Sperando che l’iniziativa sia gradita ai miei amici e all’Editore, pubblico qui la mia introduzione al volume Utet Grandi Opere dedicato ai Giubilei (http://utetgrandiopere.it/index.php/catalogo/item/giubileispiritualitastoriacultura), che viene presentato il 22 giugno alle ore 18.00 (Ambasciata d’Italia presso la santa Sede Viale delle Belle Arti 2, Roma) (http://www.agenparl.com/romautet-presentazione-volume-giubileispiritualita-storia-cultura/).
INTRODUZIONE Dell’impianto dell’opera e del suo indice ha detto Andrea Pollarini, che la ha diretta insieme a me, con l’aiuto fondamentale di Luca Massidda e Bruno Restuccia: si è trattato di costruire una sequenza di interventi mirati a comporre in un mosaico – nei limiti delle nostre forze quanto più possibile esaustivo – i tanti fatti materiali e immateriali che si sono prodotti nel mondo in virtù della lunghissima durata e fortuna di quella straordinaria invenzione del cristianesimo cattolico che fu, è stata e continua ad essere il Giubileo, almeno in termini di annuncio e promessa quand’anche non interamente realizzata. Dico fatti in quanto frutto degli atti che nel corso del tempo vi si sono prodotti (appunto atti e fatti furono similmente quelli compiuti dagli Apostoli nell’edificare il Cristianesimo nel mondo e nella sua storia di evangelizzazione). Dico fatti in quanto eventi che risultano storicamente verificabili, attestati, in base alle moltissime opere e fonti documentarie che hanno lasciato nella memoria scritta e nella civiltà urbana. Anche in quanto tradizione delle interpretazioni compiute, fatte, sui contenuti sempre di nuovo emergenti dalle fonti stesse e dal loro proliferare in tempi e luoghi diversi. Dunque verifica inesausta delle interpretazioni cresciute dentro e fuori della fede cattolica; verifica sempre “ultima” e sempre “prima”, dal momento che l’apertura e la chiusura di un Giubileo sono e insieme non sono nel tempo lineare della storia. Infine, straordinaria conseguenza di così tanti fatti d’ambito religioso e politico è stata anche la qualità e quantità di fatti generati dallo sviluppo secolare dei Giubilei, dalla loro idea e forza ispiratrice, in ambito mondano ovvero sociale, economico, territoriale.
Infine, ed è la chiave del testo elaborato nello specifico da Andrea Pollarini, nell’ambito di opere e modalità di consumo che hanno inventato il turismo di massa, quantomeno le sue basi emotive e vocazionali, nonché i suoi frutti venali, ben prima che l’aristocrazia e borghesia europea inventasse a sua volta il Gran Tour come dispositivo destinato alla formazione delle élites. E come verifica, messa in prova, del ruolo avuto dai Giubilei nel creare la fortuna dell’Italia come un insieme di beni culturali, antichi e moderni, unico nel mondo. Qui, intendo ricavare un significato particolare proprio dalla considerazione appena fatta riguardo al Giubileo come uno dei principali dispositivi della funzione specificamente formativa che, grazie alle risorse materiali e spirituali di cui ha potuto disporre, è stata assolta dalla Chiesa di Roma. Si è trattato di una formazione della persona direttamente praticata attraverso strumenti non solo “scolastici” e “dottrinari” ma soprattutto esperienziali. Questa scelta formativa le ha concesso di svolgere in più luoghi, in più occasioni e tempi, un ruolo a suo modo alternativo alla formazione identitaria e sociale dell’individuo. Anche quando – e forse in qualche caso soprattutto quando – tale funzione è stata definitivamente raccolta dall’educazione e istruzione pubblica delle istituzioni statali in nome di una sovranità laica e non più celeste. Quanto più mondanizzata, essa sarebbe sempre più entrata nell’orbita di una tradizione sapienziale tendenzialmente separata dalle pratiche della vita quotidiana. Tradizione che andava impartita – appunto trasmessa, tradotta e divulgata – al fine strumentale di formare le persone educandole a identificare il proprio singolo corpo con il corpo della società, condizione necessaria al loro inserimento nella collettività. Di contro, gli strumenti culturali in possesso della Chiesa – pur costituendo il cuore stesso della sapienza occidentale – erano in grado di offrire immagini e ambienti formativi multisensoriali capaci di colpire direttamente l’immaginazione e le passioni della persona. Negli affreschi delle chiese, erano l’oralità e l’immagine a trionfare, a far credere. Ecco: i Giubilei nascono dal quello stesso linguaggio, educano la persona, inducono l’individuo ad essere partecipe della Chiesa attraversando la persona. La persona attraversa il Giubileo e ne è attraversata facendone esperienza. E’ dunque giusto riconoscere in questa esperienza una clamorosa anticipazione dei contenuti
vocazionali dell’industria del turismo contemporaneo. Un dispositivo formativo che sfrutta percorsi, opere, rituali. Muovendomi ai margini dell’apparato tematico offerto dal presente volume, è proprio a questa differenza tra formazione della persona e formazione del soggetto sociale che qui intendo riferirmi per toccare alcuni temi sollevati dall’informazione e dall’opinione pubblica, dall’alto e dal basso, intorno all’impatto del Giubileo di Papa Bergoglio con la nostra contemporaneità. Con un presente all’insegna di una crisi profonda della civiltà umana sotto ogni punto di vista: crisi globale, appunto. E’ su questa crisi, tanto universale da comprendere in sé anche l’aspirazione universalista di ogni chiesa, che Papa Francesco ha pensato di dovere aprire non una ma molte Porte. Abbiano cercato di raccogliere ogni competenza ritenuta necessaria al nostro progetto di raccontare e analizzare la storia dei Giubilei. Abbiamo vissuto questa ricerca nella sensazione che non si trattasse di ordinaria amministrazione del nostro impegno redazionale. E questo perché il contenuto di una così grande narrazione non può non avere a sua volta un suo altrettanto grande peso sulla persona oltre che sulla competenza di ciascun autore. Alla varietà degli strumenti di ricerca e analisi è corrisposta la varietà di sfumature personali – spesso tuttavia essenziali – con cui tutti gli autori convocati in questo volume Utet hanno risposto al nostro invito ad esprimersi su un fenomeno storico, religioso e sociale, simbolicamente così eclatante e umanamente così impegnativo: una catena centenaria di eventi tanto ricca di contenuti vissuti in profondità – là dove alberga il desiderio di salvezza e la speranza di sopravvivenza che sono propri di ognuno, laico o religioso che sia – da coinvolgere la loro stessa biografia personale, più o meno direttamente intrecciata con la perseverante ricorrenza di una immaginazione del mondo ritenuta senza eguali da così tante persone e tanti popoli. Non da tutti, anzi, ma certamente tutti quelli educati dalle e alle sorti dell’Occidente. Esplicitamente o implicitamente, ogni nostro autore si è dunque interrogato anche sulle molteplici forme di autorappresentazione delle altre religioni della storia passata e presente. E al contempo ha dovuto valutare la sostanza, natura e attuale condizione dei suoi rapporti con le grandi ideologie del Novecento, per potere entrare nel merito della parola “misericordia” e chiedersi su cosa essa abbia a che
vedere con la parola “fraternità”, da molti percepita, anche dallo stesso Papa Francesco, come la grande assente nella sensibilità dei contemporanei, credenti e non credenti che siano. Tutto questo lo dico per affermare che – riguardo all’impasto tra personalità laiche e personalità religiose variamente coinvolte, impasto difficile e sicuramente problematico, dato l’argomento – ci è sembrato possibile ed anzi giusto affidarci appunto alla personalità di ciascuno degli autori. Ci è parsa la cosa migliore che potessimo fare per dare conto della eccezionale misura dell’impresa. E colgo qui l’occasione per dire – a nome nostro e della Casa Editrice, e non alla fine ma in principio di queste note introduttive – quanto noi si sia grati a tutti di avere accettato di partecipare al nostro lavoro. “C’è più tempo che spazio”: questo è l’annuncio che – nella sua Lettera Enciclica “sulla cura della casa comune” (LAUDATO SI’) – Papa Francesco ha rivolto agli “uomini di buona volontà”, ai “misericordiosi” della Terra. Una affermazione che smentisce l’opinione incorsa in questo fine d’epoca, a cavallo tra secondo e terzo millennio dopo Cristo, secondo la quale il tempo si sarebbe fermato e sarebbe ora invece lo spazio a dominare la nostra vita quotidiana. Gli intellettuali europei più legati ad una visione umanistica della civiltà e del progresso – quelli che più hanno speso la loro vita andando alla ricerca dello “spirito” del tempo moderno come desiderio di liberazione dalla violenza dei rapporti di potere e dall’ingiustizia delle forme di dominio sociale – sono tornati a riflettere sui grandi temi del sacro e della morte assai più che sulla felicità e sulle magnifiche sorti del progresso. Penso a un autore come Edgar Morin che è stato tra i sociologi più inclini a ripartire dalle origini mitiche e religiose dell’immaginario collettivo per potere arrivare ai suoi sviluppi industriali e tecnologici. Dunque alle grandi questioni riguardanti il rapporto tra oggetti e metodi della ricerca scientifica, l’impegno etico e politico nel campo dei conflitti sociali delle nazioni e del mondo intero, l’unità dei popoli e delle genti, le grandi scelte sull’ambiente e le sue drammatiche condizioni. Più che drammatiche, catastrofiche. Condizioni che annunciano la fine prossima del genere umano. Gli anni contati che ha a sua disposizione e che, a volere affrontare razionalmente la loro pochezza, confermano il paradosso per cui Achille non potrà mai raggiungere la tartaruga. Penso
anche agli studiosi che – da Marshall McLuhan a Michel de Certeau e al loro erede Derrick de Kerckhove – hanno approfondito anche metodologicamente l’indissolubile legame tra comunicazione e religione. In ultimo tornerò di nuovo su questo legame mediologico e sostanzialmente teologico tra immagine e verità, riferendomi alla linguaggio di Bergoglio come comunicatore in un’epoca di massima esposizione mediatica per ogni Papa ma diversamente annunciata ora in uno slogan inquietante quanto a suo modo pubblicitario: Giubileo all’epoca dell’Isis. Il cristianesimo e in particolare quello cattolico ha bisogno delle categorie del tempo e lo dimostra il fatto che esso abbia a suo fondamento, terreno e insieme celeste, la natura simbolica e tuttavia biologica, organica, della famiglia e quindi la durata senza soluzione di continuità dei suoi cicli di rigenerazione tra vita e morte, morte e vita. Il cristianesimo è dunque tra le religioni che più hanno bisogno di vivere nel tempo finché il suo annuncio non si realizzi definitivamente. E davvero il mondo possa farsi soltanto spazio infinito. Come valutare dunque l’affermazione di Papa Bergoglio “c’è più tempo che spazio”? Allude forse a un nuovo possibile inizio della storia a partire da un mondo in cui il succedersi sempre più rapido e ansiogeno dei processi di globalizzazione – che sono anche una nuova localizzazione di sensibilità globali – sarà espresso (ed anzi è già espresso) nello spazio delle reti, unico territorio esperienziale in grado di riattivare, rigenerare il campo delle relazioni e delle scelte umane? E dunque, impedendo alle reti di ereditare le spaziature di una civiltà senza più futuro ma solo ostinato desiderio di sopravvivenza, il tempo nuovo consisterebbe nell’essere un tempo che nasce al di là del tempo vecchio dalle civiltà umane? Ma Papa Bergoglio non ha in mente le reti, ha invece in mente la visione del mondo che si sta incorporando nelle reti. Non si lascia distrarre da esse perché non può distrarsi dalla piena cognizione della tragedia umana, quella consapevolezza del dolore che i sistemi di sopravvivenza del vecchio mondo pretendono di risolvere grazie a reti e tecnicalità sociali tanto inconsapevoli della situazione in cui versano da rischiare di funzionare come sua definitiva rimozione.
Il tema dominante di questo Giubileo “straordinario” è in effetti quello dell’urgenza, categoria appunto del tempo e non dello spazio. La scena del mondo si fa sempre più buia se non viene illuminata in nome dell’urgenza di un mondo misericordioso da mettere al posto di un mondo in cui invece confliggono spaziature di senso tra loro inconciliabili: vecchi e nuovi fondamentalismi religiosi, originarie differenze etniche, opposti climi antropologici e culturali, incomparabili condizioni e stili di vita. Un mondo attraversato dalla violenza dei conflitti di potere in ogni suo territorio, dalle nazioni economicamente più sviluppate e ricche a quelle più povere e abbandonate, dilaniate le une e le altre da un violento salto, o precipizio, dalle qualità tradizionali dei regimi democratici del capitalismo occidentale alle dimensioni di una potenza finanziaria che mina le basi stesse delle singole sovranità nazionali, del rapporto tra popoli, nazioni, stato, individuo e società civile. Ma allora come interpretare non solo l’assenza ma anche, e forse soprattutto, la presenza del senso di misericordia nel Novecento e nel secolo presente che di quello appena passato sembra conservare e anzi accrescere, aumentare gli orrori (quasi che la sua definizione di “secolo breve” sia nata per mascherare la sua vera natura di secolo senza fine)? Di conseguenza come interpretare il richiamo della Chiesa Cattolica alla misericordia senza confonderlo con le rituali dichiarazioni di pace delle nazioni e delle loro istituzioni sociali? E’ allora davvero tanto scandaloso l’appello quotidiano che Bergoglio rivolge ai poveri di misericordia usando il megafono del Giubileo per inaugurare il pellegrinaggio da lui deciso proprio allo scopo di aprire la frontiera di una scelta “eretica” nei confronti non solo della società civile (ideologie, politiche, etiche, estetiche) ma persino delle religioni storiche? Compresa la sua. Il messaggio di questo Giubileo insiste sulla urgente necessità di ripartire dagli “umili” – dai beni della natura “vergine” della terra (terra: che in latino è radice etimologica della parola umile, umiltà) – e di conseguenza lancia una severa accusa nei confronti della civiltà dei consumi, dei beni effimeri delle società di mercato, del carattere irresponsabile delle sue “abitudini” individuali e collettive. Sono temi, questi, che hanno interessato i più recenti orientamenti della ricerca sociologica e filosofica. In che cosa esse si distinguono e in cosa coincidono con il punto di vista
religioso? Sono espressione di una nuova religiosità? Ma questa religiosità è aperta o chiusa al messaggio cristologico della salvezza divina? I contenuti del Giubileo di Bergoglio sono il segno di un clamoroso recupero del senso originario non solo del sacro ma anche delle istituzioni religiose, e del loro potere terreno oltre che celeste, oppure sono un nuovo poderoso salto dei processi di mondanizzazione dello spirito dell’Occidente, del suo soggetto storico e politico? E in questo caso, come interpretare il paradosso di un estremo gesto di sopravvivenza o addirittura di apertura a un mondo radicalmente nuovo pur abitando, continuando ad abitare, dentro le rovine del vecchio mondo? Forse si è di fronte alla conferma di una mondanizzazione che ha sempre al proprio interno, rilanciandone la necessità, il “mistero” di una nuova sacralizzazione? La letteratura sulla potenza dei consumi nel quadro delle forme collettive e personali della “vita quotidiana” si divide in due fazioni opposte: potenza positiva e persino liberatoria o almeno “promettente” per la più parte dei vertici della società impegnati a garantire sviluppo e benessere stringendosi intorno al sistema, alla sovranità, che li esprime; potenza negativa e persino distruttiva, perversa per la più parte dei ceti intellettuali che vedono perdere il credito e la funzione di cui hanno goduto sino a quando le culture della produzione avevano capacità di governo sulle culture del consumo. C’è allora da chiedersi se questa aspirazione anticonsumista del Giubileo, a suo modo tradizionale eppure così trasgressiva persino per i cerimoniali e costumi ecclesiastici, possa davvero corrispondere alle motivazioni che Bergoglio ne ha dato come azione volta al recupero del senso più profondo del “vivere insieme”. Il popolo di credenti e non credenti al quale si rivolge è diviso tra obblighi e desideri: in loro il messaggio di rinunciare a consumare potrebbe confondersi con un messaggio contro il desiderio stesso, dunque una ingiunzione troppo simile alle condizioni di astinenza cui sono continuamente obbligati dall’economia politica finanziaria. Se, come mi pare giusto riconoscere, le Grandi Opere Utet stanno svolgendo la loro attività editoriale nel continuo tentativo di registrare la rilevanza e il significato di fatti e temi, del passato e del presente, in cui anche il passato confluisce, trovo molto significativo che questo volume sul Giubileo esca appena dopo quello dedicato alle Esposizioni Universali
in occasione della Expo di Milano del 2015. A parte essere eventi che hanno in comune le tecnicalità necessarie a venire realizzati nel migliore modo possibile – grandi obiettivi e visioni d’insieme, grandi investimenti e grandi capacità organizzative e relazionali, grandi strumenti di visibilità e consenso, condivisione – a me pare che ci sia più di una ragione per collocarli su una stessa linea non solo simbolica ma anche funzionale. E questo nonostante sembrino non avere nulla a spartire quanto alla resa culturale del loro contenuto, seppure siano invece in tutto accostabili sul piano della loro resa economica e soprattutto – con gradi di complessità diversa, ma parimenti di grandissimo rilievo – sul piano della loro resa politica e sociale, a misura nazionale e internazionale. Legittimato dunque tale confronto – tra la forma universale della Expo e la forma universale del Giubileo – è possibile paragonare l’evento giubilare con la forma “pagana” – politeista – delle Grandi Esposizioni Universali, luogo di celebrazione collettiva delle merci e del progresso; con la ritualità dei loro appuntamenti periodici, il loro carattere di “cerimonia di massa”, di culto dei destini dell’essere umano in quanto insieme di individui partecipi del destino sociale di loro appartenenza, dei suoi beni materiali e immateriali. Anche spirituali se crediamo ai valori più profondi delle etiche della produzione, del lavoro, del capitalismo. Roma Caput Mundi ha costituito il luogo deputato alla nascita della civiltà occidentale, all’Impero, e – poi e insieme – il luogo della città vaticana, cattolica e per questo altrettanto universale? Come interpretare allora la fulminea mossa di Bergoglio di aprire il Giubileo immediatamente dopo la Expo di Milano, dedicata all’alimentazione in termini ecologici di sviluppo sostenibile delle risorse del pianeta ma anche al piacere della cucina in termini di intrattenimento edonista, consumo e spettacolo di consumo? La dimensione effettiva di pellegrinaggio e/o turismo religioso che i giubilei hanno sempre avuto non correrà lo stesso rischio (o qualità?) di mescolare il diavolo con l’acqua santa? Stiamo tornando al tema della formazione. C’è una trama dominante nei testi di annuncio del Giubileo 2016 (la bolla “Misericordiae Vultus” e la lettera enciclica “Laudato si’”): attraverso alcuni passaggi essenziali, essa intende motivare sopra ogni altro suo obiettivo, persino devozionale, le
ragioni di una vera e propria “sfida educativa” rispetto ai valori correnti nella vita istituzionale, ritenendo che una rivoluzione dei campi della educazione scolastica e professionale – dei suoi contenuti e mezzi – sia urgente e necessaria anche per la società civile, per il mondo laico. Per la civiltà tutta. Ritenendo quindi che, finché questa continui a mostrare di non essere capace di compiere questa rivoluzione, tale compito – il dovere di cambiare rotta – spetti allo spirito religioso. E’ allora direttamente alla misericordia divina che viene affidato un mutamento radicale delle pratiche e dei fini della formazione partendo da una profonda trasformazione dei suoi contenuti. Si tratta di una vera e propria rivoluzione culturale, un progetto che definisco tale nella consapevolezza di tutti i rischi e tutte le incognite che la storia ha rivelato in questa formula (e di cui è espressione anche il fermento e la frantumazione delle gerarchie ecclesiastiche in opposte fazioni). Resta un fatto: la cultura che oggi fa da impianto alla formazione non corrisponde alla cultura diffusa, coltivata nella vita quotidiana e neppure nei rapporti sociali, di potere. La necessità – per la Chiesa desiderata da Francesco – di una formazione della coscienza umana radicalmente alternativa ad ogni tradizione istituzionale, dunque “colta”, parte dalla constatazione della progressiva “frantumazione del sapere” operata dai modelli scientifici e tecno-economici della stessa modernità che ne è stata all’origine, ma determinata anche dal sempre più forte deterioramento di ogni regola e ordine individuale e collettivo. Al loro apprendimento dottrinario non corrisponde più una effettiva capacità di orientamento razionale, nonché emotivo, nella complessità dei conflitti sociali. E’ in questo quadro fallimentare che i ceti dirigenti dei regimi democratici perdono in sapienza e reputazione. Questa constatazione, per continuare a dire nel linguaggio di Bergoglio, impone la necessità di recuperare una netta “distanza tra la dottrina a la mistica”. Tra professione e vocazione: è questo il vantaggio che il Papa – invitando a trovare nella persona, nella sua nuda vita, la più vicina all’esperienza del dolore e della morte, la più prossima a coniugare insieme banalità del male e banalità del bene – si prende sulla società tutta, sulle intenzioni formative che pensano ad assoggettarla, trasformarla, nell’ordine delle proprie necessità sempre più disumane in nome tuttavia dell’umanità stessa.
Solo su queste basi si potrebbe tentare di costruire un “nuovo umanesimo”. Ma è davvero necessario e possibile l’abbandono dell’umanesimo occidentale, intendendo per occidentale il virus che prima o poi – in un modo o nell’altro, con tempi e credenze diverse – distrugge ciò che ha costruito? Cosa significa infatti questa aspirazione nel quadro delle culture e religioni non occidentali o non ancora occidentali? E a fronte degli altri “misticismi”? L’umanesimo “diverso” cui si riferisce Bergoglio si fonda su una “nuova alleanza tra umanità e ambiente” e – accanto alla necessità di questa nuova connessione tra l’umano e il non-umano – su una esplicita critica verso tutte le pratiche contemporanee volte ad annullare la biodiversità. Ma tratti del nuovo umanesimo che il Giubileo intende annunciare hanno o potrebbero avere qualche relazione con i temi recentemente sollevati dalle filosofie del post-umano? Sono tutte domande che in questo Giubileo oscillano tra necessità e possibilità, ma va detto che, senza Bergoglio, sarebbe stato difficile che emergessero nonostante nulla di terribile nel mondo e del mondo sia stato e sia risparmiato a riprova di un tempo così rivelatore, apocalittico. Sotto il nostro sguardo minuto per minuto grazie ai media che abitiamo e che, per i paradossi di cui la modernità ha sempre abbondato, sono strumento di distrazione piuttosto che di attenzione. Attenzione che viene riservata al proprio disagio o alla propria sofferenza a seconda del destino che ci tocca. E’ su questo scarto tra catastrofe del mondo e percezione dei propri diretti interessi che opera Bergoglio. Papa, gesuita e insieme francescano, dunque capace di una sensibilità strategica non comune nel combinare insieme potere religioso e tattiche della parola quotidiana, tattilità dei corpi. Al rapporto tra Giubileo, in quanto “grande cerimonia” e dunque sin dall’inizio “grande cerimonia mediale”, abbiamo dedicato più di un testo. Ma, rifacendomi al discorso sulla originalità delle scelte di Bergoglio in quanto ispirate alla sua forte e determinata vocazione formativa, credo che lo stesso discorso vada ripreso per affiancarlo alla qualità della sua comunicazione: qualità non del comunicatore, prestazione in cui abbiamo avuto papi ben più efficaci di lui, ma qualità dei contenuti non convenzionali della sua comunicazione. A dimostrazione di questo ricorro, concludendo, a due soli frammenti ritagliati tra i tantissimi commenti fatti sulla originalità di Francesco. Il primo è di un semiologo, Franciscu Sedda
(in SEDDA L’algoritmo e il papa. O delle nuove interazioni sensibili). In effetti la citazione che riporto è un poco lunga, ma non devo commentarla, e mi serve per fare da cornice all’altro frammento: “Francesco ha raccontato di un “voto” fatto negli anni Novanta: non guardare più la TV. Un’affermazione, e un fatto, che a prima vista sembrerebbero parlarci della soggettività del pontefice e che invece ci ricordano, in primo luogo, quanto sia potente e seducente la Tv, quando sia difficile non cedere alla tentazione di guardare – il mondo e se stessi – attraverso essa. Con il rischio di finire abbagliati dal suo splendore, intrappolati nella sua stanza degli specchi. Non ci sarebbe bisogno di fare un voto se non fosse così, o no? La stessa idea di voto non cadrebbe se non portasse con sé un qualche profondo sacrificio? La frase del pontefice ci parla di questo e altro. Ci parla delle nostre soggettività prima modellate dalla Tv come spazio d’intrattenimento ed evasione ed ora tentate dall’improbo compito di evadere dalla TV e dal suo mondo. Missione quasi impossibile. A meno che non si sia il papa e di nome, per scelta, si faccia Franciscus. (…) Davanti ad un mondo d’immagini sempre più percepito come una sfera che tutto ingloba, e tutto con-fonde, il gesto di Francesco sembra invece riaffermare una distinzione fra il mondo delle immagini e la vita “vera”. “Non confonderai il reality con il reale!”, potrebbe tuonare un nuovo undicesimo comandamento. Molto contemporaneo. E certamente molto gradito ai nuovi realisti. La cosa tuttavia, così posta, sarebbe troppo semplicistica e troppo retrò. Guardando in prospettiva e in controluce il gesto del papa ristabilisce piuttosto quel minimo iato fra mondi che consente un nuovo costruttivismo, una nuova Genesi ai tempi della medialità onnipervasiva: «E la vita sulla terra era insignificante, e le immagini saturavano l’abisso e lo spirito si muoveva nell’etere. Il papa senza guardare in camera ma verso la piazza disse: “Buonasera”. E così separò il mondo in presenza dal mondo mediatico. E il mondo poté (ri)cominciare». (…) il papa sapeva e sa che davanti ai suoi gesti veri ci sono delle altrettanto vere telecamere, che riprendendoli e riproponendoli urbi et orbi li fanno essere ciò che vorrebbero essere: esempio, testimonianza, pedagogia. E tuttavia Francesco fa come se le telecamere non ci fossero. Come se il suo interesse sia per il mondo fuorischermo, il mondo alla fine del mondo che finalmente si fa presente. Che poi qualcuno lo riprenda poco male. O tanto meglio. Che la vita nuova sia vista! Ma che nessuno ri-confonda ciò che è stato separato”.
E’ invece direttamente da FB che riporto una riflessione di Franco Speroni, storico e sociologo dell’arte, cui per concludere lascio la parola perché mi pare colga assai bene la sfida temporale di un Papa che ritrova – e invita a
ritrovare – nel “semplice” sentire quotidiano della persona l’energia necessaria a spingersi al di là delle etiche e politiche del soggetto moderno: “Un cronista del TG Lazio, raccontando l'evento alla Caritas (là dove Bergoglio ha aperto una delle sue Porte decentrate al di là di San Pietro), ha colto un dettaglio importante che rimane nella memoria: il rumore tipico della serratura di una porta qualunque. Un segno estetico che insieme ad altri segni di altro genere, come le proiezioni sulla facciata di S Pietro dell'8 dicembre, descrivono un gusto antimonumentale che sostituisce alla "roccia" petrina la relazione e l'ubiquità. Messi insieme questi segni - e tanti altri che Francesco sta tracciando - non sono poi tanto diversi da quelli di una mostra di Darren Almond o Pierre Huyghe o Sophie Calle.... . Aldilà delle intenzioni - che non valgono nulla - è la mappatura dei segni lasciati che contiene lo spirito del tempo. Il rumore casuale di una serratura, allora, è più forte di un concetto. Coglierlo è spirito francescano, parlarne è spirito ignaziano ... Ripeto: la mappatura dei segni contiene lo spirito del tempo. Il rumore della serratura più forte di un concetto. Un'estetica in nuce”.
Una estetica in nuce? Il concepimento di una estetica dell'esistenza finalmente adeguata all'interiorità delle dinamiche relazionali dell'abitare e non più alla imperativa esteriorità delle sue forme di governo? Questo Giubileo, usando le parole della misericordia con inedita forza, si rivolge più che mai al mondo e non solo al mondo della Chiesa. Non una barriera impermeabile ma piuttosto una zona porosa, indistinta, una sfumatura (per quanto essenziale nella storia delle nazioni), distingue il contenuto delle relazioni sociali da quello delle relazioni religiose. Ambedue manifestano una medesima necessità di fare comunità, per quanto in presenza o assenza di un Dio; nel bisogno o nel rifiuto di un Tempio. L’annuncio del Giubileo Straordinario del 2016, evento ora così a rischio dei tempi, tempi di morte e di paura per tutta l’umanità, ha avuto l’intelligenza anti-dialettica, quindi anti-storica (forse anche l’astuzia strategica) di non confrontare la potenza e bellezza monumentale del cattolicesimo – la ricchezza delle forme espressive e compiutamente edificanti del proprio dominio spirituale – con il bene comune di quell'incondizionato sentimento di appartenenza umana al dolore che è la misericordia. In tal modo l'intero progetto giubilare ha evitato di cadere nella necessità politica di dovere ricorrere a una “via di mezzo” in grado di tenere di nuovo insieme forme di potere e forme di
fede del cattolicesimo. Non ha ceduto alla tradizione di dare per possibile e praticabile l'opportunità di promuovere una sintesi tra due potenzialità – aspirazioni – pur così distinte tra loro. Stare in un luogo terzo ma non mediano rispetto a Sant’Ignazio da Loyola e a San Francesco d’Assisi – cioè fuori e al di là della antitesi ideologica che essi hanno incarnato tra Sacralità dei semplici e sacralità delle Scritture – è la cifra più enigmatica ma certamente più sperimentale, più innovativa, di Papa Bergoglio. Nelle pagine che vi apprestate a leggere è raccolta ampia documentazione di come la potenza dei Giubilei si sia servita della magnificenza delle arti in quanto rappresentazione della volontà di potenza dell’universalismo della Chiesa che, appunto per questa sua vocazione universalista, si è nominata Cattolica. Un medesimo ruolo delle arti – una medesima estetica del potere sovrano che le ispira – è stato perseguito dalla società moderna nel corso della propria opera di civilizzazione. Al contrario l’invito di Bergoglio alla misericordia – le raccomandazioni umane che semina nel suo pellegrinaggio tra pellegrini – sembra piuttosto tornare alla radice etimologica della parola estetica, primariamente riferita al vivente, interamente aperta ai sensi e al sentire della persona. Estranea dunque all'idea di dovere servire una qualche identità superiore e farsi così strumento di essa invece che fine – rivelazione – in sé e per sé.