Alessandro Pilloni
ANTABUSE IL VELENO DELLA REDENZIONE
Il disulfiram (o disolfuro di tetraetiltiourano, noto, tra l’altro, anche come Antabuse o Antabus o Etilox) è un farmaco utilizzato nelle terapie di contrasto all’abuso di sostanze alcooliche. Interferisce nell'organismo col normale metabolismo dell'alcool, provocando un aumento della concentrazione ematica di acetaldeide. Quando un paziente in trattamento ingerisce dell'alcool avverte quasi immediatamente dispnea, palpitazioni, cefalea, nausea, vomito, con conseguente senso di repulsione verso le bevande alcooliche.
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A Silvia, che mi ha salvato da me stesso
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PARTE PRIMA
Sei personaggi in cerca d'amore.
(di Erinna Ali Bianche)
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Alessandro e Marianna
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Nomi che non appartengono....
.....Alessandro lanciò lo zaino sul divano. Il divano era sulla destra, sulla sinistra invece, come vi stavo dicendo poco fa c'era la porta della cucina.....mhmm...vi chiedete perché ho usato il termine "dicendo" piuttosto che "scrivendo"?..Beh, si, avrei dovuto, sarebbe stato più corretto, più adatto, più tutto quello che volete, si, certo....ma in realtà io parlo, non sto scrivendo io queste cose che vi dico...ops, scusate, ci sono ricascata, ma è così...è come se stessi dettando queste mie parole, e c'è un bel giovane al computer che le trascrive...a dir la verità io ho detto solo "giovane", il "bel" lo ha aggiunto lui, ma, tant'è...lasciamogli questa piccola consolazione...comunque ora mi avete fatto perdere il filo del discorso, la matassa che stavo dipanando, il nodo che mi accingevo a sciogliere, il....va bene, va bene, non c'è bisogno di imprecare, avete capito...Mi trovate per caso noiosa?!..Davvero!!?...Beh, scusate, non ci posso far nulla, è nella mia natura...dopo tutto sono pur sempre una mosca! UNA MOSCA??!, direte voi....ops, mi sono scordata di presentarmi. Mi chiamo Erinna e, si, non me ne vergogno affatto, anzi ne vado fiera, sono una mosca....certo, non sono una drosofila, ma ho anche io la mia dignità...Sono una comune mosca domestica della famiglia dei muscoidi del genere dei ditteri, o viceversa, non lo so...dopotutto questi nomi ce li avete dati voi...si, voi umani, col vostro vizio di dar nomi alle cose, che magari non è da considerarsi nemmeno un vizio, forse vi è anche utile, ma, a mio avviso, a mio modesto parere, secondo la mia umile opinione, per quel che può valere, servire, date alle cose nomi che non gli appartengono, e meno che mai questi nomi appartengono a voi. Ma lasciamo stare questi discorsi, non sono qui per farvi polemica, ma...bocca mia cuciti!, ne avrei da dire cose...no, no, lasciamo stare, non sono mica qui per dibattere su voi...o forse si...comunque sono qui per narrarvi una storia. Vi chiederete com'è possibile che una mosca sia qui a raccontarvi una storia, e soprattutto per quale motivo voi dobbiate star qui a perdere tempo nel leggerla. A parte il fatto che non è la prima volta che accade, mi pare, come nella casa acida, ma è tutt’altra storia. E comunque la risposta al vostro incuriosito quesito è ben semplice, chi meglio di una mosca può essere testimone di avvenimenti, alcuni tristi, altri allegri, ma spesso e volentieri intimi? Quale narratore potrebbe essere costantemente presente nella vita di un individuo tanto da raccontarne ogni minimo dettaglio? Una mosca sa essere una presenza discreta...lo so, lo so..qualcuno potrebbe obiettare! E va bene, ve lo concedo, discreta
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magari non troppo, ma comunque presente e, vi potete fidare, ho visto personalmente con i miei occhi tutto quello che vi sto per raccontare. Non come la maggior parte degli scrittori, che inventano di sana pianta le storie che vi fanno leggere, a meno che non siano storie autobiografiche, ma anche in quel caso...va beh, lasciamo stare... Comunque, la cosa importante che volevo sottolineare, e che voi sicuramente avrete già capito...come? Non ci avete capito ancora niente?...oh, mamma, e siamo solo alle prime righe, chissà cosa "non capirete" leggendo il resto...comunque...cosa dicevo?, ah, si....questa è una storia vera! Ve lo giuro sulle ali di Maya! Si può sapere perché ogni volta che devi giurare lo fai sempre sulle mie ali? Non ne hai per caso due anche tu come me? Certo non ugualmente pregiate, che ci vuoi fare, sei pur sempre solo una mosca, ma non mi va che mi nomini sempre a sproposito....ops, ma...per caso ci stanno leggendo? Per caso, si...sei sempre la solita.... Eh..ehm...sa...Salve a tutti! Mi presento: Maya, ape...Va bene, hai finito? Ma che vuoi? Ti do fastidio, per caso? CERTO CHE MI DAI FASTIDIO!!!! Non è ancora il tuo turno!! Ora sarà già una fortuna se è rimasto qualcuno che ha ancora il coraggio di continuare a leggere...Ehi, ehi voi!? Ci siete ancora? Purtroppo la situazione si è leggermente complicata, e io che mi ero preparata un discorsetto, tutto perfetto, con i punti sequenziali, così da essere il più chiara possibile, e invece guarda adesso che pasticcio! Veramente la scaletta te l'ha preparata Amon, ma se proprio ti vuoi prendere il merito?!.... MA PERCHE' NON TI FAI GLI AFFARI TUOI!?....Si, si..lo ammetto, e va bene, è stata Amon a prepararmi il discorso, perché lei tra tutte noi è la più precisa e meticolosa e attenta e....e basta!, abbiamo capito.....Ragazze, forse è il caso che la piantiate di litigare e creare confusione... Ops!, ciao, Amon....Ciao, Erinna... No...non..ti sei offesa, vero?....se ho detto che il tuo discorso era mio, quando invece lo avevi scritto tu...non sei arrabbiata con me, vero? ...No, ma potrei, se non riprendi subito il filo del discorso e metti un po’ d'ordine...Si, si, certo, certo, l'importante è mantenere la calma, soprattutto tu, perché si, insomma...allora?!...si, si subito, subito, quindi, stavo dicendo..pardon!, scrivendo...oh, mamma, sono nel pallone e adesso?, che dico, che faccio? Dov'ero rimasta?....prosegui
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con le presentazioni e poi inizia a raccontare la tua parte, poi il resto lo aggiusteremo in seguito...Si, si si..certo, ottimo consiglio... Allora, riprendiamo...Io, come avrete capito, sono Erinna e, per quanto possa sembrarvi strano,
sono una mosca. Nel raccontarvi questa storia sarò aiutata da tre carissime
amiche: Maya, ape; Amon, formica; e Vanessa, farfalla. Più tardi ognuna di loro si presenterà con più calma. Devo, però per dovere di informazione, farvi presente che noi quattro siamo, si, le principali testimoni, ma diversi fatti non li abbiamo potuti osservare con i nostri occhi, nonostante le nostre tante facoltà ci manca l'onnipresenza, quindi per questi suddetti fatti dovete considerarci come le portavoce ufficiali di un universo fatto di un'infinità di piccolo informatori, che devo qui ringraziare, perché, senza il loro cortese apporto, la descrizione degli avvenimenti sarebbe risultata incompleta. E sulla veridicità e l'esattezza di queste confidenze potete pure stare tranquilli, ci metterei la zampa sul fuoco, con tutti i pulvilli! E così pure non vi sorprenda il fatto che noi si possa descrivere in maniera tanto precisa e dettagliata gli stati d’animo dei diversi personaggi di cui raccontiamo le peripezie. No, non si tratta di poteri telepatici, non li leggiamo i loro pensieri, ma abbiamo imparato, con lunghe sedute d’osservazione, e angosciante rotearvi attorno ( angosciante per voi, lo ammettiamo! Per noi, e soprattutto per me, ma penso anche per Maya, vero?, è tanto divertente!), a comprendervi, a capire cosa vi passa per la mente anche solo guardandovi in faccia, dalla vostra espressione del viso, dal vostro gesticolare, dall’inflessione della vostra voce. Ebbene, si, siamo la voce della verità. A noi non si può mentire. Come dite? No, no, per carità. Non siamo mica la voce della vostra coscienza! Anche perché sappiamo benissimo che quella voi siete soliti ascoltarla ben poco! Adesso però è meglio che io prosegua col racconto e, come vi dicevo poco fa, Alessandro rientrò a casa da scuola, quel giorno. Quel giorno era un lunedì pomeriggio, se intendiamo il pomeriggio a partire dalle due dopo mezzogiorno, e io lo intendo così, e siccome la storia la sto raccontando io erano le due del pomeriggio. Alessandro rientrò a casa da scuola. Era una bella giornata di sole. Non faceva né troppo caldo, né troppo freddo. Il clima ideale per Alessandro che odiava il caldo ma non amava nemmeno il freddo e, siccome il giusto sta nel mezzo, quella temperatura primaverile andava più che a meraviglia. Come vi ho detto lanciò lo zaino sul divano, senza stare troppo a pensare alla calcolatrice "satellitare" che ci stava dentro, insieme a libri e quaderni. In realtà non era per niente una calcolatrice satellitare! Era il surrogato di un telefono cellulare, perché a differenza di tutti i suoi coetanei, che la 7
calcolatrice e molto altro ce l’avevano incorporata nel telefonino, ne era sprovvisto, e non che si tormentasse per questo. Comunque sullo schermo, o, a darci un tono, sul display, quando l'accendeva, appariva il mondo, o, a darci un tono, il planisfero, coi paralleli, le meridiane e i fusi orari. E lui, qualche anno addietro, per riderci su con gli amichetti, e sai che risate!, mah....valli a capire i giovani!, fingeva fosse il quadro comandi di una nave spaziale, o uno shuttle A.D.U.N., che è un'abbreviazione di "a darci un tono", e si!, lo so che sarebbe un acronimo, ma non siate pignoli...come dite?! Vi sorprende una mosca così erudita? Ma per chi mi avete presa? Potrei anche offendermi! Va bene, si, lo ammetto, mi piace, a volte..si, si, anche spesso e volentieri, svolazzare sulla cacca, ma che c'entra? Io ne ho viste cose.... Si, insomma, non siete affatto male, voi umani. A starvi dietro si imparano tante cose interessanti. Appollaiata sulla fronte del secchione che legge i suoi libri, accoccolata sul divano insieme alla coppietta che si sbaciucchia e guarda film melensi, svolazzando nelle aule scolastiche. Mi piace stare ad ascoltarvi mentre parlate tra di voi, o mentre scrivete, studiate eccetera. La natura la conosco affondo, è parte del mio essere, ma voi...voi siete la mia enciclopedia. Siete la principale fonte della mia cultura. Quindi se dovessi fare qualche errore non biasimatemi, biasimereste voi stessi, perché tutto ciò che so l'ho imparato da voi. Comunque Alessandro lasciò zaino e calcolatrice al loro destino ed entrò in cucina. Il suo stomaco brontolava indispettendo il silenzio che riempiva la casa. Si guardò un po’intorno: il tavolo ancora in disordine, così come lo aveva lasciato la mattina quando era uscito per andare a scuola; le tazzine sporche sul lavandino. Nessuna traccia del pranzo. "Ma dov'è?", si chiese, uscendo dalla cucina e puntando dritto verso il bagno. "Mamma, mamma!", chiamò bussando. "Mamma, sei qui?". Niente. Nessuna risposta. Io gli volavo intorno e potevo osservare le sue espressioni. Ed era quasi sconsolato, come rassegnato, come fosse già al corrente di ciò che era successo, e tutto questo non lo sorprendesse. Però anche se ormai c'era abituato, era qualcosa che non riusciva a sopportare, e lo faceva esplodere di rabbia. Quando attraversò la soglia della camera da letto della madre, bestemmiò: "Ma porco D**!!!".(A me non piacciono le parolacce, e tanto meno le bestemmie, ma è necessario che vi riferisca ogni singola parola pronunciata, però, perdonatemi, imporrò al 8
testo una certa censura. E così pure faranno le mie colleghe, su questo punto ci siamo trovate assolutamente concordi. In effetti ci capiterà solo una volta di essere indulgenti…). Alessandro restò qualche istante fermo di fronte al letto ad osservare la madre che vi era sdraiata sopra. Il suo sguardo era carico di rancore, a tratti questo suo rancore rasentava l'odio e, anche se era solo e nessuno oltre lui poteva assistere alla scena, provò una immensa vergogna. Si avvicinò al letto, ma con cautela, con gli occhi fissi al pavimento. "Hai visto, papà?", commentò ad alta voce, guardando al soffitto, non appena giunto di fronte al letto. Prese in mano la bottiglia piena, quella ormai vuota la guardò con rabbia, la strinse forte, alzò di scatto il braccio e fece come per lanciarla con forza, ma poi si bloccò e la ripose sul comodino. L'odore acre del vomito gli invadeva le narici. A stento riusciva a trattenere i conati. Corse subito, prima ancora di rivolgere le proprie attenzioni alla madre, e camminando in punta di piedi, per evitare le pozze di rigurgito materno, ad aprire la finestra, e vi restò affacciato per un bel po’. Nemmeno a me dispiacque quel po’ d'aria nuova, anche se non disgusto affatto gli odori intensi e pungenti. Ripresosi, si avvicinò di nuovo al letto. La madre dormiva. "Come farà a respirare?", si chiese Alessandro. La faccia immersa nel vomito, che ricopriva il cuscino e parte del lenzuolo. "Mamma, mamma...svegliati!", provò a chiamarla, scuotendola leggermente. Sua madre non dava nessun cenno di vitalità. Alessandro osservò per qualche secondo l'ondeggiare del suo ventre, così si rassicurò che stava dormendo. Aggirò il letto, per evitare il vomito e prese la madre alla spalle tirandola a se verso il bordo. Poi, non senza fatica, la prese tra le braccia e, camminando sempre con scrupolosa attenzione, la portò fuori dalla stanza e la adagiò in camera sua sul suo letto. Prese poi dal bagno un asciugamano, che pensò bene di inumidire con acqua e sapone, e le ripulì delicatamente il viso, il collo e anche i capelli. Non gli sembrò si fosse sporcata in altre parti del corpo. Quindi spense la luce, chiuse la porta e la lasciò a riposare tranquilla. "Te lo meriti un po’di riposo..", ringhiò tra i denti. Ripulì la camera della madre. Mise le lenzuola sporche a bagno nella vasca e usò detersivi e varechina, e più di una volta fu costretto a riprendere fiato affacciato alla finestra, a grandi boccate. 9
Le bottiglie le portò in cucina, quella vuota la buttò, l'altra la mise in fresco. Le prime volte, me lo ricordo, non riusciva a trattenersi. Spesso non solo quello della madre, ma anche il suo vomito era costretto a ripulire. E piangeva, dalla rabbia, dal dolore, dal disgusto, dalla vergogna. E invocava il padre e, qualche volta, quando era veramente a terra, lo malediva, perché li aveva lasciati soli e non aveva pensato di fornire loro una valida alternativa, e malediva anche la madre, perché era diventata così debole, e perché con gli uomini non faceva altro che andare di male in peggio: "...se li attira addosso tutti lei gli stron** migliori!!", pensava spesso Alessandro. Dopo aver sistemato tutto andò in cucina a preparare il caffè. Il telefono squillò. Scattò veloce ad alzare la cornetta per evitare che gli squilli potessero svegliare la donna, anche se era consapevole che nello stato in cui si trovava difficilmente un qualsiasi rumore avrebbe potuto destarla. Io mi avvicinai alla cornetta, così da sentire anche le parole del suo interlocutore dall'altra parte del cavo. "Pronto?!", chiese Alessandro sollevando la cornetta, ancora ansimante per lo scatto improvviso. "Ciao, ma che fai, stavi correndo? Sei senza fiato", disse la voce al telefono, una voce giovane, una ragazza. "Ciao, Sì...no, niente..non volevo che il telefono svegliasse mia madre....", sbuffò Alessandro. "Prima o poi te lo devi fare il cellulare. Che ha? Di nuovo bevuta?", chiese lei. "Mooolto bevuta", sorrise Alessandro, mimando con le mani di avere una bottiglia in mano e di portarsela alla bocca. "Il solito motivo...?!...", chiese poi con discrezione. "Ieri notte quando sono rientrato piangeva......scaricata...come al solito...." “Chi è questa volta?” “Gianni, il bracconiere…hai presente?” “Il bracconiere?” “Già, te la immagini mia madre con un bracconiere? È un mondo pieno di sorprese. Usata e buttata anche questa volta….” "Voi uomini siete una massa di cogli**i!!", disse seccata la giovane voce dall'altra parte del cavo. "Probabile...ma mia madre è proprio la migliore...tutti lei se li becca...", fece una pausa. "Beh, che c'è?" 10
"Cosa?", chiese Alessandro.. "Sei diventato silenzioso...", disse Si’. "Ho pensato una cosa....mi è venuto uno strano pensiero..." "Che pensiero?", chiese lei, curiosa. "No, niente...lasciamo stare..non mi va..." "Cosa non ti va?" "Di parlarne..." "Ti sca**a , vero?", la voce di lei assunse un tono come di partecipazione. "Cosa?", chiese ancora lui. "Dai.....", disse lei tra imbarazzo e consolazione, "...questa storia...tua madre ..il bere...e il resto...". L'ultima parola la disse quasi sottovoce. Alessandro sbuffò leggermente. Alzò lo sguardo senza un punto preciso verso cui guardare, lo riabbassò e sorrise leggermente; anche se il suo era un sorriso sconsolato. "Ormai ci sono abituato...però...", disse. "Però cosa?" "Domani deve venire 'quella'...e adesso ho paura che ci mettiamo ancora di più nei casini...", disse Alessandro, adesso leggermente seccato. "Quella chi?", chiese Si’. Se non l'avete ancora capito, Si’ è il diminutivo di Silvia......Ah, l'avevate capito?!...perspicaci... Siete ben strani voi umani. Assegnate alle cose i nomi che più vi aggradano e anche alle persone, poi però questi nomi spesso li tralasciate e li sostituite con altri che chiamate soprannomi, che però il più delle volte nascono per burla o per mettere in risalto una particolare caratteristica, spesso negativa o comica (si, lo so, per fortuna a volte sono anche dolci vezzeggiativi); oppure li riducete, perché sono troppo lunghi, perché a pronunciarli interi si perderebbe troppo tempo, ma che tempo credete di guadagnare? Avete tanta fretta, voi umani! Sentite sempre la necessità di guadagnare tempo, ma per farne cosa? .........se il nome è il vostro distintivo nel mondo... anzi no, non lo crediate, è un modo per distinguervi all'interno della società che avete creato, noi ad esempio ci riconosciamo e distinguiamo attraverso segnali chimici, noi non abbiamo nomi, Erinna l'ho scelto io, perché sapevo che senza un nome non sareste riusciti a distinguermi, a riconoscermi, a catalogarmi, e chissà quanto tempo avreste perso per farlo, perché senza un nome non avreste potuto avere l'illusione di possedermi. Quindi, mi sta bene, se dovete rivolgervi a 11
me, chiamatemi Erinna, ma non datemi nessun soprannome, non abbiate paura di perdere con me il vostro prezioso tempo... non rendetemi speciale, non fatevi gioco di questa piccola mosca. "Rossella...", rispose Alessandro. "Rossella?", chiese ancora Silvia, che non riusciva a capire. "L'assistente sociale, te l'ho detto almeno mille volte!", disse secco Alessandro. "Cerca di stare calmo, mi ero dimenticata il nome, sai quanto me ne frega di come si chiama!" "Allora se non te ne frega un ca**o, che ca**o hai chiamato a fare?", disse Alessandro sbattendo la cornetta e chiudendo la comunicazione. "Stro**a!", disse tra i denti guardando il telefono che, dopo dieci secondi risquillò. "Che ca**o fai? Ma si può sapere cos'hai?", gridava la voce dentro la cornetta. Alessandro la teneva ad una certa distanza dall'orecchio, tra sbuffa e risatine. "Hai finito?", le chiese. "La finisco quando tu la finisci di fare lo stro**o!" Alessandro stette in silenzio per un po’. "Beh..ci sei ancora? Ti sei offeso?", chiese più gentilmente Silvia. "Ne ho le pa**e piene, Si’...", disse Alessandro. "Di cosa? Di tua madre?" "Di tutto...", restò in silenzio per un minuto. ".....Te lo immagini se fosse venuta oggi, 'quella'?........... Che casino. Finisce davvero che mi portano via, o quel c***o che è...", disse con preoccupazione, " Ce l'ha detto chiaramente...ci sono quei bastardi dei miei nonni che non vedono l'ora. Non si sono mai arresi" "Ma chi? Quelli pieni di soldi? I genitori di tuo padre?" "Si...... c'hanno anche un sacco di amici...da quando è morto papà..guarda che è sempre stato tutto uno schifo..." "Ma non mi hai detto che ci sei stato bene quando eri con loro?...E ci sei stato anche da poco no? Pensa che vita!...poi sei l'unico nipote, quando muoiono ti becchi tutta l'eredità...", disse Silvia con voce sognante. Alessandro si portò una mano sugli occhi e se li massaggiò. "Ma non me ne frega niente!", disse Alessandro quasi intonando una cantilena, perché quella era una frase che più di una volta aveva già ripetuto,"...Ma cosa vuoi che me ne
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freghi!...per finire come mio padre, magari...li odiava anche lui...te l'ho detto di quel mio zio che è fuggito chissà dove e di quell’altro che si era suicidato" "Si...quello che si era impiccato, vero?", deglutì Silvia. "Esatto...tutta colpa loro...quando sono stato lì non hanno fatto altro che viziarmi in tutti i modi...cosa credevano di risolvere?...magari volevano recuperare tutto il tempo sprecato...ma mi hanno fatto anche una testa così con tutte quelle stron**te di politica ed economia, ma ero solo un bambino..assurdi!...secondo me hanno fatto lo stesso con lo zio...poi alla fine non ne ha potuto più...", fece un'altra pausa e deglutì,"......Mio padre non mi ha mai raccontato niente di quando era bambino, non ne parlava mai dei suoi genitori...O forse non lo ricordo, ero troppo piccolo. Ma io li avrò visti giusto un paio di volte in vita mia....ma mai prima della morte di mio padre...solo dopo che è morto...perché prima, non me lo ricordo, non so... guarda, forse li avevo visti davvero solo in foto...va beh, certo, a parte il ricovero...ma te l'ho detto…E ogni tanto mi tocca andare pure a trovarli…Lo faccio solo per mia madre, per non incasinare ulteriormente le cose…Ma a vivere lì non ci tornerei neanche per soldi..." "Ma loro vogliono un erede per mandare avanti l'impero e tenere alto il buon nome della famiglia...", disse Silvia con voce alquanto divertita. "Si...si..certo..sogna...'l'impero del male!', così lo chiama mia madre. Secondo lei sono massoni, immischiati in robe che neanche il peggiore dei padrini. Te l'avevo detto?...", la voce di Alessandro si fece seria. "Si...e tu ci credi?", anche quella di Silvia. "Mio padre mi sa che ci credeva.......non
lo so....hanno un sacco di affari...sono
immischiati in un sacco di cose...certo come accusa è grossa, ma mia madre mi ha detto di tutte le denunce, e di tutte le volte che si sono salvati il c**o grazie a qualche giudice o a qualche politico, te lo ricordi di quella legge regionale di due, no, forse tre anni fa, insomma, era per qualcosa che aveva a che fare con la destinazione di aree pubbliche a discarica, o aspetta, come ca**o si chiama...", Alessandro schioccò le dita, "...Umphf...insomma qualcosa del genere...". "Ah, sarà per questo che la strada è sempre piena di immondizie. Comunque no..boh?...no, non lo so...e allora?", chiese Silvia "Mia madre mi ha detto che se la sono fatta fare su misura, per se e per altri amici loro...altrimenti erano proprio ca**i..." "Va beh, però da qui a dire che sono delinquenti ce ne passa. Tua madre magari è un po’ paranoica..." 13
"Forse, ma mica è stata solo quella volta, guarda, lasciamo stare...", Alessandro si accarezzò il mento, "... ma comunque non mi cambia le cose...mio padre li odiava...me lo dice sempre, mia madre...pensa che loro mi vogliono....che mi vogliano solo per prendersi una rivincita con lei e con tutte le sue idee del ca**o sulla natura e sull'ecologia...non vogliono che mi riempia la testa di cogli**ate come ha fatto con mio padre...secondo loro è colpa di mia madre se mio padre ha mollato tutto...Non vedono l'ora di fargliela pagare....c'hanno un casino di avvocati, aspettano solo un errore da parte di mamma...Anche se fosse solo fino a quando compio diciott’anni. Lo sai che tutta questa storia dell'assistente sociale è opera loro...poi con la storia che l'hanno già ricoverata e, va beh, ca**o!... per quella volta che mi aveva bruciato col ferro..." "Quando avevi dieci anni, vero?....", lo interruppe Silvia. "Si...", sbuffò e iniziò ad aprire e chiudere il pugno con una certa frenesia, "Era già da parecchio che aveva iniziato a bere...ma è da quel giorno che è iniziata la battaglia...poi erano riusciti a farla ricoverare..." "E quanto ci avevi vissuto dai tuoi nonni?" "Tre mesi...", si morse il labbro,”....ma cos'è un'intervista?", disse scontroso Alessandro, battendosi il pugno chiuso contro la coscia. "Ehi, scusa...ma non parli quasi mai di queste cose...ne ho voluto approfittare...." "Basta....cambiamo argomento. Perché mi hai chiamato?" "Lascia perdere...mi hai veramente rotto con il tuo atteggiamento, guarda che non ce li hai solo tu i problemi, brutto str**o!", disse, tra le lacrime, Silvia. "Uffaaaaa! Ascolta non ne ho proprio voglia, oggi...ne ho già i cogli**i pieni...ci vediamo stanotte." Chiuse il telefono. Aspettò venti secondi, ma non risquillò. "Ah, menomale...", commentò allontanandosi. Intanto il caffè si era ormai bruciato e la cucina si era sporcata e l'odore del gas stava riempiendo la stanza. "Ma vaffan***o!", gridò Alessandro.
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Qualcosa che facesse rumore...
Quando si risvegliò, Marianna sentì un fortissimo odore di caffè bruciato. Per chi non lo sapesse, e soprattutto per quelli tra voi, miei cari lettori, ai quali potrebbe interessare, Marianna è il nome della madre di Alessandro. Si alzò dal letto e aveva gli occhi gonfi e la bocca impastata. Guardò l'orologio e vide che erano le sette. Tirò su col naso, poi lo avvicinò alla spalla e inspirò...sapete, non mi va di dirvi che si annusò...mi sembrerebbe quasi di mancare di rispetto, e non saprei a chi...gli animali si annusano... Allontanò il viso dalla spalla con un'espressione disgustata. Si guardò intorno e riconobbe la stanza di Alessandro. "Ma che....", disse tra se, ancora confusa. Fece due passi verso la porta, ma fu costretta ad appoggiarsi un attimo all'armadio. Ripresasi, uscì dalla stanza ed entrando in cucina vi trovò Alessandro che puliva i fornelli. "Hai bruciato il caffè? Non ce n'è altro?..", la voce di Marianna era priva di qualsiasi intonazione o musicalità. La donna si sedette. Osservava il figlio. Alessandro nemmeno si voltò. Prima finì di pulire. "Fattelo...", le disse. "Potresti essere anche un po’gentile...", gli disse con gli occhi semichiusi e il mento tra le mani retto dai gomiti poggiati sul tavolo. Alessandro la guardò senza parlare. "Non mi guardare così...", disse lei con voce di chi chiede un enorme favore, abbassando il capo e coprendosi il viso con le mani. Alessandro fece per andarsene. "Sto male, Ale...sto male...", disse lei piangendo. Alessandro fu tentato di fermarsi e voltarsi. E si fermò e si voltò. "Te la sei cercata....", disse tra i denti. "Mhhmmm...", pianse, "perché mi tratti sempre male?...", si coricò sul tavolo con il viso tra le braccia. "Sei tu che ti tratti male.....", sentenziò Alessandro uscendo dalla stanza.
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Entrò nel bagno ma io non lo seguì che oltre la porta della cucina. Così fui costretta a voltarmi appena sentì quel rumore. E quel rumore lo sentì anche Alessandro, che uscì di tutta fretta dal bagno, ancora coi pantaloni slacciati. "Ma che ca**o fai?", le gridò contro dalla soglia. Lei piangeva, con l'anta del mobile aperto e il braccio lungo che afferrava la maniglia e l'altro braccio penzolava. Si voltò verso di lui. Sorrise, ma il suo era un sorriso disperato. "Sto male!", gridò e prese un altro piatto dal mobile e lo lanciò per terra e nuovamente si sentì quel rumore. Alessandro le andò contro cercando di fermarla. "La vuoi finire?", le diceva mentre cercava di afferrarle le mani, ma lei gli sfuggiva e cercava di prendere qualcos'altro da rompere, qualcosa che facesse rumore. "Lasciami...Lasciami...Rompo tutto...lasciami!!" Il rumore fu un po’meno forte. Il sangue invece di un bel colore rosso. Le mani di Alessandro abbandonarono la ricerca di quelle della madre. Se le portò sulla fronte. E si colorarono del suo sangue. "Oddio...." Alessandro barcollò stordito per la stanza. Si resse con una mano al tavolo perché si sentiva mancare le gambe. Io le vedevo, le sue gambe tremavano. Non so se per lo shock o per la rabbia che, impulsiva, gli ribolliva dentro. Con l'altra mano sulla fronte sgranava gli occhi e scuoteva la testa lamentandosi: "Ca**o! Ca**o! Ca**o!". Ripeté a lungo quella parola. Si rannicchiò sulle ginocchia, sempre di spalle alla madre, la sua espressione era incredula. Marianna invece era immobile, sicuramente si stava chiedendo come fosse potuta arrivare sino a tanto. Se lo chiedeva, ma non con sufficiente spirito critico perché, lo avesse fatto, si sarebbe odiata, e questo, almeno in quel momento, non era il suo scopo. "Ma che ca**o! Sei scema!?", le gridò contro voltandosi. "Guarda cosa mi hai fatto! Tu stai uscendo fuori di testa!" , le disse mostrandole il sangue sulle mani e la ferita sulla testa. Marianna si portò entrambe le mani alla bocca. Inspirava ed espirava con ritmo innaturale. Guardava il figlio con occhi pieni di lacrime ma non riusciva a pronunciare una parola. In compenso parlava Alessandro, perché lui si che ne aveva di cose da dire. 16
"Tu stai diventando pazza!", disse con le mani tra i capelli e muovendosi a cerchio, con passi nervosi di fronte alla donna. "Ma non te ne accorgi di quello che ti sta succedendo?", le diceva guardandola dritta negli occhi, mentre lei abbassava lo sguardo. "Guardami, mamma! Guardami, ca**o!", le gridava stringendola nelle spalle. Alessandro faceva un enorme sforzo. Io potevo vedere questo sforzo nelle vene che gli si gonfiavano nel collo, e nel colorito rosso fuoco del suo viso. Dentro di lui, sicuramente, rabbia e frustrazione; ma anche infinita tristezza. E paura. Si sforzava di non piangere. "Ca**o!", batté il pugno forte contro il mobile, vicino al viso della madre, che sussultò leggermente. Non so se per paura di essere colpita dal figlio, o semplicemente per un riflesso meccanico. Non chiuse gli occhi, come di solito vedo fare alla maggior parte di voi quando vi si avvicina bruscamente qualcosa al viso. "Domani viene quella lì, lo sai vero?" L'intonazione della voce di Alessandro tradiva una certa cattiveria. Non so se volesse provocare la madre, ma forse quello era l'unico argomento che potesse spronarla. Certo che, se fosse fallito anche quel tentativo, allora avrebbe anche potuto pensare che la battaglia, anzi no!, l'intera guerra, era ormai stata persa. Marianna sgranò gli occhi. Anche gli occhi di Alessandro ebbero un sussulto. Di certo nessuno dei due sarebbe mai potuto essere un buon giocatore di poker, gioco che, lasciatemelo dire, è una delle vostre migliori trovate...beh, si, in effetti, non per vantarmi, ma me la cavo piuttosto bene...vedo, parola, rilancio..tre carte....Come dite? Vi state chiedendo come sia possibile per una mosca giocare a carte? Beh,si, insomma...in effetti da sola ho delle difficoltà, quindi mi faccio aiutare da una mia amica pulce...come sarebbe a dire una pulce? Si..insomma..si mette una pulce nell'orecchio di un giocatore..poi io dico alla pulce quali carte tenere, quanto puntare, etc... Comunque, scusate, chiedo venia, perdonatemi, sono una gran confusionaria..cosa dicevo? Ah, si...Alessandro si accorse che quella frase aveva colto nel segno, allora decise di insistere, ma voi umani non avete mai il senso della misura, nemmeno quando siete mossi da buoni propositi. "Mi porteranno via....", deglutì. "Vinceranno loro...e tu rimarrai sola...", il suo sguardo era sincero. La prospettiva lo spaventava almeno quanto lo ripugnasse vedere la madre in quelle condizioni. Marianna lo guardò per qualche istante con occhi assenti. Poi come scuotendosi gridò alcune consonanti una dietro l'altra ed uscì correndo dalla stanza. 17
Marianna in passato fu una donna forte, legata ai suoi principi e disposta a tutto per farli valere. Ma col tempo era divenuta una di quelle persone che lo sconforto non solo non sprona a reagire ma, anzi, sprofonda in un baratro ancora più buio. Alessandro strinse forte i pugni, il tentativo era fallito. La battaglia, anzi la guerra era ormai perduta? Caricò il colpo e lo scaricò con tutta la sua rabbia contro l'anta ancora aperta del mobile, che si staccò dai cardini e cadde a terra. Quindi si diresse verso il bagno, mentre il pianto di sua madre si faceva sempre più forte.
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Vomitare per noia.
Quando Alessandro uscì di casa erano le nove di sera. Io lo seguii rapida quando lo vidi puntare la porta. Non mi aspettavo sarebbe uscito, dopo essersi medicato la ferita e aver raccolto e buttato e i cocci dei piatti rumorosi. Fu talmente rapido, dalla cucina alla porta, che quasi rischiai di rimanere chiusa dentro. Va beh....in un modo o nell'altro sarei comunque riuscita ad uscire....oh, niente di complicato!...avrete capito, ormai, che sono un essere un po’ speciale.... Quando Alessandro uscì di casa era già da un bel pezzo che sua madre aveva smesso di urlare. Io ero comunque già andata a sincerarmene: dormiva. "Ciao, Ale...", lo salutò Andrea appena lo vide. "Ciao, Andre’....", rispose. "Cosa ti sei fatto in testa?" "Niente, ho sbattuto!" "Quelle sono le corna!", disse, ridendo, Riccardo. "Senti, mi hai veramente rotto con questa storia! Cambia battuta! Perché la ripeti uguale tutti i giorni! E guarda che oggi non ne ho proprio voglia di sentire le tue ca***te!”, disse secco Alessandro. "Ehi, cerca di star calmo, str***tto! Chiedilo alla tua ragazza di cambiare battuta!" "Adesso mi hai veramente rotto i cogl**i!", gridò Alessandro saltandogli addosso, a stento placato dagli altri ragazzi del gruppo. "Stai diventando un po’ troppo nervoso per i miei gusti...", disse Riccardo ricomponendosi, mettendo in moto lo scooter e allontanandosi dalla piazzetta. "Prima o poi gli faccio veramente male. Tutti i giorni con questa storia. L'ho già avvertito un paio di volte. Che la finisca!", disse Alessandro ad Andrea. "Ma lascialo perdere! Non l'hai ancora capito che cerca solo una scusa per farti litigare con Silvia, con tutte le volte che c'ha provato con lei...", cercò di calmarlo Andrea. "Si...", borbottò Alessandro, "...ma evidentemente è un po’ duro...non le capisce bene le cose..forse con qualche calcio nel c**o prima o poi le impara..." "Guarda che quello è talmente st***zo che chiama il fratello per farsi difendere....", intervenne un altro ragazzo, chiamato Mattia, che appena mi notò che svolazzavo cercò, perdonatemi la franchezza, di eliminarmi senza alcun rimorso apparente.
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“Vieni qua, mosca di mer**”, quante offese alla vostra povera cantastorie, amici. Mi rifugiai tra le foglie di un albero, mentre lo osservavo continuare ad agitare le mani a casaccio, gridando improperi di ogni genere. "Può chiamare chi vuole....", sbuffò Alessandro, dopo aver sgranato gli occhi, rifiutandosi di commentare quella scena . "Forse è meglio che lo lasci perdere...guarda che il fratello è uno cattivo...ma cattivo sul serio...", continuò Mattia, mettendo fine a quell’assurda danza, "...E' uscito da poco di prigione...rapina a mano armata...." "Mmh...si, certo...rapina a mano armata!...", sorrise Andrea, "..Quello è più cog***ne del fratello..." "Attento che non ti senta..." "Ma lo sai perché l'hanno arrestato?..." "No..cioè, va beh...ho sentito...che si è schiantato con la macchina nell'inseguimento...", disse Mattia. "E chi te l'ha detto?", chiese Andrea. "Coso...come si chiama?...Quello che viene e prende sempre cinque canne fisso....Quello che aveva preso colpi da Muso d'asino...." "Ah...ho capito...Ma a questo...chi gliel'ha detto?" "Boh?! Mica sono rimasto a chiedergli tutto...ha iniziato a parlare...Perché? Non è vero?" "No che non è vero!", rise Andrea, voltandosi verso Alessandro, "...ascoltami a me....questi a quanto pare stavano progettando la rapina già da un bel po’..." "Aspetta, aspe'...e a te chi....da chi le hai sentite queste cose...", chiese Mattia, molto interessato. Alessandro osservava i due chiacchierare senza intervenire. Sembrava molto incuriosito. In effetti lo ero anch'io, così, eludendo le attenzioni di Mattia, svolazzavo tra loro. "Michela..." "Michela chi....la figlia del caramba...?" "Esatto...cosa ti credi? Guarda che l'ha arrestato il padre al fratello di Riccardo..." "Ma va'? Non ci credo...", disse sorpreso Mattia. "Minimo!", intervenne Nicola che si era avvicinato ai tre, "...di chi state parlando? Di Faustino? Il fratello di Riccardo?..." "Si....", dissero gli altri tre quasi in coro. "Troppo scemo! Lui più del fratello piccolo!", disse ridendo e scuotendo la testa, come in segno di disapprovazione, Nicola. 20
"Lo sapevi anche tu che l'ha arrestato il padre di Michela, vero?", chiese Andrea a Nicola. "Certo! C'ero anch'io quando lo stava raccontando!", rispose Nicola. "Oh,...allora come finisce la storia?", chiese Alessandro, intromettendosi e tirando Andrea per la spalla. "Ah, si, si...adesso te lo dico...", rispose Andrea, mettendosi seduto, mentre gli altri gli stavano tutti intorno a cerchio. "Quindi..", proseguì,"...questi stavano progettando la rapina...però questi sono gente grande che ne ha già fatto molte di rapine...uno era anche già latitante....e il piano sicuramente era già pronto, però gli serviva uno della zona...." "E hanno preso a quello scemo....", intervenne Nicola. "Esatto!", confermò Andrea, "...proprio quello scemo! Che tanto già non è poco famoso, Faustino!...che lo mettono sempre in mezzo...minimo gli hanno promesso due lire...e lui per farsi il figo con gli amici..." "E l'hanno cuccato, ah?!", disse Mattia. "Aspetta, aspetta...", gli disse Andrea. "No, no...questo lo racconto io...", si propose Nicola. "Dai, dai, continua tu. Voglio vedere se è la stessa storia che so io...", acconsentì Andrea. "Quindi....", iniziò a raccontare Nicola, "...la rapina, lo chiamano...ok...e così vanno, il giorno...tutti travestiti...anche coso, Faustino...hanno finto che erano della vigilanza..di quelli che ritirano i soldi...comunque prendono i soldi...tutto tranquillo...e una signora che era lì non riconosce a Faustino!?" "Cosa?!", chiesero Alessandro e Mattia all’unisono, distorcendo all’inverosimile le loro bocche. "Davvero! Ma te la immagini la sfiga! Una vicina di casa!", dice Andrea. "Oh, e gli fa...", continuava a raccontare Nicola, già in preda ad un attacco di - mi vien da ridere troppo, non ce la faccio a resistere- "...e gli fa...ma tu non sei il figlio di signora Giulia?...non lo sapevo che facevi questo lavoro...Quello allora si è impappinato, non sapeva cosa dire...E siccome è troppo scemo è rimasto lì a parlare con quella signora..facendosi il figo che aveva trovato quel lavoro...secondo lui così non creava sospetti, capito?...troppo scemo! Intanto sono arrivati quelli veri della vigilanza...chi sei, chi non sei... ha provato a scappare...", Nicola iniziò a ridere veramente tanto, tenendosi la pancia con le mani. Una risata così forte e coinvolgente che si misero a ridere anche gli altri. Andrea potevo anche capirlo, lui il resto della storia lo conosceva, ma Alessandro e Mattia no, eppure risero tanto anche loro. E dopo avere sentito il finale, ancora di più. 21
"...Si è messo a correre con il sacco dei soldi in mano e cercava di aprire la porta per uscire dalla banca...e invece di spingere doveva tirare....e per caso stava passando lì davanti una pattuglia...allora il padre di Michela è sceso e dice che c'era quel cogl***e cercando di aprire la porta che gridava apriti, apriti, porta di mer**!! Tutti ridendo! Anche quelli della vigilanza!" "Oh, e poi? ", chiese Alessandro, asciugandosi le lacrime sugli occhi, e tossendo a vuoto, dopo almeno un minuto che tutti ridevano senza riuscire a fermarsi. "E poi l'hanno arrestato...e lo sai perché è uscito così presto..." "No, perché?", chiese Mattia. "Perché se l'è cantata...ha fatto prendere agli altri che erano piuttosto balordi e l'hanno mollato a lui perché tanto è un'idiota...ma minimo lo ribeccano..." "Minimo si fa uno stereo di qualche macchina e gli fanno scontare tutto insieme....", intervenne Andrea. "Si, tanto vedrai che lo arrestano per caz***e...", concluse Nicola. "Ca**o, avrei voluto vederlo!", disse Alessandro. E iniziarono tutti e quattro ad inscenare Faustino bloccato di fronte alla porta. E risero di nuovo. "Quindi, stai tranquillo...", disse poi Andrea ad Alessandro. "Guarda che non ero per niente preoccupato...." "Ascolta, al massimo se Riccardo lo chiama per picchiarti, tu lo chiudi dentro una stanza..mai che riesce ad aprire la porta!", disse ridendo Nicola. E insieme a lui gli altri, di nuovo. Ah, beata gioventù, certo che ne hanno di preoccupazioni! "Oh, Nico....guarda chi sta arrivando...", disse, ad un tratto, richiamandone l'attenzione, Mattia. "Noooo...", disse Nicola con enfasi teatrale, voltandosi, "...Guardate chi sta arrivando...Vomitare per noia..." "Chi?!", chiese Alessandro. "Omar...", gli disse Mattia. "E perché vomitare per noia?", continuò a chiedere Alessandro. "Ah, è vero che tu ieri notte te ne sei andato via prima...", gli rispose Mattia, "..no, praticamente, dopo che te ne sei andato, io, Nico, Andre’....e poi chi c'era?", chiese Mattia a Nicola. "Aspe’...Flavio, mi sembra...Enrico...Biagio...poi boh?"
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"Comunque...siamo andati a farci un giro...per vedere se c'erano macchine interessanti, ma non c'era niente...allora Flavio, si Flavio....dice dai che torniamo in piazza ultrà....allora siamo tornati qui...." "Noo, guarda che Flavio se n'era già andato....Biagio l'ha detto...che stava anche sbrodando con lo scooter....", lo corresse Nicola. "E va beh...dai...", li invitò a proseguire Alessandro. "E va beh, comunque siamo tornati qui in piazza e c'era Omar da solo, seduto...così ci siamo fermati, chiacchierando...poi ne esce fuori con questa storia...oh, stavamo parlando di tutt'altro...di cosa stavamo parlando?" "Di calendari....", gli suggerì Nicola. "Ah, si...di calendari...Ma l'hai visto quello della Ferotta? Ma le hai viste le tette?" "Ca**o! Giganti!", mimò con le mani Nicola. "Chi se lo deve comprare?" chiese Alessandro partecipe. "Mi sa che Flavio se l'è già comprato...io l'ho visto al telegiornale...me lo scarico…troppo bona!", sospirò Nicola. “Si, ma tu devi vedere quel film che ho scaricato ieri, altro che quella!”, intervenne Mattia, mimando dei gesti talmente osceni che fui costretta a tapparmi gli occhi, e ce li avete presente i miei occhi? Mica è facile tapparseli con delle zampine così piccole! “Ma quelle son finte! Lei almeno ce le ha vere!”, puntualizzò quasi a difesa della modella Nicola. "Te lo immagini adesso si parcheggia un macchinone qui davanti e ne scende lei tutta nuda....", disse Andrea con voce sognante. "Si...e poi ti prende e ti dice vieni in macchina con me....", aggiunse Nicola. "Te lo immagini...", ripeté quasi a occhi chiusi, come la vedesse davvero lì davanti a loro, Andrea. Ma guarda un po’ questi sporcaccioni cosa mi fanno sentire! "Si...si...poi tua madre ti sveglia e c'hai un ca**o tanto!", disse Alessandro e tutti scoppiarono a ridere. "Minimo buco il lenzuolo!", aggiunse sogghignante Nicola. "Dai, accidenti alle tette! Me lo finisci di raccontare di Omar?", insistette Alessandro. "Ah, si...", riprese a raccontare Andrea, "...stavamo parlando di calendari e lui ne esce che era a casa sua che si stava annoiando e allora non sapeva cosa fare e si è messo due dita in bocca e ha vomitato...Oh, noi così!...immobili....Quello ormai è fuso...peggio di Mattia!" “Io sono coerente con lo sballo!”, sghignazzò con vanto Mattia, chiamato in causa. "Così abbiamo deciso che da oggi in poi si chiama Vomitare per noia.", concluse Nicola. 23
"E' troppo fuori! Non è possibile!", disse Alessandro guardando Omar, che si era fermato a parlare con un altro gruppetto di ragazzi che era lì in piazza "ultrà". Piazza "ultrà" era il nome della piazza nella quale Alessandro e il suo gruppo si riunivano nei momenti liberi. La chiamavano così perché non c'era un solo centimetro di cemento o muro o mattonella della pavimentazione che non fosse coperto di graffiti o scritte del tipo: ultras, ultrà, essere ultrà esserlo veramente, onore ai diffidati e altre simili. Anche se non tutti nel gruppo erano dei tifosi accaniti, anzi forse erano proprio pochi quelli che lo erano, ma ormai la piazza aveva quel nome, e anche se non apparteneva che a tre o quattro di loro, e forse nemmeno, era ormai uso comune, tra loro e tra i clienti, chiamarla così. I clienti erano quelli che, ogni tanto alcuni, altri con schematica frequenza, chi settimanale, chi a giorni alterni, chi quotidiana, venivano a rifornirsi da alcuni degli amici di Alessandro. E si rifornivano di diversi tipi di droghe, da quelle leggere a quelle pesanti. Anche se, a volte, quando mi è capitato di starmene appollaiata sulla testa di qualcuno di voi mentre guardavate la tivù, ho sentito dire da alcuni, citati come esperti, che questa distinzione non esiste e che le droghe fanno tutte male. Io sinceramente non so cosa sia una droga. Non ne ho mai provate, ne del mio ne del vostro mondo....Come? Vi sorprende sapere che anche tra noi insetti c'è chi fa uso di droghe? Oh, ci sono certi nettari di certe piante, e persino certe escrezioni prodotte da certi insetti dei quali, per esempio, diverse formiche vanno matte! Ma, va beh, in fondo si dice il peccato ma non il peccatore...comunque purtroppo, anche se non ne ho mai preso, ne conosco gli effetti....Ne ho visti tanti di individui spenti, con una siringa vicino, mentre io svolazzavo beatamente sui loro escrementi, con lo sguardo assente e chissà quali pensieri in mente...E chissà quali moventi...Ma questo è un discorso troppo serioso, e poi con la nostra storia non c'entra.... Comunque, alcuni degli amici di Alessandro arrotondavano la loro paghetta settimanale con questi affari. Altri suoi amici invece lo facevano in altro modo....Che poi, amici..scusatemi, mi troverete noiosa...ma io ho degli amici, certo non sono tantissimi, li potrei contare sulle zampe..ma sono insetti, e anche animali, non crediate!, dei quali sono sicura di potermi fidare, ai quali posso chiedere aiuto nei momenti di sconforto, e che possono chiedermi qualunque cosa, per i quali darei senza alcun dubbio la vita...io penso sia questo essere amici, non so, forse sbaglio, forse sopravvaluto...Ma, se anche il mio fosse un concetto ideale, beh...avrei difficoltà a trovare più di due o tre elementi che, per
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Alessandro, avrebbero potuto essere definiti tali, tra tutti quei ragazzi che frequentavano la piazza. Io guardandoli così, tutti insieme, e a volte erano proprio tanti, nelle notti in cui erano presenti tutti arrivavo a contarne almeno quaranta, e per la maggior parte erano ragazzi...io, a guardarli così, non so come, ma avevo l'impressione che stessero lì, nello stesso luogo, nello stesso istante, ma non stessero insieme, certo è complicato, avevo l'impressione che cercassero solo il modo di far passare il tempo il più in fretta possibile, sempre lì a guardare l'orologio, a sbuffare perché era ancora presto, a tirar tardi solo per poter dire “ieri sono rientrato alla tale ora e tu?” Comunque, tempo prima, Alessandro frequentava un altro gruppo. E tra quei ragazzi e ragazze, secondo me, erano molti di più quelli che avrebbe potuto chiamare amici. Poi uno dei suoi amici di prima iniziò a frequentare la piazza, allora Alessandro lo seguì, poi continuò a frequentarla anche da solo. Alle fine quel suo amico di prima smise di frequentarla perché si era fidanzato e non frequentava più nessuno, e Alessandro ormai aveva perso i legami col gruppo di prima e, forse per una semplice questione di abitudine, forse perché comunque avere un gruppo in cui stare alla sua età potrebbe anche dirsi che era fondamentale, decise di continuare a frequentare la piazza. E adesso erano questi i suoi amici. Non è che a me non piacessero, ci mancherebbe, però mi era impossibile non fare confronti tra i due gruppi, e soprattutto tra i due Alessandri (si, va beh, avrei dovuto mantenere il singolare). "Guardate cosa ho portato!", disse Alessandro mostrando agli altri la bottiglia. Io la riconobbi subito: era la stessa bottiglia che aveva trovato in camera della madre, e che aveva conservato in fresco. Chissà che non avesse premeditato tutto! "Figo! Whisky! Dai qui!", gli disse Nicola cercando di prendergli la bottiglia. "Molla l'osso!", disse Alessandro tirandola a se. "Il primo sorso, se permetti è mio!" e diede una lunga, che agli altri, agognanti, sembrò interminabile, sorsata. "Ahhhhh!", esclamò gioioso, strisciandosi il polso contro la bocca, o la bocca sul polso, fate un po’ voi. Quindi la bottiglia iniziò a passare da una mano all'altra, e da ogni mano ad ogni rispettiva bocca. Fu poco dopo che Silvia parlò: "Bravo, bravo! Continua così!"
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Non fu necessario utilizzare le mie armi deduttive per capire che la frase era indirizzata ad Alessandro. Ah, se alcuni di voi ancora non lo sapessero, Silvia era la ragazza di Alessandro. "Ciao, ammmore...", la salutò Alessandro, mandandole un bacio con la mano, cioè baciando la sua e poi muovendola verso di lei e facendo schioccare le labbra...ah, l'avevate capito? Va beh....Comunque Silvia notò subito che Alessandro aveva leggermente perso un po’ di equilibrio...come si dice da voi, aveva alzato il gomito.... Dopo averla salutata rise, e con lui tutti gli altri le cui mani avevano tenuto la bottiglia e le cui bocche bevuto. "Adesso sono ca**i tuoi, ubriacone...", lo sfotté ridendo Nicola. "Alzati! Ti devo parlare, brutto str**o!", lo tirò per la maglietta Silvia. I due si allontanarono dal gruppetto e Silvia cercava un angolino della piazza dove potessero star soli. Si fermarono di fronte ad una panchina ad una certa distanza dal resto dei ragazzi, al buio, perché piazza ultrà non era più illuminata dai lampioni, non lo era più perché Alessandro e i suoi amici, per divertimento, li avevano rotti quasi tutti lanciando pietre contro le lampade. "E' possibile che tu ti debba ridurre ogni giorno così? Guarda che sono veramente stanca di vederti in queste condizioni!", gli gridava contro Silvia, senza porsi il problema che la sentissero, l'importante era che non la vedessero e che, soprattutto, lei non vedesse loro. "Ma lasciami in pace!", sbuffò Alessandro sedendosi sulla panchina. Anche Silvia si sedette, dandogli le spalle e piangendo. Alessandro la guardò appena, scosse la testa e sospirò. "Cos'hai da piangere?", le chiese. "Non è vero che mi vuoi bene....quando siamo da soli fai tanto il dolce...quando sei con i tuoi amici diventi uno str***o!" "Di nuovo con questa storia? Anche tu come quel cogl***e di Riccardo? Cambia repertorio!" "Cosa centra Riccardo!", gli disse voltandosi, con ancora qualche lacrima sugli occhi, ma non più piangendo come prima. "Uffa! Ma cosa è che vuoi da me?" Alessandro continuava a non guardarla in faccia. Silvia stette zitta per un po’. Seduta con le gambe lunghe distese a guardarsi la punta delle scarpe, anche se in tutto quel buio, non sono sicura che riuscisse a vederle. "Non posso andare avanti così..." 26
Silvia pronunciò questa frase a bassa voce, come avesse avuto qualcosa di leggero in mano e l'avesse fatta cadere fingendosi distratta. Alessandro infatti non la sentì nemmeno. Silvia si voltò a guardarlo. Alessandro sembrava perso in pensieri lontani. Dopo un'altra lunga pausa lei parlò di nuovo. "Cosa ti sei fatto alla testa?", chiese lei avvicinandosi e accarezzandogli la ferita. Alessandro si lasciò accarezzare, anzi sembrava compiaciuto, tanto che la abbracciò, ma sempre in silenzio. Che dolci! Ah, due piccoli teneri cuoricini che si scambiano effusioni. Iniziarono a baciarsi. Io mi domandavo se a Silvia non desse fastidio il sapore di alcool che Alessandro aveva in bocca, ma dal modo come lo baciava dedussi di no. "Mia madre...", le disse lui, tenendola abbracciata. "Non è così che risolverai il problema.....", sospirò Silvia. Alessandro non fece commenti. Delicatamente si liberò del suo abbraccio. Stettero ancora un po’ così in silenzio. Poi lo stomaco di Alessandro brontolò. Lui sorrise e si alzò in piedi. "Ho fame...", disse. "Scusa....", parlò sottovoce Silvia. "Di cosa?", gli chiese Alessandro voltandosi. "Di aver insistito al telefono, stasera...non voglio farmi i fatti tuoi...ma ti voglio bene...", rispose lei rannicchiata su se stessa a guardarsi ancora la punta delle scarpe. "Ce l'hai con me, vero?", aggiunse quasi rimettendosi a piangere. Alessandro fece un bel respiro, a pieni polmoni, allargando le braccia quasi fosse un'aquila che dispiega le sue ali, poi sbadigliò senza ritegno alcuno, quasi fosse il ruggito cavernoso di un leone affamato e stanco, quindi grattandosi il didietro e sorridendo emise un disgustoso rumore con la bocca, contemporaneamente Silvia sgranò gli occhi. Quindi si allontanò dalla panchina puntando verso Andrea e gli altri. "Non hai risposto....", disse, adesso, si, piangendo, e con voce decisamente più alta, Silvia. Alessandro si fermò, un solo istante, sufficiente a risponderle. "No...", le disse, senza nemmeno voltarsi. "Ce l'ho con questa vita di me**a!", aggiunse, ma sottovoce, tanto che solo io potei sentire. Raggiunse barcollando allegramente gli altri del gruppetto. "Ce n'è ancora?", chiese cercando tra le loro mani la bottiglia. 27
Silvia restò in silenzio seduta nel buio della panchina.
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“P” come permesso!
“Aia! Stai un pochino attento! Dai qua!”, gli disse Marianna ruotando collo e viso verso di lui. “Ma stai un po’ ferma con queste mani?”, gli rispose lui colpendogliele delicatamente sul dorso mentre lei cercava di prendergli la spazzola. “Uffa! Non lo sai fare…non sei mai stato capace..”, sbuffò Marianna incrociando le braccia e fissando lo specchio. Alessandro intanto le pettinava i capelli cercando con attenzione di non tirarglieli troppo. “Ti fa male perché sei mesi che non vai dalla parrucchiera…guarda qui..”, sospirò sconsolato tenendo una ciocca di capelli sul palmo delle mani, “..sei piena di nodi. Ti dovresti curare un po’ di più! Non posso restare l’unico a dirti che sei bella…” “Si, si…un fiore…”, Marianna fece una smorfia con la bocca. Poi gli mostrò la lingua emettendo un verso cupo. Alessandro aveva iniziato sin da piccolo a pettinare la madre. Lo faceva già quando ancora suo padre era vivo. Era proprio lui che lo invitava a farlo, dicendogli “dai, fai vedere a papà quanto sei bravo a pettinare la mamma, se lo fai tu diventa ancora più bella”. I capelli di Marianna erano chiari e mossi, e lei ne conservava una ciocca, in una stanza che restava sempre chiusa a chiave. Una volta la chiamarono la stanza “dei bei ricordi”, per poi fingere quasi che non esistesse, ma di questo vi racconteremo in seguito, perché quella stanza è…beh…piuttosto speciale per Ale e Marianna..come dite? Avete già capito tutto!? Miei cari lettori, non sarete un po’ troppo presuntuosi? Si, certo, questa è una storia vera, ma mica così banale! Quindi mi dispiace per voi, ma quello che avete pensato non ha niente a che vedere con quella stanza. “Finito?”, chiese Marianna voltandosi e guardandolo con occhio torvo. “Si, si..finito! Che stress che sei!” “Mpfh…grazie…”, disse lei sottovoce guardandosi allo specchio storcendo il naso ed accarezzandosi i capelli. “Si, va beh! Ora vai a cambiarti, non farti trovare come al solito in pigiama. Sono le cinque di sera!”, sottolineò Alessandro. “Uff! Attenzione che non stia per arrivare la regina”, sminuì lei.
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La regina che non stava per arrivare era Rossella….Rossella chi? Come Rossella chi? Ma la volete piantare di dare un occhio al libro ed uno al televisore, che poi vi distraete? Rossella era l’Assistente Sociale che seguiva Ale e Marianna su incarico del Tribunale per i Minorenni. Per questo nella casa c’era un po’ d’agitazione. Era indispensabile per loro darle la migliore delle impressioni possibili. Così, appena rientrato da scuola, Alessandro aveva obbligato sua madre a farsi una bella doccia e le aveva scelto un bel vestito da indossare tra tutti quelli che aveva nell’armadio. La qual cosa non fu affatto semplice, considerando i gusti di Marianna in fatto di abbigliamento. Alessandro invece aveva mantenuto gli stessi abiti che indossava a scuola, aveva pensato solamente di aggiungere un berretto, espediente necessario per occultare agli occhi di Rossella la ferita alla testa. Ma sapete com’è, a Rossella, vuoi perché donna, vuoi perché perspicace per indole ed atteggiamento professionale, non sarebbe sfuggito il “piccolo” dettaglio. In effetti anch’io lo notai. Imputai alla fretta, da sempre cattiva consigliera, ed al leggero trambusto del momento, la svista; ma certo che era veramente macroscopica. Suonarono alla porta. “Eccola!”, trattenne il fiato Alessandro. “Vado io, tu siediti sul divano”, disse alla madre. Ma lei non seguì il suo invito. “Ciao, come va?”, la salutò Alessandro, come sempre facendo l’inchino. Aveva ormai preso una certa confidenza con lei. Quando era più piccolo si scambiavano anche un bacio sulla guancia. Ma era già da un bel po’ che non accennava nemmeno più il gesto. “Mhmm…”, sbuffò Rossella abbozzando un sorriso ed entrando in casa accompagnata dal cenno ossequioso di Alessandro. Poi, senza nemmeno voltarsi a guardarlo disse: “Avresti almeno potuto girarlo…comunque, ciao anche a te” “Girare cosa?”, chiese sorpreso. “Ciao, Maria, come stai?”, con Marianna invece il bacio se lo scambiò. Poi si lasciò andare sul divano, affannata quasi avesse scalato una montagna. “Mi fanno un male i piedi…”, disse Rossella guardando Marianna con una leggera smorfia di dolore. Mentre diceva questo si accarezzava le caviglie. Alessandro trasalì. Ritengo avesse per un attimo maturato il sospetto che potesse anche togliersi le scarpe e massaggiarsi i piedi lì davanti a loro. Infatti, non appena Rossella distolse l’attenzione dalle proprie caviglie mettendo mano alla cartellina azzurra, sospirò quasi rasserenato.
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“Bel vestito…”, accennò Rossella sollevando un attimo gli occhi dai fogli che aveva posato sopra le ginocchia, “…anche il taglio è carino. Sei stata dalla parrucchiera? Brava…”. Marianna lanciò una complice occhiata ad Alessandro che però fece finta di non incrociare il suo sguardo. “Dai, sedetevi che mi viene il torcicollo a guardarvi da qui!”, li invitò Rossella battendo col palmo della mano sul divano alla propria destra. “Su, Ale! Vieni qui vicino a me.” “Umhm…”, sbuffò sottovoce Alessandro, avvicinandosi mestamente al divano e sedendosi non troppo vicino, però. “Che hai fatto in testa?”, gli chiese improvvisa; Marianna che si era appena seduta su una sedia davanti al divano sgranò gli occhi, mentre Alessandro istintivamente si portò entrambe le mani sul cappello, accorgendosi di averlo indossato al contrario. “Se volevi coprire quel bozzo magari dovevi indossarlo con la visiera davanti….” Alessandro si levò il cappello: “Sono caduto giocando a pallone….”, bofonchiò abbassando lo sguardo. “Si, si…va beh…pallone d’oro. Faccio finta di niente.”, disse Rossella volgendo da lui lo sguardo e dedicandolo a Marianna. “Ti trovo in forma. Come stai?” Marianna stette in silenzio per qualche secondo, sembrava li stesse contando mentre scorrevano. “Lo so cosa intendi quando dici come stai…”, le disse. “Ah, si? E cosa intendo?”, rispose Rossella con una nuova domanda, sorridendo e sprofondando nel divano. Ale la guardò come si potrebbe guardare un iceberg che si scoglie. Come dite? Che tipo di sguardo sarebbe?! In effetti non lo so. Non l’ho mai vista una scena del genere! Mi sembrava un immagine divertente. “Intendi hai bevuto….”, ringhiò Marianna. “Anna….”, sospirò Rossella. Anna, direte voi? E chi sarebbe? Il fatto è che Rossella era solita chiamarla Anna o Maria, ma mai Marianna, ma non chiedetemi il perché. “Quanti anni è che ci conosciamo?”, le chiese, poggiandole una mano sul ginocchio. “Parecchi…”, sorrise poco convinta. “Lo sai perché ti stresso con questa storia, vero? Lo sai perché mi permetto di essere poco professionale rapportandomi a te e a tuo figlio!”, nominò Alessandro indicandolo col dito ma senza voltarsi a guardarlo. 31
“Lo so, lo so…”, rispose quasi sommessa Marianna. “Maria, ormai sono anni che vi seguo. Non ho altri casi da così tanto tempo quanto il vostro. Se premo così tanto su un unico argomento è perché questo è il nodo di tutta la questione. Io devo avere l’assoluta certezza che non stai più bevendo. Lo sai, vero? Se ti facessero il test lo supereresti? No, non rispondere! Lasciamo stare.” Rosella scrisse qualcosa sul foglio, poi si voltò verso Alessandro. “A scuola?” “Niente…normale. Puoi anche andare dai prof, quest’anno sto facendo il bravo…”, mentre le parlava non la guardava negli occhi. “Stai ancora frequentando quella piazza, vero? Ne abbiamo già parlato” “Sono i miei amici, cosa devo fare? Mollarli perché me lo dici tu?” “Certo che con gli anni diventi sempre più strafottente, marmocchio…”, gli disse picchiettandogli la fronte col dito indice. Proprio sulla ferita. “Aia!”, si scostò di scatto. “Bella botta, vero?”, li squadrò entrambi. “Ragazzi, non fatemi pentire di avervi dato tutta questa fiducia. Mi sono esposta in prima persona per fare in modo che la situazione fosse temporaneamente sospesa. E sapete cosa c’è dall’altra parte, e chi…Io mi sto impegnando molto in questo progetto, mi pare però che voi due non lo stiate facendo. Ce l’ho qui nella cartella, lo vogliamo rivedere insieme?”, fece il cenno di estrarre un nuovo foglio. “No dai, uffa! Lo so a memoria! Ogni volta che vieni lo ritiri sempre fuori!”, protestò Alessandro. “E’ giusto per rinfrescarvi la memoria! Avete preso degli impegni, ma non li state mica rispettando. Tu…”, indicò Marianna, “…non so quand’è l’ultima volta che sei stata in associazione! Dubito fortemente che sia sobria anche adesso che ti sto parlando, e sarei proprio curiosa di vedere gli esami del sangue…E non ti faccio nemmeno dire quand’è l’ultima volta che hai lavorato. I risparmi dei tuoi genitori prima o poi finiranno, non credi? E questo aspirante delinquente…”, si rivolse ad Alessandro, “..continua a frequentare quello stesso ambiente amicale deviante, per usare le parole del giudice, dal quale ti volevano allontanare a tutti i costi. Insomma, devo continuare?” “No, lascia stare….”, disse Ale alzandosi ed avvicinandosi alla madre. Le poggiò le mani sulle spalle e la massaggiò lentamente. “Però non siamo mica bambini che ogni volta ci devi dire quello che dobbiamo fare!”, Alessandro tratteneva a fatica il tremolio delle proprie braccia. 32
“Se volete che tutto si risolva e che il caso sia archiviato, dovete collaborare con me. Io non vi chiedo altro che mantenere i vostri impegni, secondo il progetto che abbiamo studiato insieme. Ti ci vuole ancora un po’ a diventare grande, il tribunale ci sta addosso, non solo a te, che credi? Il giudice mi chiama ogni settimana…” “E che…che gli dirai?”, si preoccupò Marianna, poggiando la propria mano su quella del figlio. “Io ho ancora molta fiducia in voi. Farò finta di non aver visto quella ferita, ma da adesso in poi si fa come avevamo stabilito. Tu domani stesso ti presenti al C.A.T. E tu, invece…”, disse rivolgendo lo sguardo verso Alessandro, dopo aver infilato il foglio nella cartellina, averla chiusa e aver incastrato il tappo della penna sul bordo, “….lunedì ti presenti da Don Carlo, stanno portando avanti molte attività in Oratorio. E’ l’ambiente sano e protetto di cui hai bisogno, anche perché è l’unica realtà presente sul territorio.” Si alzò. Alessandro accennò una risposta. Lei lo fulminò con lo sguardo, movendo secca la mano da sinistra a destra: “Chiuso!”, sentenziò. Ad Ale non restò altro che sbuffare. Salutò ed uscì, lasciando ai due tanto a cui pensare, visto che per diversi minuti non si mossero né pronunciarono parola.
Il colloquio era terminato già da qualche ora. Alessandro dopo una bella doccia si era sistemato per uscire. Entrò nella camera della madre dopo aver bussato leggermente ed aver aspettato invano una risposta. La trovò sul letto, dormiva. “Almeno non sei sbronza…”, commentò a voce alta. “Almeno non sei st**nzo!”, rispose lei senza muoversi. “Ah, fai le finte? Tranquilla che non te ne rubo soldi!” “Stai uscendo?”, chiese lei, ancora senza muoversi, con la bocca schiacciata sul cuscino. “Si, ci vediamo domani, non mi aspettare sveglia…” “Guarda che Rossella ha detto che non ci devi andare in quella piazza!” “Si, ma mi pare che in questa casa non è che si faccia proprio come dice lei, vero?”, disse in maniera antipatica, dando un calcetto alla lattina di birra sotto il letto, rovesciandola. Marianna staccò la faccia dal cuscino e si voltò verso il rumore: “Brutto stro**o! La birra!” Alessandro la salutò con la mano mentre già le dava le spalle. Non appena ebbe superato la porta le disse: “Ah, guarda che ho preso un po’ di soldi! Ciao ciao!” 33
Marianna urlò qualcosa, ma Alessandro non la sentì, poiché si era già chiuso la porta di casa alle spalle. Io la sentii, ma preferisco non ripetere. Comunque seguii Alessandro, mentre Marianna nascondeva la faccia sotto il cuscino e piangeva, senza minimamente preoccuparsi della birra versata e di quel fastidioso odore che permeò la stanza e che la accompagnò nel sonno al quale poi si abbandonò.
Fu svegliata da qualcuno che suonò alla porta. “Ma non ce le hai le chiavi?”, gridò inabissandosi sotto le lenzuola, mentre il campanello continuava a squillare. “Ma non sarà mica ancora quella cicciona?”, disse tra se, sollevandosi e stropicciandosi gli occhi. “Uffa! Stavo dormendo così bene!”, protestò mentre andava verso la porta. “Arrivo! Arrivo!”. Quando aprì la porta si trovò di fronte due donne, la signora Francesca e la signora Lucia. “Oh, mamma, ancora voi?”, si lamentò Marianna, chiudendo la porta. La signora Francesca la bloccò con una mano: “Aspetta, lasciaci parlare!” “Guarda che sappiamo essere molto insistenti!”, aggiunse la signora Lucia. “Potete insistere quanto volete!”, disse secca Marianna, mentre spingeva la porta per chiuderla, osteggiata dalla resistenza della signora Francesca. “Ma non ti importa del futuro di questa città? Non ti importa niente del parco?”, le chiese quasi implorante la signora Lucia. “No! Mi sono ritirata!”, concluse Marianna, che con una spinta più forte costrinse le due signore a cedere e chiuse la porta. La signora Francesca e la signora Lucia facevano parte del comitato cittadino per la salvaguardia del Parco Naturale del Gran Paradiso, sul quale incombeva la minaccia del cemento. Da tempo tampinavano Marianna con la richiesta di mettersi a capo del gruppo. “Ma lasciatemi in pace!”, gridò dopo aver chiuso la porta. E corse a rifugiarsi sotto le coperte. Ma prima aprì un cassetto, e sotto alcuni indumenti, ben nascosta, trovò una bottiglia.
Ale raggiunse piazza ultrà e vi trovò le solite facce. “Ciao, raga..”
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“Ciao, bello…cosa hai portato,oggi?”, chiese Nicola, alzando leggermente gli occhi dalla cartina che stava arrotolando. “Cos’è? Fumo o erba?”, gli chiese a sua volta. “Ho capito…”, disse Nicola dopo aver dato una bella leccata alla cartina perfettamente arrotolata, “..Capolavoro, ragazzi!”, aggiunse mostrandola agli amici, che a quanto pare riuscirono a vederla nonostante il buio pesto, perché qualcuno gridò “applauso!” e tutti batterono le mani in segno di ammirazione. “Accendi…”, disse porgendola ad Ale, “…anche se non te la meriti perché ho capito che oggi non hai portato un ca**o!” “Sempre io no! Mica abbiamo un market come Mariano…non c’è oggi?” “No, è già un paio di giorni che non si vede, come minimo ha rimediato donna e se la sta spassando, e io di mano…” “Già, ah ah ah…”, rise da solo Nicola dopo un attimo di pausa. Alessandro accese. “Coff…coff..cacc**o! Ma che c’hai messo? Li hai mischiati?”, chiese tossendo Alessandro. “Già, fumo e maria insieme! Sono troppo MATTOOOO!”, gridò alzandosi di scatto e correndo verso un gruppetto di altri tre amici poco distanti e saltando addosso ad uno di quelli in modo scherzoso. “Tu sei fuori….”, gli disse Alessandro restituendogli la sigaretta (si, lo so, chiamatela pure canna!) dopo che gli si era riavvicinato e seduto accanto. “Che si fa stanotte?”, chiese Alessandro. “Boh? Con Andrea e Mattia stavamo pensando di fare un giro. Prende la macchina.” “Chi?” “Mattia, dice che il padre gliela lascia.” “Si fida?” “Certo, lo sai che il babbo è peggio del figlio!”, disse Nicola sorridendo. Un’auto sfrecciò davanti alla piazza. Musica altissima come alcune volte che sono stata in discoteca…come? Vi sorprende pure questo? Mah, miei cari! “Eccolo…andiamo, tanto adesso fa il giro e sgomma, vedrai.” E difatti Mattia fece proprio come aveva previsto Nicola. Dopo pochi secondi lo sentirono riavvicinarsi. “Frenammano!”, gli gridarono dalla piazza.
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Le ruote si inchiodarono e la macchina slittò derapando e driftando ( Tiè! Beccatevi questi termini tecnici!) per qualche metro, poi si fermò del tutto. “Incapace!”, commentò Nicola mentre si avvicinava all’auto insieme ad Alessandro. Aprì lo sportello ed entrarono. “Buonaaa!”, canticchiò Mattia stringendo la mano ad entrambi con parecchia enfasi. Seduto in macchina, oltre a Mattia c’era Andrea. “Ciao, Andre’...” “Ciao, raga…” “Ma che hai fatto?”, gli chiese Alessandro. Aveva un occhio pesto e pure il labbro inferiore gonfio. “Ah, ah!”, rise, “Ho rotto i cog***ni a una sul pullman. E si sono messi in mezzo due amici. Ma le hanno anche prese!”. “Sei un guappo!”, lo derise Alessandro, sedendosi. Tutti risero. Io mi chiesi cosa ci trovassero da ridere in uno che viola la dignità di una ragazza, prende le botte, e vuole pure passare per quello che ha vinto. A volte siete parecchio disprezzabili. “Andiamo a sgummare!”, gridò Mattia partendo di scatto e facendo sobbalzare i due seduti nel sedile posteriore. “Vai, Mattia. A fuoco!”, urlò Nicola, forte perché Mattia alzò al massimo il volume dell’autoradio. “Minimo scoppiano i bassi!”, rise Alessandro. L’auto si infilò nel traffico, zigzagando tra le altre vetture. Io li seguivo con grande difficoltà, osservandoli da fuori, volando al massimo delle mie forze. Decisi di non entrare nell’abitacolo. Troppo pericoloso un ambiente ermetico con quei quattro padroni della mia incolumità. “Ehi, Mattia, vai piano, guarda che c’hai la P!”, gli ricordò Alessandro. “E’ vero, la P!” , disse Mattia abbassando il finestrino e portandosi fuori con la testa, “ P come PERMESSO!”, gridò strombazzando col clacson, superando l’auto che aveva davanti e proseguendo nella sua gimkana.
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La carambola e la carezza
Marianna non era mai stata una grande donna di casa. Sua madre si che lo fu, invece. Questo era solita dire ad Alessandro quando lui le faceva notare che forse un tocco d’igiene in più al pavimento non avrebbe guastato, o che la camicia non era stirata nel migliore dei modi, o che le bollette bisognava ricordarsi di pagarle in tempo. Forte di questa giustificazione, ed anche perché non trovò mai una valida alternativa - e guardate, miei cari, che Alessandro ce la metteva proprio tutta, quasi un personal trainer, ad incitarla, a supportarla, a stimolarla, ma lei niente, e più il tempo passava più lei perdeva non solo interesse, ma anche il significato stesso del concetto di “cura della casa”, fino al punto che Ale si arrese, decidendo di sbrigarsela da solo - era dunque lui ad occuparsi praticamente di tutto, dalla spesa alle pulizie. Aveva imparato sin da piccolo a stirare ed a distinguere i diversi tipi di lavaggio a seconda del cotone o della lana o dei capi delicati. Ed era sempre lui a preoccuparsi di cucinare e di far quadrare i conti. Questo ve lo dico perché magari avrete pensato a lui come ad un birbante scapestrato. Vi prego non fermatevi alle apparenze, non siate troppo superficiali, siate indulgenti con lui. Ma soprattutto vi dico questo perché in quel momento io svolazzavo beata sopra la testa di Marianna, che tanto beata non era, non solo infastidita dalla mia presenza, perché cercava in tutti i modi di scacciarmi via con le mani, ma anche e soprattutto perché era intenta ad eliminare quella piega che proprio non voleva saperne di sparire. Doveva essersi svegliata di buon umore e carica di buoni propositi quel giorno perché, dopo non saprei dirvi nemmeno quanto tempo, aveva preso in mano un vecchio pantalone sgualcito ed aveva inforcato il ferro da stiro. Io le svolazzavo sempre più vicino, perché volevo leggergliela negli occhi quella determinazione che sembrava avere, quasi fosse una battaglia tra lei ed il pantalone. Ometto tutte le volgarità che fu capace di pronunciare in quei trenta minuti (si, cari amici miei, trenta minuti per tentare di stirare un jeans; vi avevo avvertiti che le faccende di casa non erano proprio il suo forte!), ma non ometterò di raccontarvi quanto successe quando mi avvicinai forse troppo al suo viso, con la sua fronte grondante sudore, e quello sguardo che quasi pareva invocare la collaborazione del pantalone e/o rimproverare il ferro impuntandogli chissà quale incapacità.
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“AHHHH! Maledetta mosca di mer*a!”, mi gridò contro Marianna, sfilandosi una ciabatta ed inseguendomi. Io mi muovevo in scioltezza, amici cari. Grazie ad anni ed anni di allenamento, da quando ancora le mie alette erano microscopiche. Ah, bei tempi quelli, alla “scuola di autodifesa”. Già allora, non solo in virtù della mia futura missione di cantastorie, ma anche e soprattutto per la mia incolumità fisica, fui messa in guardia sulla pericolosità di voi umani e sulla vostra facilità di distruzione. Colleghe di tali studi erano formiche, scarafaggi, api, farfalle, coccinelle e tanti altri. Categorie di vittime predestinate della vostra arroganza da rapporto sproporzionato. Sembriamo così piccoli, inesistenti, di fronte a voi. Stazza e disgusto la vostra motivazione. O la superbia dell’essere la specie prescelta da Dio, col mondo e l’universo “tutto” a vostra disposizione. Facile a dirsi dopo aver scritto un libro con le proprie mani. Leggete la nostra versione, magari! Voi pensate che se è meno visibile è più semplice da distruggere. Anzi, quando è a mala pena impercettibile, allora vi divertite ancora di più, per non lasciarne traccia. Insetti, sentimenti, valori, ideali. Tutto quanto potete non vedere, potete considerare anche che non occupi sufficiente spazio nelle vostre esistenze, tanto da poterlo eliminare. Ed era con questo atteggiamento, con questa voglia di scaricare su di me rabbia e frustrazione che Marianna mi inseguiva. Magari se mi avesse schiacciato avrebbe risolto i suoi problemi, avrebbe potuto tornare ad essere una donna felice e riprendere il possesso della propria vita. O avrebbe potuto compiacere il proprio orgoglio, ancora una volta, poiché era una persona capace di distruggere, poiché anche lei aveva potere. Poiché era in grado di distruggere, non solo se stessa. Ci provò in tutti i modi a schiacciarmi, quel giorno. Io mi divertivo a stuzzicarla; magari mi fingevo esausta poggiandomi un secondino sulla sedia, o adagiandomi sul vetro trasparente della finestra, o appiccicandomi alle sinuose dune di seta delle tende. La osservavo con i miei mille occhi, mentre lei dissimulava guardando altrove, convinta magari di distrarre pure me, invitandomi col suo sguardo a seguire i suoi occhi verso chissà quale orizzonte. Tratteneva il fiato, lasciava molle il braccio armato, a penzolare accanto al fianco, oppure si allontanava un pochino, magari passeggiando dietro la poltrona, chinandosi fino a scomparire, ed osservando con la testa un poco alzata, come un soldato protetto da una trincea. Dentro di me ridevo, la scena era oltremodo divertente, quasi un gioco complice. Però c’è da considerare anche che nel gioco c’è una forte componente di fortuna, o sfortuna se volete. E quante volte la commedia è addivenuta dramma? E di siffatto pianto rattristato il viso, che pur così contento fu, ha un 38
accadimento infausto? ….ehm, scusate! Mi sono lasciata prendere la mano! Comunque il fatto è che all’improvviso, dopo aver tentato con inutili scatti di sorprendermi mentre credeva ormai di avermi in pugno, Marianna fece una mossa che nemmeno io col mio oltremodo sviluppato sesto senso riuscii a prevedere: lanciò la ciabatta. Non che mi colse il panico, non pensiate. Colsi immediatamente la traiettoria sbilenca di quel tiro, così saltellai dalla parte opposta, in tutta tranquillità. Ma eccolo, l’infausto accadimento! La ciabatta sbatté contro il muro e rimbalzò, indovinate verso dove? Esatto, miei cari lettori, proprio verso la mia direzione. Mi carambolò contro roteando su se stessa. Io fui sbigottita e, cosa rara, questa volta il panico mi prese, anzi mi fece sua con ardente passione, quasi un amante partito in guerra e tornato a distanza di mesi. Ma che dico: anni! Terrorizzata non riuscii a muovermi; rividi tutta la mia vita come in un film, mi venne persino voglia di popcorn..ah, amici! Che vita elettrizzante che ho avuto! Val la pena rischiare di morire anche solo una volta nella vita pur di ricordarsi certi avvenimenti. E pensai pure che me l’ero meritato, perché mi era stato fin troppe volte ripetuto di non interagire con i protagonisti della storia. Che ci volete fare, sono piuttosto indisciplinata. E quindi ormai mi sentivo perduta, il ciabattone volava verso di me, ed io, che per volare sono nata, avevo ali di cemento e non potevo accennarne neppure un battito. Mi prese in pieno, investendomi con la suola, con una forza tale da farmi stramazzare a qualche metro di distanza sul pavimento. (Avrei voluto fare la battuta: mi prese con la suola, e infatti stramazzai al suolo! Ma non lo so mica se avreste riso…come dite? Non fa ridere? Mah, sarete simpatici voi, allora!). Se non avessi temprato il mio corpicino attraverso lunghe meditazioni sotto le cascate (…ehm, va beh! Era una fontana, ma che c’entra? Mai sentito parlare di proporzioni?), adesso non sarei di certo qui a deliziarvi con questo racconto! Marianna si chinò verso di me e vidi la sua enorme mano avvicinarsi minacciosa. Prima chiuse il pugno ed io chiusi gli occhi ormai rassegnata al mio triste destino, ma dopo alcuni secondi ancora non successe niente, quindi li riaprii, ed anche la sua mano era aperta, ed il suo sguardo era cambiato. Subito dopo essersi chinata per potermi schiacciare senza difficoltà alcuna, nei suoi occhi lessi il desiderio di distruggere insieme a me tutti i mali del mondo, o addirittura forse ci lessi dentro tutto il male per distruggere il mondo. Ma io Marianna la conoscevo e sapevo che quegli occhi mentivano, anche se, vi giuro, tanto determinata non l’avevo più vista da così tanto tempo che ebbi veramente paura che mi stritolasse con la mano. Mano che
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invece si posò delicatamente accanto a me, allungò il dito indice ed iniziò ad accarezzarmi teneramente, e mai carezza fu più dolce e triste allo stesso tempo. Poi iniziò a parlare. Si fosse trattato di una tragedia teatrale, avreste potuto chiamarlo anche soliloquio, perché quelle parole non mi parve proprio le rivolgesse a me, quanto a se stessa, o almeno ad una se stessa lontana nel tempo. “Lo sai che qualche anno fa se qualcuno doveva descrivermi diceva – Marianna non farebbe mai male a una mosca – si, così dicevano. E lo dicevano tutti. Perché io conoscevo tanta gente, tanta gente mi voleva bene. Avevo tanti amici.”. Marianna piangeva, mentre con una mano mi accarezzava. Io intanto mi ero messa ritta sulle zampe, ma non sfuggivo alle sue carezze perché, seppur tristi, erano dolcissime; con l’altra mano tentava di asciugarsi le lacrime massaggiandosi gli occhi. “Già, io non avrei mai fatto male ad una mosca, piccola mia. Me lo dici tu perché allora ho iniziato a farmi male da sola? Me lo dici tu perché ho fatto questa fine? Me lo sono meritata, piccola moschina? Me lo dici?”. Stette in silenzio per alcuni minuti. Non smise di accarezzarmi. Poi si sdraiò sul pavimento, accanto a me, e chiuse gli occhi. “Perdonami….”, sussurrò tra le lacrime. Ma non chiedetemi a chi chiese perdono, anche se ne so benissimo il perché. Dodici anni prima Marianna era una donna felice. “Sono felice!”. Era una frase che ripeteva spesso. La pronunciava guardando suo marito negli occhi e tenendo stretto Alessandro tra le braccia. Dodici anni prima Marianna aveva tutto. Un marito, un figlio, un avvenire sognato, un ideale per cui lottare, la speranza che il mondo sarebbe cambiato. Che lei lo avrebbe potuto cambiare. Marianna, dodici anni prima aveva un’anima. Anima che perse in un colpo solo. Anzi con un solo colpo. Da quel momento morì anche una parte di lei. Anzi, forse morì tutta. Perché a guardarla svuotarsi a quel modo e riempirsi di vuoto, di quel vuoto soffocante proprio solo di chi ha perso tutto, e cioè l’essenza stessa del vivere, pareva di osservare una bambola, estratta dalla propria confezione, scartata in un angolo tetro della stanza, ad esser vittima di polvere ed oblio. Aveva grinta, Marianna. Una forza che non immaginereste. Votata alla lotta per i propri principi, quando i valori profondi erano ragione di vita e non moda di un momento, non espressione di un istante storico, ma fondamento della storia stessa, e proprio in quanto principi, tesori preziosi da serbare nel cuore, perché appunto valori.
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Marianna dodici anni prima esisteva. Credo dunque sono. Sono perché agisco. Perché dodici anni dopo Marianna ormai non esisteva, non credeva, non agiva. Quella che mi dormiva accanto in quel momento era il fantasma del ricordo della Marianna che fu. Spiccai un piccolo salto, andandomi a posare sulla sua fronte. Le diedi un leggero bacio. In quel momento Alessandro entrò nella stanza. Io mi librai in volo rapida. Un altro scontro mortale non lo avrei potuto sopportare, quindi preferii evitare di farmi notare. Alessandro restò immobile per pochi secondi. Non disse nulla, nemmeno una breve imprecazione. Si guardò un attimo intorno, forse cercava qualche prova, ma non ne trovò. Si avvicinò alla madre. Le accarezzò la fronte: “Niente bevanda in giro, niente sangue in terra…non saresti stata più comoda nel letto?”, sorrise. “Sei proprio una pasticciona. Sarà per questo che ti amo così tanto.” Si spostò dalla stanza per qualche secondo, poi vi rientrò con in mano una coperta. La posò sul corpo della madre. Poi staccò la spina del ferro da stiro dalla presa. Guardò i jeans. “C’eri quasi, brava!”, commentò. Poi si allontanò, lasciandola tranquilla a riposare.
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Delitto e castigo
“Ciao, bellissima!”, la salutò uscendo. “Ciao, bruttissimo!”, le rispose Marianna. “Non fare troppo tardi, cretinello!”, aggiunse. “E tu non addormentarti davanti alla televisione.”, la ammonì dolcemente Alessandro chiudendo la porta. “L’unico uomo giusto della mia vita….”, sospirò Marianna, spegnendo il televisore e chiudendo gli occhi sdraiata sul divano.
“Cos’è questa storia delle sballolimpiadi?”, chiese Alessandro curioso, non appena arrivò in piazza, avendo captato un discorso per lui alquanto interessante tra gli altri che già erano lì seduti al buio. “Io volevo chiamarle ca**olimpiadi!”, protestò Nicola. “Ma stai zitto! E’ meglio sballolimpiadi!”, lo ammutolì Andrea. “A me fa ca**re!”, ribattè Nicola. “E a me fa cag**e tua madre!” “E a me tua sorella!” “E a me tua nonna!” “E a me…” “E a me voi due!”, li interruppe Alessandro, “Allora me lo spiegate?” “Te lo dico io!”, lo chiamò a se, tirandolo per un braccio, Biagio. “Le sballolimpiadi sono una gara” “Una gara? E chi la fa?” “Noi…”, sottolineò, indicando tutto il gruppetto con le mani, Biagio. “Noi?”, chiese conferma Alessandro, mostrando con l’espressione del volto tutta la sua incredulità, e battendosi una mano sul petto. “Si, ci sono diverse specialità. Le stavamo decidendo. Senti se ti vanno e poi proponi anche tu”, disse Andrea. “Allora…”, disse con voce soddisfatta e contando con le dita Nicola, “…c’è il lancio sulla bottiglia, il muro a segno, il tremila lepri, il bot a due, motoevoluzioni e il tre per uno.” “Ca**o! Certo che oggi non avevate proprio un ca**o da fare, ca**o!”, commentò Alessandro. 42
“Ora ti spiego meglio le specialità.”, gli disse strofinandosi le mani l’una con l’altra. “Allora…si inizia con le prove più semplici e poi si va ad aumentare la difficoltà. La prima prova sarà il lancio sulla bottiglia. Tipo che noi mettiamo una bottiglia sul muretto e dobbiamo spaccarla con una pietra. Stavamo decidendo se vince chi ne spacca di più in meno tempo o chi la spacca da più lontano, tipo che facciamo tre prove con distanze sempre maggiori, tipo il salto in alto a cercare il record. Hai capito?” “Si, figo…”, si entusiasmò Alessandro. “Poi c’è il muro a segno. Tieni presente che le prime due prove servono per fare punti per qualificarsi per le altre dopo. Quindi puoi anche essere eliminato. Comunque il muro a segno è che devi fare la scritta “ultrà regna” più volte che puoi in meno tempo. Stavamo pensando tre minuti, ma poi vediamo. Allora dopo queste due prove si vede chi è rimasto, poi si va con le prove serie! Il tremila lepri lo chiamiamo così perché bisogna correre molto. Pietra in mano, finestra e correre prima che ci beccano, altrimenti ci fanno il cu*o. Andiamo a fare le finestre della scuola elementare. Vince chi ne becca di più prima di essere costretti a scappare. L’ultimo è eliminato. Poi il bot a due. Il bot a due perché non sapevamo che nome dargli.” “E’ un nome del ca**o!”, sentenziò Andrea. “E allora trovaglielo uno tu se ci riesci!”, lo sfidò Nicola. “Trovagliene…”, disse Alessandro. “Cosa?” “Si dice trovagliene uno tu, non trovaglielo uno tu. Al massimo potevi dire – trovaglielo tu – e basta.” “Ma che ca**o ti sei mangiato il vocabolario a cena?”, gli chiese Nicola con una smorfia tra l’incredulo e lo spaventato. Spaventato non saprei da che cosa, o forse dalla sua ignoranza. Mah… “No, no…secondo me ti stai sc*p**do qualche professoressa e non ce lo vuoi dire!”, si illuminò Andrea. “Il professorino!”, lo apostrofò Biagio. “Ragazzi…”, Nicola si guardò un po’ intorno. “Impappinata!”, gridò. E tutti al suo comando si catapultarono su Alessandro colpendolo scherzosamente con schiaffi e pugni e anche calci, e forse qualcuno meno scherzosamente di altri. Alessandro però invece di lamentarsi sembrava ridere. E tutti mentre lo colpivano continuavano a gridargli “professorino”. 43
“Ok, basta…”, ristabilì la calma Nicola. “Maledetti…”, sorrise Alessandro. “Colpa tua che sei imparato!”, disse Biagio e tutti risero. “Oh, allora che ca**o stavamo dicendo prima che il professorino…ah, si..il nome…Allora trovagliene uno tu!”, riprese il discorso con Andrea; poi voltatosi velocemente verso Alessandro gli chiese: “Ho detto giusto, prof?”. “Così si che sei un bravo studente!”, gli rispose, dandosi un tono, Alessandro. “Comunque lascia stare, ci teniamo quello, non ne ho voglia di rincretinirmi!”, disse in segno di resa e quasi sconsolato Andrea. “Perché tanto non sei già abbastanza cogli**e!”, sottolineò Nicola. “Ascolta, ringrazia che non ho voglia di alzarmi altrimenti vengo lì ti do uno schiaffo e smetti di piangere a natale!”. Tutti risero. La trovai divertente anch’io, per quanto piuttosto infantile. “Allora…”, riprese Nicola, “…dov’ero? Ah, si! Il bot a due è perché dobbiamo cercare una coppietta e dare una pappina al tipo. Vince chi ne dà di più senza prenderle, perché al primo colpo preso la gara è finita. Qui ci vuole uno che conta e uno che fa il palo per la giusta, che non si sa mai. Poi le motoevoluzioni le facciamo con lo scooter di Fabio. Bisogna impennare per più tempo e fare il cerchio sgommando. Vince chi lo fa più tondo. Qui siamo tutti giudici. L’ultimo eliminato. Poi viene il meglio col tre per uno! Macchina da individuare, poi sfida a cronometro su spadinare, messa in moto e sgommate nel campo di Zio Tonio per un minuto, e qui vince chi le fa migliori, c’è la giuria. Facciamo anche le riprese e mettiamo tutto in rete e vediamo se non ne parlano al telegiornale anche di noi. Che te ne pare?” “E la rollata matta non la mettiamo?”, chiese Alessandro quasi con ardore. Questa storia delle sballolimpiadi l’aveva proprio conquistato. “Si certo, così vince lui che ci mette dieci secondi a farne una di canna.”, risposero quasi all’unisono indicando Nicola. “Che ca**o volete da me? Non ne ho colpa se sono un drago!”. “Dai che incendiamo qualche cassonetto!”, propose un altro ragazzo chiamato Francesco. “No, che poi la giusta viene subito qui, come ogni volta. Non l’hanno ancora capito che non ce ne frega niente e che sono quei quattro scemi delle case che incendiano in questa zona!”, dissentì Nicola. “Comunque, raga, mi piace l’idea. È una figata!”, assentì Alessandro.
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“Ok, c’è solo da stabilire in quanti partecipiamo e le regole. Dai Andre’ fa la conta di chi tutto vuole partecipare”, disse Nicola. Andrea si preoccupò di raccogliere le adesioni. Alla fine si iscrissero in dodici. Gli altri decisero di fare da spettatori, alcuni da giudici e altri si proclamarono commentatori e giornalisti armati di videocamera. I dodici partecipanti erano: Alessandro, Nicola, Andrea, Mattia, Francesco, Omar “Vomitare per noia”, Flavio, Enrico, Biagio, Roberto, Alessio e Riccardo. In giuria c’erano Fabio, Chicco ed Enzo. Alle riprese Michela (si, proprio lei! I più attenti la ricorderanno perché figlia di un carabiniere) ed alla telecronaca Sergio. Le sballolimpiadi ebbero inizio che erano circa le undici di notte, nella piazzetta ultrà. La bottiglia fu posizionata su un muretto che delimitava un’aiuola, i concorrenti si posizionarono a 10 metri di distanza. Si decise che avrebbe vinto chi fosse riuscito a fare più centri con tre tiri a disposizione. Gli ultimi due sarebbero stati eliminati, perché lo scopo era fare in modo che alla finale giungessero solo in tre. “Vediamo cosa sai fare, frocetto…”, gli disse Riccardo dandogli una leggera spallata. Alessandro lo guardò appena. Fu un istante, ma il suo sguardo mi fece rabbrividire. La prova non sembrò tra le più ostiche per quel gruppetto di aspiranti gangster di periferia, anche perché uno dei loro passatempi preferiti era proprio il prendere a sassate ogni cosa gli capitasse. Uno ad uno si succedettero sul punto di lancio, con risultati molto apprezzabili. Ah, se solo avessero speso la metà di quell’impegno in attività di altro spessore, ma lasciamo stare il mio rammarico, dall’entusiasmo dei loro sorrisi non potevo non capire che erano soddisfatti di quello che stavano facendo, anche se poi era proprio questo che accresceva in me il dispiacere, soprattutto mentre guardavo Alessandro gioire come un infante dopo aver spaccato tre bottiglie con tre tiri. La gara finì. Fabio, in qualità di presidente della giuria (lo aveva stabilito lui stesso in quanto proprietario del motorino messo a disposizione per la gara; nessuno ebbe da obiettare), prese la parola: “Allora, veramente un’ottima prestazione da parte di tutti. Complimenti. Ma purtroppo due sono eliminati. Non c’è bisogno di fare spareggi. Omar e Francesco hanno fatto un solo centro e quindi sono eliminati. Tutti gli altri passano il turno.” Seguirono applausi più o meno spontanei. Poi Sergio si avvicinò ad Omar insieme a Michela: “Omar, adesso che sei stato eliminato che farai?”, gli puntava una mano contro la bocca come se reggesse un microfono. 45
“Ora mi siedo e faccio il tifo.”, rispose lui. “Comunque se ti annoi puoi sempre andare a vomitare.”, gli disse lui ma rivolgendo lo sguardo verso il resto della comitiva. Tutti risero. “Vaff****lo!”, gridò lui, alzandosi ed andando via. La sua uscita di scena fu salutata dal resto del gruppo con un “buu” che lo accompagnò per diversi metri. “Bene bene! Riprendiamo la gara!”, disse Biagio richiamando l’attenzione di tutti. La seconda prova delle sballolimpiadi era il muro a segno. Si decise che in due minuti i partecipanti dovevano scrivere il maggior numero di volte possibile la frase “piazza ultrà regna” su di un muro. Per le dimensioni della scritta si decise che doveva essere abbastanza grande da poter essere vista dal marciapiede opposto al portone d’ingresso senza alcuno sforzo da parte di chi guardava. Naturalmente avrebbe deciso la giuria se le dimensioni erano adeguate. Ognuno dei partecipanti si munì di bomboletta spray. Fu Sergio a procurale, in quanto il padre era carrozziere. Per quanto riguarda il teatro della prova, optarono per la facciata della chiesa della parrocchia di San Giuseppe. Dovettero quindi trasferirsi in massa dalla piazza, alcuni in motorino altri con la macchina di Mattia. Michela e Sergio non persero nemmeno un istante di quella transumanza, con riprese e telecronaca al limite del professionale. Forse era la prima volta che li vedevo così coinvolti in qualcosa, e poi tutti insieme allo stesso modo. Era la prima volta che mi venne in mente di definirli gruppo. Arrivati di fronte alla chiesa, dopo aver fumato e bevuto come rito propiziatorio, i partecipanti scavalcarono il cancello penetrando nel piazzale e raggiungendo la facciata. Gli altri si posizionarono a distanza di sicurezza, qualcuno pensò bene di andare a sistemarsi in prossimità dell’incrocio che immetteva in quella strada, per eventualmente avvertire gli altri del passaggio di macchine sospette. Michela fece un grande abuso dello zoom per poter garantire delle riprese adeguate. I tre giudici si stanziarono al di là del cancello. Fabio diede il via e guardò il cronometro. Centoventi secondi, tanto durò la gara. Il tifo fu contenuto per evitare di attirare troppa attenzione sui partecipanti. “Stop!” gridarono infine i giudici. Così di gran lena tutti, riscavalcando il cancello, si allontanarono di qualche centinaio di metri fermandosi in un parcheggio poco distante. Fabio proclamò i risultati:
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“Dunque, gli eliminati di questa gara sono Roberto e Alessio con solo due scritte e pure piccole. Comunque un bell’applauso lo stesso.”. Tutti applaudirono confortando gli sconfitti. “Ora Chicco dice la classifica” “Grazie al mio collega…”, sghignazzò Chicco guardando verso la videocamera. “Allora, sono rimasti in gara in otto. La classifica è: primo Nicola con sette punti, tre bottiglie e quattro scritte!”, scrosciarono applausi per almeno trenta secondi, mentre Nicola alzava entrambe le mani al cielo stringendo i pugni e si beava dell’ovazione. Chicco attese che ci fosse un po’ di silenzio per riprendere a parlare. “ A sei punti ci sono Alessandro, Riccardo e Andrea. A cinque punti gli altri: Mattia, Flavio, Biagio e Enrico. Vi ricordo che alla finale arrivano solo i primi tre!” “Ed ora tutti alle scuole per la terza prova!”, gridò Fabio da consumato showman, quasi fosse il presentatore di qualche varietà di prima serata e stesse annunciando l’ospite d’onore. Tutti salutarono il suo proclamo con urla disumane. Io li anticipai volando verso la scuola elementare, ma diedi un ultimo sguardo alla facciata della chiesa deturpata da decine di scritte. Ma tre in particolare mi colpirono. “Piazza ulttrà regnia!”. Si, c’era scritto proprio così. E chissà perché, a leggerle, mi diedero il senso di tutto quello che molto presto sarebbe accaduto. Giunti di fronte alla scuola elementare si armarono di pietre ed attesero che la giuria desse il via. Adottarono la stessa tecnica di posizionamento della gara precedente, con controllo delle vie di fuga sicure e vedette in prossimità dei punti critici. Fabio diede il via e fu come una pioggia d’asteroidi di certi film di fantascienza che ho visto. Il silenzio della notte fu rotto dal frantumarsi dei vetri della scuola. Il bersagliamento proseguì fino a quando non si accese una luce. “Il guardiano!”, gridò Chicco. “Via, via!”, li incitò Fabio. E poi, rivolto a Chicco : “Le hai contate?”. “Certo!”, rispose lui mettendo in moto lo scooter e partendo veloce. Quando si trovarono ad una distanza reputata di assoluta sicurezza si fermarono. Fabio richiamò l’attenzione di tutti mentre Michela studiava le migliori inquadrature e Sergio in sottofondo commentava. Chicco, che anche se impegnato dalla grande fuga aveva comunque portato egregiamente a termine il suo compito di giurato, verificando i punteggi, relazionò il resto della comitiva sull’esito finale della prova. Biagio ed Enrico furono eliminati, essendo riusciti ad infrangere soltanto due finestre. Vincitore della gara, con ben cinque vetri rotti, fu Mattia. Alessandro se la cavò discretamente, con quattro centri. Anche se mi ferì il cuore vederlo gongolare per una simile impresa. 47
La nuova classifica, alla luce della terza gara era la seguente: Alessandro, Nicola, Andrea, Mattia e Riccardo avevano dieci punti; Flavio otto. La quarta prova, il bot a due, sarebbe servita per eliminare altri due concorrenti. “Allora…”, disse Fabio. “Per il bot a due io direi che si va all’entrata del Linus, che ci vanno tutti quei rinc*****niti dell’università con le loro figh*ttine appresso. Ce ne servono sei, solo lì li possiamo trovare. Anche perché non ci passa mai la giusta da quelle parti e i buttafuori si fanno i caz*i loro! Ma prima ci fumiamo un bel cannone! E stappatemi una birretta”. Tutti approvarono la sua proposta. E qualcuno si lasciò andare a scene di giubilo che trovai a dir poco inappropriate. Nel mentre che l’allegra compagnia dei debosciati di piazza ultrà raggiungeva la discoteca prescelta, Silvia metteva piede proprio nella piazza, sorprendendosi alquanto di trovarla deserta. Dopo essersi seduta per qualche minuto ed essersi stancata, non tanto di star seduta, quanto piuttosto di trovarsi lì tutta sola, si alzò e si diresse verso casa, ma fu costretta ad attendere qualche altro minuto prima di poterlo fare. Una macchina si fermò davanti alla piazza, illuminandola con alternarsi di luce rossa e blu. Era una macchina della polizia, che su sollecito del guardiano della scuola, si era diretta verso uno dei ritrovi di uno dei gruppetti indiziati come possibili colpevoli, ovvero i soliti sospetti per accadimenti di questo tipo. In due scesero dalla macchina e si avvicinarono a Silvia. “Tutta sola, signorina?”. Ormai tutti gli ospiti della piazza erano ben noti alle forze dell’ordine che, praticamente a giorni alterni facevano una capatina per questa o quella segnalazione, chiedendo ai nostri simpatici giovanotti di renderne conto. Il più delle volte erano proprio loro i responsabili di quelle che potremmo definire piccole marachelle; in altre occasioni erano del tutto estranei ma non per questo venivano esentati da controlli e perquisizioni più o meno accurate. “Si, tutta sola. Sono appena arrivata e me ne stavo andando”, rispose loro Silvia. “E non ce lo sai dire per caso dove sono andati tutti gli altri?” “No, se vuole si faccia un giro per vedere se hanno lasciato qualche messaggino per voi…”, disse sprezzante lei, allontanandosi. “Rientriamo a casa che è tardi, Silvia.”, ribatte, quasi con egual tono, il poliziotto. “Tranquillo, capo.”, disse lei mimando con la mano il gesto del saluto militare. “Andiamo, va….”, disse al collega. E risalirono in macchina. Silvia si allontanò borbottando: 48
“Chissà dove sono e che ca**o hanno fatto! Ale sei un grandissimo str**zo!”. Intanto il gruppo era arrivato davanti alla discoteca. Si divisero in sei piccoli gruppetti, con grande dispiacere di Sergio e Michela che dovettero rassegnarsi, per quella gara, ad una video cronaca molto parziale. Ognuno dei sei gruppetti era formato da uno dei sei partecipanti e da un numero, non uguale però, di testimoni aiutanti, nel caso nel corso della gara fosse scoppiata qualche probabile rissa. Probabilità che infatti puntualmente si avverò. Protagonista fu Flavio, che, sentendo su di se la scure della possibile eliminazione in quanto ultimo in classifica, decise di darci dentro con tutte le sue forze e, preso dalla foga, compì probabilmente una scelta errata, in quanto la vittima predestinata si tramutò per lui in carnefice. Le prese di santa ragione, amici cari! Se non fossero intervenuti i componenti di altri due gruppetti, probabilmente sarebbe finito al pronto soccorso. La gara terminò con una fuga collettiva degli atleti e degli altri al seguito. Fecero ritorno alla piazza, che trovarono deserta. Qualcuno coccolò il povero Flavio che aveva un occhio pesto ed un labbro gonfio, ma anche altri non erano riusciti a cavarsela senza ricevere almeno un bel pugno sul muso. Si decise, dopo un vivace dibattito, che vide protagonisti tutti i componenti del gruppo, anche il dolorante Flavio, di annullare la gara. In effetti, dei sei concorrenti, solo Flavio e Riccardo erano riusciti almeno ad iniziare la prova, gli altri erano stati invece interrotti subito dalla notizia della rissa. Riccardo voleva comunque che gli fossero riconosciuti come validi i tre schiaffoni che era stato capace di dare al malcapitato che aveva scelto, il quale, poveretto, umiliato ed offeso di fronte alla sua compagna, si era pure messo a piangere invocando pietà e chiedendo spiegazioni al suo aguzzino. “Che cosa ti ho fatto? Che cosa ti ho fatto? Ahia! Lasciami! Lasciami! Aiuto! Dovevi riprenderlo con la videocamera, altroché. La ragazza stava gridando come una scema. Volevo prendere a schiaffi anche a lei!”, commentò Riccardo, intervistato da Sergio. La gara fu ugualmente annullata, nonostante le sue rimostranze che, per poco, non furono causa di una nuova rissa, sedata a fatica dall’intervento di Fabio e Chicco, che erano due coi quali, sinceramente, era meglio evitare di litigare, con protagonisti proprio Riccardo ed Alessandro, che sfogò il suo desiderio di chiudere i conti per tutte le battutine e gli sfottò prendendo a calci lo sportello di un’auto parcheggiata vicino alla piazza, ammaccandola vistosamente. Flavio decise di ritirarsi, distolto a stento dagli amici dal suo vendicativo proposito di tornare alla discoteca per prendersi una rivincita che, riuscirono a convincerlo, non sarebbe stato in grado di ottenere. 49
Fu così deciso che le motoevoluzioni avrebbero stabilito i tre finalisti. La gara fu pensata ad imitazione di quelle dei tuffi alle olimpiadi vere e proprie. Ognuno dei partecipanti avrebbe dichiarato il coefficiente di difficoltà della propria esibizione, alla giuria sarebbe spettato il compito di valutare l’esecuzione. Gli ultimi due sarebbero stati eliminati. “Allora, sapete benissimo che se succede qualcosa, mi basta anche un graffietto, siete fatti! Vi conviene scappare, ma correndo veloce!”. Tutti e cinque gli aspiranti finalisti trattennero il fiato. Quelle di Fabio non erano semplici minacce. Sarebbe stato capace di prenderli a botte davvero anche solo se lo avessero leggermente graffiato il suo scooter. E nessuno osò proporre un’alternativa. Era ormai stabilito che avrebbero usato il suo. Sergio eccitatissimo stringeva il microfono, che Michela era andata a prendere a casa non viveva molto distante dalla piazza - immaginandosi forse commentatore della finale dei mondiali di calcio: “Ed eccoci giunti, gentili telespettatori, alla semifinale. La gara è difficilissima. Le motoevoluzioni richiedono tecnica, competenza e capacità!” “Tennica!”, gridò qualcuno nell’ombra, ma Sergio nemmeno lo udì. Lui ormai era il telecronista della finale dei mondiali: “Chi sarà il campione? Lo decideranno queste impennate e poi la finalissima. Solo in cinque, amici, sono giunti fino a qui. Gli altri sono stati tutti eliminati. Ci sono Riccardo, Alessandro, Nicola, Andrea, Mattia. Sono tutti a dieci punti. Due eliminati, tre in finale! Ma ecco che Nicola sale sullo scooter. Siamo pronti per dare il via. Attendiamo che la giuria dica che si può partire. Intanto dalla regia mi dicono che Nicola ha dichiarato che la sua prova è di difficoltà otto. Staremo a vedere che cosa ne penserà la giuria. Si tratta di due minuti di impennata, salto del muretto e la scritta otto sgommando. Ma ecco che la giuria sta per dare il via…”. “Per una gara così importante ci vuole un via d’eccezione!”, stupì tutti Fabio, sollevando il sellino dello scooter, mentre Nicola ci sera seduto sopra, rischiando di farlo cadere, e mostrando loro una pistola. Io raggelai. E forse anche qualcuno dei ragazzi. “Ma cosa sei matto?”, gli chiesero quasi tutti all’unisono. “Questa serve sempre…”, disse lui accarezzandola. “Ma è finta?”, gli chiese Nicola. Lui non rispose. Ma non so spiegarvi perché quel suo silenzio raccontò tantissime cose.
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“ E ora…Via!”, gridò Fabio, alzando il braccio e con esso la pistola che stringeva nel pugno che possedeva il dito che schiacciò il grilletto. Echeggiò come lo scoppio di una bomba in periodo di pace. BANG! Per quante avventure io abbia vissuto, vi giuro che non avevo mai sentito un colpo di pistola così tanto da vicino. “Via! Gentili telespettatori. La gara è iniziata! Ed ecco che Nicola smanetta al massimo, prende la rincorsa e via! La ruota davanti si solleva. Parte il conteggio. Due minuti di impennata. Gentili amici è un drago. Ecco che ora tenterà di curvare in fondo alla strada per ripassare davanti alla piazza. Chiedo alla regia di fare un primo piano. Perfetta esecuzione, gentili telespettatori. Fantastico. Numero uno, amici. Ed eccolo che atterra. Cronometro, giuria! Cosa? Fantastico! Due minuti e tredici secondi in impennata. Ma non c’è tempo. Intanto sentite il tifo assordante. Eccolo pronto per la rincorsa. È il momento del salto del muretto. Attenzione perché questo è difficile. Ehhhh…. Incredibile! Ce l’ha fatta! Grandioso. Ed ora eccolo sul terriccio per concludere la sua prova. Polverone, amici! Sta sgommando al massimo. Vai, Michela! Andiamo a riprendere il numero otto! Ed è capolavoro, signori. Ma chi caz** sei, Giotto?”. Nicola parcheggiò il motorino che fu subito sottoposto da Fabio ad una accurata verifica, ma il suo dito pollice sollevato gli regalò un sospiro di sollievo insieme alle congratulazioni di tutti gli altri che già lo osannavano come campione. La gara però continuò, in virtù della presenza degli altri quattro concorrenti, e gli osanna al futuro campione cambiarono più volte nome. Riccardo dichiarò un’esibizione da otto virgola cinque punti. Ed in effetti, oltre ad impennare per due minuti e venti secondi con la ruota davanti, restò in equilibrio con quella posteriore per undici secondi e disegnò per terra una spirale. Alessandro impennò solamente per un minuto e trenta secondi, ma passeggiò con lo scooter in equilibrio su un muretto largo a malapena quanto la ruota e per terra disegnò un….Ma che schifo! No, no! Mi rifiuto proprio di dirlo! Insomma, quello che distingue uomini e donne. Che ribrezzo. Tutti risero, anche Michela, ma che scostumata! La prova di Alessandro, valutata da lui stesso di grado otto di difficoltà fu salutata da tutti con applausi scroscianti. “La mia è di difficoltà dieci!”, annunciò Mattia. E il suo proclama lasciò tutti inebetiti. Per alcuni secondi ci fu il totale silenzio. “Ma eccolo, il temerario! Mattia il numero uno, il funambolico! Ha promesso un’esibizione da dieci, signori!”, la voce di Sergio pareva tremare dall’emozione.
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“Inforca la scooter e va! Chissà cosa vorrà farci vedere. Ha detto che è una sorpresa. Ma… Ma dove stai andando?”. Mattia si allontanò dalla piazza svoltando per una stradina secondaria. Per un attimo nessuno seppe dire o fare qualcosa. “C***o! Sta andando ad impennare nel traffico! Figlio di pu**na!”, gridò Fabio, incitando tutti gli altri all’inseguimento. E fu così, infatti. Tutti corsero verso la strada trafficata che non era poi tanto lontana dalla piazza e lo videro. Sergio parve impazzire dalla gioia, tanto che prese la telecamera dalle mani di Michela e si mise lui stesso a filmare e commentare: “E’ incredibile! È matto! Sta impennando in contromano! È lui! È il numero uno! E’ il campione! Campione!” Campione, campione, campione! Tutti continuarono ad apostrofare così Mattia anche dopo alcuni minuti che la sua esibizione era terminata ed il turno di Andrea era ormai giunto da tempo. “E adesso che ca**o faccio?”. Andrea optò per una prova da nove punti. L’unica che poteva permettergli di entrare nella terna. Intanto Riccardo si avvicinò da Alessandro. “Hai visto, frocetto?”, gli disse mostrandogli la mano col pugno chiuso ed un solo dito sollevato. “Fott**i!”, gli rispose lui, allontanandosi. “Anche con Silvia fai queste figure di mer*a, eh?”. Alessandro si voltò di scatto. Riccardo non lo poté evitare. Il pugno lo colpì dritto sul mento. Alessandro lo guardò cadere a terra. A me parve precipitare. Si sentì un rumore sordo. All’improvviso campione campione non lo cantava più nessuno. Iniziai ad udire solo imprecazioni di ogni genere e richieste di spiegazioni varie che però confluivano tutte in una frase che pressappoco suonava così: “Ma che ca**o hai fatto? Ma l’hai ucciso?”. Amici miei, cari lettori. Non per rovinarvi la suspense ma, poiché non è questo l’episodio che rappresenta il climax della storia, vi rassicuro subito sul fatto che non solo Riccardo non era morto, ma continuava a godere di ottima salute. Era solo svenuto. Che cazzottone, però, ragazzi! Lo so che non dovrei entusiasmarmene, anzi, dovrei redarguire il mio giovane protagonista per un’azione così bieca e meschina, non degna certo di persona degna di stima ma, lasciatelo dire a me che ne fui testimone, fu un gancio da professionista, con tanto di inarcamento sul fianco ed esplosione del colpo finale, con
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perfetta sincronia dei movimenti ed equilibrio tra torsione del busto e movimento sulle gambe. Comunque Riccardo fu soccorso con metodi tanto superficiali ed approssimativi quanto efficaci. “Acqua! Ci vuole acqua!”. “Sollevagli le gambe.” “Fatelo respirare!”. “Lo devi mettere di lato, come nel libro della patente!”. “Chiamiamo l’ambulanza!”. “Ma che ca**o ti chiami! Così arriva la giusta subito!”. “Tranquilli che respira ancora!”. Il trambusto durò ancora per qualche minuto. Andrea fu invitato ad eseguire la sua evoluzione, ma forse distratto da quanto accaduto non poté evitare un calo di concentrazione che gli fu fatale e cadde. Quando Riccardo si riebbe, sotto la supervisione dell’altro ferito Flavio, si trovò accanto, svenuto, lo sventurato Andrea. “E’ caduto con lo scooter. Fabio gli ha dato un cazzottone in testa. Altro che Alessandro a te! Svenuto subito!”, spiegò Flavio a Riccardo, non senza sorridere. “E gli altri dove sono?”, chiese Riccardo ancora stordito, massaggiandosi la testa. “Sono a fare l’ultima gara. Sono in via delle Aquile.”. “A che fare?”. “E’ l’unica dove ci sono sempre parcheggiate almeno tre Koala. È per quello che Fabio ha deciso che i finalisti dovevano essere tre.”. “Finalisti? E chi è andato in finale?”. “Beh, voi due eravate svenuti, quindi sono entrati in finale Nicola, Mattia e Alessandro. Alessandro ripescato perché tu stavi morendo!”. “Brutto bastardo!”, schiumò di rabbia Riccardo, alzandosi a fatica. “Questa volta lo ammazzo…”, disse dirigendosi verso lo scooter di Fabio che era stato lasciato parcheggiato nella piazza. Intanto nella via poco distante era in corso la finalissima. Sergio si mordeva la lingua per l’impossibilità di raccontare ai suoi immaginari telespettatori i fatti con l’enfasi e la partecipazione che un evento di simile portata avrebbe meritato, ma non sarebbe stato molto prudente schiamazzare oltremodo in quella situazione, che invece richiedeva discrezione e molto tatto, perché, se ancora non vi fosse ben chiaro, la terza prova consisteva nel rubare una macchina. 53
Il modello Koala fu scelto in quanto il suo sistema di chiusura sportelli e accensione motore era facilmente scassinabile, e là, nella Via delle Aquile, era ben noto che ve ne fossero parcheggiate proprio tre. Fabio con in mano il cronometro misurava i tempi dello “spacchettamento” o “spadinamento”, per usare i termini gergali del gruppo. L’operazione consisteva nell’uso di una chiave (detto appunto “spadino”) appositamente modificata, con certosino lavoro di limatura, e questo a Fabio glielo si deve pur concedere: era un vero esperto. La serratura dello sportello della Koala non opponeva che una limitata ostilità, giacché i più abili, tra i quali appunto era annoverato Fabio, potevano aprirla con limitate e semplici rotazioni del polso, purché fossero decise. Per quanto riguardava l’accensione, l’operazione era un tantino più complicata, ma sempre facilitata dall’esigua opposizione del modello d’auto prescelto a lasciarsi portar via da assoluti sconosciuti. Era necessario in questo caso riuscire a rompere il blocco dello sterzo e lavorare un po’ di più sul movimento del polso. Alcuni ancora si dilettavano col collegamento dei cavi, ma non era certo la modalità più adatta in quel frangente. Comunque i tre finalisti erano stati tutti ottimi allievi, regalando grandi soddisfazioni a Fabio in sede di tirocinio. Lo so, pare assurdo anche a me che ve lo dico, ma si parla anche di scuola di vita, e questo purtroppo era l’insegnamento che la vita aveva dato ai nostri teppistelli di buona famiglia. L’apertura e l’accensione avvennero per tutti e tre quasi in sincrono. Mattia era in leggero vantaggio, Alessandro chiudeva la classifica, ma staccato di pochi secondi da Nicola. Una volta messe in moto le macchine tutti si mossero nuovamente verso la piazza. Il “campo di zio Tonio”, prescelto come pista per le sgommate, si trovava proprio davanti alla piazza ultrà. Perdonate la mia ignoranza per il fatto che non sono riuscita a risalire al perché quel campo avesse quel nome, in quanto proprietà dell’amministrazione comunale, e probabilmente questo famoso zio Tonio non era mai esistito, altrimenti sarebbe stato proprietario di un campo incolto di qualche ettaro senza nemmeno saperlo, e qualcuno lo avvertisse allora! Quando le macchine entrarono nel campo, gli osservatori presero ad occupare la piazza. Sergio poté finalmente dare sfogo alla sua voglia di protagonismo fin troppo compressa nei precedenti minuti di doveroso silenzio, ma forse era talmente grande la sua emozione da trasformarsi in stupore catatonico, tanto che non riuscì più a formulare una frase di senso compiuto, abusando di intercalare di dubbia origine: “Ed
ecco
che…uuhhh!
Wow…gran…derapa…incredibile…sgummata!
Amici…amici…”, questo un sunto della sua telecronaca per la finale mondiale. 54
La gara fu molto concitata. Tutti i tre si esprimevano al meglio zigzagando e giocando con i freni a pedale ed a mano, facendo roteare le auto, rischiando più volte di scontrarsi, esercitando sullo sterzo forze eccessive, con gran sollevamento di polveri e produzione di fumi di scarico e baccano assordante. “Vince Mattia…”, si lasciò andare ad un commento Fabio. “Già, guarda tutto quello che non sta facendo, quasi quasi è migliore di te…”, lo sfotté Chicco, ma Fabio non rispose, ma non perché non volesse farlo. Non rispose perché accadde. E ci sarebbe stato pure da immaginarselo. Riccardo non se ne preoccupò e, attraversata, la strada entrò nel campo col braccio alzato, e il suo pugno chiuso stringeva qualcosa. La sirena creò agitazione e la fuga fu molto confusa. Mattia e Nicola furono lestissimi ad abbandonare il campo dirigendosi dalla parte opposta rispetto alla piazza. Gli spettatori non ebbero grossi problemi con rapide messe in moto di scooter vari e Chicco si preoccupò dell’auto di Mattia. Alessandro sterzò bruscamente per seguire l’esempio di Nicola e Mattia. Ma si udì nuovamente quel rumore. Fu così che la pistola sparò il suo secondo colpo. La ruota scoppiò facendo sobbalzare la macchina. Alessandro diede una forte capocciata al parabrezza che per buona sorte non subì danni, ma la distrazione fu tale che, perso il controllo, la macchina andò a schiantarsi contro un albero. Le due macchine della polizia si fermarono, mentre le sirene continuavano a lampeggiare ed a intonare il loro ammaliante canto. Dalla prima scesero due agenti. La seconda era entrata nel campo e aveva puntato verso l’albero. Caspita, cari lettori, pareva proprio di guardare un film. Fu proprio come ti aspetteresti che fosse: “Getta subito quell’arma! Non costringerci a sparare!”. Riccardo si riebbe come da un lungo torpore. Si guardò la mano tra lo stupito e lo spaventato. Gridò gettando a terra la pistola. Immediatamente i due agenti lo raggiunsero bloccandolo per le braccia. Lo sentii forte e chiaro il tintinnio delle manette, nonostante le sirene, nonostante le urla dalle case circostanti: “Era ora! Maledetti! Così la finiscono di fare casino a tutte le ore!”. Chissà se Riccardo lo sentì. E se lo avrebbe dimenticato. “Chiama un’ambulanza, presto!”. Ale stava riverso sullo sterzo. Un rivolo di sangue fuoriusciva dalla fronte tumefatta.
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Tommaso e Cristian
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Ferite che non puoi vedere
“Pronto?”, chiese Matteo, alzando la cornetta. “Matteo, sei tu?”, chiese una voce femminile. “Annalisa! Annalisa!”, urlò Matteo senza allontanare la cornetta dalla bocca, con conseguenti lamentele da parte dell’interlocutrice. “Matteo, quante volte ti ho chiesto di moderare il tono della voce? Non si urla in casa.”, lo ammonì dolcemente Annalisa, sopraggiunta immediatamente in seguito al suo richiamo. “Tieni, è signora Rossella…”, le disse porgendole la cornetta. “E nemmeno la saluti?”, gli chiese lei. “Ciao,ciao!”, gridò già ormai lontano Matteo. “Ah, se ti prendo!”, sorrise Annalisa, “Finisci di prepararti che è già ora di andare a scuola!” “Ciao, Rossella, scusa il trambusto.” “Non ti preoccupare, anzi sta pure migliorando, questa volta ha pure detto pronto, lo dirò alla mia collega, sarà contenta di questo piccolo progresso.” “Dimmi pure, come mai a quest’ora?”, chiese un po’ preoccupata Annalisa. “Volevo avvertirti che stamattina non ce la farò a passare da voi, c’è un’emergenza e me ne devo occupare subito.” “Niente di grave, spero…” “No, tranquilla. Solo uno str**zetto che me ne ha combinato una un po’ grossa!”, sbuffò leggermente Rossella. “Se ce la faccio passo dopo pranzo o anche nel tardo pomeriggio, così trovo anche Tommaso. Come sta?”, aggiunse. “Mah, il solito…E’ già in piedi dalle sei. Si è preparato di tutto punto, si è fatto la colazione. Quando mi sono svegliata l’ho trovato seduto in cucina a guardare fuori dalla finestra. Mi ha salutato sollevando la mano. Come al solito.” “Niente novità, dunque…” “No, nessuna. Ora Federica lo accompagna a scuola, è un po’ che non parliamo con le maestre. Se passi stasera magari ne possiamo approfittare per fare un po’ il punto della situazione.”, propose Annalisa.
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“Si, era anche questo il mio proposito. Ora ti lascio, devi smontare, giusto?”, chiese Rossella. “Si, domani invece faccio le ventiquattro ore.” “Non ti invidio.” “Grazie, grazie!”, sorrise Annalisa. “Ciao, a più tardi.” “Ciao, Rosy. Ciao.” Annalisa posò la cornetta e si voltò trovandosi di fronte Tommaso. “Ehi, diventi ogni giorno più silenzioso. Sembri quello dei cartoni animati. Com’è che si chiama?”, gli chiese Annalisa allungando dolcemente una mano verso il suo viso con l’intento di pizzicargli la guancia sinistra. Lui si ritrasse improvviso, ma fu strano. Ne ho visti tanti di voi umani compiere quel gesto, esprimendo il vostro disappunto per un’azione non gradita da parte di qualcun altro. Ed ogni volta, ma questo in realtà vale per ogni vostro gesto, lo accompagnate ad un’espressione del volto, così come a certe determinate parole o concetti accompagnate altrettanto diversi gesti ed espressioni. Se non ricordo male la chiamate comunicazione non verbale. È un po’ la voce della vostra coscienza, no? Una specie di spia per i vostri sentimenti nascosti, giusto? Anche se poi siete tanto capaci a zittirla, o maestri di dissimulazione, come tanti miei amici del mondo degli insetti (secondo la vostra catalogazione, sia inteso!) che si fingono morti, restando immobili per ingannare i propri predatori, e la fanno sempre franca. Tranne quando incontrano voi, che anzi vi viene ancor più facile schiacciarci se stiamo fermi. Ma poi vi sento gridare schifati dalla poltiglia sotto la vostra suola… Ma, tornando a Tommaso, quello che mi colpì fu che la sua espressione non cambiò. Nessun accenno di sguardo torvo, nessuna ruga di fastidio intorno alle labbra, nessun inarcamento delle sopracciglia. Niente di tutto questo. Così mi chiesi se Tommaso non ne fosse privo, perché altrimenti la sua coscienza doveva evidentemente esser muta. “Ninja…”, disse lui. E la sua voce suonò come il timbro di un impiegato su una pratica da archiviare. Monotona. Nel senso che era priva di qualsiasi intonazione. Quando invece la voce dei bambini dovrebbe essere come un canto. Perché Tommaso era un bambino. Tommaso all’epoca dei fatti che vi sto raccontando aveva undici anni. Annalisa chiuse il pugno, essendosi accorta del disagio provocatogli con quel gesto apparentemente semplice. Schiuse leggermente le labbra, forse intenzionata a dire qualcosa, ma si interruppe immediatamente. 58
Tommaso si voltò e si allontanò.
“Mamma, mamma!”, Giada gridava in maniera volutamente stridula. “Cosa c’è? Aspetta un attimo!”, le rispose la madre dalla stanza accanto. “Ahia, mamma! Mi fai male! Mer*a!”, protestava Luciana. La madre le diede uno schiaffo. “Ahia! Ma che cosa fai?”, si ribellò lei. “Ti ho detto mille volte che in casa mia questo linguaggio non lo voglio sentire!”, la guardava con occhi severi, come se fosse stata offesa mortalmente. “Mamma, mamma!”, continuava a gridare Giada. “Aspetta, Giada! Mamma adesso non può! Francesco vai a vedere cosa vuole tua sorella!”, la signora Eleonora cercò di sovrastare le grida della figlioletta per farsi sentire dal ragazzo. Ma il volume della televisione riusciva a coprire le urla di tutti. “Si, si…ciao, io vado a scuola. Pulce vai a vedere cosa vuole il mostriciattolo!”, Francesco chiuse la porta e si allontanò rapidamente dal terzo piano della palazzina numero tredici. La pulce di cui sopra entrò nella stanza. “Mamma, mamma!”, gridava senza sosta Giada. “Cosa c’è?”, le chiese la pulce. “Cosa vuoi, tu? Mamma, mamma!” “Insomma, cosa c’è?”, la signora Eleonora si affacciò sulla soglia guardando dentro la stanza, mentre continuava a tenere entrambe le mani nella chioma di Luciana. “Allora, cosa c’è? Non lo vedi che mamma sta aiutando tua sorella?”. “Bua!”, le disse Giada mostrandole un piedino. “Oh, povera la mia piccolina!”, la signora Eleonora penetrò nella stanza. Tirandosi dietro la chioma della figlia, con figlia annessa attaccata alla chioma e vivaci proteste dalla bocca sempre annessa alla testa sempre annessa alla chioma sempre strattonata dalle mani della madre. “Ahia, mamma! Cosa ti tiri?” “E aspetta un attimo! Smack! Ecco fatto adesso vedrai che ti passa subito!”, disse la signora Eleonora alla figlioletta dopo averle baciato il piedino dolorante. “Grazie, grazie!”, canticchiò tutta sorridente Giada. “Cristian, metti le calze a tua sorella? Tu sei pronto?”, disse la signora Eleonora rivolta alla pulce, ops!, volevo dire rivolta a Cristian. 59
“Si, io sono pronto, vieni qui, stai ferma con questi piedi!” “Mamma, mamma!”, gridava Giada. “Mamma, ahia!”, protestava Luciana. “Poi mi spieghi come hai fatto ad addormentarti con la gomma da masticare in bocca! Guarda che disastro. Sono tutti appiccicati…” “Mamma, mamma!”, Giada. “Vuoi star ferma con questi piedi?”, Cristian. “Bisogna tagliarli!”, la signora Eleonora. “No, mamma no!”, piangeva Luciana.
A scuola, in classe, Tommaso era seduto insieme ad un bambino di nome Enzo. Ma Tommaso credo che non lo sapesse. Perché non glielo aveva mai chiesto. Non mi pareva di ricordare di averlo mai visto parlare con lui. In classe, a scuola, Tommaso teneva lo sguardo fisso verso la maestra. Anche se a volte si sarebbe potuto anche dire che non è che guardasse verso, guardava contro. Il suo sguardo era penetrante come un morso nella carne. Pur essendo uno sguardo talmente spento da privare della luce quelli che incrociava; pur essendo di una fissità monolitica, come la banalità di certe poesie in rima; pur essendo privo di qualsiasi forza, possedeva comunque un’agghiacciante potenza. Uno sguardo capace di atterrire, perché vuoto. E dentro quel vuoto ci si inabissava. E tutti quelli che lo incontravano sembravano doversi sentire in dovere di riempirlo, di significarlo in qualche modo. Tutti nell’obbligo di riparare quei probabili errori, delitti che la vita aveva sicuramente commesso, perché un bambino no, un bambino non poteva avere quegli occhi, perché quegli occhi facevano domande alle quali nessuno avrebbe mai avuto il coraggio di rispondere. E vi dico questo perché fu quello che pensai la prima volta che mi posai sul suo naso. Perché lui mi guardò senza guardarmi. Perché mi sentii così grande su quel naso e così piccola come mai lo fui prima di allora. Uno sguardo come un morso nella carne, si! Affamato. Anzi, affamante. Perché ti lasciava dentro un insaziabile bisogno. La necessità di proclamare, urlandola, la propria innocenza: “Io per quegli occhi non sono responsabile!”. Tommaso scarabocchiava sul quaderno, nei rari momenti di pausa che si concedeva dalla contemplazione della maestra. E questo perché forse la trovava la cosa più interessante in quel contesto. Perché era solito farlo. Scegliere di destinare la propria attenzione unicamente a qualcosa o qualcuno. E nemmeno quando, dispettosa come solo io so essere, vorticavo (voce del verbo vorticare “girare come una ossessa svolazzando davanti 60
agli occhi di qualcuno con così tanto impeto da creare un vortice”. Presente anche nella forma riflessiva vorticarsi. Però è qualcosa che solo noi insetti sappiamo fare, in particolare solo noi mosche; non stupitevi quindi di non conoscerne il significato, anche se vi piace supporre di saperne tante di cose) sul suo viso riuscivo a distoglierlo dall’oggetto della sua prostrazione oculare. E nemmeno un esperto di balistica sarebbe, in verità, riuscito a capire quale fosse. Io, almeno, non ci sono mai riuscita. Questo bambino, amici cari, è sempre rimasto per me un mistero! (Oh, naturalmente, io questo arcano in gran parte l’ho risolto, ma quale pessima narratrice sarei se non vi coinvolgessi tanto da spingervi a continuare a leggere?). Comunque svolazzando sopra la sua testolina potevo osservare i suoi disegni. Anzi, il suo disegno. Si, perché Tommaso sembrava saper ritrarre solo ed unicamente un’immagine, sulle pagine di quell’unico quaderno ormai consunto che era solito portarsi sempre dietro. Ma di questo avremo modo di parlare in seguito.
Cristian starnutì. “Salute!”, gridarono in coro i suoi compagni di classe. Si ripulì dal po’ di muco giallastro che gli era uscito dalle narici strofinandosi il naso col polso e inzaccherando il grembiule blu scuro, non nuovo a questo tipo di supplizio. Oh, amici, sia ben chiaro, l’igiene in casa della signora Eleonora veniva prima di tutto. Cristian possedeva due grembiuli che turnava regolarmente non appena la madre notava in uno di essi anche solo la più piccola macchiolina. Anche se comunque di piccole macchioline quei grembiuli non ne avevamo mai viste. Credo che Cristian avesse un motto “o lo si fa in grande, o non lo si fa per niente!”. Perché, lasciatevelo dire da me, il nostro è stato, nella sua seppur breve vita, protagonista di episodi talmente incomparabili da essere improbabili. Ma questa nostra storia, l’avrete ormai capito, è tutto fuorché inverosimile. E chi ha dei dubbi si faccia pure avanti, e mi sfidi a singolar tenzone. A sette anni Cristian frequentava la seconda elementare. Era un bambino molto intelligente e tanto ben educato. Le maestre se lo coccolavano. E pure le maestre delle altri classi. Me lo sarei coccolato anch’io molto volentieri se, ogni volta che mi posavo tra i suoi capelli, non avesse cercato di spiaccicarmi con le sue manine. Comunque Cristian nutriva un amore folle per i cani. E questo che c’entra?, direte voi! La verità è che purtroppo a casa sua non sarebbe stato possibile tenerne uno perché la casa era fin troppo piccola. Figurarsi! In sei in un bivano di quarantacinque metri quadri. Ci mancava solo il cane. Ah, si. Mi sono scordata di dirvi che in casa di Cristian viveva anche sua nonna. La 61
signora Lella. Meglio nota come “ippodonna”, gentile appellativo affibbiatole dai compagni di scuola di Francesco già diversi anni prima, quando ancora la signora Lella era in grado di compiere movimenti, se non ampi, almeno sufficienti a permetterle di recarsi al di fuori della casa, e compiere attività quali l’accompagnare i nipotini a scuola ed essere bersaglio degli scherni oltraggiosi dei bambini, attentissimi a farle notare le proprie dimensioni fisiche, quasi se ne potesse dimenticare, quindi quasi convinti di farle un favore. Limitata oramai dalla sua obesità era solita passare le giornate a guardare la televisione. Soap opera e programmi di intrattenimento pseudo – culturale, e soprattutto dossier finto polizieschi erano il piatto forte della sua dieta dell’etere. Capirete dunque che sarebbe stato impossibile conciliare la compresenza dell’anziana matriarca e di un essere abbaiante e disturbante la doverosa quiete necessaria alla quotidiana contemplazione dei siparietti pomeridiani a base di sterili dibattiti su fidanzati poco presenti e madri snaturate che si rifacevano il seno per sentirsi ancora giovani a quarantacinque anni o su quanto non fosse più un valore ciò che definite “sesso solo dopo il matrimonio” ed altre improponibili diatribe nate su contrapposizioni vane e, perdonatemi, non è che la televisione possa essere citata tra le vostre maggiori conquiste, o almeno non l’uso che ne ho visto fare io. Oltretutto la signora Lella soffriva di un leggerissimo disturbo all’udito che la obbligava a tenere un volume talmente alto che altro che ultrasuoni! E di certo nessuno si sarebbe mai azzardato a proporre anche solo per ipotesi una scelta tra “un affidabile segugio potenziale migliore amico per tutti” ed una “nullafacente cicciona lardosa che non fa un ca**o e bisogna pure pulirle il c**o perché da sola non è capace nemmeno di alzarsi dal letto”. Le parole tra virgolette sono il sunto di un edulcorato commento fatto in presenza di un amico dal signor Livio, nonché padre di Cristian, nonché genero della signora Lella. Ma fu un giorno di festa, quando gli capitò di alzare leggermente il gomito. Cosa che, forse non dovrei dirlo, ma gli capitava non di rado. Comunque non era certo per amore verso la donna che nessuno si era mai azzardato non tanto a proporre quell’ipotesi, ma anche solo ad immaginare quei quarantacinque metri quadri liberi dalla sua corpulentissima presenza. Non si pensi male del signor Livio, per carità, ma la rendita della signora Lella era piuttosto cospicua, tra le tre diverse pensioni che percepiva e i tanti risparmi di una vita, e l’amore si sa è un valore, ma anche il valore, e si sa anche questo, sa farsi volere molto bene. Anche Cristian disegnava. Ma di soggetti per le sue opere ne aveva tanti. Anche se i cani, in qualità di sua passione assoluta, finivano prima o poi per farci sempre capolino nei suoi disegni. Qualunque fosse il soggetto iniziale, ecco che un “bau bau” spuntava sempre 62
fuori. Magari dietro un albero. Magari dentro un’auto in primo piano. Magari accanto ad un sole disegnato con gli occhi ed una bocca sorridente. Questo amore per i docili amici a quattro zampe tutti pelo e scodinzolii nacque in lui già dai primi anni di vita. Me la ricordo ancora come se fosse ieri, miei cari lettori, e ve la voglio proprio raccontare questa scena: “E chi sono io?” “E chi sono io?” “Mammmmmma! Mammmmma!” La signora Eleonora non mi fu mai così antipatica. Ripeteva quelle frasi come una nenia ipnotica. E poi quella “emme” così pronunciata. Il giochino andò avanti forse per una buona mezzora, quel giorno. Perché, quando accadde, erano già parecchi giorni che si ripeteva, giacché alla tivù sentì dire da esperti che quella era l’età giusta per la parola, e lei voleva solo che il suo piccolino la pronunciasse per prima. Si, prima fra tutte: “mamma”. Solo questo voleva sentirsi dire. Pareva quasi fosse vissuta fino a quel giorno solo per quello. Tralasciamo le prime parole pronunciate dai fratelli che lo precedettero, perché Cristian raggiunse il sublime. Perché Cristian alla fine, oberato da quella cantilena snervante, una parola la pronunciò. E disse: “bau….”. Si, disse proprio così. Io forse ne risi per una settimana. E l’espressione sul volto della signora Eleonora non la potrò mai dimenticare, anche se, lo devo ammettere, me ne dispiacqui assai. Dopotutto era pur sempre una madre ferita nell’orgoglio. Forse è anche per questo che in casa di Cristian non ci sono cani.
La ricreazione anche quel giorno arrivò, ed anche quel giorno tutti i bambini, supervisionati dalle loro maestre, si riversarono festanti nel cortile della scuola, quasi un parco giochi, con le altalene, gli scivoli, e poi tre altissimi abeti e fiori e una fontanella. Ah, che pace; amici. E come tutti i giorni i due bambini si incontrarono. “Ciao.”, lo salutò. Lui non rispose. Lo guardò soltanto, con quello sguardo che però ad un bambino doveva fare sicuramente tutto un altro effetto, perché per tutta risposta l’altro gli sorrise. La prima volta che si incontrarono gli guardò curioso il palmo della mano sinistra, che distrattamente teneva rivolto verso l’alto, poggiato sul ginocchio, sinistro anch’esso. Forse distrattamente non è l’avverbio giusto, anche perché lui non se ne vergognava. Forse sarebbe più giusto dire serenamente. “Hai le ferite di Gesù!”, gli disse toccandogli il palmo della mano. 63
Lui la ritrasse immediatamente e lo guardò quasi con stupore, ma senza parlare. “Si chiamano stimmane!”, gli disse ancora Cristian saccente. Lui allora abbassò gli occhi verso il naso, aggrottando le sopracciglia, e sollevò le labbra, come per esprimere il proprio dubbio. Tant’è che l’altro corse a chiedere conferma ad una maestra poco distante, per poi tornare da lui saltellante di soddisfazione. “Ho sbagliato! Si dice stimmate! Ce le aveva Gesù e pure i santi ce le avevano!”. Lui abbassò lo sguardo verso la sua mano e se ne accarezzò il palmo. “E ce le hai pure tu!”, gli disse quasi canticchiandoglielo, con un grosso sorriso. E questo fu il primo incontro tra Tommaso e Cristian nel cortile della scuola. Perché forse mi sono scordata di dirvi che Tommaso a undici anni va a scuola, e frequenta la quinta elementare. E c’è un bambino di sette anni, che canticchia saltellandogli intorno e lo chiama Gesù.
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Il capodanno arriva almeno con quattro mesi di anticipo!
Svolazzare dentro la casa di Cristian è sempre stato molto scomodo. L’appartamento è piccolo, ci sono poche vie di fuga, ci sono appena tre finestre, e poi i muri sono di cartongesso e le mie zampine hanno qualche difficoltà a farci presa. Non per essere schizzinose, sia ben chiaro! Non agogno unicamente stucco veneziano o carta da parati rosa pesco. Ma provateci voi a librarvi nell’aere quando nella stessa stanza dormono in tre, e poi siamo fastidiose noi mosche, dovreste sentire la signora Lella quando russa! Comunque un aspetto comodo c’era, e non di poco conto. In uno spazio piccolo si ha la possibilità di muoversi da un ambiente all’altro in rapidità. Per una testimone oculare come me questo era davvero il massimo della comodità e garanzia di un lavoro assolutamente ineccepibile. Comunque la casa di Cristian, seppur piccola, aveva un balcone. E, affacciati da quel balcone, si poteva osservare gran parte del quartiere. L’appartamento era al terzo piano di un palazzo di otto piani, in mezzo a palazzi tutti da otto piani ciascuno. Almeno un centinaio di palazzi. Palazzi grigi come d’inverno il cielo sopra la zona industriale in periferia. E grigie erano pure le strade e le piazzette, due, adibite a parcheggi, e i piccoli giardinetti, depredati dal verde di fiori o erbe spontanee, anch’essi adibiti a parcheggi. E non vi paia strano ma, a sorvolarla, quella zona, e a provare a fare una stima, probabilmente ognuno degli abitanti doveva possedere almeno due auto ed un motorino, mai vista una tale esposizione, nemmeno al salone dell’auto. Ah, mi sovvengono le tante passeggiate in spider, con la capote abbassata e il vento tra i capelli! Certo, certo, mica i miei, per carità, sono già abbastanza vanesia senza dovermi sentire schiava di brillantina, colorazioni innaturali e spazzole alliscianti per capelli ricci ed arriccianti per capelli lisci. Ma perché non vi piacete così come siete? Ma tralasciamo questi discorsi da visagista, perché a quel balcone Cristian ci si affacciava spesso. E guardava in giù. La strada del suo quartiere, o forse era il quartiere a poter dire che veniva guardato dal suo Cristian. Perché, dei tanti che vivevano in quel quartiere, in pochi avrebbero avuto la possibilità di diventare di “qualche altra parte”. Perché in quei palazzi ci viveva la gente di quei palazzi. “Gente dei palazzoni!”, come diceva sempre Mattia ad Alessandro quando voleva fargli capire a quale tipologia di persone si riferiva se per caso gli citava, avendolo appreso non solo dai media ma soprattutto dai commenti degli amici, l’episodio di qualche arresto ai danni di giovani, spesso loro coetanei, ma non solo (ad esempio il loro 65
amico Fabio). Nascere nel quartiere di Cristian pareva quasi come essere un bonsai. Imitazione di qualcosa di molto più grande e destinato a ben altri spazi, mentre tu sei destinato a comprimerti dentro un vaso, e ti sembra pure di stare comodo e largo. Un quartiere che possiede chi lo abita. Voi umani le chiamate case popolari. Prima di capire che, esattamente, ci si riferiva, con quell’appellativo, alla natura di appartamento di edilizia pubblica, mi divertiva il fatto di pensare che le chiamaste così perché, in effetti, popolari lo erano. Perché il quartiere di Cristian, o meglio il quartiere che possedeva Cristian, lo conoscevano tutti nella città. Ed il solo nome incuteva rispetto, per non dire timore. Ma non mi parve mai un timore reverenziale. Perché quel quartiere che possedeva chi lo abitava, non sembrava gradire facilmente che qualcuno “da fuori” andasse a fargli visita. Cristian osservava i ridotti capannelli di giovani, raggruppati qua e là. Sul ciglio della strada, seduti sul cofano delle auto, oppure comodamente dentro, o sulla sella dei loro motorini, quando non scorazzavano per la strada, sollevando la ruota anteriore e gridando parole senza senso. Altri si sbaciucchiavano senza ritegno alcuno per chi potesse guardarli, altri fumavano sigarette di tutti i tipi (si, anche quelle che fanno ridere!), altri ascoltavano musica ad un volume tale che dal basso di quelle strade, spesso riuscivano a coprire persino l’amabile vociare dei pomeriggi televisivi della signora Lella. La quieta convivenza, che nel corso dei secoli avete imparato a riconoscere come necessità fondamentale per la vostra stessa sopravvivenza, non pareva essere di casa in quel quartiere. Si poteva pure dire che quelle piccole bande di giovinastri lo avevano in pugno. Anche se poi è giusto chiarire. Fortissimo era il senso di campanilismo che ne accomunava gli abitanti, quasi un elemento di identificazione necessario. Adesso, amici miei, io sinceramente non saprei quale follia abbia prodotto simili aberrazioni edilizie, però dopo un’ incerta fase, chiamiamola pure di conoscenza, alla fine si creò il giusto amalgama. Quando il quartiere fu pensato, sicuramente l’intenzione era la più nobile tra tutte: risolvere il problema abitazione per centinaia di famiglie senza tetto. Oddio, io non so cosa si può provare, quale sia il timore, o la frustrazione, l’angoscia e l’umiliazione di trovarsi all’improvviso senza una casa; voi che mi ricordate tante viscide lumache, dimentichi di quando vivevate dentro le caverne, eppure un cane ad esempio non muore anche se vive all’aperto, o cosa dovremmo dire noi mosche? Comodità, sicurezza, privacy, forse tutto questo; forse amniotica nostalgia della pace che assoluta regnava in quel confortevole pancione; e quanti ne ho sentiti: “basta, non mi va di stare in casa, devo
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uscire!”. E allora andate! Siete una contraddizione continua voi umani, siete una sorpresa giornaliera. Per questo vi ammiro a dismisura. Avete sempre qualcosa da insegnarmi. Poco a poco quel quartiere si popolò. Arrivarono da tutte le parti della città. Da ogni altro quartiere, da case dalle quali erano stati sfrattati, oppure erano giovanissime coppie con figlio in attesa di altro figlio, oppure erano dipendenti dell’amministrazione non in grado di pagare un affitto regolare. Nel primo periodo fu il caos. Ed io ero presente, amici. Ricordo una volta di quando la signora Berenice stese i propri pantaloni al calar della sera e si coricò serena, per poi svegliarsi al mattino ed accorgersi che dal balcone erano spariti, per poi rivederli addosso ad uno di quelli che in seguito avrebbe definito, commentando con la dirimpettaia, “bullo del quartiere”; e dire che il suo balcone era al quinto piano. E molti non dormivano la notte per far la guardia alle proprie auto, o moto o motorini. Ma poi questa fase passò e, come un patto silenzioso, tra gli abitanti posseduti dal quartiere fu stipulato un accordo. Non che li si possa definire fratelli, non pensiate ad una comune, o a quelle prime forme di comunità protocristiane, no, niente di questo. Solo una forma di rispetto per i coinquilini. Così non ci furono più furti o danneggiamenti all’interno del quartiere; tutta la rabbia e la frustrazione del viverci veniva espressa all’esterno. Fu in questa fase di calma apparente che la famiglia di Cristian ci si trasferì. Oh, sarebbe interessante il racconto del loro peregrinare, ma ce lo conserviamo magari per le pagine a venire. Anche perché Cristian si affacciava spesso a quel balcone, così poteva ammirarli da lontano, giusto per averli a debita distanza, distanza di sicurezza, perché alcuni non è che fossero proprio raccomandabili. Di chi parlo? Ma dell’oggetto di venerazione del nostro, e di chi sennò? Erano tanti i cani che scorrazzavano liberi per le strade del quartiere, anche se poi parevano appartenere a tre sole razze. Voi umani li chiamate yorkshire, pitbull e “incroci”, oppure “bastardi”. Ora, io non voglio sindacare, come già fatto nelle prime pagine, sulla vostra necessità di dare un nome a tutto, ma cosa vuol dire “incrocio”? Se volessimo rifletterci bene è dato da due segmenti intersecatisi tra loro, che producono però quattro nuovi segmenti con un’origine comune. E allora perché? Come dite? No, per questa volta ci rinuncio, anche perché la cosa quasi comica era che a guardali in faccia, gli abitanti di quel quartiere, si poteva indovinare quale cane li accompagnasse. La vecchina col piccolo cagnolino da salotto, con la sua paletta e bustina per raccoglierne i bisognini, con guinzaglio chilometrico e completini in lana per l’inverno e cotone per l’estate. Ma potete immaginare quanto sia umiliante per un cane andarsene in giro
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addobbato a quel modo? Ma secondo voi per quale arcana ragione la natura li avrebbe forniti di una così folta peluria? Mentre invece i “cloni” si aggiravano per le strade coi loro fidi segugi, liberi di scorrazzare, senza collari o museruole, a giocare appendendosi a copertoni d’auto infilati sui pochi rami dei pochi alberi rimasti, almeno quando non addentavano quelli che ancora avvolgevano, come da loro competenza, i cerchioni delle auto parcheggiate. Perché cloni, direte voi? Perché a guardarli, anche con scrupolosa attenzione, non mi riusciva di distinguerli gli uni dagli altri. Stesso taglio di capelli, stesse marche di vestiti, stesse scarpe che col tacco pestavano il bordo dei pantaloni a strascico, stesso cappellino con la visiera al contrario, stessi occhiali da sole (da tenere, tra l’altro, sul naso, anche di notte, sia ben chiaro!), stesso modo di parlare (stessa inflessione, cadenza, stesso uso improbabile dei congiuntivi, stessa conoscenza di quattordici vocaboli, stessi quattro argomenti fissi di conversazione), stessa carriera scolastica, stesso percorso penale, stessa prospettiva futura…stessa prospettiva futura. Ostentati quasi come armi, questi adorabili cagnoni, che, vi giuro, non farebbero mai del male ad una mosca, e se a dirlo sono proprio io!, si riducevano a sbavanti e ringhianti scagnozzi al soldo di “quei quattro balordi delinquenti”, come li definì la signora Eleonora in un rarissimo impeto d’ira, quando uno di quei molossi attentò all’integrità del polpaccio di Cristian, che li amava tanto da non temerli minimamente, quasi come quegli addestratori del circo che infilano serafici la testa nelle fauci del leone. Ecco, Cristian ne sarebbe stato capacissimo! E dall’alto del suo balcone, al riparo da fauci d’acciaio e canini accomunati, lui li ammirava estasiato. Io svolazzai tra quelle strade, resistendo alla tentazione di crogiolarmi nelle montagnole di rifiuti che, debordando dai cassonetti, si accumulavano per strada. Oh, sia ben chiaro, questa non era un condizione propria unicamente del quartiere, ma purtroppo condivisa dal resto della città, ed oltre. Da quando il maggiore sito di smaltimento era stato chiuso, oltre ad aver lasciato diversi residenti della zona senza lavoro, la situazione si riproponeva con ciclicità infausta, infestando le vie di ogni isolato. Ed anche a me, lo ammetto, risultava comunque indigesta. A guardare la città dall’alto, sembravate topi che scorrazzano viscidi in una discarica. Mi incuneai incuriosita tra gruppi di giovanotti in maniche corte, perché in questo quartiere le stagioni non seguivano lo stesso corso che altrove. Rispetto al resto del mondo tutto pareva venire anticipato. Bastava un primo sole nelle ultime giornate 68
d’inverno per spingere i “cloni” a riporre i capotti; oppure era sufficiente un primo venticello fresco di inizio ottobre per riammirare i loro giubbottoni col cappuccio rigorosamente impellicciato. Oppure era sufficiente arrivare al quindici di settembre per sentire i primi botti di petardi, quando andava bene; perché altrimenti, in certi casi, erano veri e propri ordigni ad esplodere per quelle strade, con tremolio di vetri ed antifurto squillanti quasi per spavento. E, a dirla tutta, le stranezze erano davvero tante. Io mi posai leggera sul cofano di un’auto nuova fiammante, da pochi giorni uscita dal concessionario. Non ebbi nemmeno il tempo di interrogarmi sul fatto che l’intestatario del libretto di circolazione era un ragazzo di vent’anni disoccupato, sesto di sette figli, disoccupati anch’essi come i genitori, o sul numero delle cambiali, o su come le avrebbe pagate, perché in quell’istante Fabio arrivò salutando il folto gruppetto riunito attorno ad una panchina. “Fabio, dov’è?”, gli chiese un uomo sui quarant’anni. “Non ce l’ho più…”, rispose lui, visibilmente seccato. L’uomo gli si avvicinò. Gli cinse la testa col braccio destro e lo costrinse a chinarsi lentamente. “Lo sai, vero, cosa ti succede se vengono a cercarmi?”, gli sussurrò all’orecchio, stringendolo col braccio. Tutti gli altri che stavano là intorno rimasero in silenzio, gustandosi la scena. “Vieni dentro, non guardare!”, gli disse la signora Eleonora tirandolo per un braccio e trascinandolo lontano dal balcone. “I cani, mamma!”, protestò Cristian. “Mi devi una pistola pulita, hai capito?”, sentenziò lasciando la presa. “Si, tranquillo, ci penso io…”, sospirò affannato Fabio. Quell’uomo si chiamava Gianni. E faceva il bracconiere.
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Casa e famiglia
Tommaso era seduto nel refettorio. Dopo mangiato veniva adibito a stanza per lo studio. I bambini ricevevano aiuto per i compiti, perché solo dopo averli svolti potevano giocare o guardare la televisione. Non tutti e non sempre restavano a scuola anche nel pomeriggio. Tommaso era tra questi. Anche se lui non pareva avere particolare bisogno d’aiuto. Era uno studente diligente e molto dotato. In effetti Tommaso era molto più “adulto” di quanto non dimostrasse la sua età anagrafica. Lui era cresciuto più in fretta di quanto solitamente avrebbe fatto un bambino della sua età. Seduto sulla sedia era chino sul tavolo, con nella mano sinistra una matita, con la quale disegnava sul suo quaderno. “Cosa dice la psicologa? Non ho avuto modo di contattarla.”, chiese Rossella. “Il solito. È venuta venerdì scorso. Ci ha parlato per un bel po’”, le rispose Annalisa. “Allora dovrò sentirla, eravamo rimaste d’accordo che li avremmo concordati gli incontri. Poi si parla di lavoro d’èquipe; va beh, lasciamo stare. Il disegno è sempre lo stesso?”. “Si, ogni giorno. Se vuoi ti faccio vedere il quaderno”. “Si, poi me lo mostri, anche se l’ho praticamente imparato a memoria”, le disse Rossella. “Non mi piace quando parlate di me e fate finta che non ci sono. Io ci sono.”, disse Tommaso, senza alzare particolarmente la voce, ma ad un tono sufficientemente alto perché le due donne lo potessero sentire. Parlò senza smettere di disegnare, senza alzare lo sguardo dal foglio. Rossella ed Annalisa trasalirono leggermente. Lasciarono la soglia della stanza, dalla quale stavano osservando la schiena di Tommaso, ed entrarono. “Ci possiamo sedere un po’, Tommy?”, le chiese Rossella, con tono gentile. “Tanto ti siedi lo stesso.”, rispose lui. “ Cosa dice il decreto?”, le chiese poi, mentre lei si sedeva. Annalisa invece restò in piedi, ma si posizionò davanti ad entrambi. Ricordava benissimo quanto Tommaso odiasse sentire la presenza di qualcuno alle proprie spalle. “Il decreto? Mi stai chiedendo se il Tribunale si è espresso sul fatto o meno che io possa sedermi? O sul fatto che debba chiederti il permesso per farlo?”, Rossella incrociò le braccia e piegò leggermente il capo. “Domanda retorica…”, disse lui. E per un attimo smise di disegnare. “Come?”, gli chiese, stupita, Annalisa. 70
“A scuola, ce l’ha insegnato la maestra. Si chiama domanda retorica.” “Ah, si?”, Rossella assunse un tono quasi da sfida, ma pacifica. Quasi lo volesse invogliare a giocare con lei. “E cosa significa, lo sai?”, gli chiese. “Si…” “E non ce lo dici?”, si intromise Annalisa. Rossella sollevò leggermente lo sguardo verso di lei. “Sembrate la dottoressa.”, disse chiudendo il quaderno. “In che senso? Perché dici questo?”, gli chiesero quasi all’unisono. “Le vostre domande non sono curiose.”, disse lui. Prese in mano il quaderno e si alzò. Risistemò la sedia spostandola senza farla strisciare in terra, ma sollevandola leggermente. Il quaderno gli scivolò dalle mani. Le due donne non accennarono nemmeno a raccoglierlo. Tommaso forse si aspettava che lo facessero, perché mi parve leggermente spiazzato, anche se non potrei dirlo con sicurezza, visto che dal suo viso non trasparì nessuna emozione. “Però siete attente.”, disse loro, voltandosi ed uscendo dalla stanza. “Che ne pensi?”, le chiese Annalisa. “Mah, ormai lo sappiamo che questo è il suo modo di comunicare. Siamo noi che dobbiamo adeguarci al suo linguaggio. Noi siamo l’elemento adulto, all’interno di questo rapporto. Lui si aspetta molto da noi. Psicologa docet. Anche questo è il nostro compito. Te lo ricordi com’era prima?”. “Già, la prima volta che l’ho visto ho quasi pianto. Menomale che adesso sappiamo che non permette a nessuno di toccare il suo quaderno, o stargli dietro le spalle. Non me le dimenticherò mai le scenate. Vere e proprie crisi. Un giorno, te l’abbiamo raccontato…” “Si, se te ne sei dimenticata mi chiamaste a casa e vi raggiunsi in ospedale.” “Ah, già, è vero. Che spavento. Veronica aveva pensato addirittura di cambiare lavoro. Poveretta, appena arrivata qui. Uscita fresca fresca dalla specializzazione. Di certo nessun tirocinio ti prepara a certi casi.” “Penso che niente ti prepari ad affrontare simili situazioni. Lo chiamano lavoro, e ce lo siamo pure scelte, ma a volte ci vuole stomaco. Non tutti sono adatti. E adesso Veronica che fa? L’hai più sentita?” “E’ da un po’ che non la sento. Dopo che se n’è andata da qui, penso sia andata a lavorare in una casa di riposo. Bel cambiamento.”, Annalisa fece una smorfia, che somigliò ad un sorriso. 71
“E con Stefano? Come va?”, chiese Rossella. “Con Tommaso?”, Annalisa arrossì leggermente e si accarezzò il mento. “Certo…”, Rossella la guardò dritta negli occhi. “Ma non è che c’è del tenero?”, ammiccò. “Ma no, niente…insomma…siamo usciti, non so….”, Annalisa non riusciva a dissimulare il proprio imbarazzo. Comunque ve lo rivelo io: era innamoratissima. Ah, l’amore. Non posso sapere cosa sia per esperienza diretta, ma attraverso voi l’ho vissuto, ed Annalisa, si, era proprio innamorata. Annalisa aveva venticinque anni, dei bellissimi occhi azzurri e dei capelli color oro. Stefano invece aveva trent’anni, un bel paio di folti baffi ed i capelli neri. “Dai, lasciamo stare, vedo che sei piuttosto imbarazzata. Volevo solo sapere come vanno le cose tra lui e Tommaso. È l’unico operatore maschio. Con gli altri uomini non ha mai avuto rapporti ottimali.”, Rossella sbuffò leggermente. “In effetti con lui non ha nessun contatto. Quasi non lo saluta nemmeno. Di certo non resta mai da solo in una stanza insieme a lui, ma anche se ci siamo noi si nota che sta provando un forte disagio.”, si dispiacque Annalisa. “Solo il tempo, forse…Io mi compiaccio comunque di tutti i progressi che ha fatto. Certo, se riuscissimo a trovare una famiglia adatta, sarebbe l’ideale. Questa dimensione di comunità lo sta aiutando tantissimo, ma per crescere definitivamente ne avrebbe davvero bisogno. E su questo concordiamo tutti, mi pare.” “Fuor di dubbio…”, confermò Annalisa. Fu in quell’istante che Tommaso rientrò nella stanza. “Retorica è una domanda della quale si sa già la risposta. Una domanda alla quale non si deve rispondere. Il giudice ha detto che si predispone l’inserimento in comunità per il suddetto minore e in attesa che vengano portate a termine le procedure d’adozione. Il minore viene affidato al Servizio Sociale che attiverà tutte le misure di sostegno adeguate e per quanto di sua competenza. Anche il decreto lo dice. Ma una cosa non la dice.”, Tommaso era fermo al centro della stanza. In mano teneva il suo quaderno. Non riuscii a distinguere nessuna espressione sul suo volto, mentre parlava. Pareva ripetesse una poesia. “Se entri a casa di qualcuno devi chiedere il permesso per poterti sedere, perché così fanno i bravi bambini.”, proseguì Tommaso. Annalisa deglutì. “Ma una persona ospitale non aspetta che sia tu a chiederglielo, è lei che ti invita a sederti.”, Rossella lo guardava con profonda attenzione. Mi diede l’impressione di aver 72
già capito cosa volesse dirle e che quello fosse il suo modo di dimostragli il proprio rispetto. “Ma se uno non è il padrone della casa, non può invitarti.”, concluse Tommaso. Poi si voltò e lasciò la stanza. Mi capitò raramente in futuro di sentirgli pronunciare un altro discorso così lungo.
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Il Barone Buddenbrook Massimiliano Alberto III e l’uomo misterioso che vive dentro il bosco
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Peccati mortali a destra, peccati veniali a sinistra…
Don Alfonso Maria alzò le mani al cielo ed intonò un canto. La platea dei fedeli lo seguì, facendogli eco. Quindi lui, prese le particole, scese i tre gradini dell’altare ed attese i fedeli per il sacramento della comunione. Al suo fianco il fido chierichetto Cristian (si, proprio lui!). In fila in attesa di ricevere l’ostia consacrata, un uomo pareva spazientito. Forse assorto in altri pensieri che riuscivano a portarlo lontano da quel luogo sacro e ad estraniarlo da quel momento di rito per la comunità dei credenti, e quasi mi parve indispettito da tali pensieri. Borbottava a bassa voce mentre tutt’attorno gli altri cantavano. Pensai fosse un lamento sommesso per le troppe inascoltabili voci che si cimentavano in quel canto, e così, incuriosita mi avvicina a quella bocca mormorante e, con mia grande sorpresa, intuii, in quel mugugnare silenzioso, oltretutto sovrastato dalla confusione di ottave che ci circondava, una preghiera. E, anche se mi fu difficile, riuscii a sentire quel nome: Alessandro. Il Barone Buddenbrook aprì la bocca e portò leggermente fuori la lingua, mentre il parroco ci posò sopra la particola. Poi la richiuse e mi parve che fosse quasi in estasi, mi ricordava un bambino mentre assaggia qualcosa di dolce, anzi, molto di più, pareva stesse assaporando qualcosa di sublime. Si sedette accanto alla moglie, e mantenne il silenzio fino alla fine del canto. Smise di pregare, o forse lo stava facendo dentro di sé. Pensai che non volesse muovere la lingua per non disonorare l’ostia appena ricevuta. La contessa Matilde Baraldi Finzini, sua consorte, gli stava al fianco, in ginocchio, con le mani giunte e la testa china nell’insenatura tra i gomiti. Tra le mani teneva stretto un rosario. La messa terminò con “la benedizione di Dio scenda su di voi e con voi rimanga sempre. Amen”. Don Alfonso Maria entrò in sagrestia, dove il nostro piccolo Cristian lo aiutò a svestirsi. La signora Eleonora lo attendeva fuori dalla porta. Al catechismo andava il sabato sera, perché la madre lo aveva voluto nella sua classe. La signora Eleonora era catechista. Don Alfonso Maria finita la messa restò per qualche istante solo, dopo aver salutato Cristian e sua madre. Io mi appisolai un attimo sulla scrivania. Un colpo di tosse mi destò. E interruppe la partita. “Disturbo?”, chiese con una certa aria di supponenza il Barone, entrando nella stanza. Io che mal ne sopportavo anche la sola vista e, mi si perdoni questo frivolo pettegolezzo, 75
pure l’alito, pur essendo avvezza come ben saprete a particolari effluvi che voi umani trovate tutt’altro che piacevoli al vostro olfatto, mi alzai in volo e mi allontanai a sufficienza per non rischiare, come troppe volte mi era accaduto in sua presenza, di finire spiaccicata dal suo guanto di pelle. Non mi si giudichi male, ma anche io provo sentimenti, che credete? Anche se nel mio caso è qualcosa di molto istintivo; “a pelle” (appunto) direste voi. Niente di così elaborato come le vostre passioni, capaci di spingervi a compiere qualsiasi azione pur di appagarle. E non a sproposito vi dico questo adesso. “No, certo, come potrebbe disturbare. Si accomodi.”, lo invitò a sedersi don Alfonso, mentre preso un po’ dal panico spense il televisore dal pulsante sotto lo schermo, dopo aver cercato invano, prima con gli occhi e poi con un furioso roteare di mani il telecomando. Mentre il Barone osservava la scena con sguardo di disapprovazione. Di forte disapprovazione. Anche se mi chiedo, ancora adesso che le vicissitudini qui raccontate sono così lontane nel tempo, se mai abbia avuto sguardi che non fossero di giudizio nei confronti degli altri. O forse dovrei dire di pregiudizio. Ma tralasciamo, per ora, almeno. Il parroco si accomodò nella sedia dietro la scrivania, il Barone e la Contessa si sedettero di fronte. Il Barone quasi sprofondò nel morbido schienale adagiando entrambe le braccia sui braccioli. “Avete fatto bene a donarle alla chiesa, Barone. Le Venanzelli sono quanto di meglio si possa desiderare per stare comodamente seduti.”, gli sussurrò all’orecchio la Contessa. Il Barone accennò un gesto d’approvazione. Don Alfonso mi parve un attimo a disagio, non tanto per il non aver inteso quanto si fossero detti i suoi interlocutori, ma ancora per la tragicomica sequenza mostrata precedentemente ai nobili signori che si trovava di fronte. Ricordo ancora che l’ultima raccomandazione che il vescovo gli fece prima di benedire il suo trasferimento nella Parrocchia di San Giuseppe riguardava proprio il Barone e la sua signora. “Dovrebbe forse spegnerlo. Il led è ancora rosso.”, gli suggerì il Barone indicandogli la consolle. “No, non si preoccupi, grazie. Se lo spengo adesso perdo tutti i progressi non salvati.”. Don Alfonso Maria abbozzò un sorriso ma, non appena si accorse che oltremodo i suoi interlocutori si erano invece fatti più seri, deglutì. Il Barone sbuffò. Lui divenne quasi paonazzo. “Sa, padre, a causa dei miei impegni ho la possibilità di compiere appena l’essenziale per un cristiano praticante, e cioè onorare le feste. Avrei piacere di poter passare un 76
pomeriggio qua in parrocchia, per osservare di persona come viene gestito il servizio oratoriale che offrite”. Quando parlava, il Barone assumeva una posizione marziale. La schiena ben diritta, il petto all’infuori, la voce emessa col diaframma. Non credo che lo ostentasse, questo tipo di impostazione gli rimase dall’accademia militare che frequentò sin dall’età scolare. “Oh, visto che ha accennato a questo argomento, mi permetta ancora una volta di ringraziarla per la cospicua donazione che ha concesso alla nostra parrocchia. Se avesse, adesso, anche pochi minuti a disposizione, potrei mostrarle gli spazi che abbiamo ristrutturato proprio con quei fondi e, considerato che a breve i bambini termineranno la lezione di catechismo, potrà gioire dei loro chiassosi sorrisi.”, disse Don Alfonso Maria, poggiando le mani sulla scrivania ed accennando ad alzarsi. “Purtroppo impegni improrogabili mi attendono.”, lo bloccò a mezz’aria il Barone, con un leggero cenno della mano. “In realtà ho introdotto l’argomento solo ed esclusivamente per parlare di mio nipote.”, aggiunse trattenendo a stento un certo fastidio. “Ah…”, sospirò Don Alfonso, risedendosi. “Già…il giovane Alessandro…”.
Don Alfonso Maria li accompagnò fino all’auto. Fu un lungo commiato. Lungo altrettanto quanto il discorso. In realtà non saprei ben definire i limiti dell’uno o dell’altro; considerato l’argomento oggetto del colloquio, non fu possibile interrompere la discussione se non nel momento in cui la macchina partì. Il prete rientrò di gran lena in sagrestia, non appena l’auto fu sufficientemente lontana; probabilmente già immaginava su di se lo sguardo di rimprovero del Barone, mentre riaccendeva lo schermo e prendeva in mano il joypad premendo il tasto start e riavviando così la partita. “Ancora con questi videogiochi stai?”, lo ammonì Benedetta, la sua perpetua, nonché sorella maggiore che, signorina sino a quell’età, aveva deciso di seguirlo nell’ufficio del suo ministero. Anche perché lo aveva cresciuto sin da piccolo come una madre, da quando i loro genitori erano morti in un incidente stradale. Fu in quel periodo che il piccolo Alfonso decise che avrebbe fatto il sacerdote. “I preti hanno scelto la via della preghiera, per stare più vicini a Dio e a Gesù.”. Questo gli rispose Don Tarcisio il giorno che gli chiese “perché i preti devono fare tanti sacrifici? Siete diversi dagli altri uomini?”. 77
“Sono alla destra del Padre. Proprio accanto a Dio.”, gli rispose invece quando gli chiese “dove sono adesso mio padre e mia madre?”. E forse per un processo sillogistico decise di entrare in seminario e prendere i voti. “Così potrò parlare con Dio e con la mamma.”, rispose alla sorella quando questa gliene chiese la ragione. Arrivò ad esser parroco sufficientemente giovane. E mantenne un certo atteggiamento sbarazzino anche quando divenne il ministro della Parrocchia di San Giuseppe, di ben altra caratura rispetto a quella del piccolo paesino dove aveva prestato il suo primo servizio. “Abbiamo bisogno di una persona in gamba, e giovane. È un territorio particolarmente importante. Abbiamo ritenuto tu fossi la persona adatta, anche se non hai esperienza e quella è una parrocchia piuttosto grande”, così gli parlò il Vescovo, affidandogli l’incarico. Di certo il peso della responsabilità non influì sul suo modo d’essere, anzi. Mentre giocava al calcio simulato da quel videogame mi pareva quasi uno di quei bambini che giocavano fuori nel cortile.
Nell’abitacolo regnava il silenzio. Il Barone aveva l’aria assorta, mentre la signora Contessa lo guardava, ma con garbo, quasi non lo volesse disturbare con uno sguardo troppo assillante. Il Barone infilò una mano nella giacca, nel taschino interno. Portò fuori una foto leggermente stropicciata. “Per fortuna che è una copia, e che ne avete tante. Ma come fate a ridurle in quello stato?”, gli chiese la Contessa, sfiorando dolcemente la foto con le dita, mentre il Barone la teneva a mezz’aria con una mano, davanti agli occhi. “E’ perché la guardo spesso…”, sospirò il Barone. “Guardalo!”, invitò la moglie porgendole la foto; ma non appena lei strinse le dita, afferrandola, per accostarla a sé, lui la trattenne leggermente, senza concedergliela. Lei allora desistette dal suo proposito e si chinò verso di lui, per poterla osservare più agevolmente. “Secondo te era sincero mentre sorrideva?”, gli chiese. La Contessa sollevò lo sguardo dalla foto adagiandolo sulle rughe attorno agli occhi del marito, o almeno così mi parve. Con un deciso, ma dolce gesto della mano gli accarezzò l’orecchio, ma penso solo, o principalmente, per allontanare me, che mi ci ero posata per 78
osservare la foto. Ah, si, la foto, appunto. Vi interesserà saperlo. In quella foto erano impresse le figure del Barone e della Contessa, con un cane lupo accovacciato ai loro piedi, ed un bambino che lo accarezzava festante e distratto, senza rivolgere lo sguardo all’obiettivo, stonando alquanto, direi, con l’atteggiamento serioso e quasi pomposo dei due nobili, ma regalando a quell’immagine un senso di vitalità che altrimenti non avrebbe posseduto. Ah, si, dimenticavo! Quel bambino era Alessandro. “Secondo me, si….”, gli rispose. La macchina intanto si fermò. Il Barone guardò per un altro istante la foto, poi la ripose nella tasca della giacca, quindi la abbottonò e scese dall’auto, dopo che l’autista gli aveva aperto lo sportello. La Contessa non si mosse. “Riporta pure la Contessa a casa. E manda un’altra auto qui.”, ordinò all’autista. “Rientrerò più tardi, tu precedimi”, disse alla moglie, chinandosi leggermente all’interno dell’abitacolo. “Come desiderate”, gli sorrise lei. Il Barone entrò nel lussuoso palazzo di fronte al quale la macchina si era fermata, accompagnato da un uomo in abito scuro che gli era subito venuto incontro. L’uomo lo condusse attraverso un ampio salone per un corridoio che terminava con una porta in legno con una maniglia dorata. E una targa al centro della porta su cui era incisa la scritta “Presidenza”, anch’essa dorata. L’uomo aprì la porta: “Prego, Barone”, gli disse con un inchino, e non appena vi fu entrato la richiuse restando all’esterno. Io passai attraverso la serratura. Dentro la stanza c’era una grande tavola rotonda con dieci sedie: su una di queste si sedette il Barone salutando le altre nove persone che vi erano sedute attorno, e che gli rivolsero un cenno con il capo. “Bene, ora siamo tutti presenti. Colgo l’occasione per ringraziarvi tutti per la partecipazione, data l’esiguità del preavviso per questo incontro”, parlava uno di quegli uomini. E notai che tutti, compreso il Barone, portavano all’anulare destro un anello identico. “Signori”, proseguì con tono serioso, “Dodici anni fa intervenimmo con decisione, e il nostro obiettivo, anche se indirettamente, venne raggiunto. Ma adesso i tempi sono nuovamente cambiati. La corruzione imperante dei valori rischia di compromettere irrimediabilmente il nostro progetto. Il Gran Consiglio teme sia giunto il momento di agire nuovamente per colpire con implacabile mano. E’ stato data comunicazione a tutte le cellule locali di attivarsi”. 79
Tutti gli altri si guardarono tra loro scuotendo il capo in segno di rammarico ed approvazione. “Concordo”, disse il Barone prendendo la parola.
“Se ti degni di spegnere quell’affare e ti affacci un attimo dalla porta, forse ti accorgi che ci sono almeno cinquanta persone che ti aspettano”, gli disse Benedetta colpendolo con un leggero scappellotto. “Aia!”, lamentò lui accarezzandosi il collo. “Uff…”, sbuffò poi sorridendo, “E’ vero, le confessioni!”. Si vestì di corsa e saltellò fino all’altare. Uscito dalla sacrestia si guardò un po’ intorno, mormorando a denti stretti. Mi avvicinai leggermente alla sua bocca. “Ventisette, ventotto…”, stava contando i fedeli presenti in sala. “Troppi, troppi, devo finire la partita…”, sussurrò guardandomi. Amici, non lo giurerei, ma mi parve proprio che si stesse rivolgendo a me. Salì sull’altare. “Preghiamo!”, disse. I presenti, un po’ sorpresi, si guardarono l’un l’altro, poi, ad imitazione di quanto faceva il parroco, pregarono anche loro: “Atto di dolore…”. Conclusa la preghiera li guardò e disse, indicando con le mani, tenendo ben dritto il dito indice e puntandolo verso le direzioni stabilite: “Peccati mortali…a destra! Peccati veniali a sinistra!”. Sempre più straniti, accompagnandosi con un borbottio tra il divertimento e la condanna, si disposero secondo le sue indicazioni. Tutti sulla sinistra. Don Alfonso Maria li guardò. Finse di tossire portandosi la mano chiusa a pugno sulla bocca. “Anche le bugie sono un peccato, non lo sapete?”, gli disse. Qualcuno abbassò la testa a guardarsi i piedi, qualcun altro dissimulò cercando interesse nelle statue dei santi che vedeva ogni domenica ma che forse non aveva mai osservato con tanta attenzione, altri brontolavano tra sé “ma no, dai, dopotutto, non è un peccato così grave…”, altri ancora, impettiti e a testa alta cercavano lo sguardo dei vicini quasi a significargli “certamente non ce l’ha con me!”. Don Alfonso tossì di nuovo. Alcuni allora si disposero anche sulla destra. Tossì di nuovo. 80
“Dio vi osserva…”, disse indicando la destra col dito, movendo la mano avanti e indietro. Fu così che altri sette si disposero a destra. Don Alfonso non tossì. Fece il segno della croce. “Dio vi assolva da tutti i peccati.”, disse. “Andate in pace”. Quindi si voltò, scese dall’altare e si risedette davanti allo schermo. Nella grande sala rimasero cinquantatre persone, una mosca ed un esterrefatto silenzio, interrotto solo da quelle urla. “Gol! Gol!”.
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Il matto con gli stivali.
Cristian lo aspettava fermo di fronte all’altalena. Lo attese per qualche minuto, invitandolo, gesticolando con le mani prima, chiamandolo a gran voce poi. Ma Tommaso non si mosse dal muretto sul quale stava seduto. Durante la ricreazione nessuno gli si avvicinava, né dei bambini, né tanto meno degli adulti. Di certo non le maestre che spesso si trovavano a disagio di fronte a quello sguardo così misterioso e a quel disegno così incomprensibile. Praticamente era Cristian l’unico che riusciva a stabilire un contatto con lui, perché anche se non gli rispondeva, non lo calcolava, anche se lo mandava via a malo modo, così come aveva fatto con gli altri, maestre comprese, e hai voglia poi a dire che nessuno gli si avvicinava, lui, Cristian, tornava sempre alla carica. E così, visto che non aveva nessuna intenzione di avvicinarsi all’altalena, decise di accostarsi lui a Tommaso. È giusto sottolineare che questa sua amicizia con “quello strano”, così come lo chiamavano gli altri bambini ( e non solo! Ma per ora vi basti sapere questo), non è che lo rendesse molto popolare nella scuola, considerato che, anche senza questo suo vezzo, difficilmente lo sarebbe stato, visto che era il “cocco delle maestre” e il figlio della catechista e poi altri commenti che tralascerei, riguardanti una sua particolare estraneità a certi meccanismi propri del suo ambiente sociale di riferimento. Mi ricordava un pulcino in una porcilaia. “Mi spingi?”, gli chiese serafico, indicandogli l’altalena. Tommaso sollevò leggermente lo sguardo; guardò l’altalena, poi guardò lui. “Perché non te ne vai?”, gli rispose seccato. O almeno pensai che lo fosse, data quella reazione, ma come al solito il tono della sua voce e la sua espressione non trasmettevano informazioni su nessuna particolare emozione. “No, mi devi spingere perché non mi spinge nessuno.” “Chiedilo alla maestra. Lasciami in pace.” “Allora mi siedo qui vicino a te”, concluse Cristian, sedendogli accanto. Iniziò a dondolare le gambe sempre più veloce tenendo le braccia attaccate al busto e gli avambracci distesi. Con la bocca cercava di imitare il rumore del vento, e rideva. Tommaso si voltò a guardarlo, quindi si alzò e se ne andò lasciandoselo alle spalle. Cristian proseguì ancora per un po’, anche da solo, su quella panchina.
“E’ tornata di nuovo, vero?”, disse la signora Lucia. 82
“Già, si è portata via un paio di pantaloni”, rispose la signora Francesca. “Due settimane fa una maglietta di mio figlio.” “Ma è possibile che nessuno riesca a prenderlo? Ma quanti anni sono che va avanti questa storia?” “E’ furba quella signorina. E’ veramente furba”, si intromise l’uomo. Le due donne lo guardarono con disappunto. “Boicco, ma non è che è uno dei tuoi?”, lo incalzò la signora Francesca. “No, no…”, la contraddisse muovendo il dito indice. “Non è uno dei miei amici. E’ un bel cane, si, si…anzi, una bella cagna”, disse loro, allontanandosi fischiettando. “Quello è veramente matto..”, commentò la signora Lucia battendosi le tempie col dito. “E quella cagna è una vera ladra.”, concluse l’altra.
I bambini si avvicinarono alla baracca. “Shhh! Fate silenzio.”, li ammonì Giovanni, alla testa del gruppo. Erano in cinque. Oltre a lui c’erano anche Luigi, Carlo, Tommaso e Cristian. Si, anche loro due. Non fu facile per gli altri tre riuscire a convincere Tommaso, invece per convincere Cristian non ebbero nessuna difficoltà. In realtà una difficoltà la ebbero, e anche grande. Cristian non era stato invitato. Ma non riuscirono a seminarlo nemmeno correndo. “Dove va lui vado anch’io, perché siamo amici!”, aveva detto a Luigi. “E’ amico tuo questo moccioso?”, aveva cercato conferma Luigi. Tommaso non aveva risposto, così gli altri si trovarono costretti a portarlo con se, anche se ci provarono, con grande impegno, vi assicuro, a lasciarselo alle spalle. Perché, a differenza di Tommaso, Cristian parlava e parlava. E chiedeva sempre il perché per ogni cosa che capitava o che vedeva. “Ora bisogna fare attenzione, perché quello è matto, se se ne accorge ci ammazza.”, disse con voce cupa Giovanni. Cristian deglutì. “Hai paura, vero?”, lo schernì Carlo battendogli la testa col palmo della mano. “Io non ho paura!”, si irrigidì Cristian, gonfiando il petto. “Ma se ti stai ca**ndo addosso!”, rise Giovanni. A quella frase non ribatté. Anche perché erano ormai giunti di fronte alla porta. La baracca era fatiscente. Costituita da pareti di legno, lamiera e cartone. Il tetto di eternit e le finestre senza vetri coperte da lenzuola che un tempo probabilmente dovevano essere 83
state bianche. Al lato della casa un recinto di legno, reti di letti matrimoniali, canne e lamiera sistemate alla meglio. All’interno del recinto alcune piccole baracchette che mi parvero cucce per cani; difatti c’erano pure alcune ciotole con acqua e avanzi di poltiglie color marrone. La baracca si trovava a poca distanza dall’ingresso sud del Parco Naturale del Gran Paradiso. Luigi si avvicinò alla porta e la aprì. Quindi scambiò una sguardo complice con Carlo e Giovanni.
Quando i tre si avvicinarono a Tommaso, all’uscita di scuola, lo accerchiarono. Avevano già confabulato per un po’ durante la ricreazione. Dovettero insistere parecchio, ma una volta trovato l’argomento giusto, non gli fu difficile convincerlo. In effetti Tommaso era sempre restio nei loro confronti, pur essendo loro compagno di classe, non gli aveva mai concesso nessuna confidenza. Così come con tutti gli altri, del resto. “Ci vuoi venire a vedere un matto?”, gli avevano proposto, infine, quando già erano pronti a desistere. Lui aveva fatto semplicemente cenno di sì con la testa. Di lì a qualche istante, al gruppo si sarebbe unito anche Cristian. “Fai come ti pare, poi ti arrangi con papà!”, lo aveva minacciato Francesco, che era andato a prenderlo all’uscita, come capitava nei giorni in cui entrambi i loro genitori avevano la fortuna di lavorare. Tommaso invece era ormai da qualche tempo che aveva ricevuto il permesso di rientrare da solo in “comunità”. Questo passo era stato concordato tra il responsabile, gli educatori, Rossella e la psicologa che lo aveva in carico. Fino a quel giorno, uscendo da scuola era sempre andato immediatamente alla casa famiglia.
Luigi afferrò Cristian per le braccia, mentre Giovanni lo liberava dello zaino che teneva sulle spalle. Quindi lo lanciò dentro la casa. “Dai, facci vedere quanto sei coraggioso!”, gli disse con aria di sfida. Cristian mi parve sull’orlo del pianto. Guardò i tre, forse voleva dire qualcosa ma era come se le parole non volessero uscirgli di bocca. Poi guardò Tommaso, che pareva totalmente indifferente. Quindi corse dentro la baracca “Cattivi! Cattivi!”, gridò mentre piangeva.
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I tre ridevano a crepapelle. Tommaso li guardò e mi parve di leggergli qualcosa nello sguardo. Ebbi come l’impressione che volesse parlare loro con gli occhi. Quindi seguì Cristian dentro la baracca, guidato dalle sue grida: “Dov’è? Dov’è? Mamma! Mamma! Uffa! Perché? Perché? Papà mi picchia! Non si vede niente!”. Non appena anche Tommaso fu dentro, i tre chiusero la porta e la bloccarono con un bastone. Tommaso provò a spingere per aprirla, ma non vi riuscì. “Lo volevi vedere un matto? Minimo siete parenti!”, gli urlarono da fuori i tre. “Matto! Matto! Matto!”, continuarono. “Aprite! Aprite! MAMMA! Aiuto!”, le urla di Cristian si fecero strazianti. “Matto!”, continuavano a gridare da fuori. Poi si sentirono alcuni cani abbaiare. “Scappa! Scappa!”, e scalpitio di piedi che si allontanavano, questo si sentiva da dentro la baracca. “Aiuto! Aiuto!”, questo invece si udiva dall’esterno. Tommaso e Cristian si accorsero della presenza dei cani, dalle ombre che penetravano da sotto la porta e dal grugnire dei loro musi che odoravano e dal graffiare delle loro zampe che grattavano sulla lamiera. Udirono anche dei passi. “Aiuto! Aprite!”, gridò Cristian verso quei passi. L’uomo scostò il bastone ed aprì la porta. Cristian si catapultò immediatamente al di fuori, per poi sincopare atterrito, quasi svenuto quando si trovò di fronte quell’uomo con la barba lunga e gli stivali di gomma rossa. Tommaso ne uscì adagio, con lo zaino di Cristian in mano. “Ahhh!”, gridò Cristian. “Il matto con gli stivali! Scappiamo che ci ammazza!”. Afferrò la mano di Tommaso e lo trascinò via, mentre lui incrociò lo sguardo con l’uomo, e l’uomo gli sorrise. “Buoni buoni!”, ammansì i cani che latrarono alla fuga repentina dei due bambini. “Il matto con gli stivali! Il matto con gli stivali! Aiuto! Aiuto!”, continuava a borbottare Cristian mentre correva. E continuò a borbottarlo anche a casa, di fronte a Francesco e Luciana, pregandoli di non farne parola con i genitori. Tommaso invece raccontò senza enfasi alcuna tutto quanto era accaduto, ma senza nessun intento giustificatorio per il proprio ritardo. Poi si ritirò nella stanza da letto. Annalisa lo guardò quasi sconsolata.
Boicco uscì dalla baracca. Sorrideva, forse al ricordo di quella visita inaspettata, quando la vide. 85
“Buonasera, signorina. Come sta?”, si inginocchiò e le protese le mani. La cagna si avvicinò a leccargliele e si lasciò accarezzare. “Lo sai che ti danno la caccia nelle case qua vicino? Ma cosa te ne fai di un paio di pantaloni?” La cagna abbaiò. “Non ti fermi nemmeno stavolta, vero?”. Abbaiò di nuovo. Il vecchio Boicco, detto “il matto con gli stivali”, la guardò mentre si allontanava.
Pasqua penetrò nel vasto e fitto bosco del Parco Naturale del Gran Paradiso, attraverso la strada sterrata. Poi prese il cammino che solo lei conosceva e dopo alcuni minuti raggiunse un uomo che pareva aspettarla con ansia. “Ciao, dove sei stata? Non hai portato niente questa volta?”, le disse l’uomo coi capelli lunghi e la folta barba. Lei abbaiò. “Ho trovato dei funghi, mentre tu eri via. Hai fame?”, le chiese. Pasqua abbaiò due volte saltellandogli attorno. “Ho capito, ho capito…”, sorrise lui. Forse vi interesserà saperlo: quell’uomo viveva dentro il bosco. E quel cane lupo femmina era la sua unica compagnia.
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PARTE SECONDA
Il giardino dei Conti Finzini
(di Amon La rossa)
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Catene telefoniche
“Io ci darei pure un’altra mano di vernice, che ne dici?”.. La voce parlò dietro le sue spalle. Per l’effetto doppler era un suono con aumento della frequenza delle onde sonore dalla fonte emittente, o sorgente, al ricevitore, in questo caso il soggetto ricevente; ovvero qualcuno che parlava mentre gli si avvicinava, se così vi è più semplice capirlo. Mi presento, anzi, in effetti sarebbe più giusto scrivere che mi ripresento, perché già avete fatto la mia conoscenza nelle pagine iniziali di questo libro, agli albori di questa nostra lunga ed avvincente storia. Mi chiamo Amon, e sono una formica. E vi narrerò gli accadimenti che seguirono quelli già a voi narrati dalla mosca Erinna. Non mi perderò in ulteriori divagazioni, questi sono i fatti, e vi renderò partecipi con professionale dovizia di particolari. Alessandro stava carponi sulle ginocchia, appoggiando i glutei sui talloni, al modo dei calciatori che stanno in prima fila nelle foto di squadra che poi finiscono nei poster, come quelli che teneva appesi alle mura della sua stanza. Indossava un paio di scarpe da ginnastica bianche, di una marca nota ai giovani della sua età, piuttosto alla moda. Parecchio consunte, le indossava senza lacci. Era solito comprare le scarpe di una taglia minore rispetto a quella che avrebbe dovuto, proprio al fine di poterle portare prive di stringhe. Indossava una tuta da jogging di colore nero, chiazzata di bianco per via del lavoro che era intento a compiere. I pantaloni erano corredati da bottoni laterali. Ve ne erano presenti quattro per lato, dall’altezza del ginocchio sino alla caviglia. La maglia non presentava invece cerniera, ma era comprensiva di cappuccio, che Alessandro teneva riverso sulla schiena. Non aveva orologio al polso. Con la mano destra reggeva malvolentieri e con scarsa perizia un pennello. Anche se in questo genere di attività si era già dilettato con discreto successo, ma probabilmente era proprio la malavoglia a deprecarne l’efficienza. Alla sua destra, poco distante, si trovava un bidone di latta per un quarto pieno di tinta bianca, fortemente coprente, lavabile per esterni. Sotto i piedi, e attigue al perimetro del muro, aveva sistemato alcune pagine di giornale per evitare che gli schizzi di tinta imbrattassero il pavimento. E, senza abbandonarlo del tutto, ma piegando svogliatamente in avanti il polso, e tendendolo con noncuranza alla punta del manico, Alessandro si voltò
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distogliendo la propria attenzione dal muro e rivolgendola alla fonte emittente che ormai gli era giunta innanzi, mentre il pennello gli penzolava dalla mano. “Ma se è già la quarta mano che gli passo! Ancora un’altra?”, gli disse senza sollevarsi, probabilmente le sua gambe erano piuttosto indolenzite per via della scomoda postura. “Ma...guarda un po’ lì, per esempio!”, gli indicò col dito indice della mano destra il prete. “Non si intravede forse una g?”, gli fece notare. Alessandro si tirò su sbuffando, sempre mantenendo mal saldo il pennello con la mano, e anzi, passandoselo da una mano all’altra. Si avvicinò al muro e con fare ironico quasi si attaccò col muso al punto dove don Alfonso Maria aveva suggerito si intravedesse ancora una scritta. “Dove? Io qui non vedo niente…”. Il prete con uno scatto repentino gli posò la mano sul capo e lo spinse leggermente, quel tanto che bastò per fargli toccare il muro col naso. “Ahia! Ma cosa fai?”, si divincolò Alessandro lasciando cadere il pennello e toccandosi il naso con la mano. “Guarda! Mi hai pure fatto sporcare!” “E guarda tu, invece, il muro. Quello si che è stato sporcato, tu puoi sempre lavarti da solo, ma lui ha bisogno delle tue mani, almeno altre due direi.” Alessandro si voltò verso il muro e vide un cerchio ed una linea curva ad esso attigua, che ad una più attenta valutazione potevano ricordare proprio la lettera g. Sbuffò. “Per oggi hai ancora un’ora di lavoro. Ti consiglierei di darti un po’ più da fare. E….”, gli disse il parroco allontanandosi, “….raccogli quel pennello e fai sparire quella tinta dal pavimento. L’avessi almeno fatto cadere sui giornali!”. Alessandro raccolse il pennello e borbottò. Tre ore al giorno, per sei giorni la settimana, per sei mesi. Questa almeno era la prima parte del progetto che lo vedeva coinvolto. Una volta posta a valutazione questa prima parte, chi di dovere avrebbe stabilito se procedere o meno col resto della “punizione”. Il lavoro che ora Alessandro si trovava a dover portare a termine era il frutto delle azioni compiute quella notte in cui si rese, insieme ai suoi amici, reo di azioni che la legge definisce reati e che la società tutta denigra. Oltretutto, se si tiene conto del fatto che l’auto che Alessandro quella notte rubò e guidò era di proprietà di don Alfonso Maria, si evince quanto forte si fosse fatto il legame tra i due, e non solo in virtù dei doveri di riparazione del danno dei quali Alessandro dovette necessariamente farsi carico. Ed in quanto ai danni, Alessandro ed i suoi amici non ne procurarono solo alla parrocchia, ma 89
anche ad un istituto scolastico, tralasciando le condizioni oltraggiose in cui era ridotta piazza ultrà e la faccenda della prova degli schiaffi all’uscita della discoteca; per cui , resosi volontariamente capro espiatorio, in virtù anche dei diversi capi d’imputazione a carico di Riccardo, si trovava costretto a lavorare, per due di quei sei giorni settimanali, oltre che nella parrocchia, anche nella scuola elementare, sino al completo pagamento di tutti i vetri infranti. “Ho finito, per oggi….”, disse entrando in sacrestia, spargendo intorno a se crosticine di tinta secca e polvere varia. Stramazzò su una sedia davanti alla scrivania. Ansimava e sbuffava. “No, no no!”, lo tirò su, infilandogli le braccia sotto le ascelle, don Alfonso Maria. “Ma che scherzi? Ma lo sai che questa è una Venanzelli originale?”, gli disse il prete mentre era intento a spolverarla dalle impronte di tinta lasciate da Alessandro, che lo guardava, leggermente sbigottito, grattandosi la testa. “Vena che?”, gli chiese. “Sono un regalo del signor Barone!”, gli rispose il parroco, facendosi serio. “Ah, già….del signor barone…”, digrignò i denti Alessandro. “E’ sempre stato bravo a regalare poltrone alla gente…”, aggiunse. Benedetta che era appena entrata nella sala per sistemare alcuni paramenti nell’armadio sbottò in una sonora risata. Don Alfonso Maria la fissò quasi a rimproverarla con lo sguardo. “Beh, che c’è?”, si sorprese lei. “Era una battuta molto pungente!”, disse uscendo dalla sacrestia e continuando a ridacchiare. “Tuo nonno ti vuole bene.”, gli disse il prete. Alessandro commentò con una smorfia che sarebbe stato assai arduo interpretare. “E’ certamente una persona difficile. Non è semplice andarci d’accordo. Ma è molto preoccupato per te.” “Non la conosci la storia. Non lo sai cosa vuol dire essere suo nipote. Ma non mi va di parlarne. Me ne vado”, disse voltandosi e guadagnando la porta. “Ma come? Niente sfida, oggi?”, lo bloccò sulla soglia don Alfonso. “L’hai già caricato?”, si informò Alessandro. “Certo, ci stavo giocando fino ad ora.” “Allora ok! Cosa ci giochiamo stavolta?”
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I due ingaggiarono una furente sfida al calcio virtuale con la consolle del parroco, che come al solito aveva la peggio. Erano soliti scommettere qualcosa per rendere le partite più interessanti e caricarne maggiormente il senso agonistico. Il buon parroco aveva provato a mettere sul piatto strumenti di fede quali libri sacri, testi di catechismo e opere sulla vita dei santi, nella speranza che potessero essere di monito ed insegnamento al ragazzo, ma lui non si era trovato molto d’accordo e, tanto sicuro della propria abilità e, per niente preoccupato per una eventuale sconfitta, aveva rilanciato con un supplemento dei lavori che già era tenuto a compiere ed in cambio al prete chiese ben altro. “Goooooooooaaaaaalllllll!”, Alessandro si alzò dalla sedia ed inscenò un balletto davanti al prete, con un tale movimento ondulatorio del corpo che, se nella stanza vi fosse stata Benedetta, probabilmente sarebbe arrossita. “Mi sa che ho vinto di nuovo. Pagare!”, gli disse tendendogli la mano aperta col palmo verso l’alto. “Si, però così le sto finendo. Cosa dirò ai fedeli?” “Non lo so, sono problemi tuoi, inventati una buona scusa.” Posta in palio decisero che sarebbero state le particole non ancora consacrate. Alessandro aveva sempre adorato quel particolare sapore e quella piacevolmente fastidiosa sensazione di sentirsele incollate al palato mentre le lasciava squagliare lentamente in bocca. “Tieni…100 grammi.” “La prossima volta raddoppiamo la posta!”, inveì tracotante Alessandro, prendendogli la busta dalle mani. “Non dovresti permettergli tutta questa confidenza.”, gli disse Benedetta entrando nella sala. Alessandro era appena uscito. “E’ un bravo ragazzo…”, sospirò il prete. “Appunto, ti dovrebbe più rispetto.” “Non è certo dal comportamento convenzionale che si giudica o meno il rispetto…” “Sarà….”, fece spallucce Benedetta mentre spolverava l’aspersorio. Attraversato il portone, Alessandro la trovò che fissava il muro. “Mi pare ci voglia almeno un’altra mano di vernice qui!”, commentò Rossella con una mano ad accarezzarsi il mento. “Dopodomani, domani sono alle scuole.” “Ah, già, è vero!” 91
“Ok, ciao.”, le disse superandola. “Domani passo a casa vostra, e ringrazia che ti avverto.”, gli disse Rossella. “Che gentile…”, sorrise Alessandro. Era un sorriso sincero. “Guarda che ti sta aspettando in macchina.”, aggiunse lei. “Grazie, lo so. Non salta un giorno. Anselmo è bravo nel suo lavoro.” Anselmo era la guardia del corpo che il Barone aveva affidato ad Alessandro. Solitamente una guardia del corpo ha la funzione di salvaguardare l’incolumità di qualcuno, la protezione del quale gli viene affidata; il più delle volte si tratta dei cosiddetti “vip”, attori, cantanti, personaggi dello spettacolo o del mondo del business, o comunque persone di elevata rilevanza sociale. La funzione di Anselmo, però, più che di guardia del corpo era, nei confronti di Alessandro, appunto di guardia. Suo compito era sorvegliarlo e controllarne le azioni ed i movimenti. Il signor Barone gli aveva infatti affidato il compito di scortarlo nei luoghi dove era stabilito che andasse. O, più esattamente, doveva impedirgli di andare dove avrebbe voluto ma non avrebbe dovuto, e cioè alla piazza dove sostavano i suoi amici. “Ciao, Anselmo.”, lo salutò educatamente appena entrato in macchina. Si sistemò sul sedile posteriore. “Buonasera, signorino Alessandro. E’ in ritardo. Stavo valutando l’opportunità di recarmi all’interno della struttura ecclesiastica onde richiamare la sua attenzione alla precisa esecuzione del mandato datomi dal signor Barone.” “Si, scusami. Mi sono trattenuto un po’ col parroco” Al loro primo incontro Alessandro non lo salutò, e si comportò con lui in maniera piuttosto scortese. Anselmo allora lo guardò stringendo leggermente gli occhi e gli disse, con una voce lenta e glaciale: “Signorino, mi è stato affidato il compito di dedicarmi alla sua persona, ma questo non sta a significare che accetterò di essere offeso in alcun modo.” Da quel preciso istante il comportamento di Alessandro nei suoi confronti cambiò radicalmente. “Buona serata e buona notte, signorino Alessandro”, lo salutò Anselmo aprendogli lo sportello. “Anche a te. Ci vediamo domani per andare a scuola”. Alessandro aprì la porta di casa ed entrò. “Ciao, delinquente…”, lo salutò la madre. “Ciao, alcolizzata…”, le rispose lui, sedendole accanto sul divano. 92
Lei chiuse il libro che stava leggendo e se lo appoggiò sulle cosce. Lo guardò ed accennò un sorriso. “Come sono andati i lavori di pittura, oggi?”, si voltò verso di lui, incrociando le gambe sul divano e adagiandovi in mezzo il libro. Alessandro lo prese in mano e guardando la copertina disse: “Umh…Bere, problema sociale….ti stai impegnando, vedo!”, e annuiva aggrottando le sopracciglia e arricciando le labbra. “Brava, brava, così si fa!” “Dai qui, stupidotto!”, gli disse lei strappandogli il libro di mano, ma dolcemente, e portandoselo al seno, stringendoselo al petto con le mani incrociate. “Lo sto facendo per te!” “Si, si…diciamo piuttosto che ti sei un po’ ca**ta sotto dopo quello che è successo!”, sghignazzò Alessandro. Marianna bofonchiò la parola “str**zo!” abbassando il capo. Alessandro la vide rattristarsi. Le si inumidirono gli occhi. “Dai, scusa…”, le disse accarezzandole i capelli. Marianna sollevò il capo, accennò un sorriso, ma i suoi occhi erano ancora umidi. “Devo ancora dare una mano di vernice, poi il muro sinistro dovrebbe essere finito. Domani invece mi tocca alla scuola.”, le disse. “Sono passate solo due settimane, ne hai di tempo per pentirti.” “Già…”, Alessandro fece spallucce. “E la tua seduta come è andata?”, le chiese. “Bene, grazie. Il mio sottogruppo è fatto di gente in gamba. Siamo in quattro. Ah, si…”, Marianna si alzò di scatto e prese in mano la sveglia che stava sulla mensola. “E’ ora, devo chiamare Livio!”, esclamò. “Chi è questo Livio?”, chiese Alessandro sospettoso. “E’ uno del mio gruppo. Il moderatore ci ha proposto diverse forme di collaborazione. Noi per ora abbiamo scelto di chiamarci l’un l’altro per sapere come stiamo e se stiamo bevendo. E’ una sorta di supervisione. Prima che rientrassi tu mi ha chiamato Simona. Ora io chiamo Livio, poi Livio chiama l’ultimo. Una specie di catena telefonica. Capito?”, gli chiese Marianna con la cornetta in mano mentre componeva un numero sulla tastiera. “Carino…”, soppesò il commento Alessandro. “Vado in camera, ora ti lascio.” 93
Fu subito dopo che entrò in camera sua che il cellulare che aveva nella tasca squillò. Alessandro rispose senza nemmeno preoccuparsi di immaginare chi potesse essere a chiamarlo. Quel numero di telefono lo conosceva una sola persona. La stessa che gli aveva regalato quel telefono. La stessa che aveva dato a quel regalo un significato piuttosto particolare. “Pronto…”, sospirò Alessandro. “Ciao, figliolo….”, disse fiera la voce dall’altra parte. “Ciao, nonno…..”
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Flashback
Salirono in due auto separate. In momenti distinti. Per Alessandro si attese che i medici del pronto intervento giunti con l’ambulanza dessero il loro assenso. “Non è troppo profondo come taglio. Sei stato fortunato. Te la cavi senza punti.”, gli disse l’infermiere mentre gli tamponava un’ultima volta la ferita. “Dottore, è tutto a posto? Possiamo procedere?”, gli chiese un poliziotto. “Si, non è niente, non c’è nessun tipo di trauma. È stata una botta leggera, diciamo pure di si.”, rispose il dottore ammiccando all’infermiere. “Accomodati.”, gli dissero. Fu trattato con estrema gentilezza. Intanto tutt’attorno una folla di curiosi aveva riempito piazza ultrà noncurante degli inviti a non sostare nei pressi delle volanti fatti dagli agenti. Riccardo fu portato subito via, una volta disarmato ed immobilizzato. Alessandro lasciò il campo detto di “zio Tonio” dopo qualche decina di minuti. Dopo che il carro attrezzi ebbe portato via la macchina. Le altre due le trovarono poco distanti. Nessuna traccia dei conducenti. E nessuna traccia nemmeno degli altri partecipanti alla gara. Sirene che lampeggiavano, un sottofondo composto dal vociare della gente e dal suono metallico delle voci dalle radio delle volanti, con fruscii e bip intermittenti. Alessandro parve barcollare mentre sedeva nell’auto. “Tutto bene?”, gli chiese l’agente sedutogli al fianco. “No…”, rispose secco lui. “Già…l’avete fatta grossa.”, commentò il poliziotto.
Si ritrovarono nella stessa stanza. Seduti uno accanto all’altro. Nessuno dei due parlava. Quando ad Alessandro fu detto di sedersi, Riccardo si trovava già dentro. Non erano soli. Con loro c’era pure un’agente. La donna aveva provato a fargli alcune domande, ma appurata la loro reticenza decise di non insistere. Riccardo aveva le manette ai polsi. Li teneva sopra le cosce. Alessandro manteneva la sua stessa postura. Ma non aveva le manette. In compenso aveva la fronte tumefatta. Un uomo vestito in giacca e cravatta entrò nella stanza accompagnato da due poliziotti. “Agente, lei può andare; grazie”, le disse l’uomo elegante. “Agli ordini!”, rispose pronta la poliziotta, uscendo dalla stanza. 95
Teneva in mano una busta di cellophane. Dentro la busta c’era una pistola. Riccardo trasalì appena la vide. Alessandro alzò leggermente il capo per poi riabbassarlo, quasi incurante. I due stavano seduti su due sedie con lo schienale attaccato al muro.
“Sedetevi qui…”, l’uomo li invitò a sedersi di fronte alla scrivania dietro la quale stava seduto lui. I due agenti stavano in piedi uno alla sua destra ed uno alla sua sinistra. “Io sono il commissario Monti. E fino a poco fa me ne stava tranquillo a casa mia a farmi i fatti miei. Poi mi chiamano dalla centrale e mi parlano di un ragazzino armato di pistola. E mi dicono pure che questa pistola ha sparato!”, gli disse guardandoli dritti negli occhi. “Mi piacerebbe dirvi che è un piacere fare la vostra conoscenza, ma non lo è. Le notizie delle vostre bravate mi sono giunte alle orecchie già da tempo. Lampioni rotti, schiamazzi notturni, cassonetti dati a fuoco, un po’ di spaccio. Piccole cose in effetti. Siete tutti dei bravi ragazzi, provenite da buone famiglie. Niente a che vedere con la teppaglia che proviene dalle case. Solo che questa volta avete deciso un po’ di esagerare, o mi sbaglio?” Alessandro e Riccardo per una frazione di secondo si voltarono l’uno verso l’altro incrociando gli sguardi. In quell’istante un altro agente entrò nella stanza dopo aver bussato. “Commissario, ecco. Le famiglie sono state contattate.”, riferì al commissario Monti porgendogli un foglio piegato in due. Il commissario aprì il foglio, lesse con gli occhi, e quegli occhi con cui stava leggendo strabuzzarono leggermente. Alzò lo sguardo dal foglio e guardò Alessandro per alcuni secondi, trattenendo a stento una smorfia. “Disponga…”, aggiunse il poliziotto. “Trasferiscilo nell’altra stanza, in attesa di disposizioni.” Alessandro fu cordialmente invitato dall’agente a seguirlo in un’altra stanza. Mentre usciva riuscì a sentire il commissario che chiedeva a Riccardo “Ora mi farai il favore di parlarmi di questa pistola”, poi la porta si chiuse alle sue spalle.
Per diversi minuti, nella stanza, Alessandro restò solo. In silenzio. E probabilmente impiegò quei minuti per ripensare a quanto accaduto. A quanto compiuto. Un orologio a muro scandiva lento e impertinente i secondi che passavano. Alessandro respirava sommesso. Teneva la testa bassa a guardare il pavimento attraverso le proprie gambe divaricate. 96
“Ale…”, disse tra le lacrime Marianna, appena aperta la porta. Si tratteneva, complesso stabilire dal fare cosa. Se dal prenderlo a schiaffi o abbracciarlo fortissimo. Chiuse la porta dietro di se e resto lì ferma per qualche altro minuto. Piangeva. Poi smetteva, poi iniziava nuovamente a piangere. Alessandro continuava a tenere la testa bassa. Aveva gli occhi tristi ma non stava piangendo. Marianna gli si avvicinò. “Perché…”, sussurrò, poggiandogli una mano sulla spalla. Seguì un nuovo lungo silenzio, durante il quale lei mantenne la sua mano sopra la sua spalla e lui mantenne la testa china e gli occhi tristi ma non lacrimanti. “E’ colpa mia…”, disse Marianna sollevando la mano ed appoggiando la schiena al muro, poi lasciandosi cadere strisciandoci contro, ritrovandosi seduta sul pavimento. Si mise le mani tra i capelli ed infilò la testa tra le gambe. Piangeva. “E’ colpa mia….”, ripeté ancora. “E’ colpa mia…è colpa mia…è colpa mia…”. Lo ripeteva. Ancora e ancora e ancora. Con voce sempre più rotta dal pianto. Con le parole che le uscivano di bocca sempre più sofferte. Con un sempre più sguaiato e fastidioso tirare su col naso. “E’ colpa mia….”, lo ripeté per trentasette volte. “Basta, mamma…ti prego…”, le disse Alessandro, quasi sottovoce. Piangeva. “Sono una madre di m**da! E’ solo colpa mia…”. Trentotto volte. “Non è vero mamma…”, disse Alessandro alzandosi di scatto e chinandosi su di lei. Prima le mise entrambe le mani tra i capelli, dopo averla leggermente costretta a tirare su il capo, a scoprirle il viso. Poi le asciugò le lacrime con entrambi i pollici delle mani. Poi la abbracciò. Era da tanto che non era così fisicamente affettuoso con la madre. L’agente entrò nella stanza proprio in quel momento. “Mi scusi, signora…”, fu però molto cordiale, e quasi forse imbarazzato. “Mi segua, il signor commissario vorrebbe parlarle.”, le disse
Il commissario Monti era una persona dall’elevato senso civico. Nei bagni pubblici era sempre solito sollevare la tavoletta prima della minzione, e non sopportava di trovarla non perfettamente linda quando vi entrava. Quando Marianna entrò nella sua stanza, seguendo il gentile gesto del poliziotto che la aveva accompagnata, che aveva aperto la porta e le cedeva il passo indicandole di entrare, con il braccio teso in avanti, vide che il commissario non era solo. In piedi, davanti alla 97
scrivania c’era un uomo che da tanti anni non vedeva, e che per tanti anni ancora avrebbe voluto continuare a non vedere. “Buongiorno, signora Francia…”, disse l’uomo avvolto nel soprabito nero. Non la aveva mai chiamata per nome, e mai le si era rivolto dandole del tu, e mai e poi mai la aveva chiamata col cognome del defunto marito. Il suo stesso cognome. “Signor Barone…”, trattenne il fiato Marianna.
Quando la mattina seguente Rossella entrò in ufficio trovò un fax sulla sua scrivania. “E che ca**o!”, gridò dopo averlo letto. E poi aggiunse: “Str**zo! Stron**! St***zo!”, e lo ripeté per quarantaquattro volte. Una sua collega la guardò stupita: “Problemi, Rosy?”, le chiese. “Quell’ idiota del nipote del Barone!”, le rispose stringendo forte il foglio nel pugno e accartocciandolo miseramente.
Alessandro era molto elegante. Giacca e cravatta. Abito in tinta unita. Nero. Scarpe lucidate di fresco. Con stringhe perfettamente annodate. Il Barone aveva incaricato il suo stilista personale, il noto Giorgio Armadi, perché l’abito fosse realizzato su misura. Alessandro dovette raggiungere la boutique dello stilista nella capitale affinché questi potesse prendergli personalmente le giuste misure. Lo fece volando sull’elicottero personale del Barone. Dell’abito di Marianna, invece, il Barone non si curò. Alessandro e Riccardo furono processati in due momenti distinti. Il Barone compose personalmente i numeri di telefono e alle persone che risposero a quelle telefonate parlò in modo cortese, fermo e deciso. Il decorso giudiziario venne così accelerato. Non riuscì però ad evitare che la notizia fosse pubblicata da un giornale locale. Una breve nota apparve anche su un settimanale finanziario nazionale. L’ufficio stampa della B. I. C. “Buddenbrook Industrial Corporation” fece passare la notizia in secondo piano annunciando la conclusione di un importante accordo economico. Dopo pochi giorni già nessuno nell’ambiente finanziario rammentava l’accaduto. Nell’aula delle udienze, al pian terreno del palazzo che ospitava gli uffici e le stanze del Tribunale per i Minorenni, erano presenti sedici persone: Alessandro e Marianna, il signor Barone e la signora Contessa, Rossella e Sara, la sua omologa del Ministero della Giustizia, i quattro giudici, il cancelliere e la verbalizzante, ed i tre avvocati che il signor Barone aveva incaricato della difesa di Alessandro, ognuno dei quali guadagnava in 98
un’ora di lavoro quanto un operaio di una delle imprese del Barone guadagnava in un mese. Al termine del dibattimento, che si svolse piuttosto in fretta, e senza interruzioni per la pausa caffè, i giudici si ritirarono in camera di consiglio. Ne vennero fuori dopo quarantatre minuti.
Quando Alessandro aprì gli occhi, vide l’uomo avvicinarsi ed aprire lo sportello. Non si rese subito conto che si trattava di un poliziotto. Percepì lo spostamento d’aria e sentì che una mano lo toccava. “Mi senti, ragazzo? Mi senti?”, gli chiedeva la voce. “O ca**o!”, pronunciò con voce flebile Alessandro facendo leva sui gomiti contro il cruscotto mentre con le mani stringeva ancora forte il volante. Cercò di sollevarsi. Il poliziotto interpretò le sue difficoltà e lo sostenne facendo in modo che poggiasse la schiena sul sedile senza che la sua testa sobbalzasse. “Stai calmo, non fare movimenti bruschi. Sta arrivando l’ambulanza.”, la voce dell’agente era calma ed amichevole. Alessandro chiuse gli occhi ma si impose di non svenire. Restò in quella posizione per qualche minuto. Poi sollevò il braccio destro e si portò la mano alla fronte. Digrignò i denti con una smorfia di dolore, accarezzandosela. Si portò la mano davanti agli occhi e la guardò sporca di sangue. “Me**a!”, disse portando la testa all’indietro e sbattendo leggermente sul sedile con la nuca.
Marianna restò in piedi al centro della stanza, quando si trovò da sola col commissario Monti ed il Barone. “Lei è sempre stata una pessima madre! E questa ne è la prova.” Oltre che immobile, restava in silenzio, mentre il Barone parlava. “Farò tutto quanto è in mio potere per fare in modo che si ponga fine al pregiudizio grave nel quale mio nipote è costretto a vivere. Con una genitrice talmente inadatta da non essere in grado di sorvegliarlo nelle sue amicizie e frequentazioni, sino al punto da permettere che si verifichino tali accadimenti incresciosi. Mai, nella centenaria storia della nostra dinastia, un Buddenbrook ha subito una simile onta. E lei ha creato, con la sua condotta moralmente deprecabile, e la sua inettitudine di madre, i presupposti perché il mio unico erede fosse sottoposto al pubblico ludibrio. Conosco purtroppo la sua natura e so che le è sconosciuto il significato della parola vergogna. Ma è con questo sentimento 99
che ha macchiato l’onore della mia famiglia. Non ho bisogno di minacciarla. Ma presto rimedierà a tutti i suoi errori pagando a caro prezzo i torti che abbiamo dovuto subire.” “Signor, Barone, la prego di mantenere un certo contegno”, lo invitò con gentilezza ed un pizzico di riverenza il commissario. “Mi sono oltremodo contenuto, signor commissario. Fossi stato un altro tipo d’uomo, mi sarei comportato come forse sarebbe stato giusto fare.”, disse il Barone sistemandosi i guanti di pelle nera che indossava.
Rossella si sedette mentre ancora tremava leggermente. Il telefono squillò. “Potresti rispondere tu?”, chiese cortesemente ad una collega. “E’ una collega dal Ministero…”, le disse lei passandole la cornetta, dopo aver risposto. “Pronto?”, chiese Rossella portandosi la cornetta all’orecchio. “Ciao, Rossella, sono Sara, non so se ti ricordi ci siamo sentite alcune volte al telefono per il caso di qual ragazzino rom”, rispose. “Si, si, ricordo. Come stai?” “Tutto bene, grazie. E lì da voi che aria si respira?”, le chiese Sara. “Lasciamo stare che è meglio. Ci fosse un servizio che funziona in grazia di Dio…Immagino che tu mi stia chiamando per…” “Buddenbrook…”, la anticipò. “Esatto. Ho appena ricevuto il vostro fax…”, le disse prendendolo in mano. “Senti, io non la conosco la situazione. Oddio, il nome si. E guarda che ne farei volentieri a meno. Bella rogna. E poi una procedura del genere non l’avevo mai vista…” “Non ti stupire. In questi anni ne ho viste di procedure particolari…Non è un caso come tutti gli altri. Diciamo che è un caso…piccolo…”, Rossella rise. “Eh, si…”, le fece eco la collega, “...proprio un bel cas**o!” “E’ il caso che ci vediamo. Ce la fai a passare in ufficio stamattina?” “Si, tra mezz’ora sono lì!” “Va bene, a dopo. Ciao” “Ciao”, salutò Sara. Rossella abbassò la cornetta “Che situazione del c**zo!”, sbraitò.
Quando Alessandro lo incontrò di nuovo, erano ormai passati alcuni mesi dall’ultima volta. Quasi forse non aveva più memoria di cosa si fossero detti. O si era sforzato per 100
riuscire a dimenticarsene. Il Barone aveva preteso un incontro in privato, senza la presenza di Marianna. Lei aveva obiettato vivamente. Fu la Contessa a proporre che si chiedesse il parere di Alessandro a riguardo. Lui acconsentì. “Va bene, così, mamma. Non ti preoccupare.”, le disse, stringendole le mani tra le sue. “Ma…”, accennò un’obiezione Marianna. “Mamma…è già un ca**no così com’è! Non è il caso che lo indispettiamo. Non so quanto e cosa può fare adesso che gli ho regalato questa scusa….”, deglutì. “Mi dispiace…”, le disse trattenendo le lacrime. “Tuo padre sarebbe orgoglioso di te…”, disse lei accarezzandogli il viso, “L’hai presa da lui la capacità di comprensione…” Si ritrovarono in camera sua. Loro due soli. “Non ero mai entrato in questa stanza”, commentò il Barone, in piedi di fronte al letto sul quale era seduto Alessandro. Lui teneva lo sguardo basso. “E’ passato tanto tempo dall’ultimo nostro incontro. Passa sempre troppo tempo”, il Barone si sfilò i guanti e li poggiò sulla scrivania. Strinse i pugni e si portò le mani giunte dietro la schiena, in una posa fortemente austera, col busto ben ritto, il capo lievemente chino verso il nipote, il piede destro di poco avanzato rispetto al sinistro. La Contessa rimase in macchina per tutto il tempo. Non prese nemmeno in considerazione l’idea di accomodarsi in casa. Il Barone fu alquanto chiaro con lei riguardo al fatto che volesse incontrare il nipote in privato, e lei non avrebbe di certo gradito di trovarsi da sola con la tanto disprezzata nuora. Ingannava il tempo leggendo un libro intitolato “Il galateo dei nobili”, ridacchiando sottovoce, portandosi una mano sulla bocca e sollevando lo sguardo verso l’autista, per testarne la reazione. Se questi si fosse voltato anche solo una volta, anche solo con una leggera torsione del collo, ma anche lo avesse fatto involontariamente, probabilmente la Contessa avrebbe chiuso il libro, smesso di leggere e smesso di ridere. “Non ti preoccupare di niente. Ho pensato io a tutto. Finirà tutto in una bolla di sapone. non c’è niente da temere”, gli disse il Barone. “Grazie, nonno…”, disse con flebile voce Alessandro. Subito dopo aver pronunciato quella frase si morse il labbro inferiore. “Io e la Contessa avremmo piacere che tu venissi a farci visita con maggiore frequenza. Tua nonna sente moltissimo la tua mancanza. La stanza che fu allestita per ospitarti in passato è sempre stata mantenuta pulita ed ordinata. Ti lascio il giusto tempo per pensarci. Attenderò una tua risposta” 101
“Ci penserò…”, gli disse Alessandro sollevando lo sguardo ed accennando un sorriso senza riuscirci.
“Ci penserò?”, Marianna dimenava le mani in maniera sguaiata. Camminava avanti e indietro davanti a lui. Ogni tanto agitava un pugno chiuso contro la parete. “Ma come si può essere più str**zi? Ci penserò? A cosa devi pensare, eh?”, gli strinse il mento con le mani e gli si appiccicò col naso contro il suo, “A cosa ca**o devi pensare?” . Alessandro non opponeva resistenza a quella presa, neanche quando, continuando a stringerlo a quel modo, gli strattonava la testa a destra e sinistra ripetendogli ancora quella stessa domanda. “Tu non sei una cattiva madre….”, le disse all’improvviso. Lo disse sottovoce, ma nonostante tutto, nonostante lei stesse gridando come un’ossessa e non gli stesse prestando attenzione, comunque lo sentì. E lasciò la presa. “Ale…”, gli disse prima di scoppiare in lacrime, inginocchiandosi di fronte a lui e cingendogli le ginocchia. “L’ho promesso a papà…che ti avrei protetta…anche da loro…”, le disse, accarezzandole i capelli.
“Questo è tuo, mi permetterà di tenermi sempre in contatto con te!”, gli disse il Barone porgendogli un telefono cellulare. “La scheda è già stata attivata. Ho già in memoria il tuo numero”, aggiunse. Alessandro se lo rigirò per qualche istante tra le mani, incerto tra il lasciarselo cadere o il ringraziare. “Gr...grazie..”, balbettò, optando per la seconda ipotesi. La Contessa nemmeno in quell’occasione scese dall’auto. “Attenderò che sia pronto e che decida lui stesso di avvicinarsi a me…”, rispose al Barone quando questi le chiese di essergli vicino nell’incontro col nipote.
Nei primi giorni Alessandro, non essendone ancora avvezzo, era solito lasciare il telefonino a casa, per ritrovare puntualmente, ogni giorno, quando gli capitava di guardarlo, impressi sul display, gli avvisi di chiamate perse in numero mai inferiore a sette. Decise così di portarlo con se, onde evitare i mugugni del nonno che alla prima occasione era solito non mancare di rinfacciargli quanto si fosse per lui prodigato 102
nell’occasione a lui ben nota. E fu proprio in occasione del primo giorno in cui attuò tale proposito che il telefono squillò quando era appena uscito da scuola e si accingeva a prendere la via di casa. “Oddio, ma che ca**o vuole?”, protestò Alessandro mimando un gestaccio con la mano. “Pronto?”, rispose cercando a stento di trattenere il proprio fastidio. “Sono il nonno.” “Ciao.”, si costrinse a rispondergli Alessandro. “Anselmo ti sta aspettando di fronte al cancello.”, gli disse il nonno. “Anselmo chi?”, chiese stupito lui voltandosi verso il cancello e notando il burbero figuro che, accanto ad una lussuosa berlina blu coi vetri scuri, gli faceva cenno con la mano.
“Buongiorno, tu devi essere Alessandro.”, gli disse Don Alfonso Maria tendendogli la mano. Alessandro gliela strinse gentilmente. Rossella gli posò una mano sulla spalla. “Mi hanno parlato molto bene di te. Mi hanno detto che sei un bravissimo ragazzo”, proseguì il prete sorridendogli. Alessandro abbassò leggermente gli occhi. “Tutti possiamo sbagliare. Anzi tutti lo dobbiamo fare. Ricorda che Dio si è fatto carne nel Cristo suo figlio proprio per salvare i peccatori. E lontana sia da noi la superbia di non esserlo. L’importante è che ad ogni errore segua il pentimento, un pentimento sincero. L’importante è che conseguenza di ogni errore sia un’evoluzione. Tu non sei qui perché sei stato punito. Penso che la signora Rossella e la signora Sara te lo abbiano ampiamente spiegato. Tu sei qui perché ti è stata concessa la possibilità di redimerti”, gli disse il prete sollevandogli amorevolmente il mento con una mano. Alessandro oppose una lieve resistenza, cedendo però subito dopo alla dolcezza di quel gesto. Rossella e Sara lo accompagnarono all’interno dei locali della parrocchia, mentre don Alfonso Maria riepilogava quali lavori era necessario che svolgesse, sottolineando la priorità del ripristino della facciata della chiesa che, volutamente, non era stata riverniciata, considerato che il prete, messo a conoscenza in tempi brevissimi dell’arresto dei colpevoli, aveva subito caldeggiato, parlandone col giudice, la decisione che poi il Tribunale effettivamente prese.
“In piedi”, disse il cancelliere con voce seria. Tutti si alzarono.
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Alessandro si voltò a guardare la madre, poi rivolse un veloce ma intenso sguardo anche a Rossella, che muovendo le labbra senza però parlare gli disse di stare tranquillo. Non si rivolse verso il nonno, che invece lo guardò, anche se per pochi istanti. Il processo si svolse due giorni dopo il fermo. In quei due giorni Alessandro dormì nella propria casa, ed il secondo giorno ricevette la visita del Barone. Il presidente prese la parola: “Il qui rappresentato Tribunale sancisce che, in merito ai fatti contestatigli, si applichi nei confronti dell’imputato il procedimento di Sospensione del Processo e messa alla prova. Pertanto il minore sarà affidato ai Servizi Sociali del Ministero della Giustizia e del Comune per quanto di loro competenza per la predisposizione di un progetto che preveda attività di mediazione tra colpevole e vittima, riparazione del danno, risocializzazione e reinserimento sociale. Ai fini della valutazione positiva della prova si fa divieto assoluto al minore, qui presente in aula, Buddenbrook Alessandro, di frequentare la piazza S. Gregorio Magno, da lui meglio conosciuta come piazza ultrà, che viene identificata come luogo di ritrovo del gruppo ritenuto deviante che egli frequentava e che viene valutato come rinforzo negativo per gli atti delinquenziali posti in essere. Il processo viene sospeso per mesi sei. Al termine di questo periodo sarà valutato il risultato della prova e sarà presa in considerazione la possibilità o meno di ripresa del procedimento. Con questo la seduta viene sciolta.”
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Oratorio
“Alza la linea mediana quando tiro da dietro! Te l’ho detto mille volte, deficiente!”, lo rimproverò. “Scusa, scusa! Non ci riesco col sinistro!”, si giustificò lacrimante il piccolo Federico. “Don Alfonso ma perché dobbiamo fare le squadre così? Non ci fanno niente con noi questi due pidocchi!”, protestava il dodicenne Manuel. “Le regole per partecipare al torneo sono queste. Un grande ed un piccolo per ogni squadra. O così o altrimenti non si gioca!”, sentenziò il parroco. Era stato organizzato un torneo di calcio balilla nei locali dell’oratorio della chiesa San Giuseppe. In dotazione alla parrocchia c’erano quattro “biliardini”. Erano previste due fasi. La prima organizzata in gironi eliminatori con scontri incrociati tra le squadre e classifica a punti. La seconda costituita da eliminatorie con scontri diretti. Regola fondamentale perché il torneo potesse avere luogo era che ogni squadra doveva essere composta da un under 11 in coppia con un over 11. Questo provvedimento era stato predisposto perché in passato, nei primi tentativi di organizzazione del torneo, e non solo, anche nei semplici momenti di gioco libero, i più grandi riuscivano in un modo o nell’altro a monopolizzare i biliardini senza lasciare alcuno spazio di gioco ai più piccoli. L’idea era stata di Alessandro, anche se la espresse involontariamente sotto forma di commento, borbottando tra sé, mentre era intento nei lavori di pittura delle panchine del piccolo parco interno agli spazi della parrocchia, dove i bambini che frequentavano l’oratorio svolgevano alcune attività di gioco all’aperto. “No, no!”, aveva protestato vivamente, “Cosa c’entrano le panchine? Abbiamo sporcato solo la facciata! Io qui non devo verniciare!”. “Nel progetto redatto dalle assistenti sociali, che tu stesso hai approvato e che tua madre ha controfirmato, c’è scritto chiaramente che tu ti rendevi disponibile alle esigenze della parrocchia a dimostrazione del tuo effettivo pentimento per l’insensatezza del tuo gesto! Ne ho una copia in ufficio, se vuoi la vado a prendere così la leggiamo insieme!”, gli rispose serafico don Alfonso Maria. Alessandro mugugnò per alcuni istanti. Poi sbuffò! “Lascia stare!”, gli disse Alessandro, “Io l’ho firmato perché non pensavo che te ne saresti approfittato! La gente si fida dei preti!”.
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“La gente si fida anche dei giovani come te, non ci pensa che possano andare in giro la notte a far disastri!”, gli disse sorridendo il parroco. “Uno a zero per il prete!”, gridò da non troppo lontano Benedetta. Don Alfonso Maria si lasciò andare ad una sonora risata. “Io non sto ridendo!”, si imbronciò Alessandro riprendendo in mano il pennello ed immergendolo nella tinta color blu. Don Alfonso Maria rise ancora più forte ed in maniera leggermente scomposta.
“Dovresti far giocare un grande ed un piccolo”, gli suggerì un giorno Alessandro, uscendo dalla sala dove oltre al calcio balilla i bambini avevano a disposizione anche giochi da tavolo ed il ping pong. Alessandro aveva appena finito di sistemare proprio uno dei biliardini ed in mano teneva alcuni cacciavite. “Pensi che risolverebbe il problema?”, gli chiese il prete quasi illuminandosi. “Altrimenti non li fanno mai giocare!”. Alessandro gli indicò col dito il piccolo Federico che invano cercava di conquistare una delle stecche mentre quattro ragazzi, di età tra gli undici ed i quattordici anni, lo schernivano proseguendo comunque, incuranti delle sue suppliche, nella loro sfida. “Bene!”, gridò il prete fregandosi le mani, tanto che Alessandro sgranò gli occhi quasi a volersi estraniare da quel gesto improvviso. “Vorrà dire che te ne occuperai tu!”, gli disse don Alfonso Maria posandogli vigorosamente una mano sulla spalla e battendogliela alcune volte compiaciuto. “Cosa?”, Alessandro dimenò le mani in maniera tanto sconnessa che fece volare per aria i cacciavite. “Stai un po’ attento!”, lo redarguì ridendo il prete, “Si! Te ne occuperai tu!”, confermò. “Ma occuparmi di cosa? Ma sei matto?”, gli disse toccandosi la tempia destra con l’indice della mano. “No, no! Sono sanissimo invece! Tu organizzerai il torneo! E….”, lo guardò dritto negli occhi facendosi serio, tanto che Alessandro trasalì lievemente, “…ti affiderò un compito piuttosto arduo!”, concluse il prete indicandogli due bambini che stavano in disparte, uno che saltellava e chiacchierava allegramente, l’altro seduto su un muretto, che pareva non starlo nemmeno ad ascoltare, immerso in un immobile silenzio. “Cosa dovrei farci con quei due? Il matto e la pulce! No, no, non se ne parla proprio!”, controbatté fermamente Alessandro. “Chi meglio di un disadattato può capire e coinvolgerne altri due?”, ammiccò il prete. 106
“Disadattata sarà tua sorella!”, sbottò Alessandro. “Ahia!”, gridò nell’istante immediatamente successivo, dopo che Benedetta, che passava lì vicino, lo colpì con forza schiaffeggiandogli il collo. “E zitto!”, gli disse con aria bonariamente minacciosa, ma al tempo stesso assolutamente seria, la donna portandosi il dito indice della mano destra dritto sulla bocca. Alessandro si voltò verso il parroco che non riusciva a trattenere le lacrime per quanto rideva. Il ragazzo gli diede le spalle e si allontanò senza commentare. “Mi raccomando! Voglio una cosa fatta bene! Ti ci devi impegnare! E voglio che quei due partecipino al torneo, capito?”, gli disse don Alfonso Maria tra una risata e l’altra. “Si, uffa! Che pa**e! Lo faccio! Lo faccio!”, sbuffava Alessandro allontanandosi.
Silvia gli si avvicinò silenziosa. Lui stava seduto su una delle panchine che tempo prima aveva riverniciato. Stava con le gambe incrociate, coi piedi sopra la panca. In mano aveva una matita, accanto a sé, sulla sinistra, una gomma per cancellarne i segni nel caso di eventuali errori o assai probabili ripensamenti. Poggiato sulle cosce aveva un notes a quadretti con fogli di dimensione A4. Sulla pagina aperta si potevano leggere parole ricorrenti come girone, squadra, eliminatorie. Lei gli si fermò davanti e, senza dire una parola, si sporse verso di lui chinando leggermente il capo sul foglio. “Non ti conviene prima fare il regolamento?”, gli chiese. Alessandro alzò leggermente il mento e con esso il resto del viso e la guardò appena per poi riconcentrarsi sul foglio. “L’ho già scritto.”, le disse poi. “Ah, si?”, quasi si stupì lei, “Sarei proprio curiosa di vederlo!”, sorrise sedendosi alla sua destra. “Uff!”, sbuffò Alessandro, “Ma non avevi proprio nient’altro da fare?”, le chiese in modo leggermente scortese. “No!”, rispose lei cingendogli il collo con entrambe le braccia, e con la bocca prossima al suo orecchio aggiunse: “L’ho promesso a me stessa….” “Promesso cosa?”, le chiese lui voltandosi verso di lei. “Di tenerti d’occhio!”, rispose facendosi seria.
Dopo essere stata trattenuta dai due poliziotti, quella notte Silvia rientrò a casa, considerato che nessuno dei ragazzi del gruppo era presente o accennava a raggiungere la piazza. Durante il tragitto e nei primi minuti che passò sdraiata sul letto prima di 107
addormentarsi pensò ad Alessandro, al modo in cui lui la trattava, e al perché, comunque, valesse la pena stargli accanto. Quando la mattina si svegliò era più serena e si preparò di tutto punto sapendo che lo avrebbe incontrato all’angolo della strada che l’aspettava per fare insieme con lei il tragitto per arrivare alla fermata del pullman. Silvia frequentava l’istituto magistrale, mentre Alessandro il liceo classico. I due edifici si trovavano a breve distanza l’uno dall’altro; Silvia infatti scendeva dal bus tre fermate prima rispetto ad Alessandro, anche se spesso lui le faceva compagnia sino al cancello principale per poi proseguire a piedi sino alla propria scuola, arrivando così, sovente, in ritardo. Quella mattina però Alessandro non arrivava. Silvia prese in mano il cellulare e digitò il suo numero di casa. Ma nessuno rispose. Si indispettì alquanto, prima ancora di preoccuparsi, la qual cosa accadde dopo alcuni ripetuti tentativi. Pensò che fosse semplicemente in ritardo, così chiudeva il telefonino, dopo che il segnale di chiamata si era interrotto per i troppi squilli senza risposta, e guardava ansiosa verso la propria destra, verso la strada dalla quale solitamente lo vedeva arrivare; ma dopo alcuni istanti di vana attesa riprendeva in mano il telefono e ripeteva quel rito angosciante. Pensò che Marianna fosse troppo ubriaca per poterle rispondere e che Alessandro era a pochi passi da lei, ma una irregolare palpitazione le interrompeva il respiro. Passò un’ora da quando arrivò al punto del solito appuntamento, e decise che non sarebbe andata a scuola quel giorno. E passò un’altra ora prima che decidesse di dirigersi verso casa di Alessandro. Ma non camminò che per qualche metro. Perché in quell’istante sopraggiunse Flavio in sella ad uno scooter. “L’hanno preso gli sbirri!”, le disse. Non passò nemmeno un istante prima che iniziasse a piangere inconsolabile.
“Quando me lo dai il tuo numero di cellulare? Sono stufa di chiamarti a casa. Anche se tua madre penso l’abbia capito che sono la tua ragazza, mi imbarazza un po’”, gli disse Silvia. “Soprattutto quando ti risponde da sbronza!”, ringhiò Alessandro. “Dai, adesso con tutto quello che è successo mi hai detto che si sta mettendo in riga”, commentò lei. “Già, a quanto pare…” “Allora me lo dai questo numero? Così ti posso mandare qualche messaggino carino…”, lo invitò dolcemente la ragazza.
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“Lo sai che non posso. Te l’ho detto. Non chiedermi come ha fatto, ma questo cellulare risponde solo al numero del barone. E non posso nemmeno fare chiamate”, sbuffò Alessandro. “Va bene! Allora vuol dire che te lo regalo io, così non hai più scuse!”, gli sorrise. Ora ti lascio, ho promesso a mamma che la aiutavo a sistemare in casa. Buon lavoro, amore mio”, lo baciò sulle labbra e si allontanò senza indugiare. Alessandro restò in silenzio, guardandola andar via. Silvia non si voltò. Aveva da tempo smesso di aspettare invano che le rispondesse “anch’io”.
“Ecco qua! Questo è il regolamento del torneo. Guardalo e dimmi se ti va bene!”, gli disse Alessandro. Don Alfonso Maria non gli diede nemmeno un’occhiata. “Sono sicuro che va benissimo. Ora mettiti al computer e stampane qualche copia. Poi vai in tipografia. Così facciamo qualche manifesto”. Alessandro si diresse verso il computer, borbottando sommesso. “Ah, quasi dimenticavo!”, aggiunse il prete. “Cosa c’è ancora?”, rispose sconsolato Alessandro. “Riverniciare la facciata, o le panchine…O risistemarmi la macchina. Non è questo l’importante. E non lo è nemmeno organizzare il torneo”, gli disse. “E allora perché caz…”, Alessandro si interruppe, sbuffò. “E allora perché me lo stai facendo fare?” “In tutto quello che tu stai facendo ora, in seguito a quello che hai fatto prima, non è importante cosa tu stai facendo, ma come, e per quale motivo. Per quale motivo pensi di essere qui a fare quello che stai facendo?”, gli chiese. “Ufff!”, si innervosì leggermente Alessandro, “Perché non lo sai?”, gli chiese a sua volta con tono sfottente, ma il prete lo redarguì con uno sguardo severo, anche se leggermente, e questo bastò per convincerlo a rispondere. “Sono qui perché sono stato punito per il cas**o che ho combinato! Sei contento, ora?”, rispose voltandosi stizzito. “No”, gli disse il parroco, tirandolo leggermente per le spalle, costringendolo così a voltarsi per guardarlo in faccia. “Tu non sei qui per essere punito”, gli disse, “Tu sei qui perché hai un’altra possibilità. Tu stai correggendo un errore. Ma non sarà il ridipingere una parete che lo correggerà. Perché questa per te è un’alternativa. Questa è una possibilità di cambiamento. Ed il 109
cambiamento avviene solo ad un livello interiore. Perché non basterà ciò che farai. Servirà ciò che sarai”, prese fiato, “Questo è il motivo per il quale tu sei qui. Non importa cosa stai facendo. Importa il come, e il perché lo fai. Per chi lo fai. Conta soprattutto questo.” “E per chi lo faccio?”, gli chiese sottovoce e con sguardo lievemente crucciato. Don Alfonso Maria gli posò dolcemente la mano sulla guancia. E gli sorrise, senza rispondere.
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Urla di incitamento ed incitamento ad urlare
Alessandro fece un lungo respiro. Congiunse le mani e strizzò gli occhi. Contemporaneamente strinse i pugni. Poi se li batté leggermente sulle cosce. “Andiamo!”, si disse da se, e procedette verso i due ragazzini. Cristian e Tommaso se ne stavano in disparte, come in quasi tutti i pomeriggi in cui frequentavano l’oratorio della parrocchia. Tutti i precedenti tentativi di coinvolgerli in una delle tante attività di gruppo e di gioco che gli altri bambini e ragazzi svolgevano non aveva sortito nessun positivo esito. Cristian, da parte sua, era piuttosto socievole, e facile al coinvolgimento, tant’è vero che, quando Tommaso non era presente - e questo qualche pomeriggio capitava - non era poi così difficile quantomeno spingerlo ad avvicinarsi agli altri mentre giocavano o stavano insieme, anche se poi raramente prendeva parte attiva alle attività, limitandosi ad osservare, sorridere e fare cenni d’approvazione. Ma quando stava insieme a Tommaso, non si trovava in alcun caso il modo di riuscire a coinvolgerlo. “Se non gioca lui, non gioco neanche io”, ripeteva sempre agli sconsolati operatori che provavano ad invogliarlo a raggiungere gli altri bambini. Con Tommaso invece si erano già arresi ormai da tempo. La stessa Rossella, di concordo con la psicologa che lo aveva in cura, si era pronunciata sul fatto che una espressività forzata sarebbe stata addirittura deleteria. Tommaso passava così le sue giornate all’oratorio a guardare gli altri giocare o, meglio, o volgere lo sguardo verso dove gli altri giocavano, e tenerlo fisso su un indefinibile punto. Alternativa a questo, per lui, era di trascurare Cristian, che al contrario aveva in Tommaso uno dei suoi massimi interessi, e dedicarsi al disegno sul quaderno. “Ti ho detto che dovete partecipare al torneo!”, sbottò Alessandro al terzo tentativo. Non sembrava esserci modo di interessare Tommaso alla cosa, mentre invece Cristian liberò il proprio entusiasmo improvvisando una litania “che bello, giochiamo, dai giochiamo, che bello che bello”, che non fece altro che contribuire all’abbassamento della soglia di pazienza e sopportazione di Alessandro, che lo strattonò per un braccio gridandogli “Piantala!” e spingendolo con stizza contro l’immobile Tommaso, che al contatto con Cristian urlò di terrore allontanandosi velocemente. Alessandro sentì un brivido freddo graffiargli la schiena, come un odiato ricordo che gli oltraggiava la memoria. Il suo corpo si irrigidì, e fu lento nel voltarsi quando Don Alfonso Maria gli posò una mano sulla spalla.
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“Ma che combini? Non eravamo d’accordo che lo avresti dovuto coinvolgere? Vallo ad acchiappare!”, gli intimò indicando il cancello dal quale Tommaso era appena uscito. Alessandro corse senza pensare. Nelle sue orecchie il refrain di quel grido, che gliene ricordava un altro, che gli raggelava il sangue. Lo raggiunse e gli si parò davanti. Tommaso si bloccò di scatto per evitare di entrarci in contatto, anzi fece un passo all’indietro. “Ma che ti prende?”, gli chiese Alessandro accennando ad allungare una mano verso il suo braccio sinistro. Tommaso si scostò repentino. Ansimava. Ma i suoi occhi non lasciavano trasparire nessuna definibile emozione. “Ok…”, gli disse Alessandro sollevando le mani e mostrandogliene i palmi aperti, “Non ti tocco, giuro! Nemmeno mi avvicino, guarda!”, indietreggiò. “Rientriamo?”, gli chiese. “….”, sibilò Tommaso. “Cosa? Non ho sentito…”, gli disse avvicinandosi e porgendogli l’orecchio, ma Tommaso non ripeté. Lo scansò e passò oltre. Alessandro accennò a seguirlo, ma ancora la mano di Don Alfonso gli si posò sulla spalla. “Non ti preoccupare”, gli disse, “Non sarà facile…”. “Se va via lui vado via anche io! Ciao!”, salutò tutti Cristian correndo dietro Tommaso.
Il giorno seguente Don Alfonso Maria fu sorpreso. Era intento a dare il “la” per l’intonazione del ritornello che i bambini più piccoli cantavano tenendosi per mano e formando un grande cerchio. Tra quelle mani che si stringevano c’erano anche quelle di Cristian, ma non quelle di Tommaso. Le sue le teneva poggiate sulle ginocchia, e stava seduto in disparte a guardare gli altri stringersele.
La sera prima, rientrato da poco a casa, Alessandro aveva ricevuto una telefonata. A chiamarlo era stata Rossella. “Don Alfonso mi ha detto quello che è successo con Tommaso. Mi ha parlato del tuo progetto, cosa della quale ti sei ben visto di informarmi, quando puoi ben immaginare quanto possa essere importante al fine di tutto l’intervento di prova”, mentre Rossella parlava, Alessandro restava in silenzio, pareva piuttosto attento a quelle parole. “Comunque non pensare che sia stata un’idea solo sua. Ci ha consultato, me e la collega. Pensiamo tutti e tre che possa essere molto positivo, per te, essere responsabilizzato, sai,
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per dimostrare magari al giudice che non sei quel delinquente che le azioni che hai compiuto potrebbero far ritenere. Tu cosa ne pensi?”, gli chiese infine. Alessandro fece una smorfia, quasi che la domanda non gli competesse, o che la risposta non riguardasse Rossella; si batté leggermente la cornetta sul mento: “Ne penso di che cosa?”, le chiese. “Ahi, ahi…”, commentò, tra il divertito e lo sconsolato, Rossella. “Lasciami solo dire che Tommaso è un bambino molto complicato. E per come ti conosco, dato che lo hai seguito per tentare di riportarlo indietro, forse ci sono buone speranze che se anche non rispondi a domande di quel tipo, almeno fartele non è del tutto inutile.” Alessandro non commentò. “Va bene, passami tua madre…”, cambiò argomento Rossella.
“Come mai da queste parti?”, gli chiese curioso il prete, non appena terminata la canzone, mentre i bambini si sparpagliavano tutt’intorno tenuti a stento a freno dagli educatori. “Oggi non sei di turno. Hai il giorno libero, o sbaglio?”, gli chiese ammiccando, e immediatamente voltandosi verso Cristian e seguendolo con lo sguardo fino a quando raggiunse Tommaso. “Lascia stare, prete. Non capiresti” “Oh, lo penso anch’io. Dovresti darmene la possibilità tu, ma dubito che ne abbia intenzione”, gli disse. “No, è che dovrei capirci qualcosa prima io”, dissimulò un sorriso Alessandro avvicinandosi ai due bambini. Quando li raggiunse notò il quaderno poggiato sulle ginocchia di Tommaso. Un primo istinto lo spinse quasi ad allungare una mano per prenderlo, vinto dalla curiosità, o per un semplice gesto meccanico, dopotutto tanto curioso non lo era affatto, e tanto meno di cosa ci fosse scritto in quel quaderno, anche se si sentì come se lo attraesse a sé. Un secondo pensiero gli suggerì di chiedere di chi fosse, a cosa servisse e che cosa contenesse, ma si trattenne anche dal realizzare quel proposito. Perché almeno alla prima domanda una risposta era in grado di darla con certezza. Perché se ne ricordò quasi improvvisamente. Quel quaderno lo aveva già visto, pur senza notarlo, pur senza interessarsene, spesso nei giorni precedenti, tra le mani di Tommaso, e aveva visto quelle mani stringere una penna o una matita e scarabocchiare su quei fogli. E così, come accade nel rapporto tra il tuono
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ed il lampo, in quell’istante sentì la sua voce, mentre il giorno prima, appena oltre il cancello, aveva solo visto le sue labbra muoversi, e percepito un impercettibile bisbiglio. “Ho dimenticato il mio quaderno…”, sussurrò a se stesso Alessandro. E quel gesto gli venne immediato e naturale: gli si avvicinò. Si chinò sul suo orecchio destro e gli parlò sottovoce. E gli fu così fisicamente vicino quanto mai nessun altro da tempo ormai. Tommaso non si mosse, e non gridò. Forse fu la celerità del movimento, forse la sua naturalezza, forse qualcosa che solo Tommaso fu in grado di cogliere, e magari al di là delle intenzioni di Alessandro; ma, dopo che gli parlò all’orecchio, parve guardarlo.
La notte prima, dopo che concluse la telefonata con Rossella, Marianna si voltò verso Alessandro. Lui le raccontò qualcosa che la emozionò, non meno di quanto non lo emozionasse raccontarlo.
Alessandro fu turbato da quegli occhi che fissarono i suoi, e fu costretto, anche se per pochi attimi,
ad abbassare lo sguardo a causa di quel disagio. Quando lo rivolse
nuovamente verso Tommaso, il ragazzino teneva la testa china, forse ad osservare il quaderno. “Ve lo ripeto anche oggi: voi due dovete partecipare a quel cavolo di torneo!”, disse loro con tono stizzito, che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto suonare come minaccia, ma che non ottenne l’effetto desiderato, per il fatto che Cristian si illuminò in volto di un entusiastico sorriso, mentre Tommaso non accennò nemmeno un impercettibile movimento o variazione nel respiro. Alessandro sbuffò di rabbia e si allontanò, sedendosi su di una panchina non distante dai due, mentre Cristian proseguiva con la cantilena già intonata il giorno prima, e Tommaso prendeva in mano il suo quaderno. Alessandro si irrigidì leggermente, e lo osservò mentre tracciava linee su di un foglio. Si guardò intorno, come per scongiurare la possibilità che qualcuno lo potesse vedere interessarsi a quello strano ragazzino, ma la verità era esattamente quella: improvvisamente si sentì curioso di sapere cosa disegnasse. Si accarezzò le cosce alcune volte, quasi fischiettando, mentre continuava guardingo a roteare il capo tutt’intorno. Quindi si alzò, fingendo di stiracchiarsi. Si guardò le punte delle scarpe, si morsicò un’unghia della mano destra, che infilò poi, simmetricamente alla sinistra, in tasca, e passeggiò. Si muoveva in principio senza una precisa direzione, anche 114
se ad uno sguardo attento non sarebbero comunque sfuggiti i suoi intenti, che realizzò nel breve volgere di alcuni minuti quando, dissimulando di guardare distrattamente i propri passi, complice l’attimo in cui Cristian si trovò a saltellare e canticchiare a debita distanza, volse lo sguardo sul quaderno che Tommaso teneva sulle cosce, aperto su di una pagina sulla quale disegnava. A quel punto Alessandro si fermò e si sforzò per osservare con più attenzione, ma fu costretto ad avvicinarsi al ragazzino, e lo fece in maniera istintiva, quasi senza pensarci. Tommaso si accorse immediatamente di averlo alle spalle e scattò in piedi voltandosi a guardarlo, indietreggiando di almeno un passo. Quindi, da quella distanza, gli mostrò il quaderno, facendo scorrere i fogli con le dita. Alessandro notò che in oltre la metà dei fogli che componevano il quaderno c’era un disegno. E vide che il disegno era sempre lo stesso, preciso, identico. “A me non piace quel disegno!”, gli disse Cristian, quasi destandolo. Alessandro lo guardò scuotendo leggermente il capo come per riaversi. “Cosa?”, gli chiese a sua volta. “Non mi piace quel disegno. Non vuol dire niente, vero?” Alessandro non ebbe il tempo di rispondere. Tommaso, richiuso il quaderno si allontanò. E dietro di lui Cristian.
Il giorno seguente, Alessandro si diresse verso i due non appena finì di spostare alcuni tavoli con relative sedie da una stanza ad un’altra che si trovava in fondo ad un lungo corridoio. “Vanno bene messe così?”, chiese a Don Alfonso Maria, che gli era restato accanto guardandolo, senza però minimamente aiutarlo, ed anzi ridendo senza ritegno ad ogni borbottio nei suoi confronti. “Ma si…tanto non è che ci fosse tutto questo bisogno di spostarle…”, gli disse gongolando. “Cosa?”, sbottò Alessandro. “Brutto prete di m….”, Alessandro si morse il labbro inferiore per non proseguire, mentre il parroco mimò immediato il gesto con il dorso della mano destra, minacciando scherzosamente di schiaffeggiarlo. “Si può sapere perché me li hai fatti spostare, allora?”, digrignò i denti. “Fa parte della tua punizione, mio caro!”, rispose serafico il prete.
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“Cosa? Ma non sei tu quello che ha detto che questa non è una punizione ma una possibilità di crescita e redenzione e tutte quelle idiozie varie?”, ribatté Alessandro dando un leggero calcio ad una sedia. “Io?”, si batté il petto il prete, “Non ho mai detto niente di simile. Per ogni peccato c’è la penitenza. Ti avrei fatto recitare qualche Avepatergloria con vero piacere, ma questa mi pare un’espiazione molto più sincera”, concluse sorridendo pacificamente. Alessandro accennò una risposta, ma il prete lo zittì senza permettergli nemmeno di aprire bocca, lanciandogli una pallina per il biliardino. Alessandro la afferrò al volo e la guardò senza capire perché gliela avesse lanciata. “Vai a compiere la tua missione”, gli disse Don Alfonso Maria.
“Ciao”, li salutò fermandosi davanti ai due bambini. Cristian rispose al saluto interrompendo il suo allegro saltellare. Tommaso invece non parlò, pur mantenendo lo sguardo fisso su Alessandro, ma solo perché Alessandro ne invase il campo visivo. “Ho portato questa, che ne dite?”, gli chiese mostrandogli la pallina bianca. “E’ per il biliardino?”, gli chiese Cristian allungando una mano. Alessandro non la trattenne e gli permise di prendergliela. “Si, esatto. Ho intenzione di allenarvi. E questa volta non si discute. Voi imparate a giocare e partecipate al torneo. Magari vincete e diventate famosi, che forse lo siete già abbastanza ma per altri motivi, e in più nessuno vi stresserà più per coinvolgervi, così li fate tutti contenti, soprattutto il prete. E così Rossella scrive al giudice che io sono stato bravo e mi libero da tutta questa st**nzata!”, Alessandro mostrò la mano destra chiusa col solo pollice sollevato. “Anche tu conosci Rossella e il giudice?”, gli chiese Tommaso guardandolo negli occhi. “C**zo!”, si lasciò sfuggire Alessandro, tappandosi poi subito la bocca dopo aver guardato Cristian sbigottire. “Hai detto una parolaccia!”, gli disse il bambino come in preda allo stupore, indicandolo col dito. E poi continuò a ripeterglielo canticchiando e saltellando. E poi corse a canticchiarlo a tutti quelli che incontrò indicando loro Alessandro. Forse era stata la prima volta che ne aveva sentito davvero la voce. L’incredulità lo distrasse per qualche istante dal rispondere. Quindi sorrise dissimulando, forse era riuscito a trovare il modo di stabilire un contatto con quello strano ragazzino, ma non voleva lasciarsi andare a facili entusiasmi. La “libertà” che gli era stata negata da quel 116
giorno in cui un suo coetaneo gli sparò contro, forse, non era più così lontana. Di certo Alessandro non avrebbe mai immaginato che quanto successo il giorno prima avesse avuto un significato per Tommaso. “Si, li conosco”, gli rispose con tono serio Alessandro. “E’ per loro che lo stai facendo?”, gli chiese ancora Tommaso. Alessandro deglutì. Non riusciva a spiegarselo, ma quel ragazzino gli faceva provare una leggera sensazione di disagio, soprattutto adesso che si sentiva addosso quello sguardo, al tempo stesso così leggero, perché pareva spoglio di intensità, quasi vuoto, e così pesante, perché da colmare, e rendere ancora più grave di quanto non fosse, uno sguardo capace di vincolarlo in quel punto dove si trovava, come fosse incatenato, o avesse chiodi conficcati nei piedi, anzi nelle mani, pensò Alessandro, forse perché vide sui palmi di Tommaso quelle strane ferite. Il ragazzino se ne accorse e girò le mani sul dorso, senza distrarsi da Alessandro, in attesa di una risposta. “Si, mi hanno costretto a stare qui. Prima risolvo questa storia, prima me ne posso andare. Questo non è il posto per me”, gli rispose quasi con imbarazzo, guardandosi i piedi e schioccandosi le dita della mano destra. A quella frase lo sguardo di Tommaso parve illuminarsi di una pallida scintilla. Si alzò. “Io non so giocare…”, gli disse andando verso la saletta dei giochi. Alessandro sollevò l’avambraccio sinistro, strinse il pugno e li abbassò insieme al gomito senza nascondere la soddisfazione che gli si dipinse in viso.
“No, non così! La devi stringere la stecca! Guarda, così! Hai capito?”, continuava a ripetere Alessandro, mentre cercava, con sincera ma limitata pazienza, di far capire a Tommaso come dovesse impugnare la stecca e quale fosse il movimento di torsione del polso. “Ale, non si muovono!”, gli faceva notare Cristian indicandogli le sagome delle due linee difensive, quelle che avrebbe dovuto gestire Tommaso. “Certo che non si muovono! Se questo non si decide a tenere in mano la stecca non si muoveranno mai!” “Io non mi chiamo “questo”!”, gli disse Tommaso, senza però che dal suo volto trasparisse un cenno di fastidio o disapprovazione. “Si, si, scusa, Tommaso! Le vuoi stringere si o no queste benedette stecche?”, fu pronto a replicare Alessandro.
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Intanto, non poco lontano, Don Alfonso Maria si compiaceva per due cose. Una delle quali era che sino a pochi giorni prima l’allenamento dei due piccoli futuri campioni era ritmicamente cadenzato da volgarità irripetibili, e quelle stecche non parevano poi così tanto benedette agli occhi di Alessandro. “Si, così! Vedi che ne sei capace?”, lo esortò Alessandro complimentandosi con lui. Il sembiante di Tommaso non si modificava in alcun modo; sembrava essergli del tutto indifferente ricevere complimenti, incitamenti o espressioni di viva disapprovazione. “Sembra che si diverta, lei che ne dice?”, chiese Rossella al prete. “Già, pare proprio che si stiano divertendo tutti e tre, ognuno a modo suo, certo!”, sorrise il parroco.
“E così vedo che ci stai mettendo veramente impegno. Davvero ammirevole”, gli avrebbe detto più tardi Rossella, avvicinandosi, appena terminato l’allenamento. “Si, va beh….”, avrebbe smorzato un sorriso Alessandro. “Lo so benissimo che lo fai per uno scopo ben preciso, piccolo delinquente”, gli avrebbe ammiccato Rossella, “Ma chissà che il fine, non solo giustifichi il mezzo, ma gli dia pure significato.” Alessandro avrebbe sollevato le spalle.
L’allenamento fu intenso. I due bambini parteciparono con assiduo impegno e presenza costante. Cristian rimase concentrato dal primo istante sino al momento della prima gara. Ripeteva dentro di se i consigli di Alessandro e continuava a stringere qualsiasi oggetto come se tenesse tra le mani le stecche. Tanto che questo fu motivo di rimproveri da parte dei genitori, anche perché l’errata presa delle posate gli impediva di mangiare “come si deve a tavola!” e, se tra le mani teneva una penna, gli era impossibile scrivere stringendola a quel modo, al punto che riportò a casa due note per la mancata esecuzione dei compiti. E, sicuramente sobillato dalle immagini e dalle avventure dei suoi eroi dei cartoni animati in televisione, si tratteneva a fantasticare sulla loro scalata al successo, fatta di una serie di vittorie ineccepibili, con totale dominio sugli avversari, e con trionfo finale non solo con la conquista del torneo, ma anche del premio di miglior realizzatore per lui e di miglior portiere per Tommaso. Che Cristian si sarebbe occupato delle linee d’attacco lo stabilì Alessandro con immediata rapidità, dopo averlo visto all’opera. La presenza di un maggiore numero di sagome rispetto alle tre totali delle due stecche per la difesa della porta, con conseguente aumento 118
delle probabilità che anche solo per caso fortuito potesse almeno sfiorarla la pallina, almeno una volta, fu causa necessaria e sufficiente per una tale decisione, nonostante le conclamate difficoltà di Tommaso a controllarne i movimenti. Il ragazzino, ad onor di cronaca, fu comunque protagonista di un progressivo miglioramento, figlio di una costante applicazione durante gli allenamenti sotto la supervisione di Alessandro, insieme a Cristian, ed in solitaria, entrando nella saletta prima che arrivasse il resto dei bambini, ed esercitandosi a colpire la pallina sempre più forte e con mira sempre più precisa. Don Alfonso Maria lo trovò di fronte al cancello dell’oratorio in notevole anticipo rispetto all’orario di apertura. Non gli chiese nulla e lo fece entrare, forse avendo intuito le intenzioni del ragazzo, che non gli disse niente, e così sino all’inizio del torneo gli permise di utilizzare i biliardini senza essere disturbato. Rossella e le operatrici della casa famiglia furono piacevolmente sorprese da un simile comportamento. Considerato quanto stava accadendo. “Verrò a fare il tifo per te!”, gli disse Annalisa, e le si stringeva il cuore perché non poteva accarezzargli il viso, o quantomeno la fronte, mentre glielo diceva. “Giochiamo io e Cristian”, le rispose Tommaso. “Ah, si, allora farò il tifo per tutti e due”, sorrise lei. “Per fare un buon tifo bisogna saper gridare”, concluse lui.
Appena entrata nella stanza era rimasta immobile, alcuni giorni prima. Per Tommaso erano le prime fasi dell’allenamento. Annalisa si trovava nella sala da pranzo. Accorse subito al primo grido. Nel mentre che correva verso la stanza le grida si susseguivano. Anche gli altri bambini e le altre operatrici si precipitarono nella cameretta di Tommaso. Lo trovarono in piedi al centro della stanza, con le vene del collo ingrossato, col viso paonazzo per lo sforzo, con la bocca spalancata ad urlare. Nessuno ebbe il coraggio di entrare. Lui urlò un’ultima volta, poi si voltò verso di loro. “State disturbando il mio allenamento”, disse. Alla psicologa che gliene chiese il motivo rispose:“ E’ l’incitamento!”, ma questo non le fornì alcun nuovo elemento per un’ulteriore valutazione. Lei non sapeva che quell’episodio, che si ripeté sistematicamente nei giorni successivi e si sarebbe ripetuto anche oltre la disputa del torneo, aveva a che fare con quanto sussurratogli all’orecchio da Alessandro; di questo però Tommaso non avrebbe mai parlato con nessuno.
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“Domani è il grande giorno!”, gli disse, non senza lasciarsi andare ad una risata, che cercava invano di contenere, Marianna, colpendolo leggermente al fianco col gomito. “Spiritosa!”, le rispose con una smorfia antipatica Alessandro. “E’ stato un bel gesto da parte tua”, proseguì lei accarezzandogli i capelli; Alessandro non si sottrasse a quella carezza, anzi, chiuse leggermente gli occhi e respirò piano. “Anche se lo stai facendo solo per ottenere la tua libertà, stai comunque dando una mano a due che ne hanno bisogno. Da quello che mi hai raccontato non è che siano proprio giusti giusti quei due. Di Cristian ogni tanto mi parla suo padre, fa parte anche questo della nostra terapia; parla un po’ di tutti i suoi problemi: non è che stiano benissimo in quella casa”. “Anche questo è un modo per farti perdonare, sono orgogliosa di te”, gli disse baciandolo in fronte. “Anche lui ne sarebbe stato orgoglioso”, aggiunse. Alessandro aprì gli occhi, e si liberò dolcemente dalle sue carezze. “Non ne avrebbe avuto motivo. Non ci sarebbe stato niente da farci perdonare…”, disse sospirando. “Farci…?!”, chiese, senza ottenere risposta, Marianna.
“Allora, il momento è arrivato!”, li incitò Alessandro. Era arrivato il turno dei due ragazzini. Dopo giorni di attesa si stava per disputare la prima partita del torneo. Sarebbero stati proprio loro due a giocare la sfida iniziale. Gli avversari erano due ragazzetti di pari età che vantavano però una esperienza di gioco superiore. “Loro sono più bravi”, si avviliva Cristian. “Macché più bravi! Non esiste! Vi siete allenati tantissimo. Dovete entrare in campo pensando di essere i migliori, capito?”, continuava ad incitarli Alessandro. “Entrare in campo?!”, si chiese stupito Cristian. “Si, va beh, è un modo di dire!”, sbuffò Alessandro. “Tu sei pronto?”, chiese a Tommaso. Il ragazzino sollevò l’angolo destro della bocca. “Ok, mi dovrò accontentare di questa esagerata espressione di entusiasmo!”, disse Alessandro sollevando gli occhi al cielo. Fu sistemato un piccolo sgabello per permettere a Cristian almeno di vedere il campo di gioco, considerata la sua statura non troppo elevata. 120
Tra il pubblico, ad osservare la sfida, oltre a tutti i restanti partecipanti al torneo e a Don Alfonso Maria e tutti gli operatori, c’erano Annalisa e alcune operatrici della casa famiglia, la signora Eleonora, Rossella, Marianna, Silvia, che restava leggermente in disparte, e persino Anselmo. Alessandro si trovò in forte disagio e rifiutò categoricamente il ruolo di presentatore del torneo, sbraitando contro il parroco e minacciandolo di mandare tutto a monte se avesse provato a costringerlo a fare qualcosa di simile. “Va bene, non urlare, farai solo l’arbitro”, lo rassicurò il prete. “E’ che mi piace vederti infuriato!”, aggiunse sghignazzando. La risposta di Alessandro fu irripetibile. Il pubblico acclamava i quattro sfidanti. Il tifo si incrociava, dividendosi in quote proporzionate. Le mamme gareggiavano tra loro a chi urlava più forte il nome del proprio figlio. L’atmosfera era carica di adrenalina. La tensione che si avvertiva era da grande evento sportivo. Cristian saltellava sulle gambe, non riuscendo a trattenere l’emozione. “Vinciamo vinciamo vinciamo!”, continuava a canticchiare. Tommaso era immobile nel viso quando strinse le stecche. Alessandro batté due volte la pallina sul bordo del biliardino. Tutto era pronto. La lanciò in aria e questa ricadde sul campo dando il via alla partita. E fu un roteare di stecche ed un susseguirsi di colpi secchi e di grida di divertito entusiasmo. “Vinciamo vinciamo vinciamo!”, continuava a canticchiare Cristian. “Mettetecela tutta!”, li incitavano da dietro le loro spalle. “Non rollare le stecche, cerca di prendere la pallina, disturba, gioca veloce, guarda il campo, cosa stai facendo?”, gridava Alessandro. “Vinciamo vinciamo vinciamo!”, canticchiava Cristian. “Forza forza forza!”, li incitava il tifo alle loro spalle. “Vinciamo vinciamo vinciamo!”, cantilenava Cristian.
“Dodici a zero…”, disse Tommaso guardando Alessandro. Alessandro scosse la testa con un’espressione disgustata. “Sapevo che facevate schifo, ma non fino a questo punto”, disse sconsolato. “Finirà che le perderete tutte!”, aggiunse guardando Cristian. Le successive partite confermarono i suoi timori. I due ragazzini persero tutte le successive partite. Il loro torneo durò appena tre giorni.
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“Non siete riusciti a fare nemmeno un gol, assurdo! Avete perso anche contro Elia e Fabrizio, che sono due impediti peggio di voi! Ma chi me l’ha fatto fare? Io l’avevo avvertito quel prete che era tutto inutile!”, li umiliò Alessandro. Tommaso teneva lo sguardo fisso alla sua sinistra. Alessandro provò a capire dove o cosa stesse guardando, ma abbandonò presto il proposito. “Adesso non giochiamo più?”, chiese invece Cristian. “Esatto!”, rispose secco Alessandro. “Pazienza!”, rispose serafico il bambino andando a raccogliere un pallone e correndo mentre lo faceva rimbalzare. “Ma che ca**o vi parlo a fare!”, sbuffò sottovoce Alessandro. “Dai, su con la vita! Il torneo è andato come è andato, e non è affatto detto che sia andato male, dipende dai punti di vista”, gli disse il prete con una pacca sulla spalla, “Non pensateci più! Domenica ci rifacciamo tutti insieme andandocene in gita!” “Gita?”, chiese Alessandro voltandosi di scatto, e guardandolo con un’espressione quasi inorridita. “Si, certo. Una bella gita al Parco Naturale del Gran Paradiso. E indovina un po’ che compito abbiamo deciso di affidarti?”, gli disse sornione il parroco. Alessandro sgranò gli occhi e li posò prima su Tommaso poi su Cristian, quindi li rivolse nuovamente a Don Alfonso Maria, allarmato e incredulo. “No, ti prego…”, sospirò quasi a chiedere pietà. “Eh, già…”, sghignazzò il prete.
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“Ecco qua, il tuo pranzo salutare è pronto!”, gli disse porgendogli una busta di cartone per alimenti, “Mettilo pure nello zaino”. Alessandro prese la busta dalle mani della madre, tenendola con circospezione ed osservandola con marcata diffidenza. “Ma la vuoi piantare? Sembra che ti abbia dato un pannolino sporco invece di un panino sano!”, lo redarguì dolcemente, prima agitandogli contro il dito indice della mano destra, e poi aggrottando le sopracciglia dopo essersi portata le mani chiuse a pugno sui fianchi. “Forse un pannolino sarebbe stato più invitante”, disse Alessandro aprendo la busta ed osservandone il contenuto, per poi scattare all’indietro mentre la madre cercava di colpirlo con un calcio, ed entrambi ridevano. Alessandro dopo un breve scatto si lasciò cadere sul divano, in modo che la madre lo potesse raggiungere e saltargli sopra. E si ritrovarono così, abbracciati, a guardare il panino che il ragazzo teneva tra le mani. “Ma cosa ci hai messo questa volta? La tapioca?”, le chiese sghignazzando. “Ma finiscila, è tutta roba sana! O avresti preferito un panino globalizzato patatine e salse e carne di topo spacciata per manzo?”, gli disse spettinandolo scherzosamente. Alessandro ripose il panino dentro la busta, si erse leggermente per guardarla in viso, ed iniziò ad imitare con la voce il suono della sirena di una ambulanza. “Presto, presto!”, gridava ridendo, “E’ grave! E’ un’emergenza! E’ tornata Marianna Save the World! Fate presto!” “Ma piantala, cretinello!”, gli tappò la bocca premendogli contro il mento la busta con dentro il panino. Ridevano. “Che bello che sei!”, gli disse, appena smisero. “Dai, mamma, ma la pianti?”, si voltò per non lasciarsi guardare. “Mi piace la tua ragazza, lo sai? Quand’è che me la presenti?” “Eh?!”, Alessandro sgranò gli occhi e rimase immobile in silenzio. “Dai, che hai capito. Era al torneo l’altro giorno, e poi l’ho vista parecchio questi giorni. Viene qui si ferma a qualche metro dalla casa e sospira. Ma la chiami qualche volta? La fai sentire importante? Glielo dici che le vuoi bene?”, lo incalzò Marianna.
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“Ok, fine!”, sentenziò Alessandro alzandosi, dopo essersi svincolato dall’abbraccio della madre che gli teneva le gambe sopra il ventre, “L’argomento non è attuale. E poi è già tardi per la gita!” Si udì il suono di un clacson. “Anselmo non ama aspettare.”, sbuffò Alessandro. “Bene, allora andiamo; cosa stai aspettando?”, si illuminò Marianna. “Cosa vorresti dire con andiamo?!”, inorridì Alessandro sgranando gli occhi. “Tuo nonno ti fa viaggiare tutti i giorni su quel bel macchinone. Ci sarà un posticino per tua madre, no?” “Ma tu le odi le macchine di quel tipo!”, volle ricordarle Alessandro. “Si, ma per una bella gita in montagna posso fare un bel sacrificio. Perché amo molto di più la natura di quanto non odi quegli inutili simboli del capitalismo più becero”, Marianna sospirò, aggrottò gli occhi, e forse dentro di sé pensava a qualcuno. “E poi”, aggiunse, “Don Alfonso ha invitato anche me”, gli sghignazzò nell’orecchio, mentre Alessandro alzava gli occhi al cielo e contorceva la bocca in una smorfia di disperazione. Il suono del clacson si fece più insistente.
Pasqua abbaiava inquieta. Così almeno parve all’uomo che divideva con lei i propri giorni da ormai parecchi anni. “Che c’è?”, le chiese, “Oggi sei strana”. Le accarezzò il sottomento ed il collo, con tale tenerezza che lei si rovesciò sulla schiena offrendogli il ventre. “Eh, eh…”, sorrise lui, “La mia signorinella vuole un po’ di coccole?”, disse accarezzandole la pancia. “Allora me lo vuoi dire cos’hai, oggi? Non t’ho mai vista così. Sembri in attesa di qualcosa. Hai puntato qualche preda? Ricordati che siamo vegetariani, eh? Magari hai fiutato un tartufo? Mi ricordo che erano piuttosto cari. Facevano addirittura le aste per venderli. Non credo ci sarebbe molto utile, comunque. Oltretutto è pure per palati fini, no?”, le parlava continuando ad accarezzarla. Gli si illuminavano gli occhi mentre la guardava. Da quando riprese conoscenza, in quel lontanissimo giorno, si pose tante domande, ed a nessuna seppe rispondere. Così pian piano smise di chiedere ed iniziò ad apprendere da quella vita, che sapeva essere nuova per lui, perché doveva pur aver avuto una vita in 124
precedenza, della quale però non sapeva nulla. E quella che viveva in quel momento divenne la sua unica e sola vita. E la prima cosa che imparò fu il nome di quel cane.
Il Barone si sfilò i guanti di pelle nera. Era solito indossarli anche in casa. Raramente passava nella propria dimora più del tempo necessario a lavarsi ed abbigliarsi, quando non dormiva, ma solo la notte, e per poche ore. Già alle prime luci dell’alba gli veniva servito un caffè corto, e la sua prima destinazione era sempre l’ufficio, uno dei tanti di cui disponeva, sito in via Castello, per la lettura dei giornali, anche se, da alcuni anni ormai, si affidava ad un’agenzia specializzata che predisponeva una accurata e mirata rassegna stampa. Villa Finzini, così, ad eccezione del vociare del personale di servizio, che ammutoliva, quando il Barone era presente, in ossequioso, ed anzi timoroso silenzio, appariva quasi come un museo privo di visitatori, un lugubre mausoleo dedicato a nessuno. I rari momenti in cui transitava nella villa, tra un summit e l’altro, un pranzo di lavoro ed una riunione di uno dei diversi consigli di amministrazione di cui era componente, tra una colazione con i politici locali ed una convention di industriali, o tra una conferenza stampa e l’inaugurazione di una delle iniziative della Fondazione Buddenbrook, li trascorreva nell’ampio salone, noto anche come “La Sala dei Sospiri”. La leggenda che la dinastia dei Finzini tramandava di generazione in generazione da più di quattrocento anni, narrava della Contessa Ludovica Baraldi che, in ansia per la sorte del primogenito, partito in guerra per una lunga campagna militare, tenne quarantadue persone al suo capezzale, sospirando di disperazione, sino a che non giunse finalmente un messo a riferire sul buono stato di salute del prode Gerardo Finzini II. Probabilmente quell’ambiente, così ampio, ridondante e, per quanto adorno e sfarzoso, al tempo stesso misero e vacuo, silenzioso al punto da esser tetro, e fosco per i pesanti tendaggi color oro, perché d’oro rifiniti, eppur non luccicanti, gli si addiceva, o quantomeno si confaceva al suo stato d’animo, quando vi si trovava solo, ed era pur sempre questa la sua condizione in quella stanza. Anche lui sospirava, tenendo tra le mani un calice colmo per metà di vino rosso scuro d’annata, che lui stesso aveva versato, e mesciuto, in qualità del diploma di Gran Sommelier conseguito in gioventù, così come si addiceva al suo rango; vino che proveniva delle cantine di cui era proprietario, e che producevano vini rari e preziosi, che una rinomata casa d’aste aveva l’onore di concedere a pochi fortunati selezionati per invito su indicazione dello stesso Barone. Riceverne in omaggio una bottiglia, conferiva al possessore lo status di “sincero amico” del Barone, 125
onorificenza a cui in tanti aspiravano. Il Barone passeggiava lentamente, con passi simmetrici e calibrati, il dorso ben ritto ed il petto tronfio all’infuori. Il braccio sinistro dietro la schiena, chiuso sul gomito, e col pugno stretto, mentre il braccio destro, leggermente distante dal costato, disegnava un perfetto angolo retto, e l’avambraccio ruotava perfettamente sul gomito portando la mano che stringeva il calice alla bocca e recuperando poi la posizione, con un movimento di tale eleganza e precisione, che pareva tracciare un immaginario arco disegnato da un compasso. Il Barone si fermò sotto ad un quadro. Le pareti della sala facevano ampio sfoggio di dipinti, e busti in marmo impreziosivano il perimetro della stanza. Tali effigi rappresentavano l’orgoglio e l’onore delle dinastie dei Baraldi, Finzini, e Buddenbrook. Tradizione, da secoli, voleva che ogni rappresentante della famiglia venisse ritratto su tela od omaggiato con una scultura in pregiato marmo. I migliori artisti vennero incaricati di rendere imperituri i loro volti, considerato anche il ruolo di mecenati che baroni e conti che abitarono Villa Finzini svolsero sempre con impeccabile capacità, scoprendo talenti riconosciuti poi in tutto il mondo. Il quadro di fronte al quale si fermò lo ritraeva quando aveva trent’anni, e fu dipinto per il giorno del suo compleanno. L’immagine era austera, la posizione marziale. La figura era totale e la posa era quella del riposo militare, il Barone per l’occasione indossò la divisa da cerimonia. Sospirò guardando il quadro. Comunque era solito non concedergli che poche attenzioni, che invece riservava maggiormente ai due quadri che si trovavano alla destra del suo. Su quei dipinti erano ritratti due dei suoi tre figli. Al terzo, il suo primogenito, così come tradizione imponeva, era stato dedicato un busto. Il Barone bevve, un impercettibile sorso, sufficiente appena ad inumidirgli le labbra. Deglutì sommesso senza emettere il minimo rumore. Sospirò ancora, e le sue pupille si dilatarono. Osservava i quadri ed il busto contemplandoli con paterna ammirazione. Il busto di Massimiliano Ludovico I risplendeva di rara lucentezza. Il Barone aveva provveduto ad assumere alcune inservienti appositamente per la cura della Sala dei Sospiri, e la principale delle mansioni era la lucidatura della scultura che ora ammirava con soddisfazione. Lui che aveva ereditato dal padre il gravame del nome della propria dinastia, e che dovette farsi carico dell’infamia derivatane. Quando l’ultimo dei Baraldi non ebbe figli maschi e la dinastia si estinse per sempre agli occhi del mondo della nobiltà, non essendo stato accettato come sposo il figlio di secondo letto del Barone Airoldi, cugino in primo grado del Baraldi, che offrì al parente il suo unico figlio maschio, anche se illegittimo, affinché lo adottasse e garantisse la prosperità 126
alla sua discendenza, Massimiliano Alberto I di Buddenbrook fece il suo ingresso trionfante nell’alta società. Lui era il rampollo di una dinastia di banchieri che si erano arricchiti riscattando a misero prezzo fondi terrieri da feudatari decaduti, e finanziando l’acquisto di armamenti per cruente guerre civili, ricevendone in cambio oro e preziosi macchiati di sangue innocente, e - ma questa rimase sempre un’illazione mai comprovata (o meglio, i testimoni che si diceva potessero confermarla perirono in circostanze misteriose) - convivendo con banditi e malavitosi dediti allo sfruttamento dei vizi più biechi dell’uomo, al ricatto ed al rapimento per estorsione. Tra conti e baroni si sussurrava che l’offerta che fece al Baraldi fosse di quelle che non sarebbe stato possibile rifiutare, e fu così che i Buddenbrook acquistarono il loro titolo nobiliare, ed il Barone Massimiliano Alberto I prese in sposa la Contessa Beatrice Finzini, che, per ossequio alla tradizione, volle per se il secondo cognome che per generazioni le contesse Finzini, che da secoli andavano in mogli solo ai maschi Baraldi, accompagnavano al proprio. Il patriarca dei Finzini non poté che cedere alle lusinghe economiche del nobile banchiere, in quanto la sua casata di prezioso oramai possedeva solo il nome, e dopo aver ceduto il Giardino di famiglia, era in procinto di vendere la villa, tra gli ultimi beni ancora in suo possesso. Dal matrimonio entrambe le casate trassero il massimo vantaggio, ed il nome dei Buddenbrook fu pronunciato sempre più spesso, e sempre con maggior rispetto, sino a raggiungere lo splendore che Massimiliano Alberto III seppe garantirgli. Ma quella luce proiettò sul Barone un’ombra cupa. Il Barone ebbe tre figli: Massimiliano Ludovico, il primogenito, Carlo Alberto, secondogenito, padre di Alessandro, e Alberto Federico. “Tre figli…”, sospirò l’uomo stringendo il pugno intorno al bicchiere. “Di questi miei tre figli…nessuno erediterà questo splendore”, chiuse leggermente gli occhi. Rivolse lo sguardo sulla sinistra, sino ad incrociare il busto prima, e poi il dipinto che rappresentavano suo padre e suo nonno. “Padre…”, espirò in maniera impercettibile. Fu distratto dal rumore di passi che provenivano dall’ingresso della sala. L’uomo vestito in nero abito elegante in tinta unita, con cravatta nera su camicia bianca, gli si avvicinò servizievole. Quando gli fu sufficientemente vicino si fermò, e portato il braccio destro dietro la schiena, e col sinistro sul ventre, si chinò in segno d’ossequio, ma brevemente, per risollevare subito il busto, avvicinarsi ulteriormente al Barone, che si era voltato
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appena sentiti i passi, per poi rimirare distrattamente il busto che rappresentava il padre, e parlargli a bassa voce, ma preservando una adeguata distanza. “Signor Barone, mi scusi..”, gli disse, ora con le mani congiunte, all’altezza del pube. “E’ arrivato il signor Ponzi, la attende in parlatorio”, aggiunse. Il Barone, ancora dandogli le spalle, rispose: “Conducilo pure qui, Donato. Tieni, portalo via. Grazie”, gli disse porgendogli il bicchiere. Il Barone non mancava mai di ringraziare i propri collaboratori e la servitù. E non gli riusciva mai di trattenere un seppur impercettibile sorriso quando parlava, o anche solo pensava (e d’altronde lo faceva solo quando ci parlava, e per il tempo necessario), con Donato. Il Maestro di Casa, così come veniva chiamato per il suo ruolo, ricevette dai propri genitori in dono un nome buffo. Infatti di cognome si chiamava Cavallo, e gli fu dato il nome di Donato perché nacque col labbro leporino (difetto poi parzialmente corretto chirurgicamente: “così non gli guarderanno la bocca!”, aveva pensato lacrimevole la madre, decidendone il nome). La famiglia Cavallo era al servizio dei Finzini Baraldi da generazioni. I Cavallo erano sempre stati maggiordomi, anche se un lontano avo del Donato si diceva avesse fatto lo stalliere, e dovette il nome non si sa bene, se al proprio lavoro, appunto, o al sembiante non proprio di bell’aspetto (veniva chiamato anche “muso”, a causa della prominenza delle sue mascelle). Altri, pochi a dire il vero, accennavano invece ad indicibili virtù d’alcova. Il Barone strinse la mano al signor Ponzi. Raramente il nobile lo riceveva in quella sala. Anzi, nella maggior parte delle occasioni, i loro contatti erano unicamente telefonici. D’altronde il signor Ponzi si trovava sovente impegnato all’estero. E proprio il suo ultimo viaggio oltre confine era il motivo di quell’incontro. Restarono in piedi uno di fronte all’altro. La Sala dei Sospiri era sprovvista di sedie. Fu il Barone a stabilire che non ve ne fossero. La contemplazione richiedeva sacrificio. “Avrei voluto accennarle al telefono…”, disse con tono quasi sconsolato il signor Ponzi. Il Barone si accarezzò gli occhi, tenendoli chiusi alcuni secondi. “Ho preferito vederla di persona…”, tossì leggermente il Barone. “Mi pare di capire che non ci sono novità”, lo fissò negli occhi. “No, signor Barone”, scosse la testa il signor Ponzi. “La notizia si è rivelata infondata. Abbiamo messo a soqquadro ogni singola isoletta dell’arcipelago. Il nostro informatore si è però purtroppo rivelato inattendibile. Abbiamo perso tempo e denaro preziosi. Me ne rammarico”, chinò il capo. 128
“Colgo l’occasione per porle le mie scuse e ripresentarle ulteriormente le mie dimissioni dall’incarico…”, aggiunse. Il Barone lo guardò serrando leggermente gli occhi, e soppesando le sue parole. “Non si rammarichi oltremodo, né per il tempo, né per i soldi”, espirò col naso, “L’incarico le viene confermato ad oltranza. La sua competenza non è in discussione. E non è ancora maturato il tempo della rinuncia. Trasmetta pure la nota spese all’ufficio di via Torricelli, come da prassi”, concluse il Barone, porgendogli la mano. Il signor Ponzi la strinse e lasciò la sala. Il Barone restò in silenzio a contemplare ancora le effigi dei suoi tre figli. “I miei figli…”, disse, senza voltarsi verso di lei, alla Contessa, che silenziosamente gli si era avvicinata e che gli poggiò una mano sulla spalla. “Basta così, Barone…”, lo interruppe lei, ponendosi di fronte a lui e posandogli l’indice della mano destra sulle labbra. “Sono passati dodici anni… Forse è venuto il momento anche per noi di trovare un po’ di pace”, si rattristò lei, cercando invece di sorridergli. Il Barone non rispose.
Il signor Ponzi salì sull’auto. Seduta sul sedile del passeggero anteriore c’era Amanda, una delle sue più preziose collaboratrici. “Com’è andata?”, gli chiese. “Ci ha rinnovato la sua fiducia. Dobbiamo assolutamente trovarlo”. “Mi rimetto subito al lavoro, signor Ponzi”, disse Amanda, e nei suoi occhi brillò una fioca luce. Il signor Ponzi mise in moto e l’auto si allontanò dalla residenza del Barone.
Il pulmino della parrocchia parcheggiò in prossimità dell’ingresso principale del parco. Quando la portiera si aprì, scesero bambini ed adulti, ed anche qualche anziano. Don Alfonso Maria aveva rivolto il proprio invito a tutta la comunità parrocchiale, e l’adesione era stata piuttosto ampia. Cristian scese tenuto per mano dalla madre, mentre Tommaso giunse a piedi insieme ad Annalisa. Alessandro chiese ad Anselmo la cortesia di fermare la macchina lontano dal pulmino. Non gradiva l’idea che tutti lo vedessero scendere da un’auto tanto lussuosa. Marianna continuava a sghignazzare deridendolo. “Non ti devi mica vergognare se sei ricco!”, gli diceva per farlo innervosire.
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Don Alfonso Maria, con un megafono, richiamò l’attenzione di tutti i partecipanti, riunendoli davanti a sé. “Grazie per essere venuti così numerosi. Questa è una giornata di festa e di allegria per l’intera comunità parrocchiale. Vedo tanti bambini, e principalmente questa passeggiata è stata organizzata per loro, ma è dedicata anche alle mamme, ai papà, ed ai nonni. Abbiamo la fortuna di vivere vicino ad un capolavoro della natura. Un dono di Dio che oggi giustamente veniamo ad apprezzare. Tra poco arriverà la guida che ci accompagnerà nella nostra escursione. Siete comunque liberi di spostarvi all’interno del parco a vostro piacimento. L’importante è che ci si riunisca tutti alla piana principale per il pranzo, i giochi e la preghiera. Vi auguro di trascorrere una piacevole giornata, e vi invito a familiarizzare con gli altri parrocchiani”. La folla si disperse in maniera composta. Don Alfonso Maria richiamò l’attenzione di Alessandro che, malvolentieri gli si avvicinò. “Ciao, Alessandro, benvenuto”, gli sorrise, dandogli una leggera pacca sulla spalla. “Buongiorno, signora”, aggiunse stringendo la mano a Marianna. Marianna rispose al saluto sorridendo, e dando uno scappellotto ad Alessandro che invece rispose “Ciao, prete”, alzando la mano destra col palmo aperto. “Dai, non perdere tempo, vai a cercarli, oggi sono affidati a te”, gli disse il parroco invitandolo con un movimento di entrambe le mani, come per sospingerlo. Alessandro sbuffò e si diresse a cercare Cristian e Tommaso.
“Marianna!”, chiamarono a gran voce la signora Francesca e la signora Lucia correndo verso di lei, che cercò con gli occhi il prete che però era già lontano. Le due donne giunsero a lei da un capannello di persone che sostavano intorno ad un gazebo. “Abbiamo organizzato un sit – in di protesta e sensibilizzazione. Dai vieni a firmare e poi magari parliamo del tuo ruolo nel comitato!”, provarono a coinvolgerla. “E no, eh! Oggi sono in gita, lasciatemi in pace!”, quasi urlò allontanandosi di gran fretta e correndo verso il pulmino della parrocchia. “Aspetta, aspettaci!”, la inseguirono le due donne.
Proprio in quel mentre, Boicco, il matto con gli stivali, si fece largo tra la folla, con al seguito cinque cani di grossa taglia, che portarono scompiglio e timore tra la gente, ma che in realtà procedevano mansueti ed incuranti di quelle persone. “Non entrate dentro il bosco!”, gridava l’uomo. 130
“Non entrate dentro il bosco, o la belva vi catturerà!”, diceva. “C’è una belva dentro il bosco, signora, non ci vada”, disse ad una anziana, quasi balzandole sopra, agitando le mani, con l’intenzione di dissuaderla, mentre la donna si scostava. “Il bosco è incantato, non ci entrate!”, gridava, e continuò a gridarlo anche dopo essersi allontanato. “Io lo so, perché sono stato catturato…”, disse ad Alessandro, fermandosi di fronte a lui, e guardandolo negli occhi, un attimo prima di sparire oltre la folla. La gente lo guardò allontanarsi, condividendo il proprio disappunto. Alessandro sentì come un leggero brivido corrergli su per la schiena, poi sentì una mano toccargliela. Era Cristian. “Ah, bene, così mi hai evitato la rottura di venirti a cercare”, gli disse. “Ciao, Alessandro”, lo salutò la signora Eleonora, “Certo che devi avere proprio una grande pazienza. Però sono contenta, Cristian parla sempre bene di te…” Alessandro si mordicchiò leggermente il labbro. “Ecco Tommaso!”, indicò con la mano Cristian. Annalisa non si avvicinò, ma restò in disparte ad osservare il ragazzino. Il progetto, pensato da Don Alfonso Maria e da Rossella, fu condiviso con entusiasmo anche dalla signora Eleonora e dai responsabili ed operatori della casa famiglia. I due bambini parevano trovarsi molto a loro agio con Alessandro, e soprattutto Tommaso accennava quantomeno ad un minimo di coinvolgimento che tutti ritennero più che positivo. L’unico che invece non trovava nulla di positivo in tutto quello era proprio Alessandro. Marianna si avvicinò alla signora Eleonora ed avviò con lei una conversazione su vari argomenti, sempre attente entrambe a non accennare alle attività del gruppo di auto aiuto che Marianna ed il padre di Cristian frequentavano. Annalisa, secondo i patti, in qualità di responsabile per la tutela di Tommaso, pur restando defilata, avrebbe svolto attività di monitoraggio. Così Alessandro ed i due ragazzini furono lasciati soli. “Camminiamo, và”, li esortò Alessandro, “Sembriamo tre imbecilli se restiamo fermi qua. E poi ci stanno tutti osservando. Tutta colpa di quel prete del c**zo!”, digrignò leggermente i denti. Intanto la voce della guida, amplificata dal megafono, riecheggiava nell’aria: “Il Parco Naturale del Gran Paradiso deve il suo nome al conte Adamo Finzini, terzo capofamiglia della nobile dinastia. Si era innamorato della propria cugina, Eva Finzini, e volle conquistarla regalandole un giardino. Infatti la contessa era un’amante della natura, 131
a tal punto che il conte non badò a spese, e nemmeno si trattenne dal muovere guerre di conquista contro le altre contee, pur di riuscire ad estendere il proprio dominino su queste terre. Così, quello che oggi è il parco, fu per generazioni il giardino della famiglia Finzini, sino a quando, a causa di un dissesto finanziario, furono costretti a farne dono gratuito alla Chiesa, che lo affidò, quasi cinquant’anni fa, al FWW, che lo tutela come bene territoriale di primo livello, e che ne ha fatto un parco protetto. Il nome Gran Paradiso glielo diede proprio il conte Finzini, che voleva per la sua Eva un nuovo Eden. Si dice che inviò esperti di flora e fauna in giro per il mondo perché voleva che nel giardino crescessero e vivessero le piante e gli animali di tutto il pianeta. Il loro però fu un amore segnato da una terribile tragedia…Dovete sapere che…”. “Salviamo il parco dalla speculazione edilizia!”, echeggiò improvvisa un’altra voce amplificata da un megafono. Proveniva dal gazebo. La voce era della signora Lucia. “Il parco presto tornerà in mano ai loro padroni! La concessione sta per scadere! Altro che paradiso! Ci vogliono costruire un residence di lusso! Lo dobbiamo salvare! Venite tutti a firmare!”, continuò. “Come dice? Ma è vero?”, si interrogarono alcuni, mentre si avvicinavano incuriositi. Marianna osservò la scena sbuffando.
“ Un caneeeeeee!”, gongolò entusiasta Cristian correndo verso il pastore tedesco che intravide dietro un albero. “Dove ca*z** corri! Vieni qui!”, lo rincorse Alessandro. “Tu cosa fai? Ti sbrighi?”, inveì con Tommaso, che non accennava minimamente a seguirlo. “Sentimi bene!”, gli disse, “Mi sono già rotto le pa**e di tutta questa storia! Ci manca solo che mi perdo quel rompicoglio**! Quindi, o ti metti a correre anche tu e lo inseguiamo, oppure ti tiro per un braccio, e non me ne frega un **zzo se ti metti ad urlare” Tommaso lo fissò quasi negli occhi. Dovette pensare che fosse davvero serio, perché iniziò a correre. Sulla schiena portava un piccolo zaino a tracolla. Alessandro lo guardò appena, gli parve che lo zaino fosse vuoto. I due seguirono Cristian che si era addentrato dentro il bosco dietro il cane. Quando lo raggiunsero era solo. Il cane non c’era più. “E’ sparito dentro il bosco”, indicava col dito davanti a se.
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“Ti prendo a calci in c**o! Brutto moccioso!”, lo minacciò Alessandro, mordendosi le mani per il nervoso. Tommaso respirava leggermente affannato. “Torniamo indietro, prima che pensino che me ne sono andato. Cammina dai, muoviti”, disse a Cristian strattonandolo. Proseguirono nella direzione opposta a quella che avevano seguito mentre correvano, o almeno così parve ad Alessandro. Perché, dopo alcuni minuti che camminavano, ancora non avevano raggiunto lo spiazzo dei parcheggi. “Ma che ca**o”, si sorprese Alessandro, “Ci abbiamo messo un paio di secondi a raggiungerti. Non possiamo essere andati così lontani”, cercò conferma nello sguardo dubbioso di Cristian. Tommaso sembrava non guardare da nessuna parte. Continuarono a camminare. Ancora dritti, poi svoltando sulla destra, quindi tornando sui propri passi, ed ancora deviando a sinistra. Attorno a sé Alessandro non vedeva altro che cespugli ed alberi. Cercò di concentrare l’attenzione per riuscire a sentire le voci degli altri per orientarsi verso l’uscita dal bosco. Ma non sentiva altro che silenzio. I tre si fermarono, ruotando su se stessi, guardando verso ogni direzione. “Ma dove caz** siamo?”, chiese a se stesso Alessandro. “Ale, ci siamo persi?”, gli chiese Cristian, tirandogli la manica della felpa.
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Il buio nella siepe
Silvia tossì leggermente. Poggiò il diario sulle ginocchia, dopo averlo chiuso, con la penna nel mezzo delle pagine, a tenere il segno sull’ultima appena scritta. Roteò le spalle un po’ indolenzita. Scriveva, seduta con le gambe incrociate sul letto. Con la schiena poggiata contro il muro. Si guardò intorno. Posò il diario alla propria destra e si alzò. Infilò i piedi scalzi nella pantofole e sbuffò annoiata. “Brutto str**zo!”, parve inveire contro un immaginario interlocutore. Immaginario perché l’immagine di quell’interlocutore lei la aveva bene visualizzata nella mente. Già dal pomeriggio precedente aveva cercato di convincerlo in tutti i modi. Aveva insistito per diversi minuti, per poi soprassedere e, dopo averlo distratto con altri discorsi, era tornata sull’argomento ripresentando con veemenza la
propria mozione. Ma
Alessandro era stato inamovibile. Sul diario aveva appena annotato le sensazioni che provava, dopo aver riletto le pagine scritte il giorno prima, a sangue caldo. “E’ un grandissimo stron**! Io mi dedico totalmente a lui. Non gli ho mai rotto le pa**e per la stronz*ata che ha fatto! Sono sempre dolce e carina. Ieri l’ho coccolato tutto il tempo e lui nemmeno sembrava che mi vedesse. È proprio uno str***o! Lo odio quando mi tratta così. Ed io che sono una scema. Mi da troppo fastidio che gli ho dato la soddisfazione che gliel’ho chiesto dieci volte di portarmi alla gita. Ma cosa ca**o me ne frega se deve fare il baby – sitter a quei due bambini…io volevo stare con lui. Ho una voglia di andar là e farglielo vedere che lui a me non mi comanda, ma ho paura. Tanto lo so come va a finire. Lo vedo e gli salto addosso. Faccio sempre così, perché sono solo una stron*a anche io! Che mi sono innamorata di uno così…Mi manca…vaff*****o a me! Chissà se mi sta pensando….”. Sospirò, si risedette sul letto. Aprì il diario. Rilesse ciò che vi aveva appena scritto. Cancellò alcune parole tracciandoci sopra delle linee con la penna. Poggiò la testa contro il muro, si portò il diario sul viso, e stette così, per qualche istante, in silenzio.
“Ci siamo persi, Ale? Ci siamo persi?”, continuava a chiedere Cristian, tirandolo per la manica della felpa. “E stai zitto un attimo!”, lo spinse Alessandro. Cristian indietreggiò barcollando per poi cadere.
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“Che rottura che sei!”, digrignò i denti Alessandro avvicinandosi e tendendogli una mano per aiutarlo a rialzarsi. Ma Cristian colpì la sua mano scostandola e si rialzò piangendo, mentre cercava di ripulirsi dalle foglie e dal terriccio. “Vattene! Vattene via!”, piangeva, “Guarda, mi sono tutto sporcato! Voglio tornare da mia madre!”, continuava a piangere. Alessandro si morse la mano destra chiusa a pugno. Guardò Tommaso. Il ragazzino restava immobile, quasi estraneo a tutto quel piangere e gridare. “Caz**!”, gridò Alessandro. E lo ripeté per un numero imprecisato di volte, mentre si batteva il pugno contro la coscia. Cristian continuava a piangere. Alessandro gli si inginocchiò di fronte, posandogli le mani sulle spalle, per cercare di rincuorarlo. “Dai, Cristian, non piangere. Non ti preoccupare, non ci siamo persi. Adesso torniamo da tua madre. Però smetti di piangere, avanti”, gli passò una mano sulla guancia. Il bambino parve calmarsi. Tirò su col naso alcune volte. Alessandro gli sorrise. Gli occhi di Cristian erano rossi e carichi di lacrime. Storse le labbra in una smorfia di disperazione. “Voglio tornare a casa mia”, riprese a piangere a dirotto, portandosi le mani sugli occhi ed urlando sempre più forte. Alessandro cercò di calmarlo in tutti i modi, ma il bambino si agitava sempre di più. “E adesso basta!”, si alzò di scatto, “Mi hai rotto i cogl**ni! Me ne vado, vi mollo qui!”, disse voltandosi e scalciando sassi e cespugli. “E’ colpa tua se ci siamo persi!”, continuava a piangere Cristian. “Cosa?!”, si voltò Alessandro, andandogli incontro e allungando una mano verso di lui, per poi chiuderla a pugno, stringendola forte fino a farsi male e mordendosi quasi le labbra. “Ci siamo persi perché tu ti sei messo ad inseguire quel cane del caz**! Che se lo trovo lo prendo tutto a calci in cu*o e prendo anche a te a calci in cul*!”, l’espressione di Alessandro era rabbiosa. “Tu sei il grande!”, lo rimproverava Cristian, “I grandi devono proteggere i bambini! L’ha detto Don Alfonso!”, continuava a disperarsi. Alessandro inspirava ed espirava ansimando per il nervoso. Scosse la testa e chiuse ed aprì nervosamente i pugni, consecutivamente per quattro volte il destro e cinque il sinistro. Poi vide Tommaso, seduto con le gambe incrociate, col quaderno in mano, che aveva preso dallo zaino che portava sulle spalle, mentre disegnava su un foglio.
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“E no, caz**! Non ti ci mettere anche tu con questo ca**o di disegno! Che ne ho già le pal*e piene di voi!”, gli gridò contro afferrando il quaderno, strappandoglielo dalle mani. Tommaso si alzò di scatto come una furia, urlando mentre la sua faccia si contorceva in espressioni di odio parossistico e, senza che Alessandro potesse far nulla, né schivarlo, tantomeno reagire, lo colpì al mento con un pugno, facendolo cedere sulle ginocchia. Mentre lasciava andare il quaderno che cadeva in terra, e si portava entrambe le mani sul viso, Alessandro sgranò gli occhi per lo stupore. Tommaso raccolse il quaderno e si allontanò tremante. Cristian lo seguì immediato. Alessandro restò in quella posizione per alcuni istanti, massaggiandosi il mento, senza quasi nemmeno pensare. “Che cazz* ho fatto…”, chiese a se stesso.
“Chissà cosa staranno combinando i ragazzi”, disse divertito Don Alfonso Maria, chiacchierando con Marianna, Annalisa, la signora Eleonora e Rossella, che avevano formato gruppo. “Mi sono distratta un attimo e poi non li ho più visti…”, si rammaricò Annalisa. “Non ti preoccupare, Ale è in gamba!”, la tranquillizzò, non senza compiacimento personale, Marianna. “Puoi stare tranquilla. Avete visto quanto sono diventati affiatati durante il torneo. E non c’è da preoccuparsi anche se si allontanano nel bosco, perché ci sono indicazioni chiare e continue. Lasciamoli un po’ da soli, oggi è la loro giornata”, sorrise il prete. “Lo sa che però una madre non è mai tranquilla quando si tratta dei propri figli. Io faccio un giretto qua intorno. Se li vedo resto lontana, senza disturbarli”. “Aspetta, Eleonora, vengo anch’io”, le disse Marianna, abbassando leggermente lo sguardo, forse sentitasi chiamata in causa da quel discorso.
Alessandro si riebbe dallo stupore e si alzò. “Ca***, devo trovarli prima che si perdano davvero. Ma è possibile che non ci sia nemmeno un cartello?”, pensò ad alta voce. Si mosse verso dove gli era parso si fossero diretti. E mentre camminava, con passo svelto, ma stando attento a non impigliare il piede in qualche rovo, li chiamava a gran voce. Intanto i due bambini continuavano ad aggirasi dentro il bosco. “Tommaso, qui mi sa che ci siamo già passati”, gli disse Cristian.
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Tommaso non parve ascoltarlo. Aveva smesso di tremare e procedeva lentamente, tenendo stretto al petto il quaderno. Ogni tanto si fermava, si guardava intorno, quasi a chiedersi quale sentiero percorrere, quindi ne imboccava uno, e Cristian dietro di lui. “Aspetta, guarda, metto questa pietra, così, se dopo ripassiamo davanti a questo albero, la riconosco”, gli disse il bambino. Tommaso si fermò e si voltò a guardare la pietra. E si accorse che Cristian non era più dietro di lui.
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Alfabeto
Alessandro continuava a chiamare a gran voce i due bambini, quindi restava un po’ in silenzio, in attesa di una risposta da parte loro, e poi, per qualche attimo ancora, immobile, cercando anche di trattenere il respiro, per ascoltare i rumori provenienti dal bosco, e provare a determinare dove si trovassero Cristian e Tommaso. Ma il bosco non pareva voler collaborare, e le sue diverse voci, dal frusciare del vento tra le fronde, al cinguettare degli uccelli, gli parlavano all’unisono, confondendolo. “Ma non si dice che nei boschi c’è pace, silenzio e tranquillità?”, si chiese ad alta voce. “Ma dove caz** sono andati quei due? E soprattutto dove c**o mer** vaff**cu*o sono io?” “Cristian, Tommaso!”, riprese a gridare.
Tommaso si concesse qualche istante di incertezza. Si avvicinò all’albero dove il bambino aveva poggiato, nemmeno un istante prima, la pietra segnaletica; ne era sicuro, non poteva essere passato che un semplice attimo dal momento in cui lo aveva sentito parlare a quello in cui lui si era voltato per guardarlo. Ma Cristian non c’era. Tommaso sbigottì, e con la bocca leggermente aperta si sfilò lo zainetto dalle spalle e vi ripose dentro il quaderno. Sollevò poi la pietra che Cristian aveva detto di aver posto vicino all’albero ed ingenuamente vi guardò sotto. La lasciò cadere e guardò prima alla sua destra e poi alla sua sinistra. Accennò a parlare, ma poi ammutolì. Un soffio leggero gli uscì dalla bocca. Pensò di vedere un’impronta sul terreno, quindi decise di proseguire verso quella direzione. I suoi passi erano leggeri, e quasi non produceva il minimo rumore nel calpestare le foglie ed i piccoli ramoscelli con le scarpe. Procedeva comunque lentamente, a tratti pareva tentato dal pronunciarne il nome. Apriva la bocca, o meglio lasciava andare il labbro inferiore. Inspirava impercettibilmente. Gli occhi si aprivano e le pupille si dilatavano per una frazione di secondo. Poi richiudeva la bocca ed espirava dalle narici, ed il suo volto recuperava l’eternità marmorea che ne contraddistingueva il sembiante.
Alessandro alternava una corsa impetuosa ad una sosta per riprendere fiato, chinato con le mani sulle ginocchia, per poi continuare a gridare a gran voce i nomi dei due ragazzini. Si
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guardava intorno, e più correva più gli pareva di attraversare sempre lo stesso tratto di bosco. A guardare dal basso, a tratti non riusciva nemmeno a vedere il sole, tanto erano folte le fronde, e gli parve che incominciasse a far freddo, anche se si sentiva ribollire il corpo. Il cuore gli batteva all’impazzata, e la gola ed i polmoni gli bruciavano, come se qualcosa d’appuntito lo stesse pungendo in profondità. Le pause per prendere fiato si prolungavano man mano che il tempo passava, e le sue grida iniziavano a perdere intensità e, quando riprovò a chiamare Cristian e Tommaso, dovette interrompersi perché cominciò a tossire. Sentiva il sudore sulla schiena e sul petto, e nell’inguine. “Non posso fermarmi, li devo trovare prima che faccia buio. Chissà che ora è…”, chiese a se stesso. E forse maledì di non avere un orologio.
“Torniamo dagli altri? Magari adesso loro sono lì e poi finisce che devono venire a cercare noi”, le sorrise Marianna. La signora Eleonora storse leggermente le labbra. Sbuffò. “Già, forse hai ragione. E poi non è detto che siano venuti da questa parte. Questo parco è immenso. Spero solo che non si siano allontanati troppo”. “Stai tranquilla, mi fido di Alessandro. È un ragazzo responsabile”, a Marianna si illuminarono gli occhi. “Già, immagino che sia dovuto crescere piuttosto in fretta…”, commentò con una lieve supponenza la donna. Marianna alzò istintivamente una mano e provò a dirle qualcosa, ma non le riuscì di parlare. Anche perché la madre di Cristian si era già allontanata. “Stro**a benpensante! Ed io che parlo male dei borghesi!”, sputò per terra Marianna. E la seguì standole distante, borbottando nervosamente.
Alessandro si fermò. Non solo per rifiatare, perché oramai sentiva la gola ed il petto, all’altezza dello sterno, bruciare talmente forte da ansimare sincopando, e conati secchi di vomito gli risalivano alla bocca mentre tossiva. Si accovacciò in ginocchio, reggendosi con una mano a terra e con l’altra tenendosi il petto. Auscultava col palmo le proprie pulsazioni, in un crescendo extrasistolico che non riusciva a quietare. Respirava affannosamente, con le lacrime agli occhi a causa della tosse. I suoi lamentosi sforzi riecheggiavano nel silenzio opprimente del bosco. Ma, nonostante le caviglie gli si fossero inturgidite a tal punto che non gli riusciva quasi di muovere i piedi, ed i polpacci gli si contorcessero in strette fitte, non si era fermato solo per riprendere vigore e 139
recuperare il fiato. Si fermò proprio lì, perché, anche se ci era passato davanti più volte distrattamente, visto che si ritrovava a girare in cerchio attraversando sempre gli stessi punti, con la coda dell’occhio aveva intravisto quella strana pietra. Così, mentre con la mano si massaggiava petto e gola emettendo inusuali suoni gutturali, con la testa si appropinquava alla pietra bianca, sulla quale qualcuno aveva lasciato delle incisioni, forse con un'altra pietra, o forse con uno scalpello. Alessandro si sedette con le gambe incrociate, mentre scuoteva leggermente la testa cercando di riprendersi. Ora aveva entrambe le mani al petto, e tirava su col naso, mentre ancora qualche lacrima di sofferenza gli colava dagli occhi. La pietra davanti alla quale era seduto era piuttosto grande, e si sorprese di non averla notata prima, anche se, scusando se stesso, convenne che le incisioni non erano facili a notarsi, soprattutto se come attenuante si consideravano la corsa e la ricerca dei due bambini. Sulla pietra erano incise delle lettere. O meglio, sulla pietra era incisa una sola lettera, ripetuta più volte: a volte scritta in corsivo, a volte in stampatello, altre volte minuscola, altre volte scritta maiuscola. Era la lettera “a”, la prima lettera dell’alfabeto. La qualità del tratto presentava un crescendo artistico, in maniera inversamente proporzionale alle dimensioni delle singole lettere. “Sembra il quaderno di un bambino di prima elementare”, commentò corrugando le sopracciglia, e allungando una mano verso la pietra, accarezzando col dito indice il solco delle incisioni. Per qualche istante si scordò di essere stanco, mentre con scrupolosa attenzione studiava quelle irregolari fenditure e teneva a bada la propria razionale curiosità. “Chi può aver fatto qualcosa del genere?”, si chiese. Si alzò, non senza fatica. Inspirò per alcune volte col naso, rilasciando l’aria con la bocca socchiusa, a soffiare, dolce ma deciso, il respiro fuori dai polmoni. Non sapeva dire se quegli intagli sulla pietra fossero recenti o meno; oltre alla successione di “a” non vi era altro segno distintivo: non una firma, non una data. “Però questo significa che qualcuno è stato qui. Quindi non ci siamo persi. Devo solo ritrovare quei due rompi*****oni!”, sbuffò riprendendo a camminare.
Tommaso procedeva lento. Non si curava del bosco attorno a se. Ogni tanto si sedeva, su una pietra inverdita dal muschio, o direttamente sul terriccio, sfilava il quaderno dallo zaino e disegnava. Il tratto di quell’immagine perenne sui fogli era, però, ora incostante; 140
la mano di Tommaso tremava leggermente. Scorse le pagine all’indietro, e si fermò su una delle prime, confrontando i due disegni. Tenne così aperta questa prima pagina e disegnò sopra il disegno già disegnato, ripassando le linee nere, più e più volte, seguendo leggero il primo tratto, semplicemente poggiandoci sopra la punta della penna, tanto che quasi non lasciava traccia. Ma pian piano la sua mano premeva sempre più forte sul foglio, ed ora le linee si ingrossavano, per farsi sempre più imprecise, come un fiume che esonda. Si soffermò in particolare sul cerchio, inscrivendocene all’interno tanti altri, quasi a trasformarlo in una palla nera, o molto più simile ad un gomitolo, almeno in idea. Poi tornò all’ultima pagina, e confrontò nuovamente i due disegni, e parve quasi soddisfatto. Si alzò, battendosi i pantaloni all’altezza delle cosce, per ripulirsi dal terriccio. Ripose il quaderno nello zaino e riprese a camminare. Passò per l’ennesima volta davanti all’albero ed alla pietra lasciata da Cristian. Si fermò, si chinò e la raccolse, infilandola nello zaino. Quindi si diresse alla propria destra.
Alessandro continuava a chiamare a gran voce i nomi dei due bambini. “Dai, finitela di fare gli scemi! Lo scherzo è finito! Avete vinto voi, vi siete nascosti benissimo! Uscite fuori che torniamo alla piazza! Dai Cristian, che tua madre ti aspetta!” Restò in silenzio per un po’, sperando di averli convinti a saltar fuori magari da qualche cespuglio, dietro il quale si erano nascosti, ma più i minuti passavano, ed ormai era più di un’ora che li cercava senza risultato alcuno, più si convinceva che difficilmente li avrebbe raggiunti. “Ca**o, alla fine sono riusciti ad uscire dal bosco ed io sono qui come uno str**z* a gridare! Basta!”, si decise, “Devo trovare l’uscita e andarmene da qui. Finisce che tramonta e mi tocca dormire sotto un albero.” Parlava tra se ad alta voce, quando la vide. Non era bianca come la prima, ma le dimensione parevano simili, e c’era un po’ di muschio a ricoprire le incisioni. Si avvicinò alla pietra, e grattò via il muschio, scoprendo quelle “d”, e gli sembrò di intravedere un notevole miglioramento nello stile e nella simmetria. “Queste le ha fatte più o meno quasi tutte uguali!”, commentò, quasi compiaciuto. “Ma chi sei? Ti sei perso pure tu qui?”, si alzò guardandosi intorno. “E la “b” e la “c”? Me le son perse?”, si grattò leggermente la fronte, per poi massaggiarsi con veemenza il mento. “Comunque di qui non ci ero ancora passato, ne sono più che sicuro, anche se stavo correndo non è possibile che non le abbia viste; queste si vedono molto più delle altre. 141
Però…”, si trovò a soppesare le idee, accarezzandosi la punta del naso,“… Non è detto che queste scritte le abbia fatte qualcuno che è stato qui. Potrebbero essere una specie di scultura, come quel tipo che taglia le pietre e le fa suonare♦. Quindi questo potrebbe essere semplicemente un sentiero”, si entusiasmò Alessandro, “E non devo far altro che proseguire fino alla fine e troverò sicuramente un’uscita. Devo cercare tutte le lettere, e magari trovo subito la zeta e me ne vado da questo bosco di me*da!”, disse battendosi il pugno della mano destra sul palmo della sinistra. Intriso di questa nuova determinazione, proseguiva lentamente e con cautela, prestando attenzione ad ogni masso di una certa dimensione, ed analizzando ogni segno, scrostando zolle di muschio, strappando piccoli arbusti, studiando il bosco con perizia da semiologo. Scorse così una serie di “g”, una ripetizione di “h” ed una sequenza di “m”. “Ne sto saltando troppe, però almeno vuol dire che sto andando avanti. Questa è sicuramente la strada giusta per uscire da qui. Dai che ce la faccio!”, gridò a se stesso battendo le mani. E gridò ancora più forte, ma parole che non è dato ripetere, quando si ritrovò di fronte la prima pietra, quella con incisa sopra la lettera “a”.
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Pinuccio Sciola, San Sperate, 1942
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La vergine della roccia dietro la cascata
Alessandro la sentì abbaiare, mentre prendeva a calci la pietra bianca e gridava improperi contro la lettera “a”, l’alfabeto tutto e l’Accademia della Crusca, compresi alcuni noti autori di dizionari della lingua italiana. Si voltò verso di lei e le ringhiò contro, correndo per raggiungerla, animato da una furia animalesca. “Cane di mer**, vieni qui! Fermati bastardo! Fermati!”, le urlava mentre la inseguiva filando a perdifiato. Non si era reso conto che fosse una cagna, ma forse il saperlo non sarebbe comunque stato motivo di scrupolo per lui. Pasqua scattava leggiadra, minimamente disturbata dai modi di Alessandro. E se si allontanava troppo, anzi, si fermava ad aspettarlo, e non appena gli era vicino, riprendeva a zampettare leggera: con tre balzi lo distanziava nuovamente di una decina di metri, poi si faceva riprendere, e lo distanziava ancora. Alessandro si fermò a raccogliere alcune pietre da terra e gliele lanciava, ma il cane le schivava senza voltarsi a guardarlo. “Ma come caz** fai?”, gridava il ragazzo mentre la bersagliava inutilmente, quindi, sconfortato, con lei che, immobile, a pochi metri davanti a lui, lo fissava, e gli parve stesse sogghignando, riprese a correrle dietro. Pasqua si fece seguire per una decina di minuti, tra gli alberi ed i sentieri. Mentre correva, Alessandro scorse altre pietre con lettere incise, diverse da quelle di fronte alle quali si era soffermato precedentemente. “Conosce la strada!”, sbuffò mentre correva, “Mi sta portando fuori?” Il cane corse veloce tra gli alberi, gli arbusti, i muschi e le pietre ancora per qualche minuto, con Alessandro che appariva sempre più stanco per la corsa, e già non le gridava più contro, ma si concentrava sui propri piedi, sforzandosi di non incrociare le caviglie, perché la sua andatura si faceva pian piano incontrollabile e gli sembrò che le gambe corressero da sole. Si accorse solo allora che procedevano in discesa. E, quando venne fuori dal fitto bosco, fu investito dal bagliore del sole, che splendeva pieno di fronte a lui, e per alcuni istanti si sentì cieco. Udiva solo il latrare del cane e forse istintivamente, o forse perché, anche se solo per una frazione di secondo, inconsciamente, aveva intravisto il dirupo, si fermò aggrappandosi con entrambe le mani all’ultimo albero che sfiorò. Ed
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era quello l’ultimo albero che si affacciava sul burrone, con lo strapiombo che si apriva a pochi metri da lui. Alessandro restò immobile per diversi istanti, abbracciato con entrambe le mani all’albero. Le gambe gli avevano ceduto per la stanchezza, e le teneva distese e scomposte. Scivolava pian piano, così, cinto al tronco del leccio, e ben presto si trovò riverso a terra, lungo disteso, ma sempre stringendolo forte. Pasqua si avvicinò abbaiando, e gli morse il bavero della maglietta, tirandolo verso di se, invitandolo ad alzarsi, anche graffiandolo leggermente con le zampe. “Lasciami in pace, maledetto!”, cercava di dissuaderla Alessandro, agitando le mani, stremato. Lei continuava ad abbaiare, facendosi sempre più insistente. Ma fosse stato per la sua persuasione, probabilmente, anzi ciò è sicuro, non si sarebbe mai rialzato, mentre imprecava contro di lei, tossendo, con nemmeno più la forza di aprire gli occhi, mentre sentiva il cuore pulsargli in gola, quasi volesse venirne fuori per rifiatare con più facilità. Il fatto è che li sentì gridare. Il motivo per cui si alzò, così rapido che quasi pareva non avesse fatto altro che riposarsi sino a quel momento, è che li sentì chiedere aiuto. Si precipitò verso di loro, e trovò Tommaso proteso oltre il limite del dirupo, con il busto pericolosamente esposto sul precipizio, con lo zaino aperto che gli si era rovesciato sulla nuca, mentre con entrambe le mani stringeva il braccio destro di Cristian, che penzolava nel vuoto, piangendo e gridando. E chiamava la madre, il padre, Gesù. Ed invocava Alessandro. E pregava Tommaso di non lasciare la presa. “Non ti lascio, non ti lascio!”, urlava a sua volta Tommaso.
Mentre poggiava la pietra vicino all’albero, che secondo il suo progetto avrebbe dovuto servirgli da indicazione, Cristian aveva visto la cagna poco distante, dietro un cespuglio, e gli parve che lo stesse aspettando. Lui le corse subito incontro, tanto fulmineo che Tommaso nemmeno si accorse che si stava allontanando. E le corse dietro per diverso tempo, ma lei non accennava a fermarsi. “Ma non ti stanchi?”, le chiedeva. “Vieni qui, aspettami!”, le gridava. Ma Pasqua, anche se pareva non corresse, riusciva quasi a seminarlo. “Non ce la faccio a correre! Aspettami! Vieni qua, cagnone!”, la seguiva protendendo in avanti le mani. Poi Pasqua abbaiò e si fermò. Cristian a quel punto accelerò per raggiungerla. Ma con un balzo la cagna sparì nuovamente dietro un gruppo di altissimi lecci. Così anche Cristian 144
saltò, e rotolò fino a che non sentì la terra sparirgli da sotto i piedi. Ed allungò le mani per aggrapparsi a qualcosa, e prima le strinse attorno ad un cespuglio e poi, quando questo si strappò dalla roccia, riuscì ad afferrarne uno spuntone. Fu così che Tommaso lo vide, mentre gridava piangendo, chiedendo aiuto a gran voce, con tutta la forza che sentiva in corpo, e forse anche di più. Il ragazzino corse verso di lui e si piegò sulle ginocchia, cercando di non sporgersi troppo ed allungando una mano, mentre con l’altra si reggeva al terreno, verso il polso di Cristian. Ma il suo tentativo risultava vano, in quanto mentre tendeva il braccio verso il bambino, di contro spingeva la schiena all’indietro, irrigidendo le gambe e penetrando con le dita dell’altra mano nel terriccio. Cristian continuava a gridare. “Prendi la mia mano”, gli disse Tommaso. “Non ci arrivo!”, piangeva il bambino. E chiamava la madre, Gesù, Tommaso, Alessandro. Tommaso deglutì e chiuse gli occhi, rilassando i muscoli delle spalle e porgendo il busto in avanti. Lentamente, ma progressivamente, si adagiò supino verso il bordo del precipizio, sino a che la testa, e poi il collo, e poi parte del petto non furono oltre, e con la mano riuscì finalmente a toccare il polso di Cristian. L’altra restava ancora ancorata al terreno, tremante. “Tirami su! Aiutami! Aiuto!”, gridava Cristian. “Resisti!”, gli rispondeva Tommaso, cercando di incoraggiarlo. O meglio cercando di incoraggiare entrambi, perché il suo cuore batteva all’impazzata, e non aveva ancora avuto il coraggio di aprire gli occhi. Quando sentì con la mano di aver afferrato il polso di Cristian, lo strinse forte, e provò a tirarlo verso di se, facendo leva con la mano con la quale si reggeva al terreno. Ma il bambino era troppo pesante. “Cerca di tirarti su!”, lo incitava Tommaso. “Non ce la faccio. Ho paura!”, piangeva ancora Cristian. Tommaso teneva ancora gli occhi chiusi, ma poi li aprì e li tenne sbarrati, così come la bocca, quando sentì il polso di Cristian scivolare, ed urlò. Repentinamente, la mano con la quale si reggeva al terreno scattò ad arpionare quella di Cristian, che ora restava sospeso nel vuoto, senza più nessun appiglio, ciondolando, retto per un braccio solo dalle mani di Tommaso, che lentamente sentiva il ventre scivolare verso il precipizio, tanto che il busto, quasi all’altezza dell’anca, fu sporto nel baratro, e lo zaino gli si capovolse sulla nuca, si aprì, ed il ragazzino poté solo vedere il suo quaderno precipitare e dissolversi oltre il suo 145
sguardo. Ma non ebbe modo di lamentarsene, perché nei propri occhi aveva lo sguardo di terrore di Cristian, e ci poté vedere la propria paura riflessa dentro. Quando sentì il pube perdere aderenza col terreno, mentre le sue gambe si levavano per aria, chiuse gli occhi e strinse fortissimo il polso di Cristian. Fu allora che sentì quella voce gridare, ed una mano afferrargli la caviglia e spingergliela con forza verso il basso, e poi gli afferrò il collo, e si sentì quasi soffocare, e poi si sentì scuotere e rivoltare. E quando riaprì gli occhi vide Alessandro, e ne sentì l’ansimare sul collo, e restò impietrito e muto per qualche istante, quindi si liberò con forza dalla sua presa, allontanandosi, strisciando sulle gambe, e fermandosi ad un metro da lui, che tremante, con gli occhi lucidi, cingeva al proprio petto Cristian, che piangeva senza sosta, e lo abbracciava quasi a penetrargli le dita nella schiena. “Scusami, perdonami! Perdonatemi!”, diceva al bambino, mentre lo baciava dolcemente sulla testa, e lo cullava stringendolo a se. “E’ tutto finito! E’ tutto finito!”, cercava di consolarlo.
Cristian continuò a piangere per parecchio tempo, forse un’ora, o almeno così parve ad Alessandro, poi, stremato, si addormentò tra le sue braccia. Per tutto quel tempo, nessuno, oltre Cristian, pronunciò parola. Alessandro continuò a coccolare il bambino, ogni tanto cercando di incrociare lo sguardo con Tommaso, che però lo teneva fisso sulle proprie mani, mentre le rigirava sul dorso e sul polso, ed osservando Pasqua, che si era avvicinata a loro ed accarezzava Cristian col muso, leccandogli le guance. Quando il bambino si fu addormentato, Alessandro lo posò delicatamente, alzandosi, quindi carezzò il cane sotto il mento e poi sulla nuca. “Grazie!”, le disse commosso. Si avvicinò a Tommaso. Fece per tendere una mano e toccarlo, ma si trattenne dal farlo. “Stai bene?”, gli chiese. “Il mio quaderno”, rispose lui. “Cosa?” “Il mio quaderno…è caduto giù”, gli tremava la voce. “Il mio quaderno”, gli disse sollevando lo sguardo. E ad Alessandro parve che lo stesse implorando. Allora si avvicinò al bordo del precipizio, e vi si sporse leggermente con la testa, e gli parve di vederlo spiccare, con quella copertina colorata, in contrasto col bianco delle
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pietre che formavano il limite del letto di un piccolo fiumiciattolo che scorreva in quella valle. Si voltò verso Tommaso, poi si sporse nuovamente ad osservare il quaderno, quindi si voltò ancora verso Tommaso, ed assunse un’espressione sconsolata. Gli si avvicinò, ed inginocchiandosi lievemente lo guardò in viso. “Bada al bambino”, gli disse con tono serio. Quindi si alzò e si diresse verso l’orlo del burrone e camminava dubbioso verso destra e poi verso sinistra, alla ricerca di un punto che gli permettesse di scendere. Quando si fermò, borbottò qualcosa, quindi guardò Pasqua e le chiese di badare ai due ragazzi, poi sporse un piede oltre il bordo e, trovato un appoggio, si voltò e, reggendosi con le mani, si calò giù per la parete. “Ma chi ca**o me l’ha fatto fare!” “Adesso cado e muoio!” “Ora non posso più ne scendere ne salire!” “Mer**” “Caz**” “Mer**a!” “***zo!” Scendeva molto lentamente, cercando di guardare il meno possibile verso il basso, concentrando lo sguardo sui piedi, e sulle sporgenze sulle quali li poggiava, e poi lo sollevava e lo fissava sulle proprie mani, cercando di trovare l’appiglio più sicuro e stabile. La parete, nel punto dal quale aveva deciso di calarsi, non era eccessivamente ripida, anzi, in alcuni punti, avrebbe potuto muoversi con più agilità e scendere frontalmente, ma sentiva le gambe molli, e le braccia insicure nella presa, quindi decise di procedere con la massima cautela. Impiegò circa quarantacinque minuti a scendere, rallentato dalle continue pause che si concesse, per rifiatare e pronunciare irripetibili oscenità, e dai numerosi ripensamenti e tentativi di riscalare la parete verso l’alto. Quando posò entrambi i piedi sulle pietre e vide, voltandosi, il fiumiciattolo che scorreva a qualche metro di distanza, si rilassò, sedendosi per terra. Fu allora che sbigottì, vedendoli tutti e tre li giù assieme a lui: Cristian lo salutava sorridendo, mentre accarezzava Pasqua, che abbaiò verso di lui scodinzolando. Tommaso stringeva al petto il quaderno, e la sua espressione era di nuovo vacua ed impenetrabile. Alessandro sollevò lo sguardo verso l’alto.
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“Ma come avete fatto a scendere? E il cane? E tu non stavi dormendo?”, gli chiese confuso. “Mi ha svegliato lei”, gli rispose Cristian. “Lei?”, scosse la testa. “Si, è una femmina, non ha il pisellino, non te ne eri accorto?” Alessandro corrugò la fronte sconsolato. “C’è un sentiero, lo vedi?”, gli indicò col dito Cristian, “L’abbiamo seguita e siamo arrivati qui. Non c’era bisogno di arrampicarsi!”, sorrise. Alessandro si portò le mani sul viso, coprendoselo, ed emise diverse urla compresse. Quindi si alzò. “Va bene, calmo, devo solo stare calmo, è un incubo!”, parlò a se stesso. “Ora voglio solo che ce ne andiamo di qua”, disse guardando il piccolo corso d’acqua. “Questo fiume dovrebbe sfociare da qualche parte. Ci sarà un lago o una pozzanghera in questo parco, ca***. E se c’è un lago, ci sarà anche gente. Quindi io dico che dobbiamo seguire questo fiume e vedere dove porta”, disse storcendo leggermente le labbra. “Agli ordini, capo!”, rispose sorridente Cristian, portandosi la mano, di taglio, sulla fronte, alla stregua di un saluto militare. Pareva proprio aver dimenticato la paura dei minuti precedenti. Alessandro si mosse, e dietro di lui i bambini ed il cane. Si voltò un’ultima volta a guardare verso l’alto, gli parve di scorgere un’ombra muoversi. Si stropicciò gli occhi e guardò di nuovo, ma non vide nulla. Si grattò la nuca. Costeggiarono il fiume per qualche centinaio di metri, sino a che lo videro penetrare sotto una roccia proseguendo con un percorso sotterraneo. La roccia era invalicabile, e non poterono far altro che ritornare sui propri passi, imboccando un sentiero che si inerpicava tra gli alberi. Fu allora che Pasqua, con uno scatto fulmineo, si dileguò tra i cespugli. “Inseguiamola, presto! Conosce la strada!”, comandò Alessandro. I due bambini partirono alla sua rincorsa, ma del cane non restò che qualche pelo soffiato da un leggerissimo vento. Alessandro imprecò per alcuni minuti, poi guardò i due ragazzini. “Ok! Il cane ormai se n’è andato! Se lo ritroviamo lo leghiamo con qualche cosa, perché sono sicuro che conosce i sentieri e ci può portare fuori da qui. Adesso la cosa importante è non separarci più, va bene? A costo di tenerci per mano! Mi avete capito?”.
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Alessandro parlò con lo sguardo rivolto soprattutto verso Tommaso, giacché Cristian gliela tese subito sorridente, mentre lui deglutì ed istintivamente se le infilò entrambe in tasca. Alessandro sollevò gli occhi al cielo e scosse leggermente la testa. Proseguirono in fila indiana, con Cristian al vertice della piccola comitiva, ed Alessandro nelle retrovie, che con meticolosa attenzione osservava alberi, pietre e terriccio, per individuare qualche traccia del passaggio del cane, ma anche nella speranza di scorgere altre pietre incise. E dopo un po’ che camminavano, capitò a Cristian di notarne una, e gliela indicò correndoci contro. Alessandro, giunto in prossimità della pietra, con un garbato ma deciso gesto del braccio, spinse leggermente Cristian all’indietro, per poterla osservare meglio; il bambino non obiettò. Si sedette poi sui talloni e si avvicinò col viso alle scritte verdi che la ricoprivano. Strisciò l’indice della mano destra sopra le lettere, poi se lo portò davanti agli occhi prima, e dunque sotto il naso, ed infine alla bocca. “Erba…”, disse con una espressione disgustata, mentre sputacchiava e tossiva muovendo freneticamente la lingua e le labbra. “Madre terra, oh madre, conducimi al centro di te, racchiudimi dentro di me…”, lesse, aggrottando le sopracciglia e scuotendo la testa. “Eh, cosa?!”, chiese ad alta voce, voltandosi istintivamente verso i due bambini, poi quasi conscio dell’impossibilità di ottenere da loro consulenza, aggrottò gli occhi e si rivolse alla pietra. “E’ una canzone?”, gli chiese Cristian. “Forse una poesia…”, rispose lui, dubbioso, mentre si alzava. “Non ci capisco più niente. Ma dove siamo finiti?”, si chiese. “Questo conferma che queste pietre sono delle specie di opere d’arte messe qui in mostra. Però allora ci dovrebbe essere un percorso, un sentiero, o almeno qualche indicazione. Qualcuno ci sarà pur venuto sino a qui per scrivere queste cose, ca***!”. “Stai dicendo un sacco di parolacce, oggi! Sei maleducato!”, gli disse incrociando le braccia e voltandosi Cristian, con un’espressione tra l’imbarazzato e l’offeso. Alessandro lo guardò storcendo il naso, ma senza commentare. Cercò poi con lo sguardo Tommaso, e non trovandolo accanto a se si scoprì a tremare leggermente, fino a che non lo vide giungere apparendo tra gli alberi alla sua destra. “Si può sapere dove vai? Abbiamo detto che dobbiamo stare vicini!”, alzò la voce Alessandro, avvicinandosi a lui. “O vuoi che ci teniamo davvero per mano?”, aggiunse in modo minaccioso. 149
Tommaso non reagì in alcun modo, sollevò leggermente il braccio destro ed indicò col dito: “Venite a vedere”, disse a Cristian ed Alessandro. Dunque si mosse e gli altri lo seguirono; Cristian perché lo avrebbe seguito dovunque e comunque, anche non glielo avesse chiesto, Alessandro perché sperava avesse trovato un’uscita dal bosco, non potendo valutare la sua mancanza di entusiasmo, dato il suo incessante stato di apatia, ed anche e soprattutto, per il fatto che, di qualunque cosa si trattasse, era stata comunque in grado di attirare la sua attenzione, sino al punto di volerne condividere la visione con loro, e questo fatto parve ad Alessandro di per se già sorprendente. Camminarono per qualche decina di metri, quindi, superata una fitta boscaglia raggiunsero un ampio spazio libero da alberi limitato da una roccia che racchiudeva in se una piccola cascata, di non più di due metri d’altezza, con l’acqua che confluiva in un piccolo rigagnolo che si perdeva scendendo a valle. “Forse è da qui che nasce il fiume”, borbottò Alessandro. Tommaso si avvicino alla cascata ed indicò la parete della roccia che questa nascondeva sotto il velo trasparente dell’acqua. Alessandro fece qualche passo e poi sgranò gli occhi. “Ma…”, rimase sbigottito. Immerse un braccio nell’acqua sino a toccare la scultura nella roccia: rappresentava, con fattezze goffe, una donna. Alessandro accarezzò la pietra, e mantenne per un po’ il braccio sotto l’acqua. “E’ tiepida. È molto piacevole”, invitò gli altri due a fare altrettanto.
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Pietre
L’effige intagliata nella roccia era costituita da un corpo tozzo che dall’alto verso il basso si stringeva leggermente, a somiglianza di un cono. Due bozzi sporgenti a tre quarti dell’altezza lasciavano intendere che si trattasse di una figura di donna. Le braccia e le mani non erano ben definite, e si poteva identificarle per dei tagli sulla roccia che disegnavano uno spazio vuoto a contatto con il busto e tra le dita. La figura si fondeva con la roccia, non erano stati scolpiti i piedi. I tratti del viso erano approssimativi: un intaglio orizzontale individuava la bocca, mentre gli occhi erano due buchi profondi scavati nel mezzo di un volto privo d’orecchie, dalla forma irregolare, più simile ad un rombo che non ad un ovale. Sul capo la scultura indossava una parrucca di foglie verdi, ad imitarne la chioma. Su quel viso calcareo non v’era impronta del naso. “Io non è che ne capisca molto d’arte”, commentò tra se Alessandro, “Ma mi sembra proprio brutta”. “Fa schifo”, disse Cristian, scuotendo il braccio gocciolante, dopo averlo immerso nella cascata per toccare la statua. “Chissà da quanto tempo è stata fatta. Non so se possiamo sperare che arrivi qualcuno. Non capisco nemmeno se è finita o ci devono ancora lavorare. Non ci sono croci o altari, altrimenti avrebbe potuto essere un luogo di preghiera. L’ideale sarebbe che uno di noi restasse qui, mentre gli altri vanno a cercare un’altra uscita. Tranquillo, restiamo uniti!”, rassicurò Cristian, impallidito alla sola idea di poter essere incaricato di un tale compito, “Rischieremmo di perderci di nuovo, non credo che riusciremo a trovare di nuovo la strada se ci allontaniamo da qui. E’ meglio proseguire. Non so nemmeno che ore sono, ma ho paura che presto farà buio”, Cristian a queste sue parole deglutì. “E…le…na…”, disse sottovoce Tommaso. “Cosa?”, chiese Alessandro chinandosi ed avvicinandosi il più possibile con il viso alla statua. Strinse gli occhi per concentrare la propria capacità visiva su di una scritta intagliata sulla base della roccia, a mala pena visibile. “Elena”, ripeté pensieroso.
Rientrarono nel bosco, non essendo possibile procedere oltre. Camminarono per diverso tempo, sino a che non trovarono una nuova pietra bianca.
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“C**zo!”, esclamò Alessandro leggendo, sottovoce, cercando di non farsi sentire da Cristian, che in effetti non si voltò a biasimarlo con lo sguardo come spesso accadeva, “E’ davvero come se fossero i compiti di un bambino delle elementari”. “Li facciamo anche noi i verbi”, quasi gongolò Cristian, e lesse: “Io sarei, tu saresti, egli sarebbe…”. Alessandro si sedette sopra la pietra, interrompendo la lettura del bambino. Tommaso restava ai margini del piccolo gruppo, non era possibile stabilire se pienamente partecipe. Alessandro lo guardò di sfuggita, e distolse lo sguardo prima che il ragazzino di accorgesse di essere osservato. “Bambini, ho paura che dobbiamo cercarci un posto per dormire. Io direi che vicino alla cascata va benissimo, almeno avremo l’acqua. Non abbiamo neanche niente da mangiare”, e parlando così si sorprese del fatto che nemmeno Cristian se ne fosse lamentato. Ma bastò solo accennare al cibo perché lui iniziasse a piangere. “Ho fame, ho fame! Voglio mia madre! Mamma! Mamma!”, singhiozzava. Alessandro si alzò, digrignando i denti e quasi mordendosi la lingua. “Dai, però non puoi piangere a comando. Ti eri dimenticato di aver fame?”, gli parlava poggiandogli entrambe le mani sulle spalle. “Tu non hai nemmeno una merendina in quello zaino?”, chiese a Tommaso, che gli rispose con un cenno della testa. “Ma c’hai solo quel quaderno lì dentro?”, gli chiese ancora, sbuffando. A questo, però, Tommaso non rispose. “Se me lo fossi portato dietro lo zaino, invece di lasciarlo a mia madre! Dai, intanto cerchiamo di ritrovare la cascata. In quello spiazzo si può anche accendere il fuoco. Poi andrò a cercare qualcosa da mangiare. Ci sarà un c***o di melo almeno in questo bosco di m***a!”. Prese Cristian sottobraccio e si mosse cercando di ricordare la strada che avevano percorso poco prima. Tommaso li seguiva a debita distanza. Quando fecero nuovamente sosta, non erano giunti alla cascata. Ma dovettero comunque fermarsi, ad Alessandro quasi mancava la forza nelle gambe. Cristian si era tranquillizzato. Ma lui aveva necessità di rifiatare. “Ma dove siamo finiti?!”, borbottò tra se, ansimando lievemente. “Non preoccuparti”, disse poi a Cristian, che guardandolo si era incupito nuovamente, “Noi da qui ce ne andiamo adesso. Non ho nessuna intenzione di dormire sotto un
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albero”, cercò di apparirgli il più sicuro possibile, ma in cuor suo iniziava a dubitare delle proprie parole.
“Voi li avete trovati? Dove li avete cercati? Va bene, ora voi andate da quella parte e noi li cerchiamo da questa”. I membri del gruppo, formato da una ventina di persone, ormai, continuavano a scambiarsi frasi similari. Dal loro ritorno dal bosco, Marianna ed Eleonora, avevano continuato a chiedere a tutti i partecipanti alla gita, ed anche agli altri visitatori del parco, ed ai componenti del comitato, se avessero visto i tre ragazzi, poco a poco riuscendo a coinvolgerli nella ricerca, primo fra tutti Don Alfonso, che non aveva tardato ad allertare gli addetti del parco, e aveva richiesto l’intervento della Guardia Forestale. Ma per gli operatori dell’oasi ambientale, Alessandro ed i due bambini avevano semplicemente saltato il raduno per il pranzo, e per avviare le ricerche si sarebbe dovuto attendere il passare del pomeriggio. Ed il pomeriggio passò. I ragazzi mancavano all’appello da ormai quasi nove ore. Eleonora si lasciò andare in un pianto dirotto, mentre Marianna tentava di rincuorarla, cercando, però, in Rossella, e nelle altre donne presenti, uno sguardo di conforto. I nomi dei tre riecheggiavano pronunciati da Don Alfonso Maria attraverso i megafoni del parco, dopo che anche gli operatori ed il corpo forestale presero parte alle ricerche. Determinante fu una telefonata fatta dal Barone, che fu informato dell’accaduto da Anselmo. Lo stesso nobile si diresse alla volta del parco, a bordo del proprio elicottero privato. Non mancò di interessare la propria scorta personale, in quanto riceveva periodicamente minacce più o meno velate, e non poteva escludersi alcuna possibilità. La Contessa chiese di poter essere presente, ma inizialmente il Barone le negò tale possibilità, forse perché vivamente preoccupato, tanto da volerla preservare da eventuali ulteriori dispiaceri. Solo successivamente acconsentì che gli stesse accanto in quel momento disperato. Però non le permise di essere presente quando volle personalmente effettuare una telefonata prima di salire sull’elicottero. All’interlocutore disse, con tono imperioso: “Non è possibile che non lo troviate. Lui è dentro il bosco. Dovete assolutamente trovare quell’uomo e fermarlo. Prima che agisca...”, sbatté leggermente le palpebre, “A qualunque costo”, aggiunse.
I tre continuavano a camminare tra gli alberi, senza riuscire a ritrovare la cascata, ed ora non erano nemmeno più in grado di ritrovare le pietre con le incisioni. Il cielo iniziava ad 153
oscurasi. Alessandro continuava ad imprecare. Cristian si inginocchiò di fronte ad un albero ed accennò una preghiera, con le mani giunte e baciandosi la mano dopo aver fatto il segno della croce. Tommaso si guardava intorno, ma non era possibile stabilire se attento alla ricerca di un’uscita. Quando ritrovò la pietra bianca con la lettera “a”, Alessandro gridò di viva soddisfazione. Appagamento che scemò ben presto, quando il sole si colorò di arancione, e Cristian, tirandolo per la maglietta gli disse di avere freddo. Se ne stavano rannicchiati vicino alla pietra, Cristian quasi a contatto con Alessandro, Tommaso leggermente in disparte, quando Pasqua abbaiò verso di loro quasi apparendo dal nulla. Alla sue spalle c’era un uomo. La cagna saltellava leggermente, rivolgendosi ora ai tre ed ora all’uomo, che rimase in disparte mentre lei si avvicinava loro. Appena l’avevano sentita abbaiare, tutti e tre si erano alzati repentinamente, ed anche Tommaso aveva tradito una seppur lieve emozione, ma i loro sorrisi, tra lo stupefatto e l’ansioso, erano ammutoliti alla vista di quell’uomo, ed istintivamente Alessandro si era portato un passo avanti, gesticolando con le mani per invitare i due bambini a stare dietro di lui. “Chi è lei?”, gli chiese, ora indietreggiando, con Tommaso e Cristian alle proprie spalle, quasi a volerli celare alla sua visuale. L’uomo non era particolarmente alto. Indossava dei vestiti cenciosi ed impolverati. Aveva la barba lunga e nera, ed i capelli crespi raccolti all’indietro con poca cura. Indossava dei sandali ai piedi. Alzò leggermente un braccio, allungandolo verso di loro, quasi a volerli toccare, pur mantenendo quella distanza. I suoi occhi brillavano. E sul suo viso risplendeva un sorriso commosso. Accennò un passo, e poi un altro, mentre Alessandro si guardava intorno alla ricerca di un bastone, o di una pietra, e sussurrò ai due bambini di impegnarsi in una tale ricerca e di prepararsi a correre. Ma l’uomo al terzo passo cadde sulle ginocchia, portandosi le mani alla testa, affondando le dita tra i capelli, con urla di lamento, e lacrime di dolore agli occhi. Strisciò qualche metro all’indietro, e la sofferenza parve acuirsi. Alessandro ed i due bambini erano rimasti immobili ad osservare la scena, mentre Pasqua si avvicinò all’uomo. Gli leccò il viso e gli abbaiò contro, lui tese una mano verso di lei e le accarezzò il capo. “Sto bene, grazie. È passata…”, le disse. Pasqua parve tranquillizzarsi. Alessandro continuava ad osservare la scena, con Cristian che affondava il viso nel suo fianco. Tommaso restava dietro Alessandro, ma leggermente in disparte. L’apparizione di quell’uomo lo aveva turbato. Dal momento stesso in cui lo aveva visto, tremava leggermente. 154
“Scusate…”, disse l’uomo quasi sottovoce, senza guardare verso di loro. Alessandro accennò a parlare, ma poi desistette. “Non volevo spaventarvi. Non volevo mettervi paura quando sono arrivato, e non volevo farvi preoccupare. È stato un fortissimo dolore alla testa. Una fitta insopportabile. Ma ora è passata”. Parlava lentamente, osservandoli con fatica e poi distogliendo lo sguardo, voltandosi verso il bosco. Pasqua gli restava accanto. Ogni tanto lui le accarezzava il collo, lei scodinzolava lieta. “Ci siamo persi…”, parlò all’improvviso Cristian, svincolando Alessandro dal suo abbraccio. “Cosa?”, gli chiese l’uomo voltandosi verso di loro. “Voglio tornare a casa!”, pianse Cristian. “P…persi?”, balbettò l’uomo. Quindi iniziò a ridere di una risata grossolana e forzata. “Persi?”, chiese ancora ai ragazzi. “Cos’hai da ridere?”, gli chiese a sua volta Alessandro, indispettito da quella risata, mentre Cristian ora piangeva con il viso contro il suo ventre, e la sua mano sinistra gli accarezzava il capo; la destra invece accompagnava le sue parole. L’uomo parlò: “Vi ho visto prima, vicino al fiume. Vi ho seguito, cercando di raggiungervi, ma è impossibile orientarsi in questo bosco…”, osservò Pasqua e la indicò sollevando leggermente il mento, “…senza che lei ti faccia da guida…”, smise di ridere e stette in silenzio per un po’. Sentì una leggere fitta alla testa. Si portò le mani sulle tempie. Sul suo viso Alessandro poté intuire una smorfia di dolore. Poi lo sentì respirare affannosamente. Piangeva. “Persi!…”, singhiozzò con le mani sul viso, “Persi!”, gridò voltandosi verso di loro, continuando a piangere. Ora Alessandro ed i bambini lo osservavano in preoccupato silenzio. “Lo sai quanto tempo ho aspettato questo momento?”, disse rivolto ad Alessandro, “Avevo paura persino di dimenticarmi come si fa a parlare. Avevo il terrore che nemmeno ci fosse più un mondo oltre questa foresta. Quando vi ho visto, mi ha fatto male il petto per quanto forte mi batteva il cuore. Ho sperato che tutto questo fosse finito. Che finalmente mi potevo svegliare da quest’incubo”, riprese a ridere istericamente, tra un singulto ed un colpo di tosse, “E invece anche voi vi siete persi…”.
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Rimasero così in silenzio per diverso tempo. Alessandro osservava l’uomo, attendendo che smettesse di piangere. Teneva Cristian stretto a se, e contemporaneamente non distoglieva lo sguardo da Tommaso, che tremava ancora leggermente e si era sfilato lo zaino dalle spalle e lo stringeva al petto. Quando l’uomo smise di singhiozzare e gli parve essersi tranquillizzato, Alessandro parlò, mantenendosi immobile a quella distanza. “Hai fatto tu quelle scritte sulle pietre?”. L’uomo sollevò lo sguardo verso di lui, leggermente incerto, quasi fosse stato svegliato da un lieve sonno. “Le pietre…”, indicò Alessandro. L’uomo ruotò pesantemente il capo. “Le pietre?”, puntò la pietra bianca con un dito, alzandolo stancamente, “Si, non volevo… Non volevo dimenticare”. Alessandro sentì un groppo alla gola. Sollevò lo sguardo a cercare il sole, che ormai tramontava. Guardò Cristian e lo scosse leggermente, invitandolo a sedersi. Tommaso li imitò. “Perché hai detto che anche noi ci siamo persi? Vuoi dire ti sei perso anche tu? E da quanto?”, chiese Alessandro. Intanto Cristian, stremato dal pianto, si rannicchiò con la testa sulle sue ginocchia. “Avrà freddo, così…”, constatò l’uomo, indicando il bambino. “Non abbiamo niente…neanche da mangiare…”, bofonchiò Cristian prima di abbandonarsi al sonno. “Pasqua….”, sussurrò al cane l’uomo. Lei abbaiò e si avvicinò ad Alessandro. “Prima che faccia buio…”, disse l’uomo, alzandosi a fatica, “Dobbiamo spostarci da qui. Non è un posto adatto per dormire” Alessandro restò immobile, così Tommaso. Cristian si era addormentato, ed il suo respiro appesantito riecheggiava in quel silenzio. L’uomo lo guardò, porgendo verso di lui i palmi delle mani. Alessandro non notò quello che poi avrebbe dato successivamente un senso al suo futuro rapporto con quell’uomo. “Non avete nulla da temere…”, disse in tono quasi supplichevole, “Ho alcune coperte, e qualcosa da mangiare. So che è difficile per te, ma vorrei che ti fidassi di me. Non ho alcuna intenzione di farvi del male…”, Alessandro digrignò leggermente i denti e strinse il pugno della mano destra, “Io voglio solo andare via da qui, e forse insieme ce la possiamo fare”, concluse l’uomo barcollando lievemente stordito, massaggiandosi le tempie. 156
Alessandro si voltò a guardare Tommaso. Il ragazzino gli restituì lo sguardo, quindi si alzò. “C****…”, strabuzzò gli occhi Alessandro, “Se ti fidi tu allora andiamo”, disse sollevando Cristian tra le braccia. “Ma quanto pesa questo bambino?”, sbuffò di fatica tra sé, “Non ci voleva dopo tutta la camminata che ci siamo fatti”. Lo svegliò, facendo in modo che poggiasse i piedi in terra, per poi invitarlo ad aggrapparsi a lui mentre lo reggeva con un braccio attorno al collo. “Mamma…”, sospirò Cristian, quasi richiudendo gli occhi. Alessandro accennò un sorriso, ruotando leggermente la testa per guardarlo. “Andiamo…”, sussurrò a Tommaso. Si incamminarono per il bosco. Il buio della notte sopraggiungeva. L’uomo seguiva il cane, mentre Alessandro manteneva da loro una debita distanza. L’uomo si voltava spesso per accertarsi che gli andassero dietro; Alessandro si voltava spesso per accertarsi che nessun altro li seguisse. Dopo un decina di minuti, durante i quali nessuno parlò, giunsero ad una piccola costruzione in legno, realizzata con frasche e rami rinsecchiti: una sorta di capanna, aperta su un lato, dell’altezza di un metro circa, con base di quasi due metri, e profondità di un metro e mezzo. “Eccoci arrivati. Benvenuti nella mia umile dimora”, disse l’uomo, con un cenno del braccio, fermandosi di fronte alla baracca. Alessandro si guardò intorno, per quanto l’oscurità incipiente gli permettesse. Notò, all’interno della costruzione, degli indumenti, due coperte che gli parvero non troppo pesanti, un piatto e alcuni attrezzi, tra cui un’accetta. “Guarda pure tranquillamente”, lo invitò l’uomo, anticipandone la curiosità, “Qui c’è tutto quello che possiedo”. Non poco distante dalla capannina si notavano i resti di un piccolo fuoco. “Mi daresti una mano con la legna?”, gli chiese l’uomo, indicando il punto, “Non fa troppo caldo la notte, e le coperte non basteranno per tutti e quattro. Il bambino puoi pure stenderlo dentro la capanna, sotto una coperta”. Alessandro seguì il consiglio dell’uomo, e mentre era rannicchiato sotto il tetto di frasche continuava a guardare l’accetta. Fece dunque un cenno a Tommaso, mentre l’uomo era impegnato a raccogliere legna. “Mentre io raccolgo la legna, tu mettiti quella nello zaino, capito?”, disse a Tommaso. 157
“Capito?”, ripeté. Tommaso non rispose. Si sedette poco distante dalla capanna. Prese il quaderno dallo zaino, ma ve lo ripose subito dopo senza disegnare. “Bravo, c’è troppo buio per disegnare”, gli parlava bisbigliando. “Prendila!”, gli intimò sottovoce, mentre si avvicinava con circospezione all’uomo. “Non è un granché, lo so!”, quasi si scusò l’uomo. Alessandro lo guardò con espressione dubbiosa, l’uomo sorrise lievemente: “La capanna, intendevo!”, gli indicò dopo aver adagiato la legna su quanto restava della brace precedente. “Di sicuro non ero un manovale o qualcosa del genere, quello è il massimo che sono riuscito a fare. Ho provato a costruirla più alta, ma è sempre crollata, a volte per il vento, a volte da sola. Per fortuna mai quando c’ero dentro io”, sbuffò un sorriso l’uomo. Mentre l’uomo gli parlava, Alessandro strappava alcuni arbusti e li ammassava insieme all’altra legna. “Vicino alla capanna, sulla destra”, gli disse l’uomo, “Prendi almeno quattro tronchetti, questa legnetta è più che sufficiente per accendere il fuoco”. Alessandro si guardò intorno per individuare la legna, e vide vicino alla capanna, proprio dietro le spalle di Tommaso, dei piccoli tronchi accatastati, e ne prese alcuni. “L’hai presa l’accetta?”, chiese a Tommaso, passandogli accanto, cercando di non farsi notare dall’uomo. Tommaso accennò uno sguardo verso di lui. “E’ un no?”, gli chiese, portando via la legna. Tommaso ruotò impercettibilmente il capo. Alessandro intuì che gli stesse indicando qualcosa. E quando vide il cane con in bocca il manico della piccola scure restò immobile con la bocca spalancata. Non ebbe nemmeno il tempo di imprecare, che già Pasqua era svanita nel buio nascente del crepuscolo immergendosi nella boscaglia. “Ah ah ah”, rise di gusto l’uomo, non essendo poi successivamente testimone dello sguardo torvo che Alessandro gli rivolse, “E’ veramente dispettosa. Non sai quante me ne ha combinate. Ma non ci servirà l’accetta. Di legna ne ho già preparata un bel po’. Temo però che quell’arnese non lo rivedremo mai più”, concluse. “Eh, già…”, dissimulò Alessandro, con leggero imbarazzo. Una volta sistemata la legna, Alessandro, con animo sconsolato, si sedette dentro la capannina, coprendosi con un lembo della coperta che avvolgeva Cristian. Tommaso utilizzava l’altra coperta. L’uomo accese il fuoco e vi si sedette accanto.
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“Prendetele voi le coperte. Io resto qui vicino al fuoco. Va comunque alimentato di continuo”, gli disse l’uomo. Gli mostrò poi un accendino: “La prima vota che ho provato ad accenderlo…”, parlava guardando l’accendino e rigirandoselo tra le mani, riferendosi al fuoco, “…ho provato come fanno gli scout: sfregando due legnetti. Mi chiedo proprio come facciano. Non so quante volte ci ho provato. Penso sia impossibile. Di sicuro non ero un capo lupetto. Per fortuna un giorno Pasqua mi ha portato uno di questi…”, gli mostrò l’accendino, “Non so proprio da dove li prenda. Comunque ogni volta che ne ho bisogno, me ne procura un altro”. L’uomo si voltò, e vide che tutti e tre dormivano. Alessandro, con la testa china sul petto, dormiva seduto. Cristian gli si era avvinghiato alle caviglie. Tommaso usava lo zaino come cuscino. Pasqua tornò dal bosco. Si accucciò accanto al fuoco. L’uomo la accarezzò.
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Carotaggio
Quando riaprì gli occhi, la luce del sole filtrava timida attraverso le fronde. Provò a tirarsi su facendo posa con le mani sul terriccio ed inarcando la schiena. Si accorse di avere la testa di Cristian posata sul proprio ventre. Dormiva di un sonno profondo. Rinunciò ad alzarsi e rimase in quella posizione obliqua osservando attorno a sé. Si stropicciò entrambi gli occhi con la sola mano destra, tenendo in equilibrio la schiena col braccio sinistro. Sentiva la bocca impastata, ed il suo stomaco gorgogliava per la fame. Tommaso dormiva abbracciato allo zaino, poco distante, avvolto nella coperta. Prima ancora di rendersene conto, Alessandro si era addormentato, in violazione al patto fatto con se stesso per l’utilizzo di tutta l’accortezza che ritenne si dovesse avere in quella situazione così inquietante: disperso in un bosco insieme a due bambini, alla mercé di un cane randagio e di un uomo dall’aspetto ed il fare ben poco rassicuranti. Gli vennero alla mente diversi film con un soggetto somigliante a quanto stava vivendo in quel momento, ma il suo sonno, stremato com’era dalla giornata di pellegrinaggio disperato tra i boschi, fu profondo e senza sogni, almeno per quanto gli parve di ricordare. Perlustrò con lo sguardo fin dove gli fu possibile mantenendo quella scomoda posizione. Cercava il cane, o l’uomo. Ma non vedeva nessuno dei due. Il silenzio del bosco era quieto. Il freddo della notte si era attenuato, ed anzi sentiva un piacevole tepore. Non poteva dire che ore fossero, ma pensò che non fosse passato troppo tempo dall’alba. Quando abbassò lo sguardo vide un drappo di stoffa a modo di tovaglia, sulla sua destra, con adagiati sopra alcuni frutti e quelli che gli parvero pomodori. Vide tre mele, dei pinoli, alcune more, ed intravide anche alcuni funghi, dopo una più attenta analisi. “Sono cotti e non sono velenosi!”, gli sorrise l’uomo, apparso come dal nulla, o, più semplicemente, manifestatosi alla leggera distrazione di Alessandro. “Non puoi immaginare nemmeno cosa significhi dover fare certi esperimenti. Nemmeno io l’avrei mai potuto immaginare. Anche se non ho ricordi, ho come la sensazione di non averla mai provata una paura così particolare”, l’uomo parlò mentre si sedeva di fronte ad Alessandro. A separare i due, ora, c’erano solo quel tovagliolo e quella frutta. Alessandro muoveva le dita dei piedi dentro le scarpe. “Così ho provato ad immaginare i nostri avi. Sai, l’uomo primitivo, ma anche gli stessi animali…”, si voltò a guardare Pasqua, anche lei apparsa quasi improvvisa, “Fino a che
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non è arrivata lei non so davvero come ho fatto a sopravvivere”, si accarezzò il mento, scuotendo la testa, con sguardo malinconico. “Quando hai fame, ma fame vera, ragazzo, di quella che ti brucia lo stomaco, e ti si gonfia d’aria e d’acido…Di quella fame che ti fa svenire, che ti toglie ogni vizio, che ti annienta le papille gustative, perché il cibo si riduce unicamente a fonte di energia, fonte di sostentamento…E mangeresti qualsiasi cosa, senza sentirne il sapore, senza masticare, senza gusto, quasi senza mangiare, tanto sei veloce…quando hai quella fame e ti trovi davanti a bacche, frutti, funghi…roba che vai a comprare al mercato, e ci sono i prezzi, le etichette, e allora sai quello che stai comprando, e per il fatto che c’è scritto sul cartellino sai cosa stai mangiando…Ma qui, mio Dio!, qui non ci sono cartelli, non ci sono etichette. Io non so se veramente una bacca possa uccidere un uomo, oppure un fungo. Più probabilmente me la sarei cavata con un bel po’ di dissenteria; ma tu ci avresti messo la mano sul fuoco? E poi non conta crudo o cotto. Il fatto è che io ero terrorizzato. Anche solo dall’idea di portami la mano alla bocca. A volte raccolgo frutta caduta dagli alberi, ma non posso sapere quali escrementi possano aver dormito su quella stessa terra. E la trasmissione oro –fecale delle malattie non è scherzo da poco”. Alessandro lo osservava mentre parlava. “Mi sono sentito come un bambino costretto a svezzarsi da solo”, gli porse il tovagliolo con il cibo, sollevandolo con entrambe le mani unite a formare una conca nella quale frutta e funghi si adagiavano con comodità. “Mangia, avremo bisogno di molte energie. E poi dovete recuperare per il digiuno di ieri”. Alessandro tentennava. Guardava l’uomo, poi i funghi, poi ancora quell’uomo, e poi Pasqua. Gli parve assurdo, ma pensò che, se fosse stato in pericolo, il cane l’avrebbe messo in preallarme, se non addirittura soccorso. Alessandro allungò timidamente il braccio, mentre l’uomo gli sorrideva. Afferrò un fungo, e pensò che mai alimento gli parve più inadatto per la colazione, ma, considerando il fatto che il giorno precedente non aveva né pranzato né cenato, non poteva avere certo di che lamentarsi. “Mi sa che non è nemmeno stagione…”, pensò mentre se lo portava alla bocca. Fu in quel momento che Cristian si svegliò e si tirò su di scatto, colpendo con la testa il polso di Alessandro e facendogli cadere il fungo, che fu sbalzato poco distante. Il bambino non ebbe nemmeno il tempo di sgranchirsi le braccia o le gambe, perché non appena vide la frutta nelle mani dell’uomo, vi si gettò sopra impossessandosi di una bella 161
mela rossa e rotonda, addentandola senza badare ad altro. Alessandro rimase col palmo della mano sollevato, inebetito a guardare il fungo per terra. Cristian divorò letteralmente la mela, quindi, mentre ancora masticava l’ultimo boccone, guardò Alessandro. “Tu non hai fame? Non mangi?”, gli chiese. Le labbra di Alessandro si agitarono leggermente, mentre istintivamente guardò l’uomo, e dunque si lasciò andare ad una sonora risata, con la quale contagiò l’uomo, e lo stesso Cristian, anche se ignaro del motivo di tale ilarità. Risero così forte da svegliare Tommaso. Ad Alessandro lacrimavano gli occhi, mentre Pasqua abbaiava. Tommaso si erse, con lo zainetto stretto al petto, osservandoli, ma dal suo volto non traspariva particolare emozione. Risero per diversi minuti. Alessandro fu costretto a portarsi le mani sul ventre, l’uomo invece se le portava alla bocca: a volte tossiva, mentre sorrideva. La risata scemò lentamente, quindi lasciò spazio al silenzio del bosco. Cristian si alzò, prese una mela e si diresse verso Tommaso, ancora immobile a qualche metro di distanza. “Tieni, mangiala che hai fame”, gli disse offrendogliela. Tommaso non rispose, ma accettò di buon grado l’offerta. Alessandro deglutì, guardò l’uomo, provando un lieve senso di disagio per l’eccessiva vicinanza, ma non riuscì a convincere il proprio corpo a muoversi. “Chi sei tu? Cosa ci fai qui?”, gli chiese, mentre lui distolse lo sguardo dai due bambini, incupendosi leggermente. “Non lo so….”, sospirò. “Io mi chiamo Cristian, lui Alessandro, e lui Tommaso”, intervenne il bambino, “Tu come ti chiami?” L’uomo li guardò uno per volta sorridendo: “Piacere Cristian! Piacere Alessandro! Piacere Tommaso!”. Verso Tommaso accennò anche un saluto con la mano, data la distanza. “Io non ce l’ho un nome. Forse lo avevo. Sicuramente lo avevo. Tutti lo hanno. E avevo dei documenti che attestavano che quello era il mio nome. Un certificato della mia identità. Però esisto lo stesso, anche senza un nome, anche senza un documento con la foto. Esisto. Anche se non so dove, o quando. Non ho un nome, ragazzi. Non so come mi chiamo”, rispose. “E lei come si chiama?”, gli chiese Cristian indicando il cane. Alessandro lo osservava indagatore, e pensieroso sul senso da dare alle sue parole. Tommaso si teneva a distanza. “Lei?”, sorrise l’uomo, “Lei si chiama Pasqua!”, il cane abbaiò. 162
“Pasqua? Ma che nome è?”, rise Cristian, avvicinandosi al cane. “Morde?”, chiese ancora. “No, no!”, lo tranquillizzò, “E’ buonissima”. Cristian iniziò ad accarezzarla e Pasqua si mostrò ben lieta di quelle coccole, che ricambiava con umide lappate. “L’hai chiamata tu così?”, gli chiese ancora Cristian. “No”, rispose l’uomo. “E come fai a sapere che si chiama Pasqua?”, chiese dubbioso Cristian. Alessandro fu ben lieto che il bambino esprimesse ogni sua curiosità; lui si sentiva un po’ contratto, ed anche se l’uomo non pareva affatto restio a comunicare con loro, pensò che avrebbe avuto qualche difficoltà a fargli domande, soprattutto perché aveva troppa necessità di risposte. Le domande di Cristian erano invece domande curiose, le domande di un bambino. “Me l’ha detto lei. Sai come ha fatto?”, anticipò la domanda, attendendo soltanto che sul viso di Cristian si dipingesse lo stupore. “Per molti giorni lei è venuta da me ed io le ho ripetuto tutti i nomi e poi le parole che conoscevo e ricordavo, e le ho detto di abbaiare quando avessi pronunciato il suo nome. Ogni giorno lei veniva, si accucciava vicino a me, ed io iniziavo a proporle nomi. Ho iniziato coi nomi che mi sembravano più adatti, ma lei niente. Muta. Se ne restava sdraiata sulla pancia, nemmeno sollevava le orecchie. Io il primo periodo la chiamavo semplicemente - cane -, poi quando ho scoperto che era una signorina la chiamavo - bella -, o, se era in vena di coccole, - cuccioletta -. E dopo alcuni giorni mi sembrò una follia questa idea del nome che mi era venuta. Così le ho detto - Basta! Continuerò a chiamarti cane!-. Allora lei si è messa ad abbaiare ed a scodinzolare. Così ho capito che ci teneva tantissimo a farmi sapere come si chiamava. E, non so, magari ha provato anche a farmelo capire, ma non saprei proprio in che modo” “E’ come il gioco dei mimi!”, si illuminò Cristian. “Già, più o meno”, sorrise l’uomo. “Cosa vuol dire che non sai il tuo nome?”, chiese con lieve sforzo Alessandro. Senza che se ne accorgesse, Tommaso gli si era avvicinato leggermente. Aveva lo zaino sulla spalla destra. “Amnesia: sai cosa significa?”, gli chiese a sua volta l’uomo. “Vuol dire che hai perso la memoria?”, domandò Alessandro. “Non lo so. Il fatto è che non ricordo nulla prima di quel giorno. Vedi, a volte ho avuto la sensazione di non essere vissuto prima di questo. Quando lo sconforto era più forte mi 163
sembrava come se oltre questo bosco non ci fosse nulla. Che fosse un paradiso oppure un inferno. E’ un labirinto senza uscita. Non so come ho fatto a resistere. Com’è possibile che non sia impazzito. O forse lo sono”, inspirò lungamente. Conclusero il pasto. Anche Alessandro mangiò un po’ di frutta. Alzatosi, si sgranchì le gambe e stiracchiò le braccia, facendo schioccare quasi ogni osso del proprio corpo. Osservò Cristian e Tommaso. Tommaso cercava di stare in disparte, mentre Cristian, come suo solito gli stava accanto, fedele compagnia, anche se non pienamente desiderata. Notò che agitavano nervosamente i piedi e le gambe. Si avvicinò loro. “Dovete andare in bagno?”, gli chiese. “Io non ho fatto nemmeno la pipì, ieri!”, rispose Cristian muovendosi nervosamente. “Si, ma come facciamo a….”, Cristian si imbarazzò e non riuscì a finire la frase. “Foglie…”, disse intervenendo l’uomo. “Foglie?”, chiese stupito Cristian. “Si, venite con me, vi mostro quali sono quelle più adatte”, gli fece cenno di seguirlo con la mano. “Vieni anche tu, Alessandro”, gli disse, “Tanto è inutile restare qui. Andiamo alla casa al mare”. “Al mare?”, corrugò la fronte seguendolo. L’uomo li condusse per alcuni minuti attraverso il bosco, sostenendo i due bambini nella difficile attesa. Giunsero dunque di fronte ad un piccolo lago, all’interno di una conca. “Le pareti ai lati sono troppo alte e ripide, ed il fiume passa da sottoterra. Quando l’ho trovato per la prima volta ho pensato che potesse esserci una strada, ma niente. Vedi lì?”, gli indicò un’altra capanna deforme, “Ho costruito un’altra capanna. Ne ho costruite diverse, sparse per il bosco. Anche perché è complicatissimo ritrovare la strada senza Pasqua, e lei è solita sparire per diverso tempo”. Dopo aver preso le foglie, i due bambini si inoltrarono nel bosco. Tommaso fu piuttosto riluttante, ed Alessandro e l’uomo dovettero fingere di essere distratti per fare in modo che si allontanasse con un minima illusione di intimità. Anche Alessandro verificò l’utilità delle foglie. Diversi minuti dopo si ritrovarono tutti e cinque immersi nell’acqua del lago, Pasqua compresa. “Per i primi tempi mi sono lasciato andare”, confidò l’uomo, rivolto ad Alessandro, “Ero in un bosco, sperduto, da solo. Ero una bestia, e come tale mi comportavo. Solo successivamente ho sentito la necessità di recuperare la mia umanità, se così la vuoi chiamare. Anche solo la semplice quotidianità di alzarsi, lavarsi la faccia, andare al 164
bagno, mangiare ad orari regolari, vivere secondo un seppur minimo schema convenzionale…Se può apparire banale, anche meccanico, e ho la sensazione che lo fosse, quando vivevo fuori di qui, almeno spero di aver vissuto fuori di qui..Ah ah”, sorrise, “Ma in questo bosco, con questo silenzio, con il tempo che pare non esistere, che senso aveva? Ma soprattutto non ne sentivo la necessità. Non c’era ritmo lavorativo che mi imponesse degli orari per i pasti, o per dormire. Non avevo nessuna vita sociale che mi imponesse di vestirmi adeguatamente o di lavarmi e di non puzzare. Non c’erano regole o tabù che mi impedissero di gridare o sfasciare tutto”, prese dell’acqua nelle mani a conca e si lavò il viso, “Non so quando ne ho sentito la necessità. Forse quando me ne sono ricordato. O forse proprio quando me ne stavo definitivamente dimenticando. Poi è arrivata lei. E, per quanto sia un cane, era comunque un altro essere vivente, un’altra persona. E davvero mi chiedo come ho fatto a sopravvivere in quel periodo senza di lei”, concluse. Si asciugarono al sole. Attesero, per rivestirsi, che gli abiti che avevano rinfrescato con l’acqua, fossero asciutti. Per favorirne l’asciugatura accesero un piccolo fuoco, che il calore del sole, seppur alto e splendente in cielo, non sarebbe stato sufficiente. Tommaso si attardò ad uscire dall’acqua. Dentro il laghetto si era mantenuto in disparte. Cristian gli si era avvicinato più volte invitandolo al gioco, schizzandolo in viso con l’acqua, ma lui aveva reagito in malo modo, allontanandolo, così che Cristian aveva giocato con Pasqua. Quando si resero conto che Tommaso non sarebbe uscito dall’acqua, finché loro fossero rimasti lì, in mutande, ad aspettarlo, si allontanarono dal fuoco, voltandosi. Tommaso uscì dal lago, con indosso i vestiti bagnati, perché a differenza degli altri non aveva voluto toglierseli, e si sedette, leggermente tremante, di fronte al fuoco. “Cos’ha Tommaso?”, gli chiese l’uomo. “Non lo so”, rispose sospirando Alessandro, “E’ un mistero”. L’uomo si voltò un istante ad osservarlo.
Proseguivano attraverso i boschi. Ogni tanto si fermavano a cogliere qualche frutto dagli alberi per rifornirsi per la camminata, che non pareva avere meta. “Dove stiamo andando?”, gli chiese Alessandro. “Non lo so”, rispose quasi sconsolato l’uomo, indicando il cane. “Stiamo seguendo lei?”, si stupì. “E’ così che ho sempre fatto, è impossibile orientarsi da solo in questo bosco. Avremmo continuato a girare in tondo”. 165
Tommaso restava un po’ in disparte, alla coda del gruppo, a turno Alessandro e l’uomo si voltavano per controllare che stesse bene, ma lui non mostrava nessuna reazione nei loro confronti. Parlavano, mentre Cristian ascoltava. Pasqua dettava l’andatura. “Non pensavo fosse così grande, sono ore che camminiamo”, constatò Alessandro. “Chissà come sta mia mamma…”, si rattristò Cristian. “Non ti preoccupare per lei. Lei sta bene. Ci staranno cercando. Spero che qualche elicottero ci veda”, cercò di tranquillizzarlo Alessandro. Poi sollevò lo sguardo e scrutò pensieroso il cielo. Ogni tanto si fermavano per rifiatare, mangiare qualcosa e bere l’acqua che avevano preso al lago, immergendo in un rivolo che fuoriusciva dalla roccia una bottiglia di plastica che si erano portati dietro dal rifugio che l’uomo aveva costruito sulla riva. All’interno della piccola capanna non avevano trovato altro che quella bottiglia: “Qua vengo solo a lavarmi e riempire la bottiglia d’acqua. Me l’ha portata lei”, si era giustificato l’uomo, indicando il cane. “Cosa vuol dire che non sai chi sei?”, gli chiese poi Alessandro. L’uomo gli camminava accanto, oramai la riluttanza del giorno prima era venuta meno, e se anche non poteva chiamarsi pienamente fiducia, di certo la sua considerazione per quell’individuo era variata: gli appariva profondamente diverso dall’uomo che aveva visto piangere e disperarsi; sperava davvero potesse condurli fuori dal bosco. “Il fatto è che…”, l’uomo corrugò la fronte, e sul suo viso apparve un’espressione di dolore. Sentì la testa farsi pesante e le gambe cedergli, come se la terra sotto i suoi piedi si facesse molle e lui vi sprofondasse dentro. Un fischio sempre più acuto nelle sue orecchie copriva ogni altro rumore in sottofondo. Vedeva Alessandro muovere le labbra ma non sentiva le sue parole. Una tremenda emicrania gli avvolse le tempie, e sentì pulsare il proprio cervello dentro il cranio. Si accasciò a terra per la seconda volta. Non poté stimare quanto durò, ma gli parve un tempo infinito. “Tutto bene? Mi senti? Ti senti bene?”, gli chiedeva Alessandro, scuotendolo leggermente. “Cos’ha? Cos’ha? Sta male? Cos’ha?”, Cristian intonò una litania che accresceva il livello di stress di Alessandro. Tommaso restava immobile ad osservare la scena, stringendo il proprio quaderno, sulle pagine del quale, durante le pause che si concedevano, tracciava qualche linea. L’uomo si riebbe a fatica, sollevò il busto e scosse la testa. Fissò Pasqua negli occhi, quasi volesse da lei una spiegazione. 166
“Ti senti bene, adesso?”, gli chiese ancora Alessandro. “Si, si…”, si scosse, “Grazie…”. Attese alcuni minuti, poi reggendosi su Alessandro e Cristian si sollevò. Sbuffò, sorrise dissimulando, tossì leggermente. “Scusate, non volevo spaventarvi di nuovo”. “Forse è meglio se ci fermiamo a riposare”, consigliò Alessandro. “No, no. Non è il caso. Sono rimasto qui da solo per non so quanto tempo. Se c’è anche una minima possibilità che possiamo uscire da questo bosco non me la voglio perdere. Ora sto bene, tranquilli”, li rassicurò con tono serio. “Ti capita spesso?”, gli chiese Alessandro. Lui attese qualche istante prima di rispondere, come stesse facendo mente locale, cercando tra i propri ricordi. “No, non mi era mai capitato prima di ieri…”, rispose. Ripresero il cammino, e Cristian ogni tanto chiedeva all’uomo come si sentisse. Questi gli rispondeva “bene, grazie”, sorridendo e accarezzandogli la testa. “Mi avevi fatto una domanda prima che svenissi, vero?”, chiese ad Alessandro. “Si, volevo capire questa storia del fatto che non ti ricordi chi sei. Da quanto tempo sei qui? Com’è che non sei riuscito ad uscire?”, deglutì inorridito. “Umhm…”, si fece pensieroso l’uomo, “Quando mi sono risvegliato, un giorno, mi sono ritrovato dentro questo bosco. Ero solo. Ho gridato e corso da tutte le parti, ma c’erano solo alberi, alberi ed alberi. Nessuno che mi rispondeva, ed io che non riuscivo a capire cosa ci facevo, come c’ero arrivato. Soprattutto dov’ero. Non me lo ricordavo. Non so come spiegarti cosa ho provato. Il fatto è che più cercavo di ricordare più tutto mi si annebbiava in testa. Mi ha preso come una specie di panico. Non riuscivo a ricordare nemmeno il mio nome. Mi sono messo a piangere, gridare, urlare. Per quanti sforzi facessi, era come se la mia vita fosse iniziata in quel momento, quando mi ero svegliato. Poi mi sono toccato dietro la testa, dove sentivo un leggero dolore, ed ho grattato via del sangue incrostato. Così ho pensato che forse ero caduto e avevo perso la memoria. Ma non è stato così rapido, i miei pensieri erano lenti, mi sembrava di sognare, non riuscivo a concentrarmi”. I tre ragazzi, anche Tommaso, camminavano sempre più vicini all’uomo, quasi rapiti dal suo racconto. “Non ricordo troppo bene i primi giorni. Mi sembra di averli passati quasi in catalessi, svenuto, a dormire, nella speranza di risvegliarmi da qualche altra parte. Non avevo la 167
forza di muovermi, nemmeno la forza di pensare. Se mi alzavo era per correre disperato da una parte all’altra, ed i primi giorni l’ho fatto. Ho scelto una direzione ed ho iniziato a correre. Prima o poi avrei dovuto trovarla un’uscita, no? E gridavo. Chiedevo aiuto. Ma poi mi sono accorto che passavo sempre negli stessi posti. È così che ho cominciato ad incidere le pietre. L’idea di usarle come quaderni mi è venuta molto dopo, all’inizio era l’unico modo che avevo per orientarmi. Scheggiavo anche la corteccia degli alberi. Ma non riuscivo ad uscire. Giravo in tondo. E forse dopo un po’ sono impazzito. Perché parlavo da solo. E mi ricordo che svenivo per la fame e per la sete”, inspirò profondamente, “Te l’ho detto: all’inizio, anche se sentivo la fame stringermi lo stomaco, non riuscivo a mangiare niente. Era qualcosa di meccanico. Mi si bloccava il braccio se tentavo di allungarlo verso un frutto, o una bacca. Forse prima ero un nobile viziato che veniva servito e riverito, abituato a mangiare chissà quali prelibatezze. Figurarsi mangiare una bacca! E poi qua in mezzo non riuscivo a riconoscere niente, non è che non mi ricordassi come era fatta una mela, è solo che, non so se mi capisci, qui sembrava tutto fuori contesto…Eppure è più che naturale che tutto quello che c’è in questo bosco stia qui. Siamo noi quelli fuori contesto…”. Mentre parlava, l’uomo gesticolava. Alessandro ebbe come l’impressione che in lui ci fosse qualcosa di familiare, non riusciva a capirne il perché, ma gli parve di notare un particolare che però non riusciva a mettere a fuoco. “Cercavo di tenere a mente il conteggio dei giorni, ma non ci sono riuscito. Non so perché, è stato un bisogno spontaneo. Anche perché, per un bel po’, i calcoli lì ho sbagliati. Ho anche pensato di incidere una specie di calendario su una pietra, ma non riuscivo mai a ritrovare la stessa, e quindi dovevo ricominciare da capo. Diciamo che poi ho smesso del tutto di contare. Questo però è stato da quando ho ripreso un po’ di coscienza. Alla fine, infatti, presumo che abbia vinto l’istinto di sopravvivenza, così ho iniziato almeno a mangiare. Anche se solo frutta e bacche. Fino a che non ho incontrato Pasqua e conosciuto il fuoco”, sorrise. “E quelle pietre con tutte le lettere dell’alfabeto?”, chiese incuriosito Cristian, “Ti eri dimenticato anche quelle?” “Si, Cristian. Per un certo tempo penso di essermi dimenticato anche come si parlava. Dopo il primo periodo passato a gridare e chiedere aiuto, non so per quanto tempo sono rimasto muto, in silenzio. Penso di aver smesso persino di pensare. La prima volta che ho visto Pasqua ho provato a chiamarla, ma non sono riuscito a pronunciare nemmeno la parola –cane-. Dalla bocca mi uscirono solo dei versi disarticolati. Ho dovuto davvero 168
imparare di nuovo la mia lingua. E poco a poco mi sono venute alla mente altre cose, poesie, canzoni. E poi Pasqua ha iniziato a portarmi dei libri, così ben presto ho recuperato l’uso della parola, e potevo almeno parlare con lei, e quando lei mancava per troppo tempo, scrivevo sulle pietre” “Libri?”, chiese Alessandro, dubbioso. “Già…”, si grattò dietro la testa l’uomo, quasi imbarazzato, lanciando uno sguardo complice al cane. “Non chiedermi come sia possibile. Ma te l’ho detto, lei ogni tanto sparisce, e poi riappare con qualcosa tra le fauci. Quando ho bisogno di accendere il fuoco: un accendino…Oddio,
non
è
mica
sempre
puntuale”,
sorrise
l’uomo,
Pasqua
contemporaneamente abbaiò, “Altre volte mi porta dei vestiti, altre volte dei libri. Libri che, leggendo, ho avuto come l’impressione di conoscere, se non altro per il titolo, forse erano dei libri famosi quando ero fuori di qui. Non mi ha mai portato un giornale, però, anche se ho provato a chiederglielo”, Pasqua ancora abbaiò, “Ma come avrai capito è lei che comanda qui”. Tossì leggermente, poi riprese a parlare. “Non so dove vada a prenderla questa roba. Non posso nemmeno dire che la rubi. I libri, per esempio, si vede che sono usati. Hanno l’etichetta di una biblioteca comunale. Peccato che le etichette siano così consumate che non si legge il nome del comune…eh eh”, ridacchiò l’uomo, “Tutto questo ha contribuito a sollecitare la mai paranoia”, sospirò, “Ma lasciamo stare…”, rimase qualche istante in silenzio. “E dove li hai messi i libri?”, chiese Cristian, interrompendo il suo imbarazzo. “I libri?”, si grattò il mento, “Dopo che li ho letti, lei viene e li riprende. Non so se li restituisca alla biblioteca, ma mi è venuto da pensarlo. I vestiti invece non li rivuole indietro, ci mancherebbe. Non è così generosa come con i libri, quindi riesco a ridurli a brandelli. Li brucio quando sono inutilizzabili”, guardò quello che indossava in quel momento, “Prima di incontrare lei, dopo che i vestiti che avevo si erano ridotti a brandelli, sono rimasto nudo. È stato piacevole indossare di nuovo dei vestiti. Te l’ho detto, è stato come riconoscere l’esistenza delle convenzioni sociali, anche se non c’era nessuno con cui socializzare”. Camminarono per alcune ore, l’uomo parlava, loro tre ascoltavano e, Alessandro e Cristian, ogni tanto, incuriositi, facevano delle domande. Giunsero di fronte alla statua di donna dentro la cascata. Decisero di fermarsi a riposare un po’. “Anche questa l’hai fatta tu?”, gli chiese Alessandro. “No”, gli rispose l’uomo osservando la statua con occhi addolciti. 169
“Lei era già qui quando sono arrivato, vero Elena?”, rise l’uomo. “E se invece l’hai fatta tu e ti sei scordato?”, gli chiese Cristian, con una tale naturalezza che lo lasciò sbigottito ed incapace di rispondere. “Caspita, non ci avevo mai pensato…”, disse poi sgranando gli occhi, riflettendo sulla plausibilità di quella eventualità. “E perché l’hanno fatta, allora? E chi l’ha fatta se non sei tu?”, chiese ancora Cristian. Alessandro e l’uomo si voltarono a guardarlo, sollevando le spalle ed allargando le mani, contemporaneamente. Tommaso intanto disegnava sul quaderno. L’uomo lo osservò di sfuggita. “Me lo sono chiesto parecchie volte”, gli rispose l’uomo, “Forse chi le ha fatte ha sentito il bisogno di avere una donna accanto”. “Le ha fatte? Perché? Ce ne sono altre?”, gli chiese Alessandro, piuttosto incuriosito. “Si, ne ho trovata un’altra. Sono molto simili, anche se le scritte sono diverse”. Si alzò, infilò un braccio nella cascata ed accarezzò la statua, “Non so chi e perché l’abbia scolpita. Però ha placato come un bisogno impellente che mi sentivo nascere dentro, e che si faceva sempre più prepotente”, accarezzava il viso della statua, “Venivo qui a contemplarla, a parlarci, anche se non mi rispondeva. Mi ha fatto sentire meno solo. Mi ha fatto sentire protetto. Quasi coccolato. Forse è una statua votiva. Io venendo qui a trovarla ho sentito come la necessità di affidarmi a qualcosa. Forse ad una entità superiore. Non lo so dire con esattezza. Forse è stato così anche per chi l’ha scolpita. Per questo le ha dato il corpo e le sembianze di una donna. Come la Madre Terra degli uomini primitivi: la storia del mondo è ricca di questi esempi, no?”, chiese loro voltandosi. “Vuoi dire che è un po’ come la Madonna?”, chiese Cristian curioso. “No, non credo”, scosse la testa l’uomo, “Non penso sia un concetto così elaborato. Di certo non il mio quando venivo qui. E’ più un’idea rozza di energia superiore. Come di un fato che regola tutto, ma non da troppo lontano, visto che è fatta di roccia. Qualcosa di quasi animale, istintivo” “Eh? Cosa stai dicendo? Io non ci capisco niente”, si lamentò Cristian, sgranando gli occhi e tirando Alessandro per la maglietta, quasi a chiedergli una spiegazione. “Oh, si, scusa, Cristian. La colpa è mia”, si batté il petto l’uomo, con la mano bagnata, “E’ colpa dei libri che Pasqua mi ha portato. Perché non è che mi portasse romanzi, giusto qualche volta è capitato, ma libri di filosofia, saggi ed altro”, sorrise. Alessandro si alzò e si avvicinò alla cascata. Immerse un braccio nell’acqua e toccò la statua. 170
“Perché dentro la cascata?”, commentò Alessandro, “A parte la difficoltà di scolpirla sotto l’acqua…”. “L’altra che ho visto…chissà dov’è. Penso che neppure Pasqua saprebbe più raggiungere quel posto. Anzi, no, penso che al tempio continui ad andarci…” “Il tempio?”, chiese Alessandro agitando le mani, come se nella sua testa parole, concetti ed immagini si stessero confondendo tra loro. “Si, il tempio. È lì che ho incontrato Pasqua per la prima volta. C’erano i resti di un’antica costruzione, ho pensato sempre fosse un tempio, non so perché. C’era l’altra statua, lì. Quella fu la prima che vidi. Toccandola provai una strana sensazione, non te la so descrivere. Un misto di tristezza e malinconia. Ma quando poi ho scoperto questa cascata, ed ho toccato l’acqua con le mani, ho provato invece una sensazione di pace che mai avevo provato prima di allora. Per la prima volta da quando avevo aperto gli occhi dentro questo bosco, mi sono sentito vivo. Forse anche chi l’ha scolpita ha desiderato provare quella stessa sensazione ogni volta che la toccava”, accarezzò la statua ancora una volta, “E poi penso che la pietra qui sia molto più friabile che altrove”. Sorrise alla statua: “Addio”, la salutò voltandosi, “Ho dentro di me la sensazione che questa è l’ultima volta che la vedo”, concluse invitandoli a riprendere il cammino.
Proseguivano nella loro ricerca di un’uscita dal bosco, seguendo il percorso tracciato dal cane. “Ma tu non hai mai visto passare un aereo, oppure un elicottero? Mai niente?”, gli chiese Alessandro. “No, mai. Te l’ho detto. Voi siete i primi esseri umani che vedo da quando sono qui. Per il resto solo insetti ed animali. E quasi mi è venuto un colpo la prima volta che vi ho visto, ed ho fatto di tutto per raggiungervi. Avevo dentro di me la sensazione e la certezza di non essere l’unico al mondo. Certe informazioni, chiamiamole così, le ho dentro come dati di fatto, però certo che vedervi, almeno all’inizio è stato scioccante”, fece una piccola pausa ed inspirò profondamente, “Ma che posto è questo? Come si chiama questo bosco?” “Questo è il Paradiso”, rispose sorridendo Cristian. “Come?”, chiese ancora l’uomo voltandosi. “Si, è il Parco naturale del Gran Paradiso”, gongolò Cristian, sentendosi partecipante attivo del discorso. 171
“E’ un’area protetta, patrimonio dell’umanità o qualcosa del genere”, aggiunse Alessandro. “E’ della nonna di Alessandro, lo sai?”, proseguì il bambino. L’uomo guardò Alessandro corrugando la fronte e scuotendo leggermente la testa, fortemente dubbioso. “E tu cosa ne sai di questa storia?”, chiese Alessandro al bambino. “L’ha detto mio padre a mia mamma a cena l’altro giorno”, gli rispose Cristian. “Che ca**o!”, sbottò Alessandro, “Mai qualcuno che si faccia gli affari suoi” “Allora siamo a casa tua?”, disse l’uomo allargando le braccia, come a voler abbracciare l’intero bosco. “Ma che cosa! Lasciamo perdere”, cercò di concludere il discorso Alessandro. “Beh, perdona la curiosità”, si scusò l’uomo, “Ma io vivo qui dentro da non so quanto... Ora ho la possibilità di capire dove mi trovo, dove sono stato per tutto questo tempo, ed addirittura ho davanti a me il padrone del bosco…” “Ma quale padrone del bosco!”, si irrigidì Alessandro, spingendo lentamente Cristian, “Famiglia di pettegoli!”, lo apostrofò. “Centinaia di anni fa, o anche di più, io non lo so, questo era davvero il giardino della famiglia di mia nonna, o dei suoi antenati”, aggiunse con fare stizzito. “Giardino?”, tossì l’uomo dallo stupore, battendosi il petto con la mano, “Questo sarebbe un giardino?” “Lo chiamavano così! Ma io la storia non la so, perché non mi interessa. Comunque ora è un parco protetto, quindi non è più di nessuno”, sentenziò secco Alessandro. “Noi eravamo qui in gita. Però ci siamo persi!”, intervenne Cristian. “In gita?”, chiese l’uomo, “Quindi…” “Si”, annuì Alessandro, “Ora tutti dovrebbero essere in allarme. Ci staranno cercando. È quello che mi sembra strano: non abbiamo sentito niente; niente elicotteri, niente sirene, niente cani…non lo so, poi, se si scatena tutto questo ca**no quando qualcuno si perde in un bosco, però o troviamo noi l’uscita, o ci trovano loro, questo è sicuro”, disse con un leggero buffetto a Cristian, che gli sorrise. “Sempre che non si perdano anche loro…”, sorrise l’uomo, ma il suo era un sorriso leggermente sconsolato. Poi aggiunse: “Chissà se qualcuno è mai venuto a cercare me…”, ma lo disse sottovoce, Alessandro e i bambini non lo sentirono. Si rattristò leggermente. Scosse la testa: “Che gita era?”, gli chiese. 172
“Della parrocchia”, rispose Cristian, “L’ ha organizzata Don Alfonso” L’uomo soppesò Alessandro con lo sguardo: “Passi per Cristian, che magari è anche chierichetto, ma voi due non mi sembrate tipi da gita parrocchiale, per quello che posso immaginare sia una gita parrocchiale, così a sensazione…” Alessandro allargò le braccia ed assunse un’espressione di finta disperazione. “Lui sta facendo da guardia a noi due”, disse Cristian, indicando se stesso e Tommaso. “Come da guardia?!” Alessandro allungò una mano verso la bocca di Cristian, ma il bambino si scostò e continuò a parlare, nonostante il suo visibile disappunto. “Alessandro ha pasticciato tutti i muri della chiesa e l’hanno punito e deve stare con noi. Ci ha pure allenato per il torneo di biliardino ma abbiamo perso. Lui c’ha l’assistente sociale, lo sai? Anche mia mamma. È la stessa. È una signora grassa”, indicò Cristian con le braccia unite a formare un cerchio. “Ma te ne vuoi stare zitto, ca**o!”, sbottò Alessandro. “Ehi, non dovresti parlare così al bambino, però…”, lo guardò, facendosi serio, l’uomo. Alessandro sbuffò senza replicare. “Se non ne vuoi parlare non ne parliamo”, aggiunse l’uomo, “Il fatto è che siamo qui, a condividere questa assurda situazione. Non è obbligatorio parlare e conoscersi, per me poi, potrei pure pensare che sia un sogno, non sapevo neanche cosa volesse dire parlare con qualcuno…Se la mia curiosità, o qualcosa che ho detto possono averti arrecato disturbo te ne chiedo scusa. Non era assolutamente mia intenzione”, l’uomo abbassò leggermente il capo. “No, dai, lascia stare”, si imbarazzò Alessandro, “Non c’è niente di misterioso o segreto. Tanto poi, come vedi, lo sanno tutti. Ho fatto una ca**…”, si interruppe guardando Cristian, “ …una cavolata e mi hanno punito. E la mia punizione è questa: badare a questi due. Prima quel prete mi ha fatto fare tutti i lavori di riparazione dei danni che ho fatto, poi mi ha fatto organizzare il torneo di biliardino, e li ho dovuti allenare, e poi questa gita. E ne ho ancora per un bel po’”, storse leggermente le labbra. “E’ come un fratello grande”, disse Cristian, abbracciandolo. Alessandro palesò un certo fastidio, ma non evitò il gesto d’affetto. “Perché proprio loro due?”, gli chiese l’uomo. “Perché sono due disadattati, così il prete ha pensato che se li univa a me, che secondo lui sono disadattato pure io, magari ne usciva qualcosa di buono. All’oratorio se ne stanno 173
sempre da una parte, soprattutto Tommaso, e questo qui che gli sta dietro come un cagnolino. Ma da quanto ne so anche a scuola, o a casa. Insomma, due emarginati!” “E chi allora è più emarginato di me?”, rise l’uomo, “Ci siamo trovati davvero, allora. Deve essere il destino. Non so se ci credo adesso e se mai ci ho creduto in passato, però è probabile che tutto questo non sia casuale”, strizzò l’occhio ad Alessandro, che assunse un’espressione fortemente dubbiosa. “Forse hai letto qualche libro di troppo”, gli disse con una smorfia, “Noi ci siamo persi perché questo qui…”, indicò Cristian, “…è fissato coi cani, e quando ha visto Pasqua l’ha inseguita nel bosco. Avrei dovuto lasciarlo andare”, digrignò leggermente i denti. “Non dire così, si vede che sei un bravo ragazzo”, gli diede una pacca sulla spalla, Alessandro avvertì un lieve senso di fastidio, “Un prete non te li avrebbe mai affidati se non avesse pensato che questo avrebbe potuto far bene a tutti e tre. Tutti e quattro direi!”, sorrise, “Mi prenderai per pazzo, lo so. Un uomo che resta solo per tanto tempo, che parla con un cane e con una statua dentro una cascata, ma questo per me e per questo bosco è un giorno troppo speciale, puoi capirmi? Non posso non pensare che ci sia un motivo per la vostra presenza qui”. Tutti e tre i ragazzi si fecero seri mentre lo ascoltavano dire certe cose. L’uomo rise schernendosi, accarezzandosi la nuca: “Eh, eh! Scusate, forse ho letto troppi libri di filosofia”. Si fermarono in uno spiazzo, che l’uomo affermò di non avere mai visitato. Fecero un’equa distribuzione del cibo che avevano raccolto durante il tragitto. Razionarono l’acqua, in quanto possedevano quell’unica bottiglia da due litri e prepararono la legna per accendere un fuoco poiché oramai il sole tramontava. “Allora”, prese la parola l’uomo, “Abbiamo solo due coperte. Dobbiamo usarle a coppie, necessariamente”. Tommaso, sentendo questo, si irrigidì e si alzò allontanandosi di qualche passo da loro: “Io dormo da solo, non voglio nessuno accanto”, disse, e la sua voce parve tremare lievemente. “Va bene, va bene”, lo tranquillizzò l’uomo.Tanto a me basta stare vicino al fuoco. La coperta non mi serve, la userai da solo, Cristian ed Alessandro la divideranno come ieri, va bene a tutti?”. I tre ragazzi annuirono, Tommaso stringendo a se il suo quaderno, Cristian sorridendo, Alessandro sbuffando sconsolato. Fu così che si prepararono a passare la loro seconda notte dentro il bosco. 174
Climax
Erano ormai passate le ore 21:00. Il secondo giorno di ricerche stava per volgere al termine. Sul luogo erano presenti Marianna ed Eleonora, oltre al Barone ed alla Contessa. Don Alfonso Maria e gli altri restavano in contatto telefonico con le due madri; in rappresentanza della casa famiglia era da poco giunta Annalisa, dando così il cambio agli altri operatori che si erano a loro volta avvicendati con lei durante la giornata di ricerche. Livio era da poco rientrato a casa, era necessario mantenere tranquilli Giada, Luciana e Francesco, considerato che la signora Lella riusciva ad accrescerne a dismisura il livello di stress guardando in televisione tutti i telegiornali trasmessi su ogni canale e preparandosi all’edizione speciale del suo programma preferito che avrebbe trattato in prima serata proprio l’argomento della scomparsa dei tre ragazzini, commentando il tutto con sospiri e pianti disperati. Silvia dormiva. Si era lasciata andare al sonno, dopo aver passato l’intera giornata a piangere e disperarsi, a gridare il nome di Alessandro ed a correre dentro il bosco, in ogni direzione, sino a caderne esausta. Fu la madre a chiamarla di fronte al televisore, quando al telegiornale si commentava la notizia della sparizione di tre ragazzi all’interno del Parco Naturale del Gran Paradiso. Ancora ignara dell’identità dei tre, si era seduta davanti allo schermo, e mentre aumentava il volume pigiando col dito pollice della mano destra sul pulsante, sul monitor erano apparse in lenta successione le foto dei tre scomparsi. In quel momento il cuore le si strinse come il suo pugno intorno al telecomando. Le gambe iniziarono a tremare ed un senso di nausea, mista a claustrofobia e terrore, la colse, imprigionandola in se stessa. Si ritrovò a piangere e gridare, avvolta dall’abbraccio materno. Le successive ore le passò davanti alla televisione, alla ricerca di informazioni che non sopperivano comunque il suo bisogno. Doveva essere lì, a cercarlo. Sapeva che, se fosse stata lì a chiamarlo, lui avrebbe ritrovato la via. Guardò la madre negli occhi, e non ebbe bisogno di parlare. “Chiamo tuo padre e andiamo subito”, le disse la donna. Quando si trovò di fronte Marianna, si abbracciarono, senza parlare. La guardia forestale coordinava le attività di ricerca. Il Barone aveva messo a disposizione anche il proprio elicottero ed aveva costituito una squadra speciale composta da professionisti di sua fiducia. A questi uomini aveva dato anche un altro ordine, in quanto l’uomo che aveva ordinato di rintracciare non era stato ancora contattato. Alle
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conversazioni durante le quali comunicava tali ordini alla sua squadra, composta da dieci unità, accompagnate da cani e da apparecchiature sofisticatissime che fecero l’invidia del corpo forestale, la Contessa non fu presente. Varie troupe televisive, non solo locali, ma anche nazionali, erano sul posto, seguendo con attenzione tutte le attività, e diversi giornali il giorno dopo avrebbero pubblicato la notizia che i telegiornali già avevano trasmesso. Sul luogo erano presenti anche alcune pattuglie di polizia e carabinieri, appartenenti alle squadre anti – sequestro, in quanto, vista la presenza tra i tre scomparsi, del nipote del Barone, si temeva potesse trattarsi di un rapimento e non semplicemente di una accidentale scomparsa. Per tale motivo, il Barone redarguì violentemente Anselmo, minacciandolo di destituzione dall’incarico, ed anche di definitivo licenziamento come uomo di sua fiducia. Sentendosi fortemente colpevole per quanto accaduto, Anselmo si era unito nelle ricerche mettendosi a disposizione del coordinatore della squadra speciale costituita dal Barone. E mentre Eleonora si era spesa in ringraziamenti ed ossequi al nobile che aveva messo i suoi mezzi personali a disposizione della ricerca dei tre ragazzi, e dunque anche del suo figliolo, riconoscenza che anche tutti gli operatori della casa famiglia si erano prodigati a dimostrargli, a volte anche con eccessiva enfasi, Marianna invece non aveva che ricambiato lo sguardo torvo rivoltole dai suoceri, appena l’avevano intravista. Ora però erano tutti troppo concentrati nella ricerca, ed immersi nella speranza che tutto si sarebbe concluso positivamente ed al più presto, per potersi dedicare al reciproco disprezzo. Due elicotteri perlustravano il parco dall’alto, uomini e cani lo setacciavano dall’interno. Il sole era ormai calato. Le ricerche sarebbero proseguite comunque per tutta la notte, e per tutto il tempo necessario, sino al ritrovamento dei tre scomparsi.
Nel bosco i tre ragazzini e l’uomo stavano intorno al fuoco. Dopo aver mangiato, chiacchieravano. Tommaso si manteneva leggermente distante, sensibilmente più vicino ai tre rispetto al giorno precedente. Pasqua si era allontanata, anche per questo avevano deciso, loro malgrado, considerato che oramai la notte sopraggiungeva, di sostare ed aspettare l’alba per rimettersi in marcia al seguito del cane. “Dove sarà andata?”, chiese Cristian. “Non saprei”, rispose l’uomo, “Mi auguro torni subito e non sparisca come suo solito, perché senza di lei sarebbe impossibile muoverci in questo bosco”, gli rispose l’uomo, e,
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vedendo la sua espressione impaurita, si pentì di avergli dato quella risposta, e sorridendogli cercò di tranquillizzarlo.
“Allora che combini stavolta?”, le chiese Boicco appena la vide avvicinarsi. Pasqua abbaiò, scodinzolò e gli porse il dorso del collo. L’uomo la accarezzò. “Li hai presi tu, non è vero?”, le chiese, mentre chino su di lei la coccolava. Pasqua abbaiò di nuovo. “Che intenzioni hai, stavolta? Hai visto che trambusto? Perché non li fai uscire?” La cagna si scostò ringhiando leggermente. “Va bene, va bene, scusa!”, si giustificò l’uomo, “Sai cosa fare, ne sono sicuro”. Pasqua si voltò e si allontanò. Mentre ancora non era lontana, l’uomo le sussurrò: “Torna presto a trovarmi, cucciola…”.
Li svegliò la prima luce dell’alba. Il fuoco si era ormai spento da qualche ora, e l’uomo aveva dormito rannicchiato su se stesso in posizione fetale per proteggersi dal freddo della notte. I tre ragazzi si svegliarono quasi contemporaneamente, e quando Pasqua sopraggiunse li trovò a stiracchiarsi e sgranchirsi, sbadigliando per la fame e per il sonno non certo sopito, data la scomoda situazione in cui si trovavano. Si scossero di dosso polvere, terriccio e torpore, e, dopo essersi appartati in solitudine ciascuno dietro un albero diverso - Tommaso ne cercò uno il più distante possibile dagli altri tre - si prepararono a riprendere il cammino. “Si può sapere dove sei stata, brutta birbante?”, la rimproverò dolcemente l’uomo. Pasqua abbaiò e sembrò sorridergli, poi si mise in cammino e gli altri dietro di lei. “Ho fame, oggi non facciamo colazione coi funghi?”, chiese Cristian accarezzandosi la pancia. “Certo, Cristian, che mangeremo qualcosa. Non so se funghi o altro, però. Purtroppo mi sono svegliato tardi e non ho avuto modo di andare a cercarne prima del vostro risveglio, ti chiedo scusa”, gli disse l’uomo quasi con imbarazzo, mentre si grattava la nuca e sorrideva. Cristian assunse un’aria pensierosa, poi gli disse sorridendo anche lui: “Mhmm, si! Perdonato!”. Risero: tutti tranne Tommaso. Mentre l‘affinità tra l’uomo, Alessandro e Cristian cresceva di ora in ora, Tommaso restava ancora in disparte, ai margini di quel
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piccolo gruppo, anche se, la sua distanza dai tre andava riducendosi, ed oramai non era molto lontana da quanto permesso dalla prossemica.
“Allora, io ho tre fratelli…”, rispose Cristian, dopo aver chiesto all’uomo se avesse una famiglia, e dopo che questi sconsolato aveva risposto di non ricordarselo. A quel punto Cristian aggiunse: “Io ci penso sempre alla mia famiglia. Anche adesso. Chissà cosa stanno facendo?”. “Dai, parlaci della tua famiglia, se ti va”, gli aveva chiesto quindi l’uomo. “Ho due sorelle femmine ed uno maschio. E si chiamano Giada, Luciana e Francesco. Giada è la più piccolina. Anche più piccola di me. Poi Luciana è in mezzo, e poi Francesco è il più grande. Francesco viene anche a prendermi a scuola e torniamo a casa insieme. Poi c’è mio padre che si chiama Livio, che è disoccupato. Però ogni tanto lavora. Ed è stato ammalato e ora di sera a volte va a fare le visite, e poi se lo chiamano al telefono, o se chiama lui, resta a parlare anche un’ora, o anche senza parlare. Però va in camera sua quando è al telefono, però siccome i muri di casa mia sono fini fini si sente tutto quando parla, e anche quando non parla”, Alessandro sorrise ascoltandolo, e parve pensare ad un concetto concreto e tangibile, “Poi c’è mia mamma, che si chiama Eleonora. E poi nonna Lella, che è grassa grassa grassa…”, disse Cristian allargando le braccia, cercando di rappresentare un’enorme sfera, “…che non si alza nemmeno dalla poltrona e guarda sempre la televisione, e mette il volume altissimo che la sentono anche fuori di casa mia. E un sacco di volte mio padre la sgrida e le dice che è sorda, e nonna si offende, lo sai?”. “Immagino”, sorrise l’uomo. “Lo sai che casa mia non è nostra?”, continuò Cristian. Tommaso lo osservò fugace. “In che senso non è vostra? Siete in affitto?”, chiese l’uomo, mentre procedevano a camminare. “E’ del Comune. E’ una casa che danno ai poveri, me l’ha detto un mio compagno di classe”, Tommaso si avvicinò leggermente al gruppo con un piccolo scatto, Alessandro lo notò, ma distolse rapido lo sguardo perché lui non se ne accorgesse. “E’ una casa grande? Siete in tanti”, gli chiese l’uomo. “E’ piccola! Mio padre si lamenta sempre. Mamma piange sempre e dice che la casa è troppo piccola. Ci sono due stanze. In una dormiamo io, mio padre e Francesco”, contava con le dita Cristian, “Abbiamo i letti a castello. Nell’altra dorme mia mamma con Giada e Luciana, nel letto grande” 178
“E tua nonna?” “Nonna dorme in cucina, perché non ci sta in camera, e poi lei guarda la televisione tutto il giorno, anche di notte”, Cristian parlava enfatizzando ogni sua frase, dilatando fin quanto possibile le vocali nelle prime sillabe di ogni parola, e gesticolando per meglio rendere agli altri i concetti che voleva esprimere. “Però prima vivevamo in una scuola e prima anche in un albergo, lo sai?”, continuò Cristian, sempre rivolto all’uomo, inorgoglito dalla curiosità che riusciva a destare in lui. Tommaso intanto si avvicinò di un altro passo. “In una scuola?”, l’uomo non ebbe bisogno di enfatizzare il proprio stupore. “Io ero piccolo e non me lo ricordo, però mia mamma c’ha le foto. E ci sono io piccolino dentro la scuola, coi mobili, le sedie. E ce li abbiamo a casa quelli, adesso. E dormivamo dentro la palestra, e c’erano anche altre famiglie nella palestra. Poi siamo andati a vivere in un albergo, e dormivano tutti dentro una stanza. E non c’avevamo il bagno tutto per noi, e lo dovevamo dividere con le altre famiglie, e anche loro dormivano tutte dentro una stanza, che era piccola, ma piccola davvero, non come casa nostra di adesso, proprio piccola…”, Cristian sollevò gli occhi al cielo pensieroso, poi aggiunse ridendo: “Piccola come la tua capanna!”. Tutti risero, tranne Tommaso, che però si avvicinò ancora di un mezzo passo, e li osservava. E, quando vide che avevano smesso di ridere, inspirò a fondo, strinse i pugni e parlò, quasi ad occhi chiusi: “Anche casa mia non è casa mia…”. Gli altri tre ammutolirono e si voltarono, restando quasi immobili, trattenendo il respiro. Cristian teneva la bocca spalancata, con lo stupore tipico dei bambini, esagerandolo nei gesti, ma vivendolo con sincerità. Così come sincera era la meraviglia di Alessandro, che sgranava gli occhi mentre guardava Tommaso, e forse cercava di commentare quanto accaduto ma non ne era in grado. L’uomo sorrise compiaciuto, e si batté il palmo della mano destra sul petto, quasi volesse accarezzarsi il cuore. Tommaso sentì su di se i loro sguardi, tanto che abbassò il suo a guardarsi le scarpe, e senza attendere oltre proseguì superandoli. Anche Pasqua si era fermata, come ad aspettarli, ma vedendolo procedere riprese la propria andatura. “Ma…ma se ne va così?”, balbettò leggermente Alessandro, “Io sono ancora sconvolto”, aggiunse scuotendo la testa, “Non so se potrò mai riprendermi da uno shock simile”, continuò a dire, e rise, contagiando anche gli altri due, interrompendo quel silenzio. “Lui vive in casa famiglia”, spiegò Cristian indicando col dito Tommaso che già si era allontanato di qualche metro dal resto del gruppo. 179
“Allora è vero: casa sua non è casa sua”, soppesò l’uomo.
“E invece la tua famiglia?”, chiese ad Alessandro. Lui camminava nervosamente penetrando tra le fronde degli arbusti, scalciando ed imprecando, correndo, ed alla fine ritrovandosi a passare sempre sullo stesso punto. “Te l’ho detto: è inutile che ti danni l’anima, senza di lei non possiamo uscire da qui. Non siamo in grado nemmeno di allontanarci da questo punto”, l’uomo parlava con tono pacato e sguardo sereno. “Ma che caz** dici? Ma come fai a non essere preoccupato? Come fai a non avere paura?”, Alessandro urlava, “Quei due sono chissà dove! Noi siamo chissà dove! Dove ca**o è quel cane?”. L’uomo si sedette con la schiena poggiata sul tronco di un albero: “Ho ormai smesso di chiedermi se le azioni di Pasqua abbiano un senso oppure no. Perché la risposta l’ho trovata. Quando vi ho visti apparire come fosse un sogno. La risposta è si”. Alessandro si voltò di scatto e lo fissò negli occhi con sguardo feroce: “E questo cosa vuol dire? Significa che se quel cane non torna dobbiamo restare qui per sempre come è capitato a te? Io non ci voglio morire dentro questo bosco di me**a!” Alcuni minuti prima, mentre proseguivano il loro cammino, quasi in fila uno dietro l’altro, Pasqua con un balzo aveva scartato di lato alla propria destra perdendosi tra le frasche. Tommaso fu travolto dall’impeto di Cristian che scattò al suo inseguimento dietro incitamento di Alessandro e dell’uomo. Fu così che i due bambini sparirono alla loro vista nel breve volgere di un istante, e da quel momento, Alessandro e l’uomo si ritrovarono impossibilitati ad allontanarsi da quel punto. Passò altro tempo prima che Alessandro si calmasse, ma senza rassegnarsi e rasserenarsi, e si sedette, ansimando. “E’ inutile stancarsi a quel modo. Correre, gridare. Se fosse bastato questo sarei uscito da qui da subito”, inspirò alzando gli occhi al cielo e sorrise con aria pensierosa. “Che c**zo ridi?”, ringhiò Alessandro. L’uomo socchiuse la bocca e abbassò lo sguardo: “Dovresti moderare il linguaggio, sai? Soprattutto davanti ai bambini. Non so come si viva fuori da qui, ma non penso sia il modo comune di parlare, sbaglio?” “Cos’è? Una sfida?”, si irrigidì Alessandro.
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“No, no…per carità”, gli disse l’uomo mostrandogli i palmi delle mani, “Certo che sei abituato male tu. Mi sembri il protagonista di un libro che ho letto. Non hai bisogno di stare sempre sulla difensiva. Non c’è nessuna minaccia nelle mie parole, ci mancherebbe”. Alessandro sbuffò, fece una smorfia e chiese: “Comunque per cosa ridevi prima?”. L’uomo inarcò le sopracciglia quasi stupito: “Beh…riflettevo sul fatto che questa è la mia casa. Lo è stata per tutto questo tempo. E per quanto possa ricordare è sempre stata solo questo bosco la mia casa. E la mia famiglia è Pasqua. C’è qualcuno che mi aspetta fuori di qui? C’è una casa dove potrò stare? Un letto dove potrò dormire? Sai? Fino a quando non vi ho visti non avevo mai pensato di volermene andare. È da quando siete apparsi che ho sentito dentro di me il desiderio fortissimo di lasciare questo posto, ma non ti nascondo che ho comunque paura…”. “Sempre se ci riusciamo…”, commentò Alessandro. “Ci riusciremo, sta’ tranquillo. Ad esempio io in questo punto non c’ero mai stato. Prima o poi ci accompagnerà all’uscita, vedrai…”, sorrise, “Dunque chi ti aspetta a casa? Ce l’avrai pure una famiglia, una ragazza, qualcuno che ti sta cercando. Oltre al prete, naturalmente!”, rise. “Sei molto divertente…”, disse con forzata acidità Alessandro, poi sospirò pensieroso. “Si…”, disse quasi sconsolato, “Ci sono diverse persone che mi aspettano, e penso che mi stiano cercando con tutte le loro forze. Di certo mio nonno avrà sguinzagliato una squadra speciale. Me lo immagino! Ne staranno parlando tutti i telegiornali”. “Tuo nonno?”, lo interruppe l’uomo. “Si, il Barone. Anzi il Signor Barone, non sia mai che te ne dimentichi! Lo vedi tutto questo? Casa tua, dici? È tutto suo, o quasi, come ti ha detto Cristian: è tutto vero. Mi sembra impossibile, infatti, che non ci sono passati sopra la testa almeno dieci elicotteri”, strinse i pugni, “Se almeno mi fossi preso il cellulare. Chissà se ha provato a chiamarmi. Sono sicuro che ha pure provato a intercettarlo, per trovarmi più in fretta. Tanto è per quello che me lo ha regalato, per controllare ogni mio movimento”. Mentre parlava così, Alessandro non poteva sapere che quanto aveva immaginato si fosse realmente verificato. Quando la squadra speciale gli comunicò di aver individuato il telefonino, il Barone ebbe un sussulto; ma nessuna delle bestemmie che pronunciò subito dopo fu capace di ricompensarne il mancato godimento.
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“Lo stai descrivendo come un mostro”, commentò ad un certo punto l’uomo, dopo aver ascoltato Alessandro parlare del Barone. “Non lo so se ci è nato e se lo è diventato, però è così. Quando penso a lui non credo abbia avuto una vita felice. Penso anche, però, che non se la meriti affatto”. “Ha una colpa così grave?” “Ha rovinato la mia famiglia, è sufficiente?” “Non fa parte anche lui della tua famiglia?” “Penso non ne abbia mai fatto parte. Mio padre lo odiava. Mia madre non ha mai smesso. I suoi figli lo odiavano…” “E tu?” “Io?”, chiuse gli occhi per un attimo e sospirò, “Ho promesso a mio padre che l’avrei protetta. Mi sono trovato costretto a collaborare con lui. Certo, per colpa mia, a causa delle str**zate che ho fatto. Sarò sincero, però: vorrei che ci trovasse!” “Non hai risposto alla mia domanda”, commentò l’uomo. “Non lo so….”, rispose Alessandro, “Quando è successo ero troppo piccolo, e tutto quello che provo è derivato dai racconti ossessivi di mia madre. Ho avuto altro a cui pensare piuttosto che odiarlo. Non lo so davvero…” “Quando è successo cosa?”, chiese l’uomo. “Ah, già”, sorrise tristemente Alessandro, “Non te l’ho detto. Quando è morto mio padre” “Oh…”, sospirò con sincero dispiacere l’uomo, “Sei orfano. Quanti anni avevi?” “Quattro…è successo dodici anni fa…”, rispose Alessandro. Si sentiva strano a confidargli quelle cose, ma provava una sensazione quasi piacevole. Immerso in quel silenzio, il suono della sua voce, mentre ricordava quei tristi momenti, gli pareva tutt’altro che spiacevole. “Deve essere stata dura…” “Dura dici?”, si infiammò Alessandro, quasi rivivesse quegli istanti, “Ero solo un bambino. Andavo ancora all’asilo. Ed eravamo soli. Mia madre non aveva parenti. E gli amici di famiglia si dileguarono, spaventati dal blasone di mio nonno. Blasone: una parola che non so nemmeno cosa vuol dire, ma in quegli anni lui la pronunciò spesso. Forse quella si che è una parola che odio!”, si morse le labbra, sentiva il bisogno di trattenersi, in sincerità non voleva condividere con lui, un estraneo, tutto questo; non ne aveva mai parlato con nessuno, nemmeno con Silvia, gli era capitato solo in analisi, nei primi anni dopo l’accaduto, ma gli nasceva spontaneo, adesso. “Che tipo è tua madre? Dev’essere in gamba ad averti tirato su così bene da sola” 182
Alessandro rise in maniera sfottente: “Ah ah ah! Si, hai proprio ragione”, sentì montargli dentro una rabbia tale da bruciargli la gola. Gli occhi gli si inumidirono, “E’ proprio forte! Glielo dico sempre anch’io: sei troppo forte mamma! Magari quando rientro e la trovo ubriaca, con il vomito che la ricopre fino ai capelli. O magari quando rientra piangendo perché un altro bastardo coglio** l’ha usata come una tro*a e poi l’ha mollata”, il tono della sua voce maggiorava, “Si, è proprio forte quando ci si mette. Non la batte nessuno! Caz**! Va**anc*lo!”, gridò battendosi i pugni chiusi sulle cosce ed asciugandosi leggermente gli occhi strofinandoseli coi polsi. L’uomo si alzò e gli si avvicinò. Gli si inginocchiò di fronte. Alessandro lo fissava negli occhi. Lui gli pose una mano sulla spalla: “Avevo ragione io, dunque. Ti ha tirato su proprio bene, se sei stato capace di prenderti cura di lei per tutti questi anni, senza avere nessuno a cui chiedere aiuto. Senza avere qualcuno da imitare. Hai dovuto imparare dai tuoi errori e correggerli da solo. Anche la cazz**a che hai combinato fa parte del tuo percorso. E penso che tu non possa negare di essere cresciuto da quel momento in poi. E presumo anche tua madre, giusto?”, sorrise. Alessandro scosse leggermente la testa, e si portò la mano sinistra sulla bocca accarezzandosi le labbra: “Se fossi stato più capace ne sarebbe uscita prima”, l’uomo gli si sedette affianco, con la schiena poggiata sullo stesso albero, “Invece, ogni volta che credevo ce l’avesse fatta, eccola lì che ricominciava…”, stette un attimo in silenzio, “Ero molto arrabbiato con lei, all’inizio. Pensavo -Ca**o, ma non lo vede che ho bisogno di lei! Non lo capisce che sono solo un bambino, che non ho il padre e che ho bisogno di mia madre!-. E invece lei non faceva altro che piangere, gridare, bere, fare la str**za con non so quanti uomini. E stava male. Ed in certi momenti gliel’ho pure detto che se lo meritava, e magari qualche volta l’ho pure pensato davvero. Ero troppo piccolo, eppure me la ricordavo…me la ricordo com’era quando c’era papà. Era forte, vitale. Poi è morta anche lei. E penso che siccome non è morta per davvero, pensando di meritarsi l’inferno, se lo sia costruito qui sulla terra. Così faceva di tutto per stare male. Beveva sempre di più. Poi iniziava coi gruppi di auto aiuto e ricominciava, ancora più forte. E quando ha fatto la terapia con l’antabuse, caz**, è stata capace di continuare a bere e vomitare per mesi. Beveva, e contemporaneamente prendeva quel veleno, ed io l’ho vista vomitare e ridere. Come se volesse farsi del male, volutamente. Non lo so come ne siamo venuti fuori”, sorrise, “Ca**o, i dottori ne parlavano con me. Gliel’ho messo io la prima volta di nascosto, in 183
una bottiglia di vodka. Penso che se ne sia accorta quasi subito. Quando poi ha raggiunto il limite mi ha fatto questo”, gli mostrò la ferita, “Mi ha bruciato col ferro da stiro. Si chiama delirium tremens, o qualcosa del genere. Neanche se mi faccio un trip dei peggiori riuscirò mai a vedere quello che aveva in testa lei in quei momenti. Altro che allucinazioni!”, sputò per terra, “Poi è intervenuto mio nonno, gli avvocati, il giudice, quella grassona dell’assistente sociale”, intonò come fosse una litania, “…e da lì in poi è diventato tutto cronico, fino alla mia c***ata…”. Guardò l’uomo: “Ed è già un miracolo che non sia morta di cirrosi!”, ghignò con una smorfia perfida. “Questa è la mia vita, ti basta?”, concluse. “Porca tr**a!”, si lasciò sfuggire l’uomo. Alessandro si voltò immediatamente a guardarlo. Sgranò gli occhi. Risero.
Passarono alcune ore, tanto che Alessandro si assopì. Quando riaprì gli occhi vide Tommaso, seduto qualche metro di fronte a lui, che disegnava sul suo quaderno. Scosse la testa destandosi, si guardò intorno alla ricerca dell’uomo e di Cristian, ma vide solo Tommaso. “E tu che ca**o ci fai qui?”, gli chiese con tono sorpreso e scortese. Tommaso alzò lievemente gli occhi dal foglio. Alessandro assunse un’aria pensierosa, abbassò leggermente gli occhi e parve quasi ricordarsi qualcosa. Si alzò, e mentre si alzava gli chiese scusa: “La devo smettere di usare questo tono e queste parole, scusa, non volevo offenderti”. Tommaso accennò un impercettibile movimento delle sopracciglia: “’fa niente!”, gli disse riabbassando gli occhi e riprendendo il suo disegno. Alessandro rimuginò sulla situazione, tentando un approccio alternativo al problema. “Hai visto per caso quell’uomo?”, gli chiese. Tommaso scosse la testa. Alessandro si accarezzò il mento e sospirò: “E Cristian? Non eravate insieme? E il cane?” Tommaso non rispose. Alessandro sembrò spazientirsi, ma si trattenne. Gli si avvicinò, e gli si inginocchiò di fronte, tanto da adombrare il foglio sul quale disegnava. A quel punto Tommaso sollevò lo sguardo. Alessandro notò che tremava leggermente.
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“So che ti infastidisce molto che qualcuno ti stia così vicino. So che non so il perché, e non mi interessa. E non so nemmeno perché continui a fare questo disegno, ma so che per te è molto importante. E l’ultima volta che ho toccato questo quaderno mi hai preso a pugni. Ma adesso…”, con uno scatto improvviso gli strappò il quaderno dalle mani e si allontanò da lui con un balzo. Tommaso si alzò repentino e gli si avventò contro con il pugno proteso. Alessandro schivò i suoi tentativi di attacco. Alcuni pugni lo raggiunsero al petto ed alle braccia, non reagiva, gli girava intorno, Tommaso gridava parole sconnesse, e piangeva. Alessandro lo sgambettò e lo fece cadere, quindi gli si sedette sopra, immobilizzandolo. Con una mano gli tratteneva le braccia, mentre con l’altra, portata dietro la propria schiena, stringeva il quaderno. Tommaso si dimenava, ringhiava e schiumava rabbia, mentre gli gridava contro oscenità irripetibili, chiamando in causa la sua famiglia ed i suoi antenati: “Dammi il quaderno! Non mi toccare!”. Tutti i suoi tentativi erano però vani; Alessandro, più lui faceva resistenza, più lo tratteneva con forza. E mentre Tommaso si agitava compresso in quella posizione, Alessandro lo guardava. Ed il suo sguardo non era feroce, nonostante la determinazione con la quale si opponeva ai tentativi del ragazzino di disarcionarlo. Lo sguardo di Alessandro era compassionevole, e carico di tristezza. Ed anche Tommaso se ne avvide. Tanto che, oltremodo stremato dal vano sforzo, senza comunque dare l’impressione di cedere o di arrendersi, acquietò pian piano il proprio impeto, sino a rimanere quasi immobile, mosso solo dalle palpitazioni del proprio cuore agitato, e dal respiro affannoso. E restarono così per alcuni minuti a fissarsi in silenzio. “Cos’è questo disegno? Cosa vuol dire?”, aveva continuato a chiedergli Alessandro, mentre con forza lo teneva costretto con la schiena a terra, portandogli di fronte agli occhi il quaderno aperto sulle pagine disegnate. Tommaso lasciò andare il capo e voltò lo sguardo verso destra, poggiando la guancia sulla nuda terra; piangeva: “E’ ciò che vedo…tutte le volte che chiudo gli occhi…tutte le notti prima di dormire”, parlò sottovoce, singhiozzando. Alessandro allentò la presa e lentamente si alzò. Tommaso restò in quella posizione. “Non ci riesco. Non lo so disegnare! Se non imparo a disegnarlo lui non lo capirà…quando glielo darò…”, proseguì, coprendosi il viso con le mani.
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Alessandro gli tese la sua. Tommaso si voltò a guardarlo. Poi la afferrò e lasciò che lo aiutasse a sollevarsi. Una volta in piedi si divincolò e con un gesto repentino si riappropriò del quaderno, senza che Alessandro opponesse la minima resistenza. “Non ci riesco!”, disse Tommaso. E continuò a ripeterlo, alzando sempre più il tono della voce, sempre più carico d’emozione, adulterato dal pianto, “Lo vedo nella mia testa, ma non ci riesco a farlo uguale”. Urlò, talmente forte che gli uccelli che cinguettavano tra i rami degli alberi tutt’intorno si alzarono in volo gracchiando. “Una siringa su un tavolino! Perché? Non si capisce? Perché nessuno lo capisce? E’ così difficile?”, gli chiese con il viso rosso per il pianto e le vene gonfie sul collo. La sua voce assunse un tono gutturale. “Una volta ci ho sbattuto pure contro”, aggiunse sospirando, mentre annaspava inghiottendo le proprie lacrime. Ripose il quaderno nello zaino. E da quel momento non avrebbe più proferito parola sino a poco prima di addormentarsi. Fu allora che apparvero, nell’ordine, Pasqua, Cristian e l’uomo. Pasqua abbaiava e scodinzolava attorno ad Alessandro e Tommaso. Alessandro dovette trattenersi dal colpirla con un calcio. Si avvicinò invece a Cristian, e gli fece una carezza: “Tutto bene?”, gli chiese. “Si, grazie”, sorrise il bambino. Sorrise anche l’uomo guardando la scena. Alessandro se ne accorse, ed istintivamente ritrasse la mano con una smorfia di disappunto. Poi parve soppesare la propria azione. Quindi guardò l’uomo e ricambiò il sorriso. “Dove siete stati?”, chiese loro. L’uomo raccontò che dopo la loro discussione, Alessandro si era assopito, e lui, avendo sentito dei rumori tra i cespugli si era addentrato nel bosco, non riuscendo più a trovare il punto dove si trovavano. Girovagando tra i sentieri, si era imbattuto in Cristian, che a sua volta si era separato da Tommaso, quasi senza accorgersene - gli aveva confidato il bambino-; infine Pasqua era saltata fuori da un cespuglio abbaiando e li aveva guidati fin lì. “Inizia a far buio”, notò l’uomo. “Credo che dovremo fermarci qui”, sospirò Alessandro, guardando gli altri, “Come se non ci avessi già passato abbastanza tempo in questo punto”, aggiunse sorridendo sconsolato. Si prepararono per la notte. 186
“C’è particolarmente freddo, stanotte”, ammonì l’uomo, “Dovremo per forza dividere la coperta a coppie”, disse rivolgendo un fugace sguardo a Tommaso. “Va bene”, rispose lui, adagiandosi e facendo un lieve cenno ad Alessandro. Lui e l’uomo incrociarono lo sguardo stupiti. Alessandro deglutì incredulo. L’uomo divise la coperta con Cristian. Non avevano avuto modo di rintuzzare il fuoco. Cristian allietò i compagni d’avventura con divertenti racconti sul proprio passato, e sulle sventure di alcuni incauti conoscenti della sua famiglia. La sua voce riecheggiava nel silenzio del bosco, illuminato solo dalla luce della luna e delle stelle. Ridevano tutti, tranne Tommaso, che però ascoltava quei racconti con occhi aperti ed orecchie ben attente. “Una volta una signora che era vicina di casa nostra, che abitava nello stesso palazzo, è andata a fare la spesa e quando è tornata gli avevano occupato la casa. C’era un sacco di gente che gridava. E questa signora ha chiamato il marito, che è il padre di un mio amico, che ha preso un martello grande grande, di quelli che usano i muratori, avete capito? E prendeva la porta a colpi di martello. E quelli che erano dentro hanno lanciato una bombola dalla finestra, ed è finita sopra una macchina. E c’erano signore vecchie che piangevano. E anche mia mamma piangeva, perché mio padre si voleva mettere in mezzo, e lei lo tirava col braccio e gli diceva di restare fermo. Ma mio padre li voleva proprio picchiare, perché quelli erano entrati senza permesso e avevano messo fuori tutti i mobili di quei signori” “E poi come è andata a finire?”, gli chiese l’uomo. “Poi è arrivata la polizia e hanno fatto uscire quella gente, e gli hanno dato un’altra casa. Ma non era solo quella volta, però. Tu non lo sai ma anche a noi ci volevano prendere la casa, ma adesso a casa mia c’è sempre mia nonna, e non entrano più. E poi ci avevano rubato un pantalone e una maglietta, e anche il motocarro di mio padre. Poi però lo aveva ritrovato, ma era tutto distrutto, e ora va a piedi perché la macchina non ce l’abbiamo. E poi c’è una signora del mio palazzo che…”, continuava a raccontare Cristian. Alessandro e Tommaso stavano sotto la coperta. Inizialmente schiena contro schiena, ma, quando il racconto di Cristian si fece più coinvolgente, Alessandro si voltò, premendo inavvertitamente col pube contro la schiena di Tommaso. “Ti è già venuto duro il cazzo? Anche a mio padre piaceva sfregarmelo sul culo”, gli disse con voce calma.
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Alessandro tremò. E dopo un istante di esitazione lo strinse forte a sÊ piangendo. Tommaso parve lievemente sorridere mentre la sua testa veniva bagnata da quelle lacrime.
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Cupe vampe
Furono destati dai latrati di Pasqua. La cagna guaiva mordendoli leggermente nel tentativo di svegliarli. Protestando si alzarono, ancora intontiti per il breve riposo e per il forzato risveglio. “Ma che cosa vuoi?”, gli urlò contro Alessandro. Pasqua gli girò intorno mentre continuava ad abbaiare. “O ca**o!”, esclamò Alessandro, voltandosi verso di lei. “O mer*a!”, ripeterono all’unisono gli altri tre. Tutti, Cristian e Tommaso compresi. Un bagliore proveniva di fronte a loro, di un rosso vivo. Talmente vivo che sentivano il calore fin là dove si trovavano. Le fiamme sovrastavano le cime degli alberi. Era ancora notte, ma a loro parve giorno. “Dobbiamo scappare, presto! Via da qui!”, gridò l’uomo. Gli altri non ebbero nemmeno il tempo di replicare. Pasqua abbaiò più forte, alla loro destra. “Dobbiamo seguire lei!”. Così fecero. Ma non fu cosa semplice. Pasqua correva veloce. Iniziò a soffiare un vento caldo. Pareva quasi li seguisse. Cristian fu colto dal panico, piangeva e non riusciva a muoversi. L’uomo se lo caricò sulle spalle, dicendogli di stringersi forte, e così Cristian fece, quasi a soffocarlo. Alessandro teneva per mano Tommaso, che teneva stretto il suo zaino, mentre correvano. “Restami sempre vicino”, gli diceva mentre inseguiva il cane che si districava tra rovi ed alberi. Unica loro guida era la luce della luna, cosicché Pasqua era costretta a fermarsi più volte, sollecitandoli con veri e propri ululati, per indicare loro la sua posizione. “Ci sta raggiungendo!”, gridò Alessandro. Le fiamme parvero accelerare. Ora non era più necessario che la luna rischiarasse il bosco. L’uomo alzò gli occhi al cielo e non riuscì più a distinguerla. Le fiamme rilucevano superandoli, tanto che tremò, osservando la propria ombra che lo precedeva nella corsa. E mentre correva, con Cristian sulle spalle, stretto con le braccia al suo collo, la sua corsa si faceva più lenta, goffa e scordinata. Tanto che fu superato da Alessandro e Tommaso, che presi per mano cercavano ti restare nella scia di Pasqua. “Si sono fermati, aspetta!”, gli gridò Tommaso.
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Alessandro si fermò e si voltò. “Ma che ti prende? Alzati!”, gridò all’uomo. Questi si era accasciato a terra per la terza volta, con Cristian che gli era rotolato giù dalle spalle, tremante, mentre cercava di rianimarlo, con il viso bagnato dalle lacrime, incapace quasi di parlare. L’uomo aveva le mani alla testa e gridava di dolore, mentre si dimenava, chiuso in posizione fetale. Alessandro li raggiunse. “Prendi Cristian e seguite il cane!”, disse a Tommaso indicando Pasqua con un dito. Tommaso apparve titubare. “Corri, ca**o!”, gridò Alessandro. Tommaso afferrò la mano di Cristian e lo trascinò quasi inerme. Alessandro vedeva le fiamme divampare di fronte a se. “Muoviti, ca**o! Io non ci muoio qui per colpa tua!”, lo sollevò da terra tirandolo per le braccia, con immane fatica. L’uomo gli si poggiò sulle spalle col petto, e quasi strisciando i piedi riprese a muoversi. Fu solo in quegli istanti che Alessandro notò la mano destra dell’uomo, e capì quale era, in lui, perfetto sconosciuto, quel particolare che gli era tanto familiare. Pasqua rallentò la sua corsa e si fece raggiungere prima da Cristian e Tommaso, poi dagli altri due. Abbaiò contro l’uomo, che Alessandro si lasciò scivolare da quella presa, inginocchiandosi sfinito. “Non ce la faccio…”, pianse. Tommaso e Cristian gridarono. Pasqua quasi assalì l’uomo, mordendolo ad un braccio, e questi ebbe un accennò di ripresa. Il vento parve rallentare e soffiare in altra direzione. L’uomo scosse il capo e vide che il cielo schiariva. “E’ l’alba…”, sussurrò, poggiando le mani a terra e cercando di rialzarsi. “E voi chi c***o siete?”, improvvisamente udirono una voce sconosciuta dietro di loro.
Intanto gli elicotteri che perlustravano il bosco si erano diretti sul focolaio, che ormai si era esteso notevolmente. “Ci sono altri due roghi, guarda! Sulla destra e lì a sinistra!”, comunicavano tra loro via radio, “Ma quando arrivano con l’acqua?”. “Oh, mio Dio! Oh, mio Dio!”, salmodiavano Marianna e la signora Eleonora, mentre il Barone imprecava alla radiotrasmittente ed ai suoi numerosi telefoni cellulari. Le fiamme erano visibili anche dal parcheggio, ormai. In mezzo a quelle fiamme erano prigionieri tre ragazzini. 190
Al rischiarare dell’alba, il giardino dei Conti Finzini brillava di una luce incandescente.
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PARTE TERZA
L’eroe dai due nomi
(di Vanessa Variopinta e Maya Pungente)
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In compagnia dell’anello
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Cascate
E adesso magari vi piacerebbe sapere cosa gli è successo ai nostri amici, vero? Eh, curiosoni! Beh, vi capisco, dopotutto la nostra storia è entrata nel vivo, no? Vi piace? Ma lo speriamo, cari i miei curiosotti, altrimenti che ci siamo impegnate a fare noi a dettarla a questo qui che la scrive…che non creda magari di esser bravo, mah…Eh, cosa? Chi…chi sono io? Ma come chi sono?! Ma le leggete le frasi scritte dentro le parentesi? Sapete cosa vuol dire “tra parentesi”? Vuol dire “per inciso”! Per diamine! Vuol dire che incide…O no? Dunque non fate confusione. Amon ha fatto bene la sua parte, con dovizia di
particolari,
con
il
suo
stile
asciutto,
ma
che
barba…No,
Amon,
no..scherzavo!…Quant’è permalosa! Accipicchia…Mhmm, meglio andare al sodo. Noi comunque ci siamo già incontrati, eravamo ancora all’inizio della storia, e la nostra beneamata Erinna ci ha presentato a voi in rapida carrellata ( si, ho avuto anche uno screzio con lei, va beh, che sarà mai…): io sono Maya Pungente, ape operaia, piacere di conoscervi. Vi terrò compagnia, raccontandovi gli avvenimenti da qui a seguire. Ma non sarò sola, perché mi aiuterà la mia dolce amica (smack smack tanti bacini; si, lei è tanto mielosa…bleah!) Vanessa Variopinta. Vi accorgerete di lei, non solo per le sue rime sdolcinate, ma anche perché ha un carattere più dolce del mio. Il suo resoconto degli avvenimenti lo leggerete così, miei cari amici: così non vi confonderete… Almeno lo spero, perché ci alterneremo durante il racconto …E poi lei è troppo timida, neanche ha il coraggio di presentarsi. Cosa, come osate darmi della prevaricatrice? Eh, vi ho sentito! Noiosa sarà quella moscaccia di Erinna…Ehm, ciao Erinna, come va? Tutto bene? Ehm…Forse è meglio riprendere il racconto… Dunque i nostri sono lì, nel bosco, mentre le fiamme li stanno circondando, perché oltre che alle loro spalle, altri due focolai sono accesi ai loro fianchi. E quando pare che il barbuto misterioso sia rinsavito dalla sua emicrania ( ma che c’avrà?), eccoti una voce misteriosa provenire dal bosco. E dal bosco viene fuori un uomo, vestito in tuta mimetica, che neanche nei film di guerra!, con tanto di passamontagna sul capo. Ma soprattutto ha a tracolla un fucile, e questo, miei cari lettori, spaventa a tal punto Cristian, che spaventato, potete immaginare, lo era abbastanza, che se la fa sotto dalla paura. E non la pipì, se mi volete capire.
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Il manigoldo mascherato imbraccia il fucile e glielo punta contro ai nostri quattro, che impietriti non sanno cosa fare. Per fortuna che c’è Pasqua che con un balzo si avventa sul balordo, azzannandolo ad un braccio. Il fetente ruzzola a terra, ma deve essere ben uso a fare a botte, perché si rialza subito, prima che il cane possa riavventarglisi sopra, e con il calcio del fucile, afferrato con entrambe le mani, a stantuffo, colpisce la povera Pasqua sul muso, e si dilegua dentro il bosco. Per i nostri non c’è tempo di riflettere. “Dobbiamo andarcene da qui!”, sbotta Alessandro, dopo essersi ripreso. Lui non se l’è fatta addosso, ma poco c’è mancato. E ora comanda il battaglione, come fosse il più navigato degli avventurieri. “Non c’è un minuto da perdere, sta arrivando il fuoco, alzati!”, scalcia l’uomo, come in preda ad un delirio di eccitazione. L’uomo misterioso si alza, ancora stordito, mentre Pasqua abbaia ancora più forte. Tommaso guarda ora a destra ora a sinistra aspettando che qualcuno gli dica cosa fare, e Cristian piange (ma và? ma cos’altro vuoi che faccia?) singhiozzando che si è fatto la cacca addosso. Alessandro lo prende in braccio: “Mer**!”, eh, gia! Riprendono a correre dietro a Pasqua. Le fiamme ormai li hanno quasi circondati, e la via di fuga è una sola, la stessa per dove è scappato l’incappucciato con il fucile, ma ora loro non hanno tempo di pensare a questo. L’uomo misterioso pare si sia ripreso. “Ci sei?”, gli chiede Alessandro correndo in avanti, guardando all’indietro, e di tanto in tanto storcendo naso bocca e tutto il viso, bisbigliando “che schifo!”, mentre sente qualcosa di viscido colargli sull’addome e sulle cosce. “Si, scusate per prima!”, gli risponde con affanno l’uomo, e magari pensa anche “ma cosa mi fai parlare a fare mentre corro, non l’hai visto che fino a due minuti fa ero stramazzato al suolo!”. I nostri corrono, corrono e corrono. Ormai è alba piena.
Intanto dall’altra parte i fatequalcosavipregomiofiglioohmiodiosalvateli eccetera si sprecano, amici cari. Così come i tentativi di entrare nel bosco per raggiungere i malcapitati. Ma sia le guardie forestali, sia gli uomini del Barone, sia le madri e gli operatori della casa famiglia in apprensione, sia le giovani innamorate, una volta che si
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addentrano tra gli alberi ed i cespugli è come se girano intorno e poi risbucano di nuovo lì nel parcheggio. Il signor Barone intanto non le manda di certo a dire ai suoi, minacciandoli delle più terribili torture in caso di fallimento. E fallimento, amici miei, vuol dire che i tre bambini si ritrovano arrostiti, e mica c’è da scherzarci tanto su. Va beh, dai, ve lo anticipo, non muore mica nessuno. Ma te l’immagini? E’ una storia a lieto fine questa! Comunque finalmente arrivano gli elicotteri a gettare l’acqua e quelli almeno riescono ad orientarsi sopra il bosco, e poi all’improvviso, quando già qualcuno teme il peggio, ecco che dalla ricetrasmittente del Barone esce fuori una voce. E questa voce è entusiasta: “Li ho visti! Vedo cinque persone. E vedo pure un cane!”, grida il pilota dell’elicottero del Barone. Questo pilota si chiama Renzo, ha tre figli ed una moglie bionda con gli occhi azzurri. Sta pagando il mutuo per la casa e ne avrà ancora per tre anni; guadagnano bene i piloti. I figli vanno uno all’asilo e gli altri due alle elementari. Ebbene, Renzo il pilota nella nostra storia non ha alcun ruolo se non quello di pronunciare questa frase. Eh, si. Un boato accoglie la notizia. Però non si smette mica di piangere, anche se le lacrime ora hanno una origine ben diversa. E intanto sono arrivati pure Don Alfonso Maria, che si è precipitato subito dopo che lo avevano avvertito dell’incendio, e tanti parrocchiani appresso a lui. E si mettono in ginocchio a pregare, mentre attorno a loro è un trambusto di pompieri, madri che piangono e Baroni e Contesse che esultano.
Il pilota ha detto che ne vede cinque più un cane. E se fate bene i conti il cane è Pasqua, mentre i cinque sono i nostri tre ragazzetti e l’uomo misterioso, e in più c’è l’uomo mascherato armato di fucile. Perché questo delinquente li ha seguiti i nostri, che ora sono fermi di fronte ad un dirupo, con le fiamme che gli vanno addosso e quell’uomo armato che li minaccia. E così Pasqua fa un altro balzo, ma l’uomo stavolta è pronto e spara, e amici miei la colpisce, e Pasqua stramazza al suolo agonizzante. Gli altri non ci vedono più dalla rabbia e si gettano addosso all’uomo che spara ancora, ma per fortuna non colpisce nessuno, ma ora la paura torna a prendere i nostri, soprattutto i bambini e adesso non si muove mica più nessuno. L’uomo non dice nemmeno addio o cose tipo quelle che ti aspetteresti da un cattivo, sapete, tipo che c’è il cattivo che sta per ammazzare il buono e inizia a parlare e magari gli spiega tutto il suo piano diabolico e magari non lo fa fuori subito, ma perde tempo legandolo e lasciandolo a morire da solo, o gli mette una bomba che scoppia dopo dieci minuti o attiva un macchinario complicatissimo che lo eliminerà piano piano. Ma vi pare credibile? Ma caspita hai un fucile! Spara, no? Ebbene, questo è 196
di quei cattivi veri, mica dei film, e spara, amici, però il fucile si inceppa, alla facciaccia sua!, ed è adesso che l’uomo misterioso non si nasconde più e coglie l’occasione per saltargli addosso, e il fucile gli vola dalle mani, e son cazzotti amici, sganassoni che si sente il rumore, e fanno male solo a sentirli. E gli sfila il passamontagna, e Alessandro ha modo di vederlo giusto un attimo. “Gianni….”, sospira stupefatto. E poi Gianni si fa un bel volo giù dal dirupo. L’uomo misterioso si volta verso i ragazzini e c’ha gli occhi gonfi e gli sanguina un labbro e insomma è mal preso e c’ha sangue su tutta la faccia. Si gira intorno a cercare Pasqua ma non c’è più. Allora non ci pensa un attimo, si carica sulle spalle Cristian e Tommaso, proprio sulle spalle, come due sacchi di patate, e guarda Alessandro: “O saltiamo lì o passiamo là in mezzo, ti fidi?”. “Ca**o!”, e anche stavolta gli do ragione, amici, che altro si può rispondere? Partono alla grande verso le fiamme. “Seguimi!”, gli grida l’uomo. E Alessandro lo segue. E ci passano attraverso, in un punto non ancora avvolto del tutto, anche se c’è fumo che non si respira e non si vede, e poi corrono, se le lasciano alle spalle, mentre inizia a piovere. Si, amici, avete capito bene, inizia a piovere. Quel vento che aveva spinto le fiamme e le avete aiutate ad espandersi e bruciare tutto aveva portato anche alcuni nuvoloni belli carichi, ma nessuno se ne era accorto, tra fuoco fiamme ed elicotteri, ed ora piove che è una meraviglia, e l’uomo piange e ride mentre corre, e poi corre e piange mentre ride e fate un po’ voi, insomma. Corrono i nostri e dopo una decina di minuti di corsa a perdifiato, senza guardarsi indietro, ma neanche senza guardarsi davanti, perché tra il fumo negli occhi, il cuore che batte fortissimo e la pioggia che piove non si vede più nulla, eccoli che sbucano fuori dal bosco, nello stesso punto dove Cristian era entrato inseguendo Pasqua. E li vedono, anzi diciamo pure che ci sbattono addosso sui pompieri che scorrazzano qua e là. Tutti si voltano a guardarli, loro restano fermi. Anzi, per alcuni istanti tutti restano fermi, con la bocca aperta. Guardano Alessandro che si gira a guardare il bosco, quasi incredulo di essere fuori e vedono un uomo barbuto e mal ridotto che tiene tra le braccia due corpi che tossiscono. Poi l’uomo si accascia lentamente, così anche Cristian e Tommaso si accorgono che si trovano nel parcheggio. E poi gli altri partono. Marianna ed Eleonora sprintano che nemmeno ai cento metri piani e prendono al collo Alessandro e Cristian. Annalisa corre incontro a Tommaso che sfinito perde i sensi tra le sue braccia. Accorrono 197
tutti e - lasciateli respirare basta con le foto cosa vi è successo qualche dichiarazione signor Barone? - c’è una baraonda che non si capisce più nulla. Intanto la pioggia è diventata un vero e proprio acquazzone, così vengono portati all’interno degli uffici, nel padiglione che ospita il museo della fauna e della flora del parco naturale; ma dico, vi pare che ci debbano tenere gli animali imbalsamati ed i fiori finti? Ma cosa c’è di naturale in questo? Comunque, c’è una piccola infermeria, ma sono già arrivate anche alcune ambulanze e dottori che si stanno già prendendo cura dei nostri. “Solo i parenti stretti, non c’è spazio!”, si scusa il responsabile del parco, lasciando fuori giornalisti, preti, fedeli in preghiera e curiosi vari. “Lei la faccia entrare, per favore!”, gli chiede Alessandro dopo che aveva visto che c’era anche Silvia, così a lei l’hanno fatta entrare, ma i genitori no, che poi Alessandro neanche lo conosce il padre; il padre di Silvia neanche lo sapeva che la figlia aveva il fidanzato, l’ha saputo solo dopo che era scomparso. Oh, non c’è stato bisogno di tenere fuori nessuno degli amici di Alessandro, perché non ce n’erano. Non se n’è mai visto uno in quei tre giorni. Naturalmente c’è tanta curiosità, oltre alla gioia che siano sani e salvi, ma tutti si chiedono chi sia quell’uomo che ora dorme, con il viso bendato. Ma per tutti è già l’eroe. Perché anche se dall’elicottero gli spari non li ha sentiti, il pilota Renzo ha notato qualcosa di simile ad una zuffa e anche questo ha fatto a tempo a raccontarlo, prima di gridare che erano dei pazzi perché correvano in mezzo alle fiamme e poi li aveva persi di vista. Marianna e Silvia si contendono Alessandro, abbracciandolo e baciandolo a turno. Lui è ancora stordito e liquida tutte le domande con un “poi vi racconto, ora sono stanco, perdonatemi”. Cristian non ha ancora smesso di piangere da quando ha capito che finalmente erano salvi, e anche lui non è che parli di quanto accaduto, perché dice cose alla rinfusa, parla di cani, fucili, statue, e mi son fatto la cacchina addosso, ma inverte il prima col dopo e anche i nomi dei protagonisti, ma nessuno ci fa caso. E nonna Lella ci vuole parlare a tutti i costi con lui, che alla televisione non stanno facendo vedere più niente, perché i giornalisti sono tutti fuori, e a casa c’è solo lei che tutti gli altri sono andati, ma figurati se si muove la cicciona, che in macchina comunque non ci sta, e signor Livio macchina non ne ha, oltretutto, e quindi hanno chiesto passaggi per arrivare lì. Tommaso stringe lo zaino fradicio. Non ha avuto il coraggio di guardare in che stato è il quaderno. Cerca Alessandro con lo sguardo. Con lui c’è Annalisa, hanno fatto entrare 198
solo lei. Lo guarda con una gioia che le si legge in viso, ma non gli fa domande. Ogni tanto lo accarezza, perché lo vede tremare, avvolto in una coperta pesantissima, sotto la quale indossa ancora i vestiti bagnati. È stato l’unico a rifiutare di spogliarsi. I dottori rassicurano tutti i presenti sulle loro condizioni. La piccola intossicazione da fumo non comporterà danni di alcun tipo. La stanchezza è dovuta alla fatica ed alla fame, per questo danno disposizione che possano mangiare e bere, perché li hanno trovati un po’ debilitati. L’uomo misterioso invece ha bisogno di maggiori accertamenti e preparano tutto per il suo trasferimento in ospedale con l’ambulanza. Il Barone e la Contessa si avvicinano al lettino dove Alessandro ora sta seduto mentre mangia e beve. “Figliolo…”, pronuncia la Contessa, e Marianna le ringhia contro che ancora un po’ la sbranerebbe, ma Alessandro le sorride leggermente scuotendo la testa, e poi si rivolge alla nonna, sempre sorridendo: “Ciao, nonna; ciao nonno”. La Contessa allunga una mano verso il suo viso e l’accarezza, poi guarda Silvia che gli tiene stretta una mano: “E’ la tua fidanzata? Che bella ragazza…”, aggiunge in maniera un po’ civettuola ma sincera, mentre il Barone si lascia scappare un impercettibile colpo di tosse, portandosi il pugno davanti alla bocca. E Marianna ringhia di nuovo. “Li odio…”, sussurra all’orecchio di Silvia, senza in alcun modo fare niente perché il Barone non se ne accorga. “Grazie di tutto, nonno”, gli tende una mano Alessandro, e a Marianna viene quasi una sincope. “Mi hanno detto quello che hai fatto…”, aggiunge. “Sono solo felice che tu sia sano e salvo”, gli stringe la mano il Barone, senza lasciar trasparire la minima emozione. Poi Alessandro chiede scusa a tutti e si alza andando verso l’uomo misterioso che dorme. “Dov’è Pasqua, Ale?”, gli chiede Cristian, intercettandolo, mentre si fa coccolare da mamma, babbo e fratelli. “Non lo so, Cristian, ma figurati se non sta bene” “La rivediamo?”, gli chiede il bambino. Alessandro si ferma un attimo, guarda lui e poi allunga il collo a cercare con lo sguardo Tommaso: “Tranquilli, quando stiamo meglio andiamo a cercarla. Lei ci ha salvato la vita”, sorride. 199
L’uomo ha delle bende che gli fasciano gran parte del viso. Lo hanno coperto con una grossa coperta, dopo averlo asciugato, e gli hanno puntato una flebo al braccio. Alcuni infermieri lo stanno imbragando per il trasporto. “Dove lo portate?”, gli chiede Alessandro. “Lo trasferiamo in ospedale. Ha bisogno di accertamenti” “Ma sta male?”, chiede Cristian, che si è avvicinato anche lui. “No, tranquilli, è solo per precauzione”, gli risponde uno degli infermieri, mentre spinge la barella. “Metticela tutta, dai…”, gli sussurra Alessandro mentre lo portano via. Una mano dell’uomo scivola fuori dalla coperta e penzola dalla barella. Alessandro si avvicina e la afferra dolcemente e fa per rimetterla sotto, ma un’altra mano lo trattiene. Alessandro si volta e vede la Contessa con gli occhi carichi di lacrime. Ora la donna tiene la mano dell’uomo con tutte e due le sue. “Aspetta, ferma un attimo”, dice uno degli infermieri, “Mi scusi signora, ma dobbiamo portarlo in ospedale, potrà venire a trovarlo in reparto”. “Si può sapere che succede, Matilde?”, le chiede con tono autoritario il Barone, tirandola leggermente per un gomito. La Contessa si volta verso di lui con il viso bagnato di lacrime: “Guardate, Barone”, gli dice mostrandogli la mano dell’uomo. Il Barone sbianca in volto. “E’ vero, me ne ero dimenticato!”, esclama Alessandro. “L’anello, Barone. Ha il vostro anello!”, piange di gioia ed esulta a voce alta la Contessa, mentre tutti gli altri zittiscono e si voltano a guardare la barella. “Mio figlio!”, grida di gioia la donna, “Mio figlio Alberto Federico è tornato!”.
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Il ritorno del principe
“Dunque, ricapitoliamo”, dice il commissario Monti. Già, quello stesso commissario di quando Alessandro era stato arrestato. Adesso lo è andato a trovare a casa sua, ma non c’entra niente con quella storia. Adesso sta indagando sull’incendio e sulla presenza dell’uomo col fucile, e poi vuole pure capire questa storia del figlio del Barone che ritorna dopo dodici anni. Marianna ha preparato il caffè e poi si è seduta sul divano accanto al figlio. Il commissario Monti, dopo che ha bevuto il caffè ha chiesto se poteva andare in bagno. In bagno si è giusto lavato le mani, ma la verità è che ci è andato per controllare se la tavoletta del bagno era pulita. E’ proprio una fissa completa la sua! Magari pensava davvero che la pulizia della tavoletta del water poteva essere indice della pulizia interiore di una persona. Boh, non so, la sto sparando, amici miei. “Quando siete arrivati davanti al salto, lui era dietro di voi. Con il fucile puntato. Ha sparato e ha colpito il cane. Poi c’è stata la zuffa con il figlio del barone e mentre si azzuffavano è scivolato ed è caduto di sotto, giusto?”, gli chiede grattandosi leggermente i capelli. “Proprio così”, fa cenno con la testa Alessandro, “Si sono presi a pugni e rotolati per terra, e sono arrivati proprio sul bordo, poi quello si è alzato di scatto, è scivolato e si è sentito solo un urlo. Però cosa ha urlato non lo so. C’era un ca**no. L’elicottero, il vento, il fuoco. Tutto qui”. “Ed era questo Gianni di cui mi hai detto”. “Si”, quasi ringhia Alessandro, “Purtroppo lo conosco. Non so il cognome, ma forse lo sa mia madre”, gli dice girandosi verso di lei che quasi non sa dove nascondersi per l’imbarazzo. “Dunque signora, quale è questo cognome? E sa pure un indirizzo di quest’uomo?”, le chiede il commissario. “Del Bosco…”, sussurra Marianna, rossa in viso, guardandosi le mani mentre le muove nervosamente che quasi mi è venuta una voglia di pungerla! “Del Bosco Giovanni…anche se lo chiamavano tutti Gianni. So che viveva alle case popolari, in via Delle Trincee, ma non sono mai stata a casa sua…” “Ma per caso voi..”, prova a dire il commissario.
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“Si, hanno avuto una storia…”, sorride fintamente Alessandro come a dire alla madre: “Hai visto che brava che sei stata? Hai avuto una storia con uno che già era uno str**zo quando lo frequentavi tu, ma poi è diventato proprio grandissimo che voleva ammazzarci tutti! Magari vergognati un po’!” Queste cose però le pensa e basta, mica gliele dice, non davanti al commissario, perché in realtà gliele ha già dette prima che arrivasse. “Assurdo…”, sorride il commissario. Alessandro sorride di rimando. Marianna si offende guardandoli: “Non ci trovo niente di assurdo…”, dice stizzita, poi cambia tono, quasi a giustificarsi, “E’ stata una storia breve, ci siamo incontrati…” “No, no, signora, mi ha frainteso”, la interrompe il commissario, “Dicevo assurdo che uno che si chiama Del Bosco facesse il bracconiere…ed è pure piromane!” “Ah…”, gli fa Marianna. E per qualche istante si fa silenzio. Io, nel mentre, ridevo, perché la battuta a suo modo era anche carina, no? Il commissario glissa con un colpo di tosse, deglutisce a forza e riprende a parlare guardando Alessandro: “Comunque, abbiamo ritrovato tracce di sangue, le analisi dicono che non è sangue umano, ma animale. Quindi diamo per scontato che sia il sangue del cane. Ma dov’è finito questo cane? Anche perché la pioggia ha cancellato praticamente tutte le impronte, ed è stata già un’impresa trovare quel sangue. E poi abbiamo trovato il fucile ed i bossoli dei proiettili, ed i conti tornano con quello che ci hai raccontato tu e l’altro bambino, mentre quello della casa famiglia non è riuscito a farlo parlare nemmeno lo psichiatra”. Alessandro sorride. “Però il bosco lo abbiamo perlustrato in lungo e in largo, e non solo noi. I pompieri hanno verificato che si tratta di incendio doloso. Ma non ci sono impronte, nemmeno sul fucile, che è stato modificato, quindi non è possibile risalire al proprietario. E poi questo Gianni noi non l’abbiamo trovato. Ci saranno dieci metri da dove è caduto, com’è possibile che, anche se si è salvato, non si sia fratturato e non sia rimasto lì ad agonizzare. Anche se è scappato dopo essere caduto, non può essere andato lontano. Noi continueremo a cercarlo, signora”, dice ora guardando Marianna e posandole una mano sulle sue, che ora si sono calmate un po’, “Però se voi”, ora li indica tutti e due con il dito, “notate qualsiasi cosa di strano ci dovete avvertire subito” “Ha paura che voglia vendicarsi?”, gli chiede Marianna.
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“Non è da escludersi. Suo figlio lo ha riconosciuto. Sempre se è sopravvissuto. Comunque ora faremo un sopralluogo a casa sua. E poi c’è da accertare il movente. Non ritengo che abbia agito per proprio tornaconto. Qualcuno ha delle mire su quel bosco…”
Intanto vi dirò che i danni al parco non sono stati poi così tanti come si poteva temere. Alla fine erano bruciati per lo più gli arbusti, e la maggior parte delle chiome degli alberi si, un po’ bruciacchiata lo era, ma da come si erano messe le cose con quell’incendio che sembrava che doveva incenerire tutto, alla fine davvero è stato poca cosa. Un po’ di cortecce, un po’ di sughero. In totale era andato perso qualcosa come una decina di campi di calcio, niente di più. Questo ci tennero a dirlo subito alla gente i responsabili del parco, anche in televisione, anche se a questa notizia non è che gli davano molto spazio, perché in quei giorni più che il bosco non bruciato, alla gente gli interessava che non era bruciato il figlio del Barone, anzi che era proprio tornato, sparito da dodici anni, ma vi pare possibile?, lui che a suo tempo faceva parlare di se perché era sempre al centro del gossip, sempre con qualche nuova fidanzata, e sempre a fare non troppa bella pubblicità alla sua famiglia, che a quei tempi già era stata flagellata da disgrazie terribili, visto che gli erano morti gli altri due figli al Barone, e lui non gli rendeva certo le cose più facili ai suoi genitori. Così lo troviamo che riposa, l’Alberto Federico Buddenbrook. Nella stanza diciassette della clinica “Ippocrate”. Lo aveva scelto il Barone il nome per quella clinica, quando aveva deciso, almeno una ventina d’anni fa di farla costruire, distruggendone un’altra che c’era prima, proprio lì dove ha costruito questa. E poi dopo ne ha costruito anche altre. Comunque questa è una clinica che cura nobili come lui, e ricconi che non sanno nemmeno quanti soldi anno, e calciatori, stelle del cinema, cantati famosi, insomma proprio la crema della società, amici cari. E figurarsi se non ci portava il figlio, piuttosto che lasciare che lo portavano magari in un ospedale pubblico, guardate, che al solo pensiero gli viene da grattarsi al Barone. Così quando i barellieri lo stanno portando via, la Contessa lo riconosce da quell’anello, che già Alessandro glielo aveva visto e gli aveva dato un senso di familiarità. E più familiare di così: era suo zio! Comunque il Barone blocca la barella appena vede anche lui l’anello, e chiama subito col telefono e arriva un’ambulanza che ci mancava solo che fosse placcata d’oro. E così se lo porta qui alla clinica, dove c’è una tale efficienza che non ci sono infermieri, ma dottori a fare gli infermieri, e quelli che da altre parti sono primari qui sono dottorini, insomma, immaginatevi un po’ il livello. Così è attaccato a 203
tutti questi macchinari, e anche un paio di flebo di tutto quello che può far bene. E la Contessa non gli si stacca un attimo. Resta seduta accanto a lui, e ci sono le Venanzelli come sedie, mica roba da chioschetto al mare. Gli tiene le mani unite sul ventre e gliele stringe con le sue, e tra le mani ha un rosario e prega. Una folla di curiosi si accalca fuori dalla clinica, e ci sono giornalisti e gente comune, e ci sono pure Alessandro e Cristian e pure Tommaso. Solo loro tre possono entrare, con il permesso del Barone, ma non li fanno entrare dentro la stanza, lo possono solo guardare da fuori, attraverso un vetro. E il baronetto resta in stato di incoscienza per almeno qualche giorno, poi si sveglia. Apre gli occhi piano piano, che quasi gli fa male la luce. E secondo voi qual’è la prima cosa che dice? Esatto! “Dove sono?”, chiede non appena apre gli occhi e vede la Contessa. Questa lo guarda sgranando gli occhi e dalla gioia non riesce nemmeno a parlare e balbetta “Signor Barone, venite, Signor Barone”, ma lo dice sottovoce che nemmeno il figlio lì steso davanti a lei la sente. Intanto lui cerca di tirare su almeno il collo, ma è tutto indolenzito dal tempo che è rimasto così fermo, e si sente come annebbiato. “Dove mi trovo? E’ un ospedale?”, chiede ancora. La Contessa gli sorride con le lacrime agli occhi, respira a tratti. Prende in mano il pulsante per chiamare gli infermieri e lo preme. In un attimo la porta si apre ed entrano tre infermieri e quattro dottori, e si dispongono intorno al letto. “Si è svegliato” “Presto controllate i valori” “Temperatura” “Battito” “Cambiate la flebo” “Chiamate subito il Barone” “Valori nella norma” “Battito regolare” “Flebo cambiata” “Il Barone sta arrivando” “Arriva” “Perfetto” “Perfetto” “Bene” 204
“Ok” E se ne vanno. La Contessa continua a guardarlo. Anche lui la guarda, sconsolato. “Si, è un ospedale”, sospira. “Ti sei risvegliato, finalmente”, dice il Barone appena entra nella stanza e si avvicina al letto, con le mani dietro la schiena. “Figlio mio”, si lascia andare la Contessa coricandosi a metà sopra di lui. Lui resta immobile incapace di parlare, si guarda intorno senza capire nulla. “La Contessa tua madre è stata molto in pensiero per te. Avrai da darci delle spiegazioni, immagino, per questa tua assenza”, diceva il Barone con tono serio. Oh, lo stava rimproverando! “Figlio mio! Eri così vicino a noi! E noi che ti cercavamo ancora in giro per il mondo!”, e piange la Contessa, baciandogli le mani. “Matilde, contieniti!”, le dice il Barone. Oh, ma sta sgridando pure a lei! Perché dietro il vetro si è creata una piccola folla che guarda la scena, ma, non appena il Barone si volta con sguardo feroce, tutti si dileguano. Poi Alberto Federico li guarda scuotendo la testa: “Scusate”, dice tossendo, “Ma voi chi siete?”
Sicuramente vi state chiedendo dove è andata a finire Pasqua, vero? Beh, la nostra bella cagnolona la troviamo insieme a un uomo parecchio strano. La gente dice che è pazzo, ma pazzo di brutto. Di quelli da camicia di forza, mica si scherza! È Boicco, il matto con gli stivali. E si è preso cura di Pasqua. Le ha tolto il proiettile dal fianco, le ha ripulito la ferita, gliel’ha disinfettata, e Pasqua un po’ ha pianto per il dolore, e poi le ha fatto una bella fasciatura. E poi l’ha lasciata a dormire tranquilla, mentre lui se ne è andato in giro per le stradine della periferia insieme con gli altri suoi cani. Lo potete anche chiamare pastore di cani. Sono tutti randagi, e lui li raccatta dalla strada, li porta nella sua baracca, e gli da da mangiare, e si prende cura di loro, insomma gli vuole proprio un gran bene. E chissà se vi diremo cosa è che lo lega a Pasqua. Comunque Boicco vive come un barbone, e puzza ed è sporco proprio come un barbone, però quando si tratta di curare ferite o altro, oh, sembra un dottore, tanto è preciso e pulito nel fare le medicazioni. Ha una valigetta con tutto il necessario, chiusa in una busta di cellophane, così non viene contaminata, perché lui vive con tutti questi cani, e tra lui e i cani, insomma, a fare i bisognini dove capita, e poi qualche pulce e qualche zecca, che ne 205
ho salutate tante nei paraggi, senza nulla togliere, sia ben chiaro, a differenza di quanto potete pensare, zecche e pulci sono vittime di una campagna denigratoria da parte dei vostri simili, e va beh, lasciamo stare. Comunque, vi raccontavo di Pasqua che dopo che si è presa quel proiettile per poco non stramazza a terra, e mentre Alberto Federico bisticciava a schiaffoni e rotolate per terra con Gianni il bracconiere, lei si è allontanata da lì, ha evitato il fuoco, mentre, poverina, la vista le si offuscava, e perdeva molto sangue, e le zampe le tremavano, che, mi credete, non le era mai successo di prendersi un colpo di fucile. E dire che ne ha passate! E striscia che si striscia sulle zampe è quasi svenuta, non ce la faceva più a muoversi. E proprio in quel momento è arrivato Boicco, avvertito dai suoi cani, che magari hanno sentito il lamento di Pasqua, e lo sentivamo anche noi, amici cari, e se avessimo avuto ali più grandi, ce l’eravamo caricata sul dorso, e via dal veterinario. Comunque Boicco le va subito incontro ancora prima di riconoscerla. Perché lui la salvava chiunque fosse, solo dopo si accorge che è Pasqua. E oh mio Dio cucciola ma che ti hanno fatto maledetti devo subito curare questa ferita resisti non lasciarmi non morire - se la prende tra le braccia e la porta nella sua baracca. Ed ora Pasqua si alza, si scuote, abbaia, e guarda Boicco. “Si, si, prego, non c’è di che, cucciola”, le dice lui. Lei abbaia ancora, poi si volta e va via. “Sta più attenta, però…non farmi preoccupare”, la saluta. Lei si volta, scodinzola, muove la testa come per dirgli “si, stai tranquillo”. Poi con uno scatto si allontana dalla baracca.
“Amnesia?”, chiede la Contessa al dottore che le sta spiegando, tra le diverse ipotesi che sta formulando, il perché suo figlio non la riconosca. “Ma non si ricorderà più di noi? Gli tornerà la memoria?”, incalza la Contessa, molto agitata. Non ci vuole credere che suo figlio, che l’ha ritrovato dopo dodici anni, non la riconosce e non sa nemmeno chi è. “Matilde, contieniti!”, le ordina quasi il Barone, e lei lo guarda quasi terrorizzata e china il capo portandosi la mano alla bocca e allora sta zitta. “Ci sarà la possibilità di verificare queste ipotesi e valutare l’esatta portata del problema, mi auguro”. Il Barone dice “mi auguro”, ma in realtà è come se al dottore gli sta dicendo di fargli tornare la memoria al figlio, perché altrimenti la clinica lui la chiude e quel dottore il dottore non lo fa più neanche se paga lui per farlo.
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“Il fatto è che dobbiamo prima di tutto stabilire se è di natura neurologica o psicologica. Dopotutto afferma di avere vissuto in quel bosco per non si sa quanto tempo. Non sappiamo nulla di cosa gli sia accaduto in questi dodici anni. E’ comunque da escludersi che abbia vissuto per tutto quel tempo nel bosco, estraneo ad ogni contatto con altri esseri umani. Non è plausibile nemmeno dalle risultanze degli esami clinici. Quindi permangono parecchie perplessità. Non possiamo escludere…” Il Barone lo interrompe alzando la mano: “Non vorrà insinuare che possa essere divenuto insano di mente…”, il Barone quasi quasi ringhia. “Oh, povero figlio mio!”, piange la Contessa, unendo le mani, e va avanti e indietro per il corridoio. Il Barone si volta a guardarla, e finge un colpo di tosse, allora lei si fa quasi immobile, ma continua a muoversi come a rallentatore e parla a bassa voce. “Signor Barone, comprenda…”, ancora un po’ e il dottore si mette a piangere pure lui, “Come le dicevo non sappiamo ancora cosa gli sia successo in tutti questi anni. E poi si è appena ripreso da alcuni giorni in cui era privo di coscienza, può essere semplicemente anche uno stato temporaneo. Abbiamo bisogno di fare altri esami. Per ora le condizioni fisiche generali sono molto migliorate, dal punto di vista fisico si sta riprendendo al meglio…” “Bene, allora procedete con questi esami più accurati. Voglio sapere al più presto se e quando recupererà la memoria! Voglio sapere tutto quello che gli è accaduto in questi dodici anni di assenza!”, ordina il Barone. Il dottore scatta sull’attenti e corre verso il laboratorio. Intanto nella stanza, Alberto Federico ha visite. Ci sono dentro Alessandro, Cristian e Tommaso, con il suo inseparabile quaderno. Gli altri due stanno attorno al letto e parlano vivacemente con l’uomo, mentre lui se ne sta seduto poco distante, però a tratti ha un accenno di sorriso, così almeno mi pare. Di tutti quelli che hanno provato e che provano ad entrare nella clinica, il Barone ha autorizzato solo loro tre, su richiesta proprio di Alessandro. Poi dice che il nonno è cattivo! “Menomale che ti sei svegliato, ma eri stanco, vero?”, gli chiede Cristian, e ride e saltella mentre parla. “E sta un po’ fermo…”, cerca di trattenerlo Alessandro. “Tranquillo, lascialo pure, non mi disturba, anzi. Se davvero sono rimasto svenuto tutto questo tempo, ho bisogno di un po’ di movimento”, sorride l’uomo.
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“Tommaso, tutto ok?”, gli chiede, allungando il collo per vederlo oltre Alessandro e Cristian. Tommaso muove la testa di un millimetro, circa. “Lo prendo come un si”, sorride ancora Alberto Federico, “ e voi?”, chiede rivolgendosi agli altri due. “Bene, bene”, risponde Alessandro. “Lo sai che sei famoso, adesso? Sei un eroe, perché ci hai salvato la vita!”, gli dice Cristian, tutto entusiasta. “Eroe? Addirittura?”, si schernisce lui. “Si, ti hanno fatto vedere al telegiornale e anche sul giornale. Ma lo sai che ti chiami Alberto? E anche Federico?”, gli chiede ancora il bambino. “Già…”, sbuffa, “Prima non sapevo chi ero, ora ho due nomi, una famiglia…”, guarda oltre il vetro e incrocia lo sguardo piangente della Contessa che sta rientrando nella stanza. “Già…”, gli dice Alessandro prendendogli la mano e sollevandogliela così che mette in mostra l’anello, “Avevi qualcosa di familiare, ma non riuscivo a capire cosa. Sei mio zio! Incredibile!”, solleva il labbro inferiore e aggrotta le sopracciglia. “Eh già, peccato che non me lo ricordo!” Poi entra la Contessa e chiede gentilmente ai ragazzi di uscire perché mio figlio è stanco e deve riposare perché così recupererà più in fretta la memoria e si ricorderà di sua madre, che tanto ha pianto per lui e per i suoi fratelli. E ripiange ancora, e si siede davanti a lui, e lui guarda sconsolato i tre che vengono gentilmente scortati fuori dalla stanza da un uomo di fiducia del Barone, che ha fatto circondare la clinica di uomini di sua fiducia, soprattutto per evitare l’assalto dei giornalisti. E mentre Alessandro e gli altri vengono scortati all’uscita, il Barone si avvicina ad un dottore che ha richiamato la sua attenzione. Questo dottore è seduto su una poltroncina in una sala d’attesa. Sulla targhetta appesa al camice c’è scritto “Dottor Giulio Andreoni”. Il Barone si siede accanto. “I miei ossequi, Barone”, gli dice il dottore chinando leggermente il capo. “Suvvia, tralasciamo gli ossequi in un luogo simile. Hai verificato che nessuno ti seguisse?” “Fidatevi di me, Barone. Non vi ho mai deluso fino ad ora”, lo tranquillizza lui. “Hai seguito le mie raccomandazioni? Spero che tu non ne abbia fatto parola ad alcuno…” 208
“Conoscete la mia discrezione, Barone” “So che gli altri confratelli hanno mezzi e modi alquanto convincenti, capaci di minare qualsiasi resistenza, anche la più fiera e sincera”, gli dice con tono serio il Barone. “Barone, voi mi avete iniziato all’ideale, ed io mi adopero per il suo raggiungimento. D’altro canto sono al vostro servizio. In questo potete confidare”, gli dice lui guardandolo negli occhi. “Mi compiaccio…”, sorride leggermente il Barone. L’uomo vestito come un dottore si alza: “Nel giornale sul tavolino. I miei ossequi, Barone”, gli dice mentre si allontana. Il Barone prende il giornale, lo apre. Tra le pagine trova un biglietto ed una chiave.
Nei giorni successivi, praticamente c’è una vera e propria processione alla clinica. Tutti vogliono rendere omaggio all’eroe che ha salvato i tre bambini. Ci sono i soliti curiosi da indigestione di rotocalchi televisivi (ahi, se nonna Lella potesse sollevare il suo pachidermico fondoschiena!), ci sono i giornalisti alla ricerca dello scoop, con il bisogno redazionale di approfondire questa storia del figlio del Barone che è tornato – e dov’è stato? Ma cosa ci faceva nel bosco? E quanto tempo ci ha vissuto? - perché ormai le ciance le hanno praticamente esaurite, con dibattiti fiume, con reportage sulla storia dei Alberto Federico, e su tutta la dinastia dei Buddenbrook, con tentativi falliti di intervistare il Barone e la Contessa, e quindi che si sono dovuti accontentare di una accozzaglia di quasi nobiltà, giusto per avere qualche cosa da dire alla televisione, e da scrivere sui giornali. Ci sono poi i parrocchiani, che io li conosco quei ragazzini che li ha salvati, che sono bravi ragazzi, vengono sempre all’oratorio, educati, poverini quando si son persi, lo voglio ringraziare a questo signore. Ci sono le vedove giovani che ora si dichiarano presunte tali perché quello è mio marito l’ho riconosciuto. Ci sono anche le pretendenti al mantenimento, perché io ho avuto una storia d’amore col figlio del Barone e questo è nostro figlio, voglio soldi. Insomma, una marea di gente che vuole proprio entrarci dentro in questa storia, e magari riuscire a varcare la porta della clinica, ma la scorta del Barone non si sposta di un millimetro. Nemmeno il sindaco è potuto entrare, il Barone ci ha parlato al telefono, e il sindaco gli ha detto che vuole organizzare una cerimonia di benvenuto per suo figlio e dargli anche una medaglia. Il Barone ha detto che non era il caso e nemmeno il momento. Il sindaco ha proposto che era l’occasione per colloquiare di un argomento che stava a cuore ad entrambi. Il Barone ha risposto ancora di più che non era proprio il momento, e allora il sindaco se n’è stato zitto. E poi c’è la polizia. 209
Il commissario Monti quasi si scusa con il Barone per le indagini che deve svolgere: “…e per il disturbo che vi sto arrecando, capisco che il momento non sia il più propizio”, gli dice con il capo chino. “Ma il fatto è che ancora non siamo riusciti a risalire all’identità di quell’uomo…” “Quello è mio figlio, che dite? Come osate dubitarne? Barone, mettete in riga quest’individuo!”, sbraita la Contessa, trattenuta ed allontanata da due infermiere dopo un cenno della mano del Barone. “Comprenda l’irruenza della Contessa, commissario…Prosegua” “Grazie, ehm..signor Barone”, caspita quanto suda il commissario, e dire che con Alessandro faceva il duro in ufficio. Intanto le infermiere fanno trangugiare qualcosa alla Contessa, e la compatiscono come una vecchia rimbambita. “Le impronte digitali che abbiamo prelevato a…”, deglutisce, “…vostro figlio non hanno corrispondenza negli archivi dello stato. Il fascicolo che riguarda il suo periodo di servizio militare risulta incompleto. Sono pervenute numerose segnalazioni di riconoscimento, sicuramente dei mitomani, signor Barone, o qualche disperato alla ricerca di un proprio caro scomparso. Ecco…”, si schiarisce la voce tossendo, “…dovrei chiedere la collaborazione sua e della signora Contessa per la verifica della compatibilità del Dna. Sa, per porre fine a tutte queste illazioni”, lo guarda quasi intimorito, in attesa di una sua risposta. Il Barone inarca leggermente il petto, si porta le mani dietro la schiena, sbuffa col naso, ed ha uno sguardo serissimo: “Non otterrete nessuna informazione da un simile esame, commissario. Posso confermarvi io che quell’uomo non è mio figlio”, dice con tono distaccato. “Co..come, signor Barone?”, balbetta il commissario. Il Barone si volta dandogli le spalle e incomincia a camminare, lui lo segue a ruota come un cagnolino: “Mi sconforta l’approssimazione delle vostre indagini. Questa è, oggi, la triste realtà delle forze dell’ordine del nostro paese?” Al commissario è come se gli appare un punto di domanda sopra la testa. Il Barone si ferma di scatto, si volta e lo guarda negli occhi, tanto che lui indietreggia e gli esce pure un “ihhh!” di spavento mentre sospira. “E’ noto a tutti i giornalisti là fuori che Alberto Federico venne adottato. Per questo le dico che tali esami non otterrebbero risultato. L’anello è la prova della sua appartenenza 210
alla mia casata. E se non sarà pago di ciò, analizzi le foto e le immagini che le metterò volentieri a disposizione, e faccia le sue supposizioni morfologiche. E spero che s’acqueti, e ci lasci godere questo momento, che per quanto felice è già oltremodo turbato dalla amnesia da cui mio figlio è affetto. E chieda alla Contessa sua madre cosa si prova a ritrovare il proprio figlio perduto, dato per morto, il quale ignora persino il suo nome, ed il proprio cognome”, il Barone prende un lungo respiro e butta fuori l’aria col naso lentamente, “Ed ora, se mi vuole scusare, sono atteso in colloquio dai medici”, e lo lascia lì, come un pesce lesso, col dito alzato come per chiedere il permesso per parlare ancora e la bocca un po’ aperta come se aveva ancora qualcosa da dire. E qualcosa da dire ancora ce l’aveva, anche se magari al Barone non gliene importava, anche se è legata alle indagini, e cioè gli doveva dire che nel bosco sono stati trovati due cadaveri di due guardie forestali che erano disperse dopo le ricerche, ma non fa in tempo a dirglielo. Comunque dalla sera stessa, grazie ad una serie di telefonate tra questo e quello, le indagini su Alberto Federico vengono archiviate con buona pace del commissario ed i giornali ufficializzano che quello è il figlio del Barone, con la conferma delle forze dell’ordine.
Intanto il Barone viene ricevuto nello studio del direttore della clinica, insieme alla Contessa, che pare che l’hanno sedata per farla stare tranquilla, e sembra un’ubriaca di cent’anni alla sua festa di compleanno. Il dottore gli mostra una lastra: “Eccolo, lo vedete? E’ davvero incredibile”, gli dice il dottore, mentre gli fa vedere che Alberto Federico dentro la testa c’ha un proiettile.
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I possessori dell’anello
Menomale che Amon ha già fatto la sua parte, altrimenti vi dovevate sorbire una lezione di anatomia e neurologia (così si scrive?) che non finiva più. Io ho seguito la spiegazione dei medici, ed ho chiesto pure in giro ad alcune larve mie amiche, che di queste cose un po’ se ne intendono, però alla fine ho capito solo che questo proiettile che c’aveva in testa per miracolo non gli ha spappolato il cervello, ma gli è rimasto incastrato nelle ossa del cranio e toccava con la punta il cervello, proprio nella parte della memoria. Così è per questo che Alberto Federico non si ricorda più niente. I dottori lo operano e l’operazione va benissimo. Gli tolgono dalla testa il proiettile, e lo consegnano alla polizia, e dovevate vederlo il commissario Monti, come se la gongola mentre il Barone gli chiede di dare priorità a questa indagine e di scoprire chi è che gli ha sparato al figlio in testa, e anticipa pure la telefonata di sollecito che gli arriva subito dopo. I dottori comunque dicono che anche se il proiettile è tolto, prima che ritrova la memoria ci vuole un po’. Bisogna vedere se non ci sono danni. Comunque l’ostacolo è superato, ora tocca alla famiglia cercare di fargli ricordare di dodici anni fa. La Contessa non sta più nella pelle. E chiama il sindaco per organizzare quella festa che il Barone non voleva quasi nemmeno sentirne parlare. Comunque dopo un po’ i dottori dicono al Barone e alla Contessa che il figlio può anche tornare a casa fra qualche giorno, anche perché il Barone ha già provveduto a farsi una specie di ospedaletto in casa. Un tendone tipo circo nel giardino, con tutte le apparecchiature mediche più moderne. Ora nella stanza di Alberto Federico, che riposa, e ha un viso molto sereno, e anche le ferite dello scontro con Gianni sono quasi andate via, ci sono Alessandro e la Contessa. Alessandro ha chiesto il permesso al nonno di andare a trovare quello che ormai è suo zio, anche se lui lo considera un amico, conosciuto in una situazione davvero particolare, ma comunque un amico, no? Adesso però è imbarazzato, perché la presenza della Contessa gli mette un po’ di angoscia addosso. Non solo con il nonno, ma anche con lei, sin da piccolo, ha sempre avuto delle difficoltà a legare. È probabile che non li ha mai sentiti veramente nonni, non nonni come li può sentire un bambino quando i nonni sono quelli che ti viziano, che ti fanno i regali, ti raccontano le fiabe. E forse è proprio perché anche la Contessa magari sta pensando che una nonna deve essere così, o forse solo perché in questi giorni la stanno imbottendo di tranquillanti, che sembra una bustina di camomilla
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tutta spremuta, che si avvicina ad Alessandro, e, quando vede che lui sta guardando l’anello al dito dello zio, gli racconta una storia. Ed è proprio la storia di quell’anello.
Il Barone, intanto, si trova nel salone di un club privatissimo che solo pochi eletti ci possono entrare. Tra questi pochi eletti ci sono lui e altri signori che hanno un anello uguale al suo e a quello del figlio. Questi anelli sono d’oro, e sono fatti di un cerchio bello grosso e largo, e inciso sopra, in rilievo, c’è un otto messo in orizzontale, così: ∞. Il simbolo di “infinito”. Ora la riunione tra questi illustri signori ha toni pacati, quasi glaciali, eppure non è che stanno parlando di argomenti di poco conto, e nemmeno che li stanno trattando con superficialità, anzi, sono molto preoccupati per la situazione che stanno affrontando, però sono abituati a mantenere la calma, e a usare le parole con molta moderazione. “Barone, tutti noi siamo piuttosto colpiti da quanto venuto a nostra conoscenza”, gli dice uno che sembra il capo. Anche se stanno seduti in una tavola rotonda e le sedie dove sono seduti sono praticamente tutte uguali, anche se la sua è un po’ più bella, e questo che sta parlando ora sembra avere sugli altri un particolare effetto, non solo quando parla, ma anche per la sua sola presenza. “Le contingenze, Barone, al momento attuale, sono altre per noi. Le nostre priorità, che non sono solo le nostre, come tutti noi sappiamo, tristemente, ci impongono delle scelte. E le nostre azioni devono essere ispirate unicamente dal nostro ideale. L’ideale, signori miei, che tutti noi condividiamo. L’ideale, che solo noi, perché dotati delle necessarie capacità, dobbiamo perseguire, per darne esempio. Ma ciò che oggi noi abbiamo conosciuto è difforme da questo ideale”, fa una pausa, molto teatrale ad essere sinceri, si volta un po’ a guardare tutti gli altri che gli fanno cenni di approvazione con il capo, e poi come riprende a parlare quelli si voltano tutti verso il Barone, “Barone, quale esimio e fondamentale componente di questa assemblea, le chiediamo formalmente notizia di questi suoi movimenti agiti con sotterfugio e con riserbo oltraggioso nei confronti di noi suoi confratelli. Quali trame, Barone, avete ardito? E a quale scopo, ci domandiamo? E, in ultimo, signor Barone, quali futuri scenari si disegneranno, secondo le sue previsioni, ora che il suo scomparso figlio è ritornato presso di lei? Noi tutti siamo memori di quanto accadde dodici anni fa. Anche le alte sfere hanno espresso viva preoccupazione, ed hanno preteso chiarimenti immantinente. In virtù di quanto andiamo a realizzare, questo accadimento potrebbe, non poco, influire sulla realizzazione del progetto”, conclude così e si fa silenzio tutto intorno. E tutti lì ad aspettare la risposta del Barone, che prende la 213
parola dopo qualche secondo, con le mani giunte sotto il mento e i gomiti poggiati non troppo larghi sul tavolo, ben ritto sulla schiena: “Mantenga la sua serenità la nostra assemblea, signori miei. E sia data notizia al Gran Consiglio che non ci sarà turbamento da quanto ora è interesse della mia famiglia. In quanto la mia famiglia è a servizio del nostro ideale. Ed a riguardo del mio ritrovato figlio ho da riferirvi che…”, ed il Barone fa una rivelazione proprio sconvolgente. Quale? Leggete, leggete, che vi fa bene…
“Vedi il simbolo che vi è inciso sopra?”, gli chiede la Contessa. “Si, cos’è un otto? No, aspetta, l’ho visto a scuola, ma non me lo ricordo bene. Qualcosa in matematica”, risponde incerto Alessandro. “Simboleggia l’infinito”, gli rivela la donna. “Ah, già! È vero!”, schiocca le dita Alessandro, la Contessa lo guarda un attimino male, forse quel gesto non le si addice, e poi prosegue: “Questo anello è il gemello di quello che il Barone porta al dito. Questa coppia di anelli viene tramandata da generazioni nella mia famiglia. Anche se un biografo della mia casata, già in passato asserì che fu portato in dote dal Baraldi che…”, la Contessa farfuglia nomi di suoi avi, e conti e baroni, e cugini di primo grado e figli di secondo e anche terzo letto, e Alessandro ha una faccia da ma che barba ma cosa me ne frega, e oltretutto sta ad una certa distanza dalla donna che c’ha un alito a dir poco sgradevole, tanto che Alessandro si tocca in tasca per vedere se c’ha una gomma da masticare per offrirgliela, ma poi si chiede se una Contessa se la mastica una bella gomma e ci fa pure le bolle, e forse non è il caso nemmeno di offrirgliela che magari si offende. Poi si mette a pensare un po’ ad altre cose, tipo il campionato di calcio, e la Contessa continua nel suo racconto, e così lui si perde tutta la storia della dinastia dei Baraldi, dei Finzini e dei Buddenbrook. “Così il Barone, tuo nonno, scelse tra i suoi tre figli proprio Alberto Federico, e gli consegnò l’anello. Organizzammo un ricevimento, per una selezionata assemblea. Vennero invitati solo gli altri possessori…” “Eh, altri possessori?”, si lascia scappare a voce alta, Alessandro. Quel pezzo del racconto se lo era proprio perso, tra tutti quei nomi e quella nobiltà varia. Chissà da quanto tempo sta parlando la Contessa?
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“Benedetta gioventù! Nemmeno mi hai ascoltato!”, esclama la Contessa, “Si nota proprio l’ambiente poco educato nel quale sei stato costretto a crescere. Se non fosse stato per quella donna sconsiderata che ha causato tanti…” “Eh, no! Basta così!, Alessandro si alza di scatto facendo scivolare via la sedia dietro di se, “E di certo non ho voglia di sentirti mentre parli male di mia madre!”, e detto questo se ne va. “Non ti permetto questo tono nei miei riguardi! Io sono la Contessa Matilde Baraldi Finzini Buddenbrook, pretendo il rispetto che si deve al mio rango! Hai capito?”, sbraita la Contessa in piedi, mentre Alessandro se ne va via stringendo forte i pugni dal nervoso, e mentre tutti, dottori, infermieri, ausiliari e altri pazienti si fermano in silenzio ad ascoltare quelle grida. “E sono tua nonna…”, conclude mesta, chinando il capo e lasciandosi andare sulla sedia, sconfortata.
Il Barone intanto è appena entrato nella clinica, sta parlando al telefono cellulare, sente le grida e riconosce che sono della moglie, vede Alessandro uscire in tutta fretta, ma non riesce ad intercettarlo: “Chiedo venia, signor Ponzi, la ricontatterò io a breve”, dice al signor Ponzi che stava parlando con lui al telefono e si dirige verso la stanza del figlio scuro in volto.
Contemporaneamente il signor Ponzi bussa alla porta della sua collaboratrice Amanda. Lei è impegnata al telefono. “Stanno organizzando una specie di cerimonia, vogliono fare un grande annuncio. Era proprio come dicevi tu…”, dice sottovoce, “E’ arrivato, ti devo lasciare. Chiamami sempre a questo numero, ok?”, lo liquida in fretta mentre il signor Ponzi entra nella stanza e lei nasconde in tasca il telefono.
Intanto nel commissariato, il commissario Monti ha appena terminato la quotidiana ispezione delle tavolette dei water di tutti i bagni presenti nella struttura. È soddisfatto perché le indicazioni che ha trasmesso ai suoi collaboratori e a tutti gli agenti in servizio nel commissariato sono state seguite a puntino. Appena gli era stato affidato l’incarico era rabbrividito a vedere quelle tavolette sporche e aveva fatto una piazzata che ancora se ne parla lì nel commissariato. E ora è nel suo ufficio quando entra un agente: “Commissario, novità sui due cadaveri e sull’incendio”, gli dice. 215
“Mhmm, si, bene, bene…”, gli fa un cenno distratto della mano, mentre si sta ancora complimentando mentalmente con se stesso e sta facendo una stima mensile delle volte che ha trovato le tavolette sporche e delle volte che le ha trovate pulite. “Ci sono novità anche sul figlio del Barone”, gli dice ancora l’agente. Al commissario gli va di traverso la saliva e tossisce per quasi mezzo minuto, cercando di dire qualcosa senza riuscirci. Quando la tosse si placa, parla: “E dunque?” “Commissario, è stato un puro caso. Perché hanno analizzato il proiettile che aveva in testa, ed è venuto fuori che è uguale a quelli degli altri due…”. Gli altri due sono Annalisa Ferretti, di anni 27, e Stefano Lindo, di anni 31, entrambi guardie forestali. I loro cadaveri sono stati ritrovati nel bosco, senza vita, ma fortunatamente risparmiati dal fuoco. Le analisi della scientifica hanno stabilito che ad ucciderli è stato un colpo di fucile, ed hanno anche scoperto che quel fucile che gli ha sparato è lo stesso che è stato ritrovato nel bosco, cioè quello di Gianni, che forse li ha uccisi perché lo avevano scoperto ad appiccare l’incendio. Il commissario scuote la testa e si avvicina all’agente: “Cioè, mi stai dicendo che gli hanno sparato con quello stesso fucile?” “Si, commissario. La scientifica non ha dubbi”. “Dobbiamo trovare quel Gianni, assolutamente. Riprendete le ricerche nel bosco. Faccio qualche telefonata!”, gli dice entusiasta.
Intanto non è solo il commissario che vuole sapere che fine ha fatto Gianni. C’è anche Fabio. Ve lo ricordate? Il bulletto che aveva portato la pistola che Riccardo aveva usato per sparare ad Alessandro, e che poi si era scoperto che era di Gianni, ma guarda un po’, c’è sempre di mezzo lui, e Gianni gli aveva detto, non proprio gentilmente, di procurargliene un’altra pulita. E lui ora se l’è procurata. Come? Beh, l’ha rubata a casa di Michela, che se ricordate bene il padre è carabiniere. E pulire l’ha pulita, cioè ha grattato via il numero di serie, e l’ha lavata per togliere pure le impronte. E ha controllato e nel caricatore ci sono ancora tre proiettili. E ora si aggira per la città, col suo motorino nuovo che l’ha preso da poco (chissà chi lo sta piangendo!), con una pistola sotto il sellino, ma non sa a chi darla, e quindi decide che se la tiene lui.
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Corte e cortei
Un bellissimo sole splendeva, alto nel cielo si ergeva, ed i suoi calorosi raggi riscaldavano, come in un amorevole abbraccio, i visi, addolciti da una tenera stretta di mano, di Alessandro e Silvia, che passeggiavano, con passi danzanti, mentre rientravano a casa da scuola; insieme, come sempre avevano fatto, da quando i loro teneri cuori erano entrati in simbiosi. Questi stessi raggi, così caldi e rassicuranti, rasserenavano il cuore di Alberto Federico, mentre, supino sulla schiena, nel suo letto di legno prezioso e baldacchino ricamato di seta pregiata, osservava dalla finestra il lussureggiare del giardino della villa dei Buddenbrook. Era stato suo padre a disporre che fosse trasferito nella residenza di famiglia, e aveva dato ordine che potesse godere delle migliori cure anche al di fuori della clinica. I medici consigliarono di sostenerlo nel recupero della passata memoria, in maniera graduale, attendendo che i ricordi si schiudessero nella sua mente. A tal fine, il Barone volle che ritornasse a casa, e che venisse avvolto dal calore del focolare, così da ritrovare se stesso, e riprendere il posto che gli spettava nella famiglia e nella società. Per sostenerlo nel non facile impegno, la Contessa Matilde s’adoperava con gran dispendio di energie; dispendio che non le apportava tedio alcuno, anzi, la gratificava e la faceva sentire viva come mai si era più sentita da quel terribile, tragico anno, che ormai le pareva così lontano. Aveva partecipato nell’ufficio del sindaco ad una riunione con un comitato da lei stessa presieduto per l’organizzazione della cerimonia pubblica durante la quale suo figlio Alberto Federico sarebbe stato insignito con una medaglia al valore civile per il suo atto eroico, e sarebbe stato ufficialmente presentato alla cittadinanza. Contemporaneamente, la Contessa preparava gli inviti e predisponeva per la serata di gala che si sarebbe tenuta a breve nella residenza di famiglia, alla quale avrebbero preso parte rappresentanti della nobiltà, anche dall’estero, politici e governatori, industriali e grandi magnati, tutti a rendere omaggio al ritrovato erede della dinastia. Svolazzava tra le ampie sale della residenza, governando un corteo variegato di artisti del decoro e dello sfarzo, disponendo sui colori e sui tessuti, su lampade e candele, su caviale e vini d’alto pregio, orlando ogni sua frase con enfatiche celebrazioni del proprio lignaggio. Distante, ovattato da profumate lenzuola, Alberto
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Federico, abbandonato lo spettacolo del giardino, pensava. Da alcuni giorni era stato trasferito nell’immensa villa, dopo aver proseguito la degenza nel piccolo ospedale da campo fatto predisporre all’uopo dal Barone. Dottori ed infermieri gli facevano regolare visita, ed il suo stato di salute veniva periodicamente accertato. Da quando aveva lasciato la clinica, ancora non gli era stato permesso di arrischiarsi autonomamente a qualsiasi movimento che non fosse sottoposto a supervisione medica, soverchiato da precauzioni e raccomandazioni che, ora in quel suo pensare, gli parevano eccessive e limitanti della propria libertà, lui che aveva vissuto come foglia cullata dal vento in un ambiente illimitato. Si accarezzò la barba. Aveva permesso unicamente che gliela sfoltissero e che gli accorciassero i capelli. Si guardò intorno pensieroso. Decise di alzarsi e lo fece, poggiando entrambi i piedi sul tappeto di Persia ed accennando incerti passi sul nobile marmo fino alla porta. Aveva calcolato i ritmi delle visite mediche e riteneva di avere il tempo necessario per allontanarsi senza essere visto, anche se temeva che al di là della porta vi fosse un guardiano pronto a ricondurlo a letto. Sentiva le gambe deboli ma aveva coscienza del buon esito delle cure, giacché forse nemmeno quand’era libero nel bosco aveva avuto mai una tale sensazione di benessere. Attese alcuni istanti che un lieve capogiro si attenuasse e, dunque, armatosi di coraggio, aprì la porta abbassando la maniglia, piano per evitare che cigolii sospetti attirassero l’attenzione di qualcuno. Ma né la maniglia né tantomeno i cardini cigolarono, ed oltre la porta Alberto Federico incontrò un lungo corridoio, illuminato come a giorno da un filare di lampadari d’epoca appesi al soffitto. Il corridoio era abbellito da un tappeto rosso che ammorbidiva il suo cammino e ravvivato da quadri alle pareti e finiture classiche. Quasi ad esplorare un pianeta sconosciuto, si muoveva lento ed attento, intento a cogliere tambureggiar di passi e melodiar di voci. Con indosso un leggero pigiama ricamato con estrema perizia ed ai piedi pantofole anatomiche scrutava l’ignoto oltre l’orizzonte, ma il corridoio gli parve infinito. Smise presto di contare le porte su ambo i lati, ed il numero di lampadari, e gli specchi, appesi alle pareti ad intervalli regolari, alternati ai quadri, ed a comodini di antica fattura e sedie. E, mentre spinto dalla curiosità, dopo aver aperto un cassetto, e poi un altro ed un altro ancora, appurò che i primi erano vuoti, tormentandosi per pochi istanti sul perché della loro pleonastica presenza, ritenne invece che le sedie fossero un necessario approdo per il viandante sperduto,
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come per una chiatta alla deriva bistrattata dall’impeto di un fiume. E difatti si sedette, a rifiatare leggermente ed a osservare. E si chiese chi fossero le persone che lo ospitavano, chi fosse questa famiglia che diceva di esser sua. O forse no, pensò. Forse era più corretto dire che pensava che lui fosse loro. E mentre si immergeva in quel mastice di ipotesi, abbagliato dalle luci tutt’intorno, udì una voce, che lo ammaliò rompendo i vincoli con tali pensieri. “Signorino Alberto Federico, ma che fate fuori dalla vostra stanza? Che vi sovviene?”, gli disse un uomo andandogli in contro nell’atto di sorreggerlo. “Vi siete accasciato su questa sedia? State male? Avverto subito i medici!”, si propose l’uomo. Alberto Federico si riebbe come da un sonno con torpore, scosse la testa e con un gesto della mano prima, e con le parole poi, placò l’animosità del maestro di casa, e si alzò, sorridendogli e ringraziandolo dolcemente. “Lei non deve stare qui, signorino. Lasci che la conduca nei suoi alloggi” “No, ti prego”, si impuntò Alberto Federico, senza comunque risultare sgarbato, “Non voglio tornare in quella stanza. Mi sembra una prigione. Non ce la faccio più. Voglio andare in giardino”, concluse proseguendo a camminare verso quella che sperava fosse la fine del corridoio. “Ci sarà pure una scala?”, chiese a Donato Cavallo, che continuava a seguirlo, accennando a toccarlo, ma poi ritraendo la mano, supplicandolo con tono di preghiera “La prego, signorino. Mi perdoni la mancanza di rispetto, ma sarò redarguito immantinente se Lorsignori scoprissero che lei è uscito dalla sua stanza”. Ma Alberto Federico procedeva, quasi divertito da quelle, per lui incomprensibili, paure, accelerando il passo. “Oh, povero me! In tanti anni di onorato servizio. Il disonore che apporterò al mio cognome. Un richiamo dai gentili padroni. Mai nella storia della mia famiglia. Sarò costretto a pagare l’onta della vergogna con la mia stessa vita. Santa Blandina, proteggimi tu! San Colmano di Stockerau, intercedi per me!”. Alberto Federico si voltò e rise, mentre Donato Cavallo sceneggiava la propria disperazione con la mano sulla fronte.
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“Sta’ pure tranquillo, difenderò io il tuo onore”, rideva, “Una passeggiata può solo farmi bene”. Sconsolato, Donato Cavallo chinò il capo e lo seguì. “Indossi almeno una vestaglia, la prego. Tale abbigliamento non si confà a questi ambienti”. “No, lasciamo stare la vestaglia. Accompagnami in giardino, piuttosto. E…”, sospirò voltandosi, “…raccontami di me”. Alessandro le accarezzò la guancia destra con i polpastrelli della mano sinistra. “Sei bella”, le disse. “Tu sei bello”, gli rispose lei sorridendogli. Si avvicinarono l’un l’altra. Silvia socchiuse gli occhi e schiuse le labbra lievi, arrossendo sulle gote, in attesa di quel bacio. Ma il dolce idillio fu interrotto da una voce. Marianna bussò due volte alla porta: “Posso?”. Alberto Federico rideva, schernendosi. Incredulo, per ovvi motivi, data la sua condizione, ma anche perché quei racconti gli parevano così incredibilmente assurdi. “No, dai, non ci credo! Nessuno avrebbe mai fatto una cosa del genere!” “Eppure, mio caro Signorino Alberto Federico, è proprio così. Mi permetta l’ardire, perdonando un povero servitore per queste parole inopportune, ma, nella sua infanzia, lei era proprio un discolo”. Alberto Federico e Donato passeggiavano per il giardino, chiacchierando e ridendo amabilmente, quasi come due vecchi amici, o meglio come un maestro ed un discepolo che ascolta attento ed attonito. Alberto Federico cercava conferme nei propri ricordi, nella speranza di concretizzare in immagini quei racconti fatti di monellerie, sberleffi e peripezie non proprio degne dell’erede di un casato di tale lignaggio. Ma per quanti sforzi facesse, non gli riuscì di ritrovare in sé nessuna delle emozioni che avrebbero dovuto generargli, al di fuori della divertita incredulità.
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“Non si rammarichi, signorino Alberto Federico. I ricordi arriveranno”, continuava a ripetergli il maestro di casa, quando lo vedeva rabbuiarsi. E glielo ripeté di nuovo, osservandolo adombrarsi, ma con un carico maggiore di visibile preoccupazione. “Allontanati leggermente da me, Donato. La Contessa ci viene in contro. Tu non parlare. Ci penso io”, gli disse improvviso. A Donato Cavallo gelò il sangue. Si voltò e vide la Contessa che strabuzzava gli occhi e si avvicinava loro a passo svelto. In lontananza alcuni camerieri che indicavano col dito e commentavano sottovoce. “Figlio mio, cosa ci fai qui fuori? Nelle tue condizioni? Donato, che mai significa tutto questo?” Donato Cavallo, nel breve volgere di pochi istanti salmodiò a memoria tutte le preghiere che conosceva, supplicò il perdono di tutti i suoi avi che prima di lui avevano rivestito quel suo stesso incarico, sognò di trovarsi nella cucina della residenza per poter disporre di un lungo coltello e salvare l’onore con il proprio sangue. Sentì le ginocchia svincolarsi dal resto della gamba. E, mentre si preparava a prostrarsi piangente ai piedi della Contessa, Alberto Federico parlò. “Madre!”, le disse spalancando le braccia, e come un consumato attore le strinse dolcemente le spalle e le diede un bacio sulla guancia. In lontananza il mormorio crebbe. Donato rimase quasi senza fiato. Mentre la Contessa quasi si sentì mancare, tremante nelle gambe, e le parole le si assopirono sulle labbra leggermente socchiuse. “Madre, ricordate bene quante bricconerie ho sempre commesso sin da bambino. Non ne potevo più di stare confinato in quella stanza. Sono uscito di nascosto, per visitare la casa, e cercare i miei ricordi. Ma poi mi sono perso. E se non fosse stato per il caro Donato”, si voltò a guardarlo e gli sorrise. A Donato venne un groppo in gola. La Contessa si acquietò. Guardò Donato e gli fece un segno di gratitudine con il capo. “Si, ricordo bene le tue monellerie”, gli sorrise. “Rincasiamo, però”, aggiunse, guardando verso il capannello di inservienti che al suo solo sguardo si dileguò sparpagliandosi, “Non ti si addice certo un simile abbigliamento”. “Donato”
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“Comandi, Contessa”. “Fa preparare un pasto, un bagno caldo e degli abiti consoni. Accompagnerò mio figlio nella visita alla residenza” “Sarà fatto”. Alberto Federico ebbe giusto il tempo di strizzare un occhio in segno di intesa verso Donato, che gli sorrise con imbarazzata gratitudine, e sussurrargli “vegetariano, mi raccomando!”, poi seguì la Contessa, adeguandosi a tutte le sue disposizioni. In disparte, dall’alto di una delle tante verande che adornavano la residenza, il Barone, in posizione marziale, osservava la scena. Alberto Federico si ristabilì in breve tempo, con più difficoltà invece procedeva il suo riambientarsi ad uno stile di vita che non riconosceva come proprio, in quanto nessun progresso poteva registrarsi nella riscoperta dei propri ricordi. Questo stallo pareva frustrare solamente la Contessa, che si era prodigata verso di lui in ridestate attenzioni materne, con piena disponibilità all’eloquio, nel tentativo di stimolarne la memoria. Il Barone si mostrava invece quasi del tutto estraneo, anche se intesseva relazioni con gli amministratori del proprio impero economico e predisponeva per il reinserimento del figlio nei vertici organizzativi. Alberto Federico, seppur avesse stabilito di non palesare la propria indifferenza, avendo comunque ben presto superato la fase della preoccupazione nei confronti della sua incapacità di recuperare i precedenti ricordi, si sforzava di adeguarsi a questa sua nuova condizione, ma viveva la sua nuova vita come una imposizione, seppure riconoscesse di essere assolutamente sprovvisto di qualsiasi alternativa. Non aveva più avuto modo di incontrare i ragazzi, perché, anche se gli fu concesso di uscire dalla propria stanza, momentaneamente non erano previste uscite all’esterno dei confini della residenza, che pure erano talmente vasti da parere inesistenti. L’opportunità per soddisfare entrambe le mancanze si concretizzò in occasione della cerimonia pubblica organizzata dal Comune per l’onorificenza al valore civile ad Alberto Federico, atto con il quale la comunità tutta intendeva ringraziarlo per aver salvato la vita dei tre ragazzi.
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Dell’organizzazione dell’evento si occupò la Contessa, che lo aveva previsto come primo appuntamento di una serie che si sarebbe conclusa con il gran galà alla residenza di famiglia. La cerimonia si svolse in municipio, nella sala consiliare. Fu allestito un palco sul quale sedettero il sindaco, Alberto Federico ed i tre ragazzi. In platea, oltre alle famiglie, erano presenti anche Don Alfonso Maria, gli operatori e gli ospiti della comunità, e Rossella e Silvia. Il Barone e la Contessa sedevano in prima fila. La maggior parte delle persone restò però in piedi, tanta fu la partecipazione della gente comune. L’evento fu ripreso da alcune televisioni, non solo locali, con grande gioia di nonna Lella, che provvide a registrare tutte le trasmissioni che poté, e diverse furono le testate giornalistiche invitate, soprattutto quelle legate al Barone. Nella sala attigua fu allestito un ricco buffet che allietò i convenuti, dopo le interviste, il racconto dettagliato dell’avventura vissuta, lo schernirsi di Alberto Federico, gli sbadigli di Cristian, che si distraeva salutando i parenti e canticchiando, tra le risate dei presenti, le spacconate simpatiche di Alessandro, con ammiccamenti a Silvia in seconda fila, ed il mutismo di Tommaso, che solo dopo innumerevoli insistenze accettò di sedersi sul palco. “Ma non hai mai avuto paura?”, chiese a Cristian una giornalista. “Tantissima! Mi sono pure fatto la cacca addosso!”, rispose lui divertito, suscitando l’ilarità di tutta la platea, mentre il Barone e la Contessa simulavano colpi di tosse. “Si sente un eroe?”, chiesero invece ad Alberto Federico. “Sinceramente non so cosa significhi questa parola”, rispose, dopo un breve sospiro, “Dovremmo essere considerati eroi tutti e quattro, anzi tutti e cinque” “C’è anche Pasqua”, lo interruppe Cristian, che proseguì imitando l’abbaiare di un cane, mentre in sottofondo Alberto Federico riprendeva a parlare. “Ci siamo trovati a condividere una esperienza incredibile. Dite che io ho salvato loro, ma loro di certo hanno salvato me. Sarei ancora perso in quel bosco”. Non vennero invece intervistati il Barone e la Contessa, perché lo stesso Barone aveva dato disposizioni in merito, ed ogni dichiarazione era stata già rilasciata dagli addetti stampa. Il sindaco comunque sottolineò l’importanza che il ritorno dell’erede della dinastia Buddenbrook rivestiva non solo per la famiglia, ma per la comunità tutta.
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Durante il rinfresco furono tante le persone che vollero complimentarsi personalmente con Alberto Federico, oppure dare solo una carezza ai ragazzi. Cristian fu ben felice di lasciarsi coccolare, mentre Tommaso cercò un angolo dove nascondersi, dopo aver concordato con Annalisa sull’opportunità della sua presenza, nonostante desiderasse andare a casa. Alessandro ricevette parecchie attenzioni da parte di coetanei e soprattutto coetanee, che gradirono essere immortalate insieme a lui. Silvia supervisionava le operazioni, intervenendo quando notava che qualche ammiratrice avviluppava con troppa enfasi il suo fidanzato. Don Alfonso Maria intratteneva i presenti richiamandoli ai valori della solidarietà ed alla forza della fede, esemplificando il tutto con riferimenti alle preghiere della Contessa, che Dio aveva ascoltato restituendole il figlio perduto. Il Barone conversò con gli amministratori, soprattutto con il sindaco – e più volte, durante il loro colloquio, fu sussurrata la parola “parco”- e per la maggior parte fu impegnato al telefono, mentre la Contessa riceveva gli omaggi di tutti i presenti, e, ogni volta che il figlio si allontanava, lo cercava con lo sguardo e gli si avvicinava non appena ne aveva occasione. L’atmosfera era serena, la gioia sincera e condivisa tra tutti coloro che erano accorsi. Solo Marianna pareva distratta. In disparte rispetto alla folla, si era riservata un cantuccio dal quale osservava gli altri parlare e sorridere. Alessandro provò in diverse occasioni a coinvolgerla ma lei rifiutò i suoi inviti. Dunque avvicinò il viso al suo. “Parlami”, le disse. Lei ritrasse il viso. Alessandro inspirò. “Ma non avevi smesso?”, le disse sbuffando. “Vuoi che ti vedano tutti? Qui?”, le indicò la Contessa ed il Barone. “Forse è meglio se te ne vai a casa, mamma”, concluse allontanandosi. Poco distante Rossella osservò la scena, non si avvicinò, ma con uno sguardo trasmise a Marianna tutto il suo disappunto. Marianna decise di andarsene ed imboccò il corridoio d’uscita. Si fermò quando intravide un’ombra dietro una colonna. Un uomo semi nascosto osservava guardingo sospirando di sollievo. I loro sguardi si incrociarono e si trattennero l’un l’altro. L’uomo era Alberto
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Federico, che, trovato un momento propizio, aveva abbandonato la sala, mentre la Contessa, appena avvedutasi della mancanza del figlio, aveva dato incarico che fosse ricondotto nell’aula consiliare. “Dovresti essere lì dentro a farti ringraziare…”, gli disse Marianna. “Non ne potevo più. Non vorrei sembrare ingrato, ma non sono abituato alla gente” “Ah, è vero. Hai fatto il tarzan per vent’anni”, Marianna accennò una smorfia. “Al massimo dodici, in effetti…” Per qualche istante i due stettero in silenzio, mentre i loro sguardi si rivolsero altrove. “In effetti non penso di averti ringraziato”, disse Marianna, abbracciandolo improvvisa. Ad Alberto Federico si spalancarono gli occhi. Non fu in grado di ricambiare l’abbraccio, che fu comunque breve. “Grazie…”, disse Marianna, sorridendo mentre lo guardava, divincolandosi da lui. Lui la guardò stupito. “Si, sono un po’ brilla…”. Lui accennò una risposta. Lei gli posò l’indice della mano destra sulle labbra. “No, non voglio prediche da mio cognato. Ci ha già pensato mio figlio” “Cognato?”, ripeté quasi sorpreso Alberto Federico. “Ho bisogno d’aria. Accompagnami fuori. Tanto anche tu sei in fuga, no?”, gli disse tirandolo per un braccio. Alberto Federico non oppose resistenza. Si sedettero su di una panchina, nel parco adiacente il municipio. “Dove l’hai messa la medaglia? La devi tenere al collo, no?”, gli chiese incuriosita, picchiettando con il dito sul suo petto. Lui sorrise e si toccò la tasca destra. Poi disse piano: “Cognati…” “Già, è vero…”, aggiunse dopo alcuni istanti di riflessione, “La Contessa me l’ha detto più di una volta. Tu eri sposata con Carlo Alberto, quello che dovrebbe essere mio fratello maggiore…” Marianna lo fissò. Il suo sguardo lo mise leggermente a disagio.
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“Ma davvero tu non ti ricordi niente?” “No, purtroppo no”, rispose sconsolato. “I miei ricordi iniziano in quel bosco. È come se prima non avessi vissuto” Marianna rise. Lui si indispettì leggermente. “Perché ridi?” Marianna percepì il diverso tono di voce, e smettendo di ridere gli rispose: “Anche Carlo me lo diceva sempre”, alzò lo sguardo al cielo ed i suoi occhi si inumidirono leggermente, “Ma forse queste sono cose che si dicono tra innamorati…”. “Mi dispiace…”, la consolò lui. “Per cosa?”, chiese lei, asciugandosi gli occhi con il polsino della maglia. “Per tutto ciò che è accaduto”. “Ah, già…”, si fece pensierosa. “Non fosse stato per il funerale, noi due non ci saremmo mai conosciuti. Pensa un po’ tu che razza di cognati”, riprese a ridere. “Vorrei ricordarlo”, sospirò lui. “Io invece vorrei dimenticare…”, concluse lei facendosi seria. Restarono per qualche istante in silenzio, lei seduta con le gambe incrociate a giochicchiare con i lacci delle scarpe, lui a guardarsi le mani. “Eccolo!”, udirono una voce. “Signor Buddenbrook, la stiamo cercando da alcuni minuti. La signora Contessa richiede la sua presenza in sala”. Alberto Federico si voltò verso di lei. Lei scosse la testa, quasi con pietà. “E’ questa la vita che non vuoi ricordare”. “Ci scusi se insistiamo”, gli disse imbarazzato uno degli incaricati alla sicurezza. “Vai pure…”, lo autorizzò lei. “Ciao”, la salutò, non riuscendo a pronunciare altre parole. Si voltò lento, ruotando prima il corpo, mentre i suoi occhi continuavano a fissarla, e la sua testa si mosse quasi a rallentatore. Ma prima che si allontanasse lei gli sussurrò:
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“Vieni a trovarci qualche volta. Tuo nipote ne sarà felice”. Non ebbe possibilità di risponderle perché l’attenzione di entrambi fu richiamata da voci provenienti dalla strada. Voci, canti e rumori di varia natura. Videro in lontananza un corteo di persone che si avvicinava. Il tumulto dalla strada richiamò l’attenzione anche dei presenti al buffet, così che diverse persone, incuriosite, si affacciarono al di fuori. Il corteo si fermò proprio di fronte al municipio. Sollevavano cartelli con le mani. Dispiegavano striscioni. Cantavano slogan e battevano mani e tamburi. Alcuni di loro con un megafono proclamavano messaggi indirizzati agli amministratori comunali. “Signor Sindaco, signori Assessori, signori Consiglieri Comunali”, una voce echeggiò dal megafono, “Oggi siamo qui a manifestare la nostra preoccupazione. La preoccupazione di decine di famiglie che rischiano di perdere il proprio reddito, se voi, che avete il potere di decidere, non troverete una soluzione al problema della gestione del parco”. Ad ogni pausa del suo discorso, l’uomo si voltava cercando la complicità degli sguardi dei manifestanti, che rispondevano con lunghi applausi e commenti urlati e canti di slogan. “Il parco rappresenta una risorsa per il nostro territorio. Rappresenta posti di lavoro. Rappresenta il futuro. Un bene che non può essere svenduto per alcun motivo. Oggi noi manifestiamo insieme. Oggi sono presenti qui l’Assemblea dei lavoratori del parco e l’Associazione Parco Paradiso, il comitato nato con l’unico scopo di salvare un bene di tutti dalle speculazioni edilizie. Noi, in questo giorno in cui voi “cerimoniate” un eroe, noi, vi diciamo che i veri eroi sono quelli che devono lottare quotidianamente per poter portare un tozzo di pane a casa per sfamare la propria famiglia. Oggi vi potremmo sembrare pochi, ma domani saremo ancora di più. Noi ci opporremo a qualsiasi intervento di distruzione del parco e del nostro futuro”. I manifestanti, almeno un centinaio, tra cui la signora Francesca e la signora Lucia, che rivolsero il proprio sguardo verso Marianna chiamandola a se con dei cenni delle mani, avanzarono verso il municipio. Chiedevano di essere accolti direttamente dal sindaco e dagli amministratori. Qualcuno con il megafono chiese che anche il Barone si presentasse per parlare con loro.
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Uno degli uomini della sicurezza, che si trovava accanto ad Alberto Federico si portò una mano all’orecchio: “Si, ci muoviamo subito”, disse parlando ad un piccolo microfono applicato al colletto del giubbotto. “Signor Buddenbrook, dobbiamo allontanarci dal perimetro. Una macchina ci attende nell’uscita secondaria. Lei non deve assolutamente restare coinvolto in questa manifestazione. E’ un ordine tassativo del signor Barone”. Alberto Federico si voltò a cercare Marianna. La vide avvicinarsi barcollante al corteo, mentre gridava contro i manifestanti: “Ma cosa ci fate qui? Ma andatevene a casa! Illusi! Ma chi se ne frega del parco! Tornatevene a casa! Tanto non vi ascoltano!” L’uomo della scorta gli posò una mano sulla spalla: “Mi perdoni, signor Buddenbrook, ma dobbiamo proprio andare”. Alberto Federico si voltò e li seguì con impotente dispiacere.
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Case popolari
Non è che Alessandro non ci fa caso, o che magari non se n’è proprio accorto. L’atteggiamento è proprio cambiato. Adesso i suoi compagni sembrano molto più coinvolti nei suoi confronti. Cioè molto più coinvolti nella sua vita. Non che prima Alessandro con questi non ci aveva a che fare, però non c’era mai stata tutta questa confidenza. Battutine, risate, scherzi, questo si. Ma si può dire che i rapporti che aveva con i suoi compagni erano, come dire, di pura convivenza scolastica. Non certo un semplice ciao e ciao, però nemmeno mai un invito a casa, oppure uscire insieme, ecco. Diciamo che Alessandro ha nelle amicizie come dei reparti stagni, e non mischia, per esempio, la scuola con gli amici, che per amici dovete intendere quella cricca di sballati che frequentava prima. Adesso però non frequenta più nemmeno quelli. E quindi quali sono i suoi amici? Non certi questi suoi compagni, Dio gliene scampi! Adesso che tutti sanno ancora di più che è il nipote del Barone, gli stanno attorno come la corte di un re. Chi fa le battute cerca sempre per prima la sua approvazione, lo coinvolgono in ogni discorso, e le ragazze, ma anche quelle che prima non lo calcolavano nemmeno di striscio, adesso sono tutte moine e occhi dolci. La cosa un po’ lo secca. Gli puzza di ipocrisia. E poi questa notorietà, anche se lui ci ha un po’ marciato, che sia dovuta alla sua nobile parentela proprio non gli va. Perché tutti si sono ben presto stancati di ascoltare il racconto delle avventure nei boschi. Anzi non è che tutti ci credono proprio alla storia di questo tizio perso per dodici anni, oppure al cane o al killer dei boschi. Certo che è molto meglio di prima, quando praticamente lo avevano emarginato per tutta la storia della denuncia, e quindi quando sentiva bisbigliare alle sue spalle aveva sempre l’impressione che stavano parlando di lui. Attenzione, non che fossero tutti dei santarellini, non solo nella sua classe, ma anche in tutta la scuola, a poterlo giudicare così impunemente. E pure i professori lo guardavano non proprio giusto. Lui che era sempre stato per i fatti suoi era passato al centro dell’attenzione, indicato come un bullo o come un piccolo delinquente destinato alla prigione. Che poi tutto si era ingigantito, non c’è bisogno che ve lo dico io quanto siete bravi a trasformare le cose, ad inventare storie incredibili, e chissà Dio quante volte si è già pentito di avervi fatto esseri parlanti. Si diceva che la pistola era di Alessandro, che aveva sparato ad un poliziotto. Che in casa sua avevano trovato un sacco di refurtiva e anche droga. E per un certo periodo se a qualcuno mancava qualcosa, che magari l’aveva persa o semplicemente
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dimenticata a casa, subito veniva chiamato in causa Alessandro. E poi tutti sapevano che la madre era alcolizzata. E state certi che anche la storia con Silvia ne aveva risentito, anche se in modo diverso. Perché i genitori non sapevano niente fino a quando non si era perso nel bosco. È stato in quel momento che Silvia gli aveva parlato di Alessandro. Però poi era venuta fuori la storia del processo, e anche se i genitori di Silvia erano persone, si può dire piuttosto aperte?, comunque qualche dubbio sul ragazzo ce l’avevano, e forse ancora adesso. E poi la cosa allucinante, a parte che le cose per lui erano cambiate da così a così, è la storia delle gite. E non riguarda certo mica solo Alessandro. Le gite le possiamo definire delle vere e proprie visite guidate. E non pensate solo ai giornalisti, che dopo tutta la storia del figlio del Barone risorto ci sono andati a nozze, no?, ma anche gente normale, ma pure i vicini di casa. Cioè questa gente si riunisce in un paio e vanno a fare foto a casa di Alessandro, a casa di Cristian, e a casa del Barone. E questa storia va avanti già da un po’. Con persone che si vantano di conoscere questo e quello, e si fanno intervistare da tutti i giornalisti, e ogni giorno in una trasmissione diversa c’è sempre qualcuno di nuovo che ha qualcosa da dire sul caso. C’è pure una indovina che dice di averlo scritto in un diario addirittura dieci anni prima che sarebbe successo tutto, perché gliel’aveva detto il suo spirito guida. E anche Silvia naturalmente ci passa. Perché se Alessandro è uno degli eredi, lei è la sua ragazza e quindi i giornali di pettegolezzi già parlano di nozze e divisioni di eredità, e questo ha influito molto anche sulla sua di notorietà, che ora la riconoscono praticamente tutti. E anche casa sua, anche se meno delle altre, è tappa dei pellegrinaggi. Alla fine quindi sono tutti seccati da questa storia. Per fortuna la casa famiglia è segreta e nessuno è riuscito a far foto, ma oramai si sa praticamente tutto di Tommaso, anche perché se non possono andare a casa sua possono andare all’oratorio. Questo lo costringe praticamente a non uscire di casa per un bel po’. O se va all’oratorio deve restare nascosto. E pure Marianna non è risparmiata. A parte alcune sue foto in uno stato che definire pietoso sarebbe per lei un complimento, hanno tirato fuori di nuovo la storia di Carlo Alberto e della sua morte, e tutte le beghe con il Barone. Che schifo che mi fate, quanto siete morbosi… Gli unici che invece sembrano apprezzare tutta questa improvvisa fama sono Cristian ed i suoi, che aprono molto volentieri la casa a chiunque abbia una telecamera ed un microfono. La signora Lella non ha modo di registrare tutte le puntate di tutte le trasmissioni nelle quali almeno una volta vengono nominati, però quelle dove è stata 230
intervistata si. Che poi lei non ha un bel niente da dire, e non c’entra nulla con questa storia. E allora si inventa delle robe allucinanti, tipo che i ragazzi si sono salvati grazie ad una bussola che lei aveva messo nello zaino di Cristian, perché se lo sentiva, e poi altre cose che non c’entrano niente e poi parla di se, del suo quartiere e di tutt’altro. E infatti ne tagliano di roba da quello che dice, anzi, a volte non la mettono per niente, perché alla fine sono davvero solo i vaneggi di una cicciona rincitrullita. Ma comunque la notorietà viene condivisa con tutto il quartiere. A parte quelli che si mettono dietro le telecamere a fare ciao mamma, ma proprio qui esagerano. Ma perché in effetti qui alle case è tutto esagerato, proprio su un altro livello. Perché poi ci sono anche quelli che passano impennando col motorino, o sgommando con la macchina. Oppure mentre parla il giornalista si mettevano col sedere di fuori, o a cantare cori da stadio. Che poi il quartiere dove vive Cristian non è nemmeno dei peggiori. E’ stato l’ultimo dei quartieri popolari edificati in città. Accozzaglia di emarginati, costretti a stare tutti vicini, ad accrescere la propria rabbia, lamentandosi per ogni torto subito dal resto del mondo. Eh, già, proprio su un altro livello. Però non è come alla Fortezza, il quartiere dello spaccio, dove hai le vedette, i tunnel per le fughe, le case che da fuori sembrano baracche ma dentro sono regge, le macchine costose. Non che sotto casa di Cristian non si sia dediti a commerci non proprio legali, e in tanti hanno attrezzato i propri scantinati ad officine, non proprio autorizzate, ma di certo specializzate, che ti sanno smontare una moto in due minuti. E pure qualche auto la bruciano ogni tanto, per non parlare dei cassonetti – ma questo, lasciatemelo dire, magari richiama l’attenzione su tutta quella immondezza che invade la città - ma poi ti dicono di stare tranquillo perché tanto lo sanno a chi la devono bruciare, e se non fai niente non te la bruciano. Peccato che anche a Livio gliel’avevano bruciata, e pure gli avevano rubato la roba di quando andava a pescare, e quindi ora non pesca più e tutta la famiglia va a piedi. Il quartiere comunque è abitato da circa un migliaio di persone. Distribuiti in palazzoni di colore a volte bianco a volte rosa, anneriti dal tempo. Una via lunga almeno mezzo chilometro, e palazzi a destra e sinistra, di almeno otto piani. All’inizio li chiamavano i casermoni, poi hanno smesso. E tutta la pubblicità che si è fatta ha riportato all’attenzione tutti i problemi del quartiere, tipo la mancanza di strutture, anche se c’è l’oratorio, ma a parte Cristian, dei bambini che vivono lì non ci va quasi nessuno. Perché poi l’assurdo è questo, essere emarginati tra gli emarginati. Perché c’era il mercato ma lo avevano tolto. Perché c’era un campo da calcio, ma la società era fallita e ora è una specie di campo di patate. Perché il prete prima di Don Alfonso Maria aveva cancellato quella strada dalle 231
processioni perché gli tiravano le uova. Perché nessuno paga l’affitto e quindi pensano che la casa sia loro, che gliel’hanno magari regalata, e allora vedi vetri infranti nei portoni, scale diventante appiccicose dalle sporco, macchine parcheggiate sulle aiuole, parcheggi adibiti a ritrovo giornaliero dei bulli, con tanto di tavolino, sedie, fuoco notturno se fa freddo, stereo a manetta sino a notte fonda. Che poi se ci pensate è una costante quella della musica a tutto volume. A parte signora Lella che è decisamente sorda, ma quando quelle vibrazioni così eccessive producono turbini che mi impediscono persino di volare me lo son chiesta, ma perché è così alta quella musica? E mi sono pure risposta: perché dentro quelle teste c’è il vuoto, e quindi nel vuoto il suono non si propaga, e allora alzano alzano finché non percepiscono almeno il brusio. Però tutto quel parlare comunque ben presto è finito e tutto è tornato alla normalità, lasciando ogni quartiere al suo destino, come una patella su uno scoglio. Così Alessandro dopo la scuola continua a frequentare l’oratorio. Ora ha una sorta di gruppo di lavoro, del quale fa parte Silvia, ed anche Cristian e Tommaso. Tommaso non è che partecipa proprio assiduamente, almeno per quanto riguarda le idee, però pian piano collabora se c’è da fare qualcosa di pratico. Cristian invece è super contento di questa sorta di incarico che gli è stato affidato, e si vanta con gli altri di essere l’aiutante di Alessandro, che a sua volta è definito l’aiutante del prete. E don Alfonso Maria sorride compiaciuto mentre li osserva darsi da fare per inventare attività che coinvolgono sempre più bambini e ragazzi, in collaborazione con gli operatori dell’oratorio. E anche Rossella, a volte, passa da lì, e prende qualche appunto, facendo l’occhiolino ad Alessandro. Intanto a villa Finzini la Contessa continua nel tentativo di far tornare la memoria al figlio, ma sembra sempre più una impresa disperata. E guardate che ad un certo punto Alberto Federico ci sta mettendo tutto il suo sincero impegno. Si sforza di ritrovare i ricordi e di ritrovarsi in quella casa, nelle foto, con quei due anziani nobili che lo chiamano figlio. Ma non c’è verso. La sua vita inizia da quando si è svegliato nel bosco. E la Contessa le prova davvero tutte. Gli ha anche organizzato un the con una marchesina, con la quale aveva avuto una storia della quale avevano parlato tanto i giornali. Lei è una ereditiera di un importante famiglia che ha le mani in pasta in diverse cose, e soprattutto di cognome fa Finzini, perché ha una lontana parentela con la Contessa, e dunque si può anche rispettare il patto matrimoniale tra i Baraldi ed i Finzini, che è sempre cosa assai gradita. Carolina Esmeralda Finzini incontra Alberto Federico in presenza della Contessa e di sua madre, la marchesa di Torre Bel Vedere, così come impone il galateo. Di certo non è 232
quella che si può definire una rimpatriata, anche perché Alberto non sa nemmeno chi è, e lei si ricorda ancora di come è andata a finire la prima volta, e anche se Alberto non è certo da buttare - ha accorciato la barba ed i capelli, e vi dico che una bella punturina gliela darei volentieri ih ih - è stata parecchio insistita, anche se poi rivedendolo gli sono tornate in mente certe cose e allora è anche felice di essere lì. Però più che altro la conversazione è che la Contessa racconta al figlio della loro storia e poi fa un sacco di complimenti a Carolina e poi fa delle incomprensibili battute e tutte e tre le donne accennano un sorriso impercettibile portandosi il dorso della mano sulle labbra e poi dicono quasi contemporaneamente “molto divertente, non trovate?”. Ed in tutto questo Alberto Federico che le guarda sperando che la tortura finisca presto. Perché a lui di conoscere o riconoscere questa marchesina non gliene frega niente. Sta pensando ad altro. Indovinate a cosa? O a chi? E comunque ha nostalgia dei ragazzi, troppa. Così un giorno, al terzo the organizzato dalla Contessa, che si vede che è proprio buono questo the, approfittando di un momento di distrazione di Donato, che dal giorno che lo aveva “casualmente” trovato in giardino, era stato incaricato personalmente anche di provvedere ad ogni sua necessità con particolare attenzione, Alberto Federico evade dalla residenza di famiglia e corre a trovare i suoi amici all’oratorio. Potete immaginare la sorpresa e la gioia di Alessandro e degli altri nel vederlo. Lo stesso Tommaso sorride, quasi, apertamente. Non possono trattenersi troppo, perché l’oratorio sta chiudendo, anche perché Alberto ci ha messo un paio d’ore a trovare il posto. Villa Finzini sta un po’ fuori dal centro abitato. Per raggiungerlo Alberto ha utilizzato la bicicletta di uno dei giardinieri, che nel mentre è stato accompagnato da un collega a sporgere denuncia (che poi avrebbe ritrattato immediatamente, autoaccusandosi di averla semplicemente smarrita, su indicazione di Donato Cavallo, perché i due nobili non lo dovevano mai sapere. E dovete capire che Donato ha pianto per tre giorni per aver mentito ai suoi padroni), poi ha dovuto chiedere in giro, e di certo considerate che lui non è proprio abituato a muoversi in città, che ha vissuto in un bosco chissà quanto. E infatti per tornare a Villa Finzini prende un taxi. “Ora conosco la strada”, dice sorridendo ai ragazzi salutandoli, “Ci vedremo più spesso…”. Ed è così che alcuni giorni dopo ottiene di poter effettuare alcune lezioni di guida per poter recuperare la patente e potersi muovere autonomamente, anche se la Contessa è irremovibile sul fatto che non ha bisogno di guidare perché ci sono gli autisti.
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Comunque a quel terzo the Alberto Federico non c’era, e nemmeno la madre di Carolina, perché le due donne si erano organizzate per lasciarli da soli, che magari la marchesina sapeva fargli ritornare la memoria, ma il piano era saltato. E prima che Alberto fosse rintracciato (lui finse di non essere mai uscito dal perimetro della residenza, e gli credettero pure, talmente è grande quel posto), la Contessa ha avuto modo di esprimere le proprie perplessità con il Barone. “Barone, sono vivamente preoccupata”. “Cosa ti affligge?”, le chiede lui, quasi seccato perché lo ha disturbato mentre sta annotando qualcosa su un diario che poi chiude in un cassetto. “Nostro figlio, Alberto Federico. La ricerca della sua memoria non procede. Non è stato fatto nessun miglioramento. Nemmeno rivedere Carolina Esmeralda Finzini ha sortito alcun effetto. Che disperazione. Ho timore che…” “Sei stata avvertita, Matilde. I medici hanno parlato chiaro, mi pare. Potrebbe anche non ritrovare la memoria. Da quel bosco è risorto un corpo con un’altra anima, rassegnati” “Come potete dirmi di rassegnarmi? Come? E’ il nostro unico figlio, Barone. L’unico figlio che ci è rimasto. Non siete almeno un po’ in pena? Perché non vi sento partecipe? Perché non collaborate con me in questo tentativo? Non volete anche voi che nostro figlio rinsavisca prima che possa disporre di ciò che gli spetta?” “Ma cosa vuoi che gli spetti?”, il Barone alzò la voce, “Non permetto che mi si parli con questo tono, sia ben chiaro”, disse recuperando un po’ di calma. “Ma io non posso farcela da sola, mi dovete dare una mano. È vostro figlio!” “Basta così, Matilde”, chiuse il dialogo il Barone, con una voce calma e fredda, ora bassa, “Non intendo più affrontare tale argomento”. E se ne andò lasciandola da sola nella stanza.
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La cena per farli riconoscere
Come aveva loro promesso, Alberto Federico andò a trovarli nuovamente all’oratorio, ed in più di una occasione. Dovette contrattare parecchio con la Contessa perché gli concedesse tale libertà, seppur con il vincolo dell’autista Anselmo al suo seguito. Anselmo dopo i fatti del bosco fu difatti destinato ad altro incarico, che era ora quello di essere a disposizione di Alberto Federico per i suoi spostamenti. Le reticenze della Contessa vennero meno dopo che il figlio, tenendole una mano le disse: “Madre, stanotte ho fatto un sogno, nel quale c’eravate voi, giovane, ed io ero un bambino…”. Alberto Federico mentì, in quell’occasione, ed avrebbe accresciuto la menzogna se quella semplice frase non fosse stata più che sufficiente ad accendere nell’animo della Contessa un bagliore di speranza, che la spinse a lacrimare leggermente, commossa, nascondendosi il viso con le mani. Alberto Federico non ebbe comunque mai a pentirsi di quella piccola bugia. I ragazzi gli mostrarono gli spazi dell’oratorio, e fu Cristian a fare da cicerone, mentre Alessandro si limitava a specificazioni e precisazioni, quando era necessario. “E qui, cosa fate?”, chiese improvviso Alberto Federico a Tommaso. Il bambino strinse con un sussulto il proprio quaderno, e rispose, bofonchiando: “Giochiamo a biliardino”. “Ah, bene, si potrebbero organizzare dei tornei”, suggerì Alberto Federico. “Lo abbiamo già fatto, ti ricordi che te l’abbiamo detto?. Abbiamo anche perso 20 a zero mi sa!”, rispose ridendo di sé Cristian. “Caspita, è vero! Siete proprio dei campioni”, rise Alberto Federico, e con lui anche i ragazzi, ad eccezione di Tommaso. Alberto Federico allora gli posò una mano sulla testa, a scompigliargli i capelli, con un movimento così repentino che non poté scansarlo. Alessandro quasi impietrì timoroso della reazione del bambino. “Dai, non fare quel muso, non so giocare nemmeno io”, gli disse con dolcezza, sorridendogli.
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Tommaso non accennò nessuna reazione. Si limitò a portarsi la mano tra i capelli, dove lo aveva toccato. Alessandro sgranò gli occhi ed accennò un sorriso. Don Alfonso Maria ebbe modo di incensare il Barone per il grande contributo dato all’oratorio, senza avvedersi della noncuranza di Alberto Federico. “Si, prete, lo sappiano cosa ha fatto per questo posto il Barone, non c’è bisogno che ci fai la testa così!”, gli disse in maniera scherzosamente sfottente Alessandro. Il parroco alzò gli occhi al cielo, congiungendo i palmi delle mani: “Signore misericordioso, perdona questa pecorella smarrita…”, poi volgendo i palmi al cielo, “Dona il potere della Pentecoste a queste mani affinché trasmettano saggezza”, disse in maniera solennemente divertita, mentre stringeva la testa di Alessandro con le mani, tra le risate degli altri. “Sei tornato in piena forma”, gli disse, poi, Alessandro. “Già, mi hanno rimesso a nuovo. Solo la testa non recupera”, si schernì Alberto Federico. “Secondo me non vuoi ricordare”, disse sottovoce Alessandro. “Come?”, gli chiese, perché non era riuscito a capire cosa avesse detto. “No, no, niente…” “Quando vieni a trovarci di nuovo?”, gli chiese Cristian, al momento del commiato. “Prestissimo, tanto ormai ho un autista tutto per me”, sorrise. “Povero Anselmo, gli fanno fare sempre il baby – sitter!”, rise Alessandro. “Perché non vieni a pranzo a casa mia?”, chiese improvviso Cristian. “Certo che vengo, ci mancherebbe”, rispose senza nemmeno pensarci Alberto Federico. Così pochi giorni dopo fu accompagnato a casa di Cristian. Anselmo più volte provò a sconsigliarlo, rappresentandogli la realtà di quel quartiere, ma lui non volle sentire ragioni. L’autista si propose di scortarlo fino alla porta d’ingresso, ma desistette quanto vide che ad attenderlo c’era tutta la famiglia, come un comitato di benvenuto. Appena ricevuta da Cristian la notizia che Alberto Federico sarebbe stato loro ospite, la signora Eleonora aveva pianto, vergognandosi della condizione della propria casa, non
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reputandola adeguata ad accogliere una persona di tale rango. E mentre il marito sminuiva il tutto, ridimensionando l’importanza dell’evento ad un semplice pranzo, fu la signora Lella ad infonderle il giusto coraggio. “Tu devi essere orgogliosa di questa casa e di questa famiglia”, urlò, “Devi ringraziare l’eroe che ha salvato tuo figlio per l’onore che ci fa a venire a trovarci. Datti da fare invece di piangere!”. Quelle parole ebbero un positivo effetto su tutti i membri della famiglia, che si adoperarono per abbellire non solo la casa, ma anche per allestire l’ingresso del palazzo e la scala, fino al piano dell’appartamento, con fiori, ghirlande ed un tappeto rosso. “Che bello, signora Eleonora, un barone in casa nostra”, le disse una vicina, una giovane ragazza, mentre la aiutava nell’allestimento. “A casa sua volevo dire, mi scusi”, aggiunse. “Ma no, tranquilla. Grazie ancora per l’aiuto”, le disse la signora Eleonora. “Ma si figuri lei. Chissà se me la potrò fare una foto con il barone. La posso fare signora Eleonora?”, chiese gongolante. “Non so, non saprei…”, non riusciva a rispondere, imbarazzata, mentre disponeva il tappeto rosso sulle scale. “Ah, ma io non glielo chiedo mica…”, gesticolò infine la vicina. Alberto Federico fu accolto da una ovazione, e non poté non osservare le persone affacciate ai balconi, che applaudivano verso di lui, ed un lenzuolo bianco, steso a modo di striscione, con scritto “Grazie eroe”. Sbigottito si lasciò trasportare verso la casa di Cristian. “Purtroppo non abbiamo l’ascensore”, si scusò con lui il signor Livio, “Cioè, ce l’abbiamo, ma poi siccome nessuno qui paga la bolletta della scala allora lo abbiamo staccato, e quindi bisogna fare le scale. Eh, chissà quanti ne avete di ascensori in casa vostra, Barone” “Alberto, la prego”, sorrise imbarazzato. “Oh, bene Alberto, allora dammi anche del tu, e anche a mia moglie, eh! Vero Eleonora?” “Si, si…se ritiene”, disse lei con imbarazzo.
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Lui teneva per mano Cristian che gli camminava innanzi e gli faceva strada tirandolo leggermente, mentre Livio gli stava alla destra con una mano poggiata a volte sulla spalla, altre sulla schiena. “Ma come mai il tuo amico non è voluto venire?”, gli chiese Livio. In effetti l’invito per il pranzo fu subito esteso anche ad Anselmo, che però rifiuto categoricamente nonostante le insistenze ed il tentativo di persuasione fatto da Alberto Federico. Restò per tutto il tempo in posa eretta con le braccia conserte a scrutare i ragazzi che bazzicavano attorno all’auto, qualcuno avvicinandosi con il viso ai vetri per osservarne l’interno, mentre Anselmo, con voce ferma, ma decisa, ed estrema calma e perfetto controllo di sé, li invitava ad allontanarsi. Alla vista della signora Lella, Alberto Federico trattene un sorriso, ricordando gli aneddoti di Cristian. Lei gli si presentò ben pettinata e truccata, grazie all’aiuto di Luciana, che le prestò attenzione, seppur mal volentieri. Indossava una vestaglia da camera, di buona fattura, per l’acquisto della quale aveva incaricato la signora Eleonora. Durante il pranzo monopolizzò l’attenzione dell’ospite a tal punto che lo stesso Cristian si sentì in dovere di riprenderla rivendicando il diritto alla parola anche degli altri commensali, provocando l’ilarità dell’intero desco. Alberto Federico si trovò particolarmente a suo agio, prodigo di domande sui ragazzi e sulle prospettive lavorative del signor Livio. “Se potessi fare qualcosa tu…”, azzardò il signor Livio, durante la cerimonia dell’amaro (“fatto in casa da un mio compare”, gli aveva assicurato). “Certo, se posso ti aiuterò volentieri. È che ancora non ho capito bene chi sono…”, rispose lui sorridendo. “Torna presto a trovarci. Non sarà grande e bella come la tua villa ma questa la devi considerare casa tua”, gli disse il signor Livio stringendogli la mano, mentre accarezzava la testa di Cristian. La signora Eleonora lo guardò compiaciuta. “La casa dove ho vissuto era anche più grande di quella villa”, sorrise Alberto Federico. “E certo, era un bosco gigante!”, puntualizzò Cristian, e tutti sorrisero insieme a lui.
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Mentre andava via da uno dei balconi una ragazza lo chiamava a gran voce: “Grazie per la foto, barone!”. Lui la guardò e sorrise. “Rientriamo a casa, signorino”, gli disse Anselmo. “A casa…si…”, sospirò. In seguito all’invito fattogli da Cristian, anche Tommaso ebbe il piacere di averlo ospite nella casa famiglia, anche se l’invito non fu direttamente formulato dal bambino. Fu Annalisa, durante una successiva visita all’oratorio, a suggerire l’idea, trovando naturalmente l’accondiscendenza di Alberto Federico. “Non è casa mia, non decido io…”, quasi sentenziò Tommaso. “Ma dai che lo so che ti fa piacere. Gli fai vedere camera tua, gli presentiamo gli altri. E poi certo che è casa anche tua, scherzi?”, gli rispose lei. Tommaso non fu comunque prodigo di convenevoli e per lo più presentò gli spazi in maniera sintetica, per cui ad ogni domanda di specificazione fatta da Alberto Federico rispose Annalisa. Al momento del saluto, Alberto Federico lo ringraziò vivamente: “Grazie, Tommaso. Ci tenevo tanto a vedere la tua camera. Grazie per avermi invitato”, gli disse tendendogli una mano. “Eh, forse…”, tentò di intervenire Annalisa allungando una mano verso quella di Alberto Federico. Ma Tommaso la anticipò, sorprendendola, allungando la sua, e poggiandola leggermente su quella di Alberto Federico, che non gliela strinse, limitandosi ad attendere che fosse lui stesso ad allontanarla dalla sua, e quindi gli sorrise. “Mamma?”, la chiamò Alessandro, aggirandosi per la casa. “Ci sei?”. “Sono in doccia, cosa c’è?”, la sentì urlare da lontano. Lui bussò delicatamente alla porta:
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“Sei vestita, posso entrare?”, chiese, educatamente. “Com’è che sei così gentile? Quante volte sei entrato all’improvviso per vedere cosa stavo facendo di nascosto in bagno!”, urlò ancora lei da dietro la porta. Alessandro si voltò a guardare l’andito. “Mamma, abbassa la voce…c’è gente…”, le disse lui aprendo appena la porta. Marianna era appena uscita dalla doccia, avvolta da un accappatoio rosa. “Gente chi?”, disse lei a bassa voce. “Silvia?”, aggiunse, “Non c’è mica bisogno di fare tante cerimonie” “Si, c’è Silvia, ma anche altra gente”, sorrise Alessandro. “Altra gente chi?”, sgranò gli occhi Marianna, alzando leggermente la voce. “Dai, non urlare, che vergogna. C’è Alberto…cioè zio…insomma lui. L’ho invitato a cena”, le disse serafico. “Cosa?! Ma sei impazzito! Ma come ti sei permesso!”, gli urlò contro mentre gli lanciava addosso qualsiasi oggetto le capitasse tra le mani. Poi uscì di corsa dal bagno, colpendolo con una spallata e rinchiudendosi nella sua stanza. Nel soggiorno, Silvia stava seduta compostamente sul divano, mentre Alberto osservava Anselmo che parlava al telefono, adagiato sull’auto nera. Si guardarono e sorrisero alzando lievemente gli occhi al cielo. “Mamma, mi apri. Mamma, dai non fare la bambina”, le diceva Alessandro, ruotando la maniglia, bussando impercettibilmente e sforzandosi per mantenere un tono di voce basso. “Ho detto di andartene!”, continuava a ripetere Marianna, che restava con la testa tra le mani, avvolta nell’accappatoio rosa, seduta sul letto. “Ma come ti è venuto in mente? Ma lo vedi in che condizioni sono?”, aggiunse guardandosi alla specchio, con un misto di disprezzo e pena. “Ma finiscila, che stai benissimo. E poi che c’entra. È uno di famiglia, no? Dai, non farmi fare brutte figure, vieni giù. Ti aspettiamo. Non posso mica stare qui e lasciarli soli in salotto!”. “Non c’è neanche niente per cena!”, disse lei alzandosi dal letto e passeggiando nervosamente scalza per la stanza.
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“Per quello non preoccuparti. Ti aspettiamo giù”, le disse allontanandosi. “Aspetta, aspetta! Fermati!”, sibilò aprendo di poco la porta, per poi richiuderla sbuffando, con smorfie di disapprovazione. Si lasciò poi cadere scivolando sulla schiena contro la porta. “E ora che faccio?...”, disse a se stessa, quasi affranta. “Ale, forse non è il caso, dai”, gli disse Silvia, quando le si sedette accanto. “Ha ragione lei, Alessandro. E comunque, almeno l’avresti dovuta avvertire”, commentò Alberto Federico. “Perché tu l’hai avvisata tua madre che venivi qua? Se lo scopre ti disereda!”, lo stuzzicò Alessandro sornione. “Hai ragione…”, sbuffò complice Alberto Federico, “però credo che lo saprà presto da qualcun altro. Ma questo non cambia il fatto che ne avresti dovuto parlare con lei. Se anche le andava di organizzare una cena, forse ci teneva a cucinare lei, non credi?”, scosse lievemente la testa. “Si, si…cucinare lei…”, disse velatamente sarcastico, “Dai, apparecchiamo!”, li esortò. Disposero la tavola. Nel pomeriggio, all’oratorio si era svolta una festa di compleanno in onore di uno degli operatori. Alla fine dei festeggiamenti, Don Alfonso Maria si dispiacque per la mole degli avanzi, e fu allora che ad Alessandro venne in mente l’idea di invitare Alberto Federico a cena. Don Alfonso Maria diede il suo benestare, dopo che il festeggiato acconsentì senza alcuna remora. Marianna si fece attendere alcune decine di minuti, mentre loro chiacchieravano degli argomenti più vari, lasciandosi andare anche ai ricordi dell’avventura vissuta dentro il parco naturale. Quando poi lei fece il suo ingresso in cucina, inizialmente zittirono. Alessandro sorrise, per poi rabbuiarsi, osservandola mentre si avvicinava al tavolo barcollando leggermente. Alberto Federico si alzò e le tese gentilmente la mano. Marianna salutò per prima Silvia, chinandosi a darle un bacio, mentre lei rimase seduta, rivolgendo una sguardo dimesso ad Alessandro. Quindi strinse la mano ad Alberto Federico. “Ciao, come stai? Scusa il disturbo…”, le disse. “Bene, grazie…”, sospirò, “Non ti preoccupare”.
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Si voltò, poi, osservando in modo torvo Alessandro, tanto che Silvia, che se ne avvide, deglutì d’ansia. “Dai, mamma, vieni a sederti qui”, batté con la mano sulla sedia vuota, tra lui ed Alberto Federico. Lei si sedette, osservò la tavola: “Panini e pizzette? Per cena?”, disse con voce quasi tremante. Allora Alberto Federico prese la parola, e le raccontò della festa all’oratorio e dell’invito di Alessandro. “Eh, già, mio figlio ha sempre delle idee geniali…”, sentenziò Marianna, guardandolo con rimprovero, mentre assaporava un boccone di pane. “E tu? Come mai ti hanno dato il permesso di venire qui? Non lo sai che mi odiano?”, gli chiese all’improvviso. Silvia strinse la mano ad Alessandro, e lui cercò di dissuadere la madre dall’affrontare quel discorso: “Mamma, dai, almeno stasera…”. “Sta un po’ zitto, tu, mi interessa molto questa risposta”, lo zittì. Alberto Federico sgranò lievemente gli occhi: “Hai ragione, non gliel’ho detto…”, ammise. “Ma tu sei proprio sicuro di essere figlio loro?”, lo incalzò puntandogli contro il dito indice della mano destra, con tono inquisitorio, per poi mordere nuovamente il panino. “Però sono davvero buoni”, commentò, poi, masticando. Alessandro sussultò, si avvicinò a Silvia e le sussurrò all’orecchio: “Ma come c**zo ha fatto? Ha bevuto! Aveva qualche bottiglia nascosta sotto il letto? Eppure controllo sempre dappertutto”. “Ehi, ma lo sai che è maleducazione parlare sottovoce a tavola?”, li rimproverò con tono scherzoso. “Si sono detti cose da innamorati, scommetti?”, ammiccò poi ad Alberto Federico. Adesso il suo stato di leggera ebbrezza appariva a tutti più manifesto. “Eh, già, sono da invidiare”, sorrise Alberto Federico.
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“Certo, detto da te che vivevi da solo in un bosco! Senza una donna! Ma come hai fatto? Io senza un uomo sarei impazzita!” “Si, va bene! Cambiamo argomento, ok?”, sbottò Alessandro, alzandosi dalla sedia, servendo un altro panino sul piatto della madre, nel tentativo di trattenersi, perché ben altre sarebbero potute essere le sue parole. “Ma no, dai, tranquillo. E poi è vero…”, cercò di rasserenarlo Alberto Federico. “Il fatto è che io avevo perso la memoria, e quindi mi ero dimenticato pure delle donne!”, rise. Da quel momento la cena proseguì in un clima disteso e familiare. Alberto raccontò dell’esperienza nel bosco, mentre Marianna gli rivolgeva domande curiose, osservandolo, con la testa poggiata sulle mani, ed i gomiti sul tavolo. “Ma allora questo cane ti ha salvato proprio la vita? Ma che fine ha fatto?”, chiese Marianna. “Non lo so. Spero non le sia successo niente. Se non fosse stato per lei non sarei mai sopravvissuto. Lo so che sembra una favola, o un sogno, ma è così. E’ stata il mio angelo custode” “Devo dirle grazie anch’io, se non avesse aiutato te, tu non avresti salvato quel rompi di mio figlio!”, disse lei voltandosi verso Alessandro, facendogli una boccaccia con la lingua. “Simpaticona!”, le ribatté allo stesso modo, con aria sconsolata. “Alessandro aveva ragione, siete una bella coppia”, le disse sorridente Alberto Federico. “Non voglio nemmeno sapere cosa ti ha detto di me!”, disse lei, senza riuscire a trattenere uno sbadiglio. “Scusate…”, si giustificò, “E’ che sono un po’ stanca…”. Silvia sentì la mano di Alessandro tremare, mentre gliela stringeva. Alberto Federico sbadigliò, allargando le braccia: “Scusate, anch’io non riesco a trattenermi…perché non andiamo a fare una passeggiata? Così prendiamo un po’ d’aria”, disse, guardando complice Alessandro. “Si, si, ottima idea!”, rispose lui, alzandosi, e sollevando quasi di peso Marianna. “Dai, mamma, muoviti! E’ una bellissima serata! Tanto i panini sono finiti. Altrimenti ci addormentiamo!”.
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Appena usciti, Anselmo si avvicinò ad Alberto Federico. “Facciamo una passeggiata, Anselmo. Non è ancora ora di rientrare”. Anselmo annuì e si pose in coda alla fila. Alessandro e Silvia si tenevano stretti in un abbraccio, in silenzio. “Tutto bene, Ale?”, gli chiese. “E’ ubriaca…anche oggi. Pensavo volesse smettere”. “Dalle tempo. Non penso sia un vizio facile da perdere” “Mi sento inutile. Non riesco ad aiutarla. Non so che fare” “Io ho un’idea!”, gli disse Silvia, indicandogli Alberto Federico e Marianna. “Uffa, ma quale passeggiata! Non ho voglia di camminare, sono stanca!”, si lamentava intanto Marianna. “Dai, pigrona! Una passeggiatina non ha mai fatto male a nessuno!”, la spronava Alberto Federico, mentre la spingeva dolcemente con entrambe le mani sulle spalle. “Lo vedi? Sta ridendo”, gli fece notare Silvia. “Tu non te ne sei accorto perché voi maschi queste cose non le capite proprio. Ma non l’hai visto come si guardavano a cena? Non l’hai visto come si è pettinata e truccata? Quand’è l’ultima volta che l’hai vista tirata a quel modo?”, aggiunse. Alessandro si fermò e si voltò verso di lei: “No, scusa, non ho capito cosa vorresti dire!? Stai pensando che…” “Non lo so, però magari tu puoi arrivare sino ad un certo punto. Ora ha bisogno di un’altra forma di aiuto” “No, no, stai calma. E’ suo cognato! E’ mio zio! C’è un cas*no! No, no, vado subito a fermarli!”, disse Alessandro provando ad avvicinarsi a loro. “Ma dove vai, vieni qui, lasciamoli tranquilli. Andiamo a coccolarci un po’ anche noi!”, gli disse sorridendogli dolcemente, mentre lo tratteneva, senza che lui opponesse estrema resistenza, allontanandolo dagli altri due. “Li può lasciare un po’ da soli?”, chiese Silvia ad Anselmo, incrociandolo. Anselmo guardò poco più avanti, e li vide ridere tra loro. Annuì muovendo impercettibilmente il capo.
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“Fa ridere proprio…”, disse Marianna. “Che cosa?”, chiese Alberto Federico. “Che c’è voluto tutto questo tempo per conoscere mio cognato. Che famiglia disastrata che siamo! Menomale che tu non ti ricordi nulla. Magari mi capitasse anche a me!” “Mi dispiace…”, accennò Alberto Federico. “Eh, no!”, lo interruppe lei, incupendosi, “Non ci provare a consolarmi. Iniziate tutti così e poi lo so cosa volete!” “C’è una panchina, ti va di sederti?”, le disse, dopo qualche istante di silenzio. “Si, sediamoci, che mi fanno male i piedi”. Lei rise: “Ero ubriaca anche l’altra volta. Ma tanto sei uno di famiglia, no? Che me ne frega se faccio figure di m***a?”. Lui la guardava in silenzio. “Parla, però, altrimenti mi addormento davvero!”, gli intimò lei dolcemente, posandogli un dito sulle labbra. “Raccontami ancora di questo bosco fatato! Non hai mai avuto paura, lì tutto solo?”. Lui si distese con la schiena sulla panchina, sollevando lo sguardo al cielo: “Si vedono pochissime stelle, qui in città. Lì la notte avevo freddo. Avevo sempre freddo. A volte pioveva, grandinava. Mi riparavo dove capitava. Mi ero fatto qualche baracca. Però non riuscivo mai a dormire se non vedevo le stelle. Mi rasserenava”, sospirò, “Non so dirti se avevo paura. Dal momento in cui ho ripreso coscienza di me conoscevo solo quel bosco. Non c’era stato mai niente prima. La paura penso sia data dal rischio di perdere qualcosa. Io non avevo nulla…non so dirti se avevo paura. Anche se mi terrorizzavo anche solo nel mangiare una bacca. Però, era più qualcosa di istintivo, non lo so se poi era veramente paura”, la guardò, “Avrei forse più paura adesso…anche se mi sento ancora un estraneo…”. “Ti abituerai facilmente, stai tranquillo. Soldi, responsabilità. Un nome da difendere”, rise, “Anche se poi tu sei sempre stato il peggiore tra i fratelli. Leggevamo sempre delle tue conquiste sui giornali. Anzi, strano che non ti sia saltata addosso qualche modella!”
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“In effetti mia madre mi ha presentato una ragazza. A quanto pare siamo stati insieme tempo fa”, disse lui con tono provocatorio. “Ah, si?”, si indispettì leggermente lei, “Sai quanto me ne frega! Cos’è, una principessina con tre nomi e due cognomi? Basta, non mi va più di parlare con te!”, si alzò. “Dai, resta! Non andartene!”, la trattenne per un braccio, senza fare forza, però, perché Marianna si lasciò trattenere in maniera complice, “Hai ragione, ha troppi nomi. Poi io nemmeno mi ricordo. E poi è proprio noiosa!”. “Ah, ah!”, rise lei, “Si vede che sei adottato. Non hai mai avuto niente a che vedere con quelli. Ben gli sta, così imparano che non si può comprare tutto con i soldi”. Dopo aver detto così, Marianna si rattristò, ed i suoi occhi si velarono leggermente. “Tutto bene?”, le chiese. Accarezzandole dolcemente una guancia. “Scusa…”, cercò di sorridere, “Una donna non dovrebbe mai piangere alla prima uscita...” “Uscita?”, sussurrò Alberto Federico. “Poi dà l’idea di essere debole. Io non ero debole prima. Ero una donna forte…”, proseguì lei senza interrompersi. E mentre continuava a ripetere quell’ultima frase, si lasciò andare poggiando la testa sulla spalla di Alberto Federico, che dopo un attimo di titubanza, la cinse dolcemente. Marianna si addormentò, stretta in quell’abbraccio. Lui si trattenne così per una decina di minuti, a guardare le stelle e ad accarezzarle dolcemente i capelli, poi con movimenti cauti, nel tentativo di non destarla, la prese tra le braccia, e lei gli cinse il collo. “Dove mi porti?”, gli chiese. “A casa”, le rispose. Sull’uscio di casa trovò Alessandro che aveva appena salutato Silvia, salita sulla macchina dei genitori, venuti a prenderla. Alessandro gli si avvicinò: “Grazie, sembra che sta sorridendo”, gli disse accogliendo la madre tra le proprie braccia. “Ce la fai?”, gli chiese Alberto Federico.
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“Si, tranquillo, l’ho portata in braccio tante volte. Ora vai, però. Anselmo ha detto che tua madre ha dato l’ordine”. Alberto Federico si voltò e vide Anselmo seduto in macchina, con il motore acceso, che affacciandosi dal finestrino abbassato gli fece un cenno con la mano. Alberto Federico accennò un saluto, chinando il capo, poi si allontanò senza parlare. “Mi scusi, signorino, ma la Contessa ha dato disposizioni per un immediato rientro”. “Non ti crucciare, Anselmo”, gli disse, sconsolato. Al suo arrivo a Villa Finzini, la Contessa lo accolse nell’atrio, contenendo il proprio disappunto a fatica. Mantenne un tono di voce basso, ma al tempo stesso risentito e duro, redarguendolo: “Non posso nemmeno immaginare se lo venisse a sapere il Barone. Fortunatamente si trova in altra sede per impegni diplomatici. Ed io che ero così felice ed entusiasta che stessi recuperando i tuoi ricordi. Devi stare lontano da quella donna. Ha portato la totale rovina sulla nostra famiglia. Si è già presa tuo fratello, e segrega mio nipote, il sangue del sangue di mio figlio. Non accetterò che tu possa avere altri contatti con quella persona. Mai! Ho già provveduto ad organizzare la cerimonia di rientro in società. Ti riapproprierai di ciò che ti spetta. Del tuo nome. E ti comporterai come si conviene al tuo lignaggio. Ora vai pure a riposare. Sono profondamente avvilita dal tuo comportamento”. Così dicendo lo lasciò. Alberto Federico tremava di rabbia, ma non fu capace di ribattere a quelle parole.
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Dodici anni di solitudine
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Niente di vero tranne gli sciocchi.
Alessandro sta rientrando a casa. Ha accompagnato la sua bella a casa sua e dopo averle dato un bacio che più romantico non si può se ne va per conto suo. Ma che fine ha fatto l’Alessandro dei bei vecchi tempi? Vi dirò però che anche io preferisco questo Alessandro qui. Comunque è sera. Ha passato il pomeriggio all’oratorio. E forse per nostalgia decide di passare dalle strade che è da tanto che non ci passa. Quelle strade dove si ritrovava con gli amici di prima, quelli della piazzetta. E’ da sempre che non li vede, e magari li saluta. Giusto per vedere come stanno. E mentre dà uno sguardo, ma senza troppo impegno, che se li trova bene, ma se non li trova è uguale, sente una frenata. E vede una macchina che inchioda davanti a lui. La macchina non ha più la P e ha pure qualche bozzo qua e là, però la riconosce e riconosce soprattutto quelli che ci sono dentro: Nicola, Andrea e Mattia. Mattia si affaccia dal finestrino e lo guarda: “Nooo, matto! L’uomo del monte!”, gli grida contro. Alessandro si illumina in un sorriso e si avvicina alla macchina. Gli altri scendono e segue uno stringersi di mani e anche qualche abbraccio, virile però. “Ca**o, ma non ti abbiamo più visto! Sei sparito dalla circolazione. Che fine hai fatto?”, gli chiede Nicola. “Ora che sei famoso non li cag*i più gli amici, vero?”, gli dice ridendo Andrea, entrato da poco nel club modaiolo della risvolta ai pantaloni, mentre gli dà un cinque. “No, ma che, dai! È che c’ho avuto un sacco di casi*i!”, cerca di giustificarsi lui. Incredibile, la voce di Alessandro è come cambiata. “Dai che stiamo andando a fare un giro! O devi rientrare a casa!”, lo invita Mattia. “Minimo c’hai il coprifuoco che sei ancora galeotto, o hai finito?”, interviene Andrea. “No, ne ho ancora per un po’”, si gratta la testa. “Min*hia sei sorvegliato! Ci sono i cecchini appostati per farti fuori appena ti allontani. Ma ti hanno messo anche il coso elettronico?”, chiede Nicola. “Eh?”, scuote la testa Alessandro, e con lui gli altri. “Si, dai, quello elettronico che segnala se ti allontani. C’era anche in un film vecchio, e anche in uno che ho visto da poco…” “Ma il braccialetto elettronico?”, gli chiede Mattia.
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“Bravo! Lo vedi che quando vuoi non sei gay? Però nel film era alla caviglia!”. “Ok, però mi avete rotto i cog*****, ci sali in macchina?”, chiede Mattia ad Alessandro. “Certo che si!”, risponde lui salendo. Alessandro si siede nel sedile di dietro insieme ad Andrea. Tira su col naso: “Uhm! Odorini antichi!”, commenta. “Ah, ormai la macchina è da incendiare!”, gli dice Nicola. “Ormai mio padre me l’ha regalata. Non la vuole più così sporca!”, dice Mattia. “Pensa che l’altro giorno Osso ha vomitato, proprio dove sei seduto tu”, gli fa notare Andrea. “Ma dai, che schifo!”, cerca di spostarsi Alessandro, mentre la macchina parte. “Tranquillo, l’abbiamo lavata!”, lo rassicura Mattia. “Si, si, c’ha spruzzato il profumo della madre! Ci voleva buttare varecchina! L’ho fermato io!”, dice Nicola. “Dove andiamo?”, chiede Mattia. “Gira per fare cas*no!”, gli suggerisce Andrea. Mattia accende lo stereo. Talmente alto che la macchina vibra tutta. “A manetta!”, lo incitano Andrea e Nicola. “Ma non fa ad abbassare?”, gli chiede Alessandro. “Oh, e gli altri? Ma state ancora scendendo in piazzetta?”, chiede urlando. Gli risponde Andrea perché gli altri due nemmeno lo hanno sentito: “Dopo il ca**no ci siamo divisi in gruppetti. All’inizio siamo ritornati in piazzetta, ma ogni giorno venivano i caramba a cag**e il ca*** e allora abbiamo mollato. Ora noi stiamo un po’ in via Toti, un po’ in giro in macchina, al bar di zia Lidia, che ha messo internet e ci colleghiamo a far chiasso insieme. Gli altri boh? È da un po’ che non li sentiamo”. “E Riccardo? Avete saputo niente?”, chiede Alessandro. “E’ in comunità!”, gli dice Nicola, voltandosi. “Chi?”, chiede Mattia, abbassando impercettibilmente lo stereo. “Riccardo, che è in comunità”. “Ah, si. E chi lo sente più? Comunque siete stati due mafiosi, bravi! Non vi siete fatti le carogne, come diceva qualcuno!”, si complimenta con Alessandro. “E voi? Ca*ini?”, chiede.
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“No, Ale, a noi non ci hanno fatto un c**zo. Ma è merito vostro che non avete parlato! Certo che se ti prendeva con la pistola il giorno…”, dice Nicola. “Ma tu cosa ca*** stai facendo ora? Ti abbiamo visto in televisione. Adesso meno ma prima eravate dappertutto. Anche su internet”. “Niente. Scuola, casa, oratorio”, risponde lui, fingendo che quello che fa sia un peso, ma lo sta facendo solo perché è con loro. “Dai, che come sconti poi veniamo a prenderti noi e facciamo chiasso! Andrea, appiccia subito e fai girare, dogana!”, quasi ordina Mattia. “Cosa è successo alla macchina?”, chiede Alessandro. “Cosa?”, chiede a sua volta Mattia. “Abbassa lo stereo!”, gli dice allungando una mano verso il cruscotto. Nel mentre Andrea ha acceso uno spinello e tira boccate con vero piacere. “Min***a è finita! Ora se la fuma tutta!”, si dispera per finta Nicola. Mattia intanto ha abbassato lo stereo: “Cosa è che vuoi?”, chiede ad Alessandro. “La macchina…cosa ti sei fatto!”. “No, non puoi capire!”, dice Mattia. E poi sta zitto. “Eh, ok, e allora?”, gli chiede Alessandro. Mattia intanto sta cantando la canzone che esce dallo stereo. “Oh, ma mi ha sentito?”, chiede ad Andrea. “Ormai è bruciato!”, gli risponde. “OHH!”, lo tira per un braccio Alessandro. “Dimmi, uomo che si perde nei boschi!”, ghigna Mattia, smettendo di cantare. “Cosa è successo alla macchina!” “No, non puoi capire, in una settimana ho avuto tre incidenti! Minimo me l’hanno lacrimata! Ma tanto la vendo! Ho messo anche l’annuncio, ma non l’ho mica scritto che è destrata”. “Cosa?”, chiede Alessandro. La musica è sempre altissima. “Non l’ho scritto che è destrata, sennò non me la comprano. Poi ca**i loro!”. “Ah, sinistrata!”, dice Alessandro. “Nooo, destrata! Non lo vedi che tira a destra, guarda!”, dice Mattia togliendo le mani dal volante, ed effettivamente la macchina tende ad andare verso destra. “Sinistrata è se tira a sinistra, no?”, interviene Andrea. Alessandro alza gli occhi al cielo, sembra che vuole rispondere ma poi dice: 251
“Si, si…”, e lascia cadere l’argomento. “Ma sei sempre con quella tipa?”, chiede Nicola. “Si, ancora”, sorride quasi imbarazzato. “Eh, era bellina”, commenta Andrea, “Anche io sto uscendo con una tipa, troppo maiala!” Alessandro non risponde, mentre Mattia ferma la macchina, abbassa il finestrino e rutta davanti ad una anziana signora. Poi rimette in moto e parte. Nicola ed Andrea si sbellicano dalle risate, Alessandro li guarda quasi incredulo. “Eh, ma sei serio”, gli dice Andrea con una manata sulla spalla, “Toh, fuma!”, gli passa la canna. “Passo, Andre’. Ho smesso!”. “Come hai smesso?”, dice Nicola attorcigliandosi al sedile. “Non bevo neanche più”, dice lui. “Ca**o, certo che la donna e il bosco ti hanno cambiato proprio. Ma ti fanno il narcotest?”, dice Mattia, sollevandosi leggermente sul sedile e scoreggiando. “Nooo, camera a gas!”, urla Andrea abbassando il finestrino. Dopo un’oretta, la macchina si ferma. Davanti a casa di Alessandro. Si salutano con vigorose strette di mano che si sente il rumore dei palmi che sbattono tra loro. “Oh, fatti sentire. O dobbiamo aspettare che ti perdi di nuovo nei boschi? Niente avevi fumato il giorno!”. “Oh, ma te lo sei preso il cellulare, antico?”, gli chiede Nicola. “Si, ma non è che lo uso”. “Dai, che andiamo, che devo passare al bar!”, dice Mattia. Salgono in macchina, partono a fuoco e strombazzano con il clacson. “Ciao, ci sentiamo!”, li saluta Alessandro. Ma lo sanno tutti che sta mentendo. Quel saluto puzza tantissimo di addio.
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Non era mio padre
Tommaso si allontana dopo aver alzato la mano in segno di saluto, senza pronunciare una parola. Cristian resta ad aspettare sua madre. Alessandro si deve trattenere perché deve finire dei lavoretti di riparazione. Il suo debito nei confronti della Chiesa di San Giuseppe e della società non è stato ancora interamente saldato. Ultimamente Tommaso sembra più sereno, almeno un pochino. Sembra più partecipe delle cose che gli accadono intorno. È proprio anche il suo sguardo ad essere più sereno. Anche se la sua aria resta sempre come spaventata, c’è però come una piccola luce nel suo cuore. E certo che ce l’ha anche lui un cuore, ed enorme, accidenti. E ora lascia l’oratorio per rientrare a casa. Così ha chiamato la casa famiglia in forse due occasioni, salutando il prete. Oddio, Don Alfonso si è dovuto avvicinare a lui, mettere una mano intorno all’orecchio e chiedergli di ripetere, e Tommaso ha ripetuto “ciao, vado a casa”. Questo miglioramento, se così lo volete chiamare, non può far altro che fare felici tutti quanti, da Alessandro ad Annalisa, passando per Rossella. Tommaso pare più sereno, ma ha comunque un pensiero da un paio di giorni. E lo avrà per qualche giorno ancora. Naturalmente in oratorio non ha detto niente. Ok, non che sia un segreto, perché in casa famiglia lo sanno tutti, e lo sa Rossella, che lo ha detto naturalmente anche a Don Alfonso e Alessandro. A Cristian nessuno lo ha detto perché altrimenti se la canta subito, perché gli vogliono preparare una festa a sorpresa. Perché fra qualche giorno è il suo compleanno, compie dodici anni, quindi
lui un po’ ci sta
pensando. Prima, tipo anche l’anno scorso, non è che gliene fregava molto a dire il vero. Anche se in casa famiglia, e anche nella famiglie vere dove era stato, in tutti i modi avevano cercato di coinvolgerlo nei festeggiamenti. Ma quasi ci mancava che si metteva a piangere davanti alla torta. E figurarsi se permetteva che lo si abbracciasse e baciasse, e magari pure la tirata di orecchie. Una volta in una famiglia di affidamento ci avevano provato. Lui aveva preso ad urlare poi aveva tirato una sedia in testa al fratello affidativo (boh? Si dirà così?!). Quindi negli ultimi due anni anche in casa famiglia si erano ben visti da organizzare robe clamorose. Al massimo un “auguri” sussurrato e un tentativo di pacchetto. Ma poi vai a vedere in camera di Tommaso, e dentro un armadio ci sono un paio di pacchetti ancora da aprire di anni fa. 253
Però quest’anno ci sta pensando un po’ di più del solito. Sarà che magari c’era il pericolo che lo passasse dentro il bosco questo compleanno, oppure è perché adesso ha delle persone che, anche se non lo dice nemmeno sotto tortura, sono amici, e secondo me gli vuole pure molto bene. Il fatto è che è un po’ sulle nuvole. Ma niente di che, sia chiaro. Non è che sta pensando a feste e regali che vorrebbe, però sicuramente quest’anno almeno non gli dispiace ricordarsene. Ed anzi, per lui è talmente una novità pensare con un po’ più di sforzo a qualcosa di positivo che va via dall’oratorio dimenticandosi lo zaino con il quaderno. Ma tranquilli che se ne accorge quasi subito, come se un uccello provasse a volare senza un’ala (va beh potevo prendere ad esempio anche un ape, ma un po’ mi faceva senso l’idea!), così si volta e ritorna verso l’oratorio. Intanto anche dentro l’oratorio si sono accorti che l’ha dimenticato. Alessandro l’ha trovato e sta per correre a riportarglielo, insieme a Cristian. Tommaso però non ci arriva subito all’oratorio, perché come si gira si trova di fronte un uomo, dall’aspetto trasandato, con un cagnolino appresso, legato ad una corda tipo guinzaglio, e con accanto una ragazza che non si capiva se era davvero una ragazza o una vecchia dall’aspetto un po’ giovanile, messa molto male anche lei, con una sigaretta tra le mani, tutta barcollante. L’uomo lo guarda, poi guarda la tipa accanto a lui, fa una smorfia che dovrebbe essere un sorriso, e in bocca gli mancano almeno un paio di denti, e anche a lei, e poi dice ad alta voce: “Ma allora eri proprio tu, ca**o me**a!”. E poi aggiunge: “Ti ho visto dall’altra parte, mi hai visto? Non ci posso credere. Te l’avevo detto che era lui!”, da una manata alla ragazza, “Questo è mio figlio Tommy!”. Tommaso resta come pietrificato. Non riesce a parlare, a muoversi, a respirare. Sente il cuore battere fortissimo, e poi è come se gli si ferma del tutto. E tutto intorno è come silenzio, non sente più i rumori. Come un fischio nelle orecchie che copre tutto. Istintivamente stringe le mani come se avesse il quaderno, ma non ce l’ha. L’uomo gli si avvicina, strisciando il cane per terra, che non ha nessuna voglia di muoversi e si appiattisce con le zampe: “E muoviti, me**a!”, e gli dà pure un calcio prima di mollarlo alla donna. Tommaso sente un odore di fumo e sporcizia. L’uomo ha le braccia scoperte, tutte piene di buchi e tagli, e le vene che disegnano come una cartina stradale, con la pelle tutta 254
rinsecchita. È magro da far paura, ha la barba incolta, ma più che barba sono ciuffetti, e ha delle croste in faccia. “Ma dove c***o sei finito? Io sono tornato da un paio di settimane, ero fuori per lavoro. Un amico c’aveva una questione e gli ho dato una mano, mi son fatto qualche soldino”. La tizia, tutta barcollante, si avvicina, con questo povero cane striscia striscia che non ne vuole proprio sapere di muoversi, con quella corda al collo che quasi si impicca. Si inchina verso Tommaso, con tutte le sue grazie sgraziate penzolanti dalla maglietta scollata, e lo accarezza sul viso. Tommaso è sul punto di piangere. Se non fosse che era appena andato in bagno prima di uscire dall’oratorio minimo si faceva addosso. “Min**ia, ti assomiglia davvero un c*sino!”, butta fuori dalla bocca la donna, tutta sorridente. “E la mamma? L’hai più vista? È sparita anche lei, cris*o! E tu? Dove stai vivendo? Dai che vengo a trovarti. Tanto resto qui, ormai, ho chiesto al comune e forse mi danno un lavoretto, tanto adesso sto vivendo da un mio amico, e non mi fa pagare neanche affitto. Dai che ci divertiamo come ai vecchi tempi. Daniela sa cucinare troppo bene. Vero Daniela? Così parlo con l’avvocato e torniamo a vivere insieme come prima”, gli stringe un braccio, “Mi sei mancato, Tommy”. Tommaso è come se una bomba esplode. Si divincola dall’uomo con uno scatto ed inizia ad urlare, tutto rosso in viso e gonfio nel collo, agitando le mani a casaccio e piangendo di rabbia: “Lasciami stare, ca**o! Non mi toccare!”. “Ma che **zzo ti prende?”, reagisce l’uomo cercando di placcarlo mentre Tommaso retrocede di un passo, urlando parole e lettere a caso. E’ in quel momento che arriva Alessandro, e dopo un qualche istante Cristian, tutto trafelato. Alessandro corre verso Tommaso. Lo solleva da terra e lo allontana di qualche altro metro. Lo abbraccia, senza pensarci su troppo, nascondendogli il viso contro il suo petto. Ma lui è come impazzito, si divincola da Alessandro dandogli una testata sul mento, forte, ragazzi, perché si porta una mano a toccarsi e si lascia andare a qualche parola non ripetibile. Tommaso si butta a terra, gridando e piangendo. Intanto si è radunata una piccola folla, e qualcuno si ferma anche in macchina, o a guardare dall’altra parte della strada. Due ragazzini erano sul pullman e vista la scena sono scesi solo per curiosare che c’era caos e magari è una rissa, e c’è sempre da divertirsi nelle risse. Cristian è corso a chiamare Don Alfonso, che corre con la tunica che si attorciglia alle gambe, rischiando di cadere faccia a terra. 255
“Ma chi è lei? Cosa vuole? Perché sta urlando?”, chiede Alessandro all’uomo, dopo che si è riavuto dal colpo di testa. “Ma che ca**o ne so di cosa gli ha preso? Stavamo parlando e si è messo ad urlare così come un matto!”, risponde l’uomo avvicinandosi a Tommaso. “Tommy, dai, ma che ca**o ti prende? La finisci?”. Alessandro si mette in mezzo tra i due. “Che caz** gli hai fatto? Lo vuoi lasciare in pace? Non lo vedi che più ti avvicini più grida? Ma chi ca**o sei?”, gli grida contro, agitandogli le mani davanti alla faccia. “Ma fatti i c***i tuoi! Quello è mio figlio! Togliti dai co***oni!”, gli dice spostandolo con un braccio. Alessandro lascia cadere a terra lo zaino, e solo ora Tommaso alza lo sguardo e lo vede, gettandosi subito a raccoglierlo. Alessandro si lancia contro l’uomo e gli molla un pugno in faccia. L’uomo che già barcollava di suo, inciampa sulla corda e poi sul cane e cade a terra. Alessandro lo riempie di insulti e minacce tra le quali la morte e torture varie che se avete un po’ di immaginazione non vi basta nemmeno quella. “Cosa c**** ci fai qui? Ma cosa sei venuto a fare? Padre? Ma come ti permetti di chiamarti padre, brutto str**** maledetto?”. L’uomo si alza a fatica, ancora molto stordito: “Ma tu lo sai chi sono io, coglio**? Ora ti devo pungere!”, lo minaccia tirando fuori un coltello. Alessandro deve essere in crisi mistica da giustiziere della strada perché si avvicina con il petto e gli dice “e pungimi dai pungimi”. Tommaso intanto stringe il suo quaderno tra le mani, ha smesso di sbraitare. Arriva finalmente don Alfonso che con una manata allontana Alessandro e con il fiatone si rivolge all’uomo: “Signore, ma che succede? Metta via quel coltello, vuole fare del male a qualcuno?”. “Fuori dal c****, prete! Ora lo devo pungere!”, grida l’uomo agitando il coltello. Intanto qualcuno dei presenti ha chiamato la polizia. La donna se n’è accorta: “Quello str***o ha chiamato la polizia, scappiamo!”, lo avverte. L’uomo si volta verso di lei, Alessandro allora lo vede distratto e ne approfitta per dargli un calcio nella mano e gli fa volare il coltello, poi si stacca dal prete che immediatamente ha cercato di bloccarlo e sta per saltare addosso all’uomo che si copre il viso con le mani lanciando un gridolino acuto di paura. 256
“Fermati, non picchiarlo!”, grida Tommaso. Alessandro si ferma. In effetti tutti si fermano. Restano zitti a guardare. Tommaso va verso l’uomo, con in mano il quaderno. Glielo mostra aperto. “Questo è per te, l’ho disegnato io…”, gli dice. L’uomo prende il quaderno e lo sfoglia. Poi guarda Tommaso, poi Alessandro, che gli dice: “Vattene, e non venire mai più. Perché se ti rivedo per strada ti ammazzo”. Si sentono delle sirene in lontananza. I due scappano, lasciando il cagnolino con la corda al collo. Arrivano due macchine della polizia. Una si ferma, l’altra li insegue. E’ Alessandro dopo a spiegare in casa famiglia cosa è successo. Li avverte di stare attenti, e che forse è il caso per un po’ di accompagnare Tommaso quando esce. Tommaso non dice una parola, si richiude in camera sua, ma prima bisbiglia qualcosa ad Alessandro. A lui sembra che abbia detto grazie. “Gli ha dato il quaderno”, spiega poi ad Annalisa ed agli altri operatori.
“Bau”, dice nel mentre don Alfonso al cane. Lo ha liberato dalla corda che aveva al collo. “Maria Santissima! Ci mancava solo quello a sporcare!”, protesta Benedetta.
L’indomani mattina, Alessandro accende la televisione mentre fa colazione. Stanno trasmettendo il telegiornale locale. Parlano di un tipo che è stato arrestato. Mostrano una foto. Alessandro riconosce quel viso. Si accarezza le nocche.
Intanto a casa del Barone, si, insomma, nella reggia, proprio il Barone è nel suo studio. Apre una cassaforte e tira fuori dei fogli. Sono delle lettere scritte a mano. Sono tutte firmate Alberto Federico. Poi viene distratto da un allarme che suona. Richiude i fogli nella cassaforte e si precipita in una stanza dove ci sono tre persone davanti ad una marea di monitor. “C’è un uomo al cancello, Barone, abbiamo già informato la sicurezza”. Davanti al cancello c’è un uomo vestito di stracci, con indosso un paio di stivali, e alcuni cani al seguito. E’ Boicco, il matto con gli stivali. Dall’altra parte del cancello c’è Alberto Federico. Faceva una corsetta intorno alla villa, poi incuriosito dai cani si è avvicinato. I due si guardano. 257
“Lei ritornerà, non preoccuparti. Non ci lascia mai soli”, gli dice il matto. Alberto Federico accenna una domanda, ma arrivano degli uomini armati come in guerra, usciti da qualche altro ingresso, accerchiano il matto con gli stivali e disperdono i cani, cacciandolo senza troppi complimenti. “Salutami il Barone!”, fa in tempo a gridare ad Alberto Federico. “Ancora tu!”, commenta sottovoce il Barone, osservando la scena dalle telecamere.
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Non sono mica Cenerentola
La grande sala era illuminata a giorno. La musica sinfonica dell’orchestra allietava i discorsi dei presenti. Sorridevano tutti mentre parlavano tra loro. Prodighi di riverenze verso coloro che incontravano. Tra le mani calici di pregevole fattura e vini e nettari dal gusto pieno che lasciavano estasiato il palato. Camerieri che quasi volteggiavano tra gli invitati, sorreggendo vassoi carichi di caviali e preziosità culinarie preparate con artistica perizia. Un buffet degno di un re orientale. Abiti in esemplari unici, alcuni forgiati appositamente per l’occasione. Accessori sfoggiati con fascino altezzoso. “Complimenti, signora Contessa. I suoi galà sono sempre in grado di suscitare invidia”, si complimentò un consigliere. Il gota locale si era riunito nella Villa Finzini per celebrare il nuovo ingresso del Barone Alberto Federico Buddenbrook nell’alta società, tra i suoi pari. Tra lo scintillare degli scatti fotografici, i partecipanti venivano immortalati in pose orgogliose e raggianti. E mentre la Contessa si intratteneva a salutare ciascuno dei convenuti, il Barone imbastiva comizi con politici e diplomatici. Alberto Federico, sorvegliato da lontano da Anselmo, su ordine della Contessa, chiacchierava, senza troppo entusiasmo con la marchesina Carolina Esmeralda Finzini, capace di tediarlo, senza che lui, educatamente, lo rendesse palese, richiamando alla sua memoria ricordi dei momenti passati insieme, anche avendo l’ardire, con vera impertinenza, di fare riferimento ai loro incontri più intimi. “Anche se non ti ricordi, però, si vede che il tuo carattere non è cambiato. Non arrossivi nemmeno allora, quando ti dicevo certe cose”, sorrideva con garbo, ma allo stesso tempo lasciva, la marchesina. “Ti diverti a questa festa?”, le chiese poi, quasi illuminandosi, Alberto Federico. “Mah, è un po’ noiosa, in effetti. Ti ricordi i nostri festini?”, gli disse complice. “Già…”, dissimulò lui, sorridendo forzatamente. “Senti, senza dare troppo nell’occhio, perché non ci allontaniamo e cerchiamo un posto più adatto dove stare un po’ tranquilli?”
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“Io e te soli, intendi?”, chiese lei fingendo di non capire. “Qui non mancano certo le stanze per stare un po’ soli…” “Sei un birbantello, lo sai, piccolo Barone?”, disse lei divertita. “Lo so, lo so. Però ora è meglio se ci separiamo un attimo. Tu vai al buffet, poi io ti faccio un gesto e usciamo, prima tu, poi io, ok?”. “Mhm…sei davvero intrigante…”, gli disse sfiorandogli il viso con la mano inguantata, per poi allontanarsi. Del fatto approfittò immediatamente un uomo, che attendeva poco distante il momento propizio per avvicinarsi ad Alberto Federico. “Signorino Barone, ben tornato. Come sta?”, gli chiese. “Bene, grazie. Con chi ho il piacere?”, chiese a sua volta Alberto Federico, stringendogli la mano, e notando l’anello, come il suo. “Oh, voi non mi conoscete. Anche se ritengo siate stato istruito a dovere” “Come scusi? Non capisco”, chiese dubbioso. “Stai tranquillo, il Barone ci ha spiegato. Non serve fingere oltre”, disse l’uomo, ed il tono della sua voce cambiò. “Mi scusi, ma io non so proprio di cosa parla”, si inalberò leggermente Alberto Federico. “Non dirmi che davvero…Ed io che pensavo fingeste tutti e due”, si sorprese l’uomo. “Fingere? Perché? Si può sapere chi è?”. “Ma allora il Barone sta davvero agendo per proprio conto? E io che sospettavo fosse stata una…”, sbuffò, “Allora ha detto il vero”, commentò ad alta voce. Poi aggiunse, con finta reverenza: “Scusate, signorino Barone, ma devo lasciarvi”, e si allontanò da lui, mentre il Barone, osservata la scena, si scusò coi suoi interlocutori e lo seguì. Alberto Federico restò basito per qualche istante, poi notò Carolina Esmeralda che lo osservava ansiosa, allora lui le fece il cenno che lei attendeva. La Contessa notò con vivo piacere i due che si allontanavano furtivi, chiamò così a se Anselmo e gli diede libertà per il tempo necessario a lasciare soli i due ragazzi. “Non volevi andare in stanza?”, gli chiese lei, mentre uscivano dalla residenza.
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“Eh, non penserai che possa cedere subito alla tue lusinghe, vero?”, le disse tenendole una mano. Lei arrossì. Si allontanarono, immergendosi nel lussureggiante giardino che adornava l’esterno della villa Finzini. Alberto Federico pareva diretto verso un punto preciso. Alcuni uomini di guardia li notarono, ma, riconosciutolo, con un gesto di intesa si allontanarono. Giunsero ad una fontana, attorniata da alcune panchine in pietra e marmo finemente scolpite. “Tu siediti ed aspettami qui, va bene? Ho una sorpresa per te. Chiudi gli occhi però”, le disse Alberto Federico. Poi si dileguò tra le fronde. Bussò delicatamente alla porta. Osservò l’orologio e pensò che forse non era troppo tardi. Si rammaricò del fatto che fosse riuscito a trovare il modo di allontanarsi dalla Villa Finzini solo in tarda serata. Durante le sue sedute di jogging aveva scoperto che era possibile accedere e lasciare la residenza in modo assolutamente anonimo. Lo assistettero la fortuna, una buona memoria per i numeri e la distrazione dell’addetto alla sicurezza, ebbro del clima solenne della cerimonia. Era ormai buio. Pensava che sicuramente Alessandro fosse già uscito per andare alla festa che era stata organizzata alla casa famiglia per il compleanno di Tommaso. Insistette nel bussare perché vide la luce accesa. Dall’altra parte della porta udì un mormorio di protesta. Una voce lenta e difficile. Marianna stava sdraiata sul divano. Non appena sentì qualcuno bussare si rigirò su se stessa, protestando di lasciarla in pace. Ma Alberto Federico insistette. “Marianna, ci sei?”, la chiamò con voce non troppo alta, mentre bussava con più veemenza. Marianna riconobbe la sua voce e dopo aver sgranato gli occhi nascose la testa coprendosi con un cuscino. “Vattene via, non c’è Alessandro”, mormorò con voce ovattata. “Dai, Marianna, lo so che ci sei. Apri, per favore?”, insisteva lui. Lei si alzò con movimenti lenti e si trascinò verso la porta. Ci si appoggiò contro. Ascoltò su di se le vibrazioni di quei battiti, e con l’orecchio accostato sentiva la sua voce che la chiamava. Lui si accorse della sua presenza:
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“Marianna, sei qui dietro? Tutto bene? Mi apri, dai? Sono fuggito dalla festa più noiosa del mondo. Ho bisogno di una faccia piacevole da guardare”. “Allora vai da un’altra parte. Oggi sono bruttissima”, rispose lei. “Eh, non lo so, dovrei vederti per poterti giudicare…”, disse con prontezza. Lei socchiuse gli occhi, tra una piacevole paura ed una timorosa contentezza. “Sei furbo tu…”, disse con voce tremante. Lui attese qualche istante: “Allora, posso entrare? Però se vuoi possiamo anche parlare così, basta che prometti che resti qui accanto. Non so quanto sia piacevole stare a parlare con una porta”, sorrise lui. “Bussa ancora, per favore”, chiese lei, aderendo con il petto alla porta. Lui scosse leggermente la testa, dubbioso, per poi colpire con dolcezza. Toc! Toc! Lei vibrò al ritmo di quelle percussioni. “Ancora…”, sussurrò lei. Alberto Federico sorrise, e bussò ancora. Toc! Toc! Lei strinse i pugni contro la porta, lasciando che le unghie vi raschiassero contro. “Ancora…”, pretese dolcemente lei. Toc! Toc! Marianna gemette serrando le labbra, poi ansimò lieve, abbassò il capo, chiuse gli occhi ed aprì. “Ciao”, la salutò lui. “Siediti pure”, lo invitò lei allontanandosi verso il bagno, dove si lavò la faccia con acqua fredda e prese fiato ascoltando il battito del proprio cuore. Si ritrovò a piangere senza che le riuscisse di smettere. Nel salone, Alberto Federico si sedette. Attese per qualche minuto, poi si alzò e si avvicinò al bagno. “Tutto bene, Marianna?”, le chiese bussando. “Si, si…”, cercò di tranquillizzarlo lei, con tremula voce, nel tentativo di smettere di piangere. “Sei sicura? Stai piangendo?”, chiese ancora.
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“Ho detto di si!”, urlò lei, “ma che ca*** vuoi da me?”, aprì la porta, e continuò a gridare con la faccia contro la sua, spingendolo e colpendolo sul petto con i pugni, “Ma perché non te ne torni a quella maledetta festa? Non sei contento che tutti quegli amici di tuo padre siano venuti a leccarti il **** ora che sei ritornato? Perché non vai a goderti il tuo cognome? Lo sai tutto quello che ho passato per colpa di quel maledetto cognome? E quello che ancora sto passando? Ma perché non te ne torni da quel figlio di ******** di tua padre e da quella ****** di tua madre! Ma lo sai quanto li odio?”. Lui la guardava e la ascoltava, senza reagire in alcun modo. Lei continuava a sbraitare, poi lo prese per il bavero della camicia: “Sei un vigliacco come loro. Sono qui ad offendere la tua famiglia e non reagisci. Che ca*** di gusto c’è a litigare con uno come te?”, concluse lasciando la presa e dirigendosi verso il divano, dove si sedette. Lui la raggiunse dopo un attimo. “Hai bevuto?”, le chiese. Lei si asciugò gli occhi e sbuffò: “A parte che non sono fatti tuoi. Ho appena iniziato, tranquillo, non sono sbronza. Quindi tutte le cose che ho detto te le tieni, e se non ti va bene te ne vai, la porta è là”. Lui si sedette davanti a lei, si voltò a guardare la porta: “Lo so che quella è la porta, ci ho parlato prima per almeno cinque minuti”, sorrise. Lei lo guardò, cercò di trattenersi, ma poi sorrise anch’essa. “Sei un vero buffone!”, gli disse, mentre lui afferrò la bottiglia poggiata sopra il tavolino. “Alessandro mi ha detto che ha provato di tutto. A nascondertele. A prenderti i soldi. A bersele lui, eh già. A buttarle, a romperle. Ma tu riesci sempre a procurartene. Ora questa però la buttiamo!”, disse dirigendosi verso la cucina. “Uffa! Ma che volete tutti da me? Mio figlio deve imparare a farsi i fatti suoi! So badare a me stessa, non ho bisogno di una balia. E tanto anche se me le buttate se voglio me le ricompro. Ma io smetto quando voglio, siete voi che non lo capite”. Si alzò, leggermente barcollando, afferrò di scatto un bicchiere poggiato sul tavolino:
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“Ti sei dimenticato quest…porc********!”, gridò stizzita, dopo che il bicchiere le scivolò dalla mano, spaccandosi. Alberto Federico accorse: “ Ti sei fatta male? Siediti sul divano. Ci penso io, dimmi solo dove posso trovare una scopa ed una straccio”. Lei gli indicò l’andito, mentre si lasciava cadere sul divano, portandosi una mano sulla fronte: “Che figura di m*****”, disse a se stessa, mordendosi il labbro Alberto Federico si inoltrò nell’andito, si fermò di fronte ad una porta che trovò socchiusa. Contò con le dita le porte dell’andito, e con non troppa convinzione aprì ed entrò. “L’hai trovato lo sgabuzzino?”, chiese Marianna. Non ottenendo subito risposta si riebbe come da un leggero torpore: “Ca***, non entrare in quella stanza!”, gridò correndo verso di lui. Alberto Federico restò immobile, cercò l’interruttore della luce elettrica ma non ebbe modo di premerlo perché la sua mano fu afferrata con violenza da quella di Marianna, che lo spinse fuori dalla stanza bruscamente. “Che c**** ci fai qui dentro? Vattene subito! Fuori! Vattene!”, urlava Marianna, mentre lo spingeva in avanti. Lui cercava di opporsi, ma non voleva rischiare di essere eccessivo, limitandosi solo ad una ostruzione non troppo convinta, investito come fu dall’impeto di Marianna. “Ma che ho fatto? Che succede?”, chiedeva, mentre lei continuava a spingere ed urlare. Giunsero fino alla porta, contro la quale Alberto Federico si lasciò sbattere: “Io non vado da nessuna parte se prima non ti calmi e non mi spieghi!”, le disse lui con tono ancora pacato, cercando di tranquillizzarla, mentre teneva le mani alte sulla testa o larghe, lontane dal busto. Marianna era come in preda ad una crisi isterica, urlava e piangeva: “Ti ho detto di andartene!”, lo colpì con uno schiaffo. Lui non reagì, continuando a fissarla negli occhi. Lei ammutolì. Indietreggiò di un passo. Si portò la mano sulla bocca. Restò in silenzio per un po’.
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“Cosa ti succede, Marianna?”, le chiese tendendo una mano verso di lei, che la colpì, allontanandola. Ma lui gliela ripropose. Lei allora la afferrò con entrambe le mani e la morse. Con forza. Lui digrignò i denti. Trattenne un sussulto di dolore, e con l’altra mano la accarezzò sul viso. Lei continuò a mordere, mentre piangeva, ma con sempre meno intensità nel mordere, e sempre più nel piangere, fino a che non allentò la presa. Alberto Federico non ritrasse la mano, la poggiò lievemente sull’altra guancia. Avvicinò il viso al suo: “Non ti devi chiudere come quella stanza. Ti devi fidare di me. Permettimi di entrare”, le disse con voce calda, mentre i suoi occhi le sorridevano. “Ho paura, non posso…”, sussurrò lei, chiudendo leggermente gli occhi. Per poi far scivolare il viso da quelle carezze. Lui guardò la propria mano, sulla quale era impresso il segno dei suoi morsi. “Non ero venuto per vederti piangere, scusami”, le disse, voltandosi ed aprendo la porta. “Non andartene…”, riuscì a pronunciare lei, tra le lacrime. Lui si voltò, le posò il pollice della mano destra sotto l’occhio sinistro, e dolcemente le asciugò una lacrima. “Ti va di andare ad una festa? Anche se penso che ormai sia già finita”, le chiese sorridendo. “Prometto che ti riporto a casa prima di mezzanotte”, aggiunse. “Sperò di no”, disse lei, accennando un sorriso, “Non sono mica cenerentola”.
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Ritorno all’Eden
“E’ proprio sicuro che non ci sia un altro sentiero?”, chiese Alberto Federico per l’ennesima volta. La guida rispose sconsolata che, secondo la mappa e gli ultimi rilievi fotografici, stavano percorrendo l’unico sentiero conosciuto in quella zona: “Se avessimo a disposizione un elicottero potremmo provare dall’alto, ma sarebbe quasi impossibile individuare i sentieri, vista la vegetazione. Ha visto quanto sono folte quelle fronde? In certi punti filtra a malapena la luce del sole”, rispose. Alberto Federico sbuffò con scoramento. “Dopotutto ho girato un sacco in tondo senza nemmeno incontrarlo uno di questi sentieri”, commentò guardando Marianna, che sollevò le spalle sorridendo quasi a consolarlo. “Ma allora Pasqua non la ritroviamo?”, chiese con viva preoccupazione Cristian, che camminava mano nella mano con Silvia, che passeggiava stretta dolcemente al braccio di Alessandro. Tommaso restava leggermente in disparte, ogni tanto accarezzava una foglia. L’idea di organizzare una gita al Parco Naturale del Gran Paradiso era stata di Alessandro, su suggerimento di Cristian. Tommaso e Silvia furono coinvolti a prescindere da una loro eventuale accondiscendenza. La presenza di Alberto Federico fu messa invece in forte dubbio, ma dopo i festeggiamenti per il suo reingresso ufficiale in società, la sua disponibilità di libera uscita era divenuta quasi illimitata, tanto che le prestazioni di Anselmo furono catalogate come non essenziali ed attivabili a sua personale richiesta. Tutto questo accadde perché la marchesina Carolina Esmeralda Finzini, a tal punto offesa e sconcertata dal comportamento di Alberto Federico, che la lasciò in trepidante attesa per delle ore, seduta su una panchina, per mantenere vivo il proprio orgoglio ed intatta la propria dignità di donna, lasciò intendere alla Contessa che tra loro ci fossero stati momenti di passione ed intimità. Alberto Federico, a tali, neppur troppo velate allusioni da parte della propria madre, seppur con malcelato imbarazzo, reagì confermando, con il dovuto garbo che si addice ad un galantuomo, tali ipotesi. La Contessa venne come travolta da un tale moto di
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letizia che concesse al figlio di poter disporre di una libertà d’azione e di movimento che egli neppure avrebbe mai osato immaginare. Fu così che lui stesso estese l’invito anche a Marianna, e l’occasione per rivisitare quei luoghi a lui così familiari si presentò il pomeriggio della domenica seguente al gran galà. “Non vedi niente che ti sia familiare? Sono già più di due ore che camminiamo”, gli chiese Marianna. “No, questo non sembra per niente il bosco dove ho vissuto. E’ incredibile, però. Per quanto sia enorme questo posto…”. “Tu, Ale? Riconosci qualcosa?”, chiese al figlio. “No, ma non posso essere sicuro. Noi ci siamo stati troppo poco, e poi io ero concentrato sui miei passi, per ritrovare la strada. Pensavo almeno di ritrovarmi vicino al fiume, ma era completamente diverso da come lo ricordavo. Almeno credo. Mi ricordo bene solo le pietre”. “Già, le pietre…”, sospirò sorridendo Alberto Federico. “Ah, le famose pietre! Quelle si che le avrei volute vedere! Chissà, magari tra qualche centinaio di anni saranno ancora lì e ci saranno archeologi a studiarle”, disse con curioso entusiasmo Marianna. “E poi sarei proprio curiosa di vedere questa statua. Chissà cosa ci facevi, vero, maiale?”, disse poi ad Alberto Federico, pizzicandolo sul braccio. “Ahi!”, si lamentò con buffe smorfie. Si guardarono e sorrisero. “Te l’avevo detto!”, gongolò Silvia, indicando i due ad Alessandro. “Si, si…Ma guarda che sono solo amici!”, si stizzì leggermente lui. “Le parlavo. Mi confidavo con lei. Forse qualche volta ho pure pregato. Mi è venuto naturale. Mi dava una sorta di pace. Una serenità che non ti saprei spiegare. Come qualcosa di familiare. Quella del tempio era diversa”, le disse Alberto Federico. “Quale tempio?”, chiese Marianna. “Quando girovagavo senza meta come un pazzo per il bosco”, spiegò lui, “Ad un certo punto ho trovato i resti di una costruzione. Sembrava qualcosa di antico. Sai, le colonne, i capitelli. In piedi ne era rimasto poco, a dire il vero. E c’era quella statua, anche se aveva un altro
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nome, e delle scritte che non saprei dirti in quale lingua. E’ lì che ho incontrato Pasqua. Ho chiesto alla guida, ma non c’è nessuna notizia di resti di un tempio o roba del genere nel bosco. Magari ho sognato tutto…”, rise. “Che ridi, adesso?”, gli chiese lei. “No, è che, se ci penso, forse ho davvero sognato tutto. Se ti raccontassi come ci sono arrivato lì, mi prenderesti davvero per pazzo”. “Dai, racconta!”, lo esortò lei con viva partecipazione. “Ho inseguito un coniglio dentro una grotta…Un pertugio nel quale sono riuscito a malapena ad entrare. E poi, dopo aver strisciato per non so quanto dentro un cunicolo che si riduceva sempre più, sono sbucato fuori dal fianco di una rupe, e lì, a qualche metro c’era quel coniglio. Che mi ha guardato. Poi Pasqua ha abbaiato, ed è scappato”, quasi sussurrò con imbarazzo. Marianna lo guardò con stupore, come fosse stato un bambino che avesse appena raccontato un sogno. “Magari era bianco il coniglio?”, gli chiese trattenendo una risata. “Già…”, rispose lui, arrossendo e grattandosi la nuca. Risero entrambi. “Sembra tutto così distante”, sospirò poi, quasi nostalgico, Alberto Federico. “Certo che la tua vita è cambiata totalmente, e in così poco tempo. Pensavi di essere l’unico uomo sulla faccia della terra, poi hai scoperto di avere una famiglia. E che famiglia…”, Marianna si morse leggermente il labbro inferiore, “No, dai, oggi no, te l’ho promesso”. Lui la guardò: “Ho conosciuto voi”, indicò i ragazzi con lo sguardo. “Al di là del cognome che porto. Al di là di questo nome che non so se mi appartiene, siete voi, ora, la mia famiglia”, le disse con dolcezza. Marianna sentì il cuore battere più forte. “Non so come sia possibile”, parlò ancora Alberto Federico, “Ma non ho conosciuto il significato della parola libertà se non dopo essere uscito da questo bosco. Pensavo mi tenesse prigioniero, ma non ne sono più così convinto. Non so cosa sarebbe successo, se invece di una
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famiglia così, come dire, importante…Ma forse non è il termine più appropriato. Il fatto è che ci sono tali rigidità, tutte quelle convenzioni, che, forse – non lo so, lo ipotizzo soltanto – in un’altra situazione, invece, con tutte le cose che sono più semplici…Non so se mi capisci, non riesco a spiegarlo bene”. “Forse è adesso che ti senti prigioniero. E libero lo eri prima”, gli suggerì Marianna. “Non lo so”, rispose pensieroso, “Non credo dipenda solo da questa famiglia, da questo cognome, da questo mondo che sembra fuori dal mondo stesso…” “Dal mio di sicuro. E anche da quello delle persone normali”, lo interruppe Marianna. Lui stette in silenzio per un po’. “Scusa, non ti volevo interrompere. Continua pure”, ora Marianna gli cingeva un braccio e camminavano a passi lenti. “No, tranquilla. Non è che abbia tanto da dire sull’argomento, sono molto confuso. Ho sempre avuto dentro di me la sensazione di fare parte di qualcosa. Una famiglia, forse, certo. Ma sono anche un po’ spaventato. È come se dovessi imporlo a me stesso”, la guardò, “O forse, più probabilmente, ci vuole molto più tempo”. “Secondo me tu hai paura di ricordare”, disse lei, fermandosi e costringendo dolcemente anche lui a sostare. “Come?”, chiese lui sorpreso da quel commento. “Tu hai visto ora quale era la tua vita. Hai vissuto qui per tanto tempo, ed eri te stesso. Questa è la tua anima. È quella che è nata e cresciuta qui. Prima per quanto ne so eri un vero idiota. Ora sei diventato un eroe, sei un buon amico per loro”, gli indicò i ragazzi, “E quasi hai una buona influenza su di me…”. “Mi fa contento, questo…”, si intromise lui nel suo discorso. “Zitto, aspetta, non mi far perdere il filo con le tue smancerie”, gli sorrise lei, “Quello che vorrei farti capire e che tu ti piaci, per quello che sei ora. Anche perché è logico che sia così. E la possibilità di diventare qualcosa di diverso ti spaventa moltissimo. Sbaglio?” “Caspita”, commentò lui aggrottando il mento. “Come sei profonda quando sei sobria”, le disse. “Che str****!”, si indispettì lei, divincolandosi da lui.
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“Non parlarmi più”, gli disse offesa, chinando il capo. Lui si abbassò in modo tale da poterla guardare in faccia, sorridendole: “Pace?”. Lei mugugnò parole che lui non riuscì a capire. “E’ un si?”, chiese lui divertito. “Per me è un si!”, la prese sottobraccio, mentre lei opponeva una lieve resistenza per poi cedere a quel suo gesto. “Se ti permetti un’altra volta, vedi quello che ti succede!”, gli disse lei con tono fintamente minaccioso. “Promesso!”, rise lui. “Oh, mamma!”, si portò una mano sugli occhi Alessandro, “Sono inguardabili!”, commentò. “Sembrate voi due!”, gli disse Cristian, suscitando le risate di Silvia. “Guardate là”, sussurrò ad tratto Tommaso. Tranne Cristian nessuno fu in grado di percepire la sua voce. Infatti fu l’unico a voltarsi, e lo vide immobile di fronte ad un cespuglio, con il braccio teso ed il dito a puntare dentro il bosco. “Aspettate!”, gridò Cristian, e tutti si fermarono, “Tommaso ha trovato qualcosa”. Alessandro fu il primo ad avvicinarsi, e quasi restò senza fiato. Alberto Federico, invece, dopo un iniziale stupore che lo rapì radicandolo in quel punto, si commosse tanto da piangere. E corse, penetrando dentro il bosco, facendosi largo tra le fronde. “Che gli prende?”, chiese Marianna, incredula di fronte a quella reazione. “Corri, mamma!”, la esortò Alessandro, mentre tutti scattarono verso la stessa direzione, “Quella è una delle pietre!”. Giunsero quasi all’unisono. “La a!”, si entusiasmò Alessandro. Alberto Federico restava inginocchiato di fronte alla pietra, accarezzando le lettere che egli stesso aveva inciso. Si voltò a guardare il sentiero non troppo distante e sorrise, ma era un sorriso bugiardo.
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“Ho girato in tondo per non so quanto tempo, e invece c’era un sentiero a cinquanta metri…”, commentò, mentre Marianna gli posò una mano sulla spalla. Proseguirono nel cammino, all’interno del bosco, facendosi largo tra la vegetazione, in assenza di un sentiero. La guida non poteva trattenere il proprio stupore, e con imbarazzo giustificava la propria ignoranza: “Non lo avrei mai immaginato! Purtroppo i fondi di cui disponiamo non ci permettono di fare una stima completa del territorio. Anche io sono poco più che un volontario”. Alberto Federico si tratteneva per alcuni istanti di fronte ad ognuna delle pietre, in silenzio. Chiudeva gli occhi e sembrava assorto in pensieri complessi, perché la sua espressione non era serena. Marianna gli restava accanto, ma senza parlare. Cristian continuava a chiedere a Tommaso come fosse riuscito a vedere la pietra dal sentiero, lui rispondeva sollevando le spalle. Trovarono, come in logica sequenza tutte le altre pietre, completando l’alfabeto, così come Alessandro lo aveva immaginato durante il suo angoscioso peregrinare senza meta. “Alla fine formano davvero un sentiero”, commentò quasi a darsi ragione, “E dopo la - z – dovrebbe esserci…”. Si erano addentrati parecchio nel cuore del bosco, ed erano giunti ai piedi di una roccia, dalla cui sommità sgorgava acqua che precipitava dando vita ad una piccola cascata. Coperta dal velo d’acqua, si stagliava una figura di donna, rozzamente scolpita nella pietra. “Eccola”, Alberto Federico la indicò a Marianna. “Bentornato a casa”, gli sorrise lei, accarezzandogli un braccio.
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Il lavoro nobilita, ma se uno è già nobile?
“Va tutto bene? Non per farmi i fatti tuoi, ma sei molto pensieroso”, gli chiede Alessandro, dopo che si è seduto accanto a lui, su di una panchina dell’oratorio. Alberto Federico sospira, si volta a guardarlo e gli sorride. “Sto ancora pensando a questa assurda storia. Ero convinto chissà di che cosa. Mi sembrava di averci capito qualcosa ed invece ora sono più confuso di prima”, dice ad Alessandro. “Secondo me ti stai stressando troppo. Guarda che ci siamo finiti anche noi in mezzo a quel bosco e ho davvero paura che non ne saremmo usciti senza seguire il cane, quindi può essere plausibile che anche tu…”, prova a dire Alessandro, ma Alberto gli parla sopra interrompendolo. “Tre giorni può darsi, ma io, dai! Da quanto tempo c’ero lì dentro? E per tutti questi dodici anni che fine ho fatto? Sembra assurdo anche a me! Sono riandato tutti i giorni questa settimana, ma niente! Il sentiero era lì a qualche centinaio di metri, ed io non l’ho mai trovato? Lo sai cosa sto iniziando a pensare?”. Alessandro lo guarda senza sapere cosa dire, e infatti non fa in tempo a dire niente perché Alberto continua a parlare e si risponde da solo. “Mi viene da pensare che non è vero che mi ci sono perso. Magari mi stavo nascondendo. Magari mi sono inventato di aver perso la memoria, e invece in quel bosco c’ero da un paio di giorni al massimo! Dopotutto qualcuno mi ha sparato, e mia madre si è lasciata sfuggire che mio padre ha mandato investigatori privati in giro per il mondo a cercarmi e mi hanno avvistato dappertutto, su isole tropicali e grandi capitali. Se sono sparito per così tanto tempo magari è perché sono scappato. Ma da cosa? Magari la memoria l’ho persa solo da poco. Magari sono caduto. Magari…” “Magari ti hanno rapito gli alieni!”, questa volta Alessandro lo interrompe, “Certo che te ne fai di film assurdi!”, gli dice battendo le mani e scuotendo la testa. “Io non ci ho capito niente di quello che hai detto. E secondo me neanche tu. Però ti voglio dire solo una cosa. Guarda quel ragazzino”, gli dice ancora indicandogli Tommaso. “Quello si che avrebbe tutti i motivi per voler dimenticare il suo passato. Oh, magari ci sta pensando ogni istante. Non lo voglio neanche sapere cosa c’ha in testa! Però l’hai visto anche tu alla sua festa di compleanno, qualche sorriso lo ha pure accennato. Lui vive
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il presente. Caro zio, mi sa che è ora che inizi pure tu!”, gli dice alzandosi e dandogli una pacca sulla spalla. “Ti devi trovare qualche cosa che ti impegni il cervello. Ne hai di sicuro di cose da fare, che sei l’erede di un piccolo impero!”, conclude con una smorfia divertita Alessandro, che poi si allontana. Alberto Federico resta pensieroso ad osservare Tommaso in lontananza.
Prima di lasciare l’oratorio decide di entrare dentro la chiesa, con l’intenzione di uscire dal portone principale, o forse per fare una preghiera. Incrocia una donna che sorridendogli gli dice: “Se si vuole confessare, ora è libero”, e gli indica la cabina del confessionale. Alberto Federico si avvicina incerto, quasi meccanicamente. Osserva per un po’ l’inginocchiatoio, poi si inginocchia con il viso davanti al pannello traforato. “Apri il tuo cuore a Nostro Signore”, dice Don Alfonso Maria, seduto dentro il confessionale, senza rendersi conto che dall’altra parte c’è Alberto Federico. Alberto Federico resta per un po’ a pensare, tanto che il prete gli chiede se si sente bene, poi però parla e dice: “Posso chiedere il perdono, padre?”. “Certo, figliolo. Dio concede a tutti il perdono, purché il pentimento sia sincero. Quali sono i tuoi peccati?” “Io non lo so, io non lo ricordo…”. “Barone?!”, si lascia sfuggire soprapensiero don Alfonso Maria. Alberto Federico, dopo un attimo di titubanza, come se lo hanno sorpreso a rubare qualcosa si alza di scatto ed esce correndo dalla chiesa. Don Alfonso viene fuori dal confessionale ma riesce solo a vederlo uscire dal portone. Dopo una lunga corsa, Alberto Federico si ferma a prendere fiato: “Qualcosa che mi impegni il cervello…altrimenti impazzisco…”, dice a se stesso tossendo.
E se ci pensate bene Alberto Federico ne ha ben altre di preoccupazioni, e di cose da fare, soprattutto grazie a sua madre. La Contessa infatti lo vuole a tutti i costi trasformare nel figlio perfetto: l’erede dell’impero dei Buddenbrook. Per fare questo inizia a sottoporlo ad una serie di torture fatte di riunioni conoscitive con docenti di diritto e di economia, e anche di galateo e di tecniche di comunicazione. Insomma, ve lo immaginate?, lui che 273
qualche tempo fa, per quanto ne sappiamo, viveva in un bosco e a malapena parlava con un cane, a studiare e ricordarsi tutte queste cose, che poi la memoria gli funziona benissimo, e quello che gli dicono gli resta in testa molto bene, e quindi altro che amnesia, però di ricordarsi chi era e della sua vita precedente non se ne parla neanche. La Contessa in tutto questo però è sola, perché in tutti i modi c’ha provato a chiedere la collaborazione del Barone che sembra invece del tutto estraneo alla cosa, e, anzi, la smonta ogni volta che lei gli parla di questa idea di vedere il figlio a capo della dinastia. Il Barone le dice che è ancora lontano il tempo per il re di abdicare, si proprio così le ha detto una volta, e che un minorato - si proprio così ha chiamato il figlio - non può essere messo in una posizione di comando in nessun caso, nemmeno se è il figlio del padrone. Alberto Federico per fortuna non ha mai sentito suo padre chiamarlo minorato o alzare la voce contro la Contessa svilendola e umiliandola per queste idee che lo vedono protagonista. Di certo lui non sprizza entusiasmo da tutti i pori, ma nemmeno gli dispiacciono le attenzioni della madre. Perché anche se si sente un po’ soffocare, e cerca ogni volta che gli è possibile di fuggire via, riconosce le sue buone intenzioni di garantirgli un futuro, lui che orami quasi si è rassegnato a non avere un passato, anche se non può condividere con lei la stessa visione del futuro, sembrandogli così alieno tutto quello che sta vivendo ora. Certo se l’idea fosse nata dal Barone gli sarebbe sembrata sempre plausibile ma sicuramente c’era qualcosa sotto, perché non è che si fida molto del padre, anche perché è ancora turbato dal discorso che quel tipo gli aveva fatto alla sua festa, e se anche ci prova a concentrarsi su questo progetto della madre, nella sua testa ancora gli frullano strani pensieri. Comunque siccome scemo non è, Alberto Federico ha approfittato delle bugie della marchesina, che stranamente non si fa più sentire, così per non insospettire la Contessa, le ha detto che si stanno sentendo, ma con meno impegno perché lo vuole dedicare tutto ai suoi studi. La Contessa si è quasi squagliata, felice come uno di voi quando scende il prezzo della benzina - caspita, è triste doversi accontentare, eh? - e se non era stata Contessa se lo era spupazzata di baci, come se contessa vuol dire meno madre, però in effetti lei vuole solo il suo bene, quindi, dai, da madre si sta sicuramente comportando. Così, comunque, Alberto Federico fa finta che gliene freghi qualcosa di tutto quello che quei professoroni gli stanno dicendo e prende pure appunti e se le studia davvero le cose, ma solo perché così la Contessa la lascia libero, e ormai Anselmo si sta occupando di altre cose. E alla fine ha ottenuto anche il permesso di guidare per conto suo, dopo qualche buona lezione di guida per recuperare la tecnica, ma è come per andare in bici, 274
quando si impara non si dimentica più. Come? Che ne sa un ape di biciclette? Guardate che un’ape ne sa troppo di cose ape-d-ali. Ah Ah! L’avete capita?! Uff, che barbosi che siete! Comunque con la macchina può andare dai ragazzi e da Marianna, soprattutto, ogni volta che vuole, lezioni permettendo, perché ne ha ogni giorno. Però non ci si vede a fare il padrone, il capo, il manager, il direttore, insomma a dare ordini. Dentro di se trova molto interessanti tutti quegli argomenti e quei meccanismi che reggono il potere, anzi, ci si appassiona tanto da dimenticarsi del proprio passato che non esiste e del futuro che chissà mai quale sarà, ma si sente come destinato a qualcos’altro, che però nemmeno lui sa bene che cosa. Comunque, leggere nel bosco era la sua passione, e unico svago, diciamolo, quindi in questa situazione si trova quasi a suo agio. “Non penso di avere il carisma, caro il mio Donato”, dice un giorno mentre fa una corsetta in giardino e incontra Donato che da indicazioni ai giardinieri. “Come ci riesci, tu? Dai ordini, tutti li eseguono”, gli chiede. “Se mi concedete di rispondere”, accenna lui (ma caspiterina, ti ha fatto una domanda, te lo concederà pure di rispondere, mannaggia!), “La mia posizione è piuttosto differente. La mia è un’autorità riflessa. Io sono solo un rappresentante di un potere che sta oltre me. Di gran lunga oltre me”. “Eh, già, capisco. Ma penso che anche nel mio caso sarebbe lo stesso”. “Se mi permettete, signorino Alberto Federico, la vostra autorità é diretta conseguenza di quella del Barone. E non tralasci la prospettiva futura della quale è intrisa”. “Già…”, sospira, “Tutto quello che gli appartiene ne è intriso…”, gli dice. “Però, in tutti quei libri…non c’è scritto quanto sia assurdo…”, aggiunge pensieroso, quasi parlando da solo. “Assurdo, signorino?”, gli chiede Donato. “Pensi mai”, risponde dopo aver scosso leggermente la testa come a richiamarsi da un mondo lontano, “Se sia giusto che un simile potere si concentri nelle mani di una sola persona? O di una ristretta cerchia di individui? Non è un’assurdità questa?”, lo guarda in attesa di una risposta che però non arriva, anche se gli sembra che Donato abbia una gran voglia di rispondere. “Scusa, Donato, non ti volevo mettere in imbarazzo”, conclude poi, ringraziandolo e salutandolo. Non so se poi è grazie a queste parole che ha scambiato con il capo maggiordomo, oppure è che ci pensava già da un po’, comunque gli viene un’idea e va dalla Contessa a 275
dirgliela. E siccome sta diventando davvero furbo e sembra che ha capito perfettamente cosa le deve dire e come glielo deve dire per ottenere quello che vuole, le dice: “Madre, la ringrazio vivamente per tutte le sue premure. Sono lusingato dalle sue attenzioni e dalla fiducia che mi riserva. Voglio che lei sia orgogliosa di questo suo figlio, e le assicuro che mi impegnerò per svolgere al meglio il ruolo che mi è consono, come dovere nei confronti della famiglia”. “Figliolo…”, sospira la Contessa con una mano sul petto, visibilmente commossa. “Però non voglio essere superbo, madre. In onore e per rispetto a voi ed al Barone mio padre vorrei chiederle l’autorizzazione a realizzare un progetto che ho in mente”. La Contessa si illumina in volto. “Senza che questo pregiudichi la prosecuzione delle mie lezioni, anzi, mi sarà di incentivo, e anche se la mia faccia è piuttosto nota ultimamente, ma non in maniera tale da impedirmi di camminare per strada senza essere riconosciuto, vorrei che lei mi permettesse di iniziare una attività lavorativa seguendo la giusta trafila che si conviene” La Contessa si turba leggermente: “Sii più chiaro nei tuoi intenti, Alberto Federico…”, dice secca. “Vorrei essere inserito in una della aziende o ditte di nostra proprietà, con un nome fittizio magari, così da interagire con gli operai, con la gente comune. Solo così potrò capire realmente quali siano le reali esigenze dei lavoratori. Questa esperienza, unita alla teoria con la quale mi sto formando mi permetterà di divenire quello che voi desiderate, per essere degno del ruolo che dovrò ricoprire”. La Contessa resta senza parole per almeno un minuto, rimuginando sulle parole del figlio. “Non lo so, non mi convince”. “So che può sembrarle un’idea balzana, arrogante e presuntuosa. Ma io vorrei che lei capisse che fino a che non recupererò pienamente la memoria dovrò costruirmi una nuova vita, una nuova identità. E vorrei che questa identità fosse completa. Vorrei che lei fosse orgogliosa di me. Mi permetta di essere degno del cognome che porto”, la fissa negli occhi con sguardo quasi supplichevole. Dentro di se lo sa benissimo che sta sparando un mucchio di fesserie e se le potesse risentire si accorgerebbe di alcune incongruenze, ma la Contessa quasi non le ha nemmeno sentite le sue parole, solo le ultime, e poi si è lasciata ipnotizzare dalla sua voce, così da figlio devoto, come mai lo era stato da giovane, prima di sparire per dodici anni. Come può dire di no? “Si, figliolo…ne parlerò con il Barone”, gli dice trattenendo con difficoltà le lacrime.
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Lui trattiene un sibilo di entusiasmo. Ha capito ormai che al Barone poco gliene frega del suo destino, ha anche il sospetto che non crede nemmeno che non riesce a ricordare e quindi di sicuro un figlio così bugiardo che si vuole godere il bello dei soldi con zero responsabilità non è certo nei suoi migliori pensieri. Si trattiene dall’esultare perché come un attore consumato ha lasciato il colpo di scena per ultimo. “Però, madre, per poter realizzare questo progetto, non potrò vivere qui alla residenza, dovrò celare la mia identità sotto mentite spoglie. Dovrò imparare a gestire me stesso con ciò che saprò guadagnare. Solo così capirò il valore di quello che possiedo e lo potrò gestire al meglio.”. Dai, questo è il colpo di grazia per la Contessa, mai che gli dice di si ad una cosa del genere! Ma lei è così talmente presa ancora da quelle parole “orgoglioso e degno” che ha sentito prima che accoglie con entusiasmo quella proposta. “Si, certo, è comprensibile. Starai per qualche tempo presso uno dei nostri appartamenti”. E’ fatta, pensa Alberto Federico. E infatti, come aveva sospettato, il Barone non ha niente da dire sul progetto, anzi sembra proprio non avere niente da dire sul figlio. Quando la Contessa gli parla, lui è come incantato e farfuglia qualcosa tipo “tanto sta per tornare” e poi la liquida con un “si, si, fate quello che volete”. Così nel giro di qualche giorno è tutto fatto. Alberto Federico si ritrova nella sua nuova casa, che sinceramente è meglio che non invita un suo collega perché si vede da lontano che non è la casa di un operaio appena assunto, e anche la macchina la deve cambiare perché è troppo da ricco, e allora si fa comprare una bicicletta, anche perché dopo tutti quegli anni dentro il bosco, l’aria inquinata della città, con tutte quelle immondizie per strada ed i fumi di scarico e gli odori di fritto dei ristoranti che lui è pure vegetariano, non è che gli faccia bene, e per ricordarsi le sue origini vuole fare qualcosa di buono per l’ambiente, così dice. E poi l’indomani deve iniziare a lavorare. Lui è molto soddisfatto, e così lo vuole condividere con una persona che gli sta molto a cuore. Si, Marianna. Così corre da lei sgommando con la sua biciclettina. “Se sei contento tu”, gli dice molto freddamente lei. Lui sinceramente ci rimane anche un po’ male: “Non sei contenta? Pensavo ti avrebbe fatto piacere”. “E perché? La vita è tua, ne puoi fare quello che vuoi”, dice ancora più distaccata. “Ma che ti prende? Cosa ti succede? Hai…” 277
“Non dirmi se ho bevuto perché ti prendo a pugni”, lo minaccia per davvero. “Ma cosa hai? Perché ti da fastidio?”. “Anche lui ha iniziato così”, dice e quasi piange, ma si trattiene con forza. “Lui…”, dice sovrappensiero Alberto Federico, poi ha come una illuminazione. “Oh, non lo sapevo. Cioè, dovrei dire che non me lo ricordo…Ora capisco”. “Tu non capisci niente, cosa vuoi capire?”, Marianna si innervosisce. “Tu hai paura”, le dice lui facendosi serio, “Non certo che mi succeda qualcosa di terribile. Ma tu hai paura che nonostante questo io resti legato a loro. Per te questa non è una soluzione a niente. Resterò sempre un burattino nelle loro mani. È questo che pensi? Sono come un cane ma col guinzaglio un po’ più lungo” “Si, se lo vuoi davvero sapere!” “Non sai quanto mi dispiace”, le dice andandosene. Marianna rientra dentro casa, va in camera sua e dentro una scatola sopra l’armadio trova una bottiglia piena. Amanda, la collaboratrice del signor Ponzi, l’investigatore al soldo del Barone, risponde al telefono. “Puoi parlare, ora?”, chiede la voce di un uomo. “Si, tranquillo, questa linea è più che sicura”, gli risponde. “Novità?”. “Ti devo confermare i dubbi che avevamo. Stanno preparando un’azione”. “Lo sospettavo. Era impossibile che stessero ancora fermi. Io…io non posso permettere che accada di nuovo. Quel poco che potrò fare lo farò, tanto il mio piano è ormai miseramente fallito”, le dice con voce decisa.
Il giorno dopo, Alberto Federico si presenta, con il nome di Fabrizio e con un altro cognome, in una fabbrica di componenti per auto. Per cercare di camuffarsi almeno un po’, per non farsi riconoscere, si è tagliato via tutta la barba. Ci ha sofferto un bel po’, perché gli ricordava il tempo passato nel bosco, ma lo ha fatto con convinzione. E poi a chiesto a Silvia ed Alessandro di aiutarlo e si è fatto fare i capelli biondi. Così si è guardato allo specchio tutto soddisfatto pensando che così nessuno lo avrebbe mai riconosciuto. Però, se proprio volete saperlo, questo suo piano di fare finta che è un altro fallisce quasi subito, perché alcuni lo riconoscono, nonostante il travestimento, o comunque hanno un forte dubbio, però sono persone che hanno talmente tanti altri
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pensieri più importanti che, dopo una specie di interrogatorio, e qualche scommessa tra di loro - che vedrai se non è il figlio del barone ma guarda che gli somiglia ma non è lui poi pian piano lasciano perdere. Comunque lui risulta addetto ad uno dei macchinari. E si trova subito a suo agio anche lì, sembra cavarsela piuttosto bene con ingranaggi e bulloni. Quando arriva a metà della giornata si è già fatto qualche amico tra i colleghi, qualcuno anche tra quelli che un po’ sospettano di lui. È bastato che ridesse alle loro battute e condividesse le bestemmie contro il Barone e la dirigenza. Che non gli è stato mica difficile, se vogliamo essere onesti. E questo però un po’ ha fatto sviare i sospetti, in effetti. E poi non è che col Barone si sente molto legato, anche se quelle rare occasioni che ci ha parlato lo ha chiamato padre. Però già a metà giornata di lavoro ha anche un primo pensiero di pentimento, perché vivere in un bosco, anche se ti devi procurare il cibo magari cacciando (che lui ci aveva provato, all’inizio, ma poi sconfitto da un coniglio, che lo aveva guardato quasi a prenderlo in giro, ci aveva rinunciato, e, forse più per costrizione che per scelta veramente sentita, aveva deciso di diventare vegetariano, che una volta gli era balenata pure l’idea di mangiarsi Pasqua, ma ve lo immaginate?) o raccogliendo bacche è un conto, perché alla fine te ne stai tutto il santo giorno a non fare niente, invece lavorare capisce presto che è un’altra cosa, e se ne accorge, che forse magari è davvero meglio imparare a fare il capo tutto bene vestito e profumato. Ma poi ascolta con più attenzione i discorsi dei colleghi, e sono preoccupazioni di spese, di come fare ad arrivare alla fine del mese, di bambini che vanno a scuola, e si fa delle domande. E sente la testa un po’ confusa. E non lo sa più cosa sia più tanto giusto o sbagliato. Comunque ci arriva tranquillo a fine giornata, e timbra il cartellino anche un paio di minuti dopo l’orario. Saluta tutti e inforca la sua bicicletta, perché lo stabilimento non è troppo lontano dalla sua nuova casa. E i colleghi lo salutano – ciao, è un bravo ragazzo, lo vedi che non c’entra niente con il figlio del barone, ciao, a domani. E comunque lui alla fine è davvero entusiasta di sentirsi stanco. E pensa che da quando si è svegliato in quel bosco non si è mai sentito così vivo. Soprattutto perché ha una gran voglia di andare a raccontarlo ad un persona. Quando se lo trova di fronte Marianna lo guarda e scoppia a ridere. “Beh, che c’è?”, le chiede lui imbarazzato. “Scusa, scusami, non ci riesco. Alessandro mi aveva avvertito. Passi per la barba che forse era ora che te la tagliavi, ma non ce la faccio a vederti biondo. Mi fai troppo ridere!”. Lui fa una faccia offesa e si accarezza i capelli: 279
“E’ che…”, cerca di giustificarsi. “Si, si, lo so…scusa, scusa!”, ride di gusto Marianna, tenendosi la pancia con le mani. “Se fai così, allora me ne vado”, dice lui offeso, voltandosi ed allontanandosi. Marianna allora si sforza di diventare seria, e trattenendo altre risate con molta fatica, con uno scatto lo raggiunge e lo tira con decisione per un braccio. “Scusa, scusa, non ti volevo offendere…”, gli dice. “Scusa anche per ieri…”, aggiunge. Lui sbuffa con sollievo, poi le sorride: “Non ti preoccupare. Devo imparare a conoscerti”. “Entri?”, lo invita lei. “No, oggi ti porto fuori a festeggiare il mio primo giorno di lavoro. Ti va?” “Mi porti fuori? Cos’è? Un appuntamento?”, chiede lei quasi a provocarlo. “Eh, non so…”, si imbarazza un po’ lui, “Tu cosa vuoi che sia?”. Lei sorride ma non risponde: “Aspetta, prendo una giacca”. Passeggiano, con Marianna appoggiata al suo fianco, stretta al suo braccio, mentre mangiano un gelato. “Ma scusa, che ti aspettavi? Una cena galante?”, si giustifica lui. “Tranquillo, lo so che gli operai guadagnano poco. E poi oggi è il tuo primo giorno. Questi con cosa li hai pagati? Con la paghetta di mamma?”, lo sfotte lei allontanandosi come a dirgli “prendimi se ci riesci”. “Ah, spiritosona! Se ti acchiappo”.
Lui ad un certo punto tira una bella annusata: “Sai cosa mi manca di più del bosco?” “No, cosa?”, chiede lei vivamente curiosa. “L’aria buona”, sorride triste lui, indicando la spazzatura che trabocca dai cassonetti. “Ah, ma non è sempre così. E’ a cicli. Prima non era così poi…”, lei si rattrista improvvisamente. “Scusa…cambiamo argomento?”, gli dice poi, turbata, cercando di sorridere. Lui la guarda un attimo e pare capire qualcosa, di certo che è meglio assecondarla. “Si, si certo. Ti racconto una barzelletta che mi ha raccontato Cristian…”.
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Così continuano a passeggiare, a ridere tra loro, a dire fesserie che non ho nemmeno la forza di ripetervi. Insomma, si vede proprio che stanno bene insieme, come due buoni amici, o molto, davvero molto di più. “E cosa ti compri con il primo stipendio?”, gli chiede lei. “Eh? Boh?”, risponde lui in maniera così naturale ed immediata che fa una faccia davvero così buffa che ho riso pure io. Poi mentre camminano si sentono dei rumori e vedono un corteo che gli viene incontro. Si fermano a guardare. Saranno un centinaio di persone, hanno delle fiaccole in mano, dei manifesti e degli striscioni, e cantano degli slogan. Marianna intravede con disgusto anche la signora Francesca e la signora Lucia. “Oh, no! Di nuovo loro? Ma ancora c’è gente che ha voglia di protestare! Che imbecilli”. Lui la guarda: “Perché imbecilli? Scusa, non pensi facciano bene a protestare?” “Ma cosa protestano? Ma credi che le cose cambino protestando? Non cambiano con le guerre. Figurati se bastano quattro canzoncine. Lo devono capire che è inutile!”, lei inizia a scaldarsi, quasi che quelle persone tutte insieme le diano fastidio. Alberto Federico è più che mai deciso ad indagare questi suoi pensieri, così insiste nel discorso, anche se pensa che sia molto rischioso, ma sente dentro di se che è qualcosa che deve proprio fare: “Scusa se insisto, ma come fanno a cambiare le cose se nessuno sottolinea quando sono sbagliate? Se nessuno si arma di coraggio e combatte per gli ideali in cui crede? Proprio tu fai discorsi del genere?”. Aia! “Proprio io, cosa?”, alza la voce Marianna, puntandogli un dito contro il petto. “Ma cosa c**** ti sei messo in testa? Vedi di stare al tuo posto! Ma pensi che un gelato e quattro chiacchiere bastino per conoscermi? Ma cosa ne sai di me? Me lo vuoi dire che ca*** vuoi da me?”. Lui cerca di rispondere ma lei urla talmente forte che non lo fa nemmeno parlare e continua ad urlargli contro: “Se voglio dire che quelli sono degli str**** e che stanno solo perdendo tempo lo dico quando e come mi pare, capito? E non verrà certo il figlio di Paperone a dirmi cosa devo pensare! Ma guarda un po’ questo! Lavora da un giorno e pensa di essere un sindacalista! Ma come ca*** lo hai ottenuto il lavoro? Se vuoi dargli ragione va davvero la in mezzo e diglielo chi sei! Ma lo sai contro chi stanno protestando? Contro tuo padre! Lo sai che 281
fine farà la tua bella casetta tra i boschi? Altro che parco naturale! Vai a chiederglielo al barone che cosa ci vuole costruire! E poi chiedi a loro se troveranno un altro lavoro dopo che lo chiudono il parco!”, si volta verso il corteo, che ormai li ha già distanziati di un bel po’, “Ehi, voi! Venite qui! C’è il figlio del vostro padrone! Parlatene con lui se magari può cambiare le cose!”. Si volta di nuovo verso di lui: “Io ti ho capito a te, sia? Questo è tutto un piano di quel brutto co****** di mio figlio! Io non ho bisogno di angeli custodi, capito!”. “Adesso fai parlare me, e stai zitta!”, cerca di zittirla lui, “Io so che tu hai molto più da dare di quanto vuoi far credere! Io lo so che ti sei arresa ad un certo punto! E che hai solo paura, perché un tempo tu lì in quei cortei eri in prima fila!”. “Fatti i ca*** tuoi, str****! Ma cosa vuoi da me? Ma dare cosa? Ma cosa credi di aver capito? Ma cosa vuoi ottenere da me? Perché non mi lasci in pace? Lo sai cosa sono io? Sono un’alcolizzata! Va bene? È questo che vuoi che ti dica? Che non so fare un c***o? Al massimo lo sai cosa posso fare? Mi faccio qualche bottiglia così quando sono ben stracciata puoi venire a sbattermi un po’. Vaff*****!”. Poi lancia un grido che non si capisce cosa ha detto, e se ne va piangendo. Lasciandolo lì da solo in mezzo alla strada.
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Cronaca di una morte mai dimenticata
“Sei sicuro che va bene così?”, gli chiese Silvia, accarezzandolo in viso. “Si, basta, io non ce la faccio più. È tutta la vita che mi prendo cura di lei, e a cosa è servito? Vuol dire che quello che ho fatto non serve a niente, perché non solo non è guarita, ma sta anche peggio. Io non mi posso continuare a rovinare la vita per colpa sua”, rispose Alessandro. “Non dire così, però. È tua madre, le vuoi bene, è normale che ti prendi cura di lei e ti preoccupi. Poi oggi è un giorno particolare per lei, non credi?” “Eh, no, basta! È morto da dodici anni! È ora che viva la sua vita senza più stare male. Io ho fatto tutto quello che potevo, ma non ha più bisogno di me, ora. Ha bisogno di altro”. “E pensi che tuo zio la possa aiutare?”. “Me l’hai detto anche tu, no? Lui non so perché ha un effetto positivo su di lei. Tra tutti quei maiali che le hanno messo le mani addosso…sarebbe un miracolo se una persona normale si interessasse a lei. Io non posso che sperare che lui ci riesca”. Alberto Federico aprì la porta con la chiave che gli aveva dato Alessandro. Trovò Marianna sul divano. Lei nemmeno si accorse della sua presenza. Lui si precipitò in cucina e preparò un caffè. Aveva imparato da poco a farlo, e sperò che fosse buono quando portò il bicchiere nel salone. La scosse per un minuto prima che lei aprisse gli occhi. Il suo viso era completamente stravolto, e persino i suoi abiti erano intrisi di odore d’alcool. “Non mi guardare così”, pianse lei appena lo riconobbe. Lui la aiutò a sollevarsi e lei cercò di stare seduta, tenendosi stretta al suo braccio, anche se la sua presa era debole. “Bevi questo, ho letto che fa bene in queste situazioni”. Marianna sembrava una bambina, lo fissava con gli occhi semichiusi. Prese il bicchiere dalle sue mani e bevve il caffè a piccoli sorsi. “Scusa, forse è troppo caldo”, le disse.
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“Va benissimo”, sussurrò, per poi piangere. “Grazie”, gli diceva in lacrime. “Ma come fate a volermi bene? Come sono ridotta?”, si disperava, con il bicchiere in mano e la testa china, con i lunghi capelli a ricoprirle il viso. Lui li scostò con dolcezza: “Non sei sola, adesso, non avere più paura”, le disse. Lei lasciò cadere il bicchiere vuoto e si strinse a lui, nascondendo il volto e gli occhi piangenti contro il suo petto. Lui le accarezzava la nuca e le ripeteva di stare tranquilla, perché il peggio era passato. La tenne stretta a se per qualche minuto, sino a che non smise di piangere. La aiutò a raggiungere il bagno e poi la sua camera, così che si potesse rinfrescare e cambiare. Mentre camminava barcollava ancora leggermente. Gli indicò un cassetto nel quale avrebbe dovuto trovare delle aspirine. Lui le consigliò di stendersi un po’ nel divano: “Resto a farti compagnia, non c’è bisogno che parliamo se non vuoi”. Lei rifiutò con gentilezza e gli chiese di seguirla: “C’è una cosa che voglio che tu veda”. Lo condusse sino alla stanza dalla quale qualche tempo prima lo aveva cacciato. Lei ed Alessandro la chiamavano, con crudele ironia, “stanza dei bei ricordi”. Lei aprì la porta ed accese la luce. Fece cenno ad Alberto Federico di entrare. La stanza era completamente spoglia di mobilia. Una lampadina appesa ciondolante al soffitto illuminava a fatica le mura pitturate di grigio scuro. Sul pavimento era disegnata con tinta bianca la sagoma di un corpo umano. All’interno della sagoma era contenuta una teca di vetro. E dentro la teca Alberto Federico vide una ciocca di capelli, macchiata di rosso. Era sangue rappreso. Marianna poggiò il viso sulla sua spalla e riprese a piangere. “Non ce la faccio! Non ce la faccio a lasciarlo andare! Mi fa ancora troppo male!”. Poi si chinò e parlò accarezzando la teca: “Lui quel giorno mi disse che non era il caso. Che avremmo dovuto rimandare l’assalto. Il piano era quello di entrare nella discarica, rompere magari qualcosa, fare qualche danno, e appendere i nostri striscioni. Non era la prima volta. Abbiamo litigato. Perché io gli ho rinfacciato che si stava tirando indietro solo perché era di proprietà di vostro padre. Così lui
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non è venuto. Almeno io ero convinta che non venisse. Poi invece ha cambiato idea. Alessandro doveva dormire da un amichetto. Così siamo entrati ed è scattato l’allarme. Io non lo so che cosa pensavamo di fare. Eravamo tutti giovani, convinti che un ideale fosse più importante di qualsiasi cosa. E questo ci privava della cosa più importante: la paura. Altro che coraggiosi, eravamo solo degli incoscienti. Ma noi volevamo proprio che chiudesse quello schifo. Lo avevano imposto alla città senza che nessuno potesse opporsi. Con il benestare dei politici, ed i soldi del barone. Noi eravamo la mano armata delle voci che non potevano protestare. Ci sentivamo eroi. Avevamo già fatto parecchi danni quando abbiamo sentito gli spari. Il piano in quei casi era di dividersi il più possibile, e fuggire al massimo in coppie. Io sono scappata da sola. Ho sentito un urlo, ad un certo punto, ma ho avuto paura e non mi sono fermata. Quando sono tornata a casa, Carlo non c’era. Ho pensato che fosse uscito perché era arrabbiato con me. Ma ero ancora agitata per la fuga e non ci pensavo troppo. Poi ho sentito bussare alla porta. Sentivo frugare nel chiavistello. Mi si sono come bloccate le gambe, e mi è mancato il respiro. Non ho fatto in tempo ad alzarmi perché lui aveva già aperto la porta ed è venuto qui in questa stanza. Io mi ero nascosta qui. Mi nascondevo sempre qui quando succedeva qualcosa, non chiedermi perché. Mi è caduto addosso. Io piangevo, urlavo, chiamavo aiuto. E c’era sangue. Sangue dappertutto. E lui mi ha accarezzato la testa. Con la sua mano, tutta insanguinata. Non sono riuscita a dirgli una parola”. Si accasciò a terra, battendo i pugni contro il pavimento e piangendo. “Ti prego, aiutami! Non ce la faccio!”, lo invocò tendendogli le braccia. Alberto Federico si chinò su di lei. La strinse forte a sé. “Ci sono io, adesso. Non sei più sola”, le disse. E le baciò la fronte. Nel mentre la signora Lella assaporava con gusto uno dei propri programmi televisivi preferiti, e si lasciava coinvolgere dalla storia di una donna di nome Elena che veniva invitata dalla giornalista che la intervistava a ripensare ad un fatto accadutole parecchi anni prima. Un avvenimento sconvolgente e terribile che avrebbe potuto avere conseguenze drammatiche se un
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uomo non fosse intervenuto in suo soccorso, salvandole la vita, e poi grazie all’intervento delle forze dell’ordine fu posto termine alla persecuzione che subiva da parte di un innamorato che aveva respinto, il quale con un astuto inganno la condusse con se tra i sentieri del Parco Naturale del Gran Paradiso. La signora Elena ammise che da anni non si ritrovava a ricordare quell’episodio, perché tale era stato il terrore di quegli istanti, che con tutta se stessa avrebbe voluto cancellarlo dalla propria mente. Ma lo richiamava comunque alla memoria con piacevolezza, sorridendo al pensiero di quell’angelo custode, del quale mai seppe più alcuna notizia, rammaricandosi del fatto che mai ebbe possibilità alcuna di ringraziarlo per il dono che le aveva fatto, con quel suo gesto di estremo coraggio e generosità. Con gioia negli occhi ammise di non riuscire a focalizzarne il viso, ma si manteneva viva in lei l’immagine degli strani stivali rossi che quell’ uomo indossava. Boicco tossì, mentre si toglieva la camicia lurida di fango e residui di pasti che ormai aveva metabolizzato. Si accarezzò una cicatrice sul petto. Poi si accasciò a terra, mentre del sangue gli colava dalla bocca. Sollevò la testa e sorrise con dolore verso Pasqua: “E’ quasi ora anche per me, vero? È per questo che sei tornata”, le disse.
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Genius loci
Marianna bussò quasi paurosa di disturbare. Alberto Federico aprì incuriosito. Non aveva mai ricevuto visite, sino a quel momento. Quando vide Marianna i suoi occhi sorrisero, e con malcelato imbarazzo la invitò ad entrare, schernendosi per il disordine, e lamentandosi simpaticamente del fatto che, se fosse stato avvisato, avrebbe predisposto per una più degna accoglienza. “Ma scusa di che?”, sorrise Marianna, quasi a prendersi dolcemente gioco di lui, “Ma quante volte sei venuto da me? E in che condizioni era?”. E senza che lui potesse offrirsi di farle da cicerone, lei girovagò per l’appartamento, aprendo la porta di ogni stanza e rovistando tra gli armadi ed i cassetti, affacciandosi alle finestre ed aprendo ogni rubinetto. “Certo che è grandicella per uno che vive solo”, commentò sarcastica. “Era un’ottima occasione. Dovresti vedere l’affitto. E’ quasi regalata”, sorrise lui. “Spiritosone. Non ce la fate proprio voi nobili a mantenere un certo decoro. Dovete sempre ostentare il vostro pregio in qualsiasi occasione. Anche in un appartamento inutile come questo…”, disse lei con livore. “Dai, però…”, si rattristò lui, “Non sarai mica venuta qui per continuare con la solita solfa. Alla fine offendi pure me. Dopotutto è casa mia…”. “Dai, finiscila tu. Casa tua è quando te la compri…”, ribatté lei. “Ma cosa avrei dovuto fare? Non eri tu che volevi che mi allontanassi da lì?” “Chissà quante volte ci sarai tornato, per salutare mammina…”, lo provocò lei, “Non penso proprio che si abbassi a venire in questa topaia”. “Si, va beh, lasciamo stare…”, cercò di smorzare i toni Alberto Federico. “Perché vuoi lasciar stare? Perché non reagisci mai? Sono qui a offendere te e la tua stupenda famiglia e non alzi nemmeno la voce. Guarda che io grido eccome. Vuoi che gridi?”. “No”, le rispose lui agitando le mani verso il basso, come ad invitarla ad abbassare la voce. Poi la osservò. “Ti stai divertendo, vero?”, le disse, con un’espressione di leggera preoccupazione.
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“Sei un bersaglio fin troppo facile…”, sorrise lei. “Che st*****!”, rise Alberto Federico. “Offrimi da bere!”, disse lei. “Analcolico, naturalmente”, si apprestò ad aggiungere. “Certo che sei strana, tu”, le disse, mentre stavano seduti a bere un succo di frutta, “Quando Alessandro mi parlava di te era così che ti immaginavo” “Così come?”, chiese lei curiosa. “Così…combattiva. Noncurante di chi avevi di fronte. Ferma nelle tue idee. Pronta a farle valere contro tutto e tutti”. “Già, un tempo forse…”, lei si rattristò leggermente, come un sole improvvisamente coperto da una nube. “Perché parli sempre al passato? Cosa ti impedisce di farlo anche adesso?”. “Adesso?”, lo guardò, “Adesso non ci credo più. Non credo più a niente. La mia vita non la voglio più rischiare. Per nessuno e per niente”, abbassò il capo, “Tanto non c’è niente che valga la pena di lottare così…”. “C’è tuo figlio”, le disse posandole una mano sulla spalla, “Vuoi dirmi che per lui non lotteresti? Vuoi farmi credere che per lui non hai lottato?” “E contro chi? Contro tuo padre? Se avesse voluto davvero portarmelo via lo avrebbe fatto. Cosa credi? Che gli manchi il potere per farlo? Ma non lo avrebbe sopportato un altro fallimento come con voi tre. Ha preferito restare a guardarlo da lontano. Oppure vuoi dire che ho lottato contro me stessa? Se vuoi dire questo…”, sorseggiò il succo di frutta, e gli mostrò il bicchiere vuoto, “Ecco cosa sono io, un bicchiere vuoto. Completamente vuoto. E di certo non lo riempio di succo di frutta”. Si alzò. “Me ne vado, mi ha intristito parlare di certe cose”. Lui si alzò e la trattenne, lei non si oppose: “Non andartene”. La voce di lui tremava.
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“No, non voglio andar via”, anche quella di Marianna. Lei gli mostrava la schiena, mentre lui le teneva la mano. Con l’altra le accarezzò la nuca, abbreviando la distanza che li separava con un passo. Il suo piede destro entrò in contatto con il suo. “Non sei sola”, le ripeté alcune volte, sussurrandole all’orecchio dolcemente. “Mi sento sola”, rispose lei, sottovoce, mentre teneva gli occhi chiusi, schiava di quel massaggio sul collo, e stringeva la mano che Alberto Federico le teneva con la sua. “Ho paura”, aggiunse. “Non devi avere paura. Ci sono io con te”. Lei si voltò di scattò, scostando la mano: “E’ di questo che ho paura. Non lo capisci?”, gli disse, mentre piangeva. Lui le accarezzò il viso. “Ho paura…”, ripeté lei. “Tu meriti di essere felice…”, le disse, accogliendole il viso tra le mani. Avvicinò il proprio volto al suo. “Ho paura…”, sospirò ancora lei, mentre le loro labbra si avvicinavano. Lui la baciò. Lei lasciò che il suo labbro inferiore fosse dolcemente compresso nella sua bocca. I loro nasi si carezzavano con un lento e passionale sfrigolio. Le mani di lei cinsero le spalle di Alberto Federico, il cui corpo le parve possente, immenso, come lo spazio oltre l’atmosfera. Poi gli accarezzava la schiena, mentre lui si addolciva il gusto lambendo il suo collo, per poi morderle delicatamente il lobo, sussurrandole parole che la facevano sorridere. Lei ne oltraggiò la capigliatura, stringendo con forte amorevolezza i suoi capelli, sollevando il mento e offrendo il proprio collo ai suoi baci. Le mani di lui contavano le vertebre delle sua schiena, e lei sentì le gambe cedere, e lo strinse forte. Lo spinse, il corpo contro il suo, finché non si adagiarono sul divano. I suoi baci si fecero più audaci, carichi di desiderio. Osò sbottonargli la camicia, mentre lui, quasi come un bambino appena nato cercò il suo seno. Lei lo colpì con la fermezza di una donna in amore sul palmo della mano. “Aspetta”, gli disse, roteando gli occhi, estasiata.
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Lui acconsentì ai suoi gesti, inarcando il busto, così che lei poté sfilargli la camicia, mentre il suo viso si beava della morbidezza del suo petto, trattenendo però ogni desiderio vizioso, in ossequio alla sua richiesta di attesa. “Sei un bravo bambino”, sorrise lei, sospirando, abbracciandogli la testa, comprimendogli gli occhi chiusi contro la propria maglietta. E continuò a baciarlo. Sulla fronte, sul naso, sulle guancie, mentre lui ne conteneva i fianchi, che ballavano sinuosamente sopra il suo pube imbarazzato. Lei gli afferrò le mani, e le guidò attraverso il proprio costato, fin dove esse anelavano, e ne sospinse i palmi contro i propri seni, che rispondevano tumidi al turbinio di sensazioni che Marianna viveva. E la sua bocca emise un sibilo, mentre lo invitò a liberarla da quella costrizione. “Voglio la mia pelle sulla tua…”, gli sussurrò. E non li osservarono i loro indumenti volteggiare, quasi complici del loro richiedere una intimità, così talmente poco intima, perché condivisa, resa disponibile ad ognuno degli altrui cinque sensi, in trepida attesa. Lei si svestì, roteando il corpo sopra il suo. Lui per non costringere le mani a privarsi di un simile spettacolo ottenne la collaborazione delle proprie gambe, che non ritennero di essere state create per altro impegno che non fosse l’incrociarsi con vigore, intrecciandosi a quelle di Marianna. E lui la accarezzava, dalla schiena al suo fondo, e ancora più giù, mentre lei penetrava con le unghie la sua carne, e lo mordeva sul petto. Ed ansimante si dischiuse al suo incedere. E ne seguì il ritmico singulto, ora inarcandosi, ora racchiudendosi a guscio, ora divelta. Mentre lui, con i polpastrelli, disegnava i suoi confini, stringendola con passione e trasporto là dove era più morbida, e lusingando con umidi baci il suo essere donna, nei luoghi in cui era più rossa e turgida. La sentì vibrare al tatto, e la sentì dolce al gusto, mentre i loro bacini si levigavano a contatto, ed i loro sterni coincidevano. Ed il palpitare del loro respiro si accordò all’unisono. E la loro pelle era vergata di lucida traspirazione, ed i loro pori liberavano essenze come di angoscia alleviata e felicità soffocata. E Marianna puzzava, come solo le donne sanno puzzare, una commista fragranza di profumi ovattati e gradevole acidità. E lui le concesse con leggero imbarazzo ciò che di più profondo possedeva, incapace di contenerlo, e lei lo trattenne in se, mentre il corpo di lui le regalava gli
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ultimi spasmi di quell’attimo infinito, fino a che, esanime, non abbandonò la propensione pelvica alla spinta. “Ti amo…”, poté solo sussurrarle. Lei piangeva, vincolata a lui, con il viso immerso nel suo petto.
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PARTE QUARTA Avvelenamento (di Erinna Ali Bianche)
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L’infamia della lode
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Conto alla rovescia
Amici mie carissimi, che bello ritrovarvi! Sono la vostra Erinna, la vostra moscamica! Eh, eh! Né è passata di acqua sotto i ponti, vento tra i capelli, sabbia sotto gli zoccoli dei cammelli, o tra le dita dei piedi infilate in ciabattine infradito. Come dite? Ah, si, certo. Riprendo subito il racconto. Perché oramai siamo giunti alla fine, miei cari. E ci sarà un colpo di scena, che se ci avete anche solo minimamente pensato, beh, allora io cambio mestiere. E anche questo bel ragazzetto che scrive sotto nostra dettatura!
In un aeroporto, parecchio lontano rispetto ai luoghi dove i nostri eroi sono stati protagonisti della storia che state leggendo, un uomo abbastanza giovane, mimetizzato dietro un paio di occhiali da sole, e tutto ben agghindato secondo le ultime mode del momento, parlava al telefono cellulare con una donna. Tra le mani teneva un giornale. E pareva molto interessato ad un articolo in particolare. “Penso che sia giunto il momento di ritornare a casa, non credi anche tu?”, le disse. “Se lo ritieni opportuno. Ma sei davvero convinto di volerlo fare? Guarda che non ti costringe nessuno. Io ancora non riesco a capirlo”, cercava di riportarlo alla ragione la donna, non condividendo affatto la sua idea. “No, ormai ho deciso, Amanda. Ne abbiamo già parlato tante volte. Sono stanco, davvero. Forse aveva ragione mio padre, ma non credo. O forse sono davvero completamente ammattito. Ma questo è l’unico modo. E’ come se me lo avesse chiesto lui. E lo devo fare prima che mettano in moto il loro piano. Sono scappato alle mie responsabilità per dodici anni. Sono troppi”. “Si, ma guarda che anche se è venuta fuori questa storia tu puoi star tranquillo. Per quanto ne sanno è morto bruciato. Il piano è sempre proseguito con regolarità”, gli disse cercando di dissuaderlo dal suo proposito. Lui stette in silenzio per un po’. “Con Ponzi tutto bene?”, le chiese poi, cambiando discorso. “Si…”, sospirò lei, “Tranquillo, non ha mai sospettato minimamente che ti stessi coprendo”. “Ti ringrazio per tutto quello che hai fatto per me. Stai comunque attenta, però. Non voglio che tu corra rischi di nessun genere”. Ci fu ancora silenzio, da parte di entrambi.
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“Se per te è tutto a posto possiamo procedere”, aggiunse ancora. “Allora faccio iniziare tutto?”, chiese conferma lei. “Si. Mi raccomando di seguire tutte le indicazioni punto per punto. Non dovrà sembrare altro che questo….”, si raccomandò lui. “Tranquillo che da ora in poi è come se questa fosse l’unica verità. Ricordati però che non avrai possibilità di ripensarci”. “Ci ho già pensato abbastanza”. “Verrò a trovarti”, disse lei con voce affranta, e poi si mise a piangere. Aveva trattenuto le lacrime per troppo tempo. “Dai, non fare così, ti prego”, quasi la implorò lui. “No, scusa, Alberto, non ce la faccio. Ciao, scusa…”, chiuse il telefono la donna. Lui inspirò e poi liberò un sospiro quasi gridato. Quindi accartocciò il giornale e salì sull’aereo. Il Barone sorseggiò lentamente, poi poggiò il bicchiere. Era un vino piuttosto pregiato. Non proveniva dalla sua produzione. Era un gradito omaggio di un amico con il quale aveva concluso un ottimo affare. Non era propriamente l’ora adatta per bere del vino, ed oltretutto era solo ma, visto che non esisteva per lui, al mondo, compagnia migliore di se stesso per se stesso, non pensò affatto che quel gesto fosse inappropriato o disdicevole. In una delle altre stanze della villa, la Contessa parlava al telefono con uno degli insegnanti di suo figlio, che, per richiesta dello stesso Alberto Federico, gli facevano lezione in uno studio privato, quindi né a casa sua e né alla villa. In effetti, da quel giorno in cui la Contessa lo autorizzò a vivere per conto suo ed a lavorare sotto falso nome, lei lo aveva visto pochissime volte, ed il più delle volte era stata lei a contattarlo per imporgli quasi di presentarsi alla villa. Una volta, addirittura, aveva incaricato Anselmo di andare a prelevarlo direttamente al lavoro. E già si era pentita di una tale concessione. Tanto che, conclusa la telefonata con il professore universitario, che comunque la rassicurò sul fatto che Alberto Federico compiva notevoli progressi, decise di convocare Anselmo per non meglio specificate mansioni, che però riguardavano sicuramente il reperire dettagliate informazioni su cosa stesse facendo suo figlio. Il Barone aveva appena poggiato il bicchiere dopo un altro sorso quando l’allarme scattò. La sicurezza interna aveva individuato una figura estranea dentro la villa. Il caso volle che sentisse rumoreggiare nella stanza accanto a quella dove si trovava lui, così si affacciò fuori, quasi istintivamente e precedette la sorveglianza entrando nella stanza. A
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posteriori avrebbe per un attimo pensato a quale rischio avrebbe potuto correre se si fosse imbattuto in un assalitore, magari armato. Ma in quel momento non poté fare a meno di lasciarsi condurre dalla propria curiosità. E diversi anni dopo, ripensando ossessivamente a quanto sarebbe accaduto da quel giorno in poi, si convinse sempre più, sul baratro della più totale pazzia, che una voce l’avesse convinto ad entrare in quella stanza, e che in nessun modo avrebbe potuto evitarlo. Quando entrò nella stanza la vide, in piedi, sulle sue quattro zampe. Con un fascicolo tra le fauci. Gli ringhiò contro. Ma non era un ringhiare feroce. Era quasi un misto di pena e dispiacere. Immediatamente arrivarono gli uomini della sicurezza, ma Pasqua con uno scatto evanescente penetrò nelle loro fila e si dileguò senza che nessuno riuscisse a bloccarla. E ci provarono, amici, alcuni anche sparando dei colpi prima in aria e poi mirando per colpirla. Ma fu come se svanisse oltre le alte mura di cinta che preservavano la residenza. “Barone, tutto bene?” “Siete ferito?” “Ma come c***o ha fatto ad entrare?” “Verificate tutto il perimetro! Voglio le registrazioni delle videocamere. Tutte. Subito!”, dispose il capo della sicurezza interna. “L’avete preso quel cane?” “No…è stato velocissimo…” Intanto, in mezzo a tutto quel vociare, il Barone restava inebetito, a guardare una cassaforte aperta, nella quale c’era un fascicolo, che tanto gli era costato procurarsi, che adesso non c’era più. “Portatemi un telefono”, disse poi allungando un braccio con il palmo volto verso l’alto. La sua voce era ora fredda e metallica, quasi affilata come un coltello. E nei suoi occhi la Contessa, che giunse proprio in quell’istante, vide scintillare odio, rabbia, paura e male.
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Loggia P66
“Lo sai che sono contenta?”, gli disse Silvia, tutta sorridente, mentre passeggiavano mano nella mano gustando un gelato alla frutta. “Di cosa?”, disse lui dopo aver dato una bella leccata al cono. “Che ti sei perso”, disse lei serafica. “Ah, si? Grazie! Nemmeno te lo immagini che stavo uscendo fuori di testa! Ma contenta di cosa?”, si indispettì Alessandro. “Però sei tornato. E guarda come sei cambiato. Sei dolce, premuroso, innamorato e me lo dimostri, senza vergognarti come facevi prima. Non frequenti più quegli idioti. Non te ne accorgi? Saranno stati solo tre giorni ma sei cresciuto tantissimo. Io ti preferisco di più come sei adesso. Sembra quasi un miracolo”. “Esagerata!”, minimizzò lui. Poi assunse un’espressione pensierosa. “In verità tutti siete cambiati. Anche quei due bambini. Da quello che mi hai detto erano diversi prima. E poi avete incontrato Alberto, e guarda cosa sta succedendo a tua madre”. Lui si fece ancora più pensieroso: “Mi fa un po’ strano che stia con mio zio. Non è così tanto normale”. “Perché? Ma va! Io la vedo molto felice. Prima non la conoscevo, ma da quello che mi hai raccontato tu mi sono fatta una certa idea. Adesso mi sembra proprio che stia bene”. Alessandro diede un’altra gustosa leccata e poi le sorrise: “Mi sa che hai ragione”.
“Però che spreco di soldi. Se inizi a buttare così lo stipendio!”, gli disse Marianna mentre rovesciava la bottiglia. “Dobbiamo fare a metà. È così che si fa, no? Si divide tutto!”, le sorrise Alberto Federico, dopo aver poggiato la bottiglia vuota ed averne afferrata un’altra piena, apprestandosi a stapparla. “Nostalgia?”, le chiese poi. Lei si fermò, raddrizzò la schiena e si portò le mani chiuse a pugno sui fianchi, con le braccia ad angolo: “Allora, vuoi che ti innaffi tutto di whiskey?”, lo redarguì giocosa, “Se dico una cosa è quella! Le svuotiamo tutte. E mai più ne entrerà una goccia in questa bocca. Ma neanche una birretta!”.
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Lui le sorrise: “Quanto sei bella quando sei così risoluta!”. Lei arrossì, e continuò a versare il liquido nel lavandino. Avevano deciso di compiere un rito. Si erano accordati per comprare cento bottiglie di alcolici. L’idea era stata di Marianna, che aveva chiesto ad Alberto Federico aiuto per superare definitivamente il suo problema. Il rito consisteva nel buttare il contenuto delle bottiglie nel lavandino, e di ripetere il proprio giuramento di impegno. “Poi magari ne parlerò anche al gruppo. Ma ora lo voglio giurare a me stessa. A noi due”, lo guardò, “Senza di te non ce la farei”. Lui le prese le mani tra le sue: “Nemmeno ti immagini quanto sei forte. Io sono solo qui a fare il tifo per te. Ma il coraggio, la forza, ce la stai mettendo tu. E stai già vincendo”. “Non è mica così facile”, si lasciò andare un attimo, sconsolata, “Mica basta questo”, disse indicando le bottiglie vuote. “Da qui si inizia. E ora che non sei sola…ci sarò io a sorreggerti”. Si baciarono.
“Sai, pensavo che forse è ora che mi dia da fare”, gli disse Marianna, con risolutezza, una volta terminato il rito di epurazione alcolica. “Certo che devi. Che idee hai per il futuro? Chiedo a mio padre se ti trova un lavoro?”, le disse lui con una smorfia che parve dover essere simpatica, per poi proteggersi il viso con le mani, come si aspettasse che lo colpisse. “Bravo, nasconditi!”, lo ammonì scherzosamente lei, “Nemmeno per scherzo dovresti pensarle certe cose. Anche se…”. “Anche se?”, chiese lui sbigottito. “Frena, bello! Non intendevo nulla del genere. Però è qualcosa che ha a che fare con tuo padre. Stavo pensando che magari dico si a quelle due che mi stanno facendo la testa ad acqua per entrare nel comitato…” “Wow…sei pronta alla battaglia…”, ad Alberto Federico brillarono gli occhi mentre la guardava. “E non è tutto…”, gli disse sorniona, notando che lui pendeva dalle sue labbra, “Mi è venuto in mente un progetto che ha a che fare con la discarica…Magari per rimetterla in funzione. Chissà che non riusciamo a ripulire la città…” “Mi correggo…sei pronta alla guerra totale!”, si illuminò lui, baciandola. 298
“Se tu sei con me, posso sfidare baroni, regine e imperatori…”, gli disse lei, e si baciarono ancora.
“…Ed è convinzione del Gran Consiglio che sia giunto il momento di intervenire! A tale scopo è stato stabilito che tutte le Cellule locali si attivino. E’ dunque, anche per noi, il tempo di agire”, concluse il proprio discorso, tra gli applausi compiaciuti dei presenti. L’uomo che aveva appena parlato aveva un anello al dito. Uguale a quello di tutti gli altri figuri che sedevano attorno al tavolo rotondo. Commentavano a coppie quanto era stato appena detto, convenendo su ogni punto discusso. “Barone, il suo consiglio e la sua disponibilità di risorse saranno come di consueto indispensabili”, aggiunse ancora l’uomo, seduto su di una sedia differente, rispetto a quella dove sedevano gli altri. “Tutto ciò che mi appartiene è un mezzo per raggiungere il nostro ideale”, rispose lui con tono solenne. “E cosa ci dite, a proposito del parco?”, chiese. Tutti si voltarono a guardare il Barone. Lui unì le mani sotto il mento, con una rotazione del collo li osservò tutti. Poi parlò: “E’ prossimo il tempo in cui me ne riapproprierò. Come già vi ho illustrato in precedenti occasioni ne sarà estratto il massimo profitto possibile”. “Il progetto P66, signori, mai sopito…”, riprese la parola l’uomo che per primo aveva parlato, “E’ il vincolo che ci stringe al significato più profondo dell’ideale che noi ci prefiggiamo. L’anello che portiamo al dito ci unisce in quest’unico obiettivo. La società attuale ha tradito i nostri intenti. I politicanti, dimentichi di coloro i quali hanno permesso che si occupassero di tali uffici, non sono stati all’altezza del compito affidatogli. E’ dunque giunto per noi il momento di dare inizio al cambiamento. L’evoluzione, signori. Evoluzione e nient’altro”, concluse. La seduta fu sciolta. Tutti si salutarono con strette di mano ed ossequi, ma riservando la maggiore riverenza verso l’uomo che continuava a stare seduto su quello che assomigliava ad un vero e proprio trono. Il Barone si allontanò dalla sala, mentre due uomini, osservandolo ormai lontano, commentarono in questo modo: “Egli non lo sa…”, disse uno. “E’ da compatirsi, ignaro di ciò che sta per accadere”, ghignò senza eccessi l’altro. 299
“Mi soddisfa il fatto che dopo numerose rimostranze l’istanza di ostracismo sia stata accolta. Le alte sfere non sono mai attente ai reclami delle singole aree, se non per fatti di assoluta rilevanza nazionale. Per nostra buona sorte la situazione generale è talmente critica che ora hanno bisogno del supporto di tutte le congregazioni. Mi rammarico solo della lunga attesa. Ma è giunto il tempo anche per il Barone di rimettere il proprio mandato”. “Accade, quando ci si fa distrarre da questioni personali, che nulla hanno a che fare con l’ideale”, concluse, congedandosi con una vigorosa stretta di mano, mentre l’anello che portava al dito scintillava superbo.
Intanto Cristian giocava sul tavolo della cucina con un aeroplano fatto di mattoncini da costruzione colorati. “Vrumm, vrumm!”, sputacchiava correndo attorno al tavolo, indispettendo la madre, che stava stirando una maglietta disposta sul tavolo, in assenza di spazio per un’asse da stiro, che poi comunque non possedeva. “Mamma, lo sai che Tommaso, adesso, a volte, ma solo a volte, eh!, sorride un pochino?”, disse alla madre, mentre mimava una manovra di atterraggio. “Ne sono veramente contenta. Se un bambino sorride vuol dire che sta bene”. “Allora io sto molto bene, perché sorrido sempre. Vrumm, vrumm!”, canticchiò mentre l’aereo decollava di nuovo. “Eh, già”, sospiro soddisfatta la signora Eleonora. Poi prese tra le mani una fotografia poggiata sul tavolo e la mostrò a Cristian: “Questa è quella che avete fatto all’oratorio l’altro giorno?”, gli chiese. “Si. Vrumm vrumm!”, le rispose il bambino. “Ci siete proprio tutti! Perché non la fai vedere a nonna? Lei ancora non l’ha visto Alberto coi capelli biondi e senza barba!”. “Volo! Vrummmmm!”, si entusiasmò Cristian prendendo la foto e portandola alla nonna, che intanto stava guardando alla televisione un reportage su alcuni gravi fatti di cronaca accaduti indovinate quando? Proprio dodici anni fa. Il volume come sempre era altissimo, tanto che tutti quei vrumm vrumm di Cristian non è che fu semplice captarli. Ed il volume era talmente alto che le parole uscivano dalle casse ormai scoppiate del televisore tutte distorte, e non è che mi riuscì di capire bene di che cosa si parlava. Non è vero, e lo sapete anche voi, io ho un udito finissimo. Però non posso mica svelarvi tutto ora. Quindi vi riporterò solo alcune frasi sparse del resoconto del giornalista, come se il televisore 300
fosse stato guasto, ed il collegamento saltasse ogni venti secondi, lasciando spazio a quelle righine grigie che tanto vi fanno imbestialire quando guardate le partite di calcio in tv e provate ad aggiustare il televisore con dei colpi o rigirando il cavo dell’antenna: “….il volantino rinvenuto con il simbolo dell’otto rovesciato….gli inquirenti ritengono a tutt’oggi valida la pista che porta alla, per ora, fantomatica Loggia P66….il gruppo eversivo, secondo il pentito….una rete capillare….cellule locali direttamente collegate fra loro….tutto
ciò
farebbe
supporre
una
sovrastruttura
nazionale
e
contatti
internazionali…Nessuna della congetture trovò mai consistenza nelle prove…il gravissimo atto…l’attentato programmato ai danni dell’allora Governatore….al processo l’imputato si dichiarò colpevole…il manifesto delle proprie intenzioni…l’auto usata per la fuga…il cadavere carbonizzato…supporre la probabile vendetta dei mandanti occulti…”. “Tieni nonna, la vuoi vedere questa foto?”, la disturbò Cristian mettendogliela davanti agli occhi. “Dai, aspetta, che nonna sta guardando la televisione”. Entrambi urlavano. “Guardala nonna! C’è Alberto senza barba!”, insisteva il bambino. “Si, si, ora la guardo!”, si arrese la signora Lella dando un’ occhiata distratta alla foto per poi riportare la propria attenzione sullo schermo della televisione. E ad un certo punto trasalì, che quasi le andò di traverso la saliva, ed incominciò a tossire diventando paonazza. Prese con veemenza la foto dalle mani del nipote: “Eleonora! Eleonora!”, gridò, “Prendi il telefono, presto!”.
Altrove, in una stradina di periferia, c’era un ragazzotto tutto in preda ad una eccitazione mal trattenuta che camminava con circospezione, guardandosi dietro ad ogni passo, poi sghignazzando, poi ripetendo sottovoce delle frasi, come stesse provando una recita teatrale, poi fermandosi e mimando dei movimenti, e poi riprendendo a camminare, con il cuore in sobbalzo quando gli capitò di intravedere un’auto dei carabinieri, abbassando furtivo il capo, dissimulando altri pensieri e scalciando pietre e cartacce per terra. Fabio sentiva una scomoda pressione sul rene sinistro, e ogni tanto faceva qualche smorfia di fastidio, si infilava una mano dentro il giubbotto e si toccava la schiena. Lo aveva visto nei film e nei telefilm. Eppure non gli pareva così comodo. Ed anche se aveva stretto il cinto di altri due buchi, la pistola continuava a scivolargli e temeva gli scendesse fino ai piedi. 301
La pistola era quella che avrebbe dovuto restituire a Gianni, ma visto che Gianni, il bracconiere, era, per quanto se ne sapeva, morto in un precipizio o qualcosa del genere, ora quella pistola era sua. Ed ora che aveva una pistola era veramente un uomo, e poteva svolgere incarichi da uomo. Da vero uomo. E proprio uno di questi incarichi stava andando ad eseguire.
Contemporaneamente Pasqua abbaiò, lasciando cadere a terra un fascicolo che teneva tra le zanne. Il commissario Monti si alzò di scatto dalla sedia. “Ma che diamine! Ehi, di chi è questo cane?”, gridò. Pasqua col muso sfogliò il fascicolo e ne estrasse un foglio, mordendolo. Quindi con uno scatto superò la soglia dell’ufficio e si dileguò. Il commissario accennò un inseguimento, ma poi si avvicinò incuriosito ai fogli che Pasqua aveva lasciato. Prese in mano il fascicolo e lesse con avida bramosia. Strabuzzò gli occhi ed afferrò il telefono: “Si, sono io”, disse con voce di comando, seppur lievemente tremante, “Prepara una unità, subito! E mettimi in contatto con il Generale Rocchi…”. Poggiò la cornetta, si passò una mano sulla fronte sudata. “Dodici anni…”, sospirò.
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La buona, il bruto e il cattivo
Marianna lo guardò, accarezzandogli dolcemente la guancia, mentre lui aveva gli occhi che sorridevano: “Ma che mi hai fatto? Si può sapere?”, gli chiese. Stavano semidistesi sul divano di Marianna, con le gambe di lei su quelle di lui, abbracciati teneramente: “Tu mi hai fatto una specie di magia”, disse ancora, baciandolo. “Anzi!”, aggiunse illuminandosi nello sguardo, “Tu mi hai avvelenato”. “Come avvelenato?”, chiese lui con curiosità falsamente indispettita. “Si, un veleno dolce”, sospirò, come a voler dire qualcosa ma le mancò un attimo la voce, poi riprese a parlare, “Si, un qualcosa che mi è entrato nel sangue, nell’anima e mi ha modificato da dentro. Anzi, lo sai cosa sei? Sei il veleno per il mio veleno. Quello che mi stava distruggendo dentro. Tu hai cambiato la mia vita, lo sai questo?”, appoggiò il naso contro il suo, e la sua fronte sui suoi occhi, “ Ho deciso che voglio riprendere a lottare per quello in cui credo. Mi armerò di coraggio e metterò in piedi quella cooperativa”, sorrise. “Quella di cui mi hai parlato l’altro giorno? Per lo smaltimento dei rifiuti?”, chiese lui con entusiasmo. “Si, esatto. Non so ancora bene come, ma domani vado in qualche ufficio e chiedo. Anzi, forse è ora che mi procuri un computer. Anche se spero ancora che si possa vivere anche senza. È che…”, si interruppe, lo guardò, “E’ che prima eravamo come dei guerrieri. Ma forse invece ci sentivamo tali e basta. Perché forse eravamo dei mercenari, piuttosto. Oddio, non che qualcuno ci pagasse. Ci pagava l’appagamento…scusa il gioco di parole…Lo facevamo forse non in nome di un ideale, ma contro un altro ideale che non era il nostro. Tutto quello che abbiamo fatto è stato distruggere o sabotare delle cose che non ci piacevano. Ma mi sembra che mai nessuno di noi si sia proposto di creare qualcosa…” “Dai, non essere così crudele con il tuo passato. Ricorda che ciò che sei oggi lo devi alla tua evoluzione personale” “Già…da donna scimmia a donna innamorata!”, rise lei, abbracciandolo. “E tu, allora?”, gli chiese poi, proseguendo senza che lui potesse accennare una risposta, “Tu sei stupendo adesso. E siccome non ti ricordi quanto eri stupidino prima, vuol dire
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che stupendo lo sei sempre stato. Nel tuo caso tu sei nato, o rinato, proprio così”, gli prese il viso tra le mani e baciandolo lo adulava: “Bello che sei! Bono!” Poi si sollevò: “Aspettami qui, vado un attimo a rifarmi il trucco. Ih ih….”, rise dirigendosi verso il bagno. Alberto Federico si alzò anche lui dal divano e passeggiò un po’ nella sala per sgranchirsi le gambe leggermente intorpidite dal dolce peso della sua innamorata. Si avvicinò alla finestra che dava sul cortile. Guardò oltre e vide Pasqua. Corse fuori dalla casa in preda ad una gioia immensa che liberò con grida di giubilo: “Che bello vederti! Come stai? Ma dove sei stata? Ma sei ferita? Fatti guardare! Mi sei mancata tantissimo! Lo devo dire subito ai ragazzi: erano preoccupatissimi! Quanto mi sei mancata!”, le diceva mentre la stringeva fortissimo, senza riuscire a trattenere le lacrime. Poi la baciò sul muso e sollevando la testa notò che teneva un foglio di giornale tra i denti. Pasqua lo lasciò cadere. Lui si staccò di qualche centimetro da lei, indietreggiando sulle ginocchia e sui talloni, prese il foglio e lesse. I suoi occhi scintillavano mentre seguivano il corso indicato dalle parole. Da sinistra a destra, poi a capo. Da sinistra a destra. Poi ancora a capo. Poi ancora da sinistra a destra. Poi ancora a capo. Nuovamente da sinistra a destra. Poi nuovamente a capo. Continuamente da sinistra a destra. E sempre così da capo. Poi udì un fischio sordo, dentro la sua testa. E sentì le meningi comprimersi. La vista si annebbiò. Ed il dolore lo fece contorcere. Come non gli era più capitato da quando aveva incontrato i ragazzi dentro il bosco. Ora le lacrime erano di dolore. Cercava di urlare ma quel fischio sordo copriva i suoi ansimi privi di suono. Si accasciò a terra, svenuto, e così restò per qualche istante. Poi si riebbe. E quando a stento si sollevò guardò Pasqua. E piangeva. Ma questa volta le lacrime erano di terrore. “E’ questo che non volevo ricordare? E’ da questo che volevo fuggire?”, le chiese struggendosi il petto, mentre ci accartocciava contro la pagina del giornale. Pasqua latrò sollevando il mento, come ad indicargli di guardare alle proprie spalle. Lui si voltò e vide Fabio, in piedi di fronte a lui, che gli puntava contro la pistola, tremando.
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Ei fu…
Michele Lofri Sioce nacque in un giorno di pioggia. Questo gli raccontava sempre sua madre Desdemona. Perché Michele adorava sentirle raccontare quella storia. Di quando lo sentì scalciare prepotentemente dentro la sua pancia, così forte che lei pensò che sarebbe nato lì, dentro casa. Così chiamò il signor Renato, suo marito, che era a lavoro. E che scappò di corsa urlando come un pazzo “sono padre, sono padre!”, salì in macchina e quasi volò da sua moglie. E quel giorno pioveva. A Michele piaceva immaginare il padre che faceva lo slalom tra le macchine bloccate dalla pioggia. Perché aveva notato che bastava qualche piccola goccia per creare un ingorgo. E lo vedeva con un fazzoletto bianco stretto al pugno, con il braccio fuori dal finestrino, a strombazzare per chiedere di fargli largo. E gli piaceva anche quell’altra storia, anche se in verità un po’ lo rattristava, del ladro che era entrato in casa loro quando era molto piccolo. Lui non poteva ricordarselo, e comunque quel giorno nessuno di loro era presente. Perché insieme ai suoi genitori si trovava a casa di amici per una festa, mentre un malvivente penetrava nella loro casa e faceva razzia di tutto ciò che poteva. E rubò proprio tutto, anche un album fotografico. E dentro quell’album c’erano tutte le foto che erano state scattate a Michele dal momento della nascita. E lui, quando era bambino, si chiedeva dove mai fossero finite quelle foto. Chi le avesse tra le mani. Magari una madre sfortunata che aveva perso il proprio figliolo e si consolava guardando il suo visetto candido. E tra tutte le possibili realtà che poteva immaginarsi, quella era la più gradita. E poi gli piacevano tanto anche altre storie, come quella del momento in cui i suoi genitori decisero che lui avrebbe portato il cognome di entrambi. E questo era motivo per lui di grande orgoglio, vivendo tutto ciò come un privilegio. Nessuno dei suoi compagni di scuola, nessuno tra i suoi amici o conoscenti aveva due cognomi. “Solo i nobili ce l’hanno”, gli diceva sempre la madre, “E tu sei nobile nell’anima”. Ed ogni volta che glielo diceva, Michele la abbracciava fortissimo. Era un bambino tranquillo, Michele. Cordiale, ben educato ed amichevole con tutti. Molto affettuoso con i propri genitori, ma anche con gli zii ed i cuginetti. Michele era figlio unico, e c’era un bambino che considerava il suo migliore amico, si chiamava Antonello. Fu suo compagno di classe e di giochi per tutta la durata delle scuole elementari, poi al padre di Antonello fu proposto un lavoro in un’altra città ed allora tutta la famiglia si
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trasferì. Lo sentì per qualche volta al telefono, ed in un paio di occasioni si incontrarono, ospitandosi a vicenda, poi però i contatti si fecero sempre meno intensi, fino a che non smisero di sentirsi. Nel mentre Michele ebbe modo di conoscere altri ragazzi, di farsi degli altri amici. Ma continuò a considerare Antonello come il suo migliore amico di sempre. E qualche volta gli capitò di chiedersi se anche Antonello facesse lo stesso. A scuola Michele andava bene. Era un ragazzino piuttosto sveglio, e salvo qualche richiamo da parte dei professori durante le lezioni, perché magari chiacchierava un po’ troppo, non ebbe mai modo di portare a casa delle note ed i suoi genitori non furono mai convocati d’urgenza come invece capitò ad alcuni suoi compagni. Crebbe molto giudizioso, e si interessò di studi umanistici. La filosofia, soprattutto, e l’economia lo interessavano a tal punto che approfondiva gli studi con letture personali. Gli interessava capire il meccanismo delle cose, quali erano i centri del potere sociale, e da che cosa derivasse quel potere. Si interessò anche di politica, sin dalle scuole inferiori. Fu eletto per diversi anni consecutivi capoclasse e, date le sue doti di mediatore, ma anche vista la sua indole mai doma al sopruso, gli fu proposto di rappresentare l’intero istituto quando frequentava le scuole superiori. E fu candidato anche come rappresentante degli studenti durante i primi anni di università, fino a che non abbandonò improvvisamente gli studi per dedicarsi al lavoro. I suoi genitori non ebbero mai di che lamentarsi per il suo comportamento. La sua non era una famiglia ricca e nemmeno particolarmente benestante, e lui non creava dissapori interni con richieste eccessive, anzi, sin dalla pubertà, si impegnò nella ricerca di lavoretti stagionali o per il fine settimana, contribuendo attivamente al menage familiare. I suoi genitori erano sempre orgogliosi di lui. Quando abbandonò l’università ne furono però molto delusi, tanto che convocarono una sorta di riunione familiare, alla quale parteciparono anche altri parenti. Lo guardarono un po’ straniti, perché stentavano a riconoscerlo, dato che aveva deciso di tingersi i capelli di biondo. “Questo nuovo aspetto è il segno distintivo del mio cambiamento”, disse loro con ferma convinzione, prima che potessero fargli domande, tanto che gli altri non ebbero modo di controbattere. Tutti però poi una domanda gliela fecero, e tutti la stessa, e lui a tutti diede la medesima risposta: “Ho altri progetti per il mio futuro”. 306
Quali che fossero questi progetti non lo rivelò; però, alcuni giorni dopo avere lasciato gli studi, fu assunto in una officina meccanica. Il fatto che avesse immediatamente trovato una alternativa, e che regalasse il primo intero stipendio alla madre, accrebbe sicuramente la stima nei suoi confronti da parte dei genitori, e ne smussò la preoccupazione, anche se continuarono a domandarsi per mesi per quale motivo avesse scelto una attività così differente dalle sue passioni. Dovettero però convenire sul fatto che come meccanico era davvero in gamba, infatti sistemò non solo l’auto del padre, ma pure quella dell’intero parentado. E senza richiedere alcun compenso. Michele non aveva una fidanzata ufficiale. Ebbe in gioventù alcune storie di poco conto, ma nessuna donna fu mai in grado di interessarlo a tal punto da considerare il loro rapporto come una base sulla quale costruire qualcosa di più solido e duraturo. A differenza di quanto poteva dire di Antonello, di nessuna donna avrebbe mai parlato come del suo grande amore. Ed era proprio in compagnia di una ragazza, della quale poi non avrebbe ricordato nemmeno il nome, quando quell’uomo gli venne incontro. Era un uomo distinto e vestito in maniera elegante. Lo salutò come se lo conoscesse e si presentò: “Mi chiamo Giulio Andreoni. E’ un vero piacere conoscerla, signor Lofri Sioce”, gli disse stringendogli vigorosamente la mano. “Ma chi è? Lo conosci?”, gli chiese la ragazza al suo fianco. “Vorrei conversare con lei, se me lo concede”. Michele fu infantilmente inorgoglito dal fatto che l’avesse chiamato signore, e che lo avesse appellato con entrambi i suoi cognomi. Si voltò verso la ragazza e la liquidò senza troppi convenevoli, lasciandola smarrita in mezzo alla strada e seguendo quell’uomo che gli fece strada fino ad una automobile, invitandolo a salire. Notando la sua leggera titubanza gli disse: “Non abbia alcun timore, signor Lofri Sioce, le mie intenzioni sono tutt’altro che negative”. Lui sentiva dentro di se come una voce che gli consigliava di seguire quell’uomo, e così salì sull’auto. “Andiamo pure…”, comandò l’uomo, e l’autista partì. Michele notò che l’uomo aveva al dito un anello d’argento con una strana incisione a forma di otto rovesciato. “Il nastro di Moebius. L’infinito di John Wallis”, disse Michele indicando l’anello. 307
“Si, signor Lofri Sioce, e per l’appunto di questo che vorrei disquisire con lei. E’ da tempo che la osserviamo”. Michele trasalì: “Osservarmi? Ma che…è uno scherzo?”, iniziò leggermente ad avere timore. “Allontani le preoccupazioni”, lo tranquillizzò l’uomo, posandogli una mano sulla spalla, “Coloro che rappresento sono notevolmente interessanti ai giovani di talento come lei. Non richiede poco impegno, mi creda, la ricerca di virgulti degni della loro attenzione. Anche io a suo tempo fui sottoposto a scrupolosa osservazione e severa selezione. Ed ebbi in premio per le mie qualità l’anello d’argento. E agogno ottenere un giorno l’anello d’oro. Da ciò che conosco di lei, potrebbe aspirare proprio a quest’ultimo”, gli sorrise. “Aspetti un attimo, io non capisco…”. “Il nostro progetto mira all’evoluzione, signor Lofri Sioce. Ben sappiamo che anche lei ha posto la nostra società ad oggetto della sua analisi attenta, e siamo consapevoli del fatto che è grande il suo dispiacere, e che più d’una volta si è interrogato sulla possibilità di agire per incidere fortemente su una tale situazione, modificando in meglio simili brutture. Forse mi sbaglio?”. Michele scosse la testa, era piuttosto confuso. Come poteva quell’uomo conoscere i suoi pensieri? Si chiese però se tali discorsi non fossero solo “i vaneggiamenti di un folle..”, si lasciò sfuggire. “Oh no, signor Lofri Sioce, non dovrebbe pensarla a tal modo. Lei si sarà più volte fermato ad osservare i cortei di protesta, le manifestazioni ideologiche, anche tra i suoi colleghi studenti, e si sarà pur chiesto cosa in realtà si possa ottenere con canti e cori da slogan. Lei nel suo intimo si è interrogato sull’esistenza di un potere in grado di sovvertire un sistema nel quale non è più possibile riconoscersi”, lo guardò negli occhi. “E se le dicessi che esiste un tale potere? Se le dicessi che una ristretta cerchia di persone elette possiede una forza tale di ingegno e di mezzi per sovvertire questa situazione di precarietà sociale?” Michele abbassò leggermente lo sguardo, quasi intimorito da quelle parole, poi si fermò a riflettere. E dopo alcuni istanti rispose: “Se veramente esistesse un simile potere io vorrei disporne. Troppe sono le cose che non vanno in questa società. A troppe lamentele il nostro corpo politico è sordo. Troppo succube di clientelismo e conciliante con le mafie. Troppe sono le aree della società sulle quali si dovrebbe intervenire con maggiore carattere, perché le soluzioni sono alla nostra portata, ma per assurdo non vengono poste in essere”. 308
L’uomo profuse in una gustosa risata: “Mai incarico per me fu più prodigo di soddisfazioni. La fiducia in lei non è stata mal riposta”. “In cosa consiste il progetto di cui mi ha accennato?”, gli chiese Michele ed i suoi occhi brillarono scintillando. “Il progetto P66, signor Lofri Sioce, si propone di cambiare il corso della nostra storia attuale. È una sovrastruttura che sta ben al di sopra di me e di lei. Anche io non sono altro che un infimo ingranaggio, e ciò che conosco è solo una parvenza della verità. E così anche a lei sarà dato di conoscere solo ciò che riguarderà i suoi incarichi. Ma non dimentichi mai che noi perseguiamo l’ideale, ed è a questo che la nostra vita è votata”. L’ideale. Per diversi giorni quella parola gli risuonò nella testa, impedendogli di pensare ad altro. Lo distrasse a tal punto che non si presentò ad un esame per il quale aveva studiato parecchio nei mesi precedenti a quel singolare incontro. Il signor Giulio Andreoni lo salutò dicendogli di aspettare una chiamata. E questa chiamata arrivò. Fu lui ad alzare la cornetta. Era il titolare di una officina meccanica che gli disse che aveva visionato il suo curriculum e lo invitava per la firma del contratto di assunzione. La stranezza di quel fatto non gli diede la possibilità di avere alcun dubbio e capì immediatamente che il suo inserimento nel progetto 66 era avvenuto. Mai chiese al suo titolare o ai suoi colleghi se quell’impiego avesse a che fare con il progetto, e mai ne fece parola con alcuno. Nel proprio armadietto, settimanalmente, rinveniva dei messaggi scritti su alcuni volantini di negozi che vendevano ricambi per auto. Erano messaggi scritti a mano, e facevano riferimento a componenti del motore. Lui li conservò uno ad uno nel preciso ordine cui li trovava. Un giorno trovò una busta bianca con dentro un foglio con un messaggio battuto a macchina. Nel foglio era scritto di distruggerlo non appena letto il messaggio. Il messaggio conteneva il codice di lettura dei messaggi scritti a mano sui volantini, che una volta letti andavano anch’essi distrutti. E così Michele fece, con una gioia tale che non avrebbe potuto descrivere a parole. Si sentiva parte di qualcosa che realmente avrebbe potuto sovvertire il corso degli eventi. Restituendo la nazione ad un sistema di vita sociale degno di tal nome. Tutto in virtù dell’ideale. Lavorava oramai da un anno nell’officina meccanica. Non aveva praticamente alcuna vita sociale, né amici particolarmente cari, né una fidanzata, anche solo temporanea. Uscito da lavoro si diresse a casa a piedi, come suo solito. Non si accorse dei due uomini che si trovò improvvisamente alle spalle. Lo bloccarono e lo incappucciarono. Lui urlava e si dimenava. Lo fecero salire forse in un furgone, perché capì che si trattava di 309
un’autovettura, ma era molto spaziosa e ci entrò senza doversi chinare. Capì che doveva smettere di avere paura. Nessuno infatti lo malmenò. Quando gli levarono il cappuccio, si trovò legato ad una sedia e di fronte aveva degli uomini incappucciati, vestiti con delle tonache, con impresso sul petto il simbolo dell’infinito. “Sono pronto…”, disse impavido. “Bene”, si compiacque uno degli uomini incappucciati. “Sapevamo che eri pronto. Se solo avessi mostrato un minimo di timore o ripensamento…sai bene cosa sarebbe dovuto accadere”. “La mia vita è comunque a disposizione dell’ideale”. “Si, Michele. Ed è giunto il momento di agire. Ma prima dovrai dimostrarci la tua fedeltà incondizionata”. Michele sobbalzò leggermente e deglutì. Si era mentalmente preparato al rito di iniziazione per mesi, ma per un breve istante si sentì sperduto, in balia di pazzi. Quella notte Michele fu iniziato all’ideale, e gli fu richiesto di sopportare vessazioni fisiche al limite della resistenza umana. Trattenne le grida e le lacrime. Ed ogni volta che subiva in silenzio quegli uomini incappucciati si compiacevano con lui, accrescendone l’orgoglio. “Sai che ora non potrai tirarti indietro. A nessuno è consentito. E non pensare che ricada solo su di te il peso della tua scelta”, l’uomo gli mostrò due foto, una del padre ed una della madre. “Tutto ciò che possiedo in nome dell’ideale”, gridò piangendo Michele. “Si!”, gongolò l’uomo, “Gioiamo tutti con te, fratello Michele, che rinasci oggi a nuova vita”. Lo slegarono, lui cadde a terra esanime. Lo lasciarono lì svenuto. Due giorni dopo fu trasferito ad un’altra officina. Le auto che venivano portate erano tutte auto eleganti e di lusso. Ben presto si accorse che erano auto “blu” di rappresentanza. E gli fu chiaro che quello era il parco auto della dirigenza politica regionale. Le autovetture sulle quali viaggiavano i consiglieri e gli assessori regionali. Ed una in particolare: l’auto del governatore. Per un mese lavorò attendendo con ansia un messaggio. Ma ogni volta che apriva il proprio armadietto lo trovava sconsolatamente vuoto. Poi un giorno un uomo che non aveva mai conosciuto gli si accostò mentre rientrava a casa.
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“Domani ti arriverà un pacco. Lo terrai senza aprirlo per una settimana. Prima di allora qualcuno verrà a prenderti, e dovrai chiudere gli occhi”. Così come gli disse accadde. Ma questa volta c’era un solo uomo incappucciato. E nessuno lo picchiò. “E’ ora di entrare in azione”, gli disse l’uomo. “Ora ti spiegherò cosa dovrai fare”. E Michele imparò da quell’uomo come piazzare l’ordigno che era contenuto dentro il pacco.
L’auto sulla quale piazzò l’ordigno era quella del presidente della Regione. Non fu impresa semplice, perché dovette trasportare il contenuto della scatola fino all’officina, con il cuore che gli batteva all’impazzata e con un sudore freddo che gli rigava la schiena ogni volta che qualcuno gli parlava soltanto. “Ci penso io”, si propose per la messa a punto dell’auto, che era stata programmata esattamente per quella data. Dovette trovare il momento esatto per agire. E l’occasione giunse quando un forte botto provenne dalla strada. Tutti si precipitarono ad osservare cosa fosse accaduto. Tranne lui. Impiegò meno di un minuto. Così come si era esercitato a fare tutta la notte in quel garage dove fu condotto. Poi, mentre ancora sostavano incuriositi di fronte all’incidente che coinvolse oltre dieci vetture, si confuse con i propri colleghi.
Passò le successive due ore di lavoro come in tranche, ripetutamente richiamato ai propri doveri dal capo officina. Poi qualcuno gridò di alzare il volume della radio e lui ebbe un tuffo al cuore.
“Tenevamo sempre la radio accesa durante il lavoro. Anche se il capo si lamentava sempre, perché il rumore copriva il suono dei motori. Lui era uno della vecchia scuola e sapeva dirti cosa non andava appena giravi la chiave”, lui piangeva mentre le parlava. Lei restava schiacciata con la schiena contro il muro, immobile. Non riusciva nemmeno a respirare. Alberto Federico le puntava contro la pistola con la quale prima Fabio lo aveva minacciato. Fabio era rimasto nel giardino. Svenuto, con un bozzo sulla fronte. “Non ricordo chi alzò la radio. Io sentii solo una specie di fischio nel cervello, e poi tutti i loro commenti. O mio Dio, non è possibile, assurdo, poveri bambini! Ca***! Non doveva
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andare a finire così!”, si picchiava la pistola contro la testa, poi ringhiava come di rabbia triste. “Mi ero allenato per tutta la notte. Non avevo nemmeno dormito. Ca***! Forse ho sbagliato il settaggio”, iniziò a ridere con una risata folle. Marianna sentì un senso di nausea e trattenne un conato di vomito. “E’ scoppiata prima! Bumm! Ih ih…Bumm!”, continuava a ripetere isterico. “Lui nemmeno c’era sulla macchina! Brutto bastardo! Lui nemmeno c’era..a..a..a…Lo sai?! Erano andati a prendere i bambini a scuola…”, lui le si avvicinò, ciondolando la pistola tra le mani. Lei sentì il proprio sfintere gridare. “C’erano solo i bambini in macchina…”, si lasciò andare sulle ginocchia. Marianna articolò un passo. Ma lui si sollevò di scatto e rinculò verso il muro opposto, puntando la pistola in avanti. Lei meccanicamente fece un passo all’indietro alzando le mani. Lui, osservando il suo terrore scosse il capo, si portò le mani al volto e si rannicchiò su se stesso. Rimasero così per alcuni minuti. Mentre il silenzio era spezzato solo da rumori intestinali fatti di paura e sconcerto. Marianna piangeva in silenzio. Lui restava nel suo angolino balbettando frasi incomprensibili. “Mi vennero a prendere a casa”, riprese a parlare senza sollevarsi, tenendosi la testa tra le mani, ma senza liberarsi della pistola, “Avevo lasciato le mie impronte dappertutto”, sbuffò. “Il processo fu brevissimo. Ma di certo te lo ricorderai anche tu. Penso che ne parlarono parecchio i giornali all’epoca. Mi condannarono all’ergastolo. Io mi dichiarai colpevole. In nome dell’ideale non feci parola di tutto quello che riguardava il progetto. Penso che abbiano sempre sospettato che dietro di me ci fosse qualcosa di molto più grosso. Era impossibile che avessi potuto fare da solo. Ma riuscii ad essere sufficientemente plausibile. Il giorno che mi iniziarono mi istruirono alla menzogna costruttiva. C’era sempre un piano di emergenza. Pensavano che avessi paura di ritorsioni o str****te simili. Non capivano che l’ideale era sopra ogni cosa. Io ero nel giusto. Era stato un errore, purtroppo”, si alzò a fatica. Guardò fuori dalla finestra cercando Pasqua, ma non la vide: “Se n’è andata?”, si chiese ad alta voce. Poi si voltò verso Marianna:
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“In prigione però non ci arrivai mai. Durante il trasporto la nostra auto venne tamponata. Ho ricordi ancora confusi. Qualcuno mi liberò dalle manette. Sentì sparare. Poi quell’uomo mi fece salire su un’auto”, i suoi occhi si accesero illuminandosi, “L’ultimo ricordo che ho è il parco. Poi quell’uomo prese il fucile. Pensa, non l’avevo riconosciuto. È quel Gianni che stava con te…che ironia. Ricordo di essere scappato. Poi ho sentito un bruciore dietro la nuca. Tutto è diventato nero. E quando mi sono svegliato avevo questo anello al dito e non ricordavo nemmeno il mio nome”.
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Manifesto
“Io non credo ad una sola parola di quello che stai dicendo! Ma che c***o dici? Ma chi sarebbe questo Michele non so cosa? Cosa è quella pistola?”. Marianna, come se fosse il primo vagito di un neonato, rinacque da una stasi che l’aveva tenuta prigioniera a subire lo sproloquio di Alberto Federico che agitava la pistola in stato di semi incoscienza. Si liberò del vincolo tra la propria schiena ed il muro e si avvicinò a lui con le mani protese. “Sono io, amore mio. Mi riconosci?”, gli disse tra la lacrime mentre gli si accostava. “No, stai lontana”, tremò la sua mano stringendo la pistola. “Io so che non vuoi farmi del male. Io so che non mi sparerai”, disse lei nel tentativo di convincere più se stessa. Io ero pronta ad intervenire. Avevo pensato di gettarmi contro il suo occhio destro, così da accecarlo, poi il resto avrebbe dovuto farlo Marianna. Ed ero già in posizione d’attacco, ma nella mia testolina risuonò un latrato che mi impose l’immobilità. Dopotutto io ero unicamente una testimone. Ma comunque non fu necessario nessun intervento esterno. Quando Marianna gli fu davanti posò una mano sopra la canna della pistola e dolcemente assecondò il gesto di Alberto Federico che abbassò il braccio, per poi aprire la mano e lasciarla cadere. Marianna gli si strinse al collo piangendo. “Perdonami”, sillabò lui in lacrime. “Sono qui, non avere paura. Qualunque cosa succeda io non ti abbandonerò. Tu sei l’uomo che amo. Io ti conosco. Tu ti chiami Alberto Federico”.
“E’ tutto in diretta, lo vedi?”, gongolava la signora Lella, mentre le telecamere riprendevano l’esterno della casa di Marianna ed Alessandro. Intanto i giornalisti avevano già alcune volte riferito di una telefonata anonima di una telespettatrice che aveva riconosciuto nell’eroe che aveva salvato i tre bambini dall’incendio del bosco un pericoloso latitante scomparso ormai da dodici anni. “Mamma, ma perché c’è la casa di Alessandro? E chi è quello? Perché dicono che Alberto si chiama Michele?”.
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La signora Eleonora stringeva forte Cristian cercando di impedirgli di guardare, mentre piangeva disperata. Tommaso, intanto, davanti alla televisione, teneva le mani sopra le orecchie ed intonava una litania incomprensibile mentre tutti gli operatori della casa famiglia cercavano di tranquillizzarlo. Contemporaneamente i telefoni di diverse delle linee telefoniche intestate al Barone o riconducibili ai suoi uffici squillavano senza sosta. La Contessa restava nella propria stanza, seduta su una elegante Venanzelli, con gli occhi vuoti a rimirare il nulla su di un muro bianco.
Alberto Federico, o meglio Michele, non appena sentì le sirene, sospinse Marianna allontanandola da se e raccolse la pistola. “Te ne devi andare! Non voglio che ti succeda niente!” “Io resto con te, Alberto”, gli disse. “Non mi chiamo Alberto, lo vuoi capire?”, le gridò contro. “Mi chiamo Michele Lofri Sioce”, ripeté alcune volte mentre in rapida sequenza si scorse da tutte le finestre della sala. “Me***! Hanno già circondato la casa!”.
Il Commissario Antonello Monti dodici anni prima era un semplice agente di polizia. Gli fu dato l’incarico, insieme ad altri tre colleghi, di scortare un pericoloso prigioniero. E lui quel prigioniero lo aveva conosciuto. Ed un tempo lo aveva chiamato amico. Ma successe qualcosa ed il prigioniero fuggì. Adesso, lì davanti a quella casa, si chiedeva come mai non lo avesse riconosciuto, nonostante la barba ed il colore dei capelli. “Voglio tutti disposti intorno alla casa!”, ordinò, “E che nessuno spari o agisca senza un mio ordine”.
“Chiunque tu sia stato in passato non ha importanza. Ora tu sei un’altra persona! Guarda tutto il bene che hai fatto a me. Pensa ai ragazzi. Tu li hai salvati. Sei un eroe!”, gli disse lei. “Ma quale eroe!”, gridò lui, “Lo vuoi capire che sono un assassino! Io sono un combattente. Io devo difendere l’ideale”. “Ma quale ideale può mai giustificare un’azione del genere? Cosa ci può essere di più prezioso della vita umana?”, Marianna gridava più forte di lui. 315
“Proprio tu mi chiedi quanto sia preziosa una vita? Proprio tu non riconosci la supremazia dell’ideale? Pensi di essere meno colpevole di me? Eh?”, la incalzò isterico. “Io?”, si sconcertò Marianna, senza riuscire a trovare parole per rispondergli. E prima ancora che lui riprendesse a parlare, lei tremò, perché intuì cosa stava per dirgli, e pregò che non lo facesse. “Anche tu sei colpevole. Anche tu hai sacrificato una vita al tuo ideale!”, sentenziò lui, con voce fredda e crudele. “Ahhhhhh!”, gridò Marianna, prostrandosi a terra ed agitando insensatamente le mani. “Stai zitto! Stai zitto! Stai zittoooooo!”. “Cosa credi? Non è amore quello che ti impedisce di cancellare quella sagoma…”, continuava lui. “Zitto! Zitto! Zittoooooo!”, gridava più forte lei, tappandosi le orecchie. Una voce metallica riecheggiò improvvisa, così forte da coprire il pianto urlato di Marianna. Michele si sporse da una finestra. Un uomo che gli parve di riconoscere parlava dentro un megafono: “La casa è circondata! Arrenditi! Non ne vale la pena!”, gli intimò la voce. “Arrendermi?!”, gridò Michele, “Io non mi posso arrendere! Che ca*** ne vuoi sapere tu? Cosa ne volete sapere voi? Voi tutti che vi siete arresi a questo sistema. Voi che avete accettato che questa società vi mettesse dei vincoli che in natura non esistono. Nessuno dovrebbe arrogarsi il diritto di imporre le proprie decisioni. Una ristretta oligarchia in grado di governare ed atterrire il popolo che dovrebbe rappresentare e tutelare. Ma cosa c’è di legale in questa democrazia? Forse l’ora?”, guardò Marianna, che tremante lo osservava con occhi addolorati, “Ti rendi conto che si deve pagare per avere un documento di identità? O per mandare i propri figli alla scuola dell’obbligo? E quante leggi assurde ed arcaiche dobbiamo rispettare?”, parlava picchiettandosi la pistola sulla fronte, muovendosi nervosamente a cerchio, fermo sempre sullo stesso punto, “E il sistema fiscale che fa acqua da tutte le parti. Che permette ai ricchi di continuare ad arricchirsi a discapito dei lavoratori, dei pensionati? Nessuna prospettiva di sviluppo industriale. Nessuno sfruttamento delle risorse e delle materie prime. Tutto protetto da vincoli di perbenismo inconcludente ed ottuso. E un sistema penale che non garantisce la pena ma che è garantista solo per il reo. Forze dell’ordine prive di armi adeguate. Criminalità sempre più organizzata e noi sempre meno in grado di rispondere, a farci umiliare e a non poter rispondere fuoco contro fuoco”, si avvicinò nuovamente alla 316
finestra, “Devo andare forse avanti? Quando vi convincerete che tutto questo deve cambiare? Quando vi renderete conto che affidarsi all’ideale è l’unica salvezza per la nostra società?”. Poi si allontanò dalla finestra, si sedette sul pavimento, piangeva: “Quando lo capirete tutti? Il progetto aveva un senso logico”, disse guardando Marianna, “Era un ingranaggio perfetto! Ed io ho fallito quando potevo risultare determinante. Io ho fallito”. Marianna lo guardava incredula. Persino la sua voce era cambiata. Fu come strapparsi il cuore e gettarlo lontano, ma non poté fare a meno di dire a se stessa che quello che ora aveva davanti ed incastrava tra loro frasi senza senso non era Alberto Federico, se mai lo fosse stato. Lui non era l’uomo che amava. Pasqua penetrò improvvisa nella casa, anticipando un gruppo di cinque uomini armati pronti ad entrare dopo aver silenziosamente forzato una finestra. Abbaiò verso Michele. Lui la guardò. Scosse la testa rinsavendo come da una sbronza. “Lo sai come si chiamavano quei bambini?”, disse a Marianna, alzandosi e poggiando la pistola sul tavolino. “Alessandro, Tommaso, Cristian”, disse sorridendo con tristezza. “Sedici anni, undici anni….sette anni…”, aggiunse guardando Pasqua, “Ora capisco tutto…”. Si diresse verso la porta, la aprì ed uscì dalla casa con le mani alzate. Poco prima di attraversare la soglia si voltò verso Marianna: “Un veleno, per quanto possa esserne benefico l’effetto, resta pur sempre un veleno…Io non posso fare a meno di sentirmi colpevole, ma tu meriti perdono…il tuo…Ti amo…e lo farò per sempre”, le disse. Poi si lasciò ammanettare senza opporre resistenza.
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Compost
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Soap opera
Amici miei carissimi, si chiude così questa lunga avventura della quale siamo stati noi testimoni e voi persone informate dei fatti. Io e le mie colleghe speriamo vivamente di avervi fatta cosa gradita a raccontarvela, con l’augurio che il messaggio profondo, radicato tra le parole del testo, sia giunto a qualcuno tra voi. Oh, amici, niente di complicato, sia ben chiaro, che a voler fare troppa filosofia poi ci si stufa. Dopotutto questa è una favola. E tale deve restare. E quindi quando mai è esistita favola senza lieto fine? Perché lo so quanto siete curiosi voialtri, desiderosi di sapere cosa sia accaduto ai nostri eroi involontari, dopo. Già, dopo.
Michele Lofri Sioce, per qualche tempo noto ai più come Alberto Federico barone di Buddenbrook, fu arrestato e condotto in prigione, dove avrebbe scontato l’ergastolo. Mentre lo portavano via Alessandro gli chiese perché, semplicemente, ma lui non rispose. Mesi dopo Marianna ricevette una lettera, scritta di suo pugno proprio da Michele. Nella lettera diceva loro di credere nei propri ideali, lui che a tali ideali aveva sacrificato se stesso, e la vita di tre innocenti. Non poteva rinnegare ciò che aveva fatto, non potendo rinnegare se stesso. Non era esistito per dodici anni, e se lo avesse fatto, colui che era stato prima di risvegliarsi nel bosco non sarebbe mai esistito. E visto che colui che nacque da quel sonno non era altro che un’illusione, avrebbe rischiato egli stesso di non avere identità alcuna. Concluse la lettera scrivendo “ho fiducia in te”. Negli anni a seguire avrebbe scritto un libro contenente le proprie memorie, e tale ne sarebbe stato il successo di pubblico e critica che avrebbe fondato una propria casa editrice. I signori Lofri e Sioce furono assai felici di avere ritrovato il proprio figlio, perché lo credevano ormai morto, e lo avevano già pianto, e comunque non l’avevano mai ripudiato, neppure al momento della sentenza di condanna, e la signora Desdemona - che svenne pure per l’emozione - pianse di una disperata gioia quando gli fu permesso di incontrarlo, anche se poté solo vederlo attraverso uno spesso vetro. Anni dopo avrebbero presentato al Capo dello Stato formale richiesta di concessione della grazia, supportati da intellettuali politicizzati e da politici intellettualizzati, ricevendo però un cordiale rifiuto. Michele scrisse una lettera anche al Barone, e fece in modo che gli giungesse insieme all’anello. Quello stesso anello il Barone lo restituì poi al legittimo proprietario, il figlio
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Alberto Federico, che decise di riapparire all’improvviso. Anche se il Barone, in cuor suo, sapeva che sarebbe ritornato e che questo avrebbe significato solo una cosa per lui. “Perché proprio ora?”, gli chiese il Barone. “All’inizio ho pensato che fosse solo perché il mio assurdo piano era stato scoperto. Fare una copia di me stesso: che idea balzana! Un espediente indegno persino della peggior soap opera, lo ammetto. Ma poi ho capito che sono qui perché un pentimento senza castigo non mi avrebbe redento, padre. Perché eravate nuovamente pronti a macchiare d’infamia l’ideale. Non potevo permettere che si ripetesse di nuovo una simile tragedia. Non potevo permettervi di rendermi oltremodo colpevole”. “Ma chi ti ha dato l’arroganza di ergerti a possessore della verità? Il tuo solo riapparire comporterà la mia fine. Che almeno tu ne sia consapevole”. “Vorresti darmi ad intendere che non era questo il tuo obiettivo? Tu sapevi benissimo che quell’uomo non era tuo figlio. A quale scopo avresti dunque messo in scena quell’assurda commedia?”. Ma a quella domanda il Barone non rispose.
La Contessa ebbe una sincope, e fu necessario un ricovero nella Clinica, infatti l’ospedaletto da campo approntato nel giardino della residenza era stato smontato completamente dopo che l’altro Alberto Federico si era ristabilito.
Il vero Alberto Federico non diede alcuna ulteriore spiegazione, oltre che ai suoi genitori, neanche ai giornalisti, con enorme dispiacere della signora Lella, che già pregustava un nuovo scoop nella telenovela della quale anche lei si sentiva protagonista, o quanto meno comparsa. Era praticamente identico a Michele. Il nome Federico gli fu dato in ricordo del padre, che si chiamava Federico, appunto, ma che dopo la tragedia che distrusse la sua famiglia, si faceva chiamare Boicco. Il Barone e la Contessa adottarono uno dei suoi due figli, nati gemelli, dopo che lo stesso Boicco, uomo di fiducia del Barone, e sapete cosa si intende per uomo di fiducia, impazzì e fu ricoverato in un reparto psichiatrico e poi in una casa protetta, in seguito ad un incidente che costò la vita alla moglie Elena. I fatti che accaddero non furono mai chiariti del tutto, e nemmeno un’equipe di psichiatri, neurologi e psicologi seppe spiegare la natura di quegli stivali rossi che da quel momento in poi Boicco avrebbe sempre indossato.
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A voler essere indiscreti, è da sapersi che la moglie di Boicco era una delle tante amanti del Barone, e che rimase incinta, un giorno. Entrambi i figli che ebbe erano di Boicco, senza ombra di dubbio alcuna, ma lui sospettò sempre del tradimento della moglie, che poi ebbe quello strano incidente nella vasca da bagno. Boicco impazzì, e quando fu dimesso si rifugiò nei pressi del bosco. La prima volta che venne avvistato era in compagnia di un cane lupo femmina ed era praticamente nudo con addosso solo quel paio di stivali. Al momento dell’adozione, il Barone impose tale scelta alla Contessa, che sospettava anch’essa che quel bambino fosse frutto di una relazione adulterina. L’altro gemello fu invece dato in adozione ai signori Renato Lofri e Desdemona Sioce, che lo crebbero come loro, mentre vissero sempre sotto il controllo di uomini di fiducia del Barone. E quando Michele fu abbastanza grande, il Barone lo volle come adepto della Loggia, non senza doversi assumere la completa responsabilità di una simile decisione che a fatica ottenne l’approvazione degli altri componenti. Anche Alberto Federico fu instradato alla dottrina dell’ideale, insieme ai suoi due fratelli, ma il padre di Alessandro non volle mai avere a che fare con tali affari, allontanandosi ben presto dalla famiglia. Successivamente, a tal punto affranto dalle nefandezze che il padre lo spinse a compiere, Massimiliano Ludovico, il suo primogenito, si uccise, mentre Alberto Federico decise di scappare, dopo l’attentato al governatore, all’organizzazione del quale partecipò attivamente. Ma prima di scappare, ordì un piano che pensò gli avrebbe permesso di vivere nell’anonimato i suoi giorni di latitanza. Scoprì infatti di avere un fratello gemello, essendo già a conoscenza del fatto di essere stato adottato. Diede incarico ad un giovane chiamato Gianni, desideroso di ottenere la riconoscenza dei baroni, che già in alcune occasioni si era sporcato non poco le mani per loro conto, affinché permettesse a Michele di fuggire alla definitiva cattura, per poi ucciderlo, ma solo dopo avergli infilato il suo anello al dito, così tutti lo avrebbero riconosciuto in quel corpo, mentre predispose false informazioni che spinsero le ricerche dell’attentatore oltre i confini nazionali. Poi un cadavere carbonizzato ed irriconoscibile, alcune compiacenti amicizie, e pagine di fascicoli sparite chissà dove fecero il resto. E dopo che il Barone gli ebbe restituito l’anello, si costituì, portando contro di sé prove schiaccianti, che aveva provveduto a costruire ad arte in tutti quegli anni di clandestinità.
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Alla Contessa sua madre che lo amò per sempre come il suo unico figlio risorto una seconda volta disse solamente queste parole: “Il mio cuore era come avvelenato. Ma ora è puro, pronto al castigo. Non odiarmi, mamma”. La Contessa non lo odiò, e nella sua mente lui restò l’uomo che si era risvegliato dentro ad un bosco. Gli inquirenti tentarono in ogni modo di fargli confessare che lui era solo uno degli ingranaggi di un sistema ben più complesso, ma Alberto Federico in nessun caso fece riferimento al padre, all’anello ed alla Loggia P66. Tanto clamore, insieme ad alcune sue sibilline dichiarazioni, furono però sufficienti a determinare un riassetto nelle gerarchie della Loggia, ed a far interrompere momentaneamente le attività in corso. Prima di costituirsi Alberto Federico si recò in carcere a fare visita a Michele. “Fratello mio…”, lo salutò. “Così identici, e così agli antipodi…”, rispose Michele. “Non poi così tanto”, ribatté sorridendo Alberto Federico. In carcere un giorno lo andò a trovare Amanda. Al vederlo si commosse.
Tommaso trovò nuovi soggetti per i suoi disegni, e trovò anche una nuova famiglia. Il Tribunale dei Minori lo affidò a Marianna, grazie anche alle ottime referenze che le garantì don Alfonso Maria. Nel suo cuore sarebbe rimasta per sempre una ferita profonda. Ma, il giorno in cui Alessandro gli mostrò la sua camera, Tommaso sorrise.
Cristian continuò a fare il chierichetto e ad essere amico di Tommaso ed Alessandro. E un giorno li convinse ad andare a cercare il matto con gli stivali. Quando giunsero alla sua baracca la trovarono vuota. Non c’erano più nemmeno i cani. Qualcuno disse che era partito per un lungo viaggio. Annalisa, l’operatrice della casa famiglia, quando Tommaso si trasferì pianse di gioia. Nel periodo successivo le capitò di essere triste. Trovò consolazione in Stefano, suo collega, con il quale si fidanzò.
Alessandro terminò con successo il suo percorso di prova. Il processo non fu celebrato e lui portò dentro di se un tale insegnamento che condizionò positivamente ogni scelta della
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sua vita. Continuò a frequentare l’oratorio, diventandone un punto di riferimento, insieme a Silvia, dalla quale non si separò più.
Marianna vinse con impegno e determinazione la sua battaglia contro l’alcolismo. Alessandro visse momenti di grande preoccupazione in seguito all’arresto di Michele, temendo che quel fatto avrebbe dato il colpo di grazia al flebile tentativo della madre di riprendere in mano la propria vita. Ma lei lo sorprese, e sorprese positivamente anche Rossella, che scrisse una accorata relazione al Tribunale per i Minorenni, tanto che il fascicolo fu definitivamente archiviato. Marianna accettò dopo ripetuti rifiuti di porsi a capo del comitato cittadino che si opponeva alla cementificazione del Parco Naturale del Gran Paradiso. La vittoria fu netta, ed ogni rischio di edificazione del residence fu scongiurato, anche per il fatto che il Barone si trovò impotente, e la Contessa, ripreso possesso della sua eredità, firmò un atto di lascito perpetuo e vincolante alla Regione. Durante la cerimonia che fu organizzata, la Contessa strinse la mano a Marianna, ed accarezzò il viso di Alessandro. Da quel giorno non ebbero più occasione di incontrarsi. Marianna decise inoltre di utilizzare la parte di eredità che il marito le lasciò a disposizione in punto di morte, e che lei aveva sempre rifiutato di riscuotere, vivendo unicamente di una piccola rendita garantitale dall’assicurazione sulla vita che suo padre stipulò in suo favore quando era ancora una bambina. Con il lascito diede vita ad cooperativa sociale denominata Compost, simpaticamente in onore al proprio passato. La cooperativa ottenne la gestione della discarica e del termovalorizzatore, che fu possibile riattivare una volta che vennero meno le pressioni della loggia. Dopo la morte del padre di Alessandro l’intero complesso fu infatti sottoposto a fermo, perché, in seguito alle indagini, emersero collusioni tra i gestori e la criminalità organizzata. La cooperativa si specializzò nel riciclaggio dei rifiuti e reinvestì i profitti in progetti di energia alternativa. La cittadinanza ne fu entusiasta. Tra i soci ci fu anche Livio, il padre di Cristian. Con il nuovo stipendio la famiglia trovò una casa più grande e vi si trasferì. Alla signora Lella, il genero, regalò un televisore nuovo ed un paio di cuffie. Marianna assunse il ruolo di presidentessa della cooperativa, e non fu mai così bella e sorridente. Ed un giorno, in occasione dell’anniversario della morte del marito, insieme ad Alessandro e Tommaso, aprì la stanza sempre chiusa, cancellando la sagoma dal pavimento, riverniciando di un acceso celeste le pareti e raccogliendo la ciocca dalla teca di vetro. Allestirono poi un piccolo fuoco nel giardino, e Marianna osservò la ciocca 323
bruciare, mentre il fumo saliva alto verso il cielo, accarezzato da un vento caldo. Marianna gettò nel fuoco un bigliettino di carta, ma non rivelò mai
nemmeno ad
Alessandro cosa ci avesse scritto.
Il Barone si ritrovò solo, nella sala dei sospiri, a rimirare il proprio dito spoglio dell’anello che con orgoglio aveva indossato. Il Grande Consiglio lo convocò nella Capitale per imporgli l’atto di rinuncia all’ideale. Il Barone non pronunciò parola, si sfilò l’anello e lo consegnò, lasciando la sala. Divorziò dalla Contessa, che pretese la separazione. La fine del matrimonio e la perdita dell’appoggio della loggia gli costarono talmente tanto in termini economici e di immagine che rischiò il tracollo. Su di lui pesarono pesanti sospetti, il più lieve dei quali fu l’essere considerato il mandante del piromane che attentò al parco naturale. Si ritirò a vita privata. Accanto gli rimase solamente il devoto Donato, che, seppur invitato dalla Contessa, non lo abbandonò. Il Barone visse il resto della propria esistenza con il peso della pietà del proprio servo.
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Pasqua
Circa cinque anni dopo i fatti ormai noti, Annalisa e Stefano, tempo prima colleghi all’interno della casa famiglia che ospitò Tommaso, proprio ricordando quegli avvenimenti, e domandandosi se stesse bene, ripromettendosi di andarlo a trovare presto, si incamminarono mano nella mano per un sentiero del Parco Naturale del Gran Paradiso. “Il sentiero delle parole”, lesse su di un cartello Stefano. “Già”, puntualizzò saccente Annalisa, “Ho sentito che questo sentiero hanno finito di sistemarlo da poco. Ci sono tutte queste pietre con incise sopra le lettere dell’alfabeto. Alla fine ci dovrebbe essere una cascata con dentro una statua di donna”. “Dai, andiamo a vederla allora”, la esortò Stefano. Camminarono seguendo il sentiero, ma ad un certo punto si resero conto di essersi addentrati parecchio dentro il fitto bosco. “Te lo immagini se ci perdiamo come Tommaso quella volta?”, disse Stefano con tono scherzoso. “Dai, non scherzare, lo sai che mi spavento facilmente. Ritorniamo al parcheggio prima che faccia buio, mi sa che questa cascata non c’è”, disse lei, con leggera preoccupazione. “Va bene, tanto dobbiamo solo ripercorrere il sentiero al contr…”, le parole gli morirono in bocca. I due si guardarono intorno e scoprirono, non senza terrore, che il sentiero non c’era più, e che si trovavano da soli in mezzo al bosco. “Aspe’…ma quando siamo usciti dal sentiero? Dove sono le pietre con le lettere?”, disse lui, agitato. “Eh? Stavi facendo strada tu, io ho seguito te. Dopo un po’ non ho più fatto caso alle pietre, erano tutte uguali. Ma non ti sei accorto di niente?”, lei iniziò a rabbrividire girandosi intorno. Il silenzio del bosco li avvolse, ben presto si trovarono stretti l’un l’altro, e poi a correre a perdifiato prima a destra e poi a sinistra. “No, no, aspetta, qui ci siamo già passati!”, gridò lei nel più totale panico. “Oh, Dio, non mi vorrai far credere che la leggenda è vera? Sono solo scemenze! Ci stiamo impanicando per niente! Dobbiamo solo stare calmi e seguire il nord! Dobbiamo cercare il muschio!”, disse lui cercando impavidamente di rassicurarla. “Ma quale muschio e muschio! Io chiamo aiuto!”, sentenziò lei.
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Trascorsero più di due ore. Si ritrovarono a passare diverse volte negli stessi punti. Annalisa ebbe una crisi di pianto, Stefano la strinse forte ma non riuscì a tranquillizzarla. Poi superata una barriera fatta di arbusti si trovarono in una piccola pianura. “Guarda lì, cos’è?”, le indicò Stefano. Si avvicinarono alla strana costruzione che si ergeva al centro della radura. “Sembra una donna…”, commentò Annalisa, posando la mano sopra una forma scolpita su di un blocco di roccia, al lato della costruzione. “Eva…”, lesse ad alta voce, osservando una scritta incisa alla base della statua. “Ma che è? Sembrano i resti di un tempio antico, vero?”, chiese Stefano. “Guarda. Ci sono delle incisioni. Che lingua è? Questa sembra una R al contrario. E questa? Una acca?”, aggiunse con tono dubbioso. “Dai, se c’è questo, vuol dire che c’è un sentiero che porta fuori, no?”, si entusiasmò lei. All’improvviso sentirono un rumore dietro di loro, si voltarono e videro un uomo vestito di cenci apparire dalle fronde, come uno scoglio che appare da sotto le onde impetuose. E non era solo. L’uomo li guardò. “Vi siete persi?”, chiese loro. “Si, la prego, ci aiuti ad uscire! Ci può indicare il sentiero?”, quasi si prostrò Annalisa implorandolo. “Sentiero? Uscire? Se sapessi come fare!”, sorrise imbarazzato l’uomo, grattandosi la testa, “Sono cinque anni ormai che ci provo”. Annalisa perse la forza nelle gambe e quasi svenne. Stefano restò senza parole. “Ma lei chi è?”, riuscì a balbettare. “Io non me lo ricordo…”, rispose l’uomo che un tempo si chiamava Gianni. Ed il cane lupo femmina che gli stava accanto abbaiò.
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