Master di II livello in “ANALISI PREVISIONALE DELLE REALTÀ SOCIALI E SCIENZE STRATEGICHE DEL MUTAMENTO GLOBALE E DELLA MEDIAZIONE”
L'EVOLUZIONE STORICA D ELLE MIGRA ZIONI INTERNAZIONALI E LA CONSEGUENTE SOCIETA' MULTICULTURALE
Candidato
Docente Relatore
Dott.ssa Alba Mª Pérez Barrera
Dott.ssa Elena Petrucci
ANNO ACCADEMICO 2012 – 2013
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INDICE 1. INTRODUZIONE
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2. ANTECEDENTI ALLE MIGRAZIONI INTERNAZIONALI MODERNE
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3. PROCESSI MIGRATORI NELL’OTTOCENTO E NOVECENTO
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a. Processi migratori dal 1850 al 1930: le migrazioni in massa
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b. L'epoca dopo il 1945: la migrazione intraeuropea
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4. I PRINCIPALI CAMBIAMENTI CAUSATI DALLA GLOBALIZZAZIONE
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a. Gli effetti della globalizzazione nell’economia
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b. I cambi nella concezione Nord-Sud
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c. Gli effetti della globalizzazione nelle migrazioni Sud-Nord e Sud-Sud
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i. Ragioni per emigrare (Sud-Nord e Sud-Sud)
5. UN NUOVO MODELLO DI MIGRAZIONE: le migrazioni
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Nord-Nord e Nord-Sud e la fuga dei cervelli a. Contesto socioeconomico
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b. La fuga dei cervelli
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6. L’INTEGRAZIONE NEL XXI SECOLO
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a. Il fenomeno della ‘transculturazione’ e la crisi identitaria
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b. Gli ostacoli culturali e religiosi
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c. Gli ostacoli linguistici
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d. Conflitti di convivenza e conseguenze di una cattiva integrazione
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e. Fattori e attori che intervengono nel processo di integrazione
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f. I fondamenti di una buona integrazione
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7. CONCLUSIONI
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8. BIBLIOGRAFIA
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INTRODUZIONE L'obiettivo di questa tesina è presentare una cronologia sulle migrazioni di carattere transnazionale degli individui e popoli attraverso la storia per capire come siamo arrivati a creare delle società così multiculturali come quelle in cui, inevitabilmente, viviamo oggigiorno. A tale scopo, cominceremo analizzando brevemente i movimenti migratori dall'esistenza dei primi ominidi sulla Terra ai fini di dimostrare che i trasferimenti da un posto all'altro rappresentano una caratteristica quasi innata ed intrinseca della natura umana, stimolata solitamente per l'interesse o la necessità di trovare posti dove ci fosse una migliore qualità di vita in base alle loro attività di sopravvivenza. Se avanziamo nella storia, nell'epoca delle conquiste ed il periodo coloniale, vedremo un'altra motivazione fondamentale che ha caratterizzato le migrazioni internazionali: la curiosità per esplorare nuovi territori, sebbene sotto gli stimoli dell'interesse economico, politico o commerciale. A seguito di tutto questo sorgono trasferimenti transnazionali di mano d'opera: in primis in condizione di schiavitù, specialmente dall'Africa verso l'America; successivamente, da un punto di vista a cavallo tra la volontà e la necessità. In prima battuta verso gli Stati Uniti, dovuto all'esaurimento del mercato del lavoro in Europa provocato dall'industrializzazione del XIX secolo; in seconda battuta, all'interno del continente europeo a causa della forte domanda di lavoratori nei paesi che dovevano venire ricostruiti in conseguenza delle guerre mondiale. Quindi analizzeremo i principali cambiamenti nelle tendenze delle migrazioni internazionali dopo la comparsa del fenomeno della globalizzazione e, in particolare, faremo attenzione alla dimensione socioculturale e la maniera in cui la proiezione mediatica degli stili di vita occidentali, tradizionalmente concepiti come culmine del benessere, è stata una spinta perché le popolazioni del Sud si trasferissero al Nord, verso "eldorado" di cui tutti quanti parlano. Prenderemo, inoltre, in considerazione l'importanza della globalizzazione dell'economia, che ha fatto sì che la crisi del XXI secolo, iniziata soltanto negli Stati Uniti dopo la concessione senza controllo dei crediti ipotecari, si estendesse velocemente in quasi tutti i paesi occidentali. Principalmente nei paesi della periferia, la crisi si è manifestata con la drastica diminuzione dei posti di lavoro, e per questo tante persone -anche se molto qualificate ed istruite nel panorama internazionale- furono costrette ad emigrare in cerca di un posto di lavoro adeguato. Ciò ha portato alla comparsa di un nuovo modello di migrazione conosciuto come la "fuga dei cervelli". Se teniamo in conto delle circostanze accennate che hanno motivato le persone a migrare in ogni momento della storia, siamo consapevoli che nel
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presente ci sono milioni di persone che, in maniera transitoria o definitiva, abitano in un posto diverso dal loro luogo di nascita. Ciò avrà come conseguenza che nella stessa società convivano oggigiorno milioni di persone con origini, passati e atteggiamenti culturali svariati. Questo fatto può in certi casi dare luogo a crisi di identità e conflitti di convivenza, specialmente quando le tradizione sono notevolmente diverse e la realtà con cui gli immigrati devono confrontarsi è molto distinta dal tipo di vita che avevano previsto. Nell'ultima parte, pertanto, analizzeremo i processi di integrazione degli immigrati nelle società di arrivo quando devono far fronte ad una cultura dominante diversa dalla loro, dal punto di vista degli ostacoli culturali, religiosi e linguistici. Per finire, cercheremo di capire quale sia la chiave per garantire un grado soddisfacente di integrazione dei nuovi arrivati –nonché delle seconde e terze generazioni– ed una buona convivenza all'interno delle società multiculturali tipiche di quasi tutte le comunità nel XXI secolo.
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2. ANTECEDENTI STORICI ALLE MIGRAZIONI INTERNAZIONALI MODERNE La storia dell’uomo è stata caratterizzata da una costante migrazione di singoli, di gruppi e a volte di popoli interi, in diversi territori più o meno vicini o lontani, generalmente alla ricerca di una migliore condizione di vita. Si tratta di un fenomeno permanente e inconcluso, intrinseco nella natura umana: un processo antico quanto la storia stessa dell’umanità. Questo fenomeno ha avuto inizio già con i primi ominidi che hanno abitato il nostro pianeta, più nello specifico con gli australopitechi dell’Africa centrale. Questi abitanti cominciarono a trasferirsi dai territori che oggi corrispondono ai paesi di Kenya o Tanzania in luoghi che avrebbero maggiormente garantito la loro sopravvivenza in quanto ricchi di risorse idriche, di numerose specie animali e con un clima non eccessivamente rigido. Per vari milioni di anni gli ominidi furono nomadi, spostandosi e trattenendosi per brevi periodi in quei luoghi dove le loro necessità biologiche sarebbero state soddisfate. “Migrare é una caratteristica di molte specie animali, uomo compreso. Gli individui umani da tempo immemorabile si sono mossi in gruppi di luogo in luogo alla ricerca di alimenti o per evitare pericoli. Leggende e resti archeologici diversi dimostrano le tracce di antichi movimenti.”1 Con il passare degli anni queste persone giunsero fino all’Eurasia, ed è nel periodo neolitico che si identifica l’inizio della sedentarietà, strettamente legata all’emergere dell'agricoltura e all'addomesticamento degli animali, in cui i gruppi umani cominciarono a stabilirsi in maniera quasi permanente su un territorio specifico, seppur ancora senza frontiere definite. Queste frontiere cominceranno però a delinearsi successivamente, con i primi insediamenti urbani in Egitto e con i grandi imperi mesopotamici. 2 In questi luoghi, infatti, con l’obiettivo di proteggersi dalle minacce esterne, si delimitarono nuovi spazi, soprattutto attraverso l’erezione delle mura, con la conseguente nascita del senso di appartenenza ad una società concreta. Si entra così in una nuova fase della mobilità umana, e nascono le nozioni di frontiera e nazione. La civiltà egiziana, che rappresenta il culmine dello sviluppo della società umana in quell’epoca, fu però allo stesso tempo la causa della comparsa di fenomeni di mobilità forzata, come la schiavitù come mano d’opera, etc. 1
Fonte: Brunetto Chiarelli (1992). Il progetto 'Genographic', effettuato per National Geographic, rappresenta il più grande progetto mai realizzato su scala internazionale per esaminare e analizzare i processi di mobilità umana transnazionale partendo dal continente africano. 2
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Sarà invece la civiltà greca (600 a.C. – 337 a.C.) ad introdurre una nuova idea di organizzazione sociale: il cosmopolitismo, ossia una nuova concezione di cittadinanza, con l'affermazione della polis e legata della libera circolazione delle persone. L’integrazione dei “non greci” era di conseguenza piena, frutto del trattamento indifferenziato riservato a tutti gli individui che si trovavano nella polis.
Era possibile, infatti, ottenere la cittadinanza
indipendentemente dal luogo di nascita e a tutti veniva concesso un voto rappresentativo. La così detta “democrazia assoluta” permetteva a quasi tutte le persone di partecipare alle discussioni politiche che riguardavano la polis. In realtà spesso accadeva che personalità politiche che sostenevano opinioni diverse da quelle dei gruppi politici dominanti venissero esiliate, e che partissero quindi per altri luoghi, di solito verso le isole, seguiti dai loro simpatizzanti, e fondassero colonie (nel Mar Nero, Sicilia e la Cirenaica). La civilizzazione romana (509 a.C. – 475 d.C.) incorporò l’eredità greca nella cultura latina. La mobilità all’interno dei confini dell’Impero Romano determinerà, nel mediterraneo orientale e meridionale, una moltitudine di culture sempre in contatto, unificate però sotto i parametri della lingua latina e della cultura romana. La caduta dell’Impero Romano, a causa dell’avanzamento dei popoli germanici, fu il risultato della migrazione di carattere tribale che iniziò in Asia centrale nel terzo secolo d.C. e che determinò lo spostamento delle tribù germaniche e slave dalle loro aree di insediamento in Europa orientale verso l'Europa occidentale. Il risultato fu un insieme di popoli etnicamente diversi, che però adotteranno progressivamente l’eredità culturale e il sistema di credenze dei popoli latini invasi. L'impero bizantino, instaurato in Asia minore, diventò l'epicentro dell'interrelazione commerciale tra Oriente e Occidente, creando uno spazio unico di mobilità come ponte di cultura e civilizzazione. Progressivamente arrivarono in Europa occidentale popolazioni straniere, provenienti dall’Asia, che si installarono in quei territori e provocarono cambi nella composizione demografica dei popoli europei. Nel Medioevo (501 - 1110) il sistema di credenze si delineò profondamente, con la tendente affermazione del cristianesimo in Occidente; dell'Islam, dell'induismo e del buddismo in Oriente, e del giudaismo in entrambe le regioni. Le invenzioni tecnologiche più importanti furono da attribuire alla Cina, mentre il mondo arabo, in continua espansione, contribuì notevolmente ad estendere la cultura orientale in Occidente. Infatti, il mondo arabo, a partire dall’VIII secolo, fu protagonista del più grande processo migratorio di conquista. Gli interessi derivanti dalle conquiste rappresentarono senza dubbio un elemento cruciale nella motivazione storica per migrare, tuttavia parallelamente a questa prevalsero tante altre 8
ragioni per cui le persone decisero, in questo caso volontariamente, di trasferirsi da un posto all'altro. Uno dei motivi fu sicuramente la curiosità di esplorare altri territori. Proprio la curiosità ispiro’ i viaggi di Marco Polo nel XIII secolo, il quale, attraverso la via della seta, giunse sino all'impero mongolo di Kublai Khan e fu protagonista del processo inverso a quello menzionato in precedenza: l'avvicinamento della cultura occidentale ai popoli orientali. Nacque cosi un'interrelazione assoluta che ha caratterizzato la storia in tutto il suo percorso fino adesso, specialmente mediante le relazioni commerciali transnazionali. Per quanto riguarda quest'ultimo aspetto, il commercio marittimo visse un periodo di pieno splendore, che culminò con la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo (1492), quando approdò sull'isola che è l'attuale Repubblica Dominicana nel suo tentativo di trovare una via alternativa per arrivare alle Indie. Il viaggio di Cristoforo Colombo segnò un prima e un dopo nella storia universale dal punto di vista sociale, economico e culturale. Si trattò, infatti, di uno scontro tra due civiltà completamente diverse, ricche nella loro pluralità, che si trovavano però in due fasi di sviluppo e di evoluzione fortemente asimmetriche: la cultura ispano-europea del XV secolo, in pieno Rinascimento, e le culture amerindie indigene, con i grandi imperi precolombiani (Inca, Maya, Aztechi) equiparabili agli imperi egiziano o persiano. Gli europei spagnoli e portoghesi, nella loro prima fase di colonizzazione, non trasferirono un gran numero di cittadini nazionali per controllare le popolazioni locali, ma invece ricorsero a strategie politico-militari e religiose-evangelizzatrici per amministrare le colonie. In seguito alla mancanza di collaborazione da parte degli autoctoni, i colonizzatori iniziarono un processo di trasmigrazione forzata transcontinentale: lo schiavismo, un fenomeno che si prolungherà per quasi tre secoli (da 1580 a 1880). Questo fatto porterà, da una parte, allo spopolamento di intere regioni dell’Africa orientale e occidentale; da un'altra parte, ad un elevatissimo grado di mescolanza razziale nel continente americano e, infine, ad una progressiva eliminazione delle popolazioni indigene, che vennero sostituite dal lavoro degli schiavi . Con il Trattato di Tordesillas (1494), il mondo fu diviso in due grandi aree di influenza sotto l’egida dei due grandi imperi d’oltremare: Spagna e Portogallo. L’Occidente dominato dal primo e l’Oriente dal secondo, che attraverso la navigazione in tutto il continente africano aveva aperto le porte del commercio tra America, Africa e Asia. Questa divisione in spazi
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coloniali ebbe pure un’influenza sui diversi modelli di colonizzazione che sarebbero poi stati applicati sia per quanto riguarda l'amministrazione che per i processi di transculturazione. 3 Il XVIII secolo segnò una svolta nella gestione dei territori coloniali. L’Olanda, un paese che era stato governato da il Ducato di Borgogna, la casa degli Asburgo tedeschi e, per ultimo, dalla Spagna, riuscì ad ottenere l'indipendenza e a consolidare il suo ruolo, arrivando a competere con il Portogallo per il controllo delle Isole delle Spezie. Il territorio nordamericano era un teatro di disputa (per il controllo delle risorse, piuttosto che per il territorio di per sè) tra tre potenze convergenti: l’Olanda, che fondò Nuova Amsterdam (l'attuale New York); la Francia, concentrata sul territorio dell'attuale Québec, e l’Inghilterra. Quando l’Olanda decise di indirizzare le sue forze verso un’enclave più meridionale, da cui poteva gestire sia la tratta degli schiavi che l'amministrazione coloniale, il controllo del territorio canadese – dopo la firma del Trattato di Parigi che marca la fine della Guerra dei Sette Anni– fu ripartito geograficamente tra Francia e Inghilterra. Due decenni più tardi la Francia, impegnata in movimenti rivoluzionari nella lotta per l'abolizione del regime assolutista e nella successiva rivoluzione del 1789, iniziò a ridurre la sua proiezione d’oltremare e l'impero britannico approfittò dei cambi interni per prendere il controllo dei territori in lotta in tutto il continente americano. Per tutto il XVIII secolo, l'Iluminismo francese, simbolo di un umanesimo inspirato alla filosofia di Jean-Jacques Rousseau e alle idee di Voltaire, influì direttamente sullo sviluppo di una concezione di uguaglianza tra tutti gli esseri umani. La proclamazione dei Diritti Universali dell'Uomo nel 1789 fu un cambiamento ideologico di enorme eco internazionale, e si rifletterà sia nella lotta dei movimenti abolizionisti, con cui si reclamava la fine della schiavitù, sia nel movimento operaio che si svilupperà nel XIX secolo. Si tratta dell'antecedente più immediato alla successiva proclamazione dei Diritti Universali per le Nazione Unite, che non sarà effettiva fino a due secoli più tardi.
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Possiamo definire il processo di transculturazione come quello che rifletta la realtà di persone che appartengono a un’ unità famigliare situata in due o più stati, che mantengono relazione sociale ed economiche trasversale e che si trovano all'interno di comunità sia nel loro luogo di nascita che in quello di accoglimento; che stanno quindi attecchiti in più di una cultura e che vivono questa doppia o tripla appartenenza come un nuovo modello di cittadinanza. 10
3. PROCESSI MIGRATORI NELL' OTTOCENTO E NOVECENTO Come abbiamo visto, l’ "era delle scoperte" è stata caratterizzata da trasferimenti in massa di persone che possono essere classificate in tre gruppi: i)
La popolazione europea (soldati, commercianti, marinai, amministratori politici e mano d'opera in generale), specialmente proveniente dalle isole britanniche, dalla penisola iberica, dai Paesi Bassi e Francia, cioè le società che detenevano il potere politico e il controllo delle rotte marittime internazionali verso America, Oceania e Africa. Questi flussi stabilirono vie e reti sociali che servirono da base per le nuove correnti migratorie, a partire dall'era industriale e dal processo di decolonizzazione.
ii)
Il traffico di schiavi dall’Africa verso le nuove colonie. La "tratta dei neri" divenne un elemento chiave del commercio internazionale di quell’epoca. Le navi partivano dall’Europa piene di mercanzie che venivano scambiate con schiavi in Africa e, successivamente, questi venivano venduti in America. Nel 1770 c'erano 2,5 milioni di schiavi in America.
iii)
I lavoratori "apprendisti" sotto contratti di quasi servitù. Questa nuova modalità sorse dal processo di proibizione del traffico di schiavi che comincia a diffondersi per tutto il XIX secolo.
a) Processi migratori dal 1850 al 1930: le migrazioni in massa L'indipendenza degli Stati Uniti dall'impero britannico, il 4 luglio 1776, determinò il cambiamento più grande riguardo alla composizione dei flussi migratori provenienti da Europa, Asia e Africa. Insieme agli Stati Uniti, altri stati che erano stati oggetto dei flussi migratori, come Canada o Australia, iniziarono la loro costituzione e potenziarono il loro sviluppo in questo periodo. I processi migratori derivati da questo fatto comportarono un grande decollo demografico e la consolidazione dei primi nuovi stati: Stati Uniti, Australia, Argentina, Brasile e Venezuela, che si differenziano dagli imperi europei per avere un settore di popolazione autoctona che rimase esclusa dal processo di sviluppo.4 Non si trattava di stati senza storia, ma paesi la cui storia fu sostituita dal controllo egemonico delle potenze occidentale a tutti i livelli: culturale, sociale, politico ed economico.
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Lo storiografo francese Serge Gruzinski ("La guerra delle immagini") analizza il processo di imposizione dei valori occidentali sulle culture indigene e l'importante ruolo delle immagini. 11
Dopo le guerre napoleoniche avvennero cambiamenti importanti in Europa che possono essere sintetizzati nella modernizzazione economica, l'espansione dell'industrializzazione e il miglioramento delle linee di trasporto e le comunicazione. Questo sfocerà in flussi migratori di milioni di lavoratori verso il Nuovo Mondo e, in particolare, verso i nuovi stati indipendenti, dove l'offerta di lavoro era abbondante e la mano d'opera e il capitale scarsi. Per questo il periodo compreso tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX è conosciuto come quello delle ”migrazioni di massa". Ciò nonostante, questi flussi migratori differiscono notevolmente a seconda si tratti di paesi di emigrazione o di immigrazione e rispetto al tipo di questa. Nell’area di studi delle migrazioni, si possono distinguere due tipi di paesi di emigrazione: i)
Paesi di Vecchia Emigrazione: Furono i primi protagonisti di questo esodo di massa a metà del XIX secolo e corrispondono a paesi come Irlanda, Gran Bretagna e i paesi scandinavi (tabella 1). La maggioranza degli emigranti si trasferirono negli Stati Uniti, costituendo il 95 % degli immigrati che entrarono in questo paese fino al 1880 (Abad Marquez, 2004). In questo periodo si verificò anche la "Lunga marcia verso ovest", derivata dalla cosiddetta "febbre dell'oro", perciò il mestiere di minatore diventò rapidamente la professione più domandata insieme ad altre attività commerciali.
ii)
Paesi di Nuova Emigrazione: Questo termine corrisponde ai paesi che sperimentarono il loro boom migratorio nelle prime decadi del XX secolo, come l'Italia, Grecia, Portogallo e Spagna. Gli emigranti si stabilirono in posti diversi all’interno del continente americano. Quelli provienti dalla Spagna si istallarono per lo più in Argentina e nelle sue prossimità, mentre la maggioranza dei portoghesi si insediarono in Brasile. Gli italiani furono il gruppo sociale che diversificò maggiormente la destinazione di viaggio, a cavallo tra America Latina e gli Stati Uniti.
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Tabella 1
La ragione principale di questa sfasatura geografica attiene a determinati avvenimenti storici, principalmente al fatto che i vari Paesi hanno dato avvio al processo di industrializzazione in momenti diversi. In Inghilterra, infatti, la Rivoluzione Industriale iniziò nel XVIII secolo, mentre nel resto d’Europa ritardò fino alla fine del XIX secolo e agli inizi del XX secolo nei paesi del sud. Altri fatti di altrettanta importanza furono: l'espansione demografica derivata da questa industrializzazione, i progressi medici e la conseguente riduzione della mortalità (McKeown, 1976). Anche l'esodo rurale verso i nuclei urbani svolse un ruolo importante, dato che l'industria si concentrava nelle città. Le industrie non furono però in grado di dare lavoro a tutte le persone che arrivavano dalle zone rurali e questo portò alla comparsa della disoccupazione, che fece si che molti decisero di emigrare verso altri continenti alla ricerca di nuove opportunità professionali. Nonostante il timore per l’ignoto, un sentimento logico e generalizzato tra i nuovi migranti, le circostanze menzionate in precedenza e le grandi aspettative create dalla possibilità di migliorare il proprio stile di vita e quello delle famiglie in un territorio con grandi superfici, abbondanti risorse e una bassa concentrazione di popolazione, rappresentevano un grande stimolo per emigrare. Per quanto riguarda i paesi recettori, la loro politica della fine del secolo non era affatto ostile, anzi avviarono politiche di incentivazione dato che l'immigrazione era vista come un’opportunità per sviluppare le economie locali. Il caso più rilevante è quello del Brasile: con la progressiva abolizione della schiavitù, divenuta definitiva nel 1880, il timore di un’eventuale mancanza di lavoratori per coltivare il caffè portò il governo di Sao Paolo a intraprendere un ambizioso programma di immigrazione sussidiato per lavoratori europei. Il
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governo federale pagava il viaggio a intere famiglie per lavorare nell'industria del caffè per un periodo di cinque anni, passato il quale avevano la possibilità di tornare nei loro paesi di origine oppure lavorare in un altro settore (Sánchez Alonso, 1995). Questo periodo di migrazione di massa si distinse anche in relazione alla natura dei migranti. La maggioranza delle persone che migrarono dai paesi considerati di “vecchia emigrazione” contavano su un'elevata qualificazione professionale, giacché provenivano da paesi con una lunga tradizione artigianale e con un processo di industrializzazione già abbastanza avanzato. Si trattava di un'emigrazione fondamentalmente definitiva, con tassi di ritorno molti bassi e composta da famiglie al completo, disposte a intraprendere una nuova vita nel Nuovo Continente. Nei processi migratori posteriori, da i paesi di “nuova emigrazione”, cambiano le condizioni. In questo momento la maggioranza dei migranti sono giovani maschi, tra i 15 e i 40 anni, senza qualifica professionale, che avevano l'intenzione di contribuire all'economia familiare attraverso l'invio di rimesse per poi tornare nei propri paesi d’origine. Data l'inesperienza professionale e la bassa qualifica dei giovani appena arrivati, la loro integrazione nelle nuove destinazioni e, di conseguenza, l'ottenimento di un posto di lavoro divvene sempre più difficile. Bisogna poi anche considerare le difficoltà che incontravano nell’imparare a svolgere un lavoro parlando una lingua diversa dalla propria madrelingua e senza una formazione di base. Tutto questo generò la concentrazione di grandi masse di popolazione nelle baraccopoli alle periferie delle grandi città, dove gli immigrati erano in contatto con altre persone che si trovavano nella loro stessa situazione. Un esercito di disoccupati con praticamente nessuna possibilità di inserirsi in un’industria dominata dai posti di lavoro qualificati. Ciò nonostante, con il passare degli anni, alcuni di questi giovani in età lavorativa cominciarono a diventare oggetto di interesse per gli impresari e manager statunitensi. Poichè non avevano alcuna qualifica professionale, venivano assegnati loro compiti che esigevano semplicemente una mera ripetizione di movimenti meccanici, contribuendo all'incremento della produttività che fece sí che gli Stati Uniti intorno al 1915 si ergessero a potenza economica mondiale. L'abbondanza di questo tipo di lavoratori cominciò presto però ad essere vista come una minaccia invece che un vantaggio, e l'atteggiamento verso questo tipo di immigrati cominciò a cambiare. Questo sfociò nell'imposizione delle prime politiche sulle quote di immigrazione
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e la diffusione della credenza che occorreva limitare, controllare e selezionare gli immigrati che si ricevevano. b) L'epoca dopo il 1945: la migrazione intraeuropea La avvenimento della Seconda Guerra Mondiale (1939-1945) segnò un cambiamento importante nei flussi migratori. Lontani dall'idea già generalizzata di trovare un posto dove le opportunità lavorative fossero più vantaggiose e fosse più facile migliorare la qualità della vita, numerose famiglie furono obbligate a migrare con l'unico obiettivo di potere salvare la loro vita, di proteggersi degli attacchi che si stavano verificando in alcuni stati in conflitto o di fuggire dalle persecuzioni razziali, ideologiche o religiose. Alla fine della guerra, la più mortale e devastante della storia, l'industria e le infrastrutture di numerose città del Vecchio Continente erano rimaste distrutte. Questo condusse a mettere in moto numerose misure di ricostruzione e ad aumentare la domanda di mano d'opera in numerosi paesi europei, sopratuttto Francia, Gran Bretagna e Belgio in prima battuta e in seconda battuta Germania e Svizzera. In questo modo, i paesi che erano originariamente luoghi di emigrazione si trovarono ad essere recettori, diventando l’obiettivo di tanti lavoratori provenienti da paesi meno sviluppati del sud d’Europa (Italia, Portogallo, Spagna) e delle antiche colonie (Algeria, Marocco, Turchia), in pieno processo di indipendenza (tabella 2). Tabella 2
Questi movimenti migratori causarono una ridistribuzione della popolazione in età lavorativa lungo tutto il continente europeo, e riequilibrarono i dislivelli tra i paesi con tassi elevati di disoccupazione (generalmente quelli al Sud) e quelli con percentuali alte di domanda di 15
lavoro e scarsa mano d'opera disponibile (soprattuto Francia, Germania e Svizzera) (tabelle 3 e 4). Tanti dei movimenti migratori furono regolati con la firma di accordi transnazionali, come quello tra Germania e l'Italia (1955). Tabella 3
Tabella 4
(Fonte: Pubblicazione. “UN: International Migration and Development: analysis prepared by the United Nations Department of Economic and Social Affairs”) Una caratteristica significativa dell’imponente massa di popolazione che si trasferí per rispondere alla necessità di mano d'opera dei paesi in fase di ripresa economica è che occupava posti di lavoro generalmente temporali e considerati "meno qualificati". Col tempo si affermò la pratica di occupare gli immigrati, presumibilmente con meno qualifica
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professionale, in lavori peggio considerati, permettendo agli autoctoni di prendere quelli di più “alto rango”.5 In una recente pubblicazione dall’Istituto italiano di studi sulle società del Mediterraneo, Michele Colucci menziona: “L’emigrazione resta un fenomeno determinante in termini di espatri annuali ancora fino ai primi anni Settanta, essa funziona quindi a lungo come stimolo al mercato interno attraverso le rimesse e come alleggerimento al mercato del lavoro nazionale, rivestendo quindi un ruolo centrale ai fini del pieno svolgimento del miracolo economico e dei processi di modernizzazione a esso legati.”6 Nel 1990 si originò il cosiddetto Nuovo Ordine Mondiale, derivato della caduta del muro di Berlino (1989), la cui conseguenza fu la fine della Guerra Fredda e del sistema politico bipolare che aveva dominato il panorama mondiale fino a quel momento. La fine della divisione in due blocchi fece sì che l’Europa orientale cominciasse a partecipare ai processi e alle dinamiche che già si stavano sviluppano in Occidente, compreso il fenomeno della globalizzazione. Un fenomeno che contribuì alla circolazione transnazionale di informazione, capitale fisico ed economico e ad una maggiore interdipendenza sovranazionale.
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Questa pratica o credenza è in uso anche ai giorni nostri, sebbene la crisi del XXI secolo stia cominciando a mutare questi parametri e quei posti che fino questo momento erano sempre stati considerati adatti agli immigranti e non sufficientemente all’altezza dei nativi, vengono occupati anche da questi ultimi, data la scarsa offerta di lavoro disponibile. 6 Fonte: “La risorsa emigrazione. Gli italiani all’estero tra percorsi sociali e flussi economici, 19452012”. Istituto di studi sulle società del Mediterraneo. Fonte consultata il 15-12-13. 17
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4. I PRINCIPALI CAMBIAMENTI CAUSATI DALLA GLOBALIZZAZIONE La parola globalizzazione è un termine relativamente recente, che comincia ad essere usato nei primi decenni del 1980 nel tentativo di spiegare i profondi cambiamenti che stavano accadendo nel contesto dell'economia internazionale e che non potevano essere inclusi nelle definizioni di internazionalizzazione o transnazionalizzazione. Ma non concerne unicamente il campo dell'economia. Si tratta, infatti, di un termine estremamente difficile da definire a causa del suo carattere multidimensionale. Alma Rosa Muñoz, dell’Università Autonoma del Mexico7, individua tre tipi di globalizzazione dal punto di vista: -
Socioculturale. Fa riferimento alla diffusione internazionale di una serie di valori e tradizioni culturali, la cui origine è da identificarsi nel mondo occidentale a partire dalle riforme sociali e dalle innovazioni produttive della rivoluzione industriale: le concezioni della democrazia, la parità di genere e la società dei consumi.
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Politico. La raccomandazione di applicare politiche nazionali liberali in tutti gli stati sotto l’egida degli Stati Uniti e, più concretamente, l’adozione del Consenso di Washington.
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Economico. Corrisponde alla rimozione delle barriere alla circolazione internazionale delle merci e dei fattori produttivi (capitali e persone), e l'articolazione di un nuovo sistema finanziario internazionale a cui tutti i paesi devono adattarsi in modo da non rimanere completamente isolati.
La diffusione delle nuove tecnologie, che richiedono una certa elasticità mentale per poter essere utilizzate, ha svolto un ruolo importante nella maniera in cui le persone provenienti da regioni apparentemente opposte hanno cominciato a rendersi conto dell'esistenza di un certo sistema di vita con crescenti somiglianze transversali, che però viene adottato in maniera diversa a seconda di dove si sviluppa. a) Gli effetti della globalizzazione nell’economia Come abbiamo appena detto, è innegabile il fatto che siamo testimoni di un processo crescente di interdipendenza sovranazionale. È aumentato il volume del commercio internazionale rispetto alla produzione globale di beni. Predominano gli investimenti diretti esteri, da parte di aziende internazionali che cercano di ridurre il maggior numero di costi dei fattori di produzione ricorrendo all'esteriorizzazione e decentralizzazione delle sedi di 7
Muñoz Jumilla, Ana Rosa, “Efectos de la globalización en las migraciones internacionales”, in Papeles de población, n.33, giuglio-settembre 2002, pp. 10-45. 19
produzione in luoghi in cui esistono minori barriere commerciali alla produzione o retribuzioni più basse. Questo ha prodotto una rapida crescita dei flussi internazionali di capitale, che a causa della loro grande dimensione, debilitano o addirittura rendono impossibili i tentativi di stabilire politiche monetarie e fiscali nazionali autonome. Tutti questi fenomeni non sarebbero stati possibili senza lo sviluppo e la diminuzione dei costi delle telecomunicazioni e dell'informatica. Anche se tutti i paesi del mondo partecipassero al processo di mondializzazione dell'economia, questa sarebbe comunque "goduta" in modo asimmetrico da tutti, sotto l'egemonia delle tre grandi potenze economiche (gli Stati Uniti, l'UE e il Giappone). Alcuni soffrono di più le conseguenze del sistema di vita artificiale che ha creato il capitalismo, ed è un fatto evidente che alcuni stati hanno cercato di monopolizzare le risorse naturali di altri paesi per appagare il loro desiderio di crescita, facendo sì che quelli inizialmente sottosviluppati lo diventassero ancora di più (Ahmed Mohamed, Ortega Pérez, 2007). In realtà si sono mantenuti e rafforzati i parametri di dominazione ereditati storicamente, attraverso un percorso differenziale nella divisione internazionale del lavoro, che è, di fatto, l'esclusione delle grandi regioni rurali, interi paesi in tutto il mondo, una gran parte del continente africano e ampi settori di popolazione in paesi e regioni ricchi. Basta dare un'occhiata agli ultimi rapporti prodotti
da UNDP (United Nations Development Programme) riguardanti le
diseguaglianze dei consumi tra il 20 % dei paesi più ricchi e il 20 % dei paesi più poveri (tabella 5). Tabella 5
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b) I cambi nella concezione Nord-Sud Come abbiamo visto nei precedenti capitoli, la storia stessa è andata delineando una linea di demarcazione abbastanza netta nel mondo: il Nord, che inglobava i paesi ricchi, l'uomo bianco, la crescita economica e la modernizzazione, le tecnologie e il benessere; e il Sud, la regione senza legge, il dispotismo politico, la povertà, la fame e il sottosviluppo. Storicamente, il Nord ha tentato di conquistare il Sud, alla ricerca di esseri umani da sottomettere e culture da dominare con l'unico intento di controllare e accumulare territori, risorse e ricchezze al pari di quelle che possedevano i loro vicini del Nord, e perché il modo di vita e i valori del Nord erano considerati gli "unici accettabili" e quindi dovevano essere diffusi ovunque. Alla fine del XX secolo questa demarcazione si rafforza con la diffusione dell’uso del termine "Terzo Mondo", coniato dall'economista Alfred Sauvy, con cui si differenzia tra paesi sviluppati (il primo mondo) e quelli in via di sviluppo. Tuttavia in quegli stessi anni cominciano anche ad avere successo i tentativi di indipendenza delle colonie. Il processo di decolonizzazione, che vedrà il suo culmine negli ultimi decenni del secolo, produrrà l'effetto contrario a quello che si aspettavano le potenze coloniali europee: è il Sud nel Nord, un esodo dalle colonie di nuova indipendenza verso le metropoli, come il ritorno degli ex coloni portoghesi da Angola, Mozambico e Macao, o di quelli francesi dall’Algeria alla Francia e cosi molti atri esempi; "i cittadini della Guinea Equatoriale, che arrivano in Spagna dopo l'indipendenza del paese nel 1968 possedono un passato condiviso con la loro ex metropoli. La lingua veicolare è il castigliano; lingua e cultura formano parte di questo ritorno alla metropoli che distingue il modello spagnolo di paesi di decolonizzazione tardiva come Portogallo, dovuto fondamentalmente al fatto che la Spagna è la prima potenza coloniale che perde le sue colonie, durante il XIX secolo." (Josep Lacomba, 2008) È un cambiamento drastico nella direzione dei flussi migratori, il tutto provocato dalla crescente interdipendenza dei paesi: la globalizzazione. Le varie caratteristiche della globalizzazione che abbiamo menzionato hanno contribuito a questo offuscamento progressivo della concezione tradizionale di Nord e Sud. Il grado di povertà dei paesi del Sud, anche se continua ad essere tragico, permette loro di giocare un ruolo molto più importante rispetto a quello che veniva loro attribuito nel passato nel sistema economico mondiale. Il Nord continua a dominare, ma le nazioni del Sud non sono più le stesse: adesso sono paesi si 21
poveri, ma disposti ad affrontare la sfida dello sviluppo, con un populismo di classe media e leader carismatici. Tradizionalmente ricettori di capitale, adesso emettono capitale al fine di saldare i debiti degli investimenti del passato. All’interno le società tendono però a frammentarsi strutturalmente: da un lato una minoranza più o meno importante della popolazione che gestisce le ricchezze, la produzione economica e la loro proiezone sociale nel sistema; da un altro lato, una maggioranza esclusa da questi elementi di benessere, generalmente composta da persone emarginate e impiegate nel settore della sussistenza. (Samir Naïr, Javier de Lucas, 1999). Tutti i paesi hanno ora, "grazie" al fenomeno della globalizzazione, una porzione di Nord e una di Sud, ed è in questo contesto che bisogna analizzare le caratteristiche dei flussi migratori nel secolo in cui viviamo. c) Gli effetti della globalizzazione nelle migrazioni Sud-Nord e Sud-Sud I flussi migratori Sud-Nord non incarnano solo la volontà di passare da poveri a ricchi, ma sono anche il risultato dell’interdipendenza crescente tra le nazioni e le economie, dei matrimoni misti e della mescolanza culturale e l'evoluzione della popolazione mondiale stessa. A metà del 1994, la popolazione mondiale era di 5.600 milioni di persone, di cui l’80 % abitava in regioni del pianeta in via di sviluppo 8. La differenza tra il ritmo di crescita della popolazione nei paesi sviluppati e in quelli in via di sviluppo non ha smesso di crescere sin dalla Seconda Guerra Mondiale. Tra il 1959 e il 1994, la popolazione delle regioni sviluppate crebbe soltanto del 43% rispetto al 161 % nei paesi in via di sviluppo. Queste tendenze riflettono, da una parte, una minore e più vecchia popolazione nel Nord che ha sfociato in gravi problemi quali lo squilibrio dei flussi nel mercato del lavoro, la crisi del sistema pensionistico o il sovraccarico dei servizi sanitari (De Lucas, 1998). Da un'altra parte, un tasso di natalità eccessivamente elevato nel Sud, che è divenuto problematico in quanto il ritmo di aumento delle nascite non è direttamente proporzionale al tasso di diminuzione della mortalità e all'aumento della speranza di vita. Un eccessivo numero di nascite fa si che, in un determinato momento, le persone che raggiungono l'età lavorativa superino la capacità di un paese di assorbimento di quest’ultime in qualsiasi settore, soprattutto se non è abbastanza competitivo. Così nascono problemi come la disoccupazione, massicci spostamenti dalle zone rurali alle città, sovraffollamento urbano e conflitti sociali.
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Fonte: Nazione Unite: Analisi della situazione demográfica nel mondo nel 1995. 22
È generalizzata l'opinione degli esperti che il controllo della crescita demografica di un paese sia cruciale per gestire e potenziare lo sviluppo, un fatto di cui abbiamo un esempio negativo, rappresentato dai paesi del Terzo Mondo, e uno positivo dal Giappone. L’eccessiva crescita demografica finisce per collassare le economie, e questo ha avuto un'incidenza importante nei flussi migratori negli ultimi decenni. È ovvio che la migrazione possa alleviare la pressione demografica nel Sud e mitigare la mancanza di popolazione nel Nord. Infatti, la UNDP stima che entro il 2025, per mantenere lo stesso rapporto di popolazione attiva/pensionata che esiste oggi in Unione Europea, dovrebbe ricevere circa 135 milioni di migranti9. Tuttavia intervengono tanti altri fattori, che analizzeremmo più in dettaglio nel prossimo paragrafo e che variano a seconda del paese, che spingono una persona ad emigrare, generalmente verso i paesi dell'OCDE. Ma ciò che è ormai evidente è che sia le migrazioni Sud-Nord che quelle Sud-Sud, non sono più un mero trasferimento di mano d'opera temporale, ma anche e soprattutto lo spostamento di popolazione con carattere durevole o definitivo. Le legislazioni del Nord stanno facendo tutto il possibile per frenare questi flussi, però questo non vuol dire che sparisca la forte pressione globale esistente. È un tipo di spostamento che modifica allo stesso tempo la struttura sociale delle società di origine e quella dei paesi di accoglienza. i. Ragioni per emigrare (Sud-Nord e Sud-Sud) Le ragioni concrete per cui una persona decide di lasciare il suo paese e le sue radici sono difficili da definire, ma è sicuro che alla fine si tratta di una decisione di natura personale (Ahmed Mohamed, Ortega Pérez, 2007). Nonostante ciò è possibile però individuare i principali parametri delle spinte a migrare:
Fattori socio-economici. L'attrazione che esercita il way of life occidentale nei ceti medi dei paesi del Sud deriva dall'integrazione "culturale" di questi nel sistema mondiale (Samir Naïr, Javier de Lucas, 1999). Ed è stato proprio il fenomeno della globalizzazione che ha portato, soprattutto attraverso i mezzi di comunicazione internazionale (in particolare la televisione e internet), il turismo o la vendita su scala mondiale di prodotti culturali e di consumo, la conoscenza degli stili di vita dei paesi più sviluppati nelle regioni del mondo con un PIL pro capite più basso. Il Rapporto dell’UNDP del 1998 poneva l'attenzione sul fatto che è più probabile che molti villaggi del Terzo Mondo
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Fonte: Naïr, Samir e De Lucas, Javier (1999). 23
abbiano più accesso al cinema di Hollywood e alla pubblicità per televisione per satellite che per strada o ferrovia ad un altro villaggio non troppo lontano. La percezione di una disuguaglianza così acuta ha permeato l'immaginario del migrante, generando una falsa immagine di "Eldorado" in coloro che hanno la speranza di cambiare la povertà con una migliore condizione di vita. Però in queste società non tutti hanno la possibilità di viaggiare, bisogna innanzitutto metter da parte i soldi necessari al viaggio, essere forti e sani e considerare molto seriamente il costo psicologico che può implicare tale impresa. L'immigrato che ha rischiato tutto per riuscire ad arrivare in un altro paese farà il più possibile per rimanerci, e questo è qualcosa che si deve prendere in considerazione nel momento in cui si creano delle politiche di integrazione. Sono numerose le persone che si indebitano ancor prima di abbandonare i loro paesi, e ciò già rappresenta un ostacolo alla creazione di una nuova vita e al superamento dei vari impedimenti che possono incontrare nel nuovo paese.
Fattori ambientali. Le catastrofi naturali svolgono anch’ esse un ruolo centrale. Le persone che si sono viste obbligate ad abbandonare le loro case e i loro luoghi di origine a causa di un disastro naturale (tifoni, terremoti, tsunami, etc.) si rendono conto, nel momento post-disastro, che hanno perso tutto, e perciò non hanno più un passato a cui ritornare. Ma sappiamo tutti che l'intensificarsi dei disastri naturali negli ultimi anni, ha una forte componente antropologica. Il mercato mondiale, dominato dai paesi dell'OCSE, è stato finora la leva più potente dello sfruttamento della natura nelle regioni terzomondiste, attraverso la domanda di materie prime minerali e di alimenti tropicali (monocolture), l’esportazione di pesticidi, la domanda di legno nobile e politiche finanziarie che hanno generato un debito economico che non lascia alcuna opzione ai paesi poveri, costretti in uno sfruttamento spietato delle proprie risorse naturali insostituibili. Infatti, ultimamente si sta verificando una sorta di circolo vizioso tra povertà e deterioramento dell'ambiente. La popolazione povera è costretta ad esaurire le proprie risorse per sopravvivere, però questo determina un impoverimento ulteriore. Essendo i paesi ricchi quelli che inquinano di più, sono i poveri che ne soffrono le più grandi conseguenze. Una di queste, più evidenti, è l’inquinamento dell'ambiente operato dai paesi più ricchi e il 24
mutamento climatico che sta danneggiando i modi di vita tradizionali e il lavoro legato al settore primario di milioni di persone (agricoltori, pescatori, etc.), cosi come altri settori più sviluppati. Data l'inarrestabile diffusione di siccità, desertificazione o alluvioni, tra tanti altri problemi, molte persone si rendono conto della necessità di cercare altrove le condizioni più favorevoli per il futuro della loro attività (la loro fonte di sussistenza), anche se, come già abbiamo evidenziato in precedenza, non tutti hanno le risorse necessarie per cambiare di vita.
Fattori politici, etnici o religiosi. Le guerre e i conflitti hanno caratterizzato, purtroppo, tutta la storia dell’umanità. Nonostante l’impegno, dopo la Seconda Guerra Mondiale, da parte della comunità internazionale, a non permettere mai più che accadesse di nuovo un conflitto internazionale di tali disastrose dimensioni (impegno ratificato nello Statuto delle Nazione Unite), le guerre continuano ad esserci tutt’oggi. Durante il processo di decolonizzazione e la guerra fredda si verificarono numerosi conflitti che generarono spostamenti in massa, di cui soltanto una porzione molto ridotta colpì i paesi sviluppati. La fine della guerra fredda non ha significato però la cessazione di quei conflitti che, al contrario, nell'era della globalizzazione hanno inasprito i loro effetti sulla popolazione civile. Di fronte a questa situazione milioni di persone sono state costrette a scappare per salvare le loro vite ed è così che le comunità di rifugiati e sfollati nel mondo crescono sempre più ad un ritmo vertiginoso. L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati calcola che 50 milioni di persone nel mondo sono vittime di spostamenti forzati, di cui 21 milioni sono sotto la sua responsabilità10.
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Fonte: ACNUR, “La situación de los refugiados en el mundo”, in Un programa humanitario, Icaria, Barcelona, 1997. 25
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5. UN NUOVO MODELLO DI MIGRAZIONE: Le migrazioni Nord-Nord e Nord-Sud e la fuga dei cervelli Abbiamo già visto come tutti i fattori derivati dalla globalizzazione, specialmente quelli economici, sono stati cruciali perchè milioni di persone provenienti dai paesi del Sud, con un’economia stagnante per lo più a causa dell'indebitamento, decidessero di emigrare al Nord se in possesso delle risorse per farlo. Inoltre, negli ultimi decenni i costi dei transporti e il turismo si sono ridotti in larga misura, cosa che ha contribuito all'incremento delle migrazioni verso il presunto "Eldorado" già menzionato. Nonostante ciò, la speculazione e la presunta liberalizzazione dell'economia nella sfera internazionale hanno provocato una crisi in numerosi paesi del Nord. Perciò quello che in passato era considerato il modello di sviluppo da seguire e lo stato di massimo benessere per tutti i cittadini nonché la destinazione ideale per tutte le popolazioni del Sud, non riesce nemmeno più a soddisfare le aspettative cittadini locali. Questo ha potenziato l'incremento della migrazione Nord-Nord, in specie tra i giovani qualificati che, a causa della scarsità di posti di lavoro – che non si liberano in continuità perché sono occupati da persone di età media-alta– e alla scarsa evoluzione della industria, si vedono obbligati a cercare nuove opportunità in altri paesi. L’emigrazione si rivolge perfino verso gli stati del Sud, dove la crisi è meno acuta in quanto che non hanno mai raggiunto i livelli di sviluppo economico che hanno fatto esplodere il sistema nel Nord. a) Contesto socioeconomico Uno degli elementi che hanno contribuito alla diffusione di questo nuovo modello di migrazione internazionale è costituito dagli accordi regionali che hanno favorito la libera circolazione di persone in determinate aree geografiche, come ad esempio gli accordi di Schengen, adottati nel 1995 dai paesi membri dell'Unione Europea. All’epoca, c’era addirittura chi sosteneva che ogni cittadino, indipendentemente dalla sua origine, purchè provvisto di un documento di identità valido, potesse muoversi senza bisogno di esibire un passaporto o un viso. Poiché un accordo in tal senso era impossibile, si decise di creare un'unica frontiera per i controlli di accesso allo spazio Schengen da effettuare ovunque allo stesso modo. Di conseguenza, questi accordi nacquero con un doppio proposito. Da un lato, il tentativo di frenare i flussi di immigrazione di persone provenienti da paesi del Sud attraverso politiche per regolare la migrazione, com'era già avvenuto 30 anni prima nell'epoca delle migrazioni in massa negli Stati Uniti. I paesi del Nord volevano –come d’altronde ancora oggi– accogliere soltanto gli immigranti considerati “utili” e in grado di giovare al mercato del lavoro, della ricerca scientifica o della crescita demografica. Pertanto, l'accordo non 27
migliorò gli ostacoli burocratici per gli immigrati in arrivo verso i paesi dell'Unione Europea, ma facilitò enormemente la circolazione intraeuropea dei residenti. D’ altro lato, nel 2008 scoppia negli Stati Uniti una grave crisi economica scatenata dai crediti ipotecari concessi senza controllo e senza garanzia di essere saldati, con il conseguente fallimento delle banche, la più importante delle quali è stata la Lehman Brothers. Prevedibilmente, la globalizzazione e l'assoluta interdipendenza economica contribuì all’espansione di questa crisi in praticamente tutti i paesi occidentali, specialmente in quelli la cui stabilità economica era troppo condizionata dagli investimenti in altri stati e dalle economie più fragili. Ciò ha comportato che la crisi colpisse in particolare i paesi periferici, ovvero la Spagna e l’Italia, dove si manifesta con la drastica diminuzione dei posti di lavoro e l'incremento della disoccupazione. Secondo dati raccolti dall'Istituto Mondiale per l’Economia in colaborazione con l'Istituto degli Studi Economici spagnolo11, nel 2013 i tassi di disoccupazione hanno raggiunto massimi storici in alcuni paesi che doppiano la media europea, con in testa la Grecia (29,3 %), seguita da Spagna (27,9 %), Irlanda (14,7%), Cipro (14,4%), Slovacchia (13,8%), Lettonia (13,7%), Bulgaria (12,3%), Lituania (11,6%), Italia (11,6%) e Polonia (11,1%). Inoltre, questa crisi ripete quanto è già successo nella recessione tra il 1992 e il 1995: una parte importante del lavoro generato dal precedente ciclo espansivo è molto sensibile alle congiunture economiche; il mercato del lavoro è instabile e la qualità bassa. Gli immigrati nei paesi in crisi sono stati particolarmente colpiti da questa problematica, a causa del loro tradizionale impiego nei settori più colpiti dalla recessione, come quello edile e dei servizi di mercato, nonché a causa della loro bassa qualificazione e anzianità media nel lavoro. Le persone qualificate in questi paesi periferici, spinte dalle cattive condizioni del mercato del lavoro, da un lato, e, dall’altro, dalle aspettative conseguenti la formazione acquista, tendono ad emigrare sempre più frequentemente. Questo fenomeno costituisce l'antecedente diretto alla già accennata ‘‘fuga dei cervelli’’. b) La fuga dei cervelli Una larga parte delle migrazioni internazionali in atto in questo contesto socioeconomico mondiale, specialmente dal Nord al Nord, può essere definita con il termine "fuga dei cervelli" o "brain drane". Questo fenomeno rappresenta una problematica per tutte le economie sottosviluppate e sviluppate che generano risorse umane qualificate ma non sono in grado di inserirle direttamente dal sistema educativo al mercato di lavoro. A causa di questo
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Fonte: Giornale Expansion, fonte elettronica, articolo dal 8 gennaio 2013. 28
impedimento, molte persone decidono di emigrare in paesi le cui economie possano e sappiano approfittare delle loro conoscenze ed esperienze in forma adeguata rispetto ai loro interessi e ambizioni personali. Questi paesi sono solitamente i paesi del centro europa, mentre quelli periferici, sembrano limitarsi a produrre risorse umane destinate ad essere sfruttate nei paesi più sviluppati. Questo fenomeno ha conseguenze molto profonde sia per il paese di origine che per quello di accoglimento. Infatti, risorse che vengono sotto-impiegate nei paesi di accoglimento, sarebbero invece fondamentali per lo sviluppo, la crescita e l'espansione delle società da cui provengono. Inoltre è da sottolineare lo sforzo personale da parte dell’emigrante, che ha dovuto acquisire tutte le sue conoscenze e capacità, e della sua comunità, che ha investito su di lui vent’anni di formazione. Si tratta di un fenomeno che sta colpendo i popolazione giovani, una intera generazione conscia del fatto che i propri genitori e nonni, anche se con un grado di istruzione minima, hanno avuto invece l'opportunità di imparare un mestiere e provvedere a una vita decorosa senza dipendere dalla famiglia. In passato la capacità e la velocità di apprendimento avevano maggior valore e permettevano di specializzarsi in un mestiere per il quale si era portati da sfruttare in una propria impresa. L'educazione 'non formale', l’esperienza concreta, che un tempo era requisito essenziale per trovare un lavoro, è oggi un fattore molto poco valutato. I giovani dal XXI secolo rappresentano la generazione meglio preparata, in cui praticamente tutti terminano gli studi secondari proseguono volentieri la loro formazione all’università. Essi sviluppano le proprie conoscenze nella branca in cui si specializzano e accumulano diplomi nella speranza di avere un curriculum vitae il più attraente possibile. D’altro canto, la maggioranza dei giovani hanno tratto vantaggio dal processo della globalizzazione e non hanno difficoltà ad adattarsi anche fuori dal proprio paese e dalla loro “zona di comfort”. Imparano le lingue, (soprattutto l'inglese, la lingua più utilizzata a livello internazionale) e approfittano della diminuzione dei costi di trasporto per viaggiare ovunque, dimostrando la volontà e la voglia di esplorare nuove destinazioni e culture che, come già accennato in precedenza, è in un certo qual modo insita nella natura umana. In genere si tratta di persone tolleranti e disposte a condividere con gli altri propri valori. Nonostante ciò, non tutti coloro a cui piace esplorare nuove destinazioni e conoscere nuove culture sono disposti a cambiare il proprio stile di vita. Al di là dei valori internazionali condivisi, ogni cultura e paese ha in comune una serie di tradizioni e stili di vita difficili di sintetizzare. Chiunque abbia trascorso un certo periodo di tempo in un paese diverso dal 29
proprio sarebbe in grado di elencare le somiglianze e le differenze tra il paese di origine e quello di destinazione. Ogni persona nasce e cresce in un contesto e in una società con la quale si identifica, ma all'estero possono mancare certi aspetti socioculturali a cui non tutti sarebbero disposti a rinunciare: luoghi carichi di storia, abitudini, tradizioni e, soprattutto, persone. Ma nel contesto economico e del lavoro imperante, tanti giovani si stanno vedendo obbligati ad abbandonare temporaneamente o definitivamente le proprie famiglie con l'unico obiettivo di massimizzare le proprie opportunità di trovare un lavoro e acquisire una base di stabilità economica con cui poter soddisfare le proprie esigenze. A questo gruppo di persone viene attribuita l'espressione "brain waste", che descrive lo sfruttamento dell'insieme di conoscenze e tecniche assimilate da parte di persone altamente qualificate in un determinato contesto per doversi, poi, trasferire in un nuovo paese in cui effettuare un lavoro non in linea con le conoscenze acquisite. Altri, invece, decidono di studiare e formarsi all'estero al fine di accumulare esperienze e diplomi che dimostrino il loro possesso di questi valori di transculturazione, tolleranza e capacità analitica adeguate alla globalizzazione delle società e delle economie e permettano loro di avere più possibilità di trovare un lavoro al ritorno nel paese di origine. Questa concezione è di solito valutata positivamente e denominata 'brain circulation". Quest’ultima espressione è anche valida per periodi di stage professionali all'estero. È un fenomeno oggi molto comune, che si è però anche trasformato rispetto alle generazioni precedenti. Ciò che in passato costituiva una forma quasi sicura per garantire un’occupazione e la possibilità di formarsi nel settore da mettere poi al servizio dell'azienda, è diventato oggi un modo per le aziende di sfruttare le conoscenze e l’entusiasmo dei laureati approfittando della situazione disperata dei giovani, che permette di ridurre al massimo i costi di produzione. In questo contesto non sono rare profonde frustrazioni personali, delusione, confusione o perdita dell'autostima che a volte possono incidere profondamente nella personalità di coloro che si vedono obbligati ad emigrare.
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6. L’INTEGRAZIONE NEL XXI SECOLO In primo luogo, per analizzare il processo di integrazione degli immigrati è necessario porsi una domanda fondamentale: “Chi sono questi immigrati?”. La risposta è complessa e storicamente diversificata. Negli Stati Uniti d’America, Argentina o Canada, Stati principalmente recettori di immigrati, le società si formarono a partire da persone provenienti da altri stati, perciò la concezione di immigrato si applicava di regola a tutte gli stranieri. Nell'altro estremo del globo, negli Stati europei, le migrazioni nelle città generalmente provenivano, come abbiamo visto, dalle zone agricole circostanti o dalle regioni più povere dello stesso paese. Gli stranieri c’erano anche nelle grandi capitali imperiali alla fine del XIX secolo, come a Parigi o a Londra, ma erano pur sempre minoritari. Di conseguenza, gli immigrati in Europa erano per lo più connazionali spinti verso le grande città dai processi di industrializzazione ed urbanizzazione. Questa situazione cambiò a metà del XX secolo, quando i flussi migratori cominciarono ad essere per lo più esterni: dai paesi di periferia verso gli stati centrali, per contribuire alla ricostruzione post bellica. Il carattere interno o esterno dei flussi migratori ci indica la condizione di nazionale o straniero dell'immigrato, una questione fondamentale in un mondo organizzato politicamente in Stati. Ma il riferimento alla nazionalità amministrativa non può, da solo, rispondere alla domanda "chi è l’immigrato". Come evidenziato dagli studi realizzati all'epoca dell'UE-1512, non tutti gli stranieri sono considerati immigrati. Sembra inoltre che ci siano immigrati eternamente immigrati i quali trasferiranno questa condizione perfino ai loro discendenti, benché questa seconda generazione sia nata nello stesso posto in cui abita e quindi non abbia mai migrato. 'Immigrato' quindi, fa riferimento ad un locus sociale specifico e non tanto alla stretta differenziazione giuridica e politica tra straniero e cittadino locale. Il processo di costruzione sociale ha portato la riflessione sociologica sull'immigrato, una costruzione che lo colloca dentro e fuori del "noi" che caratterizza la società accogliente. Questa tensione si deve risolvere attraverso un processo di inclusione o, meglio, di integrazione13. In accordo con Simmel, lo straniero occupa un posto speciale nella società di
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I membri dell’UE-15 (anteriori al 2004) erano: Spagna, Italia, Francia, Gran Bretagna, Irlanda, Lussemburgo, Germania, Svezia, Finlandia, Dinamarca, Autria, Grecia, Portogallo, Belgia e i Paesi Bassi. 13 È conveniente distinguere tra i termini "inclusione" e "integrazione". Integrazione si usa generalmente per indicare un buon processo di inclusione; nel senso negativo, un'inclusione che non implichi marginalizzazione sociale, nè assimilazione culturale forzata, o la chiusura auto-identitaria degli immigranti. L'integrazione ha quindi una componente normativa e rappresenta il buon processo 31
accoglienza: è infatti un membro legato al gruppo attraverso una relazione particolare perché lo straniero è dentro il gruppo ma, allo stesso tempo, "fuori e davanti al gruppo" (Simmel, 1988: 319). Simmel illustra questa sua concezione nello scenario del mercante e dell’ebreo, con figure storiche dello straniero che combinano la prossimità fisica quotidiana e la distanza sociale e culturale. Robert Park, uno dei fondatori della Scuola di Chicago, riprenderà questa idea nel 2000 e la svilupperà affermando che la situazione dell'immigrato non si perpetua ma, come diceva lui, "il destino dell'uomo marginale è americanizzarsi". Secondo Park, i conflitti che vive l'immigrato e la sua situazione di dicotomia morale di doppia appartenenza, si risolveranno nel tempo con la sua piena "americanizzazione" (Fernando Torres, 2011). Quindi è possibile citare alcune delle caratteristiche del locus sociale dell'immigrato o straniero: una persona che si trova allo stesso tempo dentro e fuori dal gruppo, che combina la prossimità fisica e la distanza sociale con una condizione che non è né temporale né permanente. Questo spiegherebbe il fatto che ci siano stranieri che non sono considerati immigrati e bambini nati nella nazione accogliente che invece vengono così definiti. L’integrazione sociale dell'immigrato può dipendere da diversi elementi: lo status legale, l'apparenza fisica, la classe sociale, il tipo di lavoro o il quartiere dove abita. Ma ha pure una forte dipendenza della distinzione dentro-fuori che caratterizza questa condizione e che si costruisce "in funzione degli interessi di quello che fa la dualizzazione" (Delgado, 1997: 11). Questa costruzione sociale è anche il risultato di leggi e politiche pubbliche, del tipo di inclusione socioeconomica, delle pratiche sociali e amministrative, della visione dell'immigrazione in un momento concreto e delle dinamiche sociali che caratterizzano questi diversi fattori. Sembra facile allora semplificare in qualche modo la differenza che si fa nelle società sviluppate su chi è considerato immigrato e chi è considerato invece straniero. Fino a qualche anno fa, questa distinzione corrispondeva alla provenienza di una persona dal primo o terzo mondo, o da paesi centrali e periferici, o da comunitario e non comunitario. Oltre all'origine geografica, quest’ultima denominazione incideva pure nel trattamento delle persone dal punto di vista giuridico-amministrativo nell'UE-15. Queste persone, come già abbiamo commentato, godevano, e godono, del diritto della libera circolazione dentro lo spazio Schengen; lavorano senza necessità di un'autorizzazione specifica, possono accedere alla funzione pubblica, votare nelle elezioni comunali e non sono oggetto delle disposizioni di legge sulla
di inclusione degli immigrante che le politiche pubbliche dovrebbero promuovere (Fernando Torres, 2011). 32
immigrazione. Di conseguenza, essi condividono numerosi diritti con i connazionali. In ogni caso, la differente situazione sociale ed economica tra gli uni e gli altri membri dell'Unione Europea hanno un’influenza in proposito. Le maggiori risorse e il maggior grado di stabilità economica di alcuni paesi permettono ai loro emigranti un'inclusione di qualità e limitati problemi per ottenere una casa o un posto di lavoro qualificato. Quelli provenienti degli Stati Uniti, Canada o Giappone non hanno la condizione di comunitari, ma dato che provengono da nazioni sviluppate e con una buona tradizione economica non soffrono i principali impedimenti della normativa sull'immigrazione. Tutti questi "stranieri" godono di un certo prestigio e simpatia sociale. A grandi linee, possiamo quindi dire che parte degli immigrati che arrivano in un paese, a causa dell’ormai menzionato fenomeno della fuga dei cervelli, sono percepiti dalla società accogliente come "stranieri", in quanto qualificati e ritenuti, quindi, risorse. Invece, quelli che provengono da paesi tradizionalmente poveri, vittime degli stereotipi di povertà sociale ed economica associate al paese, sono più generalmente visti come "immigrati". Perciò bisogna sottolineare l'importanza dello status socioeconomico dell'immigrato, dato che negli ultimi anni, in conseguenza della globalizzazione e dei successivi allargamenti dell'UE, molti europei che migrano dall'est all'ovest Europa (come rumeni, bulgari o polacchi) hanno profili di età, motivazioni e processi di inclusione molto differenti da quelli dei cittadini provenienti da paesi incorporati nell'UE prima del 2004. Sebbene abbiano lo status di comunitari, il loro processo di integrazione assomiglia a quello degli immigrati dei paesi poveri e/o emergenti. Questi individui suscitano minore simpatia rispetto al primo tipo di immigrati e provocano una reazione ambigua da parte della società occidentale d'accoglimento, quasi un misto di necessità e diffidenza. a) Il fenomeno della ‘transculturazione’ e la crisi identitaria Come conseguenza dei continui spostamenti transnazionali di persone e risorse, negli ultimi tempi siamo testimoni della creazione di spazi e identità transnazionali o sovranazionali. Insieme a questo processo di globalizzazione ci troviamo a concepire e a vivere la cittadinanza con nuove forme, nuove identità e nuove concezioni dello spazio, che mettono in discussione la tradizionale composizione della popolazione nazionale. La concezione di "transmigrante" vuole riflettere la realtà di persone che appartengono a un’unità familiare situata in due o più Stati, che mantengono relazioni sociali ed economiche trasversali e che si trovano all'interno di comunità sia nel luogo di nascita che in quello di accoglimento. Sono persone multiculturali che vivono questa doppia o tripla appartenenza
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come un nuovo modello di cittadinanza. Questo è il famoso processo di "transculturazione". Com’è esplicato in un articolo di Jose Antonio Zamora 14: "Lo spazio transnazionale si costituisce nel contesto della globalizzazione e dipende dall’ampia mobilità di capitali, mercanzie, informazione e servizi ad essa associati. È in relazione con un cambio di modello delle migrazioni osservabile in spazi inter-statali con una lunga esperienza dei flussi migratori. Le migrazioni multiple e pluridirezionali si sostituiscono alla migrazione classica: sono persone che vanno da un paese all'altro, tornano e ripartono, in molti casi illegalmente, e che gestiscono contatti e relazioni con entrambi lati della frontiera. Le reti migratorie create in questi spazi permettono una dissoluzione o al meno una debilitazione delle appartenenze e delle attribuzioni esclusivamente nazionali. Vincolano e trasportano persone, beni, valori, simboli e informazione tra diversi spazi e Stati e conformano l'identità di quelli che vi si integrano in modo diverso dai referenti esclusivamente nazionali." Insieme alla "transculturazione" c'è anche il processo della "aculturazione", in cui la persona progressivamente perde, o mette in disparte, gli elementi culturali che erano in precedenza all'origine della sua personalità e identità. Sebbene il grado di adattamento alle nuove destinazioni dipenda in parte dall'età di una persona quando emigra, è quasi impossibile riuscire ad avere un adattamento pieno e rinunciare completamente, o piuttosto dimenticare, alcuni valori che si posseggono grazie alla cultura da cui proviene 15. Storicamente, sin dal XV secolo, durante le conquiste dei territori americani, lo scontro tra le culture indigene e quelle occidentali fu così profondo che né gli uni né gli altri furono capaci di assimilarlo completamente. In questo sforzo di voler capire gli altri, entrambi non fecero altro che proiettare le loro credenze, certezze e aspettative sul prossimo. Durante la conquista gli americani privavano gli indiani della loro cultura (processo di aculturazione) con l’obiettivo di imporne loro una nuova (processo di transculturazione). Ma non tutti i valori si persero completamente. Da un punto di vista etnoletterario, siamo testimoni della visione che gli indigeni avevano dell'arrivo dell'uomo bianco e della cultura imposta loro durante i periodi di conquista. Questo è il caso della cultura Maya, dei libri di Chilam Balam, con le predizione di Katun 11 Ahau. Questi testi ci raccontano non soltanto come questi popoli fossero consapevoli dell’evento storico che dovevano affrontare ma, soprattutto, la preoccupazione 14
Zamora, José Antonio. “Globalización y migraciones. Una mirada desde Europa solidaria con el Sur”, 2013. 15 Nel campo della storia delle relazionI internazionali, questo approccio corrisponde alla teoria del costruttivismo. 34
per l'avvenire della loro civilizzazione e della loro cultura 16. Attraverso la trascrizione e la trasmissione scritta di queste preoccupazioni, gli indigeni riuscirono a rivitalizzare le loro tradizioni, al di là della perdita causata dalla distruzione e dalla soppressione di una larga parte dei loro patrimoni culturali (templi, biblioteche, pitture, etc.); uno spazio vuoto che sarebbe stato riempito di nuovo con una nuova cultura. b) Ostacoli culturali e religiosi Attualmente sappiamo che il contatto tra diverse culture può generare conflitti interni ed esterni, al di là delle discrepanze tra leader politici di diverse nazioni. Nel mondo contemporaneo, come enunciato nella tesi di Samuel Huntington del 1993, siamo testimoni di uno "scontro di civiltà", dove le identità culturali e religiose sono la fonte primaria di conflitto. Negli ultimi anni si è scatenato un ampio dibattito sull’identità, per costruire un’idea comune del "noi" nei diversi paesi. Un esempio è il caso della Francia nel 2009 con l'iniziativa del governo di chiedere ad ampi settori della popolazione francese cosa intendessero per “identità nazionale”. Quando questa identità è profondamente interiorizzata nei cittadini, può provocare un certo rifiuto sociale nei confronti di quelle persone che vivono intorno (prossimità fisica) ma che non si identificano come simili (distanza culturale). Diversi pensatori europei hanno affermato, ad esempio, il carattere inintegrabile degli immigrati di tradizione musulmana. A questo proposito occorre menzionare Sartori (2000) che affermò: "La civiltà occidentale e l'Islam sono incompatibili" giacché esiste una contraddizione irresolubile tra i princìpi democratici e liberali e il fondamentalismo e l'estremismo che caratterizzano questa religione 17. Lasciando da parte il radicalismo della tesi di Sartori, nell'ultimo decennio si è diffusa la concezione di "distanza culturale" secondo cui, i gruppi più prossimi alla nostra cultura, sono quelli di più facile integrazione mentre, i più lontani dal punto di vista culturale, sperimentano un adattamento più problematico ed incerto. Questo è vero in una certa misura, senza dover però generalizzare poiché intervengono tanti altri fattori intrinsechi che riguardano i paesi di origine, la società di accoglimento e la capacità di adattamento del proprio immigrato. È ovvio che la conoscenza della lingua, i valori e le norme di funzionamento di una società
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Salazar Cataluña, Leticia. “La transculturación, génesis de nuestra identidad y un camino hacia la globalización”. Universidad de Concepción Chile. Fonte consultata il 30 dicembre 2013. 17 In accordo con questo autore, il carattere teocratico e fondamentalista dell'islam, per quanto riguarda all'inadempimento dei diritti umani, della posizione subordinata della donna, etc., induce le persone di tradizione islamiche incapaci di adattare la loro vita religiosa con i valori liberali e democratici che regnano nelle società occidentale. Diventano "aperti e aggressivi nemici culturali" (Sartori, 2000: 54). 35
facilitano l’inclusione dell’individuo, non appena questo acquisisca una formazione internazionale. Ciò nonostante, questo fatto non è sempre giustificato. È interessante l'esempio menzionato da Francisco Torres (2011, 52): a metà degli anni ‘90 Tribalat (1996) fece un ampio studio su giovani francesi di diversa origine. I "beur", di origine magrebina, sebbene abitassero nelle periferie delle città, la banlieu, e venissero considerati ‘rifiuti’ da parte dell'opinione pubblica francese, non erano molto diversi, per abitudini ed atteggiamento (pratica religiosa, lingua, elezione del partner, matrimoni misti, etc.), dagli stessi cittadini francesi. Quelli di origine cinese invece, avevano atteggiamenti molto più lontani dalle abitudini e tradizioni francesi, quindi una "distanza culturale" maggiore, malgrado provenissero da quartieri migliori, da famiglie benestanti ed avessero ottenuto migliori risultati a scuola. Quindi, anche se parliamo di problemi culturali di inclusione degli immigrati, questi problemi si verificano per determinate culture e non altre. Generalmente si considerano atteggiamenti negativi quelli che sono visti come sconvenienti per una buona convivenza del gruppo, contrari quindi ai valori occidentali o che diluiscano l'identità sociale nazionale. Un esempio potrebbe essere la presunta incompatibilità tra la tradizione musulmana e la separazione chiesa-stato, parità di genere e autonomia personale, tre valori considerati essenziali nelle società occidentali. Anche negli Stati Uniti, il politologo Huntington (2004) mette in discussione l'uso della lingua spagnola dei migranti latino americani poiché è contraria al modello anglosassone, protestante e anglofono, e lui considera la lingua inglese un elemento costituivo dell’America (Fernando Torres, 2011: 53). In altri casi, anche gli stereotipi svolgono un ruolo fondamentale: la cattiva integrazione di un certo gruppo sociale proietta o rinforza una valutazione negativa dei loro membri e della loro cultura. Un esempio molto chiaro è la popolazione di origine musulmana che suscita un certo rifiuto da parte della società occidentale giacché molte persone identificano questo gruppo sociale con gli autori degli attentati di New York, Madrid e Londra compiuti nell’ultimo decennio. Una volta che questo clichè negativo, dovuto alla differenza culturale, si è diffuso, mette radici nella società e si interiorizza negli stessi cittadini, agendo come un catalizzatore di discriminazione quotidiana verso i membri dell’altro gruppo. c)
Ostacoli linguistici
È interessante insistere sull'importanza della conoscenza della lingua del Paese di destinazione affinché l'inclusione nella nuova società sia buona. All'arrivo in un nuovo Paese, l'immigrato deve fronteggiare una nuova società, nuove tradizioni, nuove abitudini, nuovi 36
ritmi di lavoro, nuovi posti e nuove leggi che in misura maggiore o minore sono a lui sconosciute. Se a questo aggiungiamo l'estraneità della lingua e il conseguente rischio di malintesi, l'inclusione può diventare veramente complicata. Come diceva Wittgenstein: "i limiti della mia lingua sono i limiti del mio mondo". Infatti, non sarà mai possibile capire veramente una cultura se non si conosce la lingua parlata. Le capacità di comunicazione sono fondamentali nel processo di integrazione. Gli immigrati che ignorano o non dominano bene la lingua del Paese di destinazione avranno più difficoltà nel capire e riprodurre gli atteggamenti culturali, usare i servizi pubblici, chiedere assistenza sanitaria, seguire una formazione educativa ecc. Inoltre, questa è una delle condizioni indispensabili in numerosi Paesi per ottenere un permesso di lavoro, di residenza o lo status di cittadinanza. Attualmente sembra che questo tipo di difficoltà si siano alleviate grazie all'universalizzazione della lingua inglese, che ha guadagnato terreno rispetto a quella francese, nel passato considerata la lingua della diplomazia. Le generazioni più giovani, specialmente più qualificate, tendono allo studio dell'inglese quale condizione essenziale per trovare un lavoro, tenuto conto della crisi del mercato del lavoro internazionale, perfino all'interno del Paese stesso. L'obiettivo principale di ogni immigrato è la ricerca di un lavoro che garantisca un reddito sufficiente per vivere, realizzare i propri progetti o aiutare finanziariamente la famiglia di origine, sia nel Paese di origine che in quello di destinazione. Per questo motivo, se non conoscono la lingua nazionale del Paese di accoglimento, gli immigrati qualificati, specialmente “i cervelli in fuga” quelli protagonisti del fenomeno della “fuga dei cervelli”, di solito usano l'inglese per comunicare. Ma l'inglese è sufficiente? Certamente, questa lingua è diventata una risorsa estremamente utile nel mondo della globalizzazione, valida praticamente in ogni Paese. Questa risorsa facilita l'interazione tanto quanto una moneta comune, quale l'Euro. Purtroppo anche quando si unifica o si scambia una divisa straniera é possibile che si perdano certi valori aggiunti o si alterino i risultati. Sebbene l'inglese sia universalizzato, il suo utilizzo tende a essere maggiore tra le generazioni più giovani, giacché per quelle precedenti esso non ricopriva l'attuale status prioritario. Proprio per questo, nel caso in cui si utilizzi esclusivamente questa lingua per comunicare, in molti casi alcuni segmenti della popolazione di destinazione, quali le persone più anziane, sono irraggiungibili. Allo stesso modo, si rende impossibile l’inserimento di professionisti nei settori più tradizionali, limitando la loro applicazione professionale alle industrie più globalizzate o orientate verso un panorama internazionale. Questo ha un'incidenza nei processi di sviluppo ed espansione di un Paese –un processo a cui 37
dovrebbero, come abbiamo detto, contribuire infatti gli immigrati– a seguito del rallentamento della crescita demografica in diverse società sviluppate. Questo provoca quindi un invecchiamento e stagnamento nelle industrie più tradizionali e meno qualificate. Dopotutto, si tratta di un circolo vizioso: quando un immigrato può permettersi di vivere in un Paese utilizzando unicamente la lingua inglese invece di quella autoctona, non si preoccuperà nella maggior parte dei casi di imparare la lingua autoctona, specialmente se il suo soggiorno nel Paese ha un carattere transitorio. Tutto questo facilita la formazione di comunità di "espatriati", in cui gli immigrati hanno relazioni sociali unicamente con persone che si trovano nella loro stessa situazione (altri espatriati che parlano l’inglese o persone con cui si può comunicare comodamente nella lingua di origine comune ad entrambi) oppure autoctoni che vivono una situazione simile alla loro (lo stesso ambiente lavorativo internazionale, persone che parlano una seconda lingua, ecc.). Questa situazione poi si riflette nei processi di segregazione urbana, processi che portano gli espatriati ad abitare in aree con un livello di vita molto superiore o molto inferiore a quello della classe media autoctona. Inoltre, la lingua è divenuta in tanti casi un segno di rispetto o rifiuto di fronte alla società di accoglimento: ad esempio lo spagnolo era qualche tempo fa la lingua dei ricchi a Barcellona, quella dei poveri negli Stati Uniti. Allo stesso modo, l’arabo era la lingua dei ricchi negli Emirati Arabi, ma si identificava con la lingua dei poveri in Francia. Tutti questi fatti riflettono molto bene la dualità di identità provata dagli immigrati, che non sono in grado di esprimere pienamente la loro cultura di origine data la necessità di convivere con altre convinzioni, e neanche di interiorizzare e riprodurre la cultura autoctona. A seguito di queste circostanze, è evidente che non può esserci un'integrazione piena e che l'acculturazione e transculturazione siano sempre più acute. d) Conflitti di convivenza e conseguenze di una cattiva integrazione A seguito del fatto che, in generale, si consideri la cultura occidentale come caratterizzata da uno sviluppo superiore al quale è possibile avere accesso facilmente, gli immigrati si precipitano ad entrare nel nuovo mercato lavorativo e si adeguano alle gerarchie più basse dei lavori non qualificati nella speranza che questa condizione cambi rapidamente. Le aspettative, in molte occasioni, contrastano con la situazione attuale dei Paesi sviluppati, dove la crisi delle economie provoca l'impossibilità per essi di raggiungere il livello di infrastrutture o produttività necessarie per accogliere debitamente così tanti immigrati in così poco tempo, educarli convenientemente o offrire loro un posto di lavoro adeguato al grado di qualifica. Si 38
può parlare quindi di "conflitti di convivenza", giacché le aspettative contrastano con le realtà esistenti. La situazione economica e il mercato del lavoro precario, la predisposizione negativa della comunità accogliente verso l'immigrazione a causa degli stereotipi sulla comunità di origine, oppure la sensazione di "diverso" per il colore di pelle, etnia o religione, possono far si che gli immigranti si sentano o siano veramente discriminati nel momento in cui essi accedano a servizi pubblici o diversifichino le loro relazioni sociali. Il fatto di non saper seguire il tipo di vita previsto può provocare un sentimento di frustrazione profonda. Questo colpisce specialmente le seconde e terze generazioni di immigrati, che da un lato sembrano essere più flessibili nell'assorbire i modelli dei Paesi di accoglimento ma, dall'altro, corrono il rischio di non sentirsi accettati a causa della contraddizione esistente tra la tradizione della loro famiglia e l’ambiente dove abitano, e di non potere aspirare a lavori e opportunità differenti da quelli ereditati dai loro genitori. Queste persone fanno registrare un maggior tasso di disoccupazione e una condizione socioeconomica che li rende più dipendenti dai sussidi e servizi pubblici, fattore che inoltre facilita attitudini xenofobe. Tutto questo può generare comportamenti regressive e reattive attraverso i quali gli immigranti riaffermino le tradizioni e gli atteggiamenti dei loro genitori e Paesi di origine ed entrino in conflitto o rifiutino le culture autoctone. In questo caso, lo straniero diventa introspettivo e non vuole integrarsi, copiando i modelli della propria cultura e rifiutando i valori autoctoni. Questi problemi si retroalimentano negli spazi di segregazione urbana, connotati negativamente, dove abitano gli immigrati e le loro famiglie. Tutto questo si traduce in una discriminazione quotidiana, sottile ma permanente, che rende ancora più difficile la "normalizzazione" dei processi di integrazione dell'immigrante. e) Fattori e attori che intervengono nel processo di integrazione Sintetizzando, la varietà di fattori che intervengono in un processo di inclusione di immigrati nelle nuove destinazioni possono essere raggruppati in tre categorie. In primis, i fattori economici che riguardano la struttura produttiva e il mercato del lavoro, che fissano le opportunità e i limiti per trovare un posto di lavoro, raggiungere l’ autosufficienza economica che permetta agli immigranti di partecipare nei processi dei consumi della società e, nel migliore dei casi, con sforzo e tempo, che facilitino una mobilità sociale ascendente. Secondo, i fattori istituzionali, ovvero la normativa relativa agli immigrati, i programmi di integrazione, le politiche pubbliche relative all'educazione, la salute, l'alloggio e, soprattutto, l'acquisizione della cittadinanza. Infine, i fattori sociali, che riguardano la visione sociale dell'immigrazione 39
o di quella comunità particolare di immigrati (in funzione della nazionalità o la posizione socioeconomica del Paese di origine, razza, religione, cultura, ecc.). Quindi si può dire che nel processo di inclusione intervengano due attori fondamentalmente inter-relazionati: la società di accoglimento e l'immigrato in sé, categorie chiaramente non del tutto omogenee. La società di accoglimento occupa la posizione dominante, mentre gli immigrati occupano una posizione "inferiore" giacché costituiscono una minoranza, strana e straniera. Allo stesso modo, la responsabilità di questi due attori è differente: l'immigrato deve sempre sforzarsi di integrarsi nella nuova società nel miglior modo possibile, ma affinché il processo di inclusione abbia successo, non generi sofferenza o tensione non necessarie e si svolga con livelli minimi di qualità democratica, la società ricettrice deve prendersene anche cura. f) I fondamenti di una buona integrazione A questo proposito bisogna chiedersi che tipo di integrazione si vuole nei Paesi ospitanti e come far sì che quello che consideriamo più giusto, adeguato, conveniente e conforme ai diritti umani si rifletta nelle politiche di immigrazione e integrazione dei Paesi ospitanti. Oltre alla definizione del locus sociale ed alle condizioni dei nuovi cittadini, un concetto normativo di integrazione degli immigrati è indissolubile dal concetto di ciò che è “desiderabile” per la società di accoglimento. Come già commentato, il processo di inclusione degli immigrati fa parte del processo interminabile di costruzione e ricostruzione delle nostre società. Perciò, l'espressione "problemi di integrazione" ci porta ai problemi, ai cambi e alle sfide mal risolte presenti in seno alle società di accoglimento. È essenziale promuovere un'educazione che contribuisca a superare gli stereotipi, cliché e pregiudizi verso le minoranze, giacché la generalizzazione è, quasi sempre, un errore. La concezione di integrazione è stato oggetto di diverse tentativi di definizione. Per Penninx e Martiniello (2006) l'integrazione sarebbe "il processo attraverso il quale si diventa parte accettata della società". L'accettazione è certamente essenziale, ma non ci dice nulla sulle condizioni della inclusione (Torres, 2011). Dal lato della politologia, Zapata (2004) propone il termine di "accomodamento" come relativo ad una situazione in cui le relazioni tra immigrati e autoctoni, con le differenti sfere pubbliche, siano indipendenti dalla loro nazionalità, colore di pelle, condizione giuridica o tratto preferente (Zapata, 2004: 217). Torres (2011) propone una concezione dell’integrazione basata sui contributi di altri autori spagnoli – De Lucas (1998), Delgado (1998) e Giménez (2003), tra gli altri–. La definisce quindi come il processo 40
di incorporazione degli immigrati nella società di accoglimento con parità di diritti, doveri e trattamento, senza che questo implichi la rinuncia alla cultura di origine. Questo sfocia in una convivenza interculturale mediante la quale essi possono partecipare attivamente alla società prendendo parte, come gli altri membri del gruppo, alla vita sociale, economica, culturale e politica della sua nuova società. Il primo aspetto fondamentale per lo svolgimento di un buon processo di integrazione è la parità, in senso normativo e dal punto di vista sociale. I governi devono formulare politiche che lottino contro la diseguaglianza e le tendenze alla frammentazione e l'esclusione sociale. L'esempio e l’esperienza storica più solida è quella dello stato del benessere, con politiche pubbliche in materia di educazione, salute, alloggio e incremento del lavoro le quali devono indirizzarsi anche verso gli immigrati. L'universalizzazione dei diritti è fondamentale, sebbene ci siano state critiche poiché l'omogenizzazione si è fatta in base alla cultura dominante (occidentale). E' poi importante insistere sulla differenza tra parità nelle legge e parità nel trattamento sociale, perché anche nei Paesi con una normativa evidentemente favorevole agli immigrati, l'accettazione o la parità di diritti riconosciuti su documenti legali si materializza raramente nella realtà. E' perciò fondamentale il rispetto del pluralismo culturale che apporta l'immigrazione. La tolleranza è necessaria ma non sufficiente. Le popolazioni devono rendersi conto e accettare che i processi migratori che hanno segnato la storia dell'uomo nelle ultime decadi siano ineludibili e che oggigiorno si viva in società irrimediabilmente multiculturale. Di fronte a questa realtà, vivere al di fuori di questa multiculturalità è controproducente invece che vantaggioso, perché il pluralismo può costituire un arricchimento per tutta la società. Difatti, è da tempo che ogni Paese è consapevole della necessità di creare politiche di immigrazione, intese come regolamentazione dei flussi di ingressi, insieme a politiche di integrazione, relative alle possibilità di acceso ai diritti degli immigrati nei paesi di arrivo. Sono realtà separate. Le politiche di integrazione fanno parte dell’agenda politica di ogni governo, ma vengono continuamente ritoccate a seconda delle contingenze. In Francia, ad esempio, si è messo in moto un modello assimilazionista, in base al quale i nuovi arrivati dovevano divenire francesi a tutti gli effetti, lasciando dietro le loro particolarità della cultura di origine. In Gran Bretagna e Olanda, si è applicato un modello più pluralista, incentrato nella considerazione di atteggiamenti diversi a quello degli autoctoni. Ciò nonostante, entrambi i modelli sono sfociati in atteggiamenti sgradevoli. La soluzione è sempre la 41
promozione di un equilibrio tra assimilazione e pluralismo. Come dice Fraser (2001: 49) è necessario prendere in considerazione una concezione pluridirezionale della giustizia che possa mediare tra le domande di uguaglianza sociale e quelle di riconoscimento delle differenze. In seno alla comunità, il riconoscimento del pluralismo culturale include anche il fatto di accettare, ricreare e dare continuità alle caratteristiche culturali specifiche, significative e considerate pregiate per il gruppo o la comunità immigrata, compresa la lingua o una determinata tradizione o religione (Torres 2011: 59). Possiamo aggiungere, sempre che l'applicazione di questi valori o la domanda di diritti non rappresentino una posizione di dominio sugli altri gruppi, che non siano contraddittori con l'autonomia o limitino le libertà individuali dei membri della società di arrivo o che non mettano in discussione fondamenti della cultura pubblica comune. In altre parole, che non abbiano un'incidenza negativa sullo sviluppo normale delle società in contatto. Questa cultura pubblica comune deve fare riferimento ad un'identità e ad un progetto di società condivise, che non può identificarsi né unicamente con il passato né con il gruppo maggioritario, giacché escluderebbe le minoranze e quelli arrivati più tardi. Si percepirebbe come un'imposizione: deve anzi raccogliere il contributo dell'immigrazione e le nuove dinamiche che questa genera nella società comune. Le identità specifiche devono essere riconosciute ma attenuate, neutralizzando i loro aspetti più conflittuali e legittimando le identità miste. Così, da un lato si facilita la permanenza di questi aspetti –se questo è desiderio dei loro membri– e, dall'altro, si promuovono identità e lealtà comunitarie che lascino spazio allo sviluppo dell'autonomia dei loro membri e alla sua inclusione e partecipazione in tutta la società (Torres, 2011).
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7. CONCLUSIONI La storia dell’uomo è stata caratterizzata da una costante mobilità di singoli, di gruppi e a volte di popoli interi, da quando i primi ominidi abitavano il nostro pianeta –i nomadi che si spostavano alla ricerca di una migliore condizione di vita– fino a quando i colonizzatori dei secoli XV-XVI, stimolati dalla curiosità di esplorare nuovi territori, hanno migrato con interessi quasi sempre commerciali, economici o politici. Con la successiva formazione degli stati e delle nazioni, il vincolo offerta-domanda di mano d'opera tra diversi paesi è stato la principale motivazione perché milioni di persone si trasferissero, in maniera temporanea o definitiva, da un paese all'altro e, nella maggioranza dei casi, da un continente all'altro. Da un lato, verso l’America, per effetto dell’esaurimento del mercato del lavoro europeo dovuto all'industrializzazione nel XIX secolo; dall’altro all'interno dell'Europa viste le restrizioni nell'accoglienza di immigrati negli Stati Uniti e la necessità di mano d'opera per riattivare l’economia ed avviare la ricostruzione degli Stati europei a seguito delle guerre mondiali. Nel XXI secolo, il fenomeno della globalizzazione è senza dubbio quello che ha contribuito maggiormente a far sì che milioni di persone abbiano cambiato la loro residenza. Dal Sud al Nord, prevalentemente con l'intenzione di migliorare la loro situazione di povertà, giacché da una parte, i mezzi di comunicazione proiettano gli stili di vita occidentali basati sulla società di consumo e sul benessere e, da un'altra parte, la riduzione dei costi di trasporto rende più accessibile la possibilità di raggiungerle. Ma negli ultimi anni si è anche registrato un elevatissimo grado di flussi migratori in altre direzioni, grazie agli accordi regionali che facilitano la libera circolazione di persone e alla recente crisi economica che colpisce i paesi del Nord. Questa crisi ha provocato che gli stessi cittadini, per lo più altamente qualificati, si vedano obbligati a partire per l'estero e così trovare un lavoro adatto alla loro istruzione (fuga dei cervelli). Come conseguenza di tutti questi flussi migratori, è inevitabile che oggigiorno condividiamo le nostre società con persone provenienti da paesi, tradizioni e valori culturali diversi (etnie, religioni, lingue). La multiculturalità è presente in tutte le regioni del mondo, e in quanto facenti parte di una società, è fondamentale che tutti contribuiamo a fare in modo che gli appena arrivati –nonché le loro secondo e terze generazioni– possano integrarsi in essa del modo più adeguato e giusto. Nei secoli passati, l'integrazione degli immigrati era un po' più semplice, poiché tutti appartenevano alla mano d'opera urbana-operaia e imperava una certa tolleranza e solidarietà di classe. Invece, nel presente il contesto è cambiato, e la modernizzazione e la liberalizzazione dei mercati hanno favorito l'individualismo e 43
l'etnocentrismo. Questi elementi possono scatenare atteggiamenti di chiusura reciproca e a volte eventi spiacevoli se non si è in grado di superare gli stereotipi storici nei confronti di entrambe le comunità. Dato che la presenza degli immigrati ci coinvolge direttamente, bisogna promuovere una mentalità ed una politica di integrazione basata sull'assimilazione di una cultura pubblica comune da parte di tutti i gruppi nonché una coscienza che riconosca la ricchezza che l'immigrazione –e la pluralità culturale da essa derivata– apporta alle nostre società.
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