la sua bellezza, agli altri sembrava lei non se ne accorgesse, ma era troppo furba per non farlo e adesso apprezzava Mattia, per essere diverso da ogni altro che aveva superficialmente conosciuto. “Buona notte, Emma, fa’ bei sogni!” Mattia era sempre un po’ imbarazzato, essendo nuovo in questa situazione, non aveva mai sentito l’esigenza di trovarsi una ragazza come gli altri della sua età, preferiva vivere nei suoi libri e cercare davvero di volare, in alternativa alla vita vera, che somigliava più ad un’esistenza costantemente trascorsa in un rifugio in cui proteggersi dalle bombe che sempre ti vengono inaspettatamente gettate sopra, come se qualcuno volesse non farti scomparire ma fare in modo che tu stesso desiderassi farlo. Emma e Mattia non pensavano a dove potesse essere andato a quell’ora della sera Kali, credevano fosse normale per uno come lui, che non sapevano come definire, con cui loro non avevano mai avuto a che fare; avevano sempre visto ragazzi dalla pelle “semplicemente più abbronzata” aveva una volta detto Mattia a Delia, spiegando che non hanno nulla di così diverso da noi, cercando già di non lasciarsi coinvolgere dall’opinione di Barbara, sulle panchine della stazione, con i piedi scalzi e le mani sporche a sgranocchiare il cibo che le persone più buone lasciavano in giro per gli uccelli o ancora nelle feste di paese negli angoli delle strade a cercare di venderti quel qualcosa che per te potrebbe anche essere nulla e magari getterai pure, ma che per loro è speranza a non mollare. Poco tempo prima Emma, durante una delle sue solite gite al centro commerciale, si era scontrata con un uomo come quelli e allora con il suo sorriso che non mutava a seconda della persona cui era rivolto, aveva chiesto scusa, immaginate che sorpresa per lui, una bianca che si scusava, persino io mi meravigliai, ma era di Emma che stavamo parlando, allora aveva messo una mano in tasca e 49
ne aveva uscito due semplici oggettini, una tartaruga ed un elefantino di colore ambra, scuri come la sua pelle, aveva detto “Ti porteranno fortuna”, Emma li aveva presi e aveva ringraziato con un cenno della testa, le sue amiche la avevano subito invitata a buttarli via, chissà da dove venivano? da chi erano stati costruiti? Emma disse che lo avrebbe fatto a casa, in realtà non lo fece mai ed io ero fiera di lei ancora una volta, quando nessuno sembrava esserlo. Chiusero finalmente gli occhi e ripensarono, come se quelle nuvole nel cielo non lo avessero mai abbandonato, alle liti con i rispettivi genitori, chissà come entrambi sarebbero stati preoccupati, chissà il padre di Mattia come avrebbe reagito, se ancora una volta avrebbe provato a nascondere tutto, adesso poteva prendere la maschera che Mattia aveva gettato, perché lui non l’avrebbe più portata e chissà Margherita, se lo aveva già saputo, probabilmente no, troppo occupata a passeggiare sotto la luna con il suo nuovo uomo, era questo che Emma aveva letto in una lettera ripiegata e nascosta nel portafogli di sua madre, diceva “Sotto quel cielo, quella luna che con i suoi occhi ci sorvegliava e proteggeva e adagiati sulla mano di quel prato verde che sarebbe sembrato il più scuro e profondo se a completarlo e renderlo migliore non ci fossero stati quei fiori, che sono come te, Margherita, nella mia triste vita, grazie a te ho finalmente scoperto cos’è l’amore, è dimenticare tutto e poi sentirsi in colpa per averlo fatto, per una volta con te questa colpa viene sepolta dall’immagine del tuo sorriso e dei tuoi petali, la mia unica casa.” Emma aveva solamente 10 anni quando aveva trovato quella prova che avrebbe potuto usare contro sua madre in un primo momento, ma soprattutto contro suo padre, già, lui avrebbe fatto di tutto affinché ciò non si sapesse in paese e lei lo sapeva bene, ma in quell’età non si pensa ancora che i genitori siano solo come le onde che distruggono ogni castello di sabbia che tu hai faticosamente costruito e a cui credi di tenere quanto la tua stessa vita, Mattia ed Emma avevano pensato a questo miriadi di volte, allora la piccola Emma, molto più riflessiva della grande, aveva immaginato cosa sarebbe successo e pesate le situazioni su due piatti di una bilancia da bambina aveva deciso di proteggere sua madre, o meglio la sua intera famiglia, ne aveva sofferto, ma presto si era abituata all’idea, non aveva mai trovato, lei coraggiosa guerriera, l’audacia di chiedere una spiegazione a sua madre. Kali era rientrato nel mezzo della notte, quando ormai Mattia ed Emma sembravano essersi tuffati davvero nel male che avevano osservato quello stesso giorno, che avrebbero ricordato per tutta la vita e di cui magari avrebbero anche parlato con i lori figli e poi amati nipoti. Aveva 50
osservato alla luce di una torcia, prima il viso di Emma, raffinato, fine, con quel naso ancora da bambina e le lentiggini rosse e rade, con le ciglia lunghe, poi quello di Mattia, così pallido ed inciso, con quel sorriso modellato a perfezione come all’interno di uno stampo e le sue labbra erano così rosee e giuste per completare quel volto, così diverso dal suo. Poi si era anche lui sdraiato sul pavimento freddo, che fino a quel momento era stato solamente suo, ma era felice, lo stava condividendo con qualcuno, non era più solo e sembrava più caldo di quanto lo avesse sempre ricordato. La notte passò velocemente e come sempre sembrò quasi di non aver chiuso veramente gli occhi. Il sole che entrava dalla piccola finestra dai vetri che portavano come un combattente le ferite di una dura e violenta lotta si posò sul viso di Emma, lei schiuse gli occhi e le sembrò davvero di aver sognato tutto ciò che era successo il giorno precedente e di stare ancora sognando, quando Kali si svegliò e ancora, poco dopo, Mattia. “Buongiorno!” disse Mattia, con la voce ancora impastata dal sonno. “Giorno.” Kali rispose invece come se fosse sveglio da ben più tempo di quanto in realtà lo fosse. “Ehi, cosa facciamo oggi?” Il momento di smarrimento di Emma era già passato, la sua fame di libertà era tornata, avrebbe voluto fare qualcosa di nuovo, fare tutto ciò che non aveva mai avuto il permesso di fare, adesso pensava a lanciarsi con il paracadute dalla montagna più alta della città o ancora a sfidare Kali e Mattia ad entrare nella casa che si diceva fosse stregata o semplicemente correre a piedi nudi sulla spiaggia segreta ed abbandonata che aveva voluto incontrasse Mattia. “Io, beh, dovrei andare, sì, fuori.” “Certo che sì, verremo con te, se lo desideri!” Emma non immaginava neppure quale fosse il luogo in cui Kali ave a intenzione di andare, forse a chiedere l’elemosina, come il giorno precedente, ma la sua giornata non era formata solo da questa che per lui era necessaria alla sopravvivenza. “Non credo voi vorreste.” “Beh, lascia decidere noi, non pensi?” “Bene, sono d’accordo, potrete comunque rifiutare una volta arrivati!” “Ahah, spero non dobbiamo aver paura, Kali!” Mattia aveva spostato il suo sguardo da un volto all’altro, cercando di studiare i pensieri del primo e della seconda, era una ragazza così spensierata, persino in un momento come quello, brillava di una luce che riusciva a riflettere su tutti coloro che la circondavano, compreso lui che era sempre stato il buco nero nella sua galassia, adesso quella stella stava adagio adagio guadagnandosi un proprio anello. 51
“Non immagino la vostra reazione. Spero vi divertiate quanto me!” Nel piccolo lavabo presente nella stanza a turno strofinarono il proprio viso con la saponetta e con la poca acqua colma di calcare che scorreva quasi come un filo invisibile, quello che aveva legato ciascuno di loro. Uscirono di fretta da quel piccolo buco che li aveva protetti per quella notte. Kali cominciò a correre nel mezzo dell’umidità estiva, somigliava tanto ai cavalli dei cartoni che con le loro criniere al vento si lanciano per pascoli bagnati dalla rugiada del mattino, Mattia ed Emma lo seguirono e sembravano tornati bambini, che in fretta cercavano di trovare l’amico nascosto dietro un qualche cespuglio; arrivarono dopo qualche minuto ad un edificio nascosto in una viottola anonima del paese, in cui Mattia ed Emma erano solo passati distratti da altri mille pensieri che ritenevano più importanti, era su due piani, ma con il soffitto basso, le finestre lucide coperte da piccole tende come quella della casa del nonno di Emma. Aprendo la porta, le orecchie dei tre ragazzi sentirono un suono dolce e soave, quello di un campanellino dorato che pendeva dal battente della porta, il cui legno sembrava ormai fracido, ma ancora vigoroso come se ciò che vedesse gli permettesse di rimanere in vita, gli desse quella linfa che neppure le vere radici gli avrebbero potuto donare, che posto era quello? Chi erano quelle persone? Non sembravano somigliare a Kali, non condividevano il suo colore della pelle, ma avevano uno sguardo triste, preoccupato, afflitto, minaccioso anche, duro come pochi ne avevano visti. “Eccoci arrivati! Vado un attimo nella stanza accanto … cominciate a conoscere qualcuno, sempre che non vogliate tornare indietro!” “No!” Mattia era come uscito da un attimo di estraniamento, come se con la sua navicella fosse appena tornato sulla terra, aveva pronunciato quella semplice parola con un’intensità tale da far sorprendere anche Emma, lei che non si meravigliava di nulla, mai. “Certo che rimaniamo!” Emma voleva salvarlo dall’imbarazzo certo di spiegare perché un tale tono, non aveva ben capito di cosa si trattasse, ma certamente voleva scoprirlo. Kali passò velocemente nella sala accanto, Mattia aveva perso il rossore acquisito solo qualche istante prima, un bambino di forse poco più di 6 anni gli si avvicinò, aveva gli occhi verdi, molto più scuri di quelli di Emma ed i capelli rossi come il fuoco, “Chi sei tu?” “Sono Mattia, tu invece chi sei?” “Sono Davide, ma cosa siete venuti a fare qui?” “Beh, in realtà, non so, voi cosa fate qui?” A Mattia sembrava di non 52
sapere nulla, in quel momento stava solo ripensando a come lui era all’età del piccolo bimbo, che adesso lo stava guardando con grandi quegli occhi grandi. “Noi veniamo qui per mangiare oppure per dormire e Kali spesso ci aiuta, lui è speciale! E lei chi è?” Andavano là per mangiare e Kali che non aveva nulla, che aveva lasciato il proprio paese per essere aiutato adesso era lui a tendere agli altri la propria mano, perché lui non lo aveva mai fatto? Non ci aveva neppure mai pensato, lui che invece aveva tutto e credeva che io scatenassi la mia ira solo nei suoi confronti, che io lo odiassi a tal punto che lui desiderasse morire, già morire, ci aveva pensato varie volte, sentendo al telegiornale o leggendo sui giornali del suicidio di qualche incompreso ragazzo che io gli stessi fornendo tutti i mezzi perché lui venisse davvero da me, con la sua anima che davvero avrebbe aggiunto un ammirabile pezzo al mio cuore, rimasto solo un puzzle, dopo quel terribile scoppio di cui in realtà non riesco ancora a parlare. “Io sono Emma, anche io sono un’amica di Kali, davvero lui aiuta voi?” “Sì, è uno dei pochi che continua a venire qui tutti i giorni, portando con sé quel poco che riesce a trovare o semplicemente aiutando a cucinare, giocando con me e cantando per coloro che purtroppo non ci vedono più, la sua musica, la sua voce permette di vedere persino più di quello che vedete voi!” Kali giunse con un vassoio in mano, i suoi occhi erano luminosi come candele dall’apice incendiato e caldo, venne dritto verso di noi, “Avete già conosciuto Freccia, sapete è un fulmine e poi con quella scia rossa di capelli, è un bravo bambino anche se potrebbe non sembrarlo, qualche volta!” “Già, simpatico.” Mattia lo pensava davvero, aveva sempre desiderato avere un fratellino come tutti gli altri a cui insegnare tutto ciò che suo padre non aveva potuto trasmettere a lui. Emma e Mattia rimasero impalati per qualche minuto, mentre Kali si dava da fare volando da un angolo all’altro della sala, le sue risate risuonavano nell’aria calda e pesante, la sala era colma di gente di tutte le età, a partire da un neonato che sembrava capire di non dover piangere, fino a degli uomini con il volto inciso e incavato dall’esperienza, dalla distruzione vista e contemporaneamente con un costante sorriso che sembrava non scomparire mai, gli occhi persi e fissi, lucidi e riflessi gli uni negli altri. Entrambi avevano voglia di aiutare, Emma avrebbe desiderato dipingere quelle immagini sul suo blocco e addirittura imbrattare i muri bianchi e anonimi di quella stanza triste e monotona, Mattia avrebbe 53
voluto scrivere del tempo, della tristezza e insieme della felicità che solo pochi sono in grado di mostrare veramente, dopo averla faticosamente cercata, avrebbe desiderato leggere loro le sue piccole opere, parlare della saggezza che i suoi filosofi sembravano adesso dover spartire con loro. Mattia si avvicinò a Kali, “Potremmo, insomma, fare qualcosa anche io e Emma? Cioè aiutarti?” Kali aveva sgranato gli occhi: sono rari i casi in cui due fuggitivi decidono di prestarsi a servire qualcuno di cui prima avevano sempre voluto ignorare l’esistenza. “E’ normale, non sentitevi obbligati, ma basta che voi li facciate ridere o gli portiate delle tazze di latte dalla stanza accanto, ho informato della vostra presenza.” Mattia si avvicinò ad Emma, lei gli afferrò il braccio e andarono nell’altra stanza, salutarono con un allegro, ma timido “Buongiorno!” e presero delle tazze bianche fra le mani, erano calde , scottavano; giunti nell’altra stanza, volevano superare tutto l’imbarazzo che provavano, desideravano urlare i loro nomi, ma non lo fecero, Mattia si accostò ad un ragazzo dai biondi capelli, dagli occhi quasi chiusi, si era accorto di lui fin dal primo momento in cui era entrato, somigliava tanto all’immagine che lui si era creato pensando a Ismael, aveva un fisico sottile ed un profilo elegante e fine, “Prego, io sono Mattia!” “Grazie, io Paolo.” Aveva alzato i suoi occhi, erano scuri, molto scuri e profondi, avevano però delle sfumature di giallo, simili a piccoli raggi di sole liberati dal nucleo dello stesso cielo. Mattia si allontanò, prese altre tazze e le porse con calma a coloro che non l’avevano ancora ricevuta, ad un’anziana signora dai capelli color cenere, con dei lunghi ricci che sembrava voler tenere alle redini, ma che continuavano a sfuggire da qualche punto nascosto, poi ad una ragazza dai lineamenti dell’est, aveva dei capelli giallo paglierino e occhi azzurri, quasi confondibili con la sclera dell’occhio, contemporaneamente emergevano dei sottili filamenti di colore rosso, sembrava avesse pianto, perché? Emma invece dapprincipio si era avvicinata ad una donna che le ricordava tanto sua madre, aveva i capelli color mogano come i suoi e anche gli occhi erano molto simili, “Ecco signora, sono Emma, lei come si chiama?” “Sono Eveline, grazie, sei davvero molto carina!” Sì, in quel momento Emma sembrava più bella che mai, con quel suo viso che emanava bagliori da ogni punto, che sembrava l’incontro della spiaggia più dorata con il mare più limpido e azzurro, così era Emma, era buona e sincera, 54
niente avrebbe potuto rubarle quel sorriso. Presto Kali cominciò ad intonare delle note alte e soavi, pronunciava delle parole che non appartenevano alla loro lingua, ma sembrava loro di comprenderle, una per una, meglio di quelle che sentivano da una vita, aveva una voce che mai ti saresti aspettata, sembrava nascere dritta dal cuore e giungere alle labbra carnose e chiare, era come un dardo che veloce colpisce anche il cuore altrui, ben presto tutti cominciarono a cantare, tranne Emma e Mattia, che temevano a guardarsi ma sapevano di starlo facendo con gli occhi dell’anima. Quando Kali concluse la sua esibizione, ricevette degli applausi misti a risate, risate spontanee e amabili, a loro sembrava davvero di amare quella gente, che conoscevano da poco più di un’ora, un po’ come era accaduto con Kali, ma nei cui occhi avevano letto una gratitudine immensa, un grazie aveva detto più di mille parole, una donna aveva addirittura stretto la mano a Mattia così forte da fargli male, Mattia dapprincipio aveva avuto paura per la sua salute, chissà, forse avrebbe preso qualche malattia, sarebbe morto il giorno seguente, ma almeno sarebbe stato felice, avrebbe potuto sorridere e presentarsi a me sbattendomi in viso questa sua bolla di ricordo, mi avrebbe mostrato quei momenti o forse no, lui lo avrebbe tenuto nascosto, lo avrebbe conservato nel suo cuore, inconsapevole del fatto che io ero la colomba poggiata sul ramo dell’albero davanti la finestra e osservavo loro, che stavano quasi per piangere, trattenevano a stento le lacrime, sapevano di non dover essere loro a piangere, che avrebbero solo trasmesso ulteriore tristezza a Eveline, Paolo, Freccia e tutti gli altri, sarebbe stata una colpa troppo grande, fu per questo che ordinai alle loro piccole anime di nascondere i diamanti delle loro lacrime. Kali disse loro che dovevano andare, purtroppo adesso sarebbero arrivati gi uomini più instabili, pericolosi, incontrollabili e non era loro permesso restare, ciascuno cominciò a salire le scale, l’anziana signora venne aiutata da Kali, sembravano quasi dei prigionieri che legati per le caviglie l’uno all’altro, andavo incontro alla pena della morte e Mattia ed Emma non riuscirono più a sopportare una tale vista, alla forte Emma sfuggì una lacrima, di cui sia Mattia che Kali si accorsero, prima di andare via, Freccia, che era sempre l’ultimo ad andare al piano di sopra, si rivolse a Mattia, “Verrete anche stasera, vero? E’ il giorno della carne, oggi!” Mattia desiderava stringerlo, dirgli che sarebbe andato tutti i giorni, che lui era davvero una freccia, che gli aveva attraversato il cuore, desiderava condurlo a casa sua, nella sua soffitta colma di giochi ormai abbandonati che non aveva mai pensato di regalare a qualcuno come loro, “stupido 55
egoista” si ripeteva. “Certo che sì, contaci!” gli strinse il mignolo in segno di promessa, come non faceva da anni, da piccolo si imponeva di non infrangere mai i patti creati con questo gesto, qualche volta lo faceva, quella volta non lo avrebbe fatto! Uscirono e corsero nuovamente verso il rifugio, Mattia immaginava di essere su un prato fiorito di solo di primule, quello per lui era un nuovo inizio e dalie, simbolo di gratitudine, perché sentiva di dover dire grazie a Kali e a ciascuno di quegli amati sconosciuti, Emma invece sognava di cavalcare in un orto e di raccogliere frutti da portare a quel centro, da odorare e addentare sorridendo, per Kali non era una novità, ma quel giorno aveva ricevuto dal cielo una nuova speranza, in quei due piccoli esseri, che non avevano mai visto un loro amico saltare in aria a causa di una bomba, che non avevano mai attraversato il mare in tempesta, che non avevano mai dovuto elemosinare, ma che sembravano voler dividere con lui tutto ciò che aveva sofferto. Giunti dinnanzi la porta del rifugio, Kali disse che adesso doveva andare da solo, per loro sarebbe stato troppo pericoloso esporsi così, avrebbero potuto trovarli e non potevano rischiare di perdere la libertà che erano ormai certi di aver conquistato, si sarebbero visti poco dopo il tramonto davanti alla porta che mai nessuno di loro avrebbe più dimenticato, poiché aveva loro aperto un nuovo mondo. Entrati non parlarono per qualche minuto, continuavano a nascondere i propri pensieri più segreti, entrambi sentivano fremere le loro mani, Emma uscì dalla borsa il suo album e cominciò a scarabocchiare qualcosa, non stava disegnando, non se prima non avesse chiarito con se stessa come si sentiva adesso, dava le spalle a Mattia che rileggeva le sue pagine ma che perdeva ogni istante il filo, continuava a vedere nei suoi occhi freddi il calore di Freccia, di quella creaturina che più degli altri non meritava di trovarsi lì, che doveva correre e abbuffarsi di caramelle fino a stare male e che poi doveva ricevere un rimprovero e un abbraccio dalla mamma, come faceva la sua, ma Mattia ignorava il fatto che Davide aveva perso la mamma quando era stato messo al mondo e che l’unico che si era preso cura di lui era il fratello maggiore, Paolo, che aveva dovuto abbandonare la sua vita perfetta, la sua ragazza, la scuola per far in modo che non finisse in una comunità, era colpa mia? Dovevo sentirmi colpevole? Non credo, tutto accade per un motivo, oscuro, incomprensibile, odiato dapprincipio, ma forse il più lontano giorno, mi auguro, avrò il piacere di sedere di fronte a lui e spiegargli tutto! Uno scoppio improvviso interruppe le sequenze che avevano invaso la 56
mente, o meglio il cuore di Mattia, era Emma, i suoi occhi erano pieni di lacrime, cercava di non far comprendere nulla al suo unico compagno, il blocco che copriva il viso, il foglio inumidito e la matita rotolata rumorosamente sul pavimento, “Emma, Emma, lo so!” “Credi di sapere, non sei mai stato cattivo quanto me, non hai mai creduto di non avere nulla quando avevi tutto, non hai mai rinnegato l’appartenenza a questo mondo e non l’hai mai maledetto con tutte le tue forze per il motivo più banale ed inutile, è questo che sono io!” Sembrava che qualcosa o qualcuno si fosse impossessata di lei, che un fulmine l’avesse colpita dritta a quella parte del cuore, rimasta gelata per 16 lunghi anni. “Sono stato molto più cattivo di te, non mi sono limitato a maledire tutto e tutti con i miei silenzi e i miei falsi sorrisi, ho cercato di nascondere e dimenticare mia sorella e mio padre e ho distrutto mia madre, nella mia intera vita ho ignorato ciò che era fuori dal mio raggio visivo, non ho mai pensato di voltare la testa per un attimo pensando a ciò che stava dietro di me, mi sono sempre creduto più perfetto degli altri, migliore, ma meno fortunato, solo oggi qualcuno mi ha scosso prendendomi per le spalle e credimi non sei inutile, non tu, non più ora!” Matita prese la mano di Emma e la strinse nella sua, di poco più grande, gli rivolse una carezza impacciata ed esitante, ma sincera, come quando l’amico del cuore soccorre l’amica caduta dopo la sua prima volta in bici, il suo viso era caldo, le sue guance scarlatte e i suoi occhi cerulei erano ormai immagine della sua anima combattiva, ma spaventata, “Grazie Mattia, grazie, forse gli uomini sono destinati, anzi condannati, a sbagliarsi, a tenere gli occhi chiusi e necessitano di una brezza crudele e improvvisa che gli apra, oltre che questi, anche il cuore!” “Grazie a te Emma, le parole perfette, le ruberò sappilo. Ritorneremo là e porteremo qualcosa a Freccia, anche qualcosa di piccolo, saprà apprezzarlo, ne sono certo!” Mattia non si era reso conto di tenere la sua mano fredda, come sempre d’altronde, sul viso di Emma, che si era ormai raffreddato come lava sfiorata da fiocchi gelati di neve, Emma adesso voleva sorridere, custodiva ancora al suo interno il rammarico per ciò che avrebbe potuto fare da anni, ma pensarci non l’avrebbe ricondotta al passato, adesso poteva solo rivoltare se stessa, il suo e il futuro di quegli ignoti eroi, come le diceva sempre un vecchio saggio, Mattia non riusciva a distogliere il suo sguardo dal viso di Emma, il pianto rende sempre più puri, libera sempre da quegli iceberg che si accumulano lungo la costa del nostro cuore, rimasero così per qualche istante che a entrambi 57
sembro un’eternità, il “per sempre” che vanamente continuavano a cercare, presto Mattia ritirò rapido la sua mano affusolata e la passò per i ricci capelli, quasi a volerla nascondere, ma non si sentiva ingenuo, stupido, illuso, come spesso l’amore fa sentire, ma il suo era amore? “Cosa vuoi regalare a Freccia, non abbiamo nulla o meglio io ho del denaro!” “No!- la interruppe Mattia – io ho qualcosa, era un regalo di mio padre, ricordo che non era potuto essere presente al mio ottavo compleanno e allora aveva deciso di farsi perdonare ed io lo avevo fatto.” Mise una mano in tasca e ne uscì una piccola palla di neve, che stonava con il caldo di quel periodo, all’interno si vedeva un piccolo cavallino a dondolo con un bimbo sopra, “E’ fantastico, ma davvero, vuoi?” Emma accarezzò delicatamente il vetro freddo. “Sì, ho soltanto questo, ma ci tengo molto!” I raggi del sole colpirono l’oggetto ed un arcobaleno sembro coprire la piccola sfera, ero ancora io. “Bene, sta per tramontare, dovremmo andare.” Uscirono in fretta, dopo aver avvolto in un piccolo sacchettino marrone il regalo che prima era stato di Mattia, adesso sarebbe appartenuto a Freccia. Attraversarono ancora quelle strade che sembrava loro di conoscere da sempre, giunsero al luogo fissato e Kali era già lì, con due borse in mano, Mattia gli si avvicinò e ne prese una, entrarono e tutto era come lo avevano trovato la mattina, niente sembrava essere cambiato, gli stessi sguardi tristi e lo stesso sorriso che sembrava ormai immobile sui visi stanchi. “Siete venuti per davvero!” Era Freccia, era corso loro incontro e aveva stretto Mattia fra le sue piccole braccia, qualcun altro si era ricordato di loro. “Certo, era una promessa. Ti abbiamo portato qualcosa!” Mattia aprì la mano che prima aveva sempre tenuta stretta e serrata per paura che quel dono cadesse e si frantumasse, come la vita di quel bimbo, prima ancora che nascesse, gliela pose dinnanzi agli occhi e li vide aprirsi ancora più grandi di quanto non fossero, “Grazie, è mia, davvero?” “Assolutamente sì, prendila, trattala bene, mi raccomando!” Mattia per una delle poche volte nella sua vita stava mostrando i suoi sentimenti, sicuro del fatto che dall’altra parte non si trovava una persona come quelle che aveva fino a quel momento conosciuto, i bambini sono sempre più buoni e se ciascuno di noi fosse come loro, tutto andrebbe in modo migliore, perché loro sono in grado di apprezzare anche le più 58
piccole cose della vita con semplice innocenza e gratitudine. “E’ bellissima, la terrò al sicuro! Sembro quasi io quel bimbo che c’è dentro.” Continuava a fissarla e a rigirarla fra le mani come se volesse scoprire qualcosa di segreto, notato solo da lui. “Potresti esserlo, Freccia, forse un giorno lo sarai!” Era Emma che dolce come non mai si stava intromettendo, stava passando la sua mano sulla spalla del piccolo e si stava dirigendo verso gli altri ospiti di quello che non sapeva se far somigliare ad una prigione o ad un magnifico giardino. Freccia adesso correva intorno al tavolo della sala, ma prestava particolare attenzione a quel tesoro che adesso era soltanto suo, mentre tutti gli gridavano di star fermo e di mostrargli ciò che aveva fra le mani. Kali era già passato nella stanza limitrofa, Emma adesso si era seduta vicino alla ragazza dell’est, che il giorno precedente aveva tanto colpito Mattia, aveva detto di chiamarsi Dika e di essere là solo da pochi giorni, Mattia invece discuteva con un anziano signore, mentre Paolo era come al solito seduto nel suo freddo angolo, solo e silenzioso. Emma si accostò a Mattia e gli disse che voleva fare qualcosa, che voleva anche lei far tornare, come durante le canzoni di Kali, in vita quel luogo, voleva animare le pareti, le tende, ma soprattutto voleva rianimare quegli uomini. Aveva portato con sé il suo album e seduta di fronte a Freccia cominciò a ritrarlo, con una faccia buffa, con un costume simile a quello dei supereroi, dietro di lui compariva Dika, non più con gli occhi rossi e affaticati, poi ancora Eveline e l’anziano uomo, ciascuno di loro aveva un proprio posto, infine Paolo e sorrideva anche lui, Emma non amava i colori, ma questo non cambiava nulla, siamo noi a dare i colori a ciò che desideriamo e anche quel disegno si sarebbe colorato se lo avesse fatto la realtà, continuò facendo schizzi bizzarri, Mattia cominciò a leggere ad alta voce le sue pagine, i resti di quella che era stata la sua vita, adesso gli occhi di Paolo si illuminarono, non era molto più grande di Mattia e anche i suoi sogni non erano molto diversi, Mattia aveva letto quelle parole solo perché non sapeva come altro mostrare la sua persona, non credeva che qualcuno si sarebbe davvero interessato a quella stupida fantasia, ma quando ebbe finito, “Mattia, la storia è splendida, non leggo un libro da almeno 6 anni!” era davvero una cosa possibile? Mattia aveva tanti di quei libri nella sua libreria, una volta finiti li richiudeva e li lasciava lì fino al momento in cui non credeva fosse conveniente leggere nuovamente quella storia, per dare un’interprestazione differente o semplicemente per rivisitare un luogo già noto visto con un altro sguardo, “Beh, non molto, sono poche pagine, ma mi piacerebbe continuare.” 59
“Devi farlo, assolutamente e vorrò leggerlo!” A Paolo era tornato quell’entusiasmo che Mattia non conosceva di lui e che non avrebbe mai immaginato poter nascere per quella causa, ma era così, Mattia aveva trovato qualcuno a cui importava ciò che amava, che lo apprezzava davvero, senza conoscerlo neppure. “Spero di sì, ma ti piace leggere?” “Già, molto, in realtà non ricordo neppure cosa significhi, è un’immagine troppo lontana, inafferrabile!” “Vedremo di rimediare, il prima possibile.” Emma e Mattia aiutarono Kali a portare i vari pasti, Freccia doveva amare davvero tanto la carne, forse anche perché la mangiava piuttosto raramente, si sa quando qualcosa non si possiede, si apprezza maggiormente al momento in cui arriva. Anche loro poterono mangiare un po’ di carne ciascuno, erano deboli, ma non si erano neppure accorti di questa fame di cibo, perché era ormai stata saziata quella di libertà. Sarebbero dovuti andar via di lì a poco, ma volevano rimanere, parlare ancora con loro, Mattia voleva ancora far ridere l’anziana donna dai ricci capelli, ballando con lei, nonostante la sua cecità, voleva ancora sentire le storie che Dika raccontava al bambino che gli era stato portato via, le fiabe che inventava per lui o semplicemente seguire con lo sguardo Freccia, che sfrecciava appunto felice con la sua pallina piccola nelle sue mani. Mattia venne nuovamente sorpreso da un suo abbraccio, diede una stretta come se fossero amici a Paolo, ottenne un bacio sulla guancia dalla sua compagna di ballo e un semplice cenno della testa dall’uomo, Emma invece aveva cominciato a vedere in Eveline quella figura materna che gli era sempre mancata e come tale le aveva dato un bacio sulla fronte, Dika invece le aveva stretto le mani, perché non riusciva più ad abbracciare qualcuno. La scena che stavano per lasciarsi alle spalle non era affatto simile a quella che avevano visto entrando, e loro osservando e constatando ciò erano felici. Corsero ancora per strada, questa volta più veloce, con più energia, con più ardore, con più desiderio di aiutare, perché aiutare ti rende sempre un po’ inebriato dal profumo della felicità. Entrarono in casa e si distesero ancora, come la sera precedente, ciascuno vedeva nei propri occhi quelli di Freccia, di Eveline, di Dika, di Paolo e con questo specchio della loro anima, si addormentarono. Ero anche io appagata da queste loro nuove scoperte, avevano capito che il mondo non finiva oltre il giardino o oltre le pareti di una discoteca, che fingere di non vedere può servire, ma solo se hai intenzione di rimanere tu stesso confinato entro le mura della tua vita, ti proteggeranno 60
sì, ma ti condurranno a perdere istanti di sorrisi che in nessun’altra parte potrai trovare, neppure scavando a fondo nella tua stessa anima con le unghie stanche e disincantate, perché è solo in luoghi come la casa degli eroi che potrai trovarla realmente. Svegliatisi come la mattina precedente, con il sole caldo che sembrava voler bruciare la pelle, si alzarono e raggiunsero la loro nuova famiglia, continuarono a cantare e a ballare, su note cantate da Kali fino a che non arrivarono di nuovo gli uomini che loro non potevano vedere e nonostante sia Kali che loro avessero insistito, non erano ancora pronti, non avrebbero saputo come reagire diceva la donna che sembrava saper tutto della vita. Mattia aveva un altro progetto, avrebbe dovuto portare dei libri, anche uno soltanto a Paolo, aveva detto che avrebbe fatto il possibile, doveva tornare a casa sua di nascosto, entrare dalla finestra che dava sul giardino, non sarebbe stato difficile, ciò che gli occorreva era solo tanto coraggio, dopo aver salutato Kali ed aver fissato di vedersi prima del tramonto dinanzi la porta di “casa degli eroi”, così ormai la avevano intitolata, uscirono in fretta . “Emma, devo andare!” “Ma non credi che non valga la pena rischiare per un libro?” Emma non voleva che la favola che stava vivendo, estremamente diversa da quella che tutte le altre ragazze sognavano, finisse così e adesso. “No, ci riuscirò!” “Ok, allora ci riusciremo, insieme!” Emma era un ragazza che non smetteva mai di parlare, nonostante ciò sapeva sempre quali fossero le parole giuste, a Mattia serviva un’amica come lei, che lo appoggiasse almeno per una volta nella vita. Si avvicinarono all’appartamento con i cappucci a coprire il capo, scavalcarono il cancello che sebbene fosse piuttosto alto a loro non faceva paura e voltato l’angolo del palazzo si avvicinarono alla finestra, “Vengo anche io?” Era ancora Emma a parlare, sorridendo e sentendosi fiera di essere stata lei a trovare qualcuno disposto a tanto, come Mattia, lo ammirava profondamente perché se anche era diverso da lei, le stava vicino senza giudicare, accusare, come mille altri facevano. “Non preoccuparti, ci starò poco, controlla che non ci veda nessuno!” “Certo.” Emma rimase di guardia, mentre Mattia entrava dalla finestra che sua madre aveva da sempre avuto l’abitudine di lasciare aperta, oltrepassato ancora il davanzale, scansò le tende, riflettendo su quale libro avesse potuto prendere, forse sarebbe stato meglio uno con un lieto fine, non banale ovviamente, un libro drammatico avrebbe solo portato 61
Paolo a creder ancora meno nella mia forza, cioè nella forza dell’Anima che sta al di sopra di tutto. Il letto era appena sotto la finestra, scese sul cuscino, con lo sguardo rivolto agli alberi vicini alla finestra, pensando ad Emma, che continuava ad assecondarlo nei suoi folli progetti, quando in realtà la più strana fra loro era sempre sembrata lei, ed ecco là, affranta, spossata, con le mani a tenere il viso e il rumore dei singhiozzi nelle orecchie, lei, Barbara, cosa stava facendo in camera sua? Perché continuava ad ostacolarlo, anche adesso, che lui non c’era più per lei? Rimase immobile, come un animale che desidera mimetizzarsi quando un predatore sta per piombargli addosso, “Mattia, sei tu? Non sto sognando, ancora?” Barbaro lo aveva visto, chiedeva se fosse solo un sogno, Emma era ormai preoccupata, Mattia era stato fermo ad attendere per circa un minuto e aveva visto che neppure sua madre si muoveva, “Mattia, ma? Non sei più tornato?” Ecco anche Emma, Mattia non era più risceso e forse lei non sarebbe mai dovuta salire, “Chi è lei?” Barbara aveva corrucciato la fronte, con le sue rughe di espressione che la caratterizzavano tanto. “Emma, lei è mia madre, Barbara. – Mattia stava rivolgendo alla ragazza uno sguardo che chiedeva perdono, che contemporaneamente la implorava di fuggire, era ancora in tempo, per essere libera, in realtà lui non voleva perderla, era la sua prima compagna, l’unica che lo aveva capito davvero-Mamma, lei, è Emma, un’amica.” “Ma, dove sei stato? Stavamo per chiamare la polizia? Come hai potuto farmi una tale cosa? Stavo per morire, Mattia, non hai pensato a me, papà, Delia?” “Mamma, lasciami andare, ti prego, mamma, non posso vivere qui, non sono felice!” A Mattia scorreva una lacrima lungo il viso, non tentava di nasconderla, non più, adesso gli importava solo di vivere come aveva trascorso quei due soli giorni, non era spaventato, non era affamato, stanco, era felice. “Credi davvero che ti lascerò uscire ancora? Emma, chi sono i tuoi genitori?” “Mamma, lascia stare Emma, lasciala andare. Emma, và dritta da Kali, dì che io … non so, corri.” Emma non poteva abbandonarlo, nonostante il suo desiderio di fuga, di aria fresca, lei non lo avrebbe lasciato adesso, “Mio padre è …” “No, Emma, va via, subito!” “Non posso andare via, lo sai bene, c’è un promessa, ci saremmo aiutati a vicenda.” 62
“Loro hanno più bisogno di te, Freccia, Paolo, prendi un libro e portaglielo, saluta tutti da parte mia.” “Di cosa state parlando, chi sarebbero Freccia, Paolo, chi sono, Mattia?” sua madre non voleva che Mattia incontrasse persone a lei sconosciute, non era cattiva, era semplicemente protettiva e voleva vedere realizzati in Mattia i suoi sogni. “Mamma, vuoi saperlo veramente? Abbiamo incontrato un ragazzo Kali, lo abbiamo seguito fino ad una casa, una casa vera, lì vivono tante persone, Freccia è un bambino di sette anni, Paolo è suo fratello, mangiano e dormono in quel luogo, so che tu lo disprezzeresti troppo, non voglio nemmeno dirti ciò che si prova quando con i loro occhi, mamma occhi non perfetti, occhi che hanno pianto, che hanno vissuto davvero o che non lo hanno fatto per nulla, ti rivolgono un grazie, ero venuto solo a prendere un libro, non sarei tornato mai più, perché tu non hai un’anima!” Lo sfogo di Mattia non poteva concludersi in maniera peggiore, non era vera quest’ultima parte, Barbara aveva un’anima, spesso non lo mostrava, non nei disegni, non nella scrittura, ma lei aveva un’anima, perché tutti anche i peggiori individui la possiedono, in alcuni è poi un po’ più sepolta rispetto ad altri, ma ciò non significa che non ci sia, anzi talvolta dove non appare subito e così visibilmente è celata la più amabile. “E’ questo che pensi? Bene, Mattia, và via!” Adesso puntava il suo indice alla finestra, lo stava davvero cacciando? In realtà era lui a voler andar via e adesso che aveva la possibilità di scegliere, cosa avrebbe fatto? Spesso si va contro i genitori solo perché è questa la prima regola degli adolescenti; sì, Mattia aveva preso per mano Emma e adesso stavano davvero andando via, teneva un libro fra le mani, non aveva potuto vedere quale, lo aveva afferrato frettolosamente, ma lui amava ciascuno dei suoi libri, come amava sua madre e adesso le stava davvero dicendo “Addio” una volta per tutte? Il giardino aveva dei fiori secchi, d’estate necessitano sempre dell’acqua che Barbara amorevolmente lasciava loro piovere su, sembrava abbandonato e tutto ciò per soli due giorni di dolore in sua madre, cosa sarebbe successo se fosse andato via per sempre? Non poteva pensarci, adesso correva, tenendo Emma per mano, era ormai passato da un po’ il tramonto e si recarono subito dove Kali avrebbe dovuto aspettarli, non c’era, non era lì davanti come il giorno prima, spinsero forte la porta ed ecco Freccia piangere, fra le braccia di Kali, aveva creduto che anche loro lo avevano abbandonato e forse stavano davvero per farlo, ma nel momento in cui li vide, Freccia sorrise, anche i suoi occhi sorridevano, 63
allora andò a gettarsi su Mattia, era tornato, sapeva in fondo che non lo avrebbe mai lasciato, che lui gli sarebbe stato vicino, che gli voleva bene, “Ehi, piccola freccia, perché piangevi?” Mattia tentava di nascondere i suoi dubbi, le sue preoccupazioni, non era quello il momento in cui lottare con se stesso, anche se la parte che io preferivo non era più sola. “Credevo … niente, Mattia!” Lui si sollevò e accarezzò i rossi capelli di quel bambino che lo sorprendeva sempre di più. “Paolo, ti ho portato questo.” Gli si avvicinò tenendo tra le mani “Dammi da bere”. “Grazie, ma posso davvero leggerlo?” “Sì, Paolo, è tuo!” Paolo non sapeva ciò che Mattia aveva affrontato per averlo, non avrebbe mai permesso che Paolo non lo prendesse. “Grazie, Mattia, sei una persona da ammirare, hai coraggio, a stare qua con noi, io alla tua età non ci avrei mai pensato.” “Nemmeno io, credimi, non riesco ancora a credere di essere qui.” “A 16 anni, pensavo soltanto a me stesso, ero figlio unico, sono nato quando mia madre era molto giovane. A 20 anni appena compiuti, era il giorno del mio compleanno, mia madre, che aveva incontrato un altro uomo dopo la morte di mio padre, mi disse di aspettare Davide, ero contento, anche se mi ero molto allontanato da lei, ero andato a vivere da solo, la ignoravo, sentivo che aveva tradito mio padre, che non lo meritava; lei era piuttosto grande e c’erano dei rischi nel tenere il bambino, è stata coraggiosa, ma purtroppo questo suo coraggio non è stato ripagato, adesso è un angelo che veglia su Davide, perché io non riesco neppure a guardarlo, me la ricorda troppo e talvolta mi sembra di odiarlo; la cosa peggiore è che io l’avevo abbandonata e guarda adesso in che situazione permetto a Davide di vivere, dovrei prendermi cura di lui, ma non ne sono in grado.” Rimasero in silenzio per alcuni istanti, Mattia che non aveva mai smesso di pensare a sua madre, sembrava adesso voler morire davvero, ecco cosa era successo a Paolo: adesso che desiderava chiarire tutto, chiedere perdono non poteva più farlo, era il suo stesso errore, ma in fondo era ancora in tempo per rimediare e lo sapeva bene. “Paolo, mi dispiace, non è vero che odi Davide, ne sono certo, so che tu vorresti far sì che vivesse meglio, ma ti è stato tolto tutto a soli 20 anni; il coraggio di tua madre in fondo è stato ripagato, guarda Davide, è per lui che ha combattuto!” Emma stava anche lei pensando a ciò che era stato detto in camera di Mattia, da lui, da Barbara, sapeva che non meritava questo, quella 64
donna, neppure sua madre lo meritava. La giornata era nuovamente conclusa e si apprestavano a tornare a casa, questa volta però nessuno correva, Emma era preoccupata per Mattia, lui pensava solamente a Paolo e Freccia e Kali non riusciva a comprendere più ciò che stava accadendo, ma non voleva ancora spegnere quel piccolo lume di speranza che si era da poco acceso nel suo cuore; durane il cammino Emma si era messa a fianco di Mattia, “Non essere preoccupato per lei, puoi sempre tornare, non conta la promessa in questo caso, se lo vuoi!” “No, non voglio; Paolo mi ha raccontato che sua madre è morta, mentre nasceva Davide, si sente in colpa per la vita che conduce, aveva abbandonato sua madre e lei è andata via, sapendo di essere stata rifiutata da lui!” Ancora qualche secondo di silenzio, non era possibile trovare, neppure per Emma, le parole giuste ad una dichiarazione come quella appena fatta. “Mattia tu vuoi tornare, fallo! Sei in tempo.” “Lo so, ma non posso farlo, dopo quello che le ho detto, le ho fatto troppo male, non tornerò!” Giunsero a casa e presto si addormentarono, stanchi delle prove che anche quel giorno erano loro state poste innanzi, rovinando tutti i loro più spontanei progetti. Emma non sopportava di vedere Mattia cupo e riflessivo, sembrava di essere tornati indietro, a quando lo aveva visto coprirle la luce del sole. Doveva fare qualcosa, era compito suo, per una volta sarebbe stata lei a cercare di aiutare veramente Mattia. All’alba del giorno successivo prima che tutti si svegliassero, uscì dal rifugio e andò verso quella casa, la casa in cui era entrata il giorno precedente e aveva visto quella donna che teneva davvero a suo figlio, aveva suonato al campanello e presto una bambina si era presentata alla porta, doveva essere Delia, somigliava tanto a Mattia, gli stessi occhi azzurri, così incantevoli, “Scusa piccola, c’è la tua mamma?” “Chi saresti tu?” “Sono Emma, un’amica di Mattia.” “Sei stata tu a portarlo via! Lui mia aveva detto che sarebbe rimasto sempre accanto a me, sei …” “Chi è alla porta, Delia?” Dalla stanza adiacente proveniva la voce della donna. “Emma!” Si sentirono dei passi affrettati sul pavimento, passi di una donna leggera, ma forte, ansiosa e speranzosa. 65
“Scusi, signora, potrei parlarle?” “Non c’è Mattia?” “Non è qui.” La donna fece cenno di entrare, la condusse in un salottino in stile classico, tutto era chiaro e delicato, quasi abbagliante; non aveva notato la vestaglia della donna, che copriva dei pantaloni scuri, come se sotto non avesse il pigiama, come se fosse pronta a correre fuori da un momento all’altro, aveva gli occhi rossi, di chi ha pianto, senza dormire. “Mattia è triste, tiene a lei, è stato lui a dirmelo, non ha il coraggio di tornare perché ha scoperto, come me, un altro mondo; ieri le parlava di Freccia e Paolo, hanno perso la mamma, a Freccia ha regalato la sfera di neve che aveva ricevuto da suo marito per il suo ottavo compleanno, a Paolo il libro che ieri ha preso qui in casa, Mattia è speciale, non conosco nessuno come lui, mi ha aiutata, ha detto di sentire di sbagliare sempre, lei sa che non è così, deve seguirmi, deve venire con me.” “Conosco mio figlio, so che è una persona unica, ma lui non si è mai interessato a poveri, orfani o chiunque altro di loro!” “Non sono solo poveri o orfani, sono persone, la prego se tiene a suo figlio mi segua, non verrò mai più a supplicarla di perdonarci per una colpa che non abbiamo commesso!” “Verrò! Adesso, anche!” “Venga fra circa mezz’ora, chieda della “Casa degli eroi”, all’angolo della strada quasi all’estremo sud del paese.” Emma si alzò e salutata Delia, andò via, chiudendo la porta alle sue spalle senza voltarsi ad osservare l’espressione ancora corrucciata di Barbara. Il sole era ormai alto nel cielo, era lo stesso sole che aveva assistito alla loro fuga, un sole che sembrava chiederle di raggiungerlo, come una spiaggia segreta, per le quali Emma aveva un debole, perché incuriosita ed affascinata. Emma adesso stava correndo, arrivata dinanzi la porta del rifugio entrò facendo meno rumore possibile, Kali era già sveglio e spaventato sedeva sul pavimento, forse sperando di trovarla in qualche angolo della stanza, “Emma?” “Sì, Kali, sono io!” “Dove sei stata?” “Dovevo aiutare un amico, Mattia, vedrai!” Mattia aprì gli occhi, come se si fosse sentito chiamare, Emma fece segno di far silenzio a Kali, che comprese subito, si lavarono il viso e uscirono velocemente. Arrivarono al solito luogo e fecero il loro ingresso, tutti li stavano 66
aspettando, Paolo teneva fra le mani il libro come se avesse immerso il volto all’interno di un dimenticatoio. “Buongiorno!” Kali era allegro, curioso di sapere ciò che Emma aveva architettato e non dovette aspettare molto. La porta si aprì nuovamente e ne entrarono Barbara e Delia, Mattia era voltato, impegnato a conversare con Paolo, in lui aveva trovato l’amico cercato da sempre. “Mattia!” si voltò in fretta, pensava di aver riconosciuto la voce, ma era impossibile, stava diventando davvero folle, sentiva sua madre ovunque, ma questa volta non era la sua immaginazione, il suo inconscio, lei era lì. “Mamma?” “Sono io, Mattia.” “Cosa ci fai qui?” “Emma, mi ha invitato!” Emma aveva dimenticato di dirle di nascondere questo particolare, Mattia sarebbe andato in collera, non voleva vedere sua madre, lei lo sapeva, era stato chiaro. “Emma?” “Sì, è una brava ragazza, vorresti presentarmi i tuoi –tentennò nel pronunciare questa parola- amici?” “Ne sei certa?” La donna annuì e Mattia si sentì davvero completo, sua madre e i suoi amici, come lei li aveva chiamati. “Bene, lui è Freccia, te ne ho già parlato, questo è suo fratello, Paolo, ecco Eveline, a mio parere andreste molto d’accordo, lei è Dika, loro Alfonso e Gemma. Ah, ho dimenticato, lui è Kali, mi ha sempre detto di tornare a casa, ci ha offerto un luogo in cui dormire e mi ha regalato tutto questo!” Mattia adesso aveva le braccia sollevate e le voltava e rivoltava intorno indicando ciascuno di loro. “Ricordo Freccia, Mattia è buono con te?” avvicinò il suo viso a quello del bambino. “Mattia è il mio secondo fratello, guarda cosa mi ha regalato!” Freccia non aveva esitato a rispondere e Mattia non aveva fatto in tempo a rivolgergli un solo sguardo, le aveva mostrato l’adorata sfera. “Sì, è molto generoso! Paolo, tu? Ti piace quel libro, non ha avuto molto tempo per sceglierlo!” “Grazie, signora, è molto bello, scusi se le ha procurato disturbo.” “Nessun disturbo!” “Mattia, perché non ci hai mai pensato prima? Possiedi tantissimi libri e giochi, magari potrebbero venire da noi qualche volta, sei sempre così solo!” 67
“Mamma, dici davvero?” “Certo, Mattia – gli si avvicinò e gli diede una pacca sulla spalla, gli disse piano- ho sbagliato, mi dispiace!” “E’ stata tutta colpa mia, l’unico favore che ti chiedo è di lasciarmi venire.” “Sì, Mattia, anche noi verremo, se non ti dispiace!” “No, sarebbe bellissimo! Delia và a giocare con Freccia!” “Emma, ho scoperto chi sono i tuoi genitori, ho tentato di parlare con il mio vecchio amico Carlo, tuo padre, non è mai stato semplice fargli cambiare idea, un po’ come te, ma credo che cercherà di migliorare, tu cerca di essere buona il più possibile.” “Grazie, le prometto che sarò più buona, sarò un’altra persona, sarò come vuoi lui, purché mi lasci venire qui!” Emma forse non avrebbe mantenuto quelle promesse, ma sapeva che suo padre, da uomo buono quale era, l’avrebbe lasciata vivere quest’avventura, che avrebbe cercato davvero di perfezionarsi, teneva a lei e certamente aveva temuto di perderla, l’amava. Adesso Emma e Mattia non mi odiavano più così profondamente, Freccia addirittura mi amava e così anche Kali, che sarebbe diventato quasi un fratello adottivo di Mattia, in fondo tutti siamo un po’ fratelli fin da quando nasciamo, loro avevano avuto la fortuna di incontrarsi, predestinati. Ogni mattina prima di scuola, appena alzati, correvano all’angolo della strada con dei cestini in mano, ciascuno raccontava i propri sogni fino a “La Casa degli eroi” e preparata e servita la colazione, chiacchieravano e cantavano, andavano a scuola, pranzavano insieme e in seguito dopo aver studiato, tornavano nella loro seconda casa, avevano trovato ciò che da sempre cercavano. Adesso Mattia era libero di scrivere e Emma di disegnare, nessuno avrebbe più permesso che fuggissero solo per l’inconcepibile sbaglio di imprigionare le loro anime. Miliardi di anni prima anche io ero stata chiusa in cella e costretta a vivere in una solitudine spregevole e paurosa, allora ogni muscolo, ogni vena del mio corpo aveva cominciato a fremere e così era avvenuta la grande esplosione, i frammenti del mio stesso spirito erano volati nel cuore di quegli esseri inanimati, portando loro la vita, perché è questo l’anima, ma io ero crollata nella più profonda distruzione; sono riemersa dall’abisso e riesco tuttora a sopravvivere solamente grazie alla linfa vitale che attraverso invisibili ponti viaggia dai loro cuori al mio, ognuno aveva ricevuto e possedeva un brandello indispensabile alla mia sopravvivenza ed è per questa ragione che io tengo a loro quanto a me stessa, io ero loro e senza le loro passioni, i loro amori, le loro follie non avrei mai potuto vivere. 68
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Terzo classificato Ѐ LA VITA? di Diletta Mistretta Cara mamma, non so perché io non ti abbia mai pensato e quindi scritto. Sai, pensavo che tu non fossi mai esistita! Oggi il nonno, per la prima volta mi ha raccontato di te. Ha detto che eri una bella donna, con i capelli scuri e gli occhi grandi. In una vecchia scatola ha trovato una tua foto e me l’ha mostrata. Indossavi un lungo vestito bianco e avevi i capelli lunghi. In quella foto dovevi avere la mia stessa età. Volevo dirlo subito a Rashida, ma il nonno dice che è troppo piccola per capire. Riflettendoci lei ti assomiglia molto. Sai mamma, molte volte mi sono chiesto perché si vive, ma nessuno mi vuole dare una risposta. Qui niente va bene, mi guardo intorno e vedo solo male e sofferenza. Ogni giorno andiamo a lavorare in una fabbrica di tappeti. Con gli altri ragazzi facciamo una gara a chi intreccia più fili. Quasi sempre vinco io! I fili sono di tanti colori e quasi per magia formano unendosi sul telaio dei piccoli quadri. Quando i fili sono blu, immagino che siano un mare in cui vorrei tuffarmi; quando sono verdi, immagino un prato su cui vorrei distendermi; quando sono gialli immagino che siano un sole che guardo e mi acceca. Inginocchiato davanti al telaio, in questo modo sento meno la fatica. Mi fanno male le ginocchia e a volte non sento più le dita delle mie mani. Ѐ come se le mie dita fossero di legno. Cerco di non pensarci, però il dolore è troppo forte per essere mandato via da un semplice pensiero, il pensiero che un giorno tutto questo finirà. L’altro giorno ero in fabbrica quando la mia migliore amica, Tasneem, è svenuta. Sono corso da lei, la chiamavo ma non rispondeva, non voleva più aprire gli occhi. Ѐ vero mamma? Se poi chiudo gli occhi anch’io chi ci penserà a Rashida? Lei è piccola, ha bisogno di me! Il nonno è malato, non è più in grado di portare avanti una famiglia. Ѐ da una settimana che lavoro qualche ora in più... Ѐ stata Tasneem ad insegnarmi a scrivere, le volevo molto bene, forse l’amavo. Non riesco ancora a fare una differenza tra il volere bene e l’amare, però quando lei mi baciava arrossivo. Non posso credere che 70
ora non la rivedrò mai più, che al mattino quando mi sveglierò, lei non sarà fuori dalla porta ad aspettarmi. “Ѐ la vita!” dice il nonno. Ma io non ci credo, io questo non lo chiamo vivere. Ho già quattordici anni e non voglio passare il resto della mia vita in fabbrica. Ho deciso! Ce ne andremo tutti: io, Rashida e il nonno. Voglio fare il maestro! Ѐ davvero bellissimo insegnare agli altri quello che tu sai. Girerò il mondo e poi tornerò qui, in Pakistan, per insegnare ai bambini tutto quello che ho imparato. Ora so perché vivere mamma...non so se ci riuscirò, ma io ci metterò tutte le mie forze e la mia buona volontà. Cambiamolo questo mondo, non voglio che tutti i bambini che verranno dopo di me provino la mia stessa sofferenza. Passo dopo passo, giorno dopo giorno qualcosa cambierà e il nostro futuro sarà migliore. Non so perché sto scrivendo tutto questo, forse perché so che nessuno mai lo leggerà. Ma sentivo il bisogno di parlare con qualcuno. Ho scelto te, mamma. Sei la persona che forse ho odiato di più. Non ti ho mai perdonato di essere morta. Per quanto io mi sforzi non riesco a ricordarmi di te. La notte mi sveglio, ma poi vorrei chiudere gli occhi per sempre. Sarò forse un egoista, ma in questo momento è la cosa che desidero di più. In questi anni sentivo che c’era qualcosa che mi mancava. Quel pezzo mancante eri tu, mamma. Chissà quale era il tuo colore preferito o se preferivi il giorno o la notte, forse la notte con il suo cielo e le sue stelle. Ma sai, mamma, la vita non è solo piena di brutte cose, ci sono anche le cose belle. L’erba per esempio! Da’ un po’ di allegria a tutto quello che circonda o ancora di più il mare! Non che l’abbia mai visto, ma so con certezza che è di colore blu, profondo e immenso. Ricordo un pomeriggio in particolare..eravamo io e Tasneem. Stavamo tornando dalla fabbrica, quando le venne la pazza idea di tuffarsi nel fiume vicino al villaggio. Quella sera sorrideva sempre. L’acqua era fredda e a me vennero le grinza nelle mani, ma a noi non importava. “Chiudi gli occhi.” mi disse. “Lo senti? Il mare fa un rumore simile a questo.” Io chiusi gli occhi e sorrisi. Quando li riaprii Tasneem stava già correndo verso casa. “Tanto vinco io!” ripeteva ed io, le corsi dietro. Un pomeriggio davvero indimenticabile, mamma, ma tornando alle cose belle, nonno è una di queste. I suoi abbracci, le sue carezze, la sua voce mi trasmettono tanta serenità. Mi fa tanta tenerezza vedere il modo in cui lui si prende cura di noi. Cara mamma, la vita mi ha privato della tua presenza, dei tuoi baci, dei 71
tuoi abbracci. Quando sono in fabbrica guardo quei tappeti e come nelle fiabe immagino di salirci su. Sai mamma, riesco a raggiungere le nuvole. Sento di esserti più vicino. Lì, il mio corpo è leggero, non sento più la fatica delle mie mani, i dolori delle mie ginocchia, finalmente mi sento libero. Vedo il bianco candido delle nuvole, l’azzurro del cielo. Immagino la tua mano che stringe forte la mia. Ѐ un viaggio che dura solo secondi, minuti, ma in verità in cuor mio vorrei durasse in eterno. Con affetto il tuo Moamed
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Menzione speciale “Cuore d’acciaio” di Guglielmo Pellitteri Scivolava nella notte cupa e silenziosa. Si dirigeva verso l’imponente edificio di Warehouse 14, l’unico in piedi in quella città di tenebra, costruito dopo il bombardamento. Una torre gigantesca, splendida, perfetta nella sua precisa struttura metallica, spuntata come un’erba velenosa sulle macerie della city di quella Londra apocalittica. Era costruito proprio lì, in mezzo ai resti della metropoli, perché nessuno aveva il coraggio di avvicinarsi alle memorie di un’umanità che continuava a trovare modi sempre più fantasiosi per avvicinarsi all’estinzione. Ciò che restava dei grattacieli della città fantasma era immerso nel silenzio più assoluto, che da ore batteva violento sui timpani di Carrie. Un rumore improvviso la distrasse dalla sua instancabile marcia. Aspettò che la fonte del suono sospetto si palesasse per i minuti più lunghi della sua vita, senza nemmeno permettersi di respirare. Infilò la mano nella tasca, a stringere una piccola capsula di cianuro. Carrie non aveva paura della morte. Ma sapeva bene che chiunque fosse stato catturato dai droni di recupero avrebbe subito qualcosa di peggiore della morte. Quegli stessi droni che si aggiravano nelle case di persone innocenti durante le notti di incursione per raccogliere materiale umano. Ma quella notte non le sarebbe successo niente. La Fratellanza aveva ottenuto una tregua dalle forze opposte, e a Londra non c’era sorveglianza. I droni erano a riposo, non ci sarebbero state incursioni. Nessuno voleva sapere quello che succedeva a Warehouse 14. Tutti sapevano dei Giustizieri. Cyborg senz’anima e senza paura, mandati sul fronte a combattere e a distruggere vite. Molti di loro cadevano ogni giorno in battaglia, ma era come se fossero già morti da molto tempo. Quando veniva sottratta loro l’umanità. Quando i loro organi erano sostituiti da pezzi metallici. Quando parti specifiche del loro corpo erano potenziate. Tutto mentre erano ancora umani e coscienti. Per ultimo, applicavano un piccolo processore al loro sistema nervoso. Perché all’esercito non bastavano guerrieri indistruttibili e letali. Bisognava rimuovere la loro più grande debolezza: le emozioni. Il chip cancellava i loro ricordi e inibiva ogni loro sentimento, ogni loro istinto, ogni forma di umanità. Le persone stesse diventavano armi. La specie umana aveva trovato l’ennesima via per l’autodistruzione. La tensione si sciolse. La paura di essere scoperta era ancora forte, ma 74
non poteva fermarsi a lungo. Era molto stanca, e approfittò di quell’attimo di lucidità per guardarsi intorno. Mentre il suo sguardo vagava tra le nubi tossiche e il terreno sterile di quel luogo, e fuggiva lontano oltre il cielo senza più stelle, il suo primo pensiero fu: “Questo è l’ultimo”. Aveva decisamente ragione. Nessuno sarebbe mai potuto uscire vivo dal Quinto Conflitto Mondiale. L’umanità avrebbe finalmente smesso di combattere. Pioveva. Le gocce d’acqua sporca colpivano il volto della ragazza, unendosi alle sue lacrime e scivolando via. E lei ricordò. Ricordò quell’orribile notte. Ricordò i colpi alla sua porta. Ricordò gli occhi senza compassione del Giustiziere entrato in casa sua, la sua voce metallica: “Soggetto XX: inadatto all’aggiornamento. Soggetto XY: pronto per passare ad un nuovo livello.” Colui che la creatura aveva identificato con un termine freddo e disgustosamente tecnico era la persona a cui teneva di più in assoluto. Non aveva avuto il tempo di opporre resistenza: era stato stordito immediatamente. Non avevano mai visto uno di loro prima: la propaganda portava i civili a immaginarli come esseri fieri e gloriosi, eroi robotici pronti a difendere i popoli della Fratellanza. Ma ai suoi occhi erano solo mostri senza sentimenti, che le stavano portando via il suo Jackson. Afferrò istintivamente il cyborg conficcandogli le lunghe unghie nel braccio. L’ultima cosa nella sua mente erano nocche metalliche sul suo viso. Si asciugò le belle guance e avanzò spedita verso la meta. Camminò per chilometri, e il sole non era ancora sorto quando giunse alle porte di Warehouse 14. Era la prima persona a vedere quell’edificio dopo molti anni. Se Jackson non fosse ancora stato convertito, si sarebbe trovato nelle camere di stasi, dove i soggetti selezionati per l’aggiornamento restavano in coma indotto fino al riavvio dei processi di conversione. Le sarebbe bastato svegliarlo e scappare via con lui... Entrò nell’edificio. La prima sala conteneva alcune decine di androidi di recupero dormienti. La stanza a seguire era il vero e proprio magazzino: migliaia di cyborg stavano schierati in ordine preciso intorno a lei, come un esercito congelato. Si sarebbero svegliati solo al tocco di un potenziale nemico, e avrebbero attivato il sistema di difesa ravvicinata. Camminò per minuti tra gli androidi, cercando di non guardarli in faccia. Ma ogni volta che scorgeva un volto immaginava tutta la sua storia, 75
interrotta bruscamente dalla follia umana. A poco a poco si avvicinava alla speranza di salvare il suo amore. Già poteva udire le grida dei pover’uomini nelle camere di conversione, che venivano aggiornati mentre erano ancora vivi... quella notte però la sorte le giocò un brutto scherzo. Tra i migliaia di visi che poteva incrociare lungo il tragitto, c’era proprio quello di Jackson. Gridò dalla disperazione, senza più possibilità di salvare colui che amava. Lo fissò a lungo. Gli occhi erano chiusi. Il suo petto non si muoveva. Pazza per il dolore, non ebbe altro da fare che gettarsi su di lui e baciarlo, a lungo e appassionatamente. Non ebbe nemmeno il tempo di riprendere fiato. Una lunga lama metallica le spunto dalla schiena, trafiggendo ogni organo vitale. È vero che nel suo cuore d’acciaio quella sera non c’era più amore. Ma è pur vero che una lacrima solitaria scivolò lungo la guancia del Giustiziere.
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Menzione speciale Fiamme celate di Irene La Palerma Aprii gli occhi. O forse erano chiusi? Da quando stavo lì sotto? Riaprii gli occhi o almeno credevo di tenerli aperti, ma non vedevo nulla solo il buio più assoluto. Ero diventata cieca senza che me ne fossi accorta o lo ero sempre stata? Non riuscivo a capire cosa fosse successo. Quand’ero finita lì sotto sapevo chi mi ci avesse portata anche se non conoscevo il motivo di tutto questo, ora però non ricordavo nulla. Cercavo di risparmiare tutte le mie forze anche se non facevo nulla. Le catene mi tenevano ad un’altezza in cui ero appena poggiata per terra coi piedi, ma non abbastanza da reggermi quand’ero cosciente e Io sforzo di raggiungere il terreno era stato estenuante. Alla fine avevo desistito da quel tentativo come anche da quello di sradicare le catene dalla loro collocazione. Da quando mi trovavo lì sotto tutte le mie forze si erano esaurite immediatamente, per il terrore per il dolore o per la fame. O forse per tutte e tre. Se ero diventata cieca avrei preferito diventare sorda. In quell’oscurità non avrei mai visto nulla e se anche ci fosse stato qualcosa da guardare avrei potuto chiudere gli occhi e non assistere a cosa accadeva, ma i rumori, quelli erano la cosa peggiore di quel posto. Erano le urla e i lamenti che si trovavano al di là di quella porta che mi terrorizzavano più di qualsiasi altra cosa. Più del dolore e della fame. Quando quei rumori ti entravano dentro non c’era più alcuna possibilità che tornassero indietro. Non riuscivo più a distinguere i suoni reali da quelli irreali. Quando sarebbe toccato a me? Avrebbero portato anche me in quel tunnel senza fine? E se mi ci avessero portata sarei mai riuscita a venirne fuori? Non capivo perché ero stata rinchiusa in quella fetida prigione. Entrando in quel sotterraneo avevo visto gabbie piene di uomini e donne eppure non avevo visto nemmeno una cella come quella, così fortificata. Nessuno di loro era stato legato mani e piedi alla parete con catene così grandi e li avevo visti mangiare anche. Da quand’ero lì nessuno mi aveva fatto visita, nessuno era entrato per darmi da mangiare, per picchiarmi o per portarmi nella stanza delle torture ma dopotutto da quando mi trovavo lì? Minuti, ore o giorni? Avevo sentito dire che si poteva sopravvivere poco più di una settimana senza acqua e meno di un mese senza cibo, se ero in vita dovevano essere passati meno di dieci giorni dal mio arrivo lì sotto. Tirai indietro la testa, non avevo la forza di tenerla dritta con le mie sole forze. Strizzai gli occhi e 78
guardai nella direzione in cui doveva essere tenuto l’altro I 4 prigioniero. Non riuscivo a vederlo sentivo solo il sibilo del suo respiro fra un rumore e l’altro provenienti dal di fuori della nostra cella. Se fosse stato in grado di parlare gli avrei chiesto molte cose, ma in quelle condizioni poteva appena respirare e poi davvero mi sarebbe piaciuto sapere cosa gli avevano fatto? Potevo vederlo da me eppure dovevano essere molte le ferite che non erano visibili. Rabbrividii al pensiero di cosa potesse succedermi, se avessero avuto un p0’ di misericordia per me mi avrebbero fatta morire lentamente e dolorosamente di fame e di sete, non avrebbero mai aperto quella porta. Speravo che quelli lì fuori si fossero dimenticati della mia presenza e cercavo di non emettere nemmeno un lamento per non farli accorgere di me. Eppure la fatica di trovarmi e di avermi portata fin lì sotto non doveva essere stata fine a se stessa, che cosa volevano da me? E che cosa mi avrebbero fatto per averlo? Continuavo a sentire il sibilo del mio compagno di cella eppure a volte mi sembrava che quel rumore si spostasse, che mi girasse attorno e nell’oscurità vedevo due occhi osservarmi e studiarmi, ma l’uomo che avevo visto portato lì dentro non sarebbe stato in grado di far nulla. Sentii qualcosa di viscido attaccarsi alla mia caviglia. La mossi per ricacciare indietro qualsiasi cosa fosse. Repressi il gemito di dolore che mi stava sfuggendo dalle labbra. Muovere un singolo muscolo del corpo mi costava tremende fitte alle braccia per cui ero appesa da un tempo indefinibile. Sentii qualcuno pronunciare il mio nome, ma non avevo la forza di cercare chi fosse stato, sentii nominare molti altri nomi di cui non ne conoscevo la provenienza e che mai avevo sentito nominare, ma una volta terminata la sua lista la voce si zittì e non aprì più bocca. Sentii le catene del mio compagno di cella muoversi e quando queste si fermarono sentii i cardini della porta muoversi. Qualcuno entrò e si avvicinò, sperai meschinamente che fossero venuti a prendere il mio compagno di cella. Tentai di fingermi morta, senza però riuscire a reprimere il gemito di dolore e di sorpresa quando mi arrivò un colpo in faccia. «È viva.» disse soddisfatto l’uomo. Lo sentii armeggiare con la catena che mi teneva il polso destro, improvvisamente sentii tutto il peso gravare su un solo braccio, il dolore era allucinante. Persino quello appena slegato faceva male. Non era più abituato a restare in quella posizione. Sentii mancare il sostegno e sbattei sul terreno duro. Era un colpo inatteso quello. Mi slegarono anche i piedi e poi ammanettandoli tra di loro mi trascinarono fuori dalla cella. Non avevo la forza di oppormi a quello che mi succedeva attorno. Le urla erano cessate ma il caos regnava sovrano, tutti i rumori si accavallavano uno sull’altro e non c’era possibilità di distinguerli. Sentii 79
una porta aprirsi e sbattere pesantemente quando si chiuse. Tentai di aprire gli occhi, ma ero troppo stanca. L’uomo mi lasciò i piedi e lo sentii abbassarsi su di me e prendermi in braccio. «Mi spiace per te ragazza mia, non ho idea di che cosa tu abbia fatto per finire qui, ma qualsiasi delitto tu abbia commesso non meriti tutto questo. Io sono costretto a farlo. Quando mi sono arruolato non pensavo di finire quaggiù a preparare le cavie per quel mostro, ma ci sono finito e non posso oppormi. Dovrò restare qui per qualche anno e poi potrò richiedere di andarmene e non lo farò finché non sarò sicuro che chiedendolo non farò la fine di coloro che preparo.» mi poggiò su qualcosa di duro e freddo e mi ammanetto i polsi liberando le mie caviglie. Tentai di afferrargli un braccio per farlo restare con me senza risultato. La porta sbatté quando uscì e dopo la sentii sbattere altre otto volte. «Hai idea del perché ti trovi qui?» tentai di far capire che non ne avevo idea ma non riuscivo a muovermi. «Datele dell’acqua.» comandò la stessa voce. Non avevo idea di cosa fare: se avessi bevuto la morte sarebbe stata ritardata ma se non avessi bevuto avrei potuto ricevere punizioni peggiori. Bevvi avidamente tutta l’acqua che mi davano. Riuscii ad aprire gli occhi. Erano presenti i due che mi avevano portata fin lì sotto, colui che mi aveva accolto quando arrivammo a Palazzo e altre cinque persone anche se uno non riuscivo a capire se fosse un uomo o una donna. Rivolsi lo sguardo all’uomo più vicino a me, doveva essere stato lui a parlare. Vedevo che aspettava una risposta da me ed io scossi la testa. «Sai chi fosse l’uomo con chi ti trovavi?» mi chiese ancora. «Un amico di mio padre.» gracchiai, li vidi guardarsi tra di loro. «E l’uomo con cui dividi la cella?» continuai ancora a negare di conoscerlo. Mi guardavano tutti con sospetto tranne l’uomo che mi aveva portato fin laggiù, quello con tre orecchini nell’orecchio. «Hai detto che il guardiano con lei ha affermato che ancora non conosce nulla di questa storia?» disse quello che mi sembrava il capo all’uomo con gli orecchini e lui assentì. «Che dobbiamo farne dite?» il capo cominciò a passeggiare avanti e indietro davanti al tavolo in cui ero legata. Non osavo spostare lo sguardo dalla sua figura. Avevo visto di sfuggita cosa mi circondava e non desideravo rivederlo. «Vedi, mia cara.» fece una pausa che mi parve durare un eternità «Noi dobbiamo avere la certezza assoluta di quello che dici, quindi ci toccherà fare delle prove.» non riuscivo a capire cosa stesse dicendo o forse non volevo capirlo. «Tutto quello che vedi attorno a noi con te non farà nessun effetto, o almeno è quello che noi pensiamo, quindi noi ci siamo abbassati a farti visita in questa prigione per essere certi di ciò che dici.» Afferrai le catene con un vigore e un’energia che 80
non possedevo fino a poco prima. Loro erano in otto e io solo una, sapevo con certezza che erano abili nell’arte della guerra, erano armati ed io ero legata a quel tavolo a loro disposizione e anche se fossi riuscita a batterli tutti non sarei mai potuta scappare da quel sotterraneo. Nonostante tuffo cercavo con tutte le mie forze di scardinare le catene. Sentii un cigolio, forse stavano cedendo ma non riuscii a sapere la risposta perché un pugno mi arrivò dritto allo stomaco. Non aveva alcun’arma tra le mani eppure mi sentivo trafiggere lo stomaco. Sentivo il sangue pulsare in ogni punto del mio corpo e fluire in modo irregolare. Il dolore era talmente intenso da non riuscire nemmeno a respirare. Contrassi le dita e spalancai la bocca cercando aria, ma nello stesso momento in cui inspirai l’aria mi si bloccò in gola e vidi l’uomo che sembrava una donna sghignazzare e avvicinarsi. La testa pulsava, non arrivava ossigeno al cervello. Non era naturale quello che stava accadendo era frutto di una stregoneria senza dubbio. Ad un certo punto il sangue ricominciò a seguire il suo corso e l’aria mi entrò nei polmoni. Ogni singola parte del mio corpo implorava pietà, ma non riuscivo a muovermi. Era come se tutto il sangue del mio corpo avesse cominciato a scorrermi al contrario. Sentii l’acqua che avevo ribevuto risalirmi lungo tutto l’esofago e fermarsi lungo la gola, tentavo di inghiottirla ma non riuscivo a rimandarla giù, non riuscivo nemmeno a vomitarla. Guardai terrorizzata i miei carnefici che se la ridevano. Che stavano tacendo al mio corpo? Chiusi gli occhi per il dolore, l’acqua si stava accumulando in un solo punto e il volume del nodo che mi si era creato in gola era molto più grande della trachea. Stavo impazzendo. Non riuscivo nemmeno a respirare. Mi sembrava di annegare dentro me stessa, com’era possibile una cosa del genere? Guardai terrorizzata la donna che mi aveva dato il pugno, era lei che mi stava facendo tutto questo, qualsiasi cosa fosse. Non avevo idea di come potesse essere possibile ma tutto questo doveva finire immediatamente. Tentai con tutte le mie forze di inghiottire il liquido fermo in gola ma stava fermo al suo posto. Mi sforzavo di non respirare ma non ne ero capace. Il mio corpo aveva bisogno di aria e questa non arrivava. Quando cominciai a vedere macchie scure l’acqua tornò al suo posto nei mio stomaco. inspirai quanta più aria potevo nonostante il bruciore in gola. Che stavano facendo al mio corpo? Strizzai gli occhi tentando di rimettere a fuoco la vista. Tutti loro sorridevano tranne l’uomo con gli orecchini. Sembrava turbato da quello che stava accadendo, quasi contrario. Lo guardai implorandolo con lo sguardo di aiutarmi, ma sapevo fin troppo bene che nessuno poteva farlo. Se mi avesse aiutata sarebbe finito in quelle condizioni. Spostai lo 81
sguardo su una donna che si stava avvicinando, era veramente strana, ma nonostante sembrasse innocua sapevo che dovevo temerla o non si sarebbe trovata lì in quel momento. Mi afferrò la mano e la strinse e da quel momento non riuscii più a capire cosa stesse succedendo al mio corpo. Fu solo dolore. Il mio corpo cominciò a tremare sempre più forte e non potevo fare nulla per fermarlo. Sbattei la testa violentemente sul tavolo per tutta la durata di quella tortura. Non avevo idea di cosa stesse facendo ma non era nulla di innocuo come il suo aspetto. «Non l’ammazzare vacci piano con lei, la ragazzina sembra piuttosto fragile.» sentii dire ad uno di loro. Gli spasmi e il dolore aumentarono di intensità ed io non riuscivo che a pensare che al dolore che stavo provando. Oltre a quello non esisteva nient’altro. Il dolore si intensificò nuovamente e poi terminò improvvisamente. Mi serrò le mani attorno al collo «Io la chiamo scossa elettrica quella che ti ha percorso, è la stessa cosa che si prova quando ti colpisce un fulmine ma questa è meno potente e molto più prolungata.» ghignò. «Hai qualcosa da confessarci?» lo guardai ma non capivo più a cosa si riferisse. «Continui a sostenere che non sai perché sei qui?» mossi leggermente la testa per confermare e la tortura ricominciò. Quella che la donna aveva chiamato scossa elettrica mi percorse di nuovo tutto il corpo per un tempo interminabile. Non avevo nemmeno la forza di piangere o di lamentarmi. Purtroppo la mia risposta non era quella gradita e la tortura ricominciò per la terza volta, appena tornò la scossa elettrica non fui in grado di reggere il dolore e svenni. Quando tornai in me mi trovavo ancora in quella stanza e quelle persone aspettavano solo me. L’uomo con la cicatrice sganciò le manette e mi trascinò fino a un focolare. Già da molto lontano percepivo il calore e a meno di un metro di distanza il calore era diventato insopportabile, cominciai a scaldare tentando di allontanarmi ma non ci riuscii. Mi tenne le mani dietro la schiena e mi affondò la faccia nel fuoco. Urlai più forte che potevo, il dolore era insopportabile. Dopo pochi secondi l’uomo mi tirò indietro dal fuoco e mi riflessi in uno specchio. Il mio viso era intatto. «È lei.» disse l’uomo con la cicatrice. «Mi sembra che abbiamo avuto anche la prova che lei non sappia nulla.» disse il capo di tutti loro. «Mi spiace ragazza ma è stata una...> si fermò cercando forse la parola più adatta «precauzione, è stata una cosa necessaria, non potevamo farne a meno, ma ora mi sembra che abbiamo la certezza assoluta che tu non stia con loro.» «Ora tu verrai su con noi lontano da questa prigione e conoscerai tutta la verità che fin ora ti è stata negata. Diverrai una guardiana forte come il tuo vero padre e saprai quante menzogne ti hanno detto coloro che pensavi fossero tuoi amici.» mi sibilò l’uomo con 82
la cicatrice. Guardai smarrita tutte le altre persone lÏ presenti ma l’unico che voleva dirmi qualcosa con lo sguardo era l’uomo con tre orecchini, ma non lo capii e forse quella era la cosa peggiore che mi stesse capitando.
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Menzione speciale Gli occhi color dell’estate di Francesco Riolo Normalmente un scrittore inizia la sua storia appunto dall’inizio ed è suo compito scegliere il finale più bello e inaspettato. Io non sono uno scrittore e proprio per questo l’inizio di questa mia storia sarà proprio la sua fine. Lampedusa, Agosto 2013 Due amici, un ragazzo e una ragazza. Sopra di loro un sole che brucia i capelli e stordisce. L’odore del mare, la salsedine che bacia i loro visi, la sabbia sotto i loro piedi. Fissando il mare lei chiede: “Cosa si prova quando si è innamorati?” Rispondo: “Aspettavo questa domanda.” continuo “È una cosa strana. Quando sei innamorato, quando senti soltanto il suo nome, vibra qualcosa dentro di te. La sua voce ti esplodere il cervello di emozioni contrastanti. E poi i suoi occhi...” mi volto verso di lei, non continuo. Tre mesi prima. Milano, Giugno 2013 Fa un caldo strano. Non è un estate milanese. Mio padre è fuori in balcone e fuma la pipa. Ha detto di voler fare qualcosa di nuovo, di voler andare lontano questa volta: una vacanza al Sud, a Lampedusa, la punta estrema dell’Italia, tre mesi in una villetta che ci presta un nostro amico. Certe volte mi sorgono alcuni dubbi se sia un’isola italiana o africana. Pochi giorni dopo eccoli, mamma e papà, eccitati e al settimo cielo. Non li capisco. Facciamo le valigie. Partiamo verso il porto di Genova. Io, un diciassettenne milanese doc, abituato al freddo e alla nebbia, in una nave verso Lampedusa. La mattina approdiamo in Sicilia, al porto di Palermo, un caldo asfissiante mi stringe la gola. Voglio già andarmene da qui. Non c’è nulla che mi convinca a rimanere un altro secondo. Prendiamo la macchina e partiamo verso Porto Empedocle altra meta squallida del nostro orribile itinerario. Sono stanco e frustrato e già mi 85
manca Milano. Eccoci a Porto Empedocle dopo un viaggio che sarà collocato ai primi posti nella classifica dei viaggi più scomodi della mia vita. Ormai è tardi e decidiamo di passare la notte qui, in un posto dimenticato da Dio: il motel Hawaii Island (voglio sottolineare che di hawaiano non aveva niente di niente) che, come ci racconta l’albergatore, è dedicato ad una vecchia, sola e sconosciuta prozia di cui lui aveva sentito parlare solo una volta, la quale era morta in un manicomio ai piedi dell’Etna. Il proprietario ci ha accolti con una generosità strana e nuova per la nostra famiglia. Ho passato la notte senza chiudere occhio a causa di: 1.la doccia che gocciolava sul tappo di metallo dello scarico (intasato dai grovigli delle ciocche di capelli che non oso immaginare da dove provenissero e soprattutto a quale era appartenessero). 2.il cuscino che sembrava una tavola di compensato. 3.nella stanza accanto, fino alle tre, un’allegra comitiva di ragazzi ha suonato la chitarra e cantato 4.canzoni popolari siciliane al punto tale da farmele odiare nel momento in cui ne venivo a conoscenza. Come se non bastasse si sono aggiunti anche l’albergatore, la moglie Rosalia e la figlia Annunziata. Mi sveglio prima dei miei e mi affaccio alla finestra e quale visione più bella di una montagna di rifiuti che costeggia la strada sotto la finestra. La notte aveva nascosto tutto, ma ora quel sole, motivo di orgoglio per tutto il sud, svelava con tristezza uno dei lati più tragici della Sicilia. Mi vergogno di me stesso alla vista di questo scempio. Mi sento colpevole anch’io di tutto questo. L’angoscia mi assale. Qualcosa mi spinge a fare qualcosa per questa terra. ma La voce dolce di mia madre mi afferra come se volesse strapparmi via da qualcosa di più grande e forte di me: un inconsapevole disprezzo umano contro se stesso. Mi riporta indietro dicendo: “Tranquillo non sarà così su quell’isoletta”. Aveva ragione. Partiamo da quel posto con la convinzione forte di non voler più ritornarvi. Arriviamo al porto, ci imbarchiamo e dopo 175 chilometri siamo a Linosa, altra isola sul Mediterraneo che si trova tra la costa meridionale della Sicilia e Lampedusa. Qui c’è qualcosa di diverso. Sarà l’incombenza di quel vecchio cratere, La 86
fossa del Cappellano, su di noi che suscita mistero o la mia eccitazione al fatto di avvicinarci sempre più alla metà finale, ovviamente repressa dalla mia provenienza, dalle abitudini del mio Nord, che adesso cercano di far restare vive in me le origini milanesi e tentando di non cedere all’abbraccio inaspettato del Sud a cui pochi riescono a resistere. La nostra permanenza a Linosa si conclude dopo tre ore, passate aspettando il traghetto per l’ultima tappa. Si conclude lasciando in me emozioni confuse e caotiche. 40 chilometri. I 40 chilometri che aspettavo da tanto. Forse per avere la certezza dell’inferiorità del Sud rispetto al Nord. Certezza che non arrivò mai. Potrebbe sembrare un paradosso ma dal momento in cui mi affacciai alla finestra di quell’orribile motel sulla costa siciliana, non fui più così sicuro di questa inferiorità. Molto spesso la bellezza di una terra forte si scorge osservando proprio la sua debolezza. Finalmente Lampedusa, la terra dai mille volti. Metto il primo piede giù dall’imbarcazione. Respiro con forza. Respiro un’aria che non è mia. La salsedine inonda i miei polmoni facendoli bruciare. Saltiamo su un taxi che ci porta alla villetta. Un particolare importante: letti comodi, docce che non gocciolano e cuscini che hanno forma e consistenza dei cuscini normali. Apro la porta della mia stanza, disfo le valigie, faccio una doccia che desideravo da tanto e senza aprire bocca con i miei, senza esprimere le mie sensazioni sul viaggio o anche sulla villa, vado a dormire con pensieri che mai prima di allora mi erano arrivati alla mente. Mi sveglio. Non so quanto ho dormito, ma adesso voglio uscire, voglio scoprire questa piccola isola. I miei hanno lasciato un biglietto sul tavolino all’ingresso della stanza che dice “Siamo giù in piscina. Fa caldo se ti va vieni. Noi siamo qui.”. Mi vesto e scendo le scale che portano al soggiorno, prendo una delle cartine della città con i punti di interesse per i turisti che si trovano sul tavolo della cucina ed esco. Dallo sci nautico alle bocce, dalle escursioni ai negozi più chic in centro, nessuno mi convince, tranne un piccolo puntino che, grazie alla legenda, capisco di aver scelto una mostra chiamata “vernice e parole”. 87
Il nome è il fattore che mi incuriosisce di più e quindi decido la mia meta, sorprendendomi di me stesso perché, conoscendomi, mai avrei pensato di scegliere una visita ad una mostra di quadri e poesie come inizio della vacanza. La mostra si trova all’angolo di una via un po’ nascosta e silenziosa, in un edificio apparentemente molto antico. Entro da un portone numerato 379, faccio il biglietto. Quadri di tutti i tipi, che raffiguravano Lampedusa da tutti i lati, ci sono molti stili. Poesie anch’esse dai temi vari, parlano d’amore, del sole del sud. Ma ce n’è una che mi colpisce. é accompagnata da un quadro astratto. La poesia è di una ragazza che vuole liberarsi dalle catene di un’oppressione e dall’ipocrisia, che non ha un punto di riferimento, ma alla fine trova una conclusione: farà della sua anima un filosofia di libertà e si farà abbracciare da una nuvola di tepore chiamata Sorriso. “Ti piace?” sobbalzo sentendo queste parole alle mie spalle. Una ragazza dai lunghi capelli neri e la pelle scura mi sta accanto. è splendida. é arrivata senza farsi sentire, oppure sono stato io a non sentirla tanto ero immerso in quelle parole. Non mi lascia il tempo di risponderle: “le parole sono forse l’arma più potente al mondo. Guardati, hanno stordito anche te in un secondo!” dice ridendo. Ancora scioccato le rispondo: “Sono parole meravigliose.” indico la poesia “è tua?”. “Si” risponde. “Come fai a scrivere parole così belle?” “è qui che sbagli. Le mie non sono parole, ma pensieri. Io semplicemente scrivo quello che mi passa in mente!” sorride ancora. Sono scioccato e tutto questo mi sembra surreale. Un desiderio: conoscerla, sapere di più di lei, imparare da lei. Tutta questa fretta mi fa paura. Non la conosco nemmeno, ma le sue poche parole mi hanno incantato. “Devo andare. A presto!” si allontana. Istintivamente la fermo dicendo “Aspetta parlami ancora di questi tuoi pensieri!” “Adesso non posso” dice. A queste parole la mia faccia si turba. Lei lo nota e continua “Ma puoi trovarmi ogni giorno qui. è la mia seconda casa. Ciao.” va via. Sono rimasto solo. Tutto è così strano. Lei, la lampedusana. Abbiamo parlato cinque minuti e mi sembra già che questa non sia la prima volta che ci incontriamo. Ho quella sensazione del “Ma dove l’ho già vista 88
questa qui?”. Mi sembra di conoscerla da un pezzo. Forse il Destino mi aveva parlato di lei, magari in un sogno che adesso non ricordo. Lampedusa, Luglio 2013 Sono passate due settimane da quell’incontro e non c’è modo di togliermi dalla testa quella ragazza misteriosa. Sono passate due settimane, ma non è passato un solo giorno in cui io non sia andato in quell’edificio all’angolo di quella via a cercarla. Sono passate due settimane, ma non l’ho rivista. Inizio a perdere le speranze. Mi chiedo se non sia stata la mia fantasia a farci incontrare o se lei esista, lì da qualche parte. Ho percorso molte strade di Lampedusa ed è come se qualcosa si celasse all’interno degli animi degli abitanti. Un segreto nascosto agli estranei a questo luogo incantato che rapisce e incute paura allo stesso modo. C’è qualcosa che tutti cercano di nascondere. L’ho promesso a me stesso: oggi sarà l’ultima volta che vado alla mostra! Peccato che sia da quattro giorni che prometto a me stesso la stessa cosa. Mi incammino per l’ultima volta verso la mostra. Questa volta è diverso, lo sento. Saluto il bigliettaio senza degnarlo di uno sguardo. Tiro dritto verso il corridoio che porta alla sala. Non è mai stata così lontana. Ogni passo e si allontana. La fronte imperlata di sudore indica il mio stato d’animo ansioso. Il palmo della mano si affretta ad asciugarla. Alla fine arrivo. Varco la porta. Di nuovo. Lei non c’è. Sono frustrato più che mai, esco dall’edificio e mi siedo su una panchina. C’è un che di rabbioso in me. chiudo gli occhi per un secondo, forse per calmarmi. All’improvviso un “Ehi!” rompe il silenzio. Apro gli occhi. Non può essere. Non ci credo. “Ciao, ti ricordi di me?” dice. È lei! Scioccato rispondo “Ah ciao! Certo che mi ricordo di te.” cerco di trattenere l’eccitazione. “Ho avuto un po’ di impegni. Non sono ritornata più per molto tempo” dice, inconsapevole del fatto che io sappia benissimo della sua assenza qui. “Ah si?” rispondo fingendo. Mi scappa una risata. Lei se ne accorge e mi guarda. La imito. Adesso i nostri occhi si incrociano. Non riesco a distinguerne il colore. Un brivido lungo la schiena. Tre secondi lunghissimi prima che lei possa riprendere il discorso 89
dicendo: “Ti va di fare un giro?” “Ok! Dove mi porti di bello?” “Fidati di me.”. Ci incamminiamo. Io lo straniero, lei la padrona del luogo. Non mi sono mai fidato tanto, tanto meno di una persona che fino a qualche settimana fa stava a 1100 chilometri da me. Camminiamo prendendo stradine e traverse degne di essere riportate sulla tela di un pittore famoso. Di certo, grazie solamente al soggetto dell’opera, potrebbe guadagnare milioni. Appena usciamo dal centro abitato un vento leggero, tiepido, da cui poco prima eravamo riparati da quelle casette basse e colorate, ci accarezza i visi. Entriamo in un boschetto. Proseguiamo su un sentiero di sabbia. La macchia mediterranea si estende a vista d’occhio. Peccato che i miei occhi siano su di lei, bellissima. Sedici anni. La maturità di una donna che ha capito tutto della vita. Il mare pulito, limpido, uno specchio capace di riflettere perfino i contorni invisibili dell’anima. La sabbia, bianca quasi come gesso, leviga i piedi nudi rendendoli morbidi. La bellezza di questo posto fa lacrimare il cuore, lo riscalda più del sole. La visione dell’isola dei conigli, classificata come spiaggia più bella del mondo, adesso mi spezza il respiro, concedendo solo il piacere ai polmoni di godere dell’aria pura e incontaminata che aleggia su questo luogo. Qualcosa di incantato si trova di fronte ai miei occhi. È una sensazione poco descrivibile. Le parole possono solo mettersi da parte per far posto alla vista. Nulla è paragonabile a questo paradiso. “Ti capita mai di chiederti “ma io cosa ci faccio qui?”?” rompo il silenzio immenso e ovvio. Respira. “Molte volte…” Un altro respiro e continua “Mi capita di chiedermi che senso abbia una vita senza uno scopo, senza mettersi alla prova.” Annuisco sinceramente. “Io penso però che tutti hanno uno scopo e un compito importante: vivere vivendo per l’altro.” Ma che cosa sto dicendo? Non ho mai parlato di amore verso l’altro. Questo non sono io. Forse. Perché alla presenza di lei parlo in questo modo? Io e lei. Una spiaggia che incendia la mente. Io, ho un mantello sopra di me. Lei, lo porta via. Piano, lentamente, come l’innalzarsi della marea. La sera torno alla villetta. Mia madre sta preparando la cena, mio padre organizza le attività di domani. C’è una piacevole serenità nei nostri visi, rilassati. La mente è lontana dallo stress della città caotica. La cena ha un gusto migliore se presa con il sorriso. Rimaniamo in 90
terrazza fino alle undici scherzando, non lo facevamo da molto tempo. Inizia a soffiare un vento un po’ più forte e decidiamo di entrare. Saluto i miei e vado a letto. Mi sveglio verso le tre del mattino a causa di un temporale. Ha iniziato a piovere mezzora fa, ma adesso la pioggia sbatte sui vetri provocando un rumore assordante. Mi riaddormento dopo un’ora circa. Mi sveglio verso le otto e mezza con una faccia da brivido. Mi spavento persino quando mi guardo allo specchio. Quell’ora di sonno che non mi è stata concessa dal ticchettio delle gocce d’acqua sul vetro ha fatto danni. Ma c’è un altro motivo per cui non ho dormito bene. Ho fatto un sogno, o forse un incubo: la spiaggia dell’Isola dei conigli e il mare in tempesta. In acqua c’è qualcosa che non identifico. Sono le dieci esco sotto la pioggia che cade copiosamente. Mi riparo con un ombrello che ho trovato in cantina: noi non ne avevamo portati. Ci siamo dati appuntamento alla mostra, come sempre, alle dieci e mezza e quando arrivo lei non è nella sala dei quadri e delle poesie, ma in un’altra stanza piena di sculture: dei busti incompleti. Entro senza farmi sentire, voglio farla spaventare. Mi nascondo dietro un busto che ha una straordinaria somiglianza con mio padre. Mi avvicino lentamente e… “Ehi!” mi ha scoperto. Cavolo ma come ha fatto?! Ma guarda un po’, non gli bastava scrivere poesie meravigliose, fa anche i quadri, e che quadri! È seduta davanti a me e mi chiede di darle un parere sul suo lavoro: un suggestivo sentiero di montagna, due ragazzi che lo percorrono e il cielo di un rosso tramonto. Meraviglioso. “Sai già la risposta” rispondo comportandomi come un critico d’arte illustre “Tutto sommato, è carino, ma diciamo non è il mio genere” la prendo un po’ in giro per vedere la sua reazione. Lei ride e io mi sciolgo. Di nuovo quegli occhi, un enigma per me. Belli ma allo stesso tempo misteriosi. Un colore indecifrabile, indefinibile. Nessuno ha gli occhi come i suoi. Vorrei fissarli all’infinito, senza stancarmi. Vorrei avvicinarmi al suo viso e impedirle di battere le palpebre per non perdere neanche un secondo di quella visione che piega le ginocchia, rammollendole. Qualcosa mi dice che non sono l’unico che sente dentro di sé qualcosa, in quella piccola stanza. Qualcosa di nuovo per entrambi. Un pennello sporco di vernice blu sulla punta del mio naso. Ha dichiarato guerra! Due minuti dopo siamo ricoperti di vernice, distesi sul pavimento l’uno accanto all’altra. Ridiamo a crepapelle. La vernice risalta i suoi contorni, perfetti. Fuori piove a dirotto. 91
Non siamo più un ragazzo e una ragazza. Siamo un unico quadro astratto che sorride. Siamo estranei al mondo. “Oggi voglio portarti in Europa.” dice dopo essersi lavatala faccia. “Cosa?” rispondo incredulo “Siamo già in Europa!” “Sì, hai ragione. Però non sei mai entrato dalla porta d’ingresso!” Continuo a non capire “I continenti non hanno porte di ingresso, scusami.” Rido. “Tranquillo vedrai” strizza l’occhio. Usciamo dalla porta sul retro per non far notare a nessuno come siamo combinati dato che non abbiamo nemmeno cambiato i vestiti. Iniziamo a camminare nascondendoci ai passanti e alla fine riusciamo ad uscire dal centro abitato. Seguiamo una strada che porta sulla scogliera a Sud e la percorriamo per un quarto d’ora circa, godendo del meraviglioso paesaggio. In lontananza si vede una piccola spiaggia, Cala Sponsa, che accoglie i bagnanti, alcuni stesi sotto un ombrellone altri in acqua. Sembrano formiche ai nostri occhi. Ci sono delle lunghe imbarcazioni al largo. “Eccola la vedi?” grida tutt’a un tratto indicando una strana forma geometrica che si affaccia verso il mare. È un parallelepipedo, alto 5 metri e largo 3, con un’apertura a centro che è appunto La porta d’Europa. È ricoperta con oggetti di uso quotidiano, come scarpe e cappelli. Ci avviciniamo ancora di più. Passandovi attraverso si sente una brezza un po’ più forte ma piacevole, una piccola corrente d’aria. Contempliamo in silenzio il monumento. Solo un rumore: l’infrangersi delle onde del mare sulla scogliera. Una leggera pioggerellina si adagia sui nostri visi. “Questa porta accoglie a braccia aperte tutti, mettendo a tacere teorie su razze e razzismo.” Qualcosa blocca le sue parole. Siamo solo io e lei, ma nella sua testa c’è qualcos’altro. “Questo monumento è la prova che questa terra grida ai popoli al di là del mare “Io ci sono! Ti accolgo! Sono qui per aiutarti!”. Non avevo mai pensato Lampedusa sotto questo punto di vista. Una terra che accoglie senza distinzioni. Un popolo coraggioso che adesso è solo e deve accogliere le miriadi di poveracci con le proprie forze. Sto iniziando a vedere Lampedusa non come una meta turistica e motivo di svago, ma come l’unico simbolo di coraggio e forza d’animo attualmente in un Italia che sta per cedere a una crisi dilagante, corruzione, ipocrisia e indifferenza. Lo squillo del suo cellulare mi fa sobbalzare. Risponde. Il suo sguardo si incupisce, lo noto subito. 92
Appena terminata la chiamata dice in preda al panico più controllato che abbia mai visto: “ Dobbiamo ritornare” “Chi era al cellulare?” dico iniziando a preoccuparmi. Non risponde mi precede di almeno tre metri. “Ehi, rispondimi.” Niente. Ha altro per la testa, qualcosa che la turba. Non dico niente per trenta secondi mentre lei s’è allontanata di altri cinque passi in più di me. Decido di raggiungerla. La fermo prendendole il braccio destro. Arresta la sua corsa. “Vuoi spiegarmi cosa succede?!” dico. Panico nei suoi occhi. Si passa una mano alla fronte, poi in testa e stringe i denti. “C’è stata una tempesta in mare l’altra notte!” grida. “Quindi? Cosa c’entri tu?” le chiedo cercando di calmarla. Il sogno dell’altra notte mi passa davanti gli occhi. “Un barcone di naufraghi era in mare durante la tempesta e oggi la guardia costiera ha ricevuto una richiesta di soccorso a 3 chilometri dalla costa.” Risponde. “Ripeto. Cosa c’entri tu?” “Sono una volontaria al centro profughi di Lampedusa” dice come se si stesse liberando da un peso “E adesso devo andare” continua. Resto immobile. Quei maledettissimi occhi che mi tormentano dal primo giorno non mi fissano più come i giorni prima. Si volta e cammina di fronte a me. Io paralizzato. Non penso a nulla tranne che a una cosa. “Vengo con te!” grido. Lei è a trenta metri ormai, ma sente e si ferma. Vedo una sua lacrima che luccica sul suo viso lontano dal mio. La raggiungo. Corriamo via. Arriviamo al campo verso le dodici e mezza. Un segreto in una zona degradata di Lampedusa. Alcuni numeri: 150 profughi, 50 morti, 30 dispersi in mare, 10 feriti,2 madri pronte al parto. Sono vittime di un mercato nero di uomini. Diretto dalla Guerra e dalla Miseria. Presentano la Morte e i traghettatori. Sono un milanese ricco e snob, con delle coperte da distribuire in mano. Le più pesanti che abbia mai toccato. Mi sento fuori posto. Delle grida di una donna: ha perso il figlio. Chiedono acqua. Ne dovrebbero essere sazi. Su quel barcone sfondato ce n’era in abbondanza. Un ragazzo del nostro team mi dice che non si sa come siano sopravvissuti. Forse li hanno salvati in tempo. Forse 93
qualche forza superiore all’essere umano ha deciso di risparmiarli per questa volta. “Che ne faranno di loro adesso?” chiedo al ragazzo. “Se Dio vuole, rimarranno qui per qualche settimana o mesetto, ma molti di loro scappano dal campo a distanza di pochi giorni” “E che cosa fanno? Non hanno lavoro, ne casa.” “Non sei di qui vero? Comunque, il lavoro più facile da trovare e lo spaccio di droga. Quello si trova sempre a differenza di tutti gli altri lavori.” Annuisco. Perché la vita certe volte e così crudele e senza pietà? Perché un uomo o una donna devono scappare dalla loro casa? Una casa è sinonimo di sicurezza, accoglienza o tanto meno rifugio. Cosa spinge gli uomini ad attraversare il mare, su un barcone marcio, consapevoli dei rischi e soprattutto conoscendo le probabilità di sopravvivere? Forse la risposta è la rassegnazione alla guerra e a regimi totalitari il cui proprio interesse è la ricchezza materiale. E cos’è la ricchezza materiale se non un inutile piacere? La verità sta nel fatto che l’umanità di tutti i popoli terrestri si sta degradando, portando così ad un’auto estinzione a cui noi stiamo correndo incontro senza badare a rischi e pericoli. Due mesi a Lampedusa. Due mesi che stanno aprendo i miei occhi sulla vita. Due mesi di cambiamento radicali nel mio essere. L’unica colpevole, o meglio l’unica a cui dare merito è lei. Dal primo giorno in cui l’ho vista. Forse è questo che si prova quando si è innamorati… Lampedusa, Agosto 2013 L’ultimo mese qui. Cosa succederà quando partirò? Non ne ho idea o forse non voglio nemmeno pensarci adesso. È passata una settimana dal naufragio, ma sono ancora turbato. Devo fare qualcosa, non posso stare fermo a girarmi i pollici. In tarda mattinata vado alla mostra, ma lei non c’è. Non succedeva da molto. Non mi allarmo molto. Anzi prendo un po’ di tempo per me stesso e ritorno nel luogo più bello di Lampedusa: l’isola dei conigli, la nostra isola. Arrivato, rifletto un po’ su questa specie di vacanza, perché diciamolo, il termine “vacanza” e sinonimo di “relax” e questi tre mesi a Lampedusa non hanno niente che si avvicini all’idea di vacanza. Forse è questo il mio primo giorno di vacanza. La spiaggia bianca e rovente, l’acqua che bolle sotto i raggi di un sole che la mia pelle chiara ha odiato dal primo giorno, ma io no. La sabbia bianca, impalpabile e l’azzurro del mare creavano un contrasto perfetto e piacevole agli occhi. Faccio un bagno veloce. Ritorno. 94
Non la vidi per altri tre giorni. E in questi tre giorni scrissi molto. “Mi sono innamorato di te, dei tuoi occhi, del tuo sorriso, del modo in cui mi guardi, del modo in cui mi parli. C’è un unico problema nella mia vita: tu. Non riesco a non pensarti, mi distrai. Mi completi, mi distruggi. Mi fai soffrire, mi rendi felice. Nessuna è come tee nessuna lo sarà mai. Sei unica in quello che sei. Sei tu. Pensare non mi ha mai fatto così male…” Erano parole su un foglio di carta spiegazzato, buttate su due piedi ma con un significato profondo, come la vernice sulla tela di un pittore astratto. Parole scritte nei dieci minuti più lunghi della mia vita. Parole rimuginate mille volte in testa nelle notti insonni di quei tre giorni in cui tutto sembrava essersi fermato. Cosa c’è di più brutto di perdere persone care? La nostra morte forse? Non penso proprio. Perché non la rividi per tre giorni? Perché? Perché la sua famiglia era in preda ad una crisi economica che li stava spingendo sul fondo del baratro e non avrebbero più potuto farcela? Perché suo padre si era suicidato? Come ha fatto ha nascondere tutto così bene? Perché non mi ha mai detto niente? Domande a cui non trovai mai risposta. Tranne che ad una. Perché, quando gli feci leggere quello che avevo scritto, lei mi rifiutò? Non era più capace di innamorarsi. Tutto qui. La vita nel suo caso aveva chiuso orribilmente i conti, chiudendo perfino il nostro rapporto. Eravamo innamorati perdutamente. Tutto è stato vano. Forse. Io cambiai in meglio grazie a quella meravigliosa ragazza, una poetessa, una pittrice. Forse colei che non avrebbe mai pensato ad un rifiuto nei miei confronti. Andò così e forse era così che doveva andare. Ma devo quello che sono a lei. La rividi per l’ultima volta prima di tornare a Milano. In quel luogo. In quel posto in cui ormai eravamo padroni incontrastati. Lampedusa, Agosto 2013 Due amici, un ragazzo e una ragazza. Sopra di loro un sole che brucia i capelli e stordisce. L’odore del mare, la salsedine che bacia i loro visi, la sabbia sotto i loro piedi. Fissando il mare lei chiede: “Cosa si prova quando si è innamorati?” Rispondo: “Aspettavo questa domanda.” continuo “È una cosa strana. Quando sei innamorato, quando senti soltanto il suo nome, vibra qualcosa dentro di te. La sua voce ti esplodere il cervello di emozioni 95
contrastanti. E poi i suoi occhi...” mi volto verso di lei, non continuo. “Ei suoi occhi?” continua lei senza togliere lo sguardo dal mare. “Innamorarsi è pura follia. È la cosa più bella del mondo, ma certe volte ti distrugge…” ho gli occhi umidi, ma resisto. Lunghi sono i minuti di silenzio, passano lenti. Guardiamo quel mare che sembra non avere più segreti per noi. Stringo le labbra fino a farle sbiancare del tutto. Mi alzo. Lei mi imita. La stringo forte a me. Forse per far unire i nostri cuori e farli battere all’unisono. La bacio sulla fronte. Mi giro e faccio per andare via, ma non sento le gambe, o meglio le sento come macigni e la sabbia è cemento indurito. Adesso una lacrima pesa sul mio viso, ma il vento caldo del nostro mare la spazza via come per consolarmi. Ho un’illuminazione, una rivelazione, una risposta che attendevo da troppo. Mi fermo a qualche metro da lei e dico: “E i suoi occhi sono come lame taglienti e piume morbide sul viso. Ma hanno il colore di quest’estate”. FINE L’innamorato, come direbbe un qualsiasi vocabolario, è colui che nutre amore per una persona o è preso da un sentimento d’amore intenso, che può essere incipiente, e perciò vivo e tormentoso. Per esperienza personale io attribuirei al vocabolo un altro significato: FOLLE.
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Menzione speciale Sull’onda dell’anima di Piera Morreale Mattinata a scuola e, tra una materia e l’altra, una proposta, frase chiave: “I racconti dell’anima”. Pagine bianche, matite appuntite e vortici di pensieri. Matite?! Com’è di buona regola un testo dovrebbe essere scritto con una biro, ma la mia insicurezza, la mia paura di sbagliare sono il retrogusto di ogni mia azione. Di solito, cercando parole che si avvicinino al mio stato d’animo, inciampo su “perle” scritte da qualche incompreso che trovo tra le pagine del Web, ma questa volta voglio che sia la vita il mio motore di ricerca. E’ una calda giornata d’Agosto, guardo mia madre e penso che, nonostante gli anni che passano, è sempre più bella, la saluto con un bacio ed esco di casa, sono le 14:00 ed il sole splende alto sovrastando la piccola città, la stessa di sempre per le mie vacanze. Mi avvicino sempre di più alla costa e le persone diventano sempre meno. Finalmente sono arrivata in riva al mare e non c’è più nessuno: è così bello il silenzio. Mi sembra di essere in un sogno, di solito a quest’ora la spiaggia è gremita di vacanzieri e, invece, ci sono solo io ad ascoltare il suono soave dei gabbiani in lontananza. Rimango distesa per qualche minuto, riapro gli occhi e vedo delle conchiglie, diverse tra di loro eppure, in non so cosa, così simili. Mi viene in mente il ricordo di mio padre che da piccola mi diceva che ogni conchiglia nascondeva un mare segreto di cui nessuna cartina avrebbe mai svelato il nome e così stavo lì ad ascoltarne il suono per ore sentendo di custodire un tesoro inestimabile. Con tanta nostalgia della mia infanzia comincio a guardare meglio quelle conchiglie, ogni conchiglia era unica a modo suo... Non ne avevo mai viste di così belle! Istintivamente ne prendo una: questa conchiglia aveva attraversato molte tempeste, aveva molte spaccature, ma non aveva perso la sua bellezza! Comincio a sentire il fruscio del mare, ma ad un certo punto questo suono si placa e sento una voce:” Avevo quarantasei anni, quando mi ha strangolata guardandomi negli occhi con una furia omicida, l’amavo, giuro, l’amavo così tanto e questo mi è costato la vita. Avevo sedici anni quando l’ho incontrato per la prima volta ... E’ stato amore a prima vista! L’ho subito presentato ai miei, avevo deciso che sarebbe diventato l’amore della mia vita. Per i primi cinque anni mi ha fatto sentire la sua principessa ed il 5 Luglio 1992 mi ha chiesto di diventare sua moglie, ci credi?! Sua moglie! Il mio sogno si stava avverando, dopo qualche mese sono 98
rimasta incinta del mio Lucas, il mio amato Lucas: il senso dei miei giorni. Dopo la nascita di Lucas tutto è finito. Ogni cosa che facevo era sbagliata, mi faceva sentire un errore vivente. Quel pomeriggio avevo dimenticato di spegnere la luce del soggiorno; è entrato, mi ha preso per i capelli e mi ha sbattuto la testa contro il muro, mi usciva sangue dal naso, ma lui non smetteva. Il fatto che io piangessi lo faceva imbestialire ancora di più ed alla fine mi lasciò agonizzante sul pavimento, per fortuna riuscii a rialzarmi da sola e a riprendermi. Ogni giorno era un incubo, aveva cominciato a picchiare anche Lucas, molte volte ho cercato di difenderlo inutilmente. Da pochi giorni avevo scoperto che frequentava prostitute così ho preso coraggio e gliel’ho detto, gli ho detto che «non ero un oggetto e che non poteva trattarmi così», ma soprattutto non poteva trattare così mio figlio! Gli espressi il mio desiderio di lasciarlo. Mi picchiò. Non so esattamente quanti calci in grembo mi avesse dato approfittando del fatto che ormai ero troppo debole per contrastarlo, mi cinse il collo con una corda e mi strangolò come se fossi un animale, ho cercato in tutti i modi di attaccarmi alla vita, ma non ce l’ho fatta, scusa piccolo mio. La tua mamma è sempre nel tuo cuore e veglia su dite”. Quasi non credevo alle mie orecchie! Con le lacrime agli occhi ne prendo un’altra, così grande eppure così fragile, l’ascolto: “Sono Marco ho trent’anni anni ed oggi, finalmente, ho trovato il coraggio di dire ai miei genitori di essere omosessuale. Adesso sono da Flavio, il mio compagno; mio padre mi ha buttato fuori di casa, mentre mia madre piangeva le ho promesso che tutto sarebbe andato per il meglio. Abito in Sicilia ed il mio modo di essere qui viene ucciso ogni istante dalla mentalità comune. Da quando ero piccolo, mi sono reso conto di non essere come gli altri bambini: amavo le bambole e mi piaceva passare giornate intere con le mie compagne di classe. Crescendo mi sono reso conto di quello che provavo, ma soprattutto di quello che sono realmente. Cercavo in ogni modo di scacciare questi pensieri fino a quando non mi sono giustificato a me stesso. A vent’anni anni ho conosciuto Flavio all’Università, mi ha subito colpito e siamo diventati migliori amici. Due anni dopo mi ha confessato il suo amore e da quel momento siamo inseparabili. Ovviamente, fin dall’asilo le prese in giro non sono mancate, ma da buon siculo ho sempre superato tutto a testa alta. Una sera, quella sera, i miei compagni di liceo mi hanno picchiato a sangue all’uscita della scuola. All’inizio, tra schiaffi e pugni, non mi rendevo conto del perché lo facessero fino a quando non ho sentito uno di loro gridare «Lurido finocchio» e da lì ho capito che la mia vita non sarebbe stata semplice. Penso a mio padre, provo gli stessi sentimenti di quel giorno all’uscita da 99
scuola, mi sento ferito: mio padre aveva preso a pugni la mia anima”. Con tanta tristezza nel cuore prendo l’ultima conchiglia: la più piccola: “Sono Nicole, non ho molto da raccontare, la mia vita è durata solo tre ore! La mia mamma era così felice di sentirmi dentro di lei: aveva pubblicato su ogni social la sua foto con il pancione e lei insieme al mio papà non aspettavano altro che tenermi tra le loro braccia! Purtroppo qualcosa è andato storto: in ospedale non c’era posto per me, dovevo essere trasportata nell’ospedale più vicino, ma durante il tragitto il mio piccolo cuore non ha retto. La mamma adesso sta male, papà cerca di consolarla, ma anche lui soffre molto. Questa notte pensavano che sarebbero rimasti svegli a causa dei miei pianti, invece, sono state le loro lacrime a non farli dormire. Siate forti per me, cari mamma e papà, sarò il vostro piccolo angelo quassù”. Sono le 17.00, non vedo più conchiglie, allora, ancora I, sconvolta, comincio a percorrere la strada di casa, ma poco prima di andarmene dalla spiaggia inciampo su un’altra conchiglia e desiderosa di ascoltare la nenia di un’altra anima non esito: “Sono Piera, ho sedici anni ed il mio migliore amico ha il cancro. Che brutta parola: «cancro» molte volte si usa il termine «tumore» per addolcirne il significato, per rendere questo male meno spaventoso. Qualche mese fa sono andata a Bologna a trovano, era ancora un capellone! Aveva cominciato da poco la chemio ed il suo sorriso era raggiante, proprio come me lo ricordavo. Sua mamma all’apparenza era così dolce e sorridente, ma per caso avevo sentito una chiamata in cui parlava con sua sorella: «Certe volte penso di voler chiudere con la vita, ma poi guardo i suoi occhi e ritrovo la forza», quant’ è forte sua madre. La prima volta in cui ho messo piede in quell’ospedale è stata dura, ma con il passare del tempo tutto è diventato normale. Accanto al mio amico c’era un ragazzo che si trovava di nuovo a dover sopportare per la seconda volta questa «bestia». Ogni giorno di più queste persone mi hanno insegnato quanto sia importante il dono della vita e quanto valga la pena di essere vissuta, mi hanno insegnato a comprendere la futilità dei problemi che credevo importanti. 11 mio amico, con un sorriso da fare invidia al mondo, mi ha detto: «Adesso li rado io ‘sti capelli, così non avrà neanche la soddisfazione di togliermeli». Vorrei che le persone che, per loro fortuna, non stanno affrontando questo dramma, comprendessero i veri valori della vita. La cosa che mi ha colpita di più è stata la forza dei genitori di questi ragazzi che sono riusciti a mantenere il sorriso nonostante la loro anima celasse un dolore così disumano che nessun genitore dovrebbe mai patire”. L’ultima conchiglia, la voce della mia 100
anima, quanto mi manca il mio amico, adesso è più forte di prima ed affronta ogni percorso con grande grinta. Sono così scossa eppure così orgogliosa di aver ascoltato anime che avevano tanto da dirmi, compresa la mia. Dalle conchiglie non sento più il mare che tutti credono di poter ascoltare, ma la voce dell’anima di mille mari in tempesta.
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Menzione speciale Anna di Ciringione Letizia Aveva talmente bisogno di un abbraccio, che decise di sorridere per non farsi aiutare, mentre il mondo si frantumava attorno a lei, nascondendo la sua infinita bellezza e la sua debolezza sotto macerie di sofferenza e d’orgoglio. Era come se stesse urlando immersa nell’oceano: nessuno poteva sentirla, ed ogni urlo era un passo verso una morte certa, una morte che ogni giorno la tormentava. Lei era già morta, e glielo si leggeva in quegli occhi spenti quanto desiderosi d’amore, ma nessuno aveva avuto il coraggio di aprire quel libro, nessuno sarebbe mai andato oltre la prima pagina. Non lo aveva mai guardato negli occhi, il suo sguardo la intimidiva e la faceva sentire spoglia, ogni volta che lui le si avvicinava, lei abbassava il viso e le labbra, sottili e rovinate, le si irrigidivano. Ogni giorno era una continua lotta con se stessa, desiderava mostrare al mondo il sole che possedeva dentro, ma non faceva altro che spegnerlo, sempre di più. Niente sulla Terra le avrebbe mai permesso di perdonarlo, eppure, a poco a poco, questa sua convinzione andò scemando. Da quando suo padre aveva divorziato con la madre, Anna aveva perso le basi della propria esistenza, eppure lo sapeva già da tempo, non era la prima volta che sentiva i suoi genitori litigare, ma aveva sempre sperato che, col tempo, le cose potessero andare per il meglio. Non volle neanche salutarlo, quando questo si trasferì via dalla loro casa: guardarlo negli occhi l’avrebbe fatta soffrire, e lei aveva deciso di non soffrire più. La casa sembrava così vuota, l’aria fredda e trasparente del mattino le accarezzava i lunghissimi capelli, il pavimento cigolava sotto i suoi piedi e tutto le appariva così spento, così diverso. Non ci aveva ancora fatto l’abitudine, sentiva l’odore di suo padre per la casa e le sue labbra poggiarsi delicate al mattino sulle guance, ma lui non c’era, lui non era lì, non più. L’aveva lasciata da sola, circondata da gente che non riusciva a scavarle realmente dentro e si sentiva vuota, incompleta, debole. Il tragitto verso la scuola diventava ogni giorno più lungo, l’aria sempre più fredda, la testa sempre più piena, il mondo sempre più stretto. Ormai tutto era diventato un’abitudine, il tempo, il tempo scorreva in maniera inesorabile e tutto attorno a lei andava avanti, senza che potesse mai prendere in mano la situazione. Era orgogliosa, troppo per urlare le sue mancanze, abbastanza per accettare le assenze. Le cinque ore di lezione erano ormai terminate, Anna si trovava davanti al cancello della 103
scuola quando incrociò di nuovo il suo sguardo e un’ondata di lacrime le si concentrò negli occhi, alzò la testa e guardò il cielo: era limpido e con la vista annebbiata poteva scorgere alcuni uccelli che volavano in cerchio su di lei. Avrebbe voluto essere libera come loro, avrebbe voluto che tutto ciò che in quel periodo la logorava da dentro, potesse uscir fuori, potesse librare nell’aria, accarezzato da vento leggero della primavera. Suo padre era lì e lei non doveva, anzi, non voleva, guardarlo. Avrebbe voluto andare lì da lui, abbracciarlo e sentirsi dire di nuovo, come i vecchi tempi, che tutto andava bene, ma nulla andava bene e nulla si sarebbe sistemato, forse... Davvero desiderava dirgli che aveva ancora bisogno di lui, che non si era scordata dei pomeriggi passati a giocare, che non poteva fare a meno delle sue braccia strette attorno a lei, ma tutta quella sofferenza l’aveva resa complicata, odiosa, strana e soprattutto orgogliosa. Era come quell’impossibile operazione matematica che non riesci a risolvere neanche dopo infiniti tentativi, che preferisci lasciar perdere e far sì che sia qualcun altro a risolverla. Ma nessuno voleva risolvere Anna, e lei aveva preferito accettare l’assenza di suo padre, aveva deciso di allontanarsi dal mondo che le pareva troppo stretto, non voleva più soffrire e smise di chiedere aiuto perché l’unica cosa che ormai possedeva era il proprio orgoglio. Eppure sarebbe bastato scostarle i capelli dal viso e guardarla negli occhi per conoscerla davvero, per ammirare la sua bellezza, per amarla, capirla. Sarebbe solamente bastato questo per leggerle dentro tutto ciò che non aveva mai detto, ma Anna viveva in un mondo di analfabeti e l’unico uomo che aveva imparato a leggere era stato suo padre, ma adesso anche lui aveva scordato come fare. Non aveva mai smesso di amare suo padre, non poteva. Ci pensava costantemente e, dal giorno in cui era andato via di casa, lei aveva celato il suo affetto sotto un mantello di odio e indifferenza e mentre il cuore le diceva di fare un cosa, il suo orgoglio glielo vietava. Sapeva che non parlandogli, avrebbe soltanto recato male a se stessa, ma ogni volta che avrebbe desiderato rivederlo, i ricordi di tutto il dolore provato riaffioravano nella sua mente. Ogni giorno che passava abbandonava cocci del proprio cuore nella sua camera, dove prima o poi sarebbe affogata fra lacrime di sofferenza. Era l’unico luogo in cui si sentiva speciale, in cui poteva far emergere la propria personalità, in cui poteva essere se stessa senza dover mostrarsi forte e indipendente: la sua camera era il rifugio della sua anima, dove neanche il proprio orgoglio le avrebbe impedito di esprimere ciò che aveva dentro. La ragazza tanto timida, introversa, menefreghista e schiva stava, però, per scoprire un nuovo lato di sé, un aspetto che solo una persona al mondo 104
sapeva cogliere e che era rimasto in lei nel tempo, sigillato nel cassetto dei ricordi da troppo tempo rimasto chiuso. Era l’ennesima giornata di scuola, il tempo era trascorso troppo velocemente e il cielo era più cupo del solito, nulla attorno lei sembrava uguale, anche l’aria che respirava sembrava avere un odore differente, quasi come se qualcosa stesse per cambiare. Al solito aspettava sua madre che di consuetudine tardava ad arrivare, e lo rivide, con gli occhi bassi trattenne le lacrime: dopo tutto quel tempo ancora faceva troppo male, troppo per far finta che nulla fosse mai accaduto. Il cuore le batteva più velocemente del solito, d’istinto spostò una ciocca dei suoi lunghi capelli davanti al viso scarno e d’improvviso le gote si arrossirono. Come al solito suo padre le si avvicinò, lui avrebbe sempre voluto parlarle e rassicurarla, avrebbe sempre voluto dimostrarle il suo amore ma Anna lo aveva, in ogni circostanza, allontanato. Adesso, però, non si mosse. Rimase ferma. E il tempo si arrestò. Doveva fuggire come aveva sempre fatto, doveva odiare colui che l’aveva abbandonata, doveva far vincere il suo orgoglio, ma qualcosa glielo impedì e stette ferma, in silenzio, col vento che le accarezzava il viso tremante e il rumore del proprio battito che risuonava nelle sue orecchie. Non seppe muovere neanche un muscolo e un misto di gioia e di rabbia s’insinuò nelle sue vene; stava lottando con se stessa e ambedue le parti avevano abbastanza forza e determinazione da far sì che Anna non agisse. Aveva così tante parole da dire che non fiatò. La luce che era in lei cominciò ad alimentarsi e il grigio che colorava il suo animo stava per svanire. Ad ogni passo verso lei, il suo cuore recuperava le antiche macerie perdute nel tragitto della propria vita, il suo animo stava per svelare tutto ciò che aveva celato fino a quel momento. Erano faccia a faccia. Di nuovo. Per sempre. Si fissavano senza dire una parola eppure in quel silenzio così rumoroso miriadi di frasi e pensieri colmavano le loro menti, in quel momento nulla attorno a loro aveva importanza, erano di nuovo insieme ed ogni gesto, ogni pensiero, sarebbe stato superfluo in un attimo così puro e significativo. Fu il padre a rompere il ghiaccio, sciogliendo la freddezza che aveva dipinto un muro di incomprensioni fra di loro, con un abbraccio, lungo, colmo di tutto quello che negli anni precedenti avevano entrambi desiderato. TI padre non aveva mai smesso di leggerle dentro, aveva sempre saputo ciò che nascondeva sotto la sua corazza d’orgoglio e indifferenza, e si era impegnato a tal punto da distruggerla in un solo, unico, perfetto e indescrivibile abbraccio. E tutto quel finto odio, quell’inutile distacco e quella paura di poter nuovamente soffrire, erano improvvisamente svaniti. Nulla in quel momento esisteva se non loro due, perché in quegli 105
sguardi così sinceri i due si erano detti tutto quello che avevano nascosto nel tempo ed erano riusciti a ricucire i frammenti di due cuori ormai a pezzi per il dolore. Lei non avrebbe più potuto far finta di niente per poi tornare nella sua camera a piangere sfogliando le vecchie foto del padre, non avrebbe più dovuto irrigidire la labbra per trattenere le sue parole, non avrebbe più dovuto fingere di odiarlo e non avrebbe più dovuto alzare gli occhi al cielo per trattenere le lacrime invidiando gli uccelli per la loro libertà: adesso anche lei era libera, spoglia di ogni maschera indossata per celare se stessa, priva di un orgoglio che avrebbe solo posto ogni giorno che passava un mattone in più nel muro di indifferenza che si stava creando tra padre e figlia. Anna era finalmente libera, libera di volare.
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Scuola Secondaria di Primo Grado Racconti premiati nell’anno scolastico 2015/2016
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Primo classificato IL PICCOLO BRUCO di Nicole Gaziano Era lì… nel suo solito angolino, seduto per terra, le spalle appoggiate al muro. Le sue rosse guance, così rosse da sembrare dipinte, erano solcate da mille lacrime che scivolavano giù in silenzio, mentre due grandi occhioni lucidi facevano da contrasto al buio di quella stanza, quasi come fossero due splendidi diamanti a rischiarare l’eterna oscurità. Mi avvicinai lentamente, ben attento a non emettere alcun tipo di rumore, e mi sedetti accanto a lui. Appena mi vide, nascose il suo piccolo visino fra le braccia e continuò a piangere sempre più forte. Era un ragazzetto molto sensibile e si riusciva a percepire la sofferenza che stava provando, e il suo cuore infranto in mille pezzettini aspettava di essere risanato. “Cosa è successo piccolino?”, gli chiesi con voce flebile. Lui dapprima non rispose, ma smise di piangere restando in silenzio, molto probabilmente aspettando che lo convincessi a parlare. Dopo un minuto di silenzio, riuscii a sentire la sua debole vocina rispondermi: “Gli altri bambini ce l’hanno con me, perché ho una pelle diversa, perché sono come dicono ‘diverso’, e non mi permettono di giocare e stare insieme a loro”. Riprese a piangere. “Sai, credo che quei bambini non conoscano la realtà dei fatti”, dissi. “Loro si basano sull’esteriorità e si creano preconcetti sugli altri senza conoscerli affatto, non sanno cosa si cela qui dentro”, gli toccai il petto, proprio vicino al cuore, “e non potranno mai sapere che lì si nasconde un magico tesoro che aspetta di mostrarsi al mondo”. Lui alzò la testa e mi guardò accennando un debole sorriso e prendendomi la mano. “Ti va di sentire una storia?”, continuai. Mi fece segno di sì con la testa e si mise comodo, voltandosi completamente verso di me. “C’era una volta un piccolo bruco tutto giallo che viveva in un immenso parco, popolato da alberi di ogni tipo e graziosi ruscelletti che terminavano in minuscoli stagni abitati da pesciolini e girini. Si può presumere che il piccolo bruco si trovasse e vivesse bene laggiù. Chi può in fondo desiderare un luogo migliore per trascorrere la propria vita!! Invece, il povero animale, soffriva molto a causa dei suoi ‘amici’ bruchi. Lo deridevano tutto il giorno per il colore della sua pelle e lo consideravano un essere inferiore perché era ‘diverso’. Il piccolo bruco passava ogni 108
minuto di ogni giorno da solo a piangere e chiedendosi come mai la vita lo avesse creato in quel modo. Non sopportava di essere escluso e messo da parte e iniziava ad essere molto stanco di essere trattato così. Un giorno, appena sveglio, il piccolo bruco trovò davanti alla porta di casa sua gli altri bruchi che evidentemente lo aspettavano: “Ah, eccoti finalmente, credevamo fossi andato a cercare qualcuno che riuscisse a dipingerti!! Sai, dovresti farlo. Noi ci sentiremmo molto imbarazzati ad essere come sei tu, e ci vergogneremmo persino di noi stessi!!”. Come poter resistere difronte a così tanta cattiveria?! Il povero bruco scappò via da fi e ben presto si ritrovò vicino a un piccolo corso d’acqua. Si arrampicò su di una foglia pronto a gettarsi e a mettere fine a quella vita che lui odiava così tanto, quando sentì una voce: “Non serve dar loro questa soddisfazione, li faresti solo molto felici di non averti più tra i piedi!”. Il bruco si guardò intorno e, posato su un ramo di una grande quercia, stava il gufo più maestoso che avesse mai visto. Il suo piumaggio era così perfetto che sembrava scolpito a mano! “Chi sei?”, chiese il piccolo bruco. “Sono il vecchio e saggio gufo! Non hai mai sentito parlare di me?”, chiese lui. “Con una vita come la mia, senti solo tante voci crudeli che mettono in risalto ogni tuo minimo difetto, privandoti della libertà di essere te stesso”. Il vecchio gufo sembrò essere colpito da quelle parole e lo scrutò più attentamente, volando vicino a lui. “Prima o poi, non avranno più il coraggio di deriderti perché troppo imbarazzati da quella che sarà la dura realtà. In questo momento non riescono a scorgere la luce che regna dentro di te, perché troppo accecati dall’odio verso chi non è come loro, ma vedrai che anche tu, così come tutti gli altri animali troverai la pace e la serenità a cui tanto aspiri, basta solo aspettare. La pazienza rende liberi, la libertà tende felici, la felicità rende beati!!”. Così come era comparso, si dileguò nel nulla e lasciò il piccolo bruco a meditare su ci gli aveva detto. Nei giorni seguenti, il bruco cercò di stare lontano dagli altri bruchi, vivendo accanto alla grande quercia, sperando in una seconda apparizione del vecchio gufo. Iniziava a sentirsi strano, sempre più stanco, come se fosse arrivata l’ora di abbandonare questo mondo. Però, non si era mai sentito così felice prima d’ora, forse perché il pensiero della morte non lo spaventava, anzi, in realtà sperava sarebbe arrivata presto. Quella notte, andò a dormire, come suo solito da quando aveva incontrato il gufo e aver iniziato ad abitare nella quercia, a testa in giù su un ramo del grande albero, addormentandosi così serenamente che nemmeno se ne accorse. La mattina seguente, il piccolo bruco aprendo gli occhi si ritrovò rinchiuso in una specie di massa gelatinosa solidificata. Non 109
capendo la situazione, in un primo momento pensò che gli altri bruchi, una volta averlo trovato, gli avessero fatto un brutto scherzo. Cercò di uscire da quella strana situazione e, all’improvviso, precipitò giù e sempre più giù temendo di picchiare la testa sul suolo duro. Invece, inaspettatamente, si librò in aria con una grazia invidiabile. Non capiva cosa stesse succedendo e, quando si guardò, non riuscì a riconoscersi. Era diventato una farfalla!! Ricordò le parole del vecchio gufo... aveva ragione! La parte migliore di lui si era liberata lasciando spazio ad un essere maestoso e splendido. Guardò in basso e riuscì a scorgere i bruchi che prima lo avevano tanto preso in giro. Scese in picchiata e li seguì, desideroso di farsi scoprire. Ma appena lo videro, non lo riconobbero, infatti continuarono ad andare avanti, affascinati in fondo da quell’essere meraviglioso che volava nel cielo. Quando però il piccolo bruco, adesso farfalla, continuò a seguirli, loro si voltarono esclamando: “Chi sei?”. “Sono venuto per dirvi che me ne vado e che vi perdono, nonostante tutte le vostre cattiverie”. I bruchi finalmente capirono e nel loro volto si dipinse la vergogna. Nel frattempo un gruppo di farfalle chiamarono il piccolo bruco e lo invitarono ad unirsi a loro. Lui lanciò un ultimo sguardo ai bruchi che lo guardavano sbigottiti e volò alto nella volta celeste, accompagnato da quelle che sarebbero state le sue nuove compagne di viaggio e, perché no, anche di vita!! Ormai il piccolo bruco è diventato un essere meraviglioso sia dentro che fuori e qualche volta mi capita di vederlo volare qui intorno! “Vuoi dire che lo conosci davvero?”, mi chiese il piccolo incuriositosi ormai a tal punto da aver dimenticato il motivo per cui piangeva. “Certo che lo conosco, ormai siamo amici stretti io e lui”, gli strizzai l’occhio e il bambino mi sorrise. “Quello che ho voluto farti capire con questa favola è che la parte migliore di ognuno di noi, non è l’aspetto esteriore, ma ciò che è sepolto nelle profondità del nostro cuore e che solo noi possiamo far affiorare in superficie! L’essenziale è invisibile agli occhi. Che ne dici se andiamo a cercare il piccolo bruco? Ho così tanta voglia d conoscerlo!!”. Mi disse e nel frattempo arrossì leggermente. “Credo sia una buona idea!!”, gli risposi ridendo. Mi prese per mano e percorremmo l’intera vallata in cerca della piccola farfalla o meglio come lo conosciamo noi, il piccolo bruco
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Secondo classificato Diversi perché migliori di Chiara Reina C’era una volta un leoncino, con una particolarità: sapeva sputare fuoco ed era molto intelligente rispetto agli altri animali. Tutti lo conoscevano per la sua superficialità, nessuno lo voleva con sé. Ma a lui non interessava, quello che contava era se stesso. Un giorno mentre passeggiava tra gli alberi, si accorse che stranamente non aveva ancora visto nessuno della sua specie, ma non ci fece molto caso. Ad un tratto si fermò, gli era venuto in mente un episodio in cui lii abbandonato ma adesso, per capire, torniamo un po’ indietro nel tempo... Era una giornata calda d’ estate, e durante la sua solita passeggiata nel bosco, il leoncino incontrò albi leoni e disse: -“Salve, carissimi, in questo momento sono solo, potrei unirmi a voi e darvi questo onore?” -“Buon giorno, sì amico, vieni con noi!” -“Anche se sono certo che già mi conosciate, mi presento, mi chiamano ‘Sapientino’ anche se non so perché, comunque... dove stavate andando?” Rispose. -“Ah, ma tu sei quello allora... Andiamo amici, non abbiamo tempo per certi leoncini” Disse uno di loro. -“Non fare il solito, diamogli un’opportunità, non ha l’aria di essere così male.” Rispose un altro. -“Non vi preoccupate non vi tratterò da inferiori. Cioè, anche se siete diversi da me, questo non vuol dire che voi non possiate essere miei amici.” Colui che prima lo aveva accusato, perse la pazienza e disse: “Ascolta Sapientino, qui siamo tuffi amici leali e non osiamo mai prenderci in giro, non vedo perché tu creda di aver il diritto di farlo!” -“Ehi, calma Lion, si sarà semplicemente espresso male...” Rispose il difensore del piccolo. -“Scusate se vi ho offesi, volevo solo intendere che la mia intelligenza e le mie incredibili capacità, non influiranno sulla nostra amicizia” Lion non intervenne più. Lasciò che lo facesse Leo, colui che prima lo aveva difeso. Infatti disse: “Sapientino, prima potevo difenderli, ma giunti alla terza volta, non lo accetto più. Qui mi conoscono per la mia pazienza, ma quando perdo le staffe, nessuno riesce a tenermi. E ricorda 112
che quelli diversi non siamo noi, ma tu, non ti spiego nemmeno il perché. Prima o poi riuscirai a capirlo da solo.” Detto ciò, il gruppo se ne andò, lasciando il piccolo di stucco. Il leoncino non capiva il perché di tanta rabbia, o forse non voleva ammettere di aver capito. Adesso che sappiamo cosa successe, torniamo al presente... Così, avendo capito dove aveva sbagliato, tornò alla sua passeggiata; ma ancora nessun tipo di animale si vedeva in giro. All’improvviso, si sentì uno sparo. Allora, preso dalla paura, si nascose dietro un albero, e dopo qualche secondo... Un altro sparo. Era troppo impaurito per muoversi, ma si fece forza e andò nella stessa traiettoria da cui proveniva lo sparo e vide tutti i leoni del bosco, intrappolati in delle gabbie di legno. Accanto c’erano tre uomini, alti, e sembravano troppo forti per essere sconfitti da un piccolo leoncino. Così Sapientino decise di usare la sua intelligenza. Appena uno dei tre iniziò a sparare per spaventare i leoni, prese la rincorsa e gli andò incontro, sputandogli del fuoco nei capelli, quello, scappò subito, come una bambina, seguito dagli altri. Il piccolo eroe bruciò anche la gabbia che chiudeva gli altri, salvandoli. Tutti iniziarono a ringraziarlo e lui disse: “Mi dispiace per quando ho accusato alcuni di voi di essere diversi, non lo siete, oh meglio sì, lo siete. Diversi perché migliori. In tutto questo tempo sono stato superficiale, mi sono vantato di un’intelligenza che non mi appartiene. Per avervi trattato così, sono stato molto stupido. Ho capito che essere diversi è avere o essere qualcosa in più rispetto ad altri, ma siamo tutti diversi, gli uni dagli altri. Abbiamo caratteristiche che gli altri non hanno, sì, ma anche loro ne avranno altre. Siamo tutti speciali.” Da allora Sapientino divenne amico di tutti e vissero felici, per sempre. Forse ciò che gli sentiva era ricevere un pò di attenzioni, forse avendo almeno un amico, sarebbe riuscito a cambiare anche prima, ma... Meglio tardi che mai!! La diversità non è altro che un modo per trovare una scusa per non stare con alcuni, ma se si considera qualcuno diverso, c’è un motivo in più per dargli più attenzioni, no? Non farlo solo per loro, fallo anche per rendere migliore te, e ricorda il detto “fai felice qualcuno e sarai felice anche tu”!
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Terzo classificato Il toro e il coniglio di Lucia Mangiapane Non molto tempo fa, in lontano borgo, c’era una fattoria, che funzionava nel migliore dei modi. Erano presenti tori, mucche, galline, oche, maiali e conigli. Sapete perché metto per ultimi i conigli? Perché in quella fattoria quelli più potenti erano i tori e quelli più deboli i conigli, si viveva in regime di dittatura, cioè era un animale a comandare... E chi poteva farlo meglio dei tori? Era morto l’attuale re. Furono giorni di sconforto per tutti gli animali; un toro decise di prendere in mano la situazione: formò una scala sociale tra gli animali, iniziò a farsi servire dagli animali e anche, e soprattutto, a farsi odiare. Nessun coniglio osava ribellarsi alla grandissima autorità del toro; questo durò fino a che venne alla luce un semplice coniglio che cresciuto molto in fretta si rese conto di dove si trovava e soprattutto capì che tipo di animali si sentivano superiori a lui. Lui si chiamava Jack. I suoi genitori avevano notato tutta la sua intelligenza e furbizia tramite i suoi comportamenti e il suo modo di parlare. Jack cresceva, cominciava a fare i primi passi e cercava di capire come realmente funzionasse il suo popolo; il re continuava sempre di più a imporre tasse e lavori forzati. Un giorno, chiamò tutti i suoi servitori nella mangiatoia e disse: «Buongiorno, oggi, voglio domandarvi o meglio ordinarvi di costruire nella mia stalla un trono, che non sia come quello che vediamo dalle televisioni dei nostri padroni ma uno ancora più maestoso e che soprattutto non sia mai dimenticato da nessuno. Nessuno si può astenere dal farlo». Nessun verso si udì per circa dieci minuti; dopo un po’, tutti gli abitanti tornarono nelle proprie stalle. I genitori di Jack discussero a lungo su ciò che aveva detto il Toro e parlarono del loro futuro, di quello del coniglietto e dei suoi fratellini che erano molti. Jack cominciò a programmare dei piani per impedire la costruzione del trono. Il giorno dopo disse a suo padre: «Papà, perché noi sottostiamo a tutti questi ordini? Non è meglio ribellarci e farla finita una volta per tutte con queste ingiustizie!?!?>. Il Coniglio padre stette in silenzio e non rispose subito alla domanda del figlio, ma solo dopo alcuni giorni: «Figliuolo, non ho risposto subito alle tue domande perché volevo cercare il modo giusto per dirtelo: io e mio fratello, circa due anni fa, abbiamo cercato di ribellarci al toro ma come vedi non ci siamo riusciti. Era una mattina di primavera, mentre il toro 115
stava andando a mangiare un po’ di fieno, noi lo abbiamo inseguito e dopo essercelo ritrovato davanti, gli abbiamo detto in maniera molto tranquilla e, secondo me, anche garbata se poteva cercare di limitare il suo potere in qualche modo e così vivere serenamente i nostri giorni nella fattoria. Lui ci guardò ridendo ma si fece serio subito e ci disse che se avessimo provato un’altra volta a ribellarci e anche a chiedere qualsiasi cosa, ci avrebbe… Non ti dico, figliuolo, l’ultima parola che ci ha detto. Da quel momento, come puoi ben notare tu, non è cambiato niente o, forse, è anche peggio». A Jack uscì una lacrima a sentire quelle parole. Non parlava più, pensava, pensava, pensava. La sera, andò al “recupero dei conigli”, era una delle tante “belle” cose che venivano in mente a quel re. Secondo lui, dovevano riacquistare un equilibrio mentale. Jack si comportò troppo male, non chiacchierava con gli altri conigli ma aveva la testa fra le nuvole; si fece dare persino una punizione: fare da servo d’onore, si fa per dire, al re. Cosa c’era di più umiliante? Pensava il coniglietto. Le sue giornate passavano così: si alzava la mattina presto, andava a scuola, non aveva nemmeno il tempo di mangiare un po’ di mangime che doveva subito andare a servire il re. Ritornava a casa alle nove mangiava e doveva fare i compiti per il giorno dopo. Ogni giorno sempre la stessa storia. Lui non voleva ma doveva farlo! Finita la punizione e scrutato bene il territorio, per un giorno ed una notte elaborò una serie di scherzi da fare al re per fare divertire gli animali e far impaurire il toro. In questi scherzi c’era di tutto e di più: scivolate, superstizione, ammiratori segreti e lettere anonime. Iniziò con la scivolata: nella sua udienza settimanale, il re faceva una sfilata che doveva per forza essere guardata da tutti gli animali; Jack si fece prestare della cera dalle sue amiche api, la spalmò la mattina presto, prima di andare a scuola e il re non poté far altro che scivolare e naturalmente far ridere tutti. Iniziarono a battere le zampe la famiglia di Jack, seguita dalle oche, dalle galline e anche, dalla famiglia del toro. Seguì la superstizione. Jack scoprì che il suo re era superstizioso, quando era in punizione per essere stato distratto. Il coniglietto fece prendere un colpo al toro: quando si stava specchiando nel suo magnifico specchio per notare la sua “bellezza”, il coniglietto lanciò un urlo così forte da far spaventare il toro, che si ritrovò con lo specchio frantumato in mille pezzi e sette anni di sfortuna. Si isolò per un po’ dagli animali, perché diceva che si sentiva depresso. Nella sua permanenza nella stalla, gli arrivò persino una super porzione di mangime ma che non era stata data dal contadino ma da qualcuno o meglio qualcuna che voleva attrarre la sua attenzione. Successivamente gli arrivarono delle lettere anonime che dicevano: 116
“Se avanti con la vita vuoi andare, il tuo potere devi limitare” Ciò fece, da una parte intimidire il re, ma dall’altro imbestialire ancora di più: aumentò le tasse del 30%, lavori ancora più strazianti che aumentarono di molto il tasso di mortalità animale. Infatti, in quel periodo la fattoria stava avendo una grande momento di crisi dovuto alla perdita di animali. Jack si sentì molto in colpa. Si allontanò da tutto e da tutti; soprattutto da suo padre che per lui era un grande punto di riferimento. Tutto ciò cambiò quando cominciò ad aggirarsi da quelle parti un’affascinante lepre che si chiamava Lory. Occhi verdi e pelo dorato. Attirò subito l’attenzione di Jack. Essa gli avrebbe cambiato la vita. Non si sa, un dono del Signore degli Animali o pura casualità? Fecero subito amicizia, passavano giornate intere a conversare e a raccontarsi tutte le avventure passate nella loro vita. Un giorno, il coniglio disse alla volpe: <<Lory, sei arrivata per caso nella mia vita e I’hai letteralmente cambiata ed è per questo che voglio chiederti aiuto. Ti ho da sempre raccontato le condizioni nelle quali io vivo. Sono, o meglio siamo tutti sottomessi ad un toro. Ti va di aiutarmi a sconfiggerlo? Di certo, affronteremo difficoltà ma stai certa che ce la faremo!» Lory, non rispose subito, solo dopo qualche minuto: D’accordo! Voglio cercare di aiutarti; in questi giorni, ho cercato di conoscerti in fondo e ho capito veramente che tieni molto alla tua fattoria e che vuoi liberare tutti». Cominciarono a organizzare e a chiedere il sostegno degli altri, naturalmente per avere una maggioranza più larga. Andavano chiedendo a tutti gli animali più simili a loro. Alcune manifestazioni notturne, cartelli, che, in un certo senso, incitavano gli animali a ribellarsi. Ci furono alcuni momenti, in cui avevano dei rimorsi di coscienza, cioè si chiedevano se ciò che stavano facendo era giusto; ma poi si riprendevano d’animo e ricominciavano. Venne a conoscenza di queste manifestazioni notturne, il toro che volle intervenire non catturando Jack, ma Lory. Il re non voleva mica ucciderla e mangiarsela, ma cercare o meglio costringerla ad instaurare un rapporto con lui. Lory era davvero bellissima! La lepre che dormiva nel soggiorno della casa di Jack, fu catturata dal toro, con uno strabiliante piano: si fece prendere dalle sue api serve, uno di quei richiami che usavano quelli della fattoria per la caccia. Vi soffiò e la lepre fu come magicamente trasportata mentre dormiva. La tenne segregata per circa una settimana. Mentre, invece, il povero coniglietto pensava che la lepre l’avesse abbandonato proprio quando stavano riuscendo nell’intento. Le api gli svelarono che la lepre era con il toro. Riuscì a farla scappare. Insieme riuscirono a far arrendere per sempre il toro. Lo umiliarono davanti a tutti così tanto, che non poté far altro che 117
scappare da quella fattoria e andarsi a rifugiare in una grotta, dove morĂŹ dopo pochi mesi. Dâ&#x20AC;&#x2122;altronde non aveva mica cosĂŹ torto Io specchio! Ah! Dimenticavo! Lory e Jack si sono sposati! Non fare mai agli altri, quello che non vorresti fosse fatto a te!
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Menzione speciale “Per colpa di una sedia” di Vittoria Ladduca Laura, una ragazza disabile sulla sedia a rotelle, si stava preparando per il suo primo giorno da vivere in una nuova scuola. Sua sorella Beatrice le disse: “Sei pronta?”. “Si! andiamo!”, le rispose eccitata Laura. Sulla macchina, Beatrice, vedendo la sua sorellina nervosa, le disse: “Vedrai che ti troverai bene. Sicuramente troverai tanti amici che ti vorranno bene.” Laura sorrise. Pensava però che fosse difficile trovare un’amica o un amico per le condizioni in cui si trovava; lei era molto bella e intelligente e di questo ne era consapevole, ma credeva che se non riusciva a trovare un amico era colpa di quella sedia a rotelle dove era seduta per via della sua malattia. “Ecco! Siamo arrivate”, disse Beatrice, che la prese e la sistemò sulla sua sedia a scuola. “Buongiorno, io sono la preside di questa meravigliosa scuola. Spero che ti troverai bene. Laura”, le disse accarezzandole il viso. “Grazie” rispose Laura, che si guardò intorno e vide una ragazza avvicinarsi che le disse: “Ti aiuto io?”. “Ok!” rispose Laura. “Io sono Alice. Tra un po’ suonerà la campanella, è meglio entrare in classe e dopo parleremo, ok?”. “Ok, piacere di conoscerti, sono Laura”. La campanella suonò e la professoressa di Storia entrò in classe insieme a dei ragazzi che guardarono straniti Laura. “Buongiorno ragazzi!“. “Buongiorno prof.”, risposero in coro. “Oggi abbiamo una nuova compagna in classe: Laura. Dai presentati.” “Ciao… sono Laura”. “Questo lo avevamo capito”, disse un ragazzo in fondo all’aula. “Non siamo stupidi come te!”, disse una ragazza ridacchiando. “Ehi, buoni”, li rimproverò la professoressa. E aggiunse: “comportatevi bene con Laura”. Poi rivolta alla nuova arrivata: “vedo che già hai fatto amicizia con Alice”. “Si!” rispose Laura. “Prof., se vuole, posso mostrare io la scuola a Laura”. disse Alice. “Va bene!”. Al suono della campanella che annunciava la ricreazione, 120
Alice mostrò a Laura la scuola. “Non te la prendere, quelli sono degli stupidi che si sentono superiori a chiunque”. “Lo so, non ti preoccupare”, le rispose Laura. “Guarda chi c’è?”, disse il ragazzo di prima, “la stupida con la sedia a rotelle e la sua badante”. “Stai zitto!” disse Alice, “Laura è una ragazza meravigliosa. Tu sei stupido”. “Ma senti chi parla?”. “Ciao! Andiamo Alice” disse Laura. Tornata a casa Laura, Beatrice le chiese: “Come è andata?” “Ho conosciuto Alice...”. “Sono contenta!”, la interruppe Beatrice. “Sì, ma gli altri miei compagni sono antipatici e mi odiano”, le rispose Laura. All’improvviso, Beatrice prese il telefono. “Cosa vuoi fare?”, le disse Laura. “Ora vedrai!”, disse Beatrice. “Pronto, signora preside, sono io Beatrice, la sorella di Laura. Domani vorrei parlare con lei se è possibile?”. “Certo!”, rispose la preside. “Grazie, a domani”. “Allora?” disse Laura. “Domani i tuoi compagni sicuramente cambieranno idea”, le rispose Beatrice. Il giorno seguente Beatrice entrò in classe insieme a Laura e alla preside. “Buongiorno, sono la sorella maggiore di Laura. So che voi la trovate stupida perché si trova su una sedia a rotelle. Io vi dico che siete voi gli stupidi che disprezzate una ragazza dolce e generosa che all’apparenza può sembrare più debole di voi. E se succedeva a voi?”. “No, lei è stupida”, disse una ragazza. “No, voi siete stupidi.” disse Beatrice. “Laura è su una sedia a rotelle per colpa dei suoi ex compagni che la prendevano in giro, la disprezzavano e la deridevano. Un giorno, per farla impaurire, la costrinsero a salire su un’automobile; il ragazzo che guidava andava ad alta velocità e andò a sbattere contro un edificio. E’ da quel giorno che Laura si trova così. Non sapete che paura ho avuto di perderla. E voi che avete provato a terrorizzarla e volevate farle del male, lei sicuramente non ce l’avrebbe fatta. Allora?” disse Beatrice con tono stizzito. “Scusi!” disse una ragazza. Poco dopo, chi si comportò male nei suoi confronti scoppiò a piangere. Beatrice era riuscita a convincere i ragazzi a rispettare e a conoscere Laura. 121
Scuola Secondaria di Secondo Grado Racconti premiati nellâ&#x20AC;&#x2122;anno scolastico 2015/2016
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Primo classificato Il giaciglio del pascià di Miriam Barbasso Colpito da avversi fatti Mattia Pascal bibliotecario cuor generoso anima aperta qui volontario riposa «Basta Totò, per oggi basta, sono stanco, torna a casa, tua madre ti starà aspettando». «Ancora un poco, zi Pauli, ancora un poco». «No, benedetto ragazzo, ma perché non te ne vai a cacciare le mosche come i tuoi coetanei, invece di perdere il tuo tempo qua a sentire i deliri di un povero vecchio?» A malincuore mi alzai dal piccolo sgabello, sistemato accanto alla poltrona del vecchio e lentamente, molto lentamente, mi avviai verso casa. Ancora le parole del vecchio mi risuonavano in testa: “Col cuore lacerato diciamo per l’ultima volta al nostro buon Mattia-Vale, diletto amico, vale!” Che storia! Che figata! Se fosse capitata a me una fortuna così, scomparirei dagli occhi di tutti, non essere più ricordato se non per essere rimpianto e magari così vedere chi è che si sarebbe rattristato veramente per la mia morte e chi no. E poi ricominciare tutto daccapo, un’altra identità, un altro nome, presentarsi come il figlio di nipote dell’illustre..., ed essere così stimato, invitato alle occasioni importanti da persone importanti che contano veramente poi e poi.... «Totò a gatta si mangiò u ragù». Ecco questo ero io, non ero figlio di.... Ero figlio della. Della tontolona del paese, zimbello, che a quindici anni era stata data in sposa a un povero contadino vedovo da un padre bevitore, che a casa teneva nove bocche da sfamare e non si lasciava perdere l’occasione di sistemarne una. Tanto chi avrebbe voluto quella figlia cresciuta tanto fisicamente, anzi anche troppo, ma con il cervello di una bambina di pochi anni? Disabilità intellettiva, malattia cognitiva dovuta da altrettanto funzionamento del sistema nervoso centrale, così avevano scritto i medici, si sa, loro amano usare parole difficili, incomprensibili per la povera gente quando non sanno trovare un rimedio ai loro malanni. E così la tenera Fina, questo era il suo nome, Serafina all’anagrafe, era andata in sposa al più attempato “Vincenzo la morte”, chiamato così in paese per la carnagione già scura di suo, ma resa ancora più arsa per le ore passate a lavorare la terra sotto il sole cocente, 123
giusto per strapparsi quel po’ di necessario per vivere. Ma si sa, nei paesi della Sicilia tutti ci riconosciamo con i soprannomi, per distinguerci, dal momento che tutti ci chiamiamo allo stesso modo: Totò, Giusè, Vincè, Peppì, perché così i nostri genitori saldavano il debito di gratitudine presso i loro nonni. Dicevo, Vincenzo, dal canto suo, aveva bisogno di una donna in casa, dopo che la sua amata Rosalia lo aveva lasciato, purtroppo senza figli. E così da questo matrimonio fatto più per comodità che per altro, ero nato io. Posso dirvi, ad onor del vero, che i primi anni della mia vita furono felici, la nostra umile dimora era la mia reggia e la mamma, la mia fata, compagna di giochi, capace di venire a correre con noi bambini dietro un pallone. Io allora mi sentivo fortunato ad avere una mamma che non si preoccupava se c’era da preparare la cena (c’era sempre il furgoncino delle frittelle in piazza) o da stirare, preferiva giocare, ridere con noi. E poi c’erano i gatti, decine di gatti che le venivano dietro, perché lei provava tenerezza per loro, li sfamava, li accarezzava, e poi volete mettere in discussione la comodità di avere in casa un gatto, quando c’è un topo nella dispensa? E quando ero stanco le sue grosse braccia erano il morbido materasso in cui stendermi e sentirmi un pascià nel suo giaciglio. Il risveglio però non fu dolce, perché arrivò l’età di andare a scuola e allora piano piano percepivo che dentro il mio universo stava sorgendo un buco nero. Ricordo la prima festa di Natale, noi intimoriti sul palco «maglietta rossa!», ci avevano detto le maestre, e allora tutti con lupetti, polo, dolcevita rosso rubino, rosso ferrari, rosso cremisi e io? Rosso errore di bucato. E le mamme? Con loro mi si apriva un mondo sconosciuto fino ad allora. Belle, magre, elegantissime, truccate, sembravano presentatrici della televisione, e come parlavano bene, non una parola in dialetto, e tra loro si scambiavano cortesie, opinioni; e poi lei, la mamma di Gioia, che era venuta apposta da Milano, perché lei sì che era una gran signora, là dirigeva uno studio di architetti, dicono che disegnasse le case per i ricchi della città. E tutti a salutarla, a chiederle pareri «Vorrei spostare la parete ma non so!», «Avrei bisogno di una cabina armadio più grande, magari togliendo il comodino di mio marito, che ne dice?» 1a mia mamma era lì, sola, sperduta, nessuno si accorgeva di lei, poi d’un tratto mi strizzò l’occhio e mi disse: «Che ne dici di andare a mangiare le frittelle?». E allora via al furgoncino dove facevano le frittelle più buone e più fritte del mondo, e una, due, tre, finché non finivano i soldi, a ingrassarci di frittelle. Purtroppo, crescendo, una frittella non basta più a cancellarti il disagio; disagio quando non c’è nessuno che ti aiuta a capire l’esercizio di matematica, disagio quando vedi i tuoi compagni vestiti come i manichini dei negozi; anche io avevo 124
voluto un pullover simile, per sentirmi alla pari, e Fina mi aveva accontentato (mi diceva sempre di sì), finché non lo ritrovai piccolo, piccolo da poterlo mettere ad una bambola; i suoi bucati! Disagio di non poter invitare nessuno a casa, del resto le altre mamme ci tenevano a fare relazionare i figli con gli altri compagni, a relazionarsi tra di loro, ma nessuno invitava la mia, magari giusto un sorriso per mettere la coscienza apposto e poi erano le altre le prescelte per andare a bere un tè. «Signora suo figlio ha bisogno di qualcuno che lo aiuti a ripetere, a spiegare con parole sue, ad esercitarsi con la matematica. Capisce cosa voglio dire?» «Si, signora maestra» «E come pensa di farlo seguire?» «Lei che dice è meglio a piedi o con la macchina?» E tutti a ridere, mentre io diventavo paonazzo, volevo morire, volevo scomparire. E pensare che lei per farmi fare bella figura aveva messo il vestito della festa ed era andata pure dal parrucchiere. Cacciai dentro una lacrima, ma lei il pomeriggio pensò di farmi seguire dal frittellaio, e tra una delizia e l’altra il sorriso tornò, «Tua madre è cretina!» La prima sferzata che ti mette davanti una realtà che hai sempre rifiutato di accettare. Mi allontano, faccio finta di non sentire, ma dietro bruciano come frustrate gli sguardi, persino i silenzi. Piano piano non era più la mia fata, no, piano piano mi si aprivano gli occhi e la vedevo più grassa, più stupida di quanto lo era realmente, più trasandata, più incapace, più tutto e io mi chiedevo perché. Perché solo a me era toccata in sorte una madre così? «Vieni Totò» Ma le sue braccia non erano più il comodo giaciglio, ora erano solo cumuli di grasso da cui volevo scappare, non volevo più i suoi baci, sì perché la psiche non si era evoluta tanto, ma il suo cuore sapeva amare come non ho visto amare più nessuno. E poi arrivò lui: il fu Mattia Pascal Si presentò nella mia vita un pomeriggio di primavera inoltrata. Era il compleanno di Tonino, il secchione della classe, quello che le sa tutte e gli tireresti un sasso in bocca perché ogni tanto impari a tacere e a dare spazio ai comuni mortali. Dicevo, era il compleanno di Tonino e aveva invitato tutta la classe a casa sua per la merenda. lo non volevo andare, ormai la mia situazione cominciava a pesarmi e a farmi sentire un diverso, un appestato. La mamma, invece, appena saputo che ero stato invitato ad una festa, fu subito entusiasta e mi convinse ad acquistare pantaloni e felpa nuovi per l’occasione; cosi arrivò il fatidico giorno. Feci il bagno, per non fare brutta figura, ma non so spiegare cosa provai quando sulla felpa sistemata sul lettino, comodamente una gatta allattava i suoi cuccioli. Corsi via dicendole che non la volevo vedere più, lei e i suoi gatti, che volevo una madre come le altre. Ma lei non se la prendeva mai, qualunque cosa le dicessi. Poi mi vestii a modo mio, e uscii deciso 125
a odiarla, a non voler vedere più quella madre che per me ormai era solo peso. Il regalo! Già il regalo. Ritornai in casa, data la sua ingenuità non era difficile sottrarle di nascosto dei soldi, e così decisi che almeno avrei salvato le apparenze. Optai per una sciarpa della Juventus, visto che era un tifoso sfegatato di tale squadra e mi diressi verso la sua casa. Saluti, parole di benvenuto, ma poi vedo che la sciarpa giace in un angolino ignorata e Tonino parla, scherza e ride solo con il gruppetto con cui condivide tutto. Io ero solo sulla poltrona, mi annoiavo e non vedevo l’ora che tutta questa buffonata finisse. «Scusa ragazzo potresti regolarmi l’orologio? Sai il mio è di quelli antichi, ancora vanno sistemati e caricati ogni sera, ma queste mie manacce non mi aiutano più». Lo aiutai e nei momenti che seguirono trovai più interessante la conversazione con quel vecchio solo nell’aspetto, ma che aveva modi, parole, espressioni nel raccontare che via via rimanevo sempre più affascinato. «Ragazzo mio, ormai non sono tante le persone che hanno voglia di passare del tempo con me, fortuna che non mi sento mai solo perché ho loro, i libri, miei fedeli compagni che non disdegnano mai di tenermi compagnia ogni volta che ne ho voglia. Non che i frìiei poveri occhi ormai mi permettano molto di stare in compagnia di questi amici, non mi permettono più di volare alto con la fantasia, di viaggiare seduto in poltrona, ma c’è un libro più di tutti che credo di conoscere a memoria, e così la sera che cerco la sua compagnia, e anche se gli occhi non stanno dalla mia parte, la memoria ripercorre le righe scritte dal nostro caro conterraneo Luigi! Geniaccio di un Pirandello! Se non fosse stato per lui! L’unico a strapparmi un sorriso nell’inferno di Mercinelle era il suo Mattia. Sì. Era il 1946; ero giovane allora, il nostro paese a quell’epoca soffriva ancora degli strascichi della guerra. Fame, disoccupazione, miseria; centoquarantamila italiani varcarono le Alpi per andare a lavorare nelle miniere di carbone della Vallonia. Era il prezzo di un accordo tra Italia e Belgio: l’italia doveva inviare in Belgio duemila uomini a settimana e in cambio, Bruxelles, si impegnava a fornire duecento chilogrammi di carbone al giorno per ogni minatore. E dopo una giornata di duro lavoro, laggiù, nei pozzi, come credi che passassimo (e serate, le poche ore di riposo prima che croliassimo nel sonno, tanto di lì a poco sarebbe suonata la sirena per rialzarci? Gianni, tra i suoi miseri bagagli aveva portato l’unico libro che possedeva, fu lui il primo a trasmettermi l’amore per la lettura; lì, leggeva e rileggeva la duplice morte di Mattia, strappandoci così qualche sorriso, qualche battutaccia; era l’unico momento di svago, là nelle baracche. “Leggi ancora, falla sentire ai nuovi arrivati che non conoscono la storia”. Sera dopo sera ormai 126
conoscevamo bene la storia, Mattia era uno di noi. Uno sciagurato tra gli sciagurati. Arrivò quell’ otto agosto. Era contento Gianni quel giorno, mancava suoi bambini. Ma non li avrebbe mai più rivisti, lui pu vittime soffocate dai gas, mentre il fuoco ostruiva convalescenza di venti giorni. Ritornato in baracca per lì e allora decisi di portarlo con me. Anche il fu Mattia stato partorito dalla mente del caro Luigi!» poco e a ferragosto avrebbe riabbracciato i rtroppo fu una della duecentosessantadue ogni via d’uscita. lo me la cavai con una prendere le mie cose, il libro giaceva ancora rientrava in Italia, nella sua Sicilia, dove era Così io e il fu Mattia facemmo conoscenza. Non mi stancavo mai di ascoltare dalle labbra del caro zio Paolino le sue vicissitudini. «Zi Paulì e se facessi come Mattia? Se mi trasferissi in un altro posto, presentandomi con un altro nome, dove nessuno mi conosce e mi costruissi da solo un’identità?» «Zitto cretino non si può scappare per sempre, prima o poi riaffiora sempre chi sei e non chi ti credi di essere» Però confesso che più ci pensavo, più l’idea mi piaceva. Lontano da quel peso di madre che mi faceva fare sempre brutte figure, dai suoi gatti, dal suo grasso. ccQuantu si bellu Totò, vieni» Ma ormai mi ripugnava anche solo la sua persona. L’idea si concretizzò per la festa del santo patrono. Si era allestita in piazza una serata danzante per i giovani. Per i giovani, ripeto. Quale fu lo sconcerto nel vedere che mia madre ballava tra quei ragazzi sfrenati e diveniva, con i suoi movimenti goffi, lo zimbello di tutti. «Totò tua madre è davvero simpatica» «Vattene brutta stronza!» «No è davvero una forza». Ma davvero Gioia voleva prendersi gioco di me? Tanto lei, figlia dell’architetto che ne sapeva? Era bello starci cinque minuti, ma tutta la vita? Così prese piede in me il fu Mattia; vado lontano, dove nessuno mi conosce, dove soprattutto lei non c’è. Tanto potrà cavarmela da solo, sono già un ragazzo. Epilogo della storia. Sono passati un po’ di anni. Oggi vivo a Roma, non ho terminato gli studi, ma me la cavo perché ho trovato un buon lavoro. Addetto alla vigilanza di un centro commerciale. Quando mi chiedono della mia famiglia? Figlio di un’estetista, di un’insegnante, orfano; non ritorno in Sicilia perché per le feste i miei vanno tutti gli anni in vacanza. Ora non sono più Totò, ora sono Tony. Oggi però qualcosa è cambiato; l’aereo mi porta a dare l’ultimo saluto a mio padre. Un telegramma del parroco ricevuto (perché Fina non sa scrivere), mi avvisa che domani ci saranno i suoi funerali. Arrivo quando la salma si avvia verso la chiesa e la rivedo...sempre uguale, i suoi occhi non brillano più però, neanche quando mi avvicino per salutarla. «Ciao Totò», riconosco la voce, mi giro, che ci fa lei qui? E’ Gioia. E tiene a braccetto mia madre. Le stranezze della vita, come avevi ragione caro Luigi...è sempre uguale, 127
ha solo preso qualche chilo e al suo dito brilla una fede nuziale. Dopo il funerale passo da casa, e Gioia continua ad accarezzare la testa di mia madre. Si racconta che in questi anni le è sempre stata vicina. Dal suo cuore ingenuo ha imparato l’amore gratuito specialmente dopo che sua madre, tra il progetto di una casa e la ricostruzione di un’altra, ha deciso di stabilirsi nella casa di un cliente. Poi d’un tratto vedo illuminare gli occhi di mamma come una volta, ma quell’amore stavolta non era per me. «Fina, Fina, andiamo a mangiare le frittelle al furgoncino?» La vocina di un bambino che corre tra le sue braccia e viene accolto con tutto l’amore di cui è capace. Poi si alza e assieme, mano nella mano, si avviano verso l’uscita della casa. Gioia mi dice che è il suo bambino a cui Fina ha fatto da nonna per tutto questo tempo. lo saluto, tra qualche ora riparte l’aereo e devo arrivare in tempo all’aeroporto. Lentamente scivola una lacrima, stavolta non scappo; ripenso, rivivo. Ma tra le braccia di Fina, in quel tenero giaciglio, adesso riposa un altro PASCIA’.
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Secondo classificato Quello che provò l’auricolare destro quando seppe dell’esistenza dell’auricolare sinistro di Vincenzo Nugara Quello che provò l’auricolare destro quando seppe dell’esistenza dell’auricolare sinistro non fu rabbia né paura. La prima cosa che comprese, ormai a tarda età, fu di essere l’auricolare destro. Tutto iniziò quando, per caso, il ragazzo decise di ascoltare le sue canzoni insieme ad un altro ragazzo. Si sa che gli auricolari sono svegli soltanto se sono collegati a qualcosa che dia loro vita, come un cellulare o un computer; e poiché il ragazzo li collegava soltanto quando li aveva già ben posizionati nelle rispettive orecchie, se ne deduce che l’auricolare destro si svegliava quando ormai era incastonato nell’orecchio destro del ragazzo, da cui si deduce che non avrebbe mai potuto scorgere l’auricolare sinistro, poiché l’unica cosa cui si rendeva conto di essere collegato era il sottile filo che gli dava vita, e l’auricolare sinistro si trovava completamente al di là della testa del ragazzo, per cui non avrebbe potuto vederlo né immaginarsene l’esistenza. E se scorgeva altra gente, altri ragazzi, altri auricolari e altre orecchie li vedeva talmente lontani e indistinti che non si era mai fermato un attimo a pensarci. Ma un giorno il ragazzo ebbe la malaugurata idea di ascoltare la musica con un altro ragazzo condividendo il suo paio di auricolari. E, per comodità, il ragazzo decise anche di incastonare l’auricolare destro (che ancora non sapeva di esserlo) nell’orecchio sinistro (di cui non si sospettava l’esistenza) del suo compagno, e di tenere per sé l’auricolare sinistro. Al risveglio, l’auricolare destro si sentì stranamente scomodo, si interrogò sulle possibili cause di quella stramba posizione, vide che l’orecchio dove si trovava era diverso, più sporco tra l’altro, voltò lo sguardo all’indietro, seguì meravigliato il filo che quella Parca informatica usava per dargli vita, notò (e non l’aveva mai potuto notare prima) che a un certo punto si divideva in due, un filo scendeva giù per dargli nutrimento e l’altro risaliva faticosamente e terminava in un qualcosa che a un occhio esterno poteva sembrare un altro auricolare. Ma l’auricolare destro capì, acutamente, che quel coso là non poteva essere un auricolare: più scarno, deforme e con l’espressione vuota, forse addirittura invertita; era troppo diverso da lui. In realtà l’auricolare destro non sapeva bene come fosse fatto lui stesso: non aveva mai avuto il tempo di pensarsi, seppur non avesse mai avuto nemmeno 130
altro da fare. Dopo qualche secondo capì tuttavia, e a malincuore, che quel coso doveva avere la sua stessa funzione perché era pure lui incastonato in un orecchio, e anzi, pensandoci bene e aguzzando gli occhietti, notò che quell’esserino là era incastonato nel suo orecchio e che probabilmente prendeva il nutrimento dalla stessa Grande Madre che cibava lui. L’auricolare destro cominciò a piangere lentamente perché gli venivano strane idee in testa: pensava che magari quello aveva un ruolo più importante del suo, che magari lui era un semplice vassallo e che per questo forse non aveva ancora conosciuto il suo signore che già da un pezzo probabilmente sapeva della sua esistenza, che magari quello aveva un suono più pulito del suo e che i bassi da quella parte si sentissero più distintamente e che magari proprio per questo aveva usurpato il suo orecchio. La sua anima, piccola come quella di tutti gli auricolari, era contrastata: non sapeva se doveva restare orgoglioso nel suo ruolo disprezzando le doti sicuramente scarse di quell’altro o avere paura di quelle stesse doti che magari lo avevano privato del suo posto. Fu dopo molto ragionare e piagnucolare che giunse all’amara conclusione di essere soltanto un auricolare destro che doveva dividere la musica con un auricolare sinistro, che, sebbene più sgraziato e rozzo, sicuramente non faceva altro che parlare musica. Ma, ostinato come sanno essere gli auricolari, decise di sincerarsi di persona delle capacità di quello che ormai era il suo concorrente. Facendo leva sulla cartilagine maleodorante di quell’orecchio straniero, si spinse giù, sperando in un atterraggio morbido, cercò in tutti i modi di portare con sé anche l’altra parte del filo intrecciandola alla sua e ci riuscì pienamente. Sanno essere ingegnosi gli auricolari, quando vogliono. Il destino volle che quel filo di Parca (o il destino era proprio il filo di Parca?) si ingarbugliasse oltre misura, senza staccarsi dalla sua fonte di vita. Fu così che l’auricolare destro sentì la musica dell’auricolare sinistro e pensò, invidioso come solo gli auricolari sanno essere, che fosse meravigliosa. Non provò a parlare al suo contendente: con tutto quel caos non l’avrebbe sentito e poi sicuramente non parlavano la stessa lingua. Ascoltò soltanto, con attenzione, e quando, dopo qualche secondo, il ragazzo riuscì a districare i fili ingarbugliati e lo incastonò nuovamente nell’orecchio sinistro del suo amico, lui provò in ogni modo ad imitare la musica meravigliosa che aveva sentito uscire dall’auricolare sinistro. Chiunque l’avesse ascoltato sarebbe stato d’accordo nel dire che quella fu la sua peggior performance; anche lui se ne accorse. L’audio cominciò a gracchiare, i bassi non si sentivano più, la voce arrivava distorta. Portò a termine la canzone per deontologia professionale, perché avrebbe 131
dovuto interromperla molto prima se avesse voluto dar voce al suo amor proprio. Anche il ragazzo se ne accorse, ma volle far finta di niente, per rispetto nei confronti dell’amico. Infastidito dai risultati del suo esperimento, l’auricolare destro iniziò a pensare che forse era quella musica là che non andava proprio bene e che doveva aver sentito male quando aveva pensato che fosse meravigliosa. Orgogliosamente pensò allora che doveva avvisare quel coso stonato là della sua scarsezza e magari poteva anche dargli qualche lezione per migliorare la tecnica. Senza curarsi della musica che avrebbe dovuto spandere, cominciò a parlare fitto fitto all’auricolare sinistro, nella speranza che quello sentisse i suoi accorati consigli, poi i suoi insistenti inviti, infine i suoi dispotici ordini. Ma l’auricolare sinistro, o che non sentisse bene o che non parlasse o che non volesse interrompere il suo spettacolo o che non avesse niente da dire, non gli rispondeva. L’auricolare destro cominciò a urlare indispettito, finché il ragazzo, persa ogni vergogna, disse finalmente al suo amico che quell’auricolare là doveva essere difettoso perché prima la musica si sentiva malissimo e adesso arrivava solo un fastidiosissimo gracchiare. L’altro allora volle provare di persona quanto diceva l’amico: incastonò l’auricolare destro nell’orecchio sinistro, avviò la musica, ascoltò per qualche secondo. L’auricolare sinistro era l’unico che avesse capito l’intera faccenda, perché aveva sentito i discorsi strambi del suo collega ma non aveva risposto per non interrompere il brano. Si pentì e si maledisse per non avergli spiegato che anche lui aveva scoperto nello stesso momento le medesime cose e che se il filo si era ingarbugliato in quel modo era anche grazie a lui. L’unica differenza era che lui aveva orecchio e aveva capito quanto le due voci stes… Fu mentre stava pensando queste parole che il ragazzo, indispettito per le ennesime cuffie difettose che gli capitavano, strappò quel filo che la Parca tanto amorevolmente aveva trattato e interruppe quegli assennati pensieri. Buttò gli auricolari dal finestrino maledicendo i cinesi da cui li aveva comprati.
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Terzo classificato Confessioni d’un folle di Annalisa La Tona “Iniziava così, iniziava che tu uno come lui non l’avevi mai visto. Pantaloni a vita bassa neri e camicia bianca, era elegante, chissà perché. Non era da lui. Si muoveva con scioltezza e scuoteva il capo da un lato all’altro facendo volteggiare i suoi biondi ricci, aveva lo sguardo perso, stava sicuramente cercando qualcosa o qualcuno. Ma lasciava che la gente lo notasse senza preoccuparsi che potesse essere scoperto. In una mano teneva un giubbotto di pelle nero, ad un tratto abbassò il capo leggermente come a fare un cenno di consenso a se stesso e infilò il giubbotto con naturalezza. Sistemò il colletto della camicia e scosse la testa per sistemare i ricci che gli erano ricaduti sul viso. Estrasse dalla tasca posteriore dei pantaloni degli occhiali scuri e li mise, era veramente affascinante. Vidi un uomo che gli andava incontro a passo lento, si scontrarono e si diedero la mano in segno di saluto ma l’uomo gli lasciò nel palmo della mano destra qualcosa che non riuscii a vedere. Lui gli diede una pacca sulla spalla e sorrise andando via. Nessuno dei due si voltò per controllare l’altro, andarono avanti senza fermarsi con fare indifferente, come se non si fossero mai visti. Ed io ero convinta che, realmente quei due non si conoscessero neanche. Dopo qualche secondo si perse tra la folla e non riuscii più a trovarlo. Con calma mi diressi verso lo sportello e chiesi alla signorina ben curata, che si trovava dall’altra parte del vetro, un biglietto per Stratford. Scandì ogni parola come se io non parlassi la sua stessa lingua e lei volesse farsi capire. Presi in mano il biglietto, le lasciai i soldi e, con il sorriso più smagliante del suo repertorio, mi congedò. A dire la verità io adoro i treni, adoro viaggiare in freno. Sarà perché mi piace fissare la gente attorno a me e in treno ho tutto il tempo per farlo, senza che nessuno mi possa disturbare esageratamente. Quella mattina mi cercai un posto vicino il finestrino, avevo intenzione di osservare il panorama durante il viaggio. Appoggiai la mia borsa per terra e la tenni fra le gambe senza preoccuparmi che qualcosa potesse rovesciarsi per terra, mi sedetti e chiusi un attimo gli occhi appoggiando il capo al seggiolino. Chissà quante persone si erano sedute lì prima, chissà quanti ragazzi erano saliti su quel treno con le valigie piene di nulla e il cuore pieno di speranze, magari alla ricerca di un posto migliore. Chissà quanti uomini erano saliti su quel freno per un viaggio di lavoro. Chissà quanti. Era mio solito cercare qualsiasi cosa 134
che potesse testimoniare la precedente permanenza di qualcun altro in quello stesso posto. Incisioni, scritte, adesivi, anche gomme da masticare. Ma quel posto era immacolato. Come se nessuno mai, oltre me, lo avesse occupato. Ti mio vagone era quasi vuoto quella mattina, stranamente. Ma qualche secondo dopo salì lui, si sedette nella fila accanto la mia, lo potevo vedere bene. Era un tipo particolare, lui; uno di quelli che la vita la vive a modo suo. Ha le proprie convinzioni e i propri sogni, ma non li divide con nessuno. Tipo che se vuole scappare, scappa. Cominciai ad osservarlo, mi parse un’opportunità che non potevo lasciarmi sfuggire. Notai le sue mani. Erano grandi, non erano curate, si mangiava le unghie. Sarà stato nervoso, o semplicemente avevano un buon gusto. Le sue scarpe erano slacciate ed anche strappate. La sua bocca era secca, aveva le labbra screpolate, ma non per il freddo. E i suoi occhi, quelli mi facevano paura, perché erano crudi, non nascondevano gli inferni della vita. Le occhiaie, paradossalmente, lo rendevano più interessante. Ad un certo punto lo vidi alzarsi, era magro... magrissimo, non sapevo dove stesse andando, non me lo aspettavo. Sembrava quasi finto, non si era smosso per tutto il tempo. Fissava fuori dal finestrino, i suoi occhi erano rossi... o forse era solo la luce. Fatto sta che si venne a sedere accanto a me, ma non disse nulla, tutto il tempo. Neanche io dissi una parola, passammo tutto il viaggio in silenzio. Fino a quando il freno si fermò, si alzò è mi fece passare avanti per prima. Raccolsi la mia borsa e cercai di uscire dal mio posto senza fargli del male, lo spazio era poco. Mi sfiorò leggermente la mano mentre passavo, diventai di colpo rossa in viso e, per non farglielo notare, non mi girai neanche. Appena il rossore fu scomparso mi voltai, lo vidi dirigersi verso l’uscita posteriore e ci rimasi un po’ male, andai via e non lo vidi più.” Così una sconosciuta parlò di me. Mi tormentai esageratamente i primi periodi, quando per caso lo venni a sapere. Mi piace questo posto di privilegio che, nonostante tutto, sembro essermi guadagnato. Dall’alto puoi spiare chiunque, a quanto pare. Ma presto, quell’apparente discorso futile fatto sul mio conto, mi portò ad una complessa riflessione: È sempre stato estremamente difficile mostrarmi per quel che sono. Diverso. Al giorno d’oggi sembra sia diventato un insulto, il peggiore degli insulti. Ed effettivamente io, proprio io, sono il primo ad averlo considerato tale. Quanto meno tino a qualche tempo fa. Avevo così tanti pensieri dentro la testa, e li ho tutt’ora, che riuscire ad afferrarne qualcuno è complicato, spesso impossibile per me. Ci lii un periodo in cui si fecero ingannare dalle mie profonde occhiaie, dai miei capelli sempre in disordine, dal mio fisico troppo asciutto. Dai miei tic. Perché ne avevo. 135
Ed erano incontrollabili. Ma lo so, lo so, è colpa mia. Eppure non avrei voluto procurarmeli, avrei dovuto trovare qualche altra via d’uscita. Ma lì per lì ho pensato che non ne esistessero di più legali. Avevo letteralmente un mondo dentro la testa, ma sì dai, quello non è scomparso. Forse semplicemente sono volate via un po’ di paranoie. Nel modo sbagliato, è vero, ma erano troppo oppressive per la mia mente indifesa. Perciò, tre anni fa, ho cominciato a drogarmi. Niente di troppo pesante, intendiamoci. Forse solo qualche striscia di troppo, ma col senno di poi avrei evitato tutto quello schifo. Eppure in quel momento mi sentivo forte, inattaccabile. E non più, diverso. Il maledetto tranello è stata però la dipendenza. Io, dal canto mio, avrei dovuto aspettarmelo. Cado facilmente nelle dipendenze di ogni tipo, persino in quelle legali. Ero dipendente dai libri, dalla musica, dall’arte, dalle persone addirittura. Ma, diamine, quella della droga era sicuramente la peggiore. Vi starete chiedendo a questo punto, ne sono certo, cosa mai mi abbia potuto spingere così oltre. Ed io, sincero come mi sono promesso di essere, vi dico: la diversità. Che poi, la domanda che più mi tormentava ai tempi in cui mi guardavano storto o mi chiamavano diverso, era: Chi la stabilisce in questo mondo la normalità? Chi? Giuro che se lo trovo, a costo di arrivare sino alla cima di un monte disperso nell’Alaska, giuro che lo prendo per il colletto della sua schifosissima camicia firmata e lo uccido. Perché io la mia vita la vivevo normalmente a mio parere, forse un po’ troppi pensieri inconcreti per la gente comune. Ma non ho mai fatto del male a nessuno eh, lo giuro. Forse solo a me stesso. Pensavo troppo e parlavo poco ma, ahimè, quando parlavo trattavo di argomenti troppo strani, troppo diversi. E li scrivevo, soprattutto. Quindi mi son beccato quella tremenda nomina. Me lo ripetevano in continuazione, tutti. Ma chissà perché, forse solò perché avevo altri interessi, altre abitudini, altre priorità. Ma ripensandoci, lo sbaglio più grosso l’ho fatto quando ho scelto di mostrarmi, almeno fuori, più simile a loro. Facendo mio un vizio che mi ha divorato il corpo e l’anima. Da cima a fondo. E, non ci crederete mai, ma a quel punto sono diventato più “diverso” di prima. Sarà che ho esagerato con la loro maledetta normalità e ne è uscita fuori una diversità fin troppo diversa da sopportare, pure per me. E quanto mi sarebbe piaciuto a quel punto poter ritornare ad essere come prima, per quanto mi fosse possibile certo, perché l’anima più del corpo sarebbe rimasta logorata per sempre da quelle due tremende parole che ho pronunciato troppo spesso: “Che botta.” Mi saliva un’adrenalina così forte che della normalità e della diversità non me ne importava più nulla. Avevo persino trovato una sorta di compagnia, se così la vogliamo chiamare. Mi hanno 136
portato così a fondo da farmi desiderare la morte. Ma poi ho voluto aprire gli occhi. Nei miei pochi momenti di lucidità mi sono reso conto che non ne valeva la pena. Assolutamente. Ora però è tutto più difficile, c’è un estremo silenzio intorno a me. Il rumore del silenzio. Com’è pesante adesso, in questo periodo... mi pare quasi opprimente. Risulta strano per me che adoro il silenzio, sarà che forse sta diventando eccessivo nella mia testa. Prima ero solo io quello che praticava il silenzio esageratamente, tanto che chi mi circondava era portato a pensare che io stessi veramente male... ma in fondo non era così, almeno a me non sembrava. Stavo in silenzio e basta. Per me il silenzio significava silenzio e nient’altro. Non rabbia, non tristezza, non solitudine. Ma semplicemente silenzio. Anche se presto cominciai a dubitarne, forse perché ad un tratto il silenzio cominciò ad opprimermi in modo tale da costringermi a cercare in esso un significato. Come se questo potesse servire a mandarlo via. Mi ci concentrai così tanto da arrivare a credere che seriamente io stessi male per qualche motivo che mi portasse a tenere sempre la bocca chiusa... in ogni occasione, in ogni momento. Con chiunque. E la cosa tremenda era che quando qualcuno lo notava, me lo attribuiva come una colpa. Chissà che strana concezione avevano gli altri del mio silenzio. Coloro che Io notavano, ovviamente. Per gli altri ero semplicemente assente. Ma non mi pare se ne facessero un grosso problema. Fatto sta che io non ho ancora trovato niente dentro il mio silenzio. Forse perché era fatto proprio di questo, di nulla. E non mi risulta neanche troppo difficile crederci, perché il silenzio arriva in mancanza di qualcosa. E se io non trovo nulla dentro il mio, sarà dovuto alla mancanza di tutto. Che poi cosa sia questo tutto non lo so... non credo sia proprio tutto... non esiste tutto. Esiste qualcosa, esistono molte cose... ma tutto, tutto non esiste. Non è neanche qualcosa di pensabile. E allora come potrebbe mancarmi? Non può. Quindi? Quindi mi tengo il mio silenzio, senza chiedermi a cosa sia dovuto. Rimane a galla solo la mia prima ipotesi. Il silenzio è silenzio e basta. E fin quando nasceva solo da me, non ci trovavo nulla di troppo terribile. Peccato che ora io lo senta anche intorno a me. Il silenzio degli altri, quello sì che mi fa paura. Comincio a pormi così tante domande che dentro la mia mente non c’è quasi più spazio per il mio silenzio. Mi ritrovo ad avere la testa piena del silenzio altrui. E allora sì che comincio a sentirlo, il rumore del silenzio. Ripensandoci, preferivo gli insulti. Preferivo essere diverso in quel modo innocente. Prima di diventarlo in una maniera terrificante. Prima di cominciare a drogarmi. E, mannaggia a me, quando l’ho fatto sono diventato così diverso che non mi riconoscevo neanche io. Colpa di chi mi insultava 137
anni fa credendo fossi diverso? No. Colpa mia che ho dato peso a quelle parole. Mi sarebbe bastato alzare il volto e sorridere, magari anche dirgliele quattro parole a tutti quelli che si consideravano normali. Solo per assicurargli che il silenzio sceglievo io quando praticano. Perché avrebbero dovuto sapere che, io, alla mia diversità, ci tenevo più che a qualsiasi altra cosa. Mi rendeva me. La mia situazione di per sé non era così terribile inizialmente, devo ammetterlo. All’apparenza sembravo come tutti gli altri, ma troppo tardi ho capito che, nonostante io mi impegnassi, il mio essere diverso trapelava. Sono sempre stato molto geloso di me stesso, e ripensandoci, ho fatto bene finché ho resistito. Tenevo tutti i miei pensieri racchiusi, imprigionati dentro quel piccolo spazietto inesplorato dentro di me. Tendevo ad aprire la porticina in legno che vi ci portava, solo quando sentivo quell’estremo bisogno di ritrovare me stesso. Solo per me. Alla mattina aprivo gli occhi, beandomi della luce che filtrava timida dalla finestra. Ma ancor prima di mettere piede per terra, tendevo il braccio verso il comodino. Prendevo la mia maschera e la sistemavo per bene sul viso. Era questo che immaginavo di fare ogni santo giorno. Mi muovevo e mi atteggiavo come gli altri, parlavo come gli altri, o quantomeno ci provavo. In alcuni casi preferivo però star zitto, non avevo ancora imparato bene ad imitarli ed apprendere le loro solite espressioni durante le conversazioni. Avevo paura di sbagliarmi ed essere scoperto. Nessuno doveva sapere. Poi la sera, ritornato a casa, riponevo con cautela la mia maschera sul lucido comodino di mogano. La maneggiavo sempre con delicatezza, eppure avrei voluto scaraventarla contro il muro. Ma, a quel punto, mi sarei sentito perso, in balia del giudizio altrui. Essere me stesso non andava bene per quella società, avrei dovuto capirlo in tempo. Oramai ero così diverso che sarebbe stato difficile riuscire a guarire, l’unica soluzione sembrava fosse fingere. Un giorno d’agosto però tutto cambiò, dimenticai il mio diario su una panchina, la mia panchina. Perché un modo per sfogarmi mi necessitava, quindi avevo cominciato a scrivere. Senza freni, quella fu la mia condanna. Le mie frasi, i miei pensieri, tuffi spiattellati su internet, con tanto di insulti ovviamente. La mia prima reazione fu la negazione, non potevo veramente aver rovinato anni e anni di fatica e finzione per una banale dimenticanza. Eppure successe. Durante i mesi successivi, rimasi chiuso in casa. Non mi andava di sentirmi urlare alle spalle “strano”. Ma ne ero consapevole, intendiamoci. Lo psicologo me lo ripeteva in continuazione che la consapevolezza di essere diverso dagli altri, era il primo passo. Il primo passo di una lunga strada. Peccato non avessi ancora capito dove portava quella strada. 138
Quell’uomo mi inquietava e rassicurava al contempo. Aveva un quadernino così piccolo che penso non ci entrasse nulla di tutto quello che fingeva di appuntare mentre io parlavo. Col senno di poi penso si limitasse a mostrarsi interessato ai fiumi di parole che uscivano dalle mie labbra. Ero stato così tanto zitto fino a quel momento, che ritrovarmi di fronte qualcuno che, per fortuna o no, sapeva già di avere a che fare con uno psicopatico, mi permise di concedere ai miei pensieri il via libera. La porticina in legno, ammesso la ricordiate, smise di scricchiolare e cigolare e così pensai che mia madre avesse ragione, se continuano a tenere la porta dello scantinato sempre chiusa, continuerà a fare quel fastidioso rumore quando vanno di sotto per vedere se ci stanno i topi. Ricominciata la scuola, però, fu costretto ad uscire. E non solo per vedere Ben, aveva un nome troppo comune quell’uomo, ma effettivamente solo il nome. Per il resto penso mi somigliasse, anche lui da giovane veniva psicanalizzato. È un po’ lo svantaggio di essere strano, in un modo o nell’altro finisci per farti scombinare il cervello da uno sconosciuto qualsiasi. Ma lui mi piaceva, Ben. Ma non voglio divagare. Dicevo, il rientro a scuola fu peggiore di quanto potessi immaginare. Diverso, ecco come mi fecero sentire. Sapevo di esserlo, certo, ma sentirlo pronunciare dagli altri mi sembrò proprio un insulto pesante. E lo era, fidatemi di me. Queste cose le capisco. Quindi l’ho già detto, la droga e tutto il resto vennero di seguito. Mi ripetevo costantemente le solite cose mentre sistemavo la coca sul solito biglietto da visita, quello di Ben. Mi faceva quasi ridere usare quello, esilarante il collegamento. ‘E ti droghi con regolarità, come per viverti veramente. Per spogliarti di emozioni e vestirti di illusioni. Era come un mantra. Un po’ senza senso effettivamente, ma in quei momenti ero così scombussolato ed in astinenza che dell’evidente antitesi di quella frase, giuro, me ne importava ben poco. Vi ho già spiegato come andò avanti la situazione, non fatemelo ripetere su, ma ora vorrete sapere come sono arrivato fin qui. State attenti, è la mia parte preferita. Beh, un giorno qualsiasi, esagerai con quella roba bianca. E, colmiamo questo grande dubbio che si pongono tutti, sì. La sentii. Sentii perfettamente quella sensazione, quella che arriva quando sai che qualcosa sta per finire definitivamente. Non la fine di un semplice capitolo, la fine del libro. La fine dell’ultimo libro della saga. Quell’ultima frase strascicata, quell’ultima parola sofferta. E quell’ultima pagina chiusa. Persa. E a quel punto mi ci sentii veramente perso. Volete saperlo veramente? L’unica cosa che pensai fu: ditemi di no, scuotetemi, sconvolgetemi e ditemi che non è realmente finita. Ditemi che c’è ancora tempo, che c’è ancora speranza. Ma io, son sempre io, e per questo fino 139
allâ&#x20AC;&#x2122;ultimo attimo ci credetti. Credetti in quelle parole perdute e quella frase strascicata, credetti di poterle rileggere anche altre cento volte se per caso ne avessi avuto bisogno. Oh, scusatemi. Forse non vi aspettavate nulla del genere. La mia storia non era proprio a lieto fine. Ma, andiamo, non ditemi che qui in cielo ci si scandalizza per cose del genere.
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Menzione speciale LILIAN E ARIA di Gabriella Indelicato L’acqua sommergeva il suo corpo, che quasi galleggiava. La vasca piena di bolle, come quando era bambina; amava i bagni caldi, necessari per combattere il freddo degli inverni rigidi di quel paese, ma anche per pensare, per cercare di mettere ordine nella sua mente e per ricostruire il suo sorriso. Si vedeva magra, adesso, anche lei. Si era sentita ripetere infinite volte quanto fosse pericoloso, quanto fosse sbagliato, quanto avesse bisogno di cibo, in realtà non pensava di aver bisogno principalmente di ciò. Salì sulla bilancia e ancora una volta si accorse di aver perso dei grammi, non poteva andare avanti così, ne era cosciente. Si sentiva piccola, fragile, senza i suoi enormi vestiti a coprirla, sentiva di trovarsi davanti ad un corpo che non era il suo o che forse aveva cercato di non guardare fino a quell’istante. Si vestì il più velocemente possibile, aveva poco tempo, avrebbe perso l’autobus se avesse esitato ancora un po’. Scese le scale di fretta, correndo come ogni mattina. Fece il solito tratto di strada a piedi, sotto un cielo grigio pesante, il tipo di cielo che lei amava. Le nuvole erano alte, dense. Stretta nel suo giubbotto, arrivò a scuola. La sua era la vita normale di una ragazza di 16 anni, divisa fra scuola, famiglia, amici. Odiava ricordare a se stessa che nessuno si addormentava con gli occhi pieni della sua immagine, che nessuno ricordava il profumo che ogni mattina si ostinava a spruzzare sul proprio collo. Tornava a casa per la solita strada, aveva piovuto così poco che l’asfalto era a malapena bagnato. Sua madre le aveva ricordato di fare attenzione, qualcuno avrebbe occupato le case popolari dal prospetto di un arancio acceso di fianco alla loro abitazione. Credeva di avere tanti di quei problemi che l’idea di nuovi vicini, che fossero rumeni, marocchini, indiani, cinesi non la sfiorava neppure. Avrebbe continuato la sua vita. La monotonia ormai da qualche anno aveva cominciato a popolare le sue giornate, forse avrebbe solamente dovuto apprezzare ciò che invece riteneva troppo banale. Aprii gli occhi, su di lei un soffitto basso, opprimente; era distesa, una coperta la copriva fin sotto il mento. 142
“Ehi” sentii una voce squillante. Contrasse gli occhi, una donna dinnanzi a lei sorrideva, tenendo fra le mani una tazza con decorazioni floreali. Era confusa. Dove si trovava? Chi era quella donna? In ritardo si accorse del suo colore della pelle, nero. Aveva ricci capelli tenuti indietro da due mollette rosse. Non poteva avere più di 40 anni. Un misterioso sorriso le illuminava il volto. “Dove sono?” chiese spontaneamente, sentendosi spaurita, pensando che ogni suo timore da bambina si era avverato. “Sono Venia, sei a casa mia, beh, in realtà è casa mia solo da oggi.” Continuava a sorridere. Perché mai? “Ti ho trovata per strada, svenuta; ho pensato di portarti qui finché non saresti stata meglio.” Adesso ricordava, non tutto in realtà. Stava tronando a casa e poi il buio. Doveva essere lei, la nuova vicina. “Grazie, dovrei andare” rispose quasi imbarazzata. “Oh nono” cominciò a muoverle l’indice davanti al viso, velocemente. “Prima mangerai qualcosa” non l’avrebbe fatto, non poteva farlo … “Non ho fame, ma la ringrazio.” Declinò l’offerta il più cortesemente possibile. Quando si parlava di cibo diventava sempre nervosa, non voleva che una sconosciuta lo notasse. “Solo un boccone, su” mise le mani giunte, pregandola. Annuii, nonostante non volesse. Si tolse la coperta dal corpo, alzandosi e notando un vuoto generale, solo poche scatole erano sparse sul pavimento. “Ha solo queste cose?” chiese curiosa. “Io e mio figlio non abbiamo bisogno di molto, ci bastiamo l’un l’altro.” Un altro sorriso si dipinse sul suo volto, un sorriso diverso dagli altri, sembrava celare un velo di tristezza. Quella donna aveva un che di interessante, anche se la sua allegria sembrava estremamente ostentata. Raggiunsero la cucina, anche qui un ambiente estremamente spoglio, un tavolo al centro, circondato da quattro sedie, un divano giallo con qualche cuscino rappezzato sopra. Seduto al tavolo, un ragazzo. Gli occhi bassi, sul proprio piatto. Immobile. “Eze” la donna entrò nella stanza, quasi richiamando l’attenzione. Lo vide puntare lo sguardo su di lei. Non disse una parola. Venia la fece sedere, di fronte a lui. Lei, dopo aver servito del riso, prese posto a capo tavola. “Sono Aria, comunque” il suo nome era l’unica cosa di veramente particolare che pensava di possedere, era grata ai suoi genitori. 143
“E’ un nome bellissimo. E quanti anni hai, Aria?” Continuava a sorridere. “16” “Eze ne ha 18, potreste diventare amici” affermò, ammiccando verso di lui. Anche adesso nessuna risposta. Il ragazzo continuava a fissare le mani pallide e tremolanti di Aria, che esitavano con le posate in mano, era riuscita a buttar giù a mala pena un cucchiaio. “Forse non ti piace?” chiese lui di scatto. “No, affatto. E’ ottimo.” Rispose secca. “Perché non lo mangi?” “Semplicemente non ho fame.” Modellò le labbra in un sorriso forzato. “Chi pensa di essere?” si chiedeva Aria. Non finii il piatto, dicendo di aver già fatto tardi, si alzò e andò via. “Grazie infinite, Venia” l’aveva pregata di chiamarla così. “Ciao” disse rivolta al ragazzo che ricambiò con un cenno del capo. Tornò a casa. “Ho fatto tardi a causa dell’autobus” disse a sua madre. Era esperta nel mentire, non voleva sentir nulla, non voleva commenti riguardo il pericolo che aveva corso, riguardo la causa di questo supposto svenimento, voleva solo silenzio. Si chiuse in camera, le cuffie nelle orecchie, isolata da tutto. La sua vita si era ridotta ad uno stato di “piacevole insensibilità”. Uscii di casa prima del solito, amava farlo quando l’aria era più fresca, quando sentiva il cinguettio degli uccelli, quando aveva quella strana ansia di vedere qualcuno di cui in realtà non credeva le importasse, Venia ed Eze forse. Ma anche quel giorno non vide nessuno. Forse le sole persone che il destino aveva posto sulla sua strada, erano già andate via. Chi avrebbe desiderato, potendo scegliere, condividere qualcosa con lei dopo averla conosciuta? Ecco, loro non l’avevano nemmeno fatto, non l’avevano neppure conosciuta. Sentiva uno strano caldo, la temperatura doveva esserci decisamente alzata, pensava. “Hey” urlò una voce dall’alto, alzò la testa. Era Venia. “Salii su, non accetto un no come risposta.” Entrò, lasciando la logora tenda bianca sventolare dietro di sé. Vide la porta aprirsi, non aveva notato che ci fossero così tante scale l’unica volta in cui era stata lì. “Come stai?” Venia la strinse in un abbraccio che Aria giudicò fuori luogo, era una nera in fondo. “Bene” sorrise falsamente. Venia la pregò di accomodarsi sul vecchio divano. 144
Parlarono ancora per un po’, finché Eza non entrò nella stanza. Sembrò infastidito dalla sua presenza, scocciato. Ma Aria non voleva essere un peso per nessuno. Si alzò, avendo preso l’orgoglio il sopravvento. “Dove vai?” chiese Venia con uno sguardo perplesso. Non rispose, avviandosi verso la porta. “Non abbiamo bisogno che lei ci ricordi Lilian” Eza pensava che solo Vivia lo avrebbe sentito. “Chi è Lilian?” lo sguardo curioso di Aria si spostava dal viso di Venia a quello di Essen, in cerca di una risposta. “Nessuno” Essen aveva un tono più duro del solito adesso. “Era mia figlia” Venia, abbassando lo sguardo, andò verso un piccolo mobile di legno all’angolo della stanza. Prese fra le mani una foto: una ragazza, portava una lunga treccia sulla spalla sinistra, negli occhi un luccichio assonante con i denti bianchi e il sorriso sincero che sembrava donare un che di angelico al viso. “Aveva 17 anni” pronunciava quelle brevi frasi a fior di labbra. “Basta” Eza prese la foto dalle mani della madre, ricollocandola al suo posto, con meticolosa attenzione. “Non puoi fuggire in eterno” Venia adesso aveva alzato lo sguardo, fissandolo in quello del figlio, che sembrò essere spogliato della sua armatura. Spalancò gli occhi e senza dir altro andò in camera sua. “Vado io” disse Aria. Era stata lei a scatenare quella tempesta o meglio a disarmare in parte quel soldato. Era seduto sul letto, la testa fra le mani, immobile. Avrebbe voluto chiedere, avrebbe voluto sapere di più su Lilian, avrebbe voluto non aver mai pronunciato quelle parole. “Mi dispiace” furono le uniche due parole che riuscii a buttar fuori. “Non deve, non è colpa tua” vide un lacrima lasciare il suo viso. Piangeva e sì, sapeva che era soprattutto colpa sua. “Raccontami” non poteva dargli aiuto, senza sapere ciò che in realtà era accaduto. Cosa avevano in comune lei e Lilian? Cosa poteva mai una ragazza nera con quel sorriso condividere con lei? “E’ morta, cos’altro vuoi sapere? Anoressia, Aria!” Un brivido le percorse il corpo, adesso era chiaro. Tacque, incapace di andare oltre quella parola, incapace di pensare. Rimasero in silenzio, immersi nel freddo, nel freddo di quell’inverno e di quelle parole. Era entrata nelle loro vite. Vi era stata catapultata da un progetto superiore? O era tutto frutto di un caso? Non poteva lasciare che loro si distruggessero, Lilian non lo avrebbe 145
permesso e forse loro due non erano poi così diverse: due ragazze con lo stesso corpo, con la stessa ossessione, con lo stesso incubo, con gli stessi sogni da costruire; due anime costrette, seppur in modo diverso, ogni giorno in un modo troppo più grande. Lo prese per mano, senza esitazioni, senza chiedere alcun permesso. Non ebbe neppure il tempo di leggere lo stupore nei suoi occhi che erano fuori per strada. Poco distante c’era il suo posto. Lo avrebbe portato lì, anche se forse, facendo questo, non sarebbe stato più solo suo. Era il giardino di una vecchia biblioteca, qualche albero continuava a crescere, incurante dell’abbandono di cui era vittima. Sedeva sempre su una panca in pietra, che aveva visto le sue lacrime e i suoi sorrisi più veri, che l’aveva vista cambiare, crescere, l’aveva vista, unica, debole. Aveva visto la vera lei. Sedettero accanto. “Non so che significhi, ma lei non vorrebbe vederti così” la sua voce suonava, per la prima volta da quando si erano conosciuti, veramente dolce. “Non vorrebbe che tu morissi dentro, che tu dimenticassi di vivere” era strano che lei che aveva chiuso la scatola delle possibilità dicesse quelle parole, che lei che si era rifiutata di credere che oltre il cielo vi fosse qualcosa, che un sorriso potesse ancora nascere dal nulla si trovasse lì a cercare di convincere più sé che lui. “Lei lo ha fatto, ha dimenticato di vivere” “Non l’ha fatto, solo non sapeva come fare” lo pensava davvero. “Anche tu non sai farlo?” “E’ diverso” pensava di essersi ingannata, non sapeva nulla di lei in fondo. Forse avrebbe dovuto mollare adesso, continuare per la sua vita, non cercare di capire cosa la unisse a lei, quale fosse e quanto fosse grande il frammento di Lilian che per qualche istante aveva individuato in sé. “Sembrate così simili” la guardava negli occhi, come se stesse aspettando da lei una risposta. “Mi prometti che andrai avanti?” era questa adesso la cosa importante, che ricominciasse a remare, portandosi in salvo pensava Aria. “Se tu mi prometti di non lasciarci, come Lilian” la sua voce si strozzò su quel nome che pronunciava quasi in tono sacrale. “Prometto” non poteva infrangere una promessa fatta nel suo luogo segreto, giusto? Aveva solo bisogno di qualcuno che glielo chiedesse con quello sguardo, di qualcuno che credesse in lei. Aveva trovato quel qualcuno in un silenzioso sconosciuto. 146
Vide un braccio avvolgerle le spalle, era fragile in quella stretta, ma non aveva paura, era semplicemente al sicuro. Era come in un sogno, quando non hai voglia di svegliarti perché sai che una volta aperti gli occhi le piume, le farfalle, i fiocchi di neve svaniranno. Era come in una di quelle fiabe in cui non aveva mai creduto. Fu un abbraccio lungo, le sembrò di essere uscita da quella vasca che la teneva prigioniera, di aver raggiunto quel mare di cui aveva sempre avuto paura, di essere cullata dalle sue onde, di non annegare. Restarono lì un’ora, cercando di indovinare le ombre a cui il sole dava vita trafiggendo con i suoi raggi i rami degli alberi. Come due bambini, di nazionalità diversa, che giocano insieme. Lui vedeva un dinosauro, lei un ragno, lui un delfino, lei una luna. Aria sorrideva, come credeva non avrebbe mai potuto fare. Com’era bello che vedessero sempre qualcosa di diverso, che cercassero di trovare il giusto compromesso. Gli zigomi le facevano male, aveva veramente riso troppo. Tornarono verso quella strada, principio di tutto. L’uno accanto all’altro, sembrava andassero incontro al sole, loro che ormai pensavano di essere destinati a vivere nel buio. Venia alla finestra, gli occhi lucidi. Sorrise vedendoli, portandosi una mano alle labbra: Lilian sarebbe stata felice, a Lilian Aria sarebbe piaciuta. Trovare quella ragazzina era stato un dono di qualcuno, come quando smetti di credere ai desideri ed una stella cadente sporca il cielo della sua scia. Avrebbe voluto questo per Lilian…che qualcuno la salvasse, non essendo stata lei in grado di farlo. Lilian aveva salvato Aria e Aria aveva salvato ciò che di Lilian era rimasto su quella terra che ormai tutti avevano finito per odiare. La differenza fra Lilian e Aria si fermava al colore della loro pelle, entrambe erano due inconsapevoli eroine, due soldati dalle lacrime d’argento. Il sole tramontava e ogni giorno avrebbe continuato a farlo su quella strada, che da allora avrebbe visto nascere ad ogni alba e spegnersi ad ogni tramonto quei tre sorrisi in più, sotto lo sguardo dolce del più abile dei pittori.
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Con passione e professionalitĂ , hanno collaborato in qualitĂ di giurati Rita La Monica Mariella Letizia Navarra Mariangela Gentile Silvana Giardina Carmelo Vitellaro Giuseppe Palermo Emanuele Alongi Roberto Mistretta
Impaginazione e pubblicazione a cura di Agenzia Sprescia www.agenziasprescia.it
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