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SISCURIGADU
A true face of Sardinia
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In divinu et in humanu: si a vinti no è galanu, i a trinta no hat iscentia, e a baranta no hat prudentia, i a chinbanta no è devotu, s’omine est perdidu in totu. Nel divino e nell'umano: se a venti non è galante, e a trenta non ha scienza, e a quaranta non ha prudenza, e a cinquanta non è devoto, l’uomo è fallito. Cit. Ignoto
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SISCURIGADU A true face of Sardinia 09 Prefazione 10 Eventi Negativi 56 Eventi Positivi 76 La tutela delle coste sarde 78 Il sughero sardo 80 La foca monaca sarda 82 Vecchi spot sull’ambiente 93 Etimologia delle mani 103 Il progetto 134 Lollove 138 Orgosolo
CORSO Arti Visive
TESTI Alberto Mei
ANNO SCOLASTICO 2013/14
COVER Alberto Mei
RELATORE Romeo Scaccia SUPERVISORE Andrea Maccioni
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Foto : Alberto Mei
COORDINATRICE Angela Cotza
Prefazione La Sardegna è una terra misteriosa, affascinante e selvaggia, ricca di paesaggi spettacolari, di spiagge uniche al mondo e di una popolazione estremamente legata al territorio.
Il suo ambiente è un patrimonio inestimabile, fonte di vita e di ricchezza per chi la abita e di grande ispirazione e interesse per viaggiatori, artisti e studiosi, provenienti da ogni parte del mondo. Purtroppo, però, se da un lato molti uomini amano questa terra, tanti altri dimostrano, con azioni scellerate, di non averla a cuore e, quindi, di non rispettarla. Infatti, sopratutto a partire dall’epoca moderna, l’uomo ha difeso e, allo stesso tempo, distrutto l’ambiente sardo, con modalità che, nei nostri giorni, sono sempre più innovative e subdole. Senza dubbio, la Sardegna non merita tutto questo. È doloroso e inammissibile vedere, leggere o sentire il tradimento di una parte di popolazione verso la propria terra, quella che li ha cresciuti e continua a farli andare avanti, senza nessuna pietà e rispetto. Perciò, con il tempo, i cittadini più sensibili e attenti si sono riuniti in associazioni, comitati, gruppi spontanei, per difendere una terra che può essere considerata, senza esagerazioni, un patrimonio di tutta l’umanità. Le associazioni combattono le proprie battaglie a favore dell’ambiente sardo, cercando di bloccare la cementificazione, l’inquinamento, la distruzione conseguente agli incendi, il bracconaggio, in modi diversi: attraverso l’azione legale, con l’attività di sensibilizzazione, di educazione ambientale, sopratutto a favore delle generazioni più giovani, con la diffusione di informazioni e conoscenza degli strumenti che la legge offre a ciascun cittadino per difendere il proprio territorio. Negli anni, si sono fatti grandi progressi, numerosi abusi edilizi sono stati demoliti, e tanti autori di reati contro l’ambiente sono stati condannati a pene severe e, spesso, al ripristino o alla bonifica dei luoghi martoriati, ma tanto ancora c’è da fare, sopratutto in termini di conoscenza e di educazione. La metafora perfetta per questo discorso sono le mani dell’uomo, le protagoniste di tutto, senza di loro nessun evento sarebbe possibile. Le mani possono creare e distruggere, sono capaci di fare sia del bene che del male per la nostra isola, comandate dalla mente e dall’istinto sarebbero capaci di qualsiasi cosa.
Per la mia tesi,quindi, è fondamentale approfondire questo concetto, per riuscire a capire nel dettaglio quello che un uomo è capace di fare sull’ambiente, per il bene e per il male della propria terra. Il mio lavoro, perciò, vuole contribuire a diffondere tra le persone la conoscenza della bellezza della Sardegna e far comprendere a chi lo vedrà, il ruolo che ciascuno di noi può avere nella sua tutela, affinché cessino i continui tradimenti nei confronti di un’isola ricca di storia e di natura. Per preparare al meglio il progetto della tesi è stato fatto uno studio accurato su ogni evento passato riguardo l’ambiente e una ricerca approfondita su varie tecniche innovative per salvaguardarlo. Per avere delle documentazioni sicure e approfondite si è scelto il Gruppo d’intervento giuridico, che lavora costantemente per “fare” delle cose positive con le proprie mani, in tutta Italia: dalla sua nascita, nel 1992, ad oggi, ha fatto migliaia di denunce e contribuito a far buttare giù ecomostri e a prevenire scempi ambientali. Si batte contro la caccia, soprattutto contro il bracconaggio (ogni anno, a dicembre, in Sardegna, organizza insieme alla LAC-LegaAntiCaccia, la campagna contro il bracconaggio, durante la quale i volontari vanno a togliere con le proprie mani le trappole lasciate dai bracconieri). Organizza escursioni sulla Sella del Diavolo e nell’area del fortino di Sant’Ignazio (sempre vicino alla Sella). Ogni anno, organizza corsi e seminari per far conoscere a tutti il diritto ambientale, in modo da fornire ai cittadini gli strumenti per difendere l’ambiente. Sempre con l’obiettivo di sensibilizzare e divulgare le tematiche ambientali, organizza incontri pubblici, convegni, partecipa a manifestazioni, collabora con associazioni, comitati, singole persone. Ci saranno varie fasi di studio, si inizierà con la ricerca di eventi passati fino ad arrivare alle soluzioni innovative.
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Eventi Negativi Provincia di Cagliari
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Incendi
Ormai ogni anno è sempre la stessa triste storia. Negligenza, menefreghismo, malvagità, follia o banalissima stupidità sono le cause degli incendi che stanno mandando in fumo pezzi della Sardegna, cioè pezzi di vita nostra e di migliaia di animali. Questi eventi fanno volare via anche la dignità di esseri umani che non sanno amare la propria terra.
Foto : Alberto Mei
L’estate e il vento sardo invogliano i soliti piromani a dare fuoco alle nostre terre e ai nostri paesi. boschi e pascoli andati in fumo, spazzati via dalla furia delle fiamme, persone ferite, un migliaio di persone costrette a lasciare le case, alcune in piena notte, altre, molte delle quali anziane, con l’aiuto dei volontari, pregando che quel fuoco non cancellasse in pochi istanti i sacrifici di una vita. L’isola continua a bruciare, tradita dai suoi stessi abitanti. Il fuoco continua a parlare della Sardegna, all’interno e soprattutto fuori dell’isola. Fino a qualche decennio fa, i falò di San Giovanni ( devi spiegare il perché parli di questa festa e qual’è il legame con il discorso precedente), erano un’occasione di festa e uomini e donne, danzandoci attorno tenendosi per mano, diventavano “compares de Santu Giuanne” e talvolta il legame così stabilito era più forte di quello formalmente fissato dall’ “olio santo”. Ci fu un tempo favoloso in Sardegna in cui il fuoco era una forza al servizio dell’uomo: si veda la fiaba “Come sant’Antonio rubò il fuoco” (ai diavoli, con l’aiuto di un astuto maialetto; la leggenda si chiude con questa “spiegazione”: “Fu in questo modo che la Sardegna e il mondo conobbero finalmente il fuoco e il gran freddo cessò per sempre”), nella raccolta di “Fiabe sarde”, scelte e tradotte da Francesco Enna, pubblicata nei primi mesi del 1991 dagli Oscar Mondadori. Sarà possibile ancora questo? È impensabile metterci la mano sul fuoco. La Sardegna è una terra malata da quando, nell’800, sono passati i devastatori, armati di scure, che grazie alle concessioni del governo piemontese prima e italiano poi, hanno trasformato la Sardegna da regione ricca di boschi, a regione arida e siccitosa, ricoperta di piantagioni di grano, predisposta agli incendi e al dissesto idrogeologico. L’incendio boschivo, sia doloso che colposo, è un delitto contro la pubblica incolumità e, come tale, è perseguito penalmente. Fino al 2000 l’incendio boschivo era considerato un’aggravante dell’incendio generico, ed era trattato dall’art. 423 del Codice Penale. Nel 2000, per la prima volta, è riconosciuto dal legislatore come reato autonomo e da allora è disciplinato dall’art. 423 bis, confermato dall’art. 11 della Legge 11 novembre 2000, n. 353 secondo il quale chiunque cagioni un incendio su boschi, selve o foreste ovvero su vivai forestali destinati al rimboschimento, propri o altrui, è punito con la reclusione da 4 a 10 anni. Se l’incendio è cagionato per colpa, la reclusione va da 1 a 5 anni.
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“L’idea che quello degli incendi agriboschivi in Sardegna, e in genere nel Mediterraneo e dintorni, sia soprattutto un problema criminale è una delle più esagerate e radicate.” (Angioni,1989).
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Incendi
Il 30 Luglio 2010 fu una giornata di fuoco per il territorio di Muravera. Non ci sono mole parole per descrivere la devastazione, la desolazione, la tristezza che lasciano le fiamme dopo il loro passaggio. Sono bastate tre ore per devastare l’ultima zona sopravvissuta agli incendi del passato nel territorio intorno a Muravera. Tre ore di fuoco incontrastato, nessun mezzo aereo ha operato a difesa della lecceta, che hanno trasformato un’oasi di verde e di natura ancora integra, nel desolato paesaggio di carbone e cenere che i sardi ben conoscono. Ci vorranno decenni, e l’assenza di altri roghi, per avere di nuovo una copertura vegatale paragonabile a quella andata distrutta. L’ultima decade di luglio sembra essere particolarmente sfortunata per la Sardegna, che da un po’ di anni a questa parte vede in quei giorni subire gravissimi, spesso irreversibili danni al suo patrimonio forestale e paesaggistico. Un anno fa toccava a Scivu e al Monte Arci pagare un tributo pesantissimo alla maledizione del fuoco. La domanda da porsi, alla ricerca di una possibile lezione per il futuro, è: si potevano ridurre i danni? L’impegno dei mezzi aerei in altri roghi ha davvero giustificato l’assenza di qualunque intervento aereo dalle 15.30 fino alle 18.30 a difesa della lecceta? Intervento che avrebbe sicuramente permesso di bloccare numerosi fronti di fuoco, che, in molti casi partivano dopo un’incubazione delle fiamme dentro la foresta di 20-30 minuti e di salvare quindi decine di ettari bosco ad alto fusto.
Incendio di Muravera, Luglio 2010. Foto: Juri Iurato
Incendio di Torre delle Stelle, Monte Donimpera, Luglio 2005. Foto: Juri Iurato
La notte tra il 16 e il 17 gennaio da Dorgali a Bolotana, da Bosa a Desulo, da Budoni ad Escalaplano, da Samugheo a Orosei e in tanti altri paesi ancora si accendono i falò in onore di Sant’Antonio Abate, esponente importante dell’ascetismo egiziano del III secolo d. C. Un culto antico e radicato quello per questo santo, visto dalla collettività cristiana come uno strenuo oppositore dei diavoli e delle fiamme dell’inferno. La leggenda, infatti, racconta che Sant’Antonio avrebbe rubato una favilla incandescente dal Regno degli Inferi per regalarla all’umanità, dotandola, così, del fuoco. La notte del 16 gennaio si chiedono al Santo grazie e miracoli in un contesto quasi magico, dominato dall’imponente falò che consuma enormi cataste di legna. Questo rito, che mescola devozione cristiana ad antiche tradizioni pagane, è documentato fin dalla metà del XIX secolo, ma le sue origini sono sicuramente più remote. Dopo i riti liturgici e la benedizione del fuoco, i partecipanti stazionano di fronte ad esso, intenti ad intessere conversazioni, cantare, gustare dolci ed assaporare vini offerti dalla comunità. Il fuoco arde tutta la notte: sarà il disegno del fumo emanato a suggerire auspici e profezie. In Barbagia inizia il Carnevale con i fuochi di Sant’Antonio Nei paesi della Barbagia, in particolare, in occasione della festa di Sant’Antonio Abate, il “Santo del Fuoco”, tra il 16 e il 17 gennaio, fanno la loro comparsa le maschere del Carnevale che si aggirano fra i grandi
La notte del 26 Luglio del 2010 a Villa San Pietro ci fu grande paura per l’incendio scoppiato in campagna e arrivato fino alla periferia del paese. Per precauzione l’apparato antincendi ha disposto l’evacuazione di alcune villette. E’ successo poco dopo la mezzanotte, i carabinieri della stazione di Villa San Pietro hanno dato l’allarme appena visto in lontananza il bagliore del fuoco. Sono arrivati vigili del fuoco, agenti del corpo forestali, barracelli e gli stessi carabinieri si sono impegnati nelle operazioni per circoscrivere il fuoco che stava bruciando macchia mediterranea e, a causa del vento, si stava estendendo. Il 25 Luglio, all’alba un vasto incendio è scoppiato nei pressi di Cala Regina, sul litorale tra Quartu e Geremeas. Decine di ettari di macchia mediterranea sono stati distrutti dalle fiamme, che sono state spente dopo alcune ore grazie all’intervento di un Canadair della Protezione Civile e di due elicotteri del servizio regionale, oltre al lavoro delle squadre a terra di corpo forestale e vigili del fuoco. Il pomeriggio si sono vissuti momenti di apprensione tra la gente per diversi incendi che, alimentati dal forte vento di maestrale, hanno minacciato case e villaggi turistici. Desolante il sopralluogo condotto a Muravera: decine di carcasse di animali morti, quando si pensava, invece, di essere riusciti a mettere in salvo tutti gli animali degli allevamenti. Sono andati a fuoco oltre duemila ettari di terreno, distrutti due boschi di rimboschimento piantati l’anno scorso a monte del paese. Il paesaggio era spettrale e i tecnici valutavano
maschere del Carnevale che si aggirano fra i grandi fuochi accesi nei rioni o nei sagrati delle chiese. A Mamoiada inizia la danza dei Mamuthones guidati dagli Issohadores. I primi indossano una maschera nera di legno d’ontano o pero selvatico, dall’espressione sofferente o impassibile e sulla schiena portano “sa carriga”, campanacci dal peso di circa 30 kg; i secondi con le loro maschere bianche lanciano le loro funi per catturare gli astanti. Ad Orani Sos Bundos con le loro maschere di sughero visitano i fuochi e ricevono su pistiddu, il dolce tipico preparato per S. Antonio e benedetto durante la processione. Il dolce è offerto anche a tutti i presenti e inviato nelle case dei malati a tredici persone di nome di Antonio. Ad Ottana dopo la funzione religiosa che termina con la benedizione del falò (Su Ogulone) in piazza, le maschere di Sos Merdùles fanno la loro prima uscita e si radunano intorno al fuoco. Durante la serata anche a Samugheo fanno la loro prima apparizione Su Mamutzone, S’Urtzu, S’Omadore, Su Traga Cortgius le maschere che in origine uscivano al calar della sera, quando in paese risuonavano le campane. A Fonni, un’ora prima della SS. Messa, durante su pispiru (il vespro) si accende un unico grande fuoco. Dopo la funzione religiosa, il prete accompagna la statua di S. Antonio in processione, compiendo tre giri intorno al fuoco e benedicendo sia il falò sia il pane in sappa, tipico dolce di questa festa, preparato dal priore e offerto ai presenti . Incendio di Muravera, Luglio 2010. Foto: Claudia Basciu
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Alluvioni
che ci sono rischi per il centro abitato in caso di piogge abbondanti: non ci sono più le piante a trattenere la terra. Danni soprattutto ai vigneti, ai mandorleti. Molti pastori di fatto sono rimasti senza pascolo. Il fuoco ha aggredito le case a monte e le case coloniche, solo il grande impegno dei soccorritori ha impedito che ci fossero vittime. Guidati dal comandante della stazione forestale di Muravera, Marco Meloni, gli operatori hanno salvato anche varie aziende agropastorali, sono morti numerosi capi di bestiame. Danni ingenti, la giunta chiese lo stato di calamità naturale. Il 6 Agosto 2012 scoppiò un incendio nella zona del parco di Molentargius, precisamente nell’area del canneto compresa tra via Fiume e il Poetto, lato Saline, zone frequentate dal Pollo sultano, il Germano reale, la Gallinella d’acqua, la Folaga e, sporadicamente, dall’Airone rosso. Le condizioni del terreno, particolarmente paludoso, e la non semplice accessibilità al focolaio dell’incendio hanno creato delle difficoltà ai mezzi di soccorso; da qui il dilatarsi delle operazioni di estinzione e raffreddamento dell’incendio che hanno coinvolto, fino alle ore 13:00 del 7 agosto, i vigili del fuoco, i forestali e i volontari della Protezione Civile (Prociv Arci, PAFF, NOS e Masise). A distanza di 24 ore dall’inizio della propagazione dell’incendio che ha investito l’area del canneto compresa tra via Fiume e il Poetto, lato Saline, i tecnici del parco hanno avuto modo di effettuare i primi rilievi e comunicare l’entità dei danni nell’area interessata dall’incendio. Un resoconto poco positivo; ben 40000 metri di superficie bruciati. Si presume dolosa l’origine dell’incendio, sia per l’area dove ha avuto luogo l’innesco, difficilmente raggiungibile dai mezzi di intervento, sia per la presenza di condizioni climatiche poco favorevoli all’iNonostante lo scatenarsi dell’incendio nell’area del canneto, non è stato rilevato alcun danno all’avifauna, come dichiarato da alcuni volontari delle associazioni di volontariato, intervenute a sedare l’incendio. Le operazioni di spegnimento sono state seguite sul campo dallo stesso Presidente dell’Ente Parco, Mauro Contini “L’incendio è partito in due punti diversi lontani dalla strada. Ho seguito con particolare apprensione le fasi dello spegnimento dell’incendio e ringrazio tutti i volontari, i vigili e gli agenti della forestale per l’impegno profuso”.
Incendio di Villa san Pietro, Luglio 2010. Foto: Claudia Basciu
Foto : Claudia Basciu
Alluvione di Capoterra Nomi paradisiaci, Frutti d’Oro, oppure contemplativi, Poggio dei Pini o megalomani, Residenza del Sole, anticipatori, Su Spantu. Insomma, siti dove non si dovrebbe, stando al nome, morire mai, e dove non esiste il dolore. Ma quei nomi sono una pubblicità ingannevole. Il dolore è arrivato anche là e quelle lottizzazioni hanno fatto di Capoterra l’opposto di un buon modello urbano.
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Inquinamento Nelle prime ore del mattino del 22 ottobre del 2008 un violentissimo temporale si è abbattuto sulla Sardegna ed in particolare sui monti di Capoterra, rovesciando violentemente nel fiume rio San Girolamo cinque milioni di metri cubi d’acqua e una massa imponente di detriti: fango, massi e tronchi d’albero sono stati scaraventati a valle, distruggendo strade e ponti nei comuni limitrofi. L’effetto di questa perturbazione può essere paragonabile alle devastazioni causate dagli uragani che spesso colpiscono l’area caraibica e non solo. A Poggio dei Pini, uno dei comuni più colpiti dall’inondazione insieme a Capoterra, Pirri, Sestu ed Elmas, si è arrivati a 372 millimetri di acqua in tre ore, pari al picco massimo raggiunto dall’uragano Katrina tre anni prima. Le strade delle città, completamente allagate, furono chiuse e per le prime ore le comunicazioni furono interrotte. Molte persone trovarono rifugio sui tetti; quel giorno gli elicotteri hanno sorvolato ininterrottamente i cieli della Sardegna. I soccorsi proseguirono anche durante la notte. La pioggia torrenziale aveva infatti fatto traboccare gli argini di numerosi torrenti tra cui Rio San Girolamo, che ha allagato un’ampia porzione di abitato a Capoterra e costringendo un intero quartiere ad evacuare a causa del pericolo di rottura di una diga, nelle montagne sopra Capoterra, dove la pioggia ha fatto salire in modo preoccupante il livello dell’acqua. Numerose furono anche le difficoltà nei trasporti: numerosi pendolari rimasero bloccati a bordo del treno Oristano-Cagliari a breve distanza dalla stazione del capoluogo per un guasto agli scambi, poi riattivati dai tecnici delle ferrovie dello stato. Anche il trasporto aereo subì rallentamenti, con alcuni voli cancellati. Chiusa la statale tra Capoterra e il capoluogo sardo e la statale “Sulcitana”, all’altezza del km 10, per il cedimento del manto stradale a causa dell’esondazione del rio Santa Lucia. La popolazione intera (adulti, bambini e anziani) fu colpita da questo evento: alcune persone persero la vita travolte dall’inondazione, molte abitazioni furono allagate e vi furono disagi anche ad alcune strutture pubbliche. In particolare alcune scuole furono invase da acqua e detriti ed altre scamparono per miracolo alla tragedia. A seguito di ciò ci fu la chiusura definitiva della scuola materna sul rio San Girolamo. Da allora i 90 bambini che frequentavano quella scuola vennero portati tutte le mattine in una scuola di Capoterra a bordo di due pullman. Questo avvenne perché se l’alluvione fosse impensabile tornare ad occupare quell’edificio mettendo a repentaglio la vita di quei bambini e di tutto il personale scolastico. La ferita lasciata dall’alluvione era profonda: non solo per quello che era successo ma anche per ciò che sarebbe potuto davvero succedere. Anche tra gli abitanti di Frutti d’Oro la sensazione è quella di aver scampato un enorme pericolo: «È terribile quello che abbiamo rischiato: la maggior parte di noi quel mercoledì non ha accompagnato i bambini a scuola perché c’era un tempo bruttissimo. Se li avessimo portati a scuola avremmo potuto essere travolti anche noi dall’onda del rio San Girolamo». La scuola di Frutti d’Oro non fu l’unica “vittima” di questa catastrofe, ma anche altre scuole di quella zona, materne, elementari e medie inferiori, furono colpite più o meno direttamente. Tra i soccorsi schierati ci furono carabinieri, vigili del fuoco, arrivati anche da alcune regioni del centro Italia come Toscana e Lazio, polizia, guardia di finanza, esercito, marina militare, enti forestali. Anche tra gli abitanti di Frutti d’Oro la sensazione è quella di aver scampato un enorme pericolo: «È terribile quello che abbiamo rischiato: la maggior parte di noi quel mercoledì non ha accompagnato i bambini a scuola perché c’era un tempo bruttissimo. Se li avessimo portati a scuola avremmo potuto essere travolti anche noi dall’onda del rio San Girolamo».
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Sarroch, Raffineria Saras. Foto: Tidu Iago Rio San Girolamo. Foto: Claudia Basciu
La scuola di Frutti d’Oro non fu l’unica “vittima” di questa catastrofe, ma anche altre scuole di quella zona, materne, elementari e medie inferiori, furono colpite più o meno direttamente. Tra i soccorsi schierati ci furono carabinieri, vigili del fuoco, arrivati anche da alcune regioni del centro Italia come Toscana e Lazio, polizia, guardia di finanza, esercito, marina militare, enti forestali. Le operazioni di soccorso proseguirono tutta la notte e i danni furono stimati attorno ai 15 milioni di euro. Il lavoro iniziato con le scuole del Comune di Capoterra è proseguito fino ad essere completato così come l’assistenza psicologica alla popolazione, mediante colloqui programmati e psicoterapia con E.M.D.R., da parte dell’ASL 8 di Cagliari. Dai dati rilevati prima dell’intervento si è riscontrato che, su 251 bambini, il 52% presentava un PTSD acuto dopo un mese dall’alluvione. I soggetti con PTSD hanno avuto un ciclo di trattamento con EMDR e nella valutazione successiva, una settimana dopo, la remissione dei sintomi era pari al 94%. La percentuale che non ha risposto al trattamento EMDR è stata del 6%. Sarebbe importante esplorare ulteriormente i fattori che hanno contribuito a questo dato, probabilmente da aggiudicare a vari fattori di rischio, come gravità della perdita, reazioni emotive nei genitori, difficoltà e traumi emotivi precedenti all’alluvione, e altro. Dalla prima fase dell’assistenza immediata (dall’impatto ai 30-45 giorni seguenti) si è passati alla fase dell’assistenza estesa (da 30-45 giorni a 3 mesi dopo l’impatto).
La raffineria più importante è sicuramente la Saras, situata a Sarroch. Da sempre la Saras inquina gran parte del territorio sardo, particolarmente il paese vicino, Sarroch. Lo studio di otto specialisti ha portato ad affermare che la maggior parte dei bambini del paese presentano incrementi significativi di danni e alterazioni del Dna rispetto al campione di confronto estratto dalle aree di campagna. La Procura ha in mano un documento che potrebbe aprire una fase nuova nell’inchiesta sullo stato ambientale della costa orientale tra Cagliari, Pula e Teulada: è uno studio epidemiologico condotto da otto ricercatori di fama internazionale su 75 bambini di Sarroch. Stavolta non si tratta di un’indagine isolata e priva di certificazioni scientifiche: a pubblicarla è “Mutagenesis”, una prestigiosa rivista di epidemiologia edita dall’università di Oxford. I ricercatori sono autorità assolute nel campo come Marco Peluso, Armelle Munnia, Marcello Ceppi, Roger W. Giese, Dolores Catelan, Franca Rusconi, Roger W.L. Godschalk e Annibale Biggeri. Lo studio – pubblicato il 27 febbraio 2013 – illustra in sette cartelle fitte di dati il metodo seguito per giungere alle conclusioni clamorose oggi all’attenzione del pm Emanuele Secci, che conduce da circa tre anni l’inchiesta giudiziaria sull’area industriale di Sarroch, ora estesa fino al poligono di Teulada. Scrivono i ricercatori: «La qualità dell’aria rappresenta una questione ambientale di importanza primaria nelle aree industrializzate, con potenziali effetti sulla salute dei bambini residenti nelle aree circostanti. La zona industriale di Sarroch, in provincia di Cagliari, ospita la più grande centrale elettrica del mondo e la seconda più grande raffineria di
del mondo e la seconda più grande raffineria di petrolio e parco petrolchimico d’Europa. Il sito industriale produce una complessa miscela di inquinanti atmosferici che comprendono benzene, metalli pesanti e idrocarburi policiclici aromatici». «A tal proposito – è scritto ancora su Mutagenesis – abbiamo condotto uno studio trasversale per valutare l’entità della diffusione di malondialdeide-deossiguanosina nell’epitelio nasale di un campione composto da 75 bambini di età compresa tra i sei e quattordici anni frequentanti le scuole elementari e medie di Sarroch, mettendoli a confronto con un campione di 73 bambini delle zone rurali. Inoltre, sono stati analizzati i livelli di alterazioni consistenti del Dna in uno studio composto da un sottocampione di 62 bambini». Prosegue la relazione: «Sono state rilevate le concentrazioni di benzene ed etil-benzene nell’aria dei giardini della scuola di Sarroch e in villaggio rurale attraverso campioni diffusivi. Le misurazioni esterne sono state effettuate anche in altre aree di Sarroch e in prossimità del sito industriale. I livelli esterni di benzene e di etil-benzene sono risultati significativamente più alti nei giardini della scuola di Sarroch rispetto al villaggio rurale. Elevate anche nel polo industriale».
“Ormai ogni anno è sempre la stessa triste storia. Negligenza, menefreghismo, malvagità, folia o banalissima stupidità sono le cause degli incendi che stanno mandando in fumo pezzi della Sardegna, cioè pezzi di vita nostra e di migliaia di animali“.
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«La compagnia è stata formata nel maggio del ’62, e nel ’63 siamo venuti a cercare i terreni e abbiamo individuato questa zona come ideale. Un drappello di persone, di giovani ingegneri guidati dal mitico ingegnere Zuccu, che aveva costruito la nostra raffineria in Sicilia e che poi ha fatto la Saras, si sono addentrati nel terreno. Il terreno era molto fangoso e l’ingegner Zuccu perse una scarpa. Tornò con una scarpa e una calza. Tornò in ufficio abbastanza… abbastanza turbolento come era lui, e disse: ‘Chissà se aver perso la scarpa è stata una fortuna o una sfortuna’. E un ingegnere gli rispose: ‘No, guardi, è stata una fortuna, siamo già inglobati nell’ambiente’». Sono parole che Gianmarco Moratti pronuncia durante un convegno e che aprono concettualmente il documentario Oil-petrolio di Massimiliano Mazzotta, il quale, tra il 2007 e il 2008, si reca in Sardegna per documentare come vivono i sarrochesi da quando è stata impiantata l’industria petrolchimica. Camera in spalla, come si suole dire, il regista, insieme ai suoi collaboratori, privo di sponsor e in totale autonomia, effettua tre lunghi sopralluoghi e comincia a girare. Il risultato è talmente inquietante da indurre la famiglia Moratti a intentare una causa per diffamazione per bloccarne la diffusione. L’inserimento del dolce ricordo di Gianmarco Moratti nelle prime scene del film è molto azzeccato. La gioiosa rimembranza che racconta gli albori della nuova impresa industriale – la costruzione di una raffineria – finirà, con lo scorrere delle immagini, per assumere valore negativo, svelando alla fine il cinismo che la pervade. L’inglobamento nel territorio sardo della famiglia Moratti, simboleggiato nell’aneddoto dalla scarpa persa nel fango dal mitico ingegner Zuccu, è veramente un matrimonio riuscito: 5,5 miliardi di euro nel 2005, raddoppiati l’anno successivo. Una fortuna che a tutt’oggi non smette di crescere. Ma: sulle spalle di chi, e a che prezzo?, ahilui!, è proprio la domanda alla quale il documentario intende rispondere. Il film inizia inquadrando la questione del territorio. La fortunata consorte di cui Moratti parla, con un insopprimibile ghigno stampato di traverso in mezzo al volto, è la terra di Sarroch (Sarròccu, per dirla in sardo), un paese di 5.244 anime; una delle coste più fertili e promettenti dal punto di vista agrario, residenziale e turistico della Sardegna, prima che Zuccu vi perdesse una scarpa, e prima che l’imprenditore milanese Angelo Moratti decidesse che quella meraviglia naturale costituisse il luogo ideale, per l’ottima postazione strategica e la profondità dei fondali (agevoli per l’attracco di petroliere), dove costruire una bella raffineria di oro nero. Oggi il 25% del petrolio trasportato per mare transita da quella che è diventata la più grande raffineria del Mediterraneo, che imbarca qualcosa come 15 milioni di tonnellate annue di petrolio. La storia racconta che il fortunato connubio nasce nel marzo del 1959, quando viene istituito l’assessorato alla Rinascita nella regione Sardegna. Un organo burocratico che si rimbocca le maniche e nel giro di quattro mesi pone in atto il “programma straordinario per la rinascita economica e sociale della regione”.L’anno successivo Angelo Morati sbarca da Milano, contatta l’aministrazione di Sarroch per acquistare i terreni costieri e nel 1962 costituisce la Saras (Società Anonima Raffinerie Sarde). Nel 1966, Giulio Andreotti, allora ministro dell’Industria, partecipa all’inaugurazione ringraziando l’imprenditore milanese (allora presidente dell’Inter).
La verità, tuttavia, non appena dismette la maschera, mostra l’immagine di un teschio. Massimiliano Mazzotta accende la sua telecamera proprio nel giorno di un funerale. La vittima è un uomo di 31 anni che lavorava nella fabbrica, ucciso da un tumore nel breve volgere di due mesi e mezzo. Dalle parole dei presenti si capisce che non è il primo e che non sarà l’ultimo. Da quando è iniziata la ‘rinascita’ la morte passeggia bellamente tra le strade del paese insieme all’inquinamento, ai vapori, ai fumi tossici ormai parte integrante del territorio, un po’ come la fatidica scarpa dell’ingegner Zuccu. Penetra, attraverso i fumi, s’impossessa degli uomini entrando nei corpi insieme a cibo e aria. Le testimonianze della gente del luogo si sprecano. Barbara Romanino, una donna del posto, non si dà pace: «Quando avevo quattro giorni, al mio arrivo a Sarroch, ho visto prima lei di casa mia e, ogni volta che la rivedo, è lei che mi dà il bentornato in paese. E quando non la vedo, la sento: con le orecchie e con il naso. È vero che a Sarroch, prima della Saras, la fame era tanta, era tantissima. Ma era tantissima anche l’ignoranza; forse era anche più della fame. Era raro l’uomo di cultura, quello… Chi lo sapeva che cos’era il cancro, che cosa lo provocava! Non si sapeva bene cos’erano i disturbi provocati dall’inquinamento, perché non si sapeva neanche che cosa era l’inquinamento. I miei nonni, anche loro veri sarrochesi, mi hanno detto che hanno dato (gli amministratori comunali, n.d.a.) i terreni migliori, per fare l’industria. Tra l’altro i miei nonni sono morti di tumore tutti e quattro. E non erano i soli, i miei nonni, a chiamarla SA ROVINERIA, anziché SA RAFFINERIA». In un’altra scena, un sub dice che qui «si pescano spigole diesel, si mangiano spigole diesel», mentre l’immagine successiva spiega che cosa accade a chi tenta di guadagnarsi da vivere al di fuori della raffineria. L’odissea di un pescatore è emblematica: un giorno un vigile, passando davanti alla sua bancarella, si accorge che i suoi pesci hanno un odore strano e glieli sequestra. Le analisi sono micidiali ed egli viene denunciato: quel pesce è pericolosissimo. Eppure… eppure, processato, viene assolto e i documenti immediatamente finiscono in archivio. Era il 1973. Da allora, fa notare il pescatore, «quante persone, da quel tempo a oggi, hanno mangiato di quel pesce…» «Le piante, il terreno… tutto quanto… è tutto quanto inquinato» dice Marco, un altro abitante intervistato. «Vi posso dire solo una cosa: che mi è capitato di pulire ventrami d’agnelli che pascolavano nei dintorni della raffineria e abbiamo dovuto buttare via tutto perché aveva odore di zolfo». Il danno che da una cinquantina d’anni affligge gli abitanti di Sarroch, mostra il suo portato tragico con le parole di Annibale Biggeri, docente dell’università di Firenze. In base alle sue ricerche, un’analisi effettuata sui bambini mostra un livello di malattie respiratorie neoplastiche superiori alla media regionale, che Biggeri associa all’inquinamento dell’aria. Il professore parla di anidride solforosa, di polveri fini e di benzene in particolare; ovvero, di una forma di inquinamento di origine industriale. Ma Biggeri non si ferma qui, e afferma che l’esposizione agli idrocarburi policiclici aromatici, presenti nelle polveri fini, e al benzene, hanno ormai comportato un danno al dna. La situazione non è irreversibile, precisa, ma certo, qualcosa occorre fare.
“Non si può fare sicurezza col lavoro precario in un posto in cui un errore ti costa la vita, e può provocare un disastro. Non si può morire così alla Saras, nel 2009: e invece sono morti così. E’ una storia semplice.Sempre la stessa storia”.
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Inquinamento Di fronte al fiato gelido emesso dall’anima nera del capitalismo si avverte un brivido. Le telecamere puntate sui disastri ambientali causati dalla Saras sono impietose, prendono lo spettatore per i capelli e lo riportano indietro nel tempo, a quando la letteratura raccontava storie non già, come accade oggi, per intrattenere, bensì per denunciare. Di fronte ai fumi iniettati nel cielo dagli inceneritori dell’azienda dei Moratti, ai polipi neri pescati in mare, agli uomini costretti a lavorare con maschere antigas che comunque non impediscono ai veleni di ardere i polmoni e i bronchi, la coketown di Dickens o le miniere descritte in Germinal da Zola cessano di appartenere all’immaginario letterario di un passato immerso nella barbarie. Diventano attualità. Il capitalismo non ha mai mutato abiti, semplicemente ha aumentato il dominio dell’informazione per occultare le proprie malefatte. Su Sarroch, così come sempre quando si tratta di affari legati al petrolio, tutto tace. Di devastazione dell’ambiente si parla in generale, di sfruttamento dell’uomo sull’uomo parla solo il silenzio; sui crimini, quelli veri, nessuno osa aprire becco. Non gli scrittori più in voga, non gli sceneggiatori, figuriamoci i giornali di palazzo. Eppure la logica del profitto non ha mai dismesso la violenza. Laddove esiste lo sfruttamento di una risorsa a esaurimento, da sempre regnano morte e povertà per i lavoratori, fatalmente condannati a vivere vicino a fabbriche con un’alta concentrazione d’inquinamento. Così come non si tratta di un caso se raffinerie come la Saras sorgano sistematicamente vicino a centri abitati da ‘povera gente’. Il fatto saliente è che questi capitani d’industria non hanno ragione di utilizzare sistemi di produzione meno nocivi che hanno il grave difetto di essere più costosi. E se è vero che questo è un po’ un luogo comune, lo è assai meno che tale sistema di produzione, come mostra il documentario, è finanziato dallo Stato, tanto quanto il programma di antinquinamento. Ma i soldi, allo Stato, da dove vengono? La regola vale in generale, per cui sarebbe un errore considerare il documentario di Mazzotta alla stregua di una denuncia circoscritta al caso Saras. Tutt’altro. L’industria della famiglia Moratti viene assunta a emblema di un sistema di cui lo Stato è complice. Il suo ‘assistenzialismo’ nei confronti della grande impresa, spesso mediato da laute tangenti, è una perdita pagata a suon di milioni di euro, che contribuisce a fare schizzare verso l’alto il debito pubblico nazionale. Si tratta, da parte del padronato, di un cordone ombelicale mai tagliato, che sta alla base della mancata formazione in Italia di un capitalismo maturo, autonomo e veramente concorrenziale (per chi crede, ça va sans dire, alla funzione sociale dell’industria privata); tutto questo, in barba della retorica inalberata da politici e industriali, quando nei loro fastosi convegni cianciano di libero mercato. Corruzione, protezionismo (di cui il caso Alitalia è solo l’ultimo esempio), sono queste l’unica costante storica del sistema economico italiano (2). La parola chiave è Sarlux, un’azienda controllata dalla Saras, deputata a smaltire le scorie della raffineria madre per riutilizzarle nella produzione dell’energia elettrica, destinata alla vendita al Gse (Gestore dell’energia elettrica). Per comprendere, occorre risalire al 1992; ai giorni in cui l’Italia, a detta di politici e stampa, entra ufficialmente nella modernità grazie alla famigerata deregulation economica e la conseguente spoliazione dello Stato e della sua funzione sociale; nell’anno della privatizzazione selvaggia delle aziende statali, allorquando l’uomo più potente d’Italia diventa il professor Mario Draghi, allora direttore generale del Tesoro. Nel caso qui trattato, il punto di partenza è quella che può sembrare una formuletta
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con la delibera numero 6) una maggiorazione del 6% del prezzo dell’elettricità inserito direttamente nella bolletta della luce, e garantisce al contempo l’acquisto da parte di Enel dell’energia prodotta dai privati, a prezzi maggiorati rispetto al mercato. Un prezzo stabilito da due fattori: a) componente di costo evitato dalla gestione pubblica (impianto, esercizio, manutenzione e costi del combustibile), b) componente di incentivazione (basato sulla stima dei costi aggiuntivi per ogni singola tecnologia). Mentre quest’ultimo è riconosciuto solamente nei primi otto anni di esercizio dell’impianto, i costi evitati sono garantiti per tutto il contratto della fornitura, previsto per un tetto di quindici anni. Una convenzione che, per un curioso mistero, nel caso della Sarlux dura vent’anni. Il documentario mostra in modo assai efficace i risultati dell’intrallazzo tra lo Stato e l’Impresa avvenuto in quel periodo storico. Al solito il gioco è sulle parole – il Potere vive in una sorta di perenne ‘occupazione del vocabolario’ – dal momento che, nella norma, accanto alla locuzione ‘energie rinnovabili’ viene affiancata l’estensione ‘o assimilate’. È fatta! Con una parola che nei vocabolari non ha definizione nel campo della fisica o della chimica, si fa in modo che una vagonata di soldi (il 76% dei fondi stanziati del Cip6 equivale a 30 miliardi di euro) termini la sua corsa proprio nel finanziamento delle energie assimilate – gli inceneritori – al posto delle energie rinnovabili. È grazie a questo inghippo che aziende come la Sarlux, la cui funzione consiste nel bruciare gli scarti della lavorazione del petrolio, ricevono soldi dagli italiani, convinti di devolvere denaro per l’energia pulita, attraverso il pagamento della bolletta della luce. Un modo come un altro per continuare a sfruttare i lavoratori anche al di fuori del lavoro. Fortunatamente nel 1999 arriva Bersani che, con il decreto che porta il suo nome, impone attraverso il meccanismo dei certificati verdi, la fine della ‘truffa’ delle fonti assimilate. Ma, c’è un ma: la regola non vale per le convenzioni stipulate in passato. Pace e prosperità per la famiglia Moratti, dunque, la quale può continuare ad avvantaggiarsi di un doppio canale di guadagno: mentre con la mano destra (Saras) raffina il petrolio, con la sinistra (Sarlux) – e con la fatica minima dell’attraversamento di una strada – brucia gli scarti di lavorazione per produrre energia elettrica da rivendere a prezzi maggiorati. Un palleggio che diventa ancora più conveniente quando il costo del petrolio aumenta, dal momento che insieme al costo del petrolio, aumenta anche il contributo di Stato riconosciuto alla Sarlux, secondo quanto stabilito dalla delibera Cip6. La parte centrale del filmato si sofferma sulla natura di queste fonti ‘assimilate’ tutt’altro che rinnovabili, come sospetta Soru in un’intervista che arricchisce il documentario. Il gas che deriva da questo processo è chiamato Syngas e viene poi utilizzato per produrre l’energia elettrica che lo Stato acquista, come si è detto, a prezzi maggiorati. Purtroppo dalla produzione di questo Syngas derivano altri prodotti di scarto molto nocivi, tra i quali il Filter cake, ricco di nichel e di vanadio e l’H2S, un gas altamente tossico che ha il tipico odore di uova marce. Di fronte a tutto ciò, non si riesce a trattenere un sorriso amaro quando, a tre quarti della proiezione, appare un festante Massimo Moratti persino commosso in occasione della festa per lo scudetto dell’Inter intento a duettare uno sgangherato Ora sei rimasta sola niente di meno che insieme al re degli ecologisti, Adriano Celentano. E non si può fare a meno di chiedersi, rispondendo con cinismo al cinismo di chi specula sulla tragedia, a quale delle donne di Sarroch la canzone sia dedicata. La cerchia dei complici è quindi assai ampia.
Cementificazione Il pastore Ovidio Marras e le associazioni ambientaliste hanno vinto: Capo Malfatano non si tocca. Il resort cinque stelle costruito (in parte) dalla società Sitas vicino alla spiaggia di Tuerredda, sulla costa sud occidentale della Sardegna, non aprirà mai ai turisti e anzi rischia seriamente di essere demolito.
Sarroch, Raffineria Saras. Foto: Mazzuzzi Simone
Dopo un’ora il documentario giunge a conclusione; ma non risparmia un’ultima perla. La scena di chiusura è lasciata ancora alle parole di Gianmarco Moratti. Frasi tombali espresse con malcelata soddisfazione che spengono ogni speranza in chi vive nei paraggi della Saras. Sono pronunciate al plurale, a nome di un’intera dinastia: «Non ci fermiamo qua. E la nostra famiglia intende essere sempre in questa straordinaria realtà. C’è già mio figlio Angelo che ha 44 anni, è in azienda da quando ne aveva diciotto. È vicepresidente. C’è Angelo Mario che ha studiato a Oxford e alla Columbia che è consigliere di amministrazione e capo dell’azienda che abbiamo in Spagna, c’è Gabriele che ha fatto due anni alla Saras, poi ha voluto fare un’esperienza in una grandissima banca americana, ha avuto successo e adesso sta rientrando. Quindi ci siamo già inseriti per portare avanti le cose, ma la nostra famiglia non è la famiglia. La famiglia è la Saras». Il documentario vinse il primo premio al Filmfestival Cinemambiente come miglior documentario: “Per aver portato alla luce con efficacia la vicenda della raffineria Saras fondata nel 1962 da Angelo Moratti, evidenziando gli effetti contraddittori di un modello di sviluppo industriale che ha caratterizzato il nostro Paese negli anni ’60 e che, oltre ad avere portato benefici sull’occupazione, ha sottovalutato o ignorato o nascosto l’impatto a lungo termine sul territorio e sulla popolazione di Sarroch, provincia di Cagliari”.
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Teulada, Capo Malfatano. Foto: Alessandro
Nel 2009 alcuni imprenditori hanno incominciato a prendere di mira le coste di Malfatano e Tuerredda, nel territorio di Teulada. L’intento era di costruire grossi resort e abitazioni turistiche, a un passo da queste preziose coste. Ancora una volta la Sardegna vede massacrato dal cemento e dall’antropizzazione uno dei suoi luoghi più belli in nome della speculazione, dell’insipienza, dell’arroganza. E’ uno dei pochi grandi tratti di costa (circa 35 km.) ancora in gran parte integri del Mediterraneo. Rocce, piccole calette (Tuerredda, Campionna, Piscinnì), ambienti dunali, stagni (Piscinnì, Tuerredda), porti naturali già utilizzati in antichità (come la Merkat fenicia nel rìas di Malfatano), tutelati con vincolo paesaggistico, in parte con vincolo archeologico, destinati ad area marina protetta. Questo progetto è stato sviluppato da una società immobiliare abbastanza importante, e consiste nella creazione di grandi residenze turistiche di circa 140 mila metri cubi, quindi l’intera costa. Il comune di Teulada, per venire in contro agli imprenditori ha deciso di chiedere al comune di Cagliari circa 185 mila euro per questo progetto. Tante ville e meno ricettività alberghiera, così è stato deciso il 1 aprile 2010 dal Consiglio comunale di Teulada, accogliendo le istanze della Società immobiliare, ha approvato la rimodulazione delle volumetrie e la modifica delle tipologie edilizie. Il resort di Malfatano è enorme, cinque stelle, 300 camere e due comparti di ville di lusso, 16 nel comparto D e 29 in quello F, 1,5 milioni di euro l’una, 700 ettari di costa distrutti. In progetto c’è anche la riduzione delle spiagge, per i giardini delle ville e per le altre zone del resort. Tutto questo darà circa 2500 posti di lavoro e si sta già pensando alla zona di Capo Pecora. Questo progetto fu quindi ufficializzato, fino al 2013, quando tutto cambiò. Nel 2013 le costruzioni del resort erano
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riduzione delle spiagge, per i giardini delle ville e per le altre zone del resort. Tutto questo darà circa 2500 posti di lavoro e si sta già pensando alla zona di Capo Pecora. Questo progetto fu quindi ufficializzato, fino al 2013, quando tutto cambiò. Nel 2013 le costruzioni del resort erano quasi a metà quando un pastore sardo, Ovidio Marras, ha cambiato il futuro del progetto milionario. Ovidio Marras, che in quella zona vive e possiede il diritto di compossesso di un stradina, sulla quale però avevano costruito una struttura alberghiera facente parte del maxi resort, si è rivolto al Tribunale di Cagliari, per val valere il suo diritto, in quella strada non si può costruire senza il suo permesso. Il giudice gli ha dato ragione e il resort è stato abbattuto. Con un secondo intervento di Italia Nostra e una seconda sentenza le quattro delibere sono state annullate. Vincono i sardi dalla testa dura, gli ambientalisti e le spiagge dell’isola, perdono la speculazione e il cemento. Il Consiglio di Stato “ha anche confermato la funzione delle associazioni in difesa del patrimonio culturale. Per gli ecologisti una vittoria che fa ben sperare anche per le future battaglie. “Malfatano deriva dall’arabo ‘Amal fatah’ che vuol dire ‘il luogo della speranza’, la speranza che per Italia Nostra - concludono gli ambientalisti - sentenze come queste indichino quale debba essere il rispetto che il nostro patrimonio storico, artistico e naturale merita ogni giorno nel nostro Paese”. Interessi economici e speculazione di un territorio unico e bellissimo, ma soprattutto turistico. La costa di Malfatano è salva!
Foto : Alberto Mei
Eventi Negativi
Provincia di Oristano
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Foto : Alberto Mei
Incendi Con l’economia di mercato, il fuoco è diventato una scorciatoia per accedere a risorse territoriali che, con la monocultura del bestiame ovino, diventavano insufficienti. Negli anni più recenti, invece, l’incendio doloso ha assorbito le motivazioni causali tipiche di quei fenomeni distruttivi delle moderne società, dove vandalismo, disadattamento, sentimenti di rivalsa e vendetta, sono in costante crescita. Brucia il Monte Arci, brucia tutto l’Oristanese ,stretto nella morsa degli incendi. Complici le alte temperature e il vento caldo, le fiamme hanno tenuto impegnati Vigili del fuoco e uomini del Corpo Forestale per diverse ore. L’incendio più preoccupante è divampato poco dopo le 13 del 17 Giugno 2013 ai piedi del Monte Arci, nella zona di Tiria. Le squadre a terra dell’antincendio hanno chiesto anche l’intervento di un elicottero e di due canadair per cercare di bloccare il rogo prima che avanzi verso la borgata di Tiria e colpisca il sottobosco. Fiamme anche nel Terralbese, a Santa Giusta e Cirras, a Palmas Arborea, Marrubiu, Siamanna, Arborea e Villaurbana. Si tratta soprattutto di incendi di sterpaglie. A Tanca Marchese (frazione di Terralba) un incendio ha distrutto un fienile in un’azienda agricola. Pesantissimo il bilancio dell’incendio che ha colpito i boschi di Sinnai, Laconi e Ghilarza nell’oristanese. Non bastarono nemmeno i 3 canadair e 12 elicotteri di ieri e i 10 elicotteri a spegnere l’incendio. Sono migliaia gli operatori tra vigili del fuoco, protezione civile, Corpo forestale regionale, polizia e carabinieri che sono stati impiegati per fronteggiare l’emergenza ma, dopo aver evacuato alcuni borghi e centri popolati, scattò l’allarme: “Non riusciremo a spegnere l’incendio se non arrivano altri volontari!“. Un allarme forte lanciato proprio nella rete, fu trasmesso di bacheca in bacheca, tra quei pochi utenti che si collegano nelle ore pomeridiane sui social network. Il villaggio di Laconi in provincia di Cagliari fu evacuato e la popolazione fu trasferita verso l’interno. Pochi gli affetti recuperati e portati con sè con la speranza che il fuoco non distruggesse ogni cosa. Nei boschi di Leccio del Gerrei, e a Ghilarza furono impiegati 3 elicotteri. Tuttavia ci fu il vento da sud-est a peggiorare le cose e rendere l’operazione di spegnimento molto più difficile del previsto. Le temperature sono di oltre 33° C contribuirono ad alimentare le fiamme rendendo quei boschi sardi una vera e propria fornace. Per questo su facebook è stato lanciato l’allarme: “Ci servono volontari, stiamo bruciando! Condividete questa foto!” Gli incendi boschivi dilaniarono l’Oristanese, per questo ci fu una riunione operativa a Cagliari per fare il punto sulla grave emergenza. Il bilancio fu di tre feriti. gravi e di migliaia di ettari di bosco andati in fumo con numerose varietà di flora e di fauna tutto assolutamente vicino ad alcuni centri abitati. L’incontro è stato presieduto dall’assessore dell’Ambiente della Regione sarda, Andrea Biancareddu che ha affermato di essersi recato verso nelle prime ore del mattino nelle campagne di Ghilarza (Or) dove incontrò le squadre impegnate nei soccorsi. Presenti anche il comandante del Corpo Forestale della Regione, Carlo Masnata, il capo della Protezione Civile, Giorgio Cicalo’ e i vertici dell’Ente Foreste.
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“Un’emergenza, per entita’ dei danni ambientali e qualita’ dell’azione degli incendiari, che necessita di un impegno straordinario di tutela e contrasto. Pertanto e’ imprescindibile l’invio di ulteriori canadair del dispositivo aereo nazionale e della dislocazione stabile dell’elitanker cosi’ come richiesto piu’ volte”.
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Alluvioni
Foto : Claudia Basciu
Il 18 Novembre 201, Uras fu totalmente sommersa dall’acqua. Tantissimi danni, causati da violenti nubifragi. A causa della saccata fredda verso est si è creata una linea temporalesca pazzesca, che ha attraversato la Sardegna, da nord a sud provocando fortissimi nubifragi nelle province di Olbia, Oristano, Ogliastra e Cagliari. Il passaggio dei temporali sulla Sardegna è risultato devastante, tanto da causare vittime, dispersi, allagamenti estesi e danni incalcolabili. Nella cittadina di Uras, in provincia di Oristano, le piogge torrenziali hanno causato allagamenti impressionanti, dovuti anche all’esondazione di diversi canali. Le strade si sono trasformate in fiumi in piena, che hanno sommerso auto, e i piani bassi delle abitazioni. Una vittima nella cittadina, in provincia di Oristano : si chiamava Vannina Figus e aveva 64 anni, la donna morta nell’abitazione di via Brigata Sassari allagatasi, nell’abitato di Uras. Ancora non sono chiare le cause del decesso. Il marito, Piero Pia, pensionato Enel, è stato ricoverato all’ospedale di Oristano in ipotermia. Un pensionato ottantenne sulla sedia a rotelle e sua moglie sono stati tratti in salvo all’interno della loro abitazione allagata. I due coniugi, Renzo Corrias e Maria Atzeni, si sono trovati in grande difficoltà, perchè l’onda dell’acqua ha sfondato la porta della casa, al piano terra, nel quartiere di San Salvatore. Le stanze si sono subito allagate e il livello dell’acqua è salito velocemente. Fortunatamente le grida d’aiuto dei coniugi sono state sentite dai soccorritori che sono riusciti a portarli in salvo.
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Il presidente della Provincia di Oristano, Massimiliano de Seneen, ha riunito questa mattina la giunta provinciale per fare il punto della situazione, esprimendo a nome di tutto l’ente, il profondo cordoglio per il dramma di Uras. Preoccupazioni e solidarietà anche verso le comunità coinvolte in questa calamità che ha colpito l’intero territorio provinciale. Immediatamente dopo la riunione di giunta, l’assessore all’ambiente, Mariella Pani, insieme alla Commissione ambiente si sono recati nei luoghi più devastati dal maltempo ed incontrato il sindaco di Uras, con la visita agli sfollati che hanno trovato rifugio nella palestra scolastica. Analoga situazione si è verificata anche a Terralba, ma lo stato delle strade, chiuse, non hanno consentito la visita anche in quel Comune. “Mancano risorse e mezzi - ha dichiarato l’assessore Pia - ma il personale ha fatto tutto il possibile in questi drammatici frangenti. Al momento tutto l’ufficio tecnico è si è recato nei diversi tratti stradali in emergenza. In Giunta ho già richiesto ulteriori stanziamenti per garantire il ripristino della sicurezza stradale”.
Inquinamento
Stagno di Santa Giusta. Foto: Claudia Basciu
Uras. Foto: Claudia Basciu
“Si tagliano le risorse giustificandola con il falso messaggio di voler penalizzare la casta politica. Le risorse mancano per i servizi alle persone, ai disabili, al territorio. Purtroppo ci si accorge delle conseguenze di un tale irresponsabile atteggiamento politico solo quando accadono fatti gravi come quello attuale” E il futuro non si prospetta certamente più roseo. E’ di questi giorni la notizia che l’ipotesi di finanziaria regionale comporterebbe un taglio consistente ed insostenibile del fondo unico destinato alle Province per funzioni delegate (per la sola Provincia di Oristano si prevede un taglio di 5 milioni di euro), decisione che metterà ulteriormente a rischio i servizi e le funzioni che la Provincia deve assolvere e che avranno gravi ripercussioni sulle comunità e sul territorio. Furono chiuse le seguenti strade : sp. n. 35 (Siamanna - Simaxis) chiusa per allagamento; sp. n. 9 (Bauladu) presenta grandi difficoltà di percorrenza a causa del forte afflusso d’acqua; sp. n. 98 (131 - borgata agricola di Morimenta, Mogoro) chiusa per allagamento sp. n. 47 (Uras - S. Nicolò d’Arcidano) chiusa per allagamento; sp. n. 92 (Circonvallazione di Terralba) percorrenza consentita ma a velocità limitata; sp. n. 44 (Gonnostramatza) presenza di frane e massi. Interventi nella notte da parte del personale provinciale conclusi questa mattina. sp. n. 61 (Terralba sottopasso ferroviario) chiuso per allagamento;
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per allagamento; sp. n . 49 (Santa Giusta - Arborea) nel tratto dell’idrovora rallentamento, a rischio di chiusura. sp. n. 68 (Marrubiu, pedemontana) allagata a tratti, percorrenza difficoltosa; sp. n. 15 (Tramatza - Milis) allagamento, percorrenza difficoltosa; Il taglio dei trasferimenti statali e regionali che l’Ente ha subito in questi anni, ma soprattutto in quest’ultimo anno, stanno creando, ma ancor più ne creeranno in futuro, gravi ripercussioni alle comunità.
Stragi di pesci e di cormorani. E’ il crollo economico ed ambientale degli Stagni dell’Oristanese, inquinamento e cattiva gestione. Varie associazioni ecologiste hanno denunciato tutto questo per tanti anni. Sono stati utilizzati metodi di pesca distruttivi. All’alba del 6 agosto del 2004 ci si accorse della moria di centinaia di pesci e allora iniziarono le ispezioni e i prelievi delle acque. Come poi accertò il tecnico della Asl, Daniela Manca, la temperatura dell’acqua era elevata e la quantità di ossigeno scarsissima. In più si registrò una presenza di azoto e fosforo che lasciava intuire che lo stagno fosse stato avvelenato dagli scarichi fognari. Gli accertamenti consentirono di stabilire che i Comuni di Santa Giusta, Palmas Arborea e Cabras, così come il quartiere del Sacro Cuore di Oristano erano collegati al depuratore. Il resto della città continuava a scaricare i reflui nel canale di San Giovanni e da questo nello stagno, col succedersi quotidiano delle maree. Secondo l’accusa non ci furono dubbi che a causare la moria, - l’ennesima nel breve volgere di pochi anni – furono gli scarichi fognari di Oristano e che le responsabilità vanno ricercate nel dirigente dell’Ufficio Tecnico comunale. Per questo si è fatto riferimento a incontri e richieste di intervento per rimediare alla situazione e completare il collettamento con una seconda condotta. Cosa che non avvenne. La difesa ha però rimarcato come, sin dagli anni ’90, la Regione avesse speso diciotto miliardi di lire per un sistema generale di raccolta e convogliamento verso il depuratore del Consorzio Industriale dei reflui fognari dei paesi interessati.
Mai però questo è entrato in funzione. La catastrofe mise in ginocchio i sessanta pescatori della peschiera e le loro famiglie. Il centro lagunare, infatti, basa buona parte della propria economia sulla pesca e sulle attività ad essa connesse, senza le quali fatica a produrre ricchezza. La decisione dell’Argea si scontra con il parere di alcuni docenti universitari, i quali avevano riscontrato – nei giorni successivi alla moria – l’eccezionalità dell’evento, dovuto all’azione di un’alga killer e favorito da condizioni atmosferiche particolari. Il danno subito dai pescatori, quindi, non è indennizzabile e il futuro non appare roseo. Infatti, la moria non aveva causato esclusivamente una perdita economica, difficile da quantificare e limitata alla produzione di una sola stagione, ma avrebbe avuto un effetto negativo nei prossimi due o tre anni, ossia il tempo ritenuto necessario affinché la peschiera possa iniziare nuovamente a lavorare a pieno regime. Ora bisognerà aspettare per conoscere le motivazioni in virtù delle quali è stato negato il riconoscimento dello stato di calamità e per il futuro è auspicabile che vengano intraprese azioni preventive per evitare che simili catastrofi si ripetano.
Le associazioni ecologiste Amici della Terra e Gruppo d’Intervento Giuridico lo denunciano in maniera documentata da molti anni. Ancora recentemente sono stati autorizzati metodi di pesca ulteriormente distruttivi (i bertivelli).
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Cementificazione
Foto : Claudia Basciu
Il 10 giugno del 2010 si è conclusa una grande speculazione turistico-edilizia sulle dune boccate di Is Arenas, nell’Oristanese. Vari immobiliari decisero di progettare uno stabilimento turistico, e quindi la distruzione di grandi boschi e foreste. Un vero incidente ambientale, distruzione di habitat naturali e semi-naturali, fauna e flora. Le varie associazioni ambientaliste sono intervenute subito, denunciando questa tragedia e spiegando tutti gli effetti negativi legati a questo progetto. Per vari e lunghi anni si è combattuto contro questa speculazione edilizia, spiegando tutte le normative di tutela ambientale. Nel 2001 la Commissione europea prese per mano questa situazione e lanciò una procedura di controllo, con varie interrogazioni sui fatti e con un controllo dettagliato delle varie zone incriminate. Nel 2003 l’allora Ministro dell’ambiente Altero Matteoli provava senza successo a stralciare Is Arenas dalla lista dei siti di importanza comunitaria. Il 22 dicembre 2004 ed il 13 dicembre 2005 venivano inviate altre lettere di messa in mora complementari, senza alcun esito. Nel febbraio 2008 un’ulteriore parere motivato, ancora senza esito. Dopo una serie di attività regionali senza alcuna risoluzione definitiva delle gravi inadempienze, la Commissione europea ha inoltrato (25 novembre 2008) il ricorso alla Corte di Giustizia europea. Nell’aprile 2009 la Regione autonoma della Sardegna ha cercato in extremis di correre ai ripari: ha approvato uno stralcio del piano di gestione del sito di importanza comunitaria – S.I.C. “Is Arenas” (ITB032228), con una serie di misure di tutela: “riduzione del 10% del volume edificatorio previsto dall’accordo di programma immobiliare del 1997 (222.900 metri cubi di volumetrie complessive, n.d.r.) con l’apertura di corridoi allo scopo di contenere l’eccessivo impatto del tessuto edificato; consentire l’attraversamento della fauna e favorire il dinamismo della vegetazione; riduzione controllata dei consumi della risorsa idrica per le attività legate al golf, mediante progressiva e graduale sostituzione delle essenze erbacee con altre meno idroesigenti; ampliamento del perimetro del S.I.C. per una superficie pari a circa 163 ettari a terra, per la tutela dell’habitat dunale, e a circa 3.850 ettari a mare, per la tutela dell’habitat marino praterie di Posidonia Oceanica, secondo la perimetrazione individuata e prodotta in allegato al Piano di Gestione stralcio. Ma ormai il danno ambientale è stato fatto, le strutture ricettive sono state aperte, analogamente al campo da golf, e le ville sono in vendita. Le associazioni ecologiste Amici della Terra e Gruppo d’Intervento Giuridico continueranno a fare quanto possibile perché chi ha sbagliato – e ha comportato un danno ambientale – paghi. E la speculazione edilizia venga, finalmente, fermata. Nel 2010 la corte Ue condanna l’Italia sul villaggio di Is Arenas. È finita come doveva finire, come era prevedibile che finisse: la Corte europea di giustizia ha condannato l’Italia per la cementificazione sulle dune boscate di Is Arenas. Visti i presupposti giuridici e storici, è una sentenza per certi versi attesa, quasi scontata, ma di grandissimo valore politico.
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“Per vari e lunghi anni si è combattuto contro questa speculazione edilizia, spiegando tutte le normative di tutela ambientale”.
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Diego Lissi, invece, è stato in passato il braccio destro del potente banchiere svizzero Tito Tettamanti padre-padrone della Fidinam e della Banca Svizzera Italiana. Poi, Lissi è diventato il rappresentante fiduciario di investitori - che preferiscono stranamente rimanere nell’ombra - in più di 50 società anonime di capitale. Insomma, un’operazione da più di 220mila metri cubi di cemento con qualche ombra inquietante. Gli ambientalisti del Gruppo d’Intervento Giuridico, degli Amici della Terra e dei Verdi di Oristano si sono sempre opposti alla cementificazione sulle dune boscate di Narbolia. Uno scontro durissimo cominciato circa dieci anni fa e che si è concluso proprio ieri con la sentenza della Corte di giustizia che ha dato completamente ragione agli ecologisti. I giudici europei rilevano infatti che la Repubblica italiana «è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza della direttiva “habitat”, non avendo adottato, prima del 29 luglio 2006, le misure idonee a proteggere l’interesse ecologico del sito proposto e, dopo il 19 luglio 2006, misure appropriate per evitare il degrado degli habitat naturali per i quali il sito è stato designato». La zona, ricorda la Corte, è stata inserita nel 2006 nella lista dei siti d’importanza comunitaria (Sic). Dopo aver saputo, «in seguito a una serie di esposti, che nell’area si stava completando un insediamento turistico, compreso anche un campo da golf, che aveva compromesso le caratteristiche ecologiche», la Commissione europea aveva deciso di portare l’Italia davanti ai giudici Ue per violazione della direttiva comunitaria sugli habitat della flora e fauna selvatica.
Dune di Is Arenas. Foto: Alessandro Carboni
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Eventi Negativi Provincia di Nuoro
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Incendi Tutte le squadre antincendio furono impegnate il 21 Luglio 2012 in un vasto rogo che ha interessato il bosco nella zona di Benzone ad Olzai, in provincia di Nuoro. Intervennero due Canadair, un Elitanker e cinque elicotteri della flotta regionale ha combattuto contro le fiamme.
Non ci sono stati pericoli per le persone né per l’abitato del centro montano, ma l’area percorsa dal fuoco è di alto valore naturalistico e meta di molti turisti. Secondo una prima ricostruzione, le fiamme sarebbero partite da una zona interessata da interventi di rimboschimento. L’allarme è stato dato da una vedetta, che è stata immediatamente evacuata. Il rogo si è spinto verso Ollollai, ma anche in questo caso la situazione per i civili è rimasta sotto controllo. Le operazioni di spegnimento sono state facilitate dalla presenza di diversi bacini idrici, dal lago del Taloro al ‘salto’ di Benzone. L’obiettivo dell’apparato anticendio era quello di circoscrivere il rogo entro le 20 per evitare che possa riprendere con l’annuncio di un’allerta meteo che dovrebbe portare vento forte di maestrale, il fuoco possa riprendere. Un altro incendio, nelle stesse ore, ha interessato anche la zona tra Borore e Dualchi, subito domato grazie all’intervento di alcuni mezzi aerei.
Foto : Claudia Basciu
Il 20 Luglio 2010 la zona di Benzone a Olzai, in provincia di Nuoro, è stata colpita da un terribile incendio. Le fiamme sarebbero partire da una zona interessata da interventi di rimboschimento. L’allarme è stato dato da una vedetta, che è stata immediatamente evacuata. Per fortuna nelle vicinanze c’è un lago, quello del Taloro, che ha aiutato a spegnere le fiamme, grazie a diversi bacini idrici. Non ci sono stati pericoli per le zone abitate, tutto era sotto controlla da due Canadair, un Elitanker e cinque elicotteri della flotta regionale. La sintesi finale fu la distruzione di circa 500 ettari di campagna, tutto ridotto in cenere.
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“Occorre almeno sottolineare che gli incendi ripetuti rinforzano i fattori predisponenti, inaridendo il clima e il terreno e favorendo l’espandersi di una vegetazione di grado evolutivo inferiore, come le varie tipologie di macchie e garighe che, a loro volta, sono maggiormente infiammabili. E’ il circolo vizioso degli incendi, che favorisce la recrudescenza del fenomeno”.
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Alluvioni
Foto : Claudia Basciu
La gente ha lavorato per ore tra i detriti, cresceva la rabbia «L’emergenza si ripete, troppe responsabilità nascoste». Inondati scantinati, garage, abitazioni, officine e stabilimenti Ponti travolti, vie impraticabili, case evacuate. La prefettura di Nuoro ha istituito un centro di coordinamento degli interventi. Un sole beffardo ha accompagnato la mattinata del 28 novembre 2008 dopo che una pioggia incessante per tutta la notte ha mandato in tilt l’intero territorio. Delle carciofaie, degli agrumeti di Orosei non rimane più nulla. Tutto è diventato un mondo sommerso dalle acque. Questa volta, come le precedenti, la Natura si è ribellata allo scempio dell’uomo. Il paesaggio era desolante, gli occhi di chi ha perso anni di lavoro, tristi e increduli. Il maltempo non ha fatto vittime anche se la pioggia intensa che ha flagellato tutta l’isola ha causato danni inquantificabili. A Orosei, come a Sos Alinos e Onifai, era giornata d’emergenza. Decine e decine di persone hanno lavorato lunghe ore per liberare dall’acqua gli scantinati, le officine, i garage e cercare di salvare le poche cose ancora salvabili. I campi, le serre invece, erano proprio irraggiungibili. Come meno di un mese fa, la furia delle acque ha investito quanto ha trovato lungo il suo corso. I ponti sono stati travolti dai torrenti in piena e diverse località isolate. Il centralino dei vigili del fuoco non ha smesso mai di squillare. Si è data priorità al salvataggio e al recupero delle persone che, soprattutto a Orosei hanno avuto difficoltà a lasciare casa mentre il livello dell’acqua continuava a salire.
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Sebbene gli argini dei fiumi fossero stati ripuliti, tanta era la quantità di pioggia che non è stato possibile il deflusso. Una situazione allarmante con molte strade bloccate per il rischio di frane e crolli. Come la statale 125, la strada provinciale 12 e il tratto della 125 che da Orosei porta alla frazione di Sos Alinos, chiusa per il crollo di un ponte e il pericolo di un altro. Blackout sulle linee elettriche e telefoniche, gli operatori di Enel e Telecom hanno lavorato per ripristinare i servizi. La prefettura di Nuoro, allertata dalle prime ore della mattina, ha istituito un centro di coordinamento soccorso al quale sono state confluite le forze operative dello Stato, della Provincia, dell’ispettorato forestale, dell’Enel, dell’Anas, del Genio civile, delle forze dell’ordine. Una situazione di vera emergenza che ha proiettato tutte le energie sul territorio con la speranza di risolvere una situazione disastrosa. Case invase dal fango, negozi sotto il livello delle acque, animali morti annegati sulla spiaggia che non esiste più. Tutto è stato trasformato e il paesaggio di Orosei reso irriconoscibile. Posti di blocco delle forze dell’ordine impedivano di raggiungere alcune zone. Solo per casi urgenti era permesso il transito verso l’area industriale. Tassativo invece lo stop all’inizio del ponte di Sa minda. Lì a dieci chilometri da Orosei e a pochi altri da Sos Alinos una campagnola dei carabinieri, diretta verso la frazione, a un certo punto ha avvertito qualcosa di strano, di diverso. Francesco, militare delle squadriglie del comando provinciale, si è accorto di un anomalo avvallamento dell’asfalto. «Abbiamo giusto fatto
Inquinamento
Orosei. Foto: Claudia Basciu
in tempo a tornate indietro, affacciarci oltre il guard rail e vedere che del doppio arco di pietra e del pilone che lo sorreggeva non era rimasto più nulla. Durante la notte tutto è stato spazzato via dalla forza del torrente in piena», ha raccontato un militare. Nastri bianchi e rossi ne limitavano il passaggio sia dall’una che dall’altra parte. Si aspettava il crollo da un momento all’altro, quell’antica costruzione in massi di trachite ha invece resistito. La preoccupazione di molti altri cittadini invece, era concentrata sulle situazioni personali. I fratelli Spina, titolari di una officina meccanica, concessionaria e centro revisioni, hanno cercato, invano, di liberare i locali dall’acqua che aveva raggiunto il metro e mezzo d’altezza. Olio e combustibile galleggiavano in superficie mentre il signor Spina continuava a dire: «Ogni volta è la stessa storia, tra l’altro è dalle 2 di stanotte che ho chiesto aiuto e nessuno si è fatto vedere. Mi hanno messo in lista d’attesa». Qualche metro più in là un altro vicino di casa con la motopompa in azione cercava di svuotare il garage con all’interno ben quattro macchine di famiglia. Tutte andate distrutte. L’alluvione del 18 novembre, per Pasqualino Contu, ha rappresentato il colpo di grazia. La sua azienda, la 3C, che costruisce prefabbricati di cemento armato ed è conosciuta in tutta l’isola, è stata sommersa da un metro e mezzo di fango, con danni per un milione e mezzo di euro. Negli anni scorsi, altre due alluvioni avevano messo in ginocchio lo stabilimento, ma Contu era riuscito a rialzarsi e ripartire. Questa volta, il colpo è stato troppo duro. L’imprenditore si è tolto la vita stamattina, nel giardino della sua casa a Orosei. A lanciare l’allarme, un passante. Contu lascia la moglie e due figli.
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Il titolare della 3C aveva incontrato il presidente della Regione Cappellacci, in visita nelle zone colpite dall’alluvione, e gli aveva chiesto di attivare un canale di finanzimenti privilegiato per le aziende colpite. A Contu sarebbero bastati pochi fondi per ripulire i macchinari e riprendere la produzione. Ma gli aiuti non sono arrivati in tempo. Il dolore per questo ennesimo danno e le preoccupazioni per il futuro, infatti, hanno avuto la meglio sulla speranza di ripartire. Pasqualino Contu aveva avviato l’industria con il padre nel 1980, che aveva iniziato a Nuoro con piccoli manufatti di cemento. All’epoca, l’unica area di Orosei in cui si potessero costruire industrie era proprio quella più esposta in caso di alluvione. «Sono attonito e scosso». Così il presidente della Regione, Ugo Cappellacci, commentò la notizia del drammatico gesto di Pasqualino Contu. «In questi momenti le parole non servono - aggiunse Cappellacci - Di fronte a un dramma umano che arriva dopo il dramma che ha colpito intere comunità, devastato territori e messo in ginocchio aziende e famiglie, l’unica cosa da fare è raccoglierci in silenzio e meditare, stringendoci alla moglie e ai figli dell’imprenditori di Orosei».
Porto Vesme è una delle zone più colpite dall’inquinamento sardo. Questa zona della Sardegna è considerata tra quelle a più alto rischio in Italia. L’ultimo allarme è la scoperta di cloroformio, ma le contaminazioni sono infinite, arsenico incluso. I fanghi rossi e l’incubo della presenza di elementi radioattivi. Con la crisi delle aziende, Alcoa in testa, restano la centrale a carbone dell’Enel e la Portovesme Srl che tratta i fumi di acciaieria. Il dottor Luigi Atzori, medico condotto di Portoscuso e vicesindaco, è uomo mite, prudente e informato. Dei suoi compaesani conosce la biografia sanitaria fin dalla nascita. Come tanti, da queste parti, ha creduto nell’industrializzazione, e ancora oggi non rinuncia a sperare che l’industria, magari in forme meno devastanti, possa ridestarsi e lenire la disperazione che ha invaso la sua gente con la chiusura delle industrie. Non ha bisogno di statistiche il dottor Atzori, per ricordare i troppi morti provocati dall’inquinamento. Ricorda uno per uno la decina di lavoratori che al porto industriale scaricavano a mani nude, senza alcuna protezione, la blenda, la galena e persino la pece, che dovevano servire per la lavorazione dello zinco. Polveri che li hanno avvolti per anni e hanno finito per ucciderli, uno dopo l’altro. Ricorda i muratori delle imprese esterne dell’Alcoa impiegati a distruggere e ricostruire i forni neri, morti per i veleni incontrati nel lavoro, ma mai riconosciuti come operai a rischio, proprio perché assunti da muratori, e quindi non degni neanche di un misero risarcimento alle famiglie. Conosce tutto questo, il dottor Atzori, anche se la sua natura prudente gli fa dire che “comunque una cosa sono le morti dei lavoratori, un’altra l’incidenza che l’inquinamento può aver avuto sulle morti per tumori della popolazione: questa non è dimostrata. Da qualche mese il dottor Atzori e con lui tutti coloro che di allarme ambientale si occupano a Portovesme e d’intorni sono impegnati su un nuovo fronte. Nel mefitico calderone dei veleni del Sulcis c’è una novità che ha allarmato non poco il Ministero dell’Ambiente. Nell’ultima conferenza dei servizi sulle bonifiche è stato rivelato che due chilometri a nord della zona industriale di Portovesme, in una falda vicino a Capo Altano, sono state rilevate tracce importanti di cloroformio. “Verificate immediatamente la provenienza e mettete in sicurezza”, ha ordinato il Ministero al Comune di Portoscuso e alla Portovesme srl, azienda proprietaria dell’area, “al fine ultimo di limitare, fino ad arrestare, la propagazione della contaminazione e proteggere il bersaglio sensibile costituito dal mare”. Il cloroformio è sostanza molto cancerogena, che dovrebbe essere al bando ormai da anni nella produzione industriale. La Portovesme srl, della multinazionale Glencore, che produce zinco dai fumi di acciaieria, nella zona in cui è stato trovato il cloroformio non ha mai svolto attività industriale, e visto che la falda si trova a monte dello stabilimento i sospetti sono due: o quella falda proviene dalle vicine miniere di carbone di Seruci e Nuraxi Figus, oppure qualcuno ha fatto il furbo e in quei terreni ha scaricato abusivamente residui di una qualche lavorazione industriale, naturalmente illegale. Ci mancava solo il cloroformio in quest’area industriale considerata tra le più a rischio d’Italia. Questa era terra di vigneti, di pastori e di pescatori. E di minatori. Poi, mentre le miniere chiudevano una dopo l’altra, sono arrivate le ciminiere fumanti che fino a qualche anno fa sono state garanti di un patto scellerato tra la gente del posto e gli industriali: occupazione e benessere in cambio di mano libera nella devastazione ambientale. L’ultima indagine del ministero dell’Ambiente denuncia valori di veleno con picchi stratosferici rispetto ai limiti, che segnaliamo
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34.359 (1500); il nichel 214 (20); il piombo 29.6 (10). Non meno grave la situazione nelle falde profonde. Zinco 3.134.000 (3.000); manganese 312.000 (50). E in superficie, dove tutti questi veleni, oltre a zinco, rame, policiclici aromatici e l’immancabile arsenico, sono distribuiti in quantità industriali oltre ogni limite consentito. Gli effetti sulla salute della popolazione e dei lavoratori sono ben segnalati da un recente report della Regione Sardegna. Negli ultimi 20 anni i morti per malattie respiratorie nella zona sono stati 205 sui 125 previsti, e i tumori polmonari hanno avuto un incremento del 24 per cento. Senza contare gli screening sui bambini di Portoscuso che hanno sempre evidenziato tassi di piombo nel sangue molto superiori alla norma. Non c’è mamma a Portoscuso che dia ai propri figli frutta o verdura coltivata negli scarsi e stentati orti del paese. I pochi che denunciavano lo scempio e i suoi effetti drammatici sulla salute delle persone, venivano liquidati come scocciatori: “Ambientalista” era diventato un insulto. “Perché qui non si producono confetti”, dicevano i difensori a oltranza (primi tra tutti i sindacati) di questo polo del piombo e dello zinco, con le sue industrie della metallurgia pesante a più deflagrante impatto ambientale come Eurallumina, Alcoa, Portovesme Srl e la Centrale Enel a carbone. Asserzione realista, che però non ha impedito che questa valle, dove fino a pochi anni fa lavoravano fino a trentamila persone, si sia trasformata oggi in un deserto industriale in cui si aggirano, disperati, i disoccupati e i cassintegrati. Eurallumina del gruppo russo Rusal ha chiuso i battenti, nonostante le promesse di Berlusconi, nell’ultima campagna elettorale per mettere a capo della regione il suo commercialista Cappellacci, di risolvere tutto con una telefonata all’amico Putin. Alcoa ha annunciato di voler riprendere la produzione di alluminio dopo una battaglia che ha visto i suoi operai protestare persino nelle strade di Roma, fino allo scontro fisico con la polizia. Per il momento però è chiusa e ha un contenzioso aperto con Regione, Provincia e Comune di Portoscuso su quanto dovrà sborsare per rimborsare il territorio del disastro ambientale. “Non siamo stati i soli a inquinare”, dicono ad Alcoa. E in parte hanno ragione. Basta vedere cosa è diventato il braccio di costa che guarda direttamente all’isola di San Pietro, paradiso naturale e uno dei punti di forza del turismo sardo. I fanghi rossi dell’Eurallumina, concentrati di soda derivanti dalla lavorazione della bauxite, depositati per anni nell’ignavia di chi avrebbe dovuto controllare, occupano una superficie di oltre 120 ettari e buona parte dei suoi 20 milioni di metri cubi sono ormai sprofondati in mare. Da qui, e da altre discariche della zona, nei giorni di levante si alzano nuvoloni gonfi di polvere che va a depositarsi ovunque, fin dentro le case di Portoscuso. L’intera discarica dal 2009 è stata posta sotto sequestro dalla magistratura, ma le indagini sulle responsabilità di questo scempio sono ancora nel vago.
Cementificazione Cementificazioni ovunque nel Nuorese, da Tortolì a Posada. Spiagge rovinate, paesaggi distrutti, costruzione abusive, un’isola comandata da tantissimi imprenditori e da vari misteri che circondano la nostra terra, tra omicidi e segreti mai risolti.
Porto Vesme. Foto: Claudia Basciu
Tortolì, Ogliastra. Foto: Alessandro Carboni Sono state portate a esecuzione ben 198 sentenze passate in giudicato comportante la demolizione di abusi edilizi e il ripristino ambientale nell’arco di un anno (aprile 2012 – marzo 2013). Sono state ben 130 le residenze abusive demolite, delle quali 104 demolite dai trasgressori e 26 eseguite d’ufficio. Tutte seconde o terze case, mentre “tredici sentenze con condanna alla demolizione riguardanti famiglie di Tertenia, che non hanno altra abitazione, saranno eseguite nel prossimo mese di novembre, per consentire l’inserimento nel Puc (Piano urbanistico comunale) che potrebbe essere approvato dal consiglio comunale nel mese di ottobre”. Demoliti anche dighe, recinzioni, muri abusivi, spesso in zone a rischio idrogeologico o sulle coste. Questi i dati forniti dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Lanusei al termine della campagna di demolizioni degli abusi edilizi sulle coste d’Ogliastra, in particolare nei territori comunali di Tortolì, Tertenia, Barisardo, Baunei. In questi mesi si è visto un po’ di tutto in difesa del cemento illegale: dalle manifestazioni di alcune centinaia di abusivi accolti amichevolmente da troppi consiglieri regionali al vittimismo di amministratori locali finora ignavi davanti a ruspe e mattoni non autorizzati, dalla squallida proposta di legge regionale anti-ruspe al leader degli abusivi che rivendica il lucro tratto dagli immobili abusivi perché “è un diritto anche quello”, ai bambini usati come scudi umani.
“Questa zona della Sardegna è considerata tra quelle a più alto rischio in Italia”.
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TORTOLÌ. Si è cominciato a Tortolì il 4 aprile dello scorso anno con la demolizione di una ventina di metri di muro e recinzione di una villetta nell’abitato. Il primo giorno di primavera, le demolizioni si sono concluse, sempre nello stesso centro, a Muscì, nel Golfetto di Orrì, con l’abbattimento di circa 250 metri di muro (alto 160 centimetri) e due cancelli, in un terreno a 50 metri dal mare. Ieri i due escavatori della società “Tecnic demolizioni controllate”, utilizzati dalla Procura per le demolizioni delle costruzioni abusive con sentenza passata in giudicato, si sono imbarcati per la penisola, per fare rientro nella sede della società, in provincia di Cuneo. In appena 11 mesi e mezzo, la procura della Repubblica di Lanusei, guidata da Domenico Fiordalisi, ha portato a termine «le procedure per l’esecuzione di 198 sentenze del Tribunale di Lanusei». E il tutto, come ha precisato lo stesso procuratore in un comunicato «con l’avvenuta demolizione di 130 case abusive non occupate quale unica abitazione dei nuclei familiari, delle quali 26 demolizioni eseguite dall’Ufficio e 104 autodemolizioni già avvenute». Ma c’è un altro passaggio rilevante nel comunicato a firma di Domenico Fiordalisi emesso nella serata di giovedì: Tredici sentenze con condanna alla demolizione riguardanti famiglie di Tertenia, che non hanno altra abitazione, saranno eseguite nel prossimo mese di novembre, per consentire l’inserimento nel Puc (Piano urbanistico comunale) che potrebbe che in poco più di sette mesi il massimo strumento urbanistico terteniese dovrà essere stato completato e votato dall’assemblea civica.
E il sindaco Luciano Loddo, che con una lettera aveva chiesto al procuratore del tempo proprio per redigere e approvare il Puc, ieri ha detto: «Lavoreremo senza sosta, e con grande impegno, per potere completare e approvare il Puc nel minor tempo possibile, decisi a inserirvi anche le prime case cui ha fatto riferimento il procuratore». Nel suo comunicato, Fiordalisi ha anche evidenziato: «I tempi di esecuzione delle sentenze relative alle altre dieci “prime case” nei diversi Comuni verranno stabiliti caso per caso, per contemperare le esigenze di esecuzione delle sentenze definitive con le necessità abitative dei nuclei familiari in condizioni di difficoltà». Per concludere: «L’avvenuta eliminazione dell’arretrato nell’esecuzione delle sentenze in materia di violazioni urbanistiche consentirà, d’ora in poi, la tempestiva demolizione dei fabbricati abusivi, subito dopo il passaggio in giudicato di ogni sentenza del Tribunale di Lanusei». POSADA. Ci sono voluti cinquant’anni, ma la tutela di Orvile ormai è vicina: l’oasi ambientale tornerà di proprietà del Comune di Posada e sarà definitivamente preservata dalla colata di cemento e dagli oscuri interessi che per lungo tempo hanno pesato sul suo destino. Di recente, su proposta della giunta guidata da Roberto Tola, il consiglio comunale ha votato per l’acquisizione della pineta che si estende per decine di ettari e si affaccia sul litorale di Posada, appena eletto da Legambiente spiaggia più bella e pulita d’Italia nella classifica 2013. Con quali fondi in tempi di tagli ai bilanci? Dal ricavato della vendita di un’area infinitamente più piccola, un lotto di 5000 metri quadri destinato alla costruzione di un piccolo albergo nella frazione turistica di San Giovanni. La procedura di cessione (base d’asta 821 mila euro) è appena stata avviata, la speranza degli amministratori è che vada presto a buon fine, così da concludere la trattativa con la società proprietaria di Orvile (l’ultima di una lunga serie). Poi, insieme con l’Ente Foreste, comincerà il rimboschimento dopo il vasto incendio che nel 2009 devastò mezza pineta: questo passo costituirà un ulteriore elemento di tutela paesaggistica. Una buona notizia, dunque, sul fronte dell’ambiente in un momento in cui mire speculative sono diffuse un po’ in tutte le coste dell’isola. Ma la vicenda di Orvile è per certi versi emblematica dell’assalto alle coste perché la sua storia, da cinquant’anni a questa parte, è costellata di misteri, di società che nascono e muoiono da un anno all’altro e di oscuri interessi. La prima vendita. È il 1962 quando il Comune di Posada decide di cedere a privati una delle sue perle per favorire la nascita di un turismo che è già una realtà in Gallura e qualche chilometro più a sud, a La Caletta (Siniscola). L’offerta è conveniente: 60 ettari affacciati su un mare turchese proposti a un prezzo compreso tra 550.000 e un milione e centomila lire a ettaro. Si aggiudica l’asta Adriana Pelizza vedova Fronzaroli, appartenente a una famiglia di imprenditori genovesi che proprio nel vicino porto della Caletta operano da tempo nel commercio marittimo. L’offerta è di 900 mila lire a ettaro, cioè in totale di 54 milioni, una cifra di rispetto per l’epoca (attualizzata con la rivalutazione monetaria dell’Istat oggi ammonterebbe a un miliardo e 290 milioni. dilire, cioè a 666 mila euro).
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La conclusione invece è amara: la somma, o una sua anticipazione, viene versata all’esattoria di Siniscola, ma un funzionario infedele se ne appropria. In seguito il Comune dovrà sudare sette camicie per recuperarne solo una piccola parte. Nell’ottobre dell’anno successivo a Milano viene costituita la società Orvile spa. Oltre ad Adriana Pelizza ne fanno parte un tedesco (Wilfried Dodd), un francese (Francois Maixandeu), e Bindo Arrivabene, nobile veneto già noto per avere realizzato nel decennio precedente il Villaggio Milano alla Caletta, una decina di case immerse nel verde costruite secondo un modello urbanistico innovativo ma rispettoso della natura. La collina di Orvile fa parlare nuovamente di sé nel 1994. A fine agosto un’impresa immobiliare milanese compra un’intera pagina di Repubblica e del Corriere della Sera e pubblica a caratteri cubitali il seguente annuncio: «Folli Costruzioni. Sardegna, costa nord-orientale. Occasionissima». E ancora: «Stiamo costruendo il villaggio dei vostri sogni». Così composto: 250 appartamenti, 80 ville, ristorante, bar, minimarket, sauna, palestra, piscina olimpionica, campi da tennis, minigolf. E persino una chiesa: così, per i momenti di raccoglimento durante la splendida vacanza in riva al mare. Peccato sia una bufala (o, peggio, un tentativo di truffa), come appura la Nuova Sardegna qualche giorno dopo: Folli Costruzioni non sta affatto edificando, non ha neppure alcun tipo di autorizzazione per farlo. Nella reclame vengono citate altre due società: Smeraldo sas e Orvile srl. Quest’ultima deriva dalla spa con lo stesso nome e ha come amministratore unico la vedova di Agostino Golosio. La Smeraldo invece ha sede a Padova, e fa capo a un singolare personaggio di origine sarda, Vittorio Smenghi, che è anche procuratore speciale della Orvile srl. Si è occupato in sostanza di predisporre il progetto, presentarlo in Comune e affidare i lavori a un costruttore (Folli, appunto). Il fatto è che Smenghi è un po’ pasticcione, e dimentica i vincoli sull’area individuati dalla Regione pochi anni prima con i piani paesistici (1989) e quelli più generali sulle zone umide. Oppure qualcuno gli ha detto: vai avanti, si potrà costruire. In effetti dalla sua Smenghi ha una richiesta di deroga al piano urbanistico presentata alla Regione nel 1991 dal consiglio comunale di Posada (amministrazione guidata dal geometra Mario Sanna) dietro sua richiesta. Ma il nulla osta non è mai arrivato, dunque non c’è alcuna concessione. Fioccano esposti (dal Gruppo d’intervento giuridico), interrogazioni in consiglio regionale (Gavino Diana, progressista) e il progetto si arena definitivamente. Per un’altra vicenda, due anni dopo Smenghi verrà indagato per associazione per delinquere ma l’inchiesta non avrà seguito. L’Orvile srl esce di scena nel 2002, l’oasi ambientale va all’asta e viene acquistata dalla B 53 srl, il cui amministratore è William Sisti, imprenditore milanese un tempo vicino al Psi, attivo su vari fronti societari perlopiù immobiliari. Appena un anno dopo Orvile passa alla LaGare, società milanese nota nel settore delle costruzioni (entrambe hanno sede nello stesso indirizzo). B53 srl vende a LaGare per tre milioni e settecentomila euro. A capo c’è sempre Sisti, che vorrebbe ancora costruire: a Posada vanta amicizie con Berlusconi, a Cagliari viene ricevuto dalla giunta Cappellacci per esporre il problema. Ma i vincoli, per fortuna, ci sono ancora. Sisti esce di scena, e il nuovo assetto societario oggi decide di disfarsi della pineta vista mare.
Eventi Negativi Provincia di Sassari
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Incendi Un maestrale di quaranta nodi e le scintille di un cavo dell’Enel hanno scatenato l’inferno nelle campagne tra Porto Pozzo e San Pasquale il 25 Luglio del 2010. Una trentina di case evacuate, un albergo chiuso, traffico costiero in tilt.
Foto : Claudia Basciu
Due Canadair, un Elitanker e tre elicotteri in azione, centinaia di uomini al lavoro e alla fine del primo e gigantesco rogo stagionale un bilancio da brivido: 120 ettari in cenere. L’allarme al centro di coordinamento della base di Limbara è arrivato poco dopo le due del pomeriggio. Le fiamme che hanno avvampato la macchia mediterranea delle colline di Saltara, una località tra Rena Majore e Porto Pozzo, si erano trasformate, nel giro di una decina di minuti, in una lingua di fuoco inarrestabile che spinta dal vento ha trovato esca nella vegetazione rinsecchita da un mese di caldo africano. Le fiamme si sono fiondate verso il centro costiero di Porto Pozzo, accerchiando case coloniche e stazzi trasformati in residence per turisti, e messo in fuga centinaia di vacche e vitelli che pascolavano nelle tenute di Tommaso Mannoni. Dopo i primi interventi dei vigili del fuoco del distaccamento di Tempio e Olbia (in allerta sin dal mattino per le condizioni meteo sfavorevoli) e delle squadre dell’Ente foreste dell’antincendio e quelle dei volontari, la situazione è precipitata. Il fronte delle fiamme, attraversando tancati e superando le colline, si era esteso, dopo un’ora, per oltre due chilometri. La prima preoccupazione per gli uomini dell’antincendio è stata quella di mettere in salvo persone e animali. Una trentina gli stazzi e le abitazioni di turisti, dove c’erano una sessantina di persone, che sono state evacuate prima che le fiamme lambissero i muretti a secco mentre nel triangolo tra Santa Teresa, Porto Pozzo e San Pasquale sono confluiti i mezzi antincendio da mezza Gallura. A metà pomeriggio il quadro era critico: il fronte del fuoco rischiava di attraversare la vecchia strada di Garibaldi, il confine tra Porto Pozzo e San Pasquale dove si erano attestate gran parte delle squadre antincendio. Il fumo che rendeva l’aria irrespirabile e accecava quanti stavano sottovento ha fatto allargare alle forze dell’ordine la cintura di sicurezza. È stata ordinata l’evacuazione temporanea per l’Hotel Porto Pozzo (nell’omonima località turistica) e per le case circostanti. Clienti e abitanti hanno atteso per ore, sulla provinciale Santa Teresa-Palau e nei parcheggi dell’Hotel, che le operazioni di contenimento delle fiamme avessero fine. Un lavoro, quello dello spegnimento, che ha impegnato le forze antincendio per oltre sei ore, mentre dall’alto due Canadair, un elitanker e tre elicotteri della Protezione civile inondavano con bombe d’acqua il fronte del fuoco. Nel frattempo il nucleo investigativo del corpo di vigilanza ambientale aveva individuato il punto d’origine delle fiamme: un fatiscente palo della rete di media tensione dell’Enel dove i cavi, staccati dall’isolatore frantumato dalla ruggine, si erano spellati contro il palo di ferrocemento. Il risultato è stato devastante. Dalle scintille al rogo il passo è stato brevissimo. Il palo e l’intera zona sono stati messi sotto sequestro dagli 007 del Corpo forestale, mentre il capo dell’ispettorato ha già disposto la trasmissione degli atti alla procura della Repubblica di Tempio, ipotizzando il reato di incendio colposo ai danni dei responsabili zonali dell’Enel. «È il terzo incendio che, questa estate si sviluppa per problemi legate alla rete elettrica, carente di manutenzione e delle prescritte norme di sicurezza previste dalla normativa antincendio 2010», ha detto il capo della forestale gallurese Giancarlo Muntoni.
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«Nessun disservizio elettrico è stato registrato nelle linee in esercizio nell’area interessata dall’incendio scoppiato ieri in Gallura nella zona tra Porto Pozzo e San Pasquale» Disse l’Enel quel giorno.
Alluvioni
Il ciclone Cleopatra
Olbia. Foto: Comune di Olbia
Foto : Claudia Basciu
Nell’elenco delle 18 vite cancellate per sempre da una notte in cui il mare è diventato di fango e ha ingoiato storie, vittime, anime. Un lutto infinito per l’isola. Olbia non è più “la felice”. La città superba e dinamica. Col cemento facile e le leggi fragili. Cresciuta con le radici nel fango, calcestruzzo poggiato sull’acqua. Ora si risveglia dal suo sogno. Dalla folle idea di schiacciare la natura sotto una lastra di cemento armato. Il suo destino è cambiato in una notte. Oggi ha l’anima nera del lutto.
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Alluvioni Sedici morti, un disperso, una donna morta a distanza di giorni per un incidente sotto il diluvio, un imprenditore che si è tolto la vita davanti alla sua azienda distrutta. Case sommerse, pezzi di esistenza e ricordi spazzati via. Scuole, strade, ponti, ferrovia sventrati. Campagne allagate, animali morti, aziende imprese colpite al cuore o gravemente danneggiate. I sardi non potranno mai dimenticare il 18 novembre 2013, una giornata che è stata definita l’11 settembre della Sardegna. Il ciclone Cleopatra, scaricando in poche ore la pioggia di sei mesi, ha messo in ginocchio la nostra terra seminando morte e distruzione nel suo percorso suicida. La fine dell’innocenza, dei sogni fatti di mattoni rampanti. Nell’elenco delle 18 vite cancellate per sempre da una notte in cui il mare è diventato di fanLa Gallura è l’epicentro della tempesta d’acqua che ha sconvolto la Sardegna. Olbia non è più “la felice”. La città superba e dinamica. Col cemento facile e le leggi fragili. Cresciuta con le radici nel fango, calcestruzzo poggiato sull’acqua. Ora si risveglia dal suo sogno. Dalla folle idea di schiacciare la natura sotto una lastra di cemento armato. Il suo destino è cambiato in una notte. Oggi ha l’anima nera del lutto. Ma l’alluvione non ha devastato solo il cuore della Gallura, ha seminato morte e distruzione per tutta la Sardegna. Ad Arzachena una famiglia italo-brasiliana, madre, padre e due figli, è affogata dentro uno scantinato spacciato per casa. A Torpè il rio Posada ha seminato morte e devastazione. Uras, nell’Oristanese, è diventata una palude. In Baronia il Cedrino ha spazzato via tutto quello che incontrava. Ponti, case, aziende. E il mare di fango si è rivelato anche un killer col timer. A distanza di un paio di settimane dall’alluvione è l’imprenditore Pasqualino Contu, di Orosei, si è tolto la vita. Non è riuscito ad andare avanti dopo avere visto la sua azienda cancellata dalla furia del fiume. Un passo indietro. La mattina del 18 novembre la pioggia inizia a cadere, come previsto. L’allerta meteo indica criticità elevata. Ma tutti sono certi che al massimo sarà una delle tante giornate con gli stivali di gomma. Previsione sbagliata. L’acqua non smette più di cadere. Rigagnoli, torrenti, canali si trasformano in fiumi impetuosi. Un mare di fango travolge tutto. Il dramma si gonfia con il passare delle ore, con l’avanzare silenzioso della marea. Che sempre più feroce e silenziosa avvolge tutto. Travolge tutto. Un crescendo di disperazione. Il mondo diventa liquido. A Olbia le strade non ci sono più. Sommerse dall’acqua. E in mezzo al fango si intrecciano storie di morte e disperazione. Dianonimi eroi e persone salve per miracolo. Uno strazio infinito. Francesco Mazzoccu e suo figlio Enrico, di appena 4 anni, sono morti travolti da un fiume a Raica, alla periferia di Olbia. La loro macchina era stata portata via dalla furia delle acque. Francesco è rimasto aggrappato a un muro di pietra per 50 minuti, in attesa di soccorsi mai arrivati. Suo figlio lo aveva nascosto dentro il giubbotto, nel tentativo inutile di proteggerlo. Il muro è crollato, loro sono stati risucchiati nel gorgo. Non troppo lontano, nel centro di Olbia, Patrizia Corona e la piccola Morgana, due anni, sono svanite sotto un muro d’acqua.
Olbia. Foto: Comune di Olbia
La loro Citroen C1 è finita in un canale gonfio, mostruoso, cattivo. Non c’è stato scampo. La piccola e la giovane madre sono annegate dentro l’abitacolo. Negli occhi di Maria Massa, 88 anni, c’era il terrore. E’ morta dentro casa sua, vinta dalla paura e dal buio che si era impadronito della sua villetta in via Romania, a Olbia. E’ scesa giù per le scale di casa sua, E’ scivolata e annegata nell’acqua che aveva già invaso il piano terra. E’ come un incubo anche la morte di Anna Ragnedda, 83 anni. Sommersa dalla piena, senza potersi difendere. Bloccata nel suo letto. L’acqua la travolge e la uccide al piano terra della sua casa di via Lazio. L’elenco delle vittime è un insieme di fili spezzati dal destino. Come Bruno Fiore, che con la sua auto quella sera percorreva la Olbia-Tempio. Con lui la moglie Sebastiana Brundu e la suocera Maria Loriga. La strada scompare sotto le ruote del fuoristrada. La voragine ingoia l’auto e le loro vite. A qualche centinaio di chilometri di distanza, sulla Oliena-Dorgali, accade qualcosa di molto simile. Crolla un ponte e l’auto della polizia, che aveva appena accompagnato un’ambulanza in ospedale, cade nel vuoto, nel buco che si è aperto all’improvviso. Luca Tanzi, 40 anni di Nuoro, poliziotto, perde la vita. E nella morte della famiglia italo-brasiliana intrappolata dentro un garage travestito da casa ad Arzachena c’è l’istantanea di un paese che ha costruito ovunque, che ha sfidato la natura e il buon senso. Isael Passoni, 42 anni, sua moglie Mara Cleidi Rodriguez, 42, e i figli Laine Kellen, 16, e Weriston, 20, sono affogati dentro il piano interrato della villetta che custodivano. A Torpè muore Maria Frigiolini, 88 anni. Il rio Posada diventa una furia, spazza via tutto quello che incontra nel suo percorso.
Olbia. Foto: Comune di Olbia
Nove morti e un numero imprecisato di dispersi, almeno 10. Strade e case allagate per l’ esondazione di fiumi, centinaia di sfollati, black-out elettrici, pesanti disagi alla circolazione stradale e ferroviaria, ritardi nei collegamenti aerei e marittimi. Molte scuole che martedì resteranno chiuse. È il pesante bilancio dei danni causati dal ciclone Cleopatra in Sardegna. Numeri ancora incerti. Pagando anche un tributo di sangue. Un poliziotto è morto in un intervento di soccorso. Il fuoristrada di servizio con a bordo tre colleghi, le cui condizioni furono considerate molto gravi, è precipitato da un ponte crollato della provincia le Oliena Dorgali, nel Nuorese. Il mezzo stava aprendo la strada a un’ambulanza: a un tratto il viadotto si è aperto in due e l’auto e precipitata. Le notizie drammatiche si susseguono una dopo l’altra. Un morto fu trovato a Telti, in seguito al crollo di un ponte. Sempre nel Nuorese c’è stata un’altra vittima, nel comune di Torpè: qui hanno ceduto gli argini del rio Posada e l’ondata è arrivata nella parte bassa del paese, trasformata in una lago. Un’anziana di 90 anni è stata ritrovata morta nella sua abitazione invasa dall’acqua. Altra vittima a Uras, in provincia di Oristano: una donna di 64 anni, Vannina Figus, è stata trovata morta nella sua abitazione. Il marito è ricoverato in stato di ipotermia.
In diverse altre località dell’isola le abbondanti piogge hanno provocato esondazioni e allagamenti. Del caso si è occupato anche il capo della Protezione civile, Franco Gabrielli, che ha convocato una riunione d’urgenza. A Olbia la situazione più drammatica: la città si è mobilitata creando su Facebook un gruppo «Apriamo le nostre case ai nostri concittadini» dove si mettono a disposizione posti letto per le centinaia di sfollati. n salvo due allevatori, padre e figlio, travolti da un fiume in piena a Onanì, in provincia di Nuoro. A Galtellì esonda il Cedrino: un’ottantina di famiglie sono state evacuate. A Loiri, vicino ad Olbia, un fulmine ha mandato in tilt la linea elettrica, mentre due donne, con le auto in panne, sono state salvate dai Vigili del fuoco e dalla Protezione civile. La prima mentre percorreva via di Cambio ha visto la sua auto sprofondare nell’acqua; in località Maltana, invece, l’utilitaria con alla guida un’altra donna è stata inghiottita da un torrente. Un fuoristrada della Polizia di Nuoro si è ribaltato sulla Provinciale 46, all’altezza del ponte di Dorgali. L’auto è finita sotto il ponte. A bordo c’erano quattro agenti, tutti feriti. TRENI BLOCCATI - Disagi si registrano anche sulle reti ferroviarie dell’isola. I treni si sono fermati per 50 minuti, dalle 11.40 alle 12.30 sulla tratta Decimomannu-Iglesias, tra le stazioni di Decimo e Siliqua, a causa dell’allagamento dei binari. Un regionale con 18 passeggeri a bordo è rimasto bloccato sui binari della linea Olbia-Chilivani, nel Sassarese, a causa dell’esondazione del torrente Enas. Trenitalia ha chiesto l’intervento di vigili del fuoco, polizia locale e Protezione civile per liberare la sede ferroviaria e mettere in salvo i viaggiatori.
Ormai ogni anno è sempre la stessa triste storia. Negligenza, menefreghismo, malvagità, follia o banalissima stupidità sono le cause degli incendi che stanno mandando in fumo pezzi della Sardegna, cioè pezzi di vita nostra e di migliaia di animali. Questi eventi fanno volare via anche la dignità di esseri umani che non sanno amare la propria terra.
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Inquinamento A Solarussa, nell’Oristanese, a causa delle forti piogge ci sono stati diversi allagamenti. L’amministrazione comunale ha disposto l’evacuazione di diverse famiglie dalle abitazioni nella parte bassa del paese. Le famiglie verranno sistemate probabilmente in parrocchia e nel centro sociale. Il sindaco ha spiegato che il nubifragio ha provocato l’esondazione di molti fiumi e corsi d’acqua sommergendo gran parte della città. Ampi tratti di strada sono sprofondati con smottamenti larghi anche 50 metri: è qui, ha confermato Giovannelli, che si è registrato il maggior numero di vittime tra gli automobilisti di passaggio. “Anche nella zona centrale della città si è avuta una vittima – ha proseguito il sindaco – l’acqua in alcuni punti ha raggiunto i 2 metri, allagando i primi piani delle case. Tutta la macchina dei soccorsi è stata attivata dalla Protezione Civile e 118, c’è una forte mobilitazione – ha spiegato Giovannelli – ma una situazione così drammatica non ce l’aspettavamo. Domani purtroppo comincerà la conta dei danni e soprattutto quella del numero esatto dei morti”. Al momento dell’intervista il sindaco ha detto che il maltempo sta concedendo una tregua. Gli organismi interessati sono riuniti nella centrale operativa del comune da questo pomeriggio. Straordinario è stato definito dallo stesso primo cittadino il lavoro dei vigili del fuoco. “Persino la Capitaneria di porto è intervenuta con i propri mezzi – ha svelato Giovanelli – lungo le vie della città trasformate in grandi corsi d’acqua. Ribadisco – ha concluso il sindaco – che stiamo subendo gli effetti di un evento straordinario. Già stamattina avevo emesso un decreto per la dichiarazione dello stato di calamità naturale emettendo le opportune ordinanze”. Sono in corso a Torpè, nel nuorese, le operazioni di recupero degli ultimi abitanti rifugiatisi sui tetti e sugli alberi per sfuggire alla furia delle acque. Lo ha reso noto il sindaco Antonella D’Alu confermando il bilancio di un morto nel suo paese. “Si tratta di una signora anziana costretta su una sedia a rotelle e sorpresa dall’acqua in casa”. Sulla zona stanno operando degli elicotteri predisposti al recupero dei superstiti. “Cleopatra” ha imprigionato i sardi e messo in crisi chi viaggia. Per tutta la giornata l’Anas ha dovuto chiudere tratti di alcune strade statali e gravissimi disagi si sono registrati anche sulle reti ferroviarie. Notevoli problemi anche nei collegamenti aerei e marittimi. I disagi più gravi si sono registrati all’aeroporto di Cagliari-Elmas. La nave Tirrenia che doveva partire da Civitavecchia per Cagliari è rimasta in porto. Bloccata la circolazione ferroviaria fra le stazioni di San Gavino e Marrubiu, sulla linea Cagliari-Oristano, dove si sono registrati anche problemi nei passaggi a livello e nei sistemi di segnalamento. In Gallura 18 passeggeri di un treno regionale sono stati soccorsi da personale Fs. Un viaggiatore ha raccontato in diretta, con il telefono, la sua odissea sulla linea Cagliari-Sassari. «Ho perso la cognizione del tempo. Questo non è un viaggio, è un incubo», ha esordito. Un viaggio sempre kafkiano che ieri è diventato un tormento. .lungo più di nove ore, cominciato alle 15, quando in stazione è stato annunciato che il treno sarebbe partito con 90 minuti di ritardo. I passeggeri alle 16,30, moltissimi in piedi, hanno sentito lo scossone delle carrozze, solo due per 200 persone.
Sessanta chilometri percorsi in un’ora. Un’eternità. E sono stati fatti scendere «senza una spiegazione -dice il viaggiatore – hanno solo detto che il treno non sarebbe ripartito e che saremo saliti sugli autobus. Ma quali autobus? Siamo rimasti come baccalà per 45 minuti al freddo senza che nessuno ci degnasse di uno sguardo». Finalmente i pullman sono arrivati: cinque mezzi che sono stati presi d’assalto perchè nel frattempo a San Gavino si sono bloccati altri treni . Altra tappa: tutti sono scesi dagli autobus a Marrubiu per risalire su un treno fino ad Oristano. Alle 21 tutti nuovamente a terra a causa di una frana. Disperati i passeggeri tagliati fuori dal mondo hanno chiamato i carabineri che erano impegnati sul fronte della ricerca dei dispersi per il maltempo e non gli hanno dato udienza. Nuova lunga sosta e poi l’arrivo di due autobus: uno per Olbia, l’altro per Sassari, con tutte le fermate intermedie previste. Mezzanotte era passata quando il viaggio è finito. Chi era diretto a Porto Torres per l’imbarco ha perso la nave, chi andava ad Alghero ha perso la coincidenza. Tutti sostengono che, i viaggiatori, hanno diritto a ben altri trattamenti, e non solo quando sull’isola si abbatte un ciclone. Fu triste anche la storia di Enrico. Dopo aver abbandonato l’auto ha atteso per tre quarti d’ora aggrappato a un muro con il figlioletto di 4 anni dentro il giubbotto in modo da lasciare libere le mani. Poi un’ondata di piena ha sbriciolato proprio i pochi di metri di quel bastione che lo divideva tra la vita e la morte e lui è stato travolto dalle acque, scomparendo nel mare nero insieme al bambino. Così sono morti due sere fa Francesco Mazzoccu, muratore di Olbia, 37 anni, e il figlio Enrico, nella località di via Monte a Telti chiamata Raìca. Una tragedia che ha dell’incredibile per come si è sviluppata: sulla carta c’era il tempo per salvare padre e figlio, ma i soccorsi non sono arrivati in tempo e la strenua e commovente lotta di Francesco contro la terrificante fiumana non ha avuto buon esito lasciando nella disperazione i vicini che sino all’ultimo hanno cercato di aiutarli. La casa dei Mazzoccu è a poche centinaia di metri a monte del rio che è diventato il loro inatteso assassino. I parenti dicono che aveva sentito al telefono la moglie, che era in città, e preoccupato per le notizie di allagamenti che stavano cominciando a circolare, aveva caricato il piccolo Enrico in macchina deciso ad andare a prenderla. I vicini più a valle, tra i quali alcuni parenti, si erano però resi conto della reale portata del pericolo: il corso d’acqua si era ingrossato pericolosamente e aveva cominciato a invadere la sede stradale. Racconta uno di loro, Benedetto Maluccheddu, testimone diretto del dramma: «Diverse persone scendevano a valle, noi cercavamo di fermarle, ma non ci davano retta. Ad un certo punto è spuntata l’auto di Francesco: gli abbiamo fatto segno di non passare perché la strada era piena d’acqua, probabilmente non ha capito o ha sottovalutato il problema. Ha fatto la curva e si è trovato in mezzo alla corrente. Ha percorso qualche decina di metri, poi la Punto ha cominciato a galleggiare e lui ha capito che non ce l’avrebbe potuta fare a controllarla, si stava dirigendo verso il ponticello (poi crollato, ndc) e sarebbe caduta nel fiume».
“Un viaggiatore ha raccontato in diretta, con il telefono, la sua odissea sulla linea Cagliari-Sassari. Ho perso la cognizione del tempo. Questo non è un viaggio, è un incubo”.
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Pietre nere, Golfo dell’Asinara. Foto: Paola Rizzu
Dalla centrale termoelettrica E.On. di Porto Torres è uscita una marea nera che ha inquinato quasi 20 km. di coste del Golfo dell’Asinara. La Procura della Repubblica di Sassari ha aperto un’inchiesta per accertare le responsabilità. Sono i «cacciatori» di olio combustibile armati di pale, rastrelli e buste di plastica: scendono dai pulmini e dalle auto e vanno a combattere una delle battaglie più difficili contro l’inquinamento dell’ultimo decennio. Sono poco più di 150, uomini e donne, ma non bastano. Da Porto Torres a Platamona, da Marina di Sorso a Marritza. La striscia nera si è allungata come un serpente insidioso, impossibile da addomesticare. Il viaggio comincia nel litorale turritano, allo Scoglio Lungo la marea nera non è arrivata, c’è qualcosa nella spiaggia delle Acque Dolci, Balai è stata quasi graziata dal vento di maestrale che ha guidato le migliaia di litri di combustibile verso Platamona. I giochi delle correnti riservano belle e brutte sorprese. Palline di catrame che diventano sempre più grandi, sembra che ce li abbiano messe a caso. Sulla sabbia i segni dei rastrelli, i buchi fatti con le pale per «estirpare il tumore», dicono gli operai. L’inquinamento è distribuito lungo un litorale di quasi 18 chilometri, ne sono stati parzialmente ripuliti poco meno di sei. E la parte più compromessa è quella verso la foce del fiume Silis, tra l’ottava e la nona discesa a mare. Comincia a maturare la convinzione che «in fondo è andata pure bene»: cioè, ci si dovrebbe quasi rallegrare. Invece è una tristezza immensa. Le scarpe sprofondano nella sabbia si colorano di nero, un bordino che contraddistingue tutti coloro che passano. Si macchiano i pantaloni. Gli operai raccolgono le palle gelatinose e le mettono dentro le buste. «Quante ne abbiamo raccolto? Più di mille al giorno».
Cos’è che può dare tranquillità di fronte a uno scenario simile? Perché uno che guarda il mare e la spiaggia dovrebbe sentirsi tutelato? All’ottava discesa a mare cambia lo scenario. In spiaggia non c’è nessuno, qui le squadre non sono ancora arrivate. E si capisce anche perchè: ci vorrà un intervento diverso, rilevante. Non basteranno pale, rastrelli e buona volontà. Si passeggia su una distesa nera, dall’Eden Beach a Marritza fino alla Tonnara. La miscela nera e densa si è infilata ovunque: tra le pietre levigate dal mare, sulla posidonia spiaggiata, sotto la sabbia. Una spigola di almeno tre chili batte gli ultimi colpi di coda, ha l’aria fiera di chi ha combattuto sino alla fine prima di arrendersi. Un pescione sfinito, si è addormentato su un cuscino di alghe. È morto, e bisognerà capire perché. Gavino Sale si infila i guanti bianchi, quasi fosse un chirurgo. Si inchina e prova a tirarla su quella spigola, ma non c’è più niente da fare. Non è una bella scena: quell’uomo della campagna che con il mare ha poco a che fare quasi si commuove. Infila le dita nelle branchie e se la porta dietro, la guarda con occhi tristi: «La faccio analizzare – dice – sì la faccio analizzare. Voglio sapere perchè è morta, qui dove c’è un odore di olio combustibile e un paesaggio lunare». Accade questo nel mare più bello, nel Santuario dei cetacei senza protezione che dovrebbe fare del Golfo dell’Asinara una perla da tutelare e non un posto da sporcare.
Decine di tute bianche, verdi e azzurre. Sono i «cacciatori» di olio combustibile armati di pale, rastrelli e buste di plastica: scendono dai pulmini e dalle auto e vanno a combattere una delle battaglie più difficili contro l’inquinamento dell’ultimo decennio.
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Cementificazione “Abbiamo tutti le mani insanguinate” perché “abbiamo permesso che questo accadesse, che il malaffare, l’ingordigia, la stupidità e il compromesso cementizio prendessero il sopravvento”
Pale Eolice, Asinara. Foto: Claudia Basciu Le associazioni ecologiste Gruppo d’Intervento Giuridico, Amici della Terra e Lega per l’Abolizione della Caccia, come preannunciato, hanno presentato (1 giugno 2012) al Direttore del Compartimento marittimo di Porto Torres uno specifico atto di opposizione al rilascio della concessione demaniale marittima per la realizzazione di una centrale eolica off shore nel Golfo dell’Asinara da parte della Seva s.r.l. (sede: Gressan, AO). Interessati, per opportuna conoscenza, il Ministero dell’ambiente, l’Assessorato regionale della difesa dell’ambiente, il Servizio regionale valutazione impatti, i Comuni di Porto Torres, Sassari e Stintino, l’Ente parco nazionale dell’Asinara.
Foto : Claudia Basciu
Come si ricorda, la Seva s.r.l. (Aosta) ha presentato lo scorso 30 aprile un’istanza al Compartimento Marittimo di Porto Torres relativa ad una concessione demaniale cinquantennale per la realizzazione di una centrale eolica off shore composta da 28 torri eoliche (generatori Siemens) alte 90 mt. sopra il pelo dell’acqua (+ altezza non conosciuta sotto il pelo dell’acqua, rapportata alle profondità marine), aventi diametro del rotore mt. 120, poste su n. 4 file parallele orientate Nord Ovest – Sud Est (distanza mt. 600 fra loro), 100,8 MW di potenza massima (3,6 MW per torre eolica), tre cavi di collegamento tra gli aereo generatori e la cabina di trasformazione elettrica a terra, un cavo interrato verso il sistema di trasmissione aerea dell’energia elettrica, rete elettrica interrata di collegamento con la cabina di trasformazione primaria Terna s.p.a. per la rete di distribuzione nazionale, area di 2.845.908 mq.
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Nel mare territoriale del Golfo di Cagliari, davanti al litorale compreso nei Comuni di Porto Torres, e Sassari. Davanti alle spiagge di Porto Torres da riqualificare dopo anni di usi industriali, davanti al parco nazionale dell’Asinara, e alla circostante area protetta marina, vicino alla spiaggia della Pelosa di Stintino, davanti agli Stagni di Pilo e Casaraccio, davanti a siti di importanza comunitaria (Asinara, Pilo e Casaraccio) e zone di protezione speciale (Asinara). A breve distanza dalla costa, visti gli alti fondali, a differenza delle centrali eoliche off shore del Mare del Nord. La realizzazione di una centrale eolica off shore su un ambito marino così vasto comporterebbe necessariamente l’interdizione di qualsiasi pubblico uso del mare, la pesca, la navigazione da diporto per lungo tempo, difficoltà per il traffico marittimo commerciale, con pesantissimi effetti negativi per la collettività, nonché sensibili interferenze con i flussi dell’avifauna migratrice; La realizzazione di linee elettriche industriali nella fascia costiera di conservazione integrale (mt. 300 dalla battigia marina) è vietata in Sardegna, così come l’interessamento delle praterie di Posidonia (legge regionale n. 4/2009 e s.m.i.), mentre – in ogni caso – la realizzazione di centrali eoliche in aree marine è assoggettata al preventivo e vincolante (art. 29 del decreto legislativo n. 152/2006 e s.m.i., legge n. 99/2009) procedimento di valutazione di impatto ambientale.
Basti pensare che oggi l’Isola è del tutto autonoma rispetto alla rete nazionale. Puo contare sulla potenza installata di circa 2.200 MW, pur impiegandone ogni giorno di solito 1.730 (e la notte solo 1.300). Con il potenziamento dei trasporti via cavo (SAPEI e SACOI) fra Sardegna e la Penisola, non ne potranno esser esportati più di 1.000 MW. Chi ci guadagna, quindi, nel tenere immagazzinati altri 800 MW originati dall’eolico? Certo non la Collettività.
Pale Eolice, Giave. Foto: Claudia Basciu
Eventi Positivi
Provincia di Cagliari
“il paesaggio rappresenta per la collettività isolana un valore fondante della nostra cultura e delle nostre tradizioni”.
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Cagliari Il Sindaco di Calasetta Antonio Vigo ha adottato un’ordinanza, che ha disposto il divieto di caccia nelle campagne di Mercureddu – Spiaggia Grande, dove è piuttosto diffusa la presenza di abitazioni e in passato si sono verificati numerosi episodi di pericolo a causa degli spari.
Foto : Claudia Basciu
Dopo riunioni presso la Prefettura di Cagliari, l’adozione del provvedimento urgente e contingibile, in attesa di ulteriori eventuali atti da parte della Regione autonoma della Sardegna. Il divieto di caccia, comunque, sarebbe ben presente in ogni caso, vista la presenza di residenze e strade secondarie. Naturalmente sono insorti i cacciatori locali, incuranti per i rischi a residenti e turisti. Perdono una buona occasione per dare un segnale di buona volontà e di buon senso. Ma non meravigliano certo. Le associazioni ecologiste Lega per l’Abolizione della Caccia, Gruppo d’Intervento Giuridico e Amici della Terra plaudono e sostengono l’iniziativa del Sindaco di Calasetta, improntata alla salvaguardia dell’incolumità della grande maggioranza di cittadini non cacciatori. Ricordano che durante la stagione di caccia 2010/2011 in tutta Italia, oltre a centinaia di milioni di altri animali cacciabili e protetti uccisi, ci sono state numerose vittime umane. 35 morti, dei quali 34 cacciatori e 1 persona comune, ben 74 feriti, dei quali 61 cacciatori e 13 persone comuni. La decisione non è stata digerita dai cacciatori, che hanno chiesto all’amministrazione comunale la sede del centro velico per una riunione. Tutta l’isola di Sant’Antioco e quindi il territorio dei due comuni ricade nell’autogestita di caccia Isola di Sant’Antioco. I cacciatori si ribellano all’ordinanza del sindaco di Calasetta Antonio Vigo che ha proibito, per l’imminente stagione di caccia, di sparare nelle località di Spiaggia Grande, le Saline e Cussorgia. A protestare è l’Autogestita di Isola di Sant’Antioco che raccoglie tra i soci la stragrande maggioranza delle doppiette isolane. La contestazione è rivolta ai circa 700 ettari, utilizzati sinora per l’attività venatoria nel territorio di Calasetta. Secondo i cacciatori nel vertice in prefettura. A cui fa riferimento l’ordinanza sindacale, si è discusso di un ulteriore azione di controllo del territorio.
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“Oramai la campagna è molto abitata, l’estate è ancora in corso e sono tante le persone che a piedi o in bicicletta la frequentano. Abbiamo perciò deciso, anche per evitare incidenti, di limitare l’attività venatoria in un’area lontana dalle abitazioni”. (Carlo Floris)
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Foto : Nicola Friargiu
Cagliari La Procura della Repubblica presso il Tribunale di Cagliari, con l’ausilio del Corpo forestale e di vigilanza ambientale e di tecnici e impresa incaricati, ha condotto le operazioni di demolizione degli abusi edilizi rientranti nell’insediamento realizzato dalla Isolotto Immobiliare s.r.l. sull’Isoletta di Corrumanciu, nello Stagno di Porto Pino, in Comune di Sant’Anna Arresi (CI). E’ stato posto in esecuzione l’ordine di demolizione degli abusi edilizi e di ripristino ambientale derivante dalla sentenza della Corte di Cassazione passata in giudicato che aveva sancito definitivamente il carattere abusivo del complesso edilizio. Le associazioni ecologiste Amici della Terra e Gruppo d’Intervento Giuridico, che nel 2004 segnalarono alle autorità amministrative e giudiziarie competenti i lavori edilizi e in seguito si costituirono parte civile nel procedimento penale, avevano chiesto più volte l’esecuzione della demolizione e del ripristino ambientale al Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Cagliari, al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Cagliari, al Direttore generale della pianificazione urbanistica territoriale e della vigilanza edilizia, al Direttore del Servizio governo del territorio e tutela paesaggistica di Cagliari della Regione autonoma della Sardegna e al Direttore regionale dei beni culturali e paesaggistici per la Sardegna (questi ultimi in via sostitutiva in quanto violazioni di natura paesaggistica, 167 del decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.). Nel settembre 2010 la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Cagliari aveva invano inoltrato al Presidente della Regione autonoma della Sardegna l’ordine di demolizione e di ripristino ambientale del complesso abusivo, mentre con la sentenza Sex. II il T.A.R. Sardegna aveva respinto il ricorso della Isolotto Immobiliare s.r.l. avverso la determinazione del Servizio Tutela del Paesaggio di Cagliari della Regione autonoma della Sardegna n. 66/RE del 3 agosto 2007 con cui era stato negato l’accertamento di compatibilità paesaggistica. Ora la conclusione della vicenda, con l’esecuzione del giudicato penale. Il necessario ripristino della legalità oltre che dell’ambiente, da estendere a svariati altri casi di abusi edilizi oggetto di sentenze penali passate in giudicato. Ruspe a Porto Pino per scrivere la parola fine, a nove anni dal sequestro penale e dopo tre condanne confermate in Cassazione, sulla vicenda del villaggio di Corrumanciu, il complesso edilizio costruito tra gli stagni poco lontano dalla splendida spiaggia delle dune. LA DEMOLIZIONE. I colpi di benna, nel giro di una giornata, hanno trasformato le villette in un cumulo di macerie sotto l’occhio attento degli uomini del Corpo forestale, guidati dal commissario Ennio Angioni e degli ingegneri Salvatore Gianino e Sabrina Cucinotta incaricati dalla Procura della Repubblica di fare in modo che Corrumanciu non sia una seconda “Baia delle Ginestre”: i detriti non rimarranno abbandonati tra i cespugli di macchia mediterranea ma saranno immediatamente portati via, recuperati ove possibile o smaltiti dalla ditta specializzata di Cristian Fanni di Santadi. LA VICENDA. La demolizione arriva dopo tre gradi di giudizio e dopo un tentativo di bloccare tutto con un ricorso al Tar che, invece, ha confermato la condanna a morte del villaggio e dato ragione agli ambientalisti che gridarono allo scandalo sin da quando iniziò la costruzione delle villette. Fu proprio un esposto delle associazioni “Amici della terra” e “Gruppo di intervento giuridico” a far scattare, nel 2004, le indagini del Corpo Forestale e di vigilanza ambientale su disposizione della Procura della Repubblica (pm Daniele Caria): nell’esposto sostenevano che quelle villette a ridosso degli stagni di Porto Pino mancassero delle necessarie autorizzazioni paesaggistiche. L’isolotto di Corrumanciu, dissero, appartiene al demanio marittimo ed è
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Salvare, denunciare, segnalare gli scempi nel nostro paesaggio è semplicissimo. Passare davanti a questo senza accorgersi di nulla è un reato, che potrebbe vivere nella coscienza per tutta la vita.
Porto Pino. Foto: Juri Iurato
Eventi Positivi
Provincia di Oristano della Procura della Repubblica (pm Daniele Caria): nell’esposto sostenevano che quelle villette a ridosso degli stagni di Porto Pino mancassero delle necessarie autorizzazioni paesaggistiche. L’isolotto di Corrumanciu, dissero, appartiene al demanio marittimo ed è direttamente comunicante con il mare, dunque tutelato da vincolo paesaggistico (legge 431). Inoltre, trov andosi nella fascia dei 300 metri dalla battigia marina è tutelato da vincolo di conservazione integrale (legge 23 del 1993) e l’area rientra anche nel Parco Geominerario (e non risultavano via libera da parte di questo ente). Infine, il piano paesaggistico regionale inseriva l’area nell’ambito di paesaggio costiero 5 “Anfiteatro del Sulcis”. Abbastanza per capire perché gli ambientalisti insorsero contro il progetto della ditta Isolotto Immobiliare srl che prevedeva la realizzazione di 45 costruzioni, di cui 36 residenze stagionali e 9 strutture a destinazione commerciale. laosta paesaggistico. LE CONDANNE. In primo grado (settembre 2007) in Appello (dicembre 2008) e in Cassazione (ottobre 2009) furono condannati Francesco Monti, amministratore delegato della Isolotto Immobiliare s.r.l..
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L’accusa di Fulvio Pilloni direttore dei lavori e Massimo Paolo Granella, responsabile dell’Area tecnica del Comune di Sant’Anna Arresi. L’accusa era violazione delle norme relative alla tutela paesaggistica e costò loro nove mesi di arresto con la condizionale, 18 mila euro di ammenda e l’obbligo di demolizione degli abusi edilizi e ripristino ambientale. Nel marzo di quest’anno il Tar ha respinto il ricorso in extremis della Isolotto immobiliare e la Procura ha dato il via alla demolizione e il ripristino dei luoghi: «Resta l’amarezza quando un complesso edilizio arrivato sino alle tegole viene demolito – ha commentato il sindaco di Sant’Anna Arresi Paolo Dessì – purtroppo non è stato possibile recuperarlo neanche per fini sociali, ora vigileremo affinché neanche un detrito rimanga a deturpare l’isolotto».
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Oristano
La Caletta di Bosa e Il Grifone di Bosa. Foto: Paola Rizzu
Foto : Claudia Basciu
Il tenente di vascello Renato Signorini, comandante dell’Ufficio circondariale marittimo di Bosa (OR), aveva emanato l’ordinanza con la quale ha interdetto “la navigazione, l’ormeggio, l’ancoraggio, la pesca, la balneazione e qualsiasi altra attività di superficie e subacquea professionale e diportistica” nel mare di Cala Fenuggiu per il periodo 8 aprile – 31 agosto 2012 per salvaguardare la nidificazione del Grifone. Per la prima volta viene adottato un provvedimento di grande importanza per la necessaria tranquillità delle riproduzione dei grandi avvoltoi. Tuttavia sarebbe necessario regolamentare anche l’accesso via terra alla zona, visto che addirittura sono proposte escursioni organizzatenel periodo della nidificazione. Infatti, i Grifoni volano ancora e si riproducono, anche in Sardegna. Sulla costa alta fra Alghero, Bosa, Villanova Monteleone. Fra boschi di sughere, macchia mediterranea, rocce, falesie. Capo Marrargiu, Tentizzos, Torre Argentina, Punta Cristallo. Il Grifone (Gyps fulvus), una delle specie di altri animali più caratteristiche dell’Isola, vive e vola da erratico un po’ in tutto il territorio regionale. Dai Sette Fratelli al Supramonte, dove nidificava fino a trent’anni fa e dove un progetto del Comune di Oliena, dell’Assessorato all’ambiente della Provincia di Nuoro e dell’Ente foreste della Sardegna ne vorrebbe la reintroduzione, anche se il recente fallimento della reintroduzione del Gipeto determinato dai bocconi avvelenati pesa come un macigno. Perseguitato con bocconi avvelenati e fucili con la falsa accusa di decimare le greggi, è uno dei quattro avvoltoi europei, necrofago, al vertice della catena alimentare.
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Attualmente se ne stimano poco più di un centinaio di esemplari, con una trentina di coppie nidificanti. Il 28 ottobre 2010 sono stati liberati a Punta Cristallo (Alghero), nel parco naturale regionale “Porto Conte” (dove gravitano altri 4-5 esemplari e recentemente è stato riattivato uno storico carnaio) due giovani Grifoni (un maschio e una femmina) recuperati qualche mese fa e riabilitati dal Centro di recupero della fauna selvatica (Bonassai) dell’Ente foreste della Sardegna. Due esemplari in più in volo sui cieli sardi. Il Grifone si trova in Marocco, Algeria, Spagna (8.100 coppie), Sardegna, Croazia (soprattutto nelle isole Cres e Rab), in Grecia (circa 450 coppie), Turchia, fino all’Iran ed all’Irak. Dalla Slovenia arriva fino all’Austria, dove dallo zoo di Salisburgo (che accoglie una colonia in stato semi-libero) sale fino agli Alti Tauri. E’ stato reintrodotto nel Massiccio Centrale francese (circa 220 coppie) e nel Giura svizzero (54 coppie). La popolazione complessiva al momento sembra crescere. In totale, vi è una stima di 17-18 mila individui. In Italia è stato reintrodotto nel parco naturale regionale dei Nebrodi (Sicilia), dove conta ad oggi circa 50 individui tra adulti e giovani. A seguito di un’operazione di ripopolamento, sono stati avvistati numerosi esemplari sul versante occidentale aquilano del Gran Sasso (agosto 2006), mentre recenti avvistamenti ci sono stati anche sulle Dolomiti, in Veneto, sul massiccio della Marmolada. Anche la Regione Friuli – Venezia Giulia è promotrice, da alcuni anni, di un progetto di reintroduzione del grifone nella zona di Forgaria nel Friuli. Nel Parco nazionale del Pollino (Calabria), nel territorio di Civita in provincia di Cosenza, è in atto un progetto di reintroduzione.
Eventi Positivi Provincia di Nuoro
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Nuoro Demolizione di 130 case abusive in Ogliastra, non occupate quale unica abitazione dai nuclei familiari: 26 eseguite dall’Ufficio e 104 autodemolizioni avvenute. Una battaglia vinta!
ABUSI EDILIZI RISOLTI IN OGLIASTRA
Foto : Claudia Basciu
A partire dal 1999 in Ogliastra, soprattutto a Tertenia, ci sono stati tantissimi abusi edilizi, circa 198. Sono state portate a esecuzione ben 198 sentenze passate in giudicato comportante la demolizione di abusi edilizi e il ripristino ambientale nell’arco di un anno (aprile 2012 – marzo 2013). Sono state ben 130 le residenze abusive demolite, delle quali 104 demolite dai trasgressori e 26 eseguite d’ufficio. Tutte seconde o terze case, mentre “tredici sentenze con condanna alla demolizione riguardanti famiglie di Tertenia, che non hanno altra abitazione, saranno eseguite nel prossimo mese di novembre, per consentire l’inserimento nel Puc (Piano urbanistico comunale) che potrebbe essere approvato dal consiglio comunale nel mese di ottobre”. Demoliti anche dighe, recinzioni, muri abusivi, spesso in zone a rischio idrogeologico o sulle coste. Questi i dati forniti dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Lanusei al termine della campagna di demolizioni degli abusi edilizi sulle coste dell’Ogliastra, in particolare nei territori comunali di Tortolì, Tertenia, Barisardo, Baunei. Per vari mesi si è visto un po’ di tutto in difesa del cemento illegale: dalle manifestazioni di alcune centinaia di abusivi accolti amichevolmente da troppi consiglieri regionali al vittimismo di amministratori locali finora ignavi davanti a ruspe e mattoni non autorizzati, dalla squallida proposta di legge regionale anti-ruspeal leader degli abusivi che rivendica il lucro tratto dagli immobili abusivi perché “è un diritto anche quello”, ai bambini usati come scudi umani. E si è sentito soprattutto l’assordante silenzio da parte di partiti e movimenti politici e sindacati, intellettuali e opinion maker vari. Nemmeno uno straccio di dichiarazione in appoggio alla più estesa operazione di ripristino della legalità e dell’ambiente mai compiuta in Sardegna. Nemmeno da chi sembra affetto da enuresi verbale su ogni argomento dell’Orbe terracqueo.
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«Tredici sentenze con condanna alla demolizione di famiglie di Tertenia che non hanno altra abitazione saranno eseguite a novembre, per consentire l’inserimento nel Puc, che potrebbe essere approvato a ottobre. I tempi di esecuzione delle sentenze relative alle altre dieci cosiddette “prime case” nei diversi Comuni verranno stabiliti caso per caso, per contemperare le esigenze di esecuzione delle sentenze definitive con le necessità abitative dei nuclei familiari in condizioni di difficoltà». (Domenico Fiordalisi)
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Eventi Positivi
Foto : Nicola Friargiu
Provincia di Sassari
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Sassari “No alla speculazione energetica nella piana tra Giave e Cossoine”. Il Gruppo d’Intervento Giuridico si oppone al ricorso straordinario al Presidente della Repubblica presentato dalla Energogreen Renewables Srl che intende realizzare una centrale solare termodinamica (potenza 30 MW) su oltre 160 ettari di Campu Giavesu, nel paesaggio agricolo fra Cossoine e Giave, in Provincia di Sassari.
Foto : Claudia Basciu
L’associazione ecologista Gruppo d’Intervento Giuridico onlus, grazie al prezioso operato dell’avv. Claudia Basciu del Foro di Cagliari, ha inoltrato (18 luglio 2013) specifico intervento ad opponendum avverso il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica esperito dalla Energogreen Renewables s.r.l. (Gruppo Fintel Energia Group s.p.a.) che intende realizzare una centrale solare termodinamica (potenza 30 MW) su oltre 160 ettari di Campu Giavesu, nel paesaggio agricolo fra Cossoine e Giave (SS). La Società promotrice di energie rinnovabili ha impugnato la deliberazione Giunta regionale n. 48/37 dell’11 dicembre 2012, provvedimento conclusivo della procedura di verifica di assoggettabilità che ha deciso – anche grazie all’atto di “osservazioni” (20 agosto 2012) delle associazioni ecologiste Gruppo d’Intervento Giuridico onlus e Amici della Terra – di destinare il progetto alla più stringente procedura di valutazione di impatto ambientale. Il progetto – avviato nel bel mezzo dell’estate 2012, fra dubbi e contrarietà della popolazione interessata – potrebbe, infatti, portare allo snaturamento di un’ampia area a vocazione agricola nella Sardegna settentrionale. In seguito, il Comitato popolare per il no al termodinamico a Cossoine e Giave ha predisposto una petizione on line indirizzata al Ministero dell’ambiente, alla Regione autonoma della Sardegna, alla Provincia di Sassari, ai Comuni di Cossoine e di Giave, raccogliendo centinaia e centinaia di adesioni. Lo scorso 17 marzo 2013, nel corso del referendum comunale, il popolo di Cossoine ha detto il suo forte e chiaro “no” al progetto che snaturerebbe il territorio e il contesto storico-sociale del piccolo centro del Mejlogu: su 544 votanti ben 484 (l’88,97%) elettori si sono espresso negativamente. In seguito il ricorso della Energogreen Renewables s.r.l., che non accetta di sottoporre l’invasivo progetto energetico al procedimento di V.I.A. Sono seguite le difese regionali e l’intervento del Comune di Cossoine. L’associazione ecologista Gruppo d’Intervento Giuridico onlus è al fianco dei cittadini e dell’amministrazione comunale di Cossoine per la difesa della propria Terra, della propria storia, della propria identità.
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La Società promotrice di energie rinnovabili ha impugnato la deliberazione Giunta regionale dell’ 11 dicembre 2012, provvedimento conclusivo della procedura di verifica di assoggettabilità che ha deciso di destinare il progetto alla più stringente procedura di valutazione di impatto ambientale (Via). L’associazione ambientalista ad agosto aveva già inviato un atto di “osservazioni”.
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Foto : Alberto Mei
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Le Coste Sarde
Foto : Claudia Basciu
La tutela delle coste sarde
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Foto : Alberto Mei
Il 6 Agosto del 2010 ci fu la terza edizione della campagna di sensibilizzazione per la salvaguardia delle coste sarde curata dall’Agenzia Conservatoria delle Coste della Regione Autonoma della Sardegna. Una campagna che ogni anno finisce nel dimenticatoio, praticamente inutile sia per i turisti che per la popolazione sarda, una sensibilizzazione fallita completamente.
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Il Sughero Sardo Con la distribuzione dei cenerini, piccoli posacenere da spiaggia, e di materiale informativo contenente alcuni consigli dedicati a chi ama il mare, l’Agenzia Conservatoria delle Coste in collaborazione con l’ANCI Sardegna, dà continuità al progetto avviato nelle scorse stagioni estive, che ha come fine la sensibilizzazione di bagnanti, gestori dei servizi di spiaggia e gli amministratori pubblici, con la consapevolezza che il futuro delle coste sarde dipenda da ciascuno di noi. La campagna, presentata in una conferenza stampa dal direttore della Conservatoria delle Coste Alessio Satta e dal direttore dell’ANCI Umberto Oppus partì il 9 agosto 2010 coprendo oltre 100 spiagge della Sardegna per tutto il mese. Ci fu il supporto attivo di tutti i Parchi e le Aree Marine Protette (AMP) dell’isola, dell’assessorato per la Difesa dell’Ambiente attraverso il Servizio Savi ed i Nodi Infea delle Provincie, di aeroporti, porti e approdi turistici sardi e soprattutto dei comuni costieri, coinvolti grazie alla collaborazione congiunta dei due enti che, come precisa Oppus “ha stimolato l’adesione di trentadue amministrazioni locali, ben 24 in più rispetto al 2009”. L’obiettivo fu quello di ricordare a turisti e residenti la necessità di tenere comportamenti responsabili per garantire il futuro e la naturale bellezza delle spiagge sarde. Tra le indicazioni contenute nell’opuscolo: il suggerimento di tenere pulita la spiaggia e non portare via sabbia e ciottoli, non calpestare le dune e la vegetazione dunale, accettare la posidonia come elemento fondamentale per la vita della spiaggia, etc.. “Quest’anno” precisa il direttore dell’Agenzia, Alessio Satta “la novità sarà il coinvolgimento dei diportisti, con un opuscolo a loro dedicato contenente indicazioni utili per i più e meno esperti di navigazione: andare per mare con consapevolezza, praticare la pesca sportiva in modo responsabile, prestare attenzione a dove si getta l’ancora per evitare di danneggiare il fragile ecosistema marino, seguire le indicazioni del codice della navigazione e dell’ordinanza balneare 2010 e altro ancora. Abbiamo inoltre pensato agli stranieri per i quali sono state tradotte in inglese e stampate 70 mila copie di entrambe le versioni dell’opuscolo, quella per il bagnante e quella per il diportista, conclude Satta. L’iniziativa si inserisce nel contesto più ampio delle politiche di tutela dell’ambiente voluta dall’assessore regionale della Difesa dell’Ambiente, Giuliano Uras che puntualizza: “la Giunta regionale sta attuando una rigorosa campagna di prevenzione e sensibilizzazione a favore dell’ambiente e delle bellezze naturalistiche della nostra Isola che anche attraverso questo progetto, come tanti altri messi in cantiere, possono essere valorizzate meglio”. Come nelle scorse edizioni il turista troverà una cartina della Sardegna inserita negli opuscoli: una lo accompagnerà alla scoperta dell’isola, mentre l’altra lo orienterà tra porti, AMP, rade e campi boe. Tutta la campagna è coordinata dalla Conservatoria delle Coste, Agenzia regionale che ha il compito di promuovere e diffondere le tematiche relative alla tutela ambientale e paesaggistica ed allo sviluppo sostenibile delle aree costiere.
E’ pianta tipicamente mediterranea diffusa particolarmente nella Penisola Iberica, Francia, Italia e Africa settentrionale. In Italia è presente soprattutto in Sardegna e Sicilia e localmente nelle coste tirreniche e in Puglia.
Asinara. Foto: Claudia Basciu
Tra i soggetti che aderiscono all’iniziativa: tutti i Parchi e le Aree Marine Protette (AMP) dell’isola; il Comune di Aglientu; Alghero; Arborea; Arbus; Arzachena; Badesi; Buggerru; Cabras; Cardedu; Castelsardo; Cuglieri; Gairo; Gonnesa; Iglesias; Loiri Porto San Paolo; Maracalagonis; Masainas; Muravera; Olbia; Oristano; Orosei; Porto Torres; Portoscuso; Posada; Riola Sardo; San Teodoro; Santa Teresa Gallura; Sorso; Stintino; Tertenia; Villaputzu; Villasimius; i Nodi Infea delle Provincie di Nuoro, Oristano, Cagliari e Ogliastra, gli Aeroporti di Cagliari e Alghero, i Porti di Aglientu, Alghero, Arzachena, Cagliari, Castelsardo, Baunei, Bosa, Budoni, Buggerru, Cala Gonone; Calasetta, Carloforte, Golfo Aranci, La Maddalena, Olbia, Oristano, Palau, Porto Scuso, Porto Torres, Pula, Quartu, San Teodoro, Santa Teresa di Gallura, Sant’Antioco, Sassari, Siniscola, Stintino, Tortolì, Trinità d’Agultu, Villaputzu, Villasimius.
Tempio Pausania (provincia di Sassari), capoluogo della Gallura, è il centro più importante della Sardegna e d’Italia per la lavorazione e il commercio del sughero. Le sugherete, boschi di querce da sughero spontanei o impiantati, sono tipiche dei Paesi mediterranei: Portogallo, Spagna, Algeria, Marocco, Tunisia e Italia. Da noi crescono in Toscana, Lazio, Sicilia, Calabria, ma soprattutto in Sardegna, su una superficie totale di 90 mila ettari. La Sardegna da sola fornisce 180 mila quintali di sughero l’anno, i due terzi della produzione nazionale, ma nel triangolo Tempio Pausania-Luras-Calangianus se ne lavorano almeno 50 mila in più, che vengono importati dalla Spagna e dal Portogallo per far fronte alle richieste del mercato. Coltivare sughero non è semplice, richiede pazienza e attenzione: per avere una produzione abbondante e di buona qualità le piante devono aver raggiunto almeno i 10 anni di età. Se vengono scorticate prima per vendere il prodotto, deperiscono rapidamente. E questo purtroppo succede e danneggia irreparabilmente il futuro della produzione. Quando la pianta ha raggiunto il giusto grado di sviluppo, si effettua la demaschiatura, cioè l’asportazione del sughero maschio o sugherone di qualità scadente. A questo punto la pianta incomincia a produrre il sughero migliore (femmina o gentile), che s’ispessisce sempre più e viene asportato dopo nove anni almeno. Dopo altrettanti anni di attesa si ripete l’operazione e così via per tutta la durata del bosco, che può essere anche di cento anni. Lo scortecciamento si esegue d’estate e interessa di volta in volta una superficie sempre più ampia di tronco fino ad arrivare ai rami. L’impianto di una nuova sughereta deve rispettare una certa distanza tra le piantine perchè le sugherete hanno bisogno di molta luce e di spazio; è necessario inoltre estirpare le erbe infestanti e il sottobosco, lasciando strisce di terreno prive di vegetazione per limitare il pericolo di incendi, tanto frequenti d’estate in Sardegna. Le querce da sughero, però, sono piante resistenti, per così dire, agli incendi: infatti la corteccia è isolante e protegge la parte vitale dell’albero, che rinasce dopo l’incendio, anche se questo ritarda e riduce il raccolto successivo. La raccolta del sughero occupa operai fissi e altri stagionali. A Tempio Pausania c’è dal 1952 una stazione sperimentale che studia gli aspetti biologici (l’albero e le sue malattie) e gli aspetti tecnologici della coltivazione del sughero (impiego del prodotto e dei suoi derivati).
“Sulle chiarità del cielo il bosco si disegnava con una tinta cupa e umida: le foglie non cadevano che dai cespugli, ma qualche quercia, smarrita nella vastità della tanca, cominciava ad indorarsi. E l’erba tenera e fitta cresceva ricoprendo le stoppie brune; qualche fiore selvatico, specialmente vicino all’acqua, apriva i melanconici petali violetti.” Elias Portolu di Grazia Deledda
Il sughero viene utilizzato per la fabbricazione di turaccioli, galleggianti, rivestimenti isolanti e linoleum. Dalla lavorazione di un quintale di sughero si ricavano 10 mila turaccioli, che sono tanto migliori quanto migliore è la qualità della materia prima.
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La Foca Monaca Sarda
Foto : Alberto Mei
E’ chiamata così per il colore nero o marrone del suo manto ed è nota fin dai tempi di Aristotele, era sacra perfino al Dio Apollo. I maschi sono lunghi circa 2,5 metri e pesano intorno ai 400 kg. Le femmine sono un pò più piccole. Alla nascita pesano solo 20 chili e sono lunghi un metro. Le foche monache, come tutte le foche sono carnivore e danno alla luce un unico cucciolo ogni due anni. La gestazione dura 11 mesi ed il parto avviene in un luogo asciutto, di solito una grotta. Dopo 16 settimane, il piccolo entra in acqua e dopo qualche mese vi rimane per lunghi periodi. Le Foche Monache vivono nel Mediterraneo ma purtroppo gli esemplari esistenti non sono più di 500. Le Hawaii, grazie ad un programma di conservazione oggi contano 1000 esemplari di Foche Monache. Questo mammifero è in via d’estinzione perchè un tempo, i pescatori, usavano la dinamite per pescare, ammazzando anche le povere Foche, che già faticano abbastanza per riprodursi. Le Foche Monache disturbavano i pescatori perchè rompevano le reti, restando spesso impigliate nelle stesse; alcune sono state avvelenate a causa di epidemie e delle alghe tossiche. In Italia, questi mammiferi sono stati avvistati nell’Adriatico e nel Mediterraneo, in Sardegna, in Sicilia e nell’Arcipelago toscano. La presenza dell’uomo sconvolge a tal punto la Foca Monaca, che talvolta le femmine gravide abortiscono. In immersione, raggiungono i 90 metri di profondità. Nei paesi come la Grecia, la Turchia, la Spagna, il Portogallo e la Croazia, i ricercatori hanno attivato un piano di sorveglianza delle aree di avvistamento; l’Italia sotto questo punto di vista è in forte ritardo. In Sardegna, si trovano in prossimità delle grotte del Bue Marino, dal nome in sardo della Foca Monaca, in prossimità del Golfo di Orosei.
Negli anni cinquanta le grotte sono state aperte al pubblico e grazie all’intraprendenza di alcuni operatori turistici, ed alle piccole imbarcazioni, sono state scoperte, per la prima volta, le meraviglie spettacolari che le grotte offrono agli occhi degli innumerevoli visitatori. Le grotte si raggiungono via mare in trenta minuti. Lungo il tragitto marino si possono ammirare le imponenti falesie marine che si tuffano nelle acque cristalline e pure del Golfo di Orosei che colpiscono anche il turista più distratto. La foca monaca mediterranea è il pinnipede più minacciato al mondo e uno dei mammiferi più a rischio del Pianeta. Si stima una popolazione complessiva di 350-450 animali, di cui 250-300 nel Mediterraneo orientale, dove vive la più numerosa subpopolazione che conta circa 150-200 individui in Grecia e circa un centinaio in Turchia. Sono invece circa 150 quelle che vivono nel versante atlantico, lungo la costa della Mauritania e nelle isole Madeira. Da sempre le foche sono state cacciate o eliminate perché considerate in competizione per la pesca. Poi la distruzione degli habitat, il disturbo continuo, l’inquinamento e la scarsità del cibo, anche una epidemia di morbillivirus che ha falcidiato le foche della Mauritania. La scoperta di Morgana può essere interpretato come un segnale di vitalità della popolazione. A cui bisogna rispondere con forme di tutela adeguate. Significa quindi dedicare alle foche alcuni tratti di costa e salvaguardare in particolare le grotte; significa evitare impatti con la pesca che quindi va regolamentata coinvolgendo gli stessi pescatori; significa monitorarne i nuclei e facilitarne la dispersione.
A sinistra la foca monaca A destra la costa affianco alle grotte del bue Marino Foto: Paola Rizzu
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Campagne Internazionali
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Campagne Internazionali In Brasile c’è una zona chiamata Cerrado, una savana che copre circa il 21% del territorio. E’ una località preziosa per il Brasile, sia per il turismo che per la sua bellezza.
Campagne del Cerrado, Brasile.
Foto : Cai Tjeenk Willink
Dal 2011, a causa dell’agricoltura, soprattutto per i vasti campi di soia, questa piccola savana sta scomparendo più velocemente della foresta amazzonica. Negli ultimi anni la crescente produzione di soia, che finisce principalmente per l’alimentazione animale, ha messo sotto pressione l’ecosistema di tutto il mondo. Il Cerrado è famoso per la sua biodiversità, è la patria di un terzo della specie animale in Brasile e circa il 5% di tutte le specie del mondo. E’ composto da un mosaico di prati secchi, di zone umide e aree forestali. Ci sono circa 60 specie animali a rischio, 20 in via d’estizione e 12 in pericolo di estinzione. Il 44% delle sei specie vegetali non esiste in nessun altro luogo sulla Terra. Circa 300 delle sue specie vegetali autoctone sono utilizzate come cibo, medicine e artigianato. Nove su dieci brasiliani usano l’elettricità generata dall’acqua delle zone del Cerrado e meno del 3% della superficie totale è rigorosamente protetta. Gli abitanti indigeni della regione avevano imparato a sfruttare l’uso del fuoco combinato alla capacità di rigenerazione della vegetazione della zona, per fare spazio a terreni adatti al nutrimento degli animali domestici. Fino agli anni sessanta, le attività agricolturali nei “cerrados” erano molto limitate, orientate principalmente verso la produzione di bovini per la sussistenza del mercato locale.
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Il trasferimento della capitale da Rio de Janeiro a Brasilia fu un importante fattore che attrasse popolazione nella regione. Dal 1975 agli anni ottanta, diversi programmi del governo sono stati lanciati con l’intento di sviluppare le attività nel “cerrado”, con sussidi per l’agricoltura. A causa di ciò, la pressione urbana e il rapido sviluppo delle attività agricolturali nella regione hanno contribuito a ridurre la biodiversità dell’ecosistema. Il Cerrado è uno degli ecosistemi più a rischio in Brasile, minacciato dagli effetti delle attività agricolturali, dagli incendi dolosi e da altri effetti antropici. Meno del 3% del territorio è protetto dalla legge. La conservazione delle risorse naturali dei “cerrados” è rappresentata da diverse categorie di unità di conservazione secondo specifici obiettivi: otto parchi nazionali, alcuni parchi statali e stazioni ecologiche, che coprono circa il 6,5% dell’area totale del Cerrado. l cerrado era considerato non adatto all’agricoltura fin quando alcuni ricercatori della Embrapa scoprirono che il terreno poteva essere reso fertile con l’aggiunta di quantità corrette di fosforo e calce. I ricercatori crearono anche una varietà tropicale della soia, fino a quel periodo un prodotto da clima temperato. La regione del “cerrado” fornisce più del 70% dei prodotti ottenuti dall’allevamento dello stato, e grazie alla irrigazione e alle tecniche di correzione del suolo è un centro di produzione di cereali, soia, fagioli e riso.
Campagne Internazionali
Il WWF, il 3 Maggio 2011 lanciò una campagna di sensibilizzazione per salvaguardare le campagne del Cerrado. Una campagna molto forte, d’impatto, formata da un video pubblicitario non girato, ma animato, fu creata una bellissima animazione con le mani, utilizzando il gioco delle ombre e creando dei movimenti fluidi con degli animali e dei paesaggi creati da tantissime mani. Il video inzia con delle immagini che raffigurano varie zone delle campagna del Cerrado. Dopo queste immagini inizia l’animazione, con un sole che sorge seguito da tantissimi animali che variano dall’elefante che si disseta all’acquila che vola in cielo, fino al lupo che ulula di notte. Il WWF ha calcolato tutte le statistiche scritte sopra per studiare tutti i modi per salvaguardare l’intera foresta.La campagna video dura 1.15 minuti, il video è stato diretto da Kirk Hendry e prodotto dalla Neo Films. Grazie a questa campagna sono stati creati tre parchi nazionali all’interno della foresta, con tutte le specie protette. Sono state create nuove regole severissime per la coltivazione ed eliminata quella di soia. Aboliti i furti di energia in tutto il territorio e aumentato il 20% della protezione.
Frame del video sulla campagna del Cerrado.
Foto : Cai Tjeenk Willink
Salvare l’habitat del Gorilla “Quando capisci il valore della vita, di ogni vita, pensi meno al passato e lotti per difendere il futuro”. Disse Diane Fossey nel suo libro “La mia vita tra i Gorilla” . Questo per far capire che i Gorilla sono una specie in via d’estinzione, e bisogna lottare per salvaguardare questi animali e non distruggere il loro habitat. “Perchè rovinare un paesaggio così raro e splendente? Perchè l’uomo sceglie la rovina piuttosto che una bella vista, un bel panorama?”.
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Campagne Internazionali Il Gorilla è un animale grande e possente, dal caratteristico pelo nero e folto. Nonostante la mole e l’aspetto imponente, i gorilla sono animali relativamente pacifici e tranquilli. È raro vederli su due zampe: per lo più si trovano in posizione clinograda (inclinata in avanti), e hanno la caratteristica andatura di camminare sulle nocche. altezze. Trascorrono la maggior parte del tempo a terra, non temendo alcun pericolo, a guardia degli alberi dove vivono gli altri membri del branco. Questo atteggiamento è distintivo dei maschi adulti, ed è considerata all’interno del branco una manifestazione di potere. Il gorilla è dotato di una notevole intelligenza. Un gorilla diventato famoso per la sua intelligenza è Koko, allevata dai ricercatori Penny Patterson, Carl Pribram, Saul Kitchener e Roger Fouts, che è in grado di esprimersi a gesti e di usare diversi oggetti umani. Nel loro habitat i gorilla non hanno molti predatori. Talvolta i leopardi possono cacciare i cuccioli di gorilla, o anche le femmine, ma è raro che attacchino un maschio adulto. Circa il 98% delle montagne in tutto il mondo è abitato dai Gorilla. Vivono in gruppi familiari stretti, di solito guidati da un maschio dominante. Il gorilla di montagna è una specie in pericolo di estinzione. Esistono circa 880 gorilla di montagna che sopravvivono allo stato selvatico e 4 in cattività. Le loro zone sono principalmente nella catena montuosa vulcanica Virunga che attraversa la zona di confine del Ruanda, Uganda e Repubblica Democratica del Congo e il Parco Nazionale di Bwindi, impenetrabile in Uganda. I giovani gorilla di montagna sono principalmente vegetariani e circa l’85% della loro dieta e composta da foglie e germogli. Mangiano anche piccole quantità di legno, radici, fiori e frutta e occasionalmente larve, lumache e formiche. I maschi adulti sono chiamati anche “Silverbacks” a causa della chiazza di capelli d’argento sulla schiena e fianchi. Un maschio diventa silverback a circa 7/9 anni. Una ricerca del WWF, insieme a George Schaller e Dian Fossey, ha evidenziato la situazione dei gorilla e ha ispirato l’organizzazione per una nuova campagna, al fine di salvaguardare le poche specie rimaste. Nel 1991 nelle zone del Ruanda, Uganda e Repubblica Democratica del Congo c’è stato un aumento del 10% della popolazione dei gorilla di montagna, e la crescita gradualmente continua. E’ stato chiesto di aumentare le tecniche di monitoraggio e pattugliamento in tutte le aree protette, chiedendo aiuto anche alle popolazioni locali. inoltre è stato chiesto di ridurre l’uso delle coltivazioni, in modo da non rovinare il territorio con materiali non idonei, come acidi o altri liquidi dannosi.
L’8 Maggio del 2009, il WWF lancia la campagna per la salvaguardia della carta. In tutto il mondo noi usiamo circa un milione di tonnellate di carta tutti i giorni. Il consumo di tutta questa carta è dispendioso e crea tantissimi danni sull’ambiente.
Vulcano Viruga, Africa. Foto: Cai Tjeenk Willink
Il regista Stephen Poliakoff ha sviluppato diretto un bellissimo video per la campagna dei Gorilla africani. Il video dura 2.37 minuti, ed è interamente girato nell’habitat dei Gorilla, in Africa. Cerca di raggruppare tutte le specie animali che vivonon in quella zona, e li filma in tutti i loro movimenti naturali, durante normali momenti di vita quotidiana. Il video è ricco di immagini strepitose, aeree e marittime, all’interno di grandi foreste. Il montaggio è molto fluido e piacevole alla vista. A metà video inizia un discorso di Anna Friel sui parchi della zona dei Gorilla, e continua fino alla fine del video. Grazie a questa campagna sono state eliminate tutte le zone di coltivazione di ogni tipo, sono stati creati due parchi nazionali e la popolazione è aumentata di circa il 5% in un anno. Si lotta ancora oggi per salvaguardare i gorilla.
La creazione della carta comporta tantissimi danni alle foreste e al cambiamento climatico. Per ridurre gli sprechi, è necessario coinvolgere e sensibilizzare tutti noi che, ogni giorno, in ufficio, usiamo la carta senza chiederci se è possibile risparmiarla. Non sono necessari cambiamenti epocali o spese grandiose: le tecnologie attualmente disponibili consentono già oggi di ridurre la quantità di carta che utilizziamo regolarmente. Quello che veramente serve è una maggiore sensibilità verso il mondo che ci circonda e le risorse che sono a nostra disposizione. Il WWF ha calcolato che, se 99.000 impiegati negli uffici avessero un approccio più sensibile al tema, userebbero meglio i mezzi a disposizione e si introducessero nuove tecnologie, sarebbe possibile risparmiare 1.386 tonnellate di carta l’anno. I risultati delle analisi ambientali, effettuate con il metodo LCA (Life Cycle Assesment), hanno permesso di stimare gli effetti positivi di un eventuale riduzione della carta negli uffici: • si eviterebbero 890.000 kg di CO2 all’anno, pari alla CO2 emessa da più di 1.000 automobili che ogni giorno percorrono circa 12 km; •si risparmierebbero 1.140.000 kWh di energia all’anno; •si risparmierebbero 1.140 m3 annui di acqua; Inoltre è stato fatto un altro calcolo per evitare di stampare anche solo il 20% dei volantini pubblicitari che oggi affollano le nostre cassette della posta, si risparmierebbero 11.385 tonnellate di rifiuti. Un stima dei benefici ambientali condotta con il metodo del LCA (Life Cycle Assessment) ha calcolato che ridurre la carta nelle cassette della posta porterebbe a: •una riduzione di CO2 pari a 220.753 kg; •un risparmio d’energia pari a 149.000.000 kWh all’anno; •un risparmio d’acqua pari a 134.656.440 m3 all’anno, equivalente all’acqua che 670.000 famiglie consumano in un anno. La campagna è stata strutturata in due parti, quella grafica e quella video. Per la parte grafica sono stati creati tre poster, scaricabili gratuitamente, da appendere in tutti gli uffici, in modo da sensibilizzare tutti. Per la parte video è stato creato un video spot di 15 secondi, che consiste in una ripresa statica di una foresta con una mano che la arrotola come un pezzo di carta. Il video è stato diretto da Justin Kurzel.
“Il risparmio è fare a meno di qualche cosa che si vuole intensamente, nella prospettiva che tu debba desiderare un domani qualcosa di cui probabilmente non avrai bisogno.” Anthony Hope, The Dolly Dialogue, 1894
Dopo questa campagna ci sono stati pochi miglioramenti, solo il 10% degli uffici hanno utilizzato i poster, e il video ha avuto circa 2 milioni di visualizzazioni.
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Foto : Alberto Mei
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Le Mani La mano è uno dei simboli più diffusi. Sin dall’antichità essa è stata considerata un ponte tra cielo e terra, tra l’umano e il divino. E’ grazie alle mani che l’uomo può manifestare sé stesso nell’atto creativo, e “creare”, a somiglianza di Dio.
Le mani La mano è la parte del corpo che appare più spesso nella simbologia di ogni cultura. Già nella pittura rupestre dell’età della pietra compaiono profili di mani o dita, con un significato rituale e di sacrificio. Come per tutti i simboli, la mano può avere più significati e valenze, positive e negative (come ad esempio nel gesto di afferrare o di allontanare), perciò, spesso, appare come potente amuleto. La mano è simbolo di potere, poiché è la manifestazione del sovrano, dunque emblema regale. Imporre la mano significa benedire e conferire la propria forza alla persona così consacrata. La stretta di mano simboleggia un’accettazione benevola; le mani levate o piegate, la preghiera e con determinati gesti delle dita, la benedizione. Può anche essere espressione “magica” (sia in senso positivo che negativo), come toccare un’altra persona, senza dimenticare tutta la ritualità dell’imposizione delle mani nelle varie culture e religioni, come per l’espressione cristiana di tre dita elevate al cielo nell’atto di chiamare Dio a testimone o le mudra del simbolismo buddista. Nelle interpretazioni simboliche la mano destra e la sinistra hanno significati diversi tra loro in relazione alle culture e religioni che li elaborano. Per l’ebraismo la mano sinistra è la mano di Dio, la rappresentazione della giustizia, mentre la destra è quella sacerdotale, della misericordia. Nel cristianesimo la destra struttura e dà ordine al mondo, la sinistra porta la Grazia. Con l’imposizione delle mani si realizza il passaggio del potere o della conoscenza a chi ne è degno; sempre con l’imposizione delle mani il malato guarisce o “risorge”, dunque questi erano i gesti del medico prima che vi fosse la separazione tra la religione e la medicina. Nel saluto rituale della tradizione cinese (JINLI), la mano destra, chiusa a pugno, rappresenta il Sole (RI ), il maschile, lo Yang e la mano sinistra, aperta che accoglie il pugno, la Luna (YUE), il femminile, lo Yin. L’unione dei due astri celesti rappresentati nel saluto danno origine al carattere MING (Ricci 3515) assumendo, oltre quello di unità, fratellanza anche il significato di chiarezza, illuminazione, brillante, chiaro, luce. Un’altra lettura di questo gesto, legata alle pratiche “marziali” vede nel pugno chiuso la rappresentazione delle pratiche d’Esterno (Buddista) che evolvono verso l’Interno, in altre parole dal
role dal più concreto (struttura) al più sottile (soffio) e nella mano aperta le pratiche d’Interno (Taoista) che evolvono verso l’Esterno, ovvero dal più sottile al più concreto. In Cina lo studio della mano (chirologia) trova il suo posto all’interno della Tradizione Medica e dell’energetica cinese. La forma e le caratteristiche della mano sono espressione della vitalità e della fisicità di un individuo, come il viso lo è per il carattere. Ogni Elemento o Movimento, della Tradizione Medica ha la sua tipicità espressa nella mano. Una mano armoniosa, regolare e con una perfetta simmetria tra le dita e il palmo, segni cutanei come solchi di una corteccia, sono caratteristiche di una mano Legno. Se la mano è lunga, agile, armoniosa con dita estremamente mobili, la classica mano dell’artista, è una mano Fuoco. Invece una mano corta, tozza, forte, con dita relativamente corte, la mano di chi lavora la terra, è precisamente una mano Terra. Il Metallo è espresso da una mano lunga, appuntita, con le dita corte rispetto al palmo e una presa scarsa se non inesistente. Una stretta decisa di una mano carnosa, forte ma armoniosa e caratteristica dell’Elemento Acqua.
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La mano è la parte del corpo che si ritrova più spesso in simbologia. Sin nelle pitture rupestri si trovano profili e impronte di mani (in America Meridionale, in Australia, e in Europa, ad esempio, nelle grotte di Pech-Merle in Francia, o nelle grotte di Gargas – caverna pirenaica- dove sono presenti raffigurazioni di dita dalle falangi piegate o mutilate, forse testimonianze di un sacrificio). La mano può assumere molteplici significati, positivi e negativi. Tutta la gestualità e i movimenti possibili delle mani formano un vero e proprio linguaggio (una forma sincretica di comunicazione tra la spontaneità del linguaggio del corpo e l’elaborazione del linguaggio codificato artificiale), antecedente persino l’invenzione della parola. L’uso delle mani (parte integrante del linguaggio del corpo) persiste come accompagnamento nella nostra comunicazione orale. Le posizioni e i movimenti “colorano” la nostra comunicazione trasmettendo le nostre emozioni e le nostre intenzioni. Con l’aiuto della mimica delle mani, le tribù indiane del Nordamerica, linguisticamente divise, potevano farsi comprendere anche oltre i loro confini. Gesti semplici di questo genere costituiscono evidentemente il patrimonio originario dell’umanità e, come la mimica del volto, vengono compresi per lo più spontaneamente; ad essi si ricollega anche la dattilografia dei sordomuti. Nelle culture semitiche, “mano” è sinonimo di “potere” ( jad ) in quanto manifestazione del potere sovrano, e quindi simbolo regale. Toccare con la mano è espressione di magia per contatto; imporre la mano significa benedire e conferire la propria forza alla persona così consacrata; stringere la mano simboleggia un’accettazione benevola; le mani levate o piegate segnalano la preghiera, e alcuni gesti specifici fatti con le dita sono segni di benedizione. In tutte le culture, molte posizioni specifiche delle mani servono da protezione per chi le compie, contro il malocchio o i demoni: il più noto oggi è la croce fatta con gli indici, ma più antico è il gesto-fica. Considerato osceno, poiché simboleggia l’atto sessuale (col pugno chiuso, si infila il pollice tra l’indice e il medio), sarebbe una protezione contro persone e forze ostili, grazie alla convinzione che i demoni siano creature asessuate, e quindi rifuggano da qualsiasi allusione al sesso (ecco perché non è insolito trovare nelle decorazioni delle chiese sculture antropomorfe con le mani in questa posizione). I mudra dell’India sono noti per i loro molteplici significati. Per i mussulmani il numero cinque delle dita simboleggia i pilastri dell’Islam: la rivelazione della fede, la preghiera, il pellegrinaggio, il digiuno e la carità. Una delle simbologie legate al numero cinque delle dita della mano rimanda anche, secondo alcune tradizioni, agli “elementi” e al loro ordinamento sul mondo (nell’Alto Medioevo, aveva questo significato sulle pietre tombali della setta balcanica dei Bogumili). Nell’iconografia cristiana, Cristo viene definito “la mano destra di Dio”, dove destra possiede il tradizionale valore positivo. Lo stesso avviene nel linguaggio simbolico più diffuso della magia, laddove, sotto l’influenza del cristianesimo, alla destra viene data una valenza positiva e alla sinistra negativa, indicando così la magia malefica (nera) con “sentiero della mano sinistra”. Mani coperte dalla manica segnalano l’antico uso di coprire le mani in presenza del sovrano come segno di rispetto e reverenza. E’ in questo modo che spesso viene raffigurato Mosè mentre riceve le Tavole della Legge sul Sinai.
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“Chi prende il potere allunga le mani/ chi sfugge al dovere se ne lava le mani/ Le mani, le mani, che sanno tradire, che sanno soffrire e che sanno sbranare/ Le mani spietate che danno la fine, le mani, le mani assassine”. Eduardo De Crescenzo, Mani, in Amico che voli, 1982
Le Mani
Mani indiane dipinte con ornamenti locali. Foto: Yashasvy Kanvas
Mani coperte dalla manica segnalano l’antico uso di copriFoto : Yashasvy Kanvas re le mani in presenza del sovrano come segno di rispetto e reverenza. E’ in questo modo che spesso viene raffigurato Mosè mentre riceve le Tavole della Legge sul Sinai. Alla mano del re veniva attribuito il potere di guarire dalle malattie attraverso il contatto (tradizione dei sovrani taumaturghi). La mano aperta e levata nel gesto rituale del sovrano bizantino divenne poi il gesto cristiano della benedizione. Due mani levate esprimono il rivolgersi al cielo e la disposizione all’ascolto dell’orante. La mano destra levata con pollice, indice e medio tesi durante un giuramento chiama Dio a testimone. Notevole importanza viene attribuita alla mano nella Massoneria: già nelle baracche del cantiere edile serviva per scambiarsi i segni di riconoscimento e per impartire la consacrazione; le mani unite rappresentano qui la “catena dei fratelli” , e spesso sui sigilli e gli stemmi delle logge compaiono due mani nel gesto di stringersi. Nell’arte araldica del rinascimento, le mani assumono di volta in volta molteplici significati a seconda sempre delle loro posizioni sugli stemmi: una mano con dita tese e separate significa discordia; una mano chiusa a pugno, forza e concordia; le mani strette l’una nell’altra, fedeltà e alleIncantati, sì, incantati davanti alle meravigliose statue che ornano i templi dell’India; così innuanza. I significati tradizionali e culturali delle mani hanno lasciato tracce anche nel linguaggio comune attraverso merevoli turisti in vacanza restano a bocca aperta a rimirare le innumerevoli figure che sembrano modi di dire e proverbi: “lavarsene le mani”, “una mano danzare, morbide anche se di pietra, con le loro mani aperte in posizioni peculiari. lava l’altra e tutte e due lavano il viso”, “con la mano sul cuore” (antica forma di giuramento), “mettere la mano sul fuoco per qualcuno” (la prova sostitutiva per l’innocenza nei giudizi divini del medioevo), “essere in buone mani”, “chiedere/concedere la mano”, “dare una mano”, “non volersi sporcare le mani”, e molti altri.
Mudra, la danza delle mani
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Le Mani Sarà capitato a molti di osservare una statua o un dipinto indiano che rappresenta una figura umana. La posizione del corpo, lo sguardo, il colore e la forma dell’abito, tutto fa parte di un ben preciso messaggio rivolto all’osservatore. Se osservate le mani (possono essere due o più, a seconda del personaggio o della divinità rappresentata) noterete che hanno delle posizioni ben precise che si ripresentano con lo stesso “linguaggio” in templi anche lontanissimi tra loro. Queste posizioni seguono una ritualità e una simbologia su chi guarda, ma anche su chi eventualmente le esegue. In effetti, nelle mani ci sono numerose terminazioni nervose che corrispondono ad alcuni meridiani. Proprio sulla punta delle dita terminano i meridiani principali e quindi si può ipotizzare un effetto psicocorporeo dato proprio da determinate pressioni delle dita. Queste posizioni delle mani si chiamano Mudra e fanno parte di un’antichissima tradizione che, ai giorni nostri, si conosce ancora solo in parte. È un linguaggio nato in tempi remoti, fatto non di suoni ma di posizioni che, di generazione in generazione, vengono tramandate ai posteri tramite un’arte che, indifferente al trascorrere dei secoli e ai cambiamenti sociali, ha scelto di continuare senza deviazioni sul cammino indicato da scritture antichissime quali l’Abhinaya Darpana o il Natya Shastra. Il termine sanscrito Mudra significa “sigillo” in quanto è un vero e proprio sigillo energetico. E’ presente nella tradizione esoterica indiana sia dello yoga che nel buddismo. Nella tradizione tantrica l’origine del termine viene indicata in un termine, Mud, che sta ad indicare la beatitudine. Come ci sono mantra che purificano, energizzano, guariscono, proteggono, allo stesso modo ci sono mudra che hanno questi particolari effetti. Nella danza tradizionale indiana, le mudra hanno quindi una multipla valenza: da una parte aiutano il racconto attraverso una codificazione simbolica, in quanto rappresentano determinati aspetti del personaggio o della situazione che si vuole illustrare, dall’altra, provocano una risposta da parte del corpo del danzatore che si allinea vibrazionalmente e si armonizza con il raccontato, dall’altra ancora generano un effetto in chi osserva attraverso una sorta di percezione subliminale. In particolare quest’ultimo aspetto, sebbene possa sembrare vagamente fantascientifico, ha avuto invece chiare dimostrazioni scientifiche. Molti anni fa ho seguito dei corsi avanzati di pranayama (tecniche yogiche legate alla respirazione) presso un’importante istituzione statunitense, dove venivano svolte numerose sperimentazioni con particolari apparecchiature circa l’effetto di alcune pratiche respiratorie sull’ambiente circostante.
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Ragazza indiana che pratica la Mudra. Foto: Ignoto
Non una parola è magari stata scambiata tra i due, eppure i due corpi si sono parlati, compresi, hanno iniziato a fluire allo stesso modo. E’ quindi ipotizzabile che le mudra, come tutte le posizioni corporee, abbiano un forte effetto sugli osservatori. Non è casuale quindi che venga data una tale importanza alle statue che ricoprono letteralmente i templi in India. In particolare, se guardiamo alle città-tempio del sud, fatte di ingressi successivi in aree quadrate sempre più interne, si capisce l’importanza dell’iconografia nel percorso che il visitatore viene invitato a compiere. All’esterno del tempio molte rappresentazioni, centinaia di statue dalle posizioni corporee atte a creare un determinato effetto sullo stato di coscienza di chi osserva. Man mano che si procede verso l’interno, normalmente il numero delle statue diminuisce e, nel nucleo centrale, il solo minimalismo di una stanzetta di marmo spesso priva di ornamentazioni al centro della quale una sola divinità, a volte addirittura un lingam, la pietra simboleggiante Shiva, colui che tra l’altro, nel suo aspetto di Nataraja, Signore della danza, distruggerà l’universo. Secondo le scritture, Shiva, nella sua forma danzante di Nataraja, ha nella postura del corpo tutta la simbologia legata a lui legata: La mano destra rappresenta la protezione, la sinistra, messa trasversalmente sul busto, rappresenta il rifugio, le altre due mani rappresentano il damaru (piccolo tamburo che simboleggia la ritmica, l’impulso, e quindi la creazione) e il fuoco (la trasmutazione), il piede destro è nella posizione della benedizione e il sinistro rappresenta la vittoria sul male.
In questo contesto le mudra possono essere utilizzate a scopo esoterico e divenire un linguaggio gestuale per iniziati. In effetti, la tradizione tantrica utilizzato ampiamente le mudra ma è per questo necessario avere la giusta guida. Le “variazioni sul tema” di improvvisati maestri, sia occidentali che indiani, in possesso solo di una debole infarinatura sul tema e prontamente propositivi di seminari dai traguardi altisonanti mi fanno caldamente consigliare chi si avventura nel sentiero del tantrismo di verificare prima la qualità dell’insegnante. Ho lungamente sperimentato direttamente il potere dei suoni, dei mantra e delle mudra e di sicuro non vanno presi alla leggera… Nelle scuole di danza indiana, le posizioni delle mani vengono eseguite ripetutamente fino a che l’apprendista le imparerà a memoria e sarà in grado di eseguirle correttamente. E, peculiarmente, lo stesso avviene anche nelle scuole di yoga. Quindi danza e cammino spirituale si avvalgono di un linguaggio comune e questa è la dimostrazione pratica di come arte e spiritualità, nella tradizione indiana, attingano dallo stesso luogo e vertano verso la stessa meta. Sin dai tempi vedici la recitazione dei mantra rituali veniva accompagnata dalla giusta postura delle mani. Nell’area buddista la tradizione mudra è stata particolarmente preservata: è usuale vedere monaci tibetani cantilenare i mantra salvifici accompagnandoli con le relative posizioni delle mani. In effetti, il buddismo si è sviluppato in India e quindi, a causa delle persecuzioni musulmane, si è spostato a nord (tibet), a sud (sri Lanka) e ad est (Indocina) portando con se una scia di conoscenza proveniente dall’antica trattatistica indiana. Per i Dogon, l’indice è il dito della vita, il medio quello della morte. Il medio dela mano sinistra è la sola parte visibile del corpo del morto, per il resto completamente coperto e fasciato in modo rituale. I Dogon dicono che “il morto parla ai vivi con l’aiuto di questo dito”.L’indice è anche il dito del signore della parola e il medio il dito della parola stessa. Il pollice è simbolo di potere per i Bambara, presso i quali i capi portavano un anello da pollice decorato con il segno del fulmine: quando davano un ordine muovendo la mano, minacciavano così il loro interlocutore con il fulmine. Opposto questo dito che rappresenta il potere sociale, il mignolo, che i Bambara chiamano “il figlio delle dita” possiede il nyama cioè la forza vitale delle altre dita; lo si impiega per la divinazione e per gettare il malocchio. Il dito minore del piede, il mellino, rappresenta la persona intera ed è talvolta ornato con un anello d’argento, simbolo del verbo che abita la totalità del corpo umano, dalla testa ai piedi. Un colpo dato con il mignolo è segno di assenso totale che impegna l’intera persona. Di una donna che presenta questa caratteristica del piede molto accentuata, si dirà che ha forti appetiti sessuali e tende al libertinaggio. La tradizione vuole che si leghi all’alluce di ciascuno degli sposi per la notte di nozze, un filo di cotone, il quale aiuterà l’uomo a compiere la deflorazione e la donna a sopportrne i dolori. Sempre per i Bmabara, il pollice incarna la forza, non solo fisica ma anche mentale; questo dito era il prolungamento dell’attività dell’anima e rappresenta anche il lavoro.
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“Il talento toglie significato all’idea stessa di esercizio; quando si trova qualcosa per il quale si ha talento vero, la si fa (qualunque cosa sia) fino a farsi sanguinare le dita o cascare gli occhi dalla testa”. Stephen King, On Writing, 2000
Il progetto Danza dei Dogon. Foto: Daphne Ouwersloot
Primo piano di un Dogon. Foto: Daphne Ouwersloot
Sempre per i Bmabara, il pollice incarna la forza, non solo fisica ma anche mentale; questo dito era il prolungamento dell’attività dell’anima e rappresenta anche il lavoro. I Dogon attribuiscono al pollice il valore numerico 3, segno della mascolinità. L’indice è il dito del giudizio, della decisione, dell’equilibrio, del silenzio, dell’autocontrollo; il medio rappresenta l’affermazione della personalità; l’anulare ed il mignolo sono legati alla sessualità, ai desideri, agli appetiti, ma il simbolo dell’anulare è più è più nettamente sessuale e quello del mignolo più esoterico: è il dito dei desideri segreti, dei poteri occulti e della divinazione. Le donne della Nuova Guinea si tagliavano na falange in segno di lutto alla morte del marito. Secondo l’astrologia tradizionale, il pollice è il dito di Venere, l’indice quello di Giove, il medio quello di Saturno, l’anulare il dito solare e il mignolo il dito di Mercurio. Secondo alcune leggende l’eroe rifiuta di nascere dalla vulva e viene al mondo attraverso l’alluce del piede destro della madre, questo econdo i miti Pigmei. Il pollice della mano, fra tutte le dita, è quello da cui trarre maggiori indicazioni sui punti di forza e di debolezza dell’essere umano. Rivela il bagaglio ereditario e delle funzioni intellettive.
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E’ indice di forte determinazione ma scarsa capacità il ragionamento. Un pollice predominate nell’equilibrio della mano indica impulsività. Corto e stretto invece rileva una personalità indecisa. Il dito indice simboleggia il sé e come una persona si considera. Un indice più lungo del dito medio è simbolo d’autorità, più corto indica complessi d’inferiorità. Se è sottile e pallido segnala la tendenza a stancarsi facilmente e debolezze epatobiliari. Il dito medio dovrebbe essere pieno, lungo e forte, con falangi all’incirca della stessa lunghezza per indicare buona salute e discreta energia. Normalmente è più lungo delle dita che ha accanto. Se è molto più lungo predispone agli stati depressivi, mentre se è molto più corto simboleggia scarso senso di responsabilità. L’anulare è legato alla creatività e alle soddisfazioni personali. Più lungo del medio rende sognatori e privi di equilibrio. Più corto indica scarso interesse per la cultura e insufficiente Qi innato. Il dito mignolo rappresenta la nostra capacità negli affari e le condizioni dell’apparato digerente e genitale. Il mignolo molto lungo significa personalità spiritosa e brillante. Se appare esile e debole, indica cattiva digestione e malassorbimento.
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Foto : Alberto Mei
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Il Progetto
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Dopo una lunga e dettagliata analisi di tutti gli eventi positivi e negativi della Sardegna relativi all’ambiente, ho deciso di progettare un video spot istituzionale per la sensibilizzazione dei sardi e dei turisti rispetto alla tutela del territorio.
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Foto : Alberto Mei
Il giro dell’isola in un mese Paesi incantevoli, spiagge deserte, montagne e foreste incontaminate. Per tutto il mese di Aprile ho percorso un itinerario progettato per fare tutte le riprese del video spot. Sono partito dal sud, da Teulada, e sono arrivato fino a Sassari, ho girato tutta la Barbagia, ho conosciuto e ho vissuto l’intera Sardegna in poco tempo.
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L’idea
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Il Progetto
L’idea L’idea è la parte iniziale di un progetto. Tutto parte da una semplice idea che poi verrà sviluppata in un progetto. Per questo video l’idea principale è stata la metafora delle mani dell’uomo che crea o distrugge la Sardegna. Il motivo principale del mio progetto è sicuramente l’amore per la Sardegna e la voglia di regalare qualcosa di positivo ed emozionale a tutto il popolo sardo. La forza del videoclip emozionale è ormai nota, aiuta a recepire messaggi senza bisogno di spiegazioni, grazie alle immagini forti e alla tecnica di montaggio fluida e veloce. Questo video sarà formato da vari contrasti, dalla parte emozionalmente positiva a quella più forte e dura da mostrare, e dovrà far capire agli abitanti dell’isola, e non solo, che una terra come la Sardegna non deve essere rovinata. L’obiettivo principale di questo progetto video è quello del rispetto e dell’orgoglio di una terra affascinante, che non merita il fuoco estivo, non merita il cemento nelle coste, non merita morte e distruzione per colpa delle alluvioni e degli incendi, merita rispetto e cura. La metafora delle mani ha aiutato molto lo sviluppo del progetto. Il primo pensiero è stato quello delle mani degli anziani, perché se guardate con attenzione, si possono notare dalle vene e dalle forme che possono rappresentare tantissimo, possono rappresentare montagne, fiumi ecc. Per questo molte mani sono in grado di raccontare delle vere e proprie storie, le storie della nostra vita, sono considerate dei paesaggi. Anche le mani dei bambini possono raccontare tanto, soprattutto se messe a confronto con quelle degli anziani, racconterebbero la storia della vita. Superato il primo pensiero sono passato alla Sardegna, a cosa ma soprattutto come raccontare il vero viso della mia isola. Per prima cosa ho pensato alle emozioni, a qualcosa che colpisca il cuore e la mente, ma soprattutto ho puntato all’originalità, all’innovazione e ai colori forti.
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I luoghi
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Il Progetto
I luoghi Prima di scrivere lo storyboard e iniziare delle riprese ho fatto una ricerca dettagliata su tutta la Sardegna, sui luoghi, le tradizioni e le persone, anziane e bambini. L’analisi dei luoghi è stata fondamentale per la riuscita del video. Sono passato a una ricerca sulle zone più belle della Sardegna, utili per rappresentare al meglio la nostra terra. Si è partiti dal sud, dalle coste. La prima tappa è stata Chia, con le spiagge bianche e il mare cristallino, per poi arrivare a Teulada e Nora. Salendo verso il Campidano un’altra tappa sono stati i nuraghi di Barumini, forse i più importanti della Sardegna. Le città usate sono state Cagliari, Nuoro e Sassari, mentre nel cuore della Sardegna la parte più utilizzata è la Barbagia, dove troviamo alcune zone famose della Sardegna abbandonata. La tappa più importante della Barbagia è stata Lollove, una paese fantasma di 13 abitanti che ha dato un sacco di magia alle riprese, seguita da Orgosolo con i suoi murales e i suoi misteri. Al nord abbiamo Sassari, dove è stata utilizzata la piazza d’Italia. Ho fatto un’analisi su tutte le zone abbandonate e misteriose, per dare maggiore importanza al video e per mostrare che la Sardegna ha tanto da offrire, anche nelle zone più remote e trascurate. Dopo aver visto tutti i luoghi da utilizzare, ho fatto una ricerca sugli archivi degli eventi negativi, come gli incendi e alluvioni. Ho trovato tantissimo materiale da utilizzare nel video. Una volta trovati i luoghi e le riprese d’archivio ho strutturato lo storyboard.
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Il Progetto
Lo Storyboard Lo storyboard di un video spot è importante per non tralasciare nulla durante le riprese e per non sbagliare i luoghi e i movimenti con la camera. Lo storyboard di un video spot è importante per non tralasciare nulla durante le riprese e per non sbagliare i luoghi e i movimenti con la camera. Ho strutturato tutto seguendo una scaletta precisa dei luoghi, dei tempi e del meteo. E’ importante scrivere ogni cosa nella scaletta, dal tipo di riprese da fare a quale tipo di attrezzature portare nei posti da riprendere. Per la riuscita del video è stato fondamentale controllare ogni giorno la situazione meteorologica, il sole è stato da subito inserito nello storyboard, per avere una luce giusta e non dover buttare le riprese per una scarsa illuminazione dovuta alle nuvole o da un temporale. La durata intera delle riprese è stata un mese intero, quindi lo storyboard è stato scritto seguendo delle date ben precise, per non sbagliare e non superare i tempi stabiliti. La scaletta è stata divisa in quattro parti, parte iniziale positiva, parte seconda negativa, parte terza mix di parti positive e negative e quarta parte con pezzi emozionali e finale. Sono stati scelti quattro momenti proprio per emozionare al 100% lo spettatore, con stacchi positivi e negativi formati da immagini forti. Lo storyboard è stato scritto seguendo anche la musica, infatti sono quattro stacchi accompagnati dalla musica, per dare maggior impatto visivo e musicale. Ogni parte ha i suoi dettagli chiaramente, si inizia con delle riprese statiche e con delle carrellate, e si passa alla parte più movimentata con le riprese aeree e con quelle veloci, fino ad arrivare a quelle negative. Una volta scelte le riprese si sono scegli i giorni, quindi le date e gli orari di ripresa. Sono stati sfruttati i giorni meno nuvolosi possibili e con temperature adeguate per riprendere. Poi è stata scelta l’attrezzatura, quindi numero di camere da utilizzare, cavalletti, bracci meccanici, droni, memorie esterne, schermi e tutto quello che serve per fare delle riprese di buona qualità. E’ importante anche la questione degli affitti, quindi le conferme per le barche e gli elicotteri. Una volta stabilito e confermate tutte queste cose si può passare alla fase delle riprese.
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Le Riprese
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Il Progetto
Le Riprese Borsa, camera, cavalletti, spallaccio, braccio meccanico. Tutto pronto per filmare la Sardegna intera. Prima tappa Chia, ultima tappa Sassari. Le riprese sono durate un mese circa, per tutto Aprile. Una volta stampato lo storyboard ho iniziato il mio tour della Sardegna. La prima tappa è stata Chia e tutta la zona di Teulada, fino ad arrivare a Pula e a nora. Ho iniziato con la costa, quindi ho ripreso le spiagge, che in quel mese erano deserte, dunque tutto è andato come previsto. L’acqua era limpida, pulita come sempre, la sabbia era immacolata, in uno stato naturale priva delle orme dei passanti. Il sole fortunatamente ha illuminato tutto il mese di Aprile con i suoi raggi, e le temperature si sono sempre aggirate intorno ai 18/22 gradi. Ho sempre scelto di girare dalla mattina presto, dalle 7 del mattino fino alle 6 di sera, in modo da poter sfruttare al meglio la luce irradiata del sole e quindi regolare bene i colori. Una volta terminate le riprese nelle coste di Chia mi sono spostato verso Cagliari, dove ho realizzato le prime riprese aeree col drone, uno strumento innovativo per fare delle riprese statiche e fluide. Ho ripreso nella zona del bastione e tutto il panorama della città. La tappa successiva è stata Bosa, che ho ripreso dall’elicottero ultraleggero, come per Barumini, con tutto il complesso di Nuraghi. Il tour continua, fino a Oristano, dove ho riprese varie coste. La tappa più importante è stata la Barbagia. Sono partito da Desulo, Aritzo, Tonara, fino a Nuoro, Oliena e Orogosolo. Ho fatto una ricerca approfondita sulla Barbagia e ho scoperto anche Lollove, un paese fantasma di 13 abitanti, che ho visitato, e ho ripreso le sue strade abbandonate e il suo silenzio. La tappa nella famosissima Orgosolo è stata importante per i murales, ho ripreso quelli più importanti, perché sono considerati la storia della Sardegna. Dopo la Barbagia ho visitato la città di Sassari, dove ho usato la tecnica del timelapse nella Piazza d’Italia. Ho riprese la Sardegna intera nel giro di un mese, seguendo perfettamente lo storyboard, e una volta finito tutto sono passato alla fase del montaggio.
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Il Montaggio
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Il Progetto
Il Montaggio Finite le riprese, comincia la fase della post-produzione, in cui il materiale accumulato viene riorganizzato per la presentazione al pubblico. Si passa al montaggio. Dopo aver terminato tutte le riprese stabilite nello storyboard si arriva alla fase del montaggio. Dopo essere state pensate e progettate, le centinaia di inquadrature girate in tempi e luoghi differenti vengono riorganizzate e collegate fino ad assumere un ordine e un senso. Come scrive Godard: “ se la regia è uno sguardo, il montaggio è un battito di ciglia”. Normalmente il montaggio avviene in due tappe. Dopo le riprese si fa un primo assemblaggio di massima, lasciando le inquadrature un po più lunghe di quanto saranno alla fine e concentrandosi soprattutto sulla loro successione. Il semplice fatto di allineare due immagini spinge lo spettatore a metterle in un rapporto di implicazione logica, di vicinanza spaziale o di progressione temporale, anche quando a priori non esisterebbe nessun tipo di connessione. Ho scelto due tipi di montaggio, narrativo e concettuale. Quello narrativo è un modo per orientare lo spettatore rispetto alla storia, mentre quello concettuale non ha come fine la continuità realistica ma la discontinuità. Il montaggio concettuale rende un video più toccante ed emozionante, aiuta a capire il significato di quello che si sta raccontando, in questo caso la vera faccia della Sardegna. Ho deciso di utilizzare anche uno stile con alcune dissolvenze, quelle semplici incrociate e quelle caotiche, per dare maggiore spazio alle immagini e un tempo preciso ma soprattutto per evidenziare i passaggi da una scena all’altra e indicare così la presenza di un salto temporale. Ho iniziato con delle carrellate sulla spiaggia e su vari paesaggi per dare un senso di fluidità e in un certo senso di calma, mentre a metà montaggio iniziano le clip aeree. Un qualsiasi ambiente può essere scomposto da un insieme di inquadrature che ci danno una serie di prospettive, per questo ho utilizzato dei movimenti di camera differenti, in modo da dare una prospettiva particolare ma forte. La durata del montaggio dura più o meno da una a due settimane, escludendo la post produzione, ma è fondamentale anche la produzione musicale, dai suoi alle colonne sonore.
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La Musica
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Il Progetto
La Musica Dopo il montaggio si passa alla produzione musicale che accompagnerà tutto il video, quindi ambienti, effetti/rumori e musica. Al montaggio ho contato vari tipi di colonne sonore, ambienti, effetti e musica, ciascuna suddivisibile in più colonne. La colonna degli effetti è quella che rappresenta tutti quei suoni che durante la presa diretta non sono abbastanza nitidi o addirittura non si sentono. Sono quelli del mare, del vento, delle mani, degli alberi, del fuoco ecc. La musica è un elemento strutturale della colonna sonora, può avere una funzione di semplice accompagnamento o di vero e proprio contrappunto, il più delle volte mantenendosi in equilibrio tra i due estremi. E’ importante perché conta l’80% della riuscita del video, aumenta i pensieri, le sensazioni, le emozioni e la voglia di continuare a visionarli. Nel mio video spot ho scelto una colonna sonora epica, con dei suoni forti. Ha un inizio lento, leggero fino ad arrivare a un suono caotico ma leggendario, che aiuta il montaggio in tutti gli stacchi importanti. L’ultima operazione è il missaggio, che consiste nel dosare i livelli delle varie colonne sonore, per unificarle su un unico livello di volume. Prima del mix ho preparato dei pre-mix, cioè dei missaggi parziali che servono a capire bene come sarà strutturata la versione finale.
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La Post-Produzione
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Il Progetto
La Post-Produzione E’ finito il montaggio, si passa alla rifinitura dei dettagli ma soprattutto alla correzione del colore. La Post Produzione è la rifinitura di tutti i dettagli, e si fa dopo il montaggio e la produzione musicale del video. E’ importante perchè da vita alle immagini, le rende più brillanti e vivaci e con un tocco cinematografico. Ci sono vari metodi di rifinitura, come per esempio l’uso delle bande nere cinematografiche, utili per un effetto stile cinema, oppure le transizioni più dettagliate. Nel mio caso ho utilizzato due tipologie di colorazione, cupa e vivace. Quella cupa e meno saturata l’ho utilizzata per le riprese negative, come quelle degli incendi o delle alluvioni. Quelle più vivaci e saturate per le riprese positive, ovvero le spiagge ecc. Ho deciso di fare degli stacchi di colorazione per rendere il video più avvincente. anche per originalità, ma soprattutto per aumentare la suspance dello spettatore e per un tocco un pò più cinematografico. Inoltre ho curato i dettagli dei movimenti di camera, le carrellate soprattutto, ho aumentato la velocità delle riprese aeree e ho rallentato quelle del mare e dei paesaggi, per una maggiore fluidità e per non infastidire l’occhio dello specttatore. Una volta completata questa fase si passa allo sviluppo e alla produzione del dvd. Lo sviluppo consiste nel renderizzare in HD il filmato in modo da poterlo pubblicare o distribuire in dvd.
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Lollove
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Il Progetto
Lollove, Barbagia Passeggiando tra le stradine di ciottolato sembra di essere in un luogo fuori dal tempo. Non ci sono negozi, scuole, bar o uffici. Visitare un borgo abbandonato è come fare un viaggio nel tempo. Quell’alone di inquietudine, fascino e mistero in cui si viene avvolti mentre si cammina tra le rovine di case e vegetazione incolta, porta spesso ad immaginare come doveva essere quel villaggio quando era vivo. E’ proprio questa l’atmosfera che ammalia il visitatore di Lollove, minuscolo paesino agro-pastorale immerso tra verdi colline, da cui si gode una splendida vista sulla vallata sottostante, poco distante da Nuoro. Percorrendo le strette stradine acciottolate che conducono al centro dell’abitato di aspetto medioevale, tra ruderi e poche abitazioni ancora intatte e immutate da secoli, si arriva alla chiesa parrocchiale in stile tardo-gotico, dedicata a S. Biagio, impreziosita da un bel rosone e un ingresso in trachite rosa. Le antiche testimonianze dei soli 26 abitanti di oggi, perlopiù anziani, rievocano un’antica maledizione scagliata sul paese da alcune suore della Chiesa seicentesca di S. M. Maddalena, in fuga dal villaggio perché scandalizzate dal comportamento di alcune loro consorelle che alla vita monastica avevano preferito i pastori del luogo. “Sarai come acqua del mare, non crescerai e non morirai mai”, dissero andando via. Oggi Lollove è un luogo dove non ci sono negozi, scuole, medico e anche il prete arriva una volta alla settimana da Nuoro per la messa domenicale, eppure è diventato un luogo-simbolo, il luogo di quella vita di un tempo, lenta e tranquilla, scandita dal ritmo della natura e dal duro lavoro nelle binzas (vigne). Una località che ha attratto diversi studiosi, ispirato fotografi e letterati, come la scrittrice nuorese Grazia Deledda, Premio Nobel per la letteratura, che ambientò proprio a Lollove il romanzo “La madre”. In autunno questo antico borgo si anima in occasione di “Vivilollove”, manifestazione interna ad Autunno in Barbagia. Le strade e i vecchi cortili diventano teatro di quelle attività che un tempo venivano praticate quotidianamente, dal fabbro al falegname. Luoghi ideali dove viene organizzato il mercatino dei contadini biologici e del fare sostenibile e i visitatori possono assistere a diverse dimostrazioni di preparazione e cottura di tradizionali prodotti locali apprezzandone la bontà.
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Orgosolo
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Il Progetto
Orgosolo, Barbagia Orgosolo sorge nel cuore della Barbagia del Supramonte. E’ il paese dei Murales, patrimonio sardo da sempre. Orgosolo sorge nel cuore della Barbagia del Supramonte. Il territorio fu abitato sin da epoche antiche, come ci testimonia la presenza delle domus de janas, delle tombe dei giganti e dei nuraghi di Su Calavriche, Mereu e Gorropu. Alla fine dell’Ottocento, il nome di Orgosolo si diffuse in Europa per i numerosi episodi del cosiddetto banditismo. Il regista Vittorio De Seta, nel suo film Banditi a Orgosolo (1961), descrive la dura lotta contadina e pastorale per la difesa delle terre contro gli espropri da parte dello Stato. Caratteristica del paese sono i murales dipinti sulle facciate delle case e sulle rocce intorno al paese, con contenuti sociali, artistici e politici. Patrimonio dell’umanità per i suoi aspetti ancestrali è il coro a tenore, il tradizionale canto corale barbaricino, oggi sotto tutela dell’UNESCO. Per gli appassionati di trekking si consiglia l’escursione presso la Foresta di Montes, dove sono presenti Is pinnettos, ossia antiche capanne di pastori usate come rifugi e la visita al Museo Naturalistico del Supramonte. Il 15 agosto si festeggia l’Assunta con una pittoresca sfilata e processione di costumi tradizionali per le vie del paese. I festeggiamenti terminano con Sa Vardia, la corsa di cavalli sull’asfalto cittadino, forte attrattiva per i turisti. Da visitare la chiesa di San Pietro, il patrono del paese, e in particolare il suo campanile Quattrocentesco.
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Bibliografia Anthony Hope, The Dolly Dialogue, 1894 Benvenuto Lobina, Terra, disisperada terra, 1974 Eduardo De Crescenzo, Mani, in Amico che voli, 1982 Stephen King, On Writing, 2000 Caterini Fiorenzo, Colpi di scure e sensi di colpa. Storia del disboscamento della Sardegna dalle origini a oggi, 2013 Giuseppi dei Nur, Buongiorno Sardegna, 2013 Vincenzo Buccheri ,Il film, Dalla sceneggiatura alla distribuzione, 2003 Vincenzo Buccheri, Lo stile cinematografico, 2010 Tanguy Viel, Cinema, 2002
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Immagini
Crediti Video
Alberto Mei
Mazzuzzi Simone
Alessandro Canu
Alessandro Carboni
Tidu Iago
Comune di Olbia
Claudia Basciu
Marco Piras
Comune di Cagliari
Cai Tjeenk Willink
Comune di Nuoro
Daphne Ouwersloot
Comune di Sassari
Luiz Felipe Sahd
Gruppo D’Intervento Giuridico
Nicola Friargiu
Unione Sarda
Juri Iurato
Videolina
Silvia L Billet
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Comparse Melanie Syrbe Sara Vincis Simone Sarais
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A tutte le persone che hanno creduto in me, al progetto e alla mia voglia di dare vita alla mia passione. Alle persone che hanno partecipato a tutti i mesi di lavoro, fino alla fine. A chi mi ha aiutato con le attrezzature, idee e sviluppo.
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