La Rovina e la fascinazione della sua rappresentazione 1
Scuola di Architettura, Urbanistica e Ingegneria delle Costruzioni Corso di laurea in Progettazione dell’Architettura
Tesi di laurea di Alessandro Sillavi - 879479 Relatore prof. Marco Ausano Introini A.A 2018-2019 Sessione di Febbraio 2020
La Rovina e la fascinazione della sua rappresentazione
In copertina: Gabriele Basilico, Beirut, Rue Dakar, 1991
“Sono nato fra le rovine... io amo le rovine perché sono il punto di partenza per qualcosa di nuovo.” Anselm Kiefer
Ringrazio il mio relatore Marco Introini che ha saputo indirizzarmi verso l’argomento, i miei genitori, Federica (che nella correzione dei testi ha tenuto a bada la mia mania per le virgole) e tutte le persone che mi sono state vicine in questi tre anni.
Abstract
1 La Rovina
1.1 La fascinazione della rovina 1.2 La rovina come fascinazione visiva 1.3 La rovina che diventa luogo di progetto 1.4 Rovina e frammento 1.5 Rovine del Novecento: riflessioni e rappresentazioni
2 La Rovina nei progetti fotografici
2.1 Beirut, Gabriele Basilico 2.2 Zones of Exclusion: Pripyat and Chernobyl, Robert Polidori 2.3 Aftermath: World Trade Center Archive, Joel Meyerowitz 2.4 The Ruins of Detroit, Yves Marchand, Romain Meffre 2.5 Interno perduto. L’immanenza del terremoto, Giovanni Chiaramonte
3 La Rovina nei progetti architettonici
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10 16 24 32 38
52 68 80 94 108
3.1 Duisburg Nord Landscape Park, Latz+Partner 3.2 Kolumba Museum, Peter Zumthor 3.3 Musealizzazione del sito archeologico di Praça Nova, Carrilho da Graça 3.4 Padiglione di accesso agli scavi dell’Artemision di Ortigia, Vincenzo Latina 3.5 Basilica di Siponto, Edoardo Tresoldi
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Bibliografia e sitografia
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ABSTRACT L’elaborato nasce dalla forte fascinazione che ho provato osservando le fotografie di Beirut, devastata dalla guerra civile, realizzate da Gabriele Basilico. Ho trovato interessante cercare di comprendere quando e dove nasce questo sentimento comune e perché l’uomo, da quando questa sensazione è nata, ha trovato interessante la rappresentazione della rovina, attribuendole significati differenti nel corso della storia. Nel primo capitolo viene analizzato come la rovina è stata rappresenta dalla letteratura e dall’arte figurativa. Vengono poi considerati tre progetti architettonici realizzati prima del diciottesimo secolo, in cui l’uomo è intervenuto costruendo sopra o all’interno delle rovine. Il limite temporale viene posto poiché prima di esso il concetto di “restauro” come lo intendiamo oggi, ossia atto critico finalizzato alla conservazione delle testimonianze materiale aventi valori di civiltà, non esisteva. Viene poi esaminata la distinzione, avvenuta nel Settecento, tra rovine e frammenti e la consequenziale nascita della cultura del frammento. Nell’ultima parte si osservano le riflessioni e le rappresentazioni, sul tema della rovina, da parte degli artisti nel difficile secolo del Novecento. Nel secondo capitolo vengono esposti cinque progetti fotografici sul tema delle rovine. Si differenziano per la causa che ha portato allo stato di rovina: in Beirut la guerra; Zones of Exclusion: Pripyat and Chernobyl il disastro antropico; Aftermath: World Trade Center Archive l’attentato terroristico; The Ruins of Detroit l’abbandono e infine in Interno perduto. L’immanenza del terremoto le rovine sono causate da una catastrofe naturale. Nel terzo ed ultimo capitolo vengono presentati cinque progetti architettonici, realizzati in presenza di rovine, che generano con esse rapporti differenti.
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1 La Rovina
LA FASCINAZIONE DELLA ROVINA Il sentimento della fascinazione per le rovine sembra essere da sempre una caratteristica dell’uomo. Per capire quando nasce e come si sviluppa nel corso dei secoli, è interessante partire dal saggio Pleasure of Ruins che la scrittrice inglese, Rose Macaulay, pubblica nel 1953. Il libro viene scritto dopo due avvenimenti traumatici per la scrittrice: la morte della sorella e la distruzione della sua casa a Londra causata dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale. Rose Macaulay viene sconvolta emotivamente soprattutto dalla perdita della sua libreria. Pleasure of Ruins parla della fascinazione della rovina, sentimento che colpisce gli artisti del diciottesimo secolo ed esplode durante il romanticismo, anche se, come vedremo, è possibile trovare tracce della sua esistenza ben prima. Il libro ci permette di seguire la ruinophilia dalle epoche classiche fino al secondo dopoguerra e di indagare sui sintomi che hanno fatto nascere in noi occidentali questa sensibilità. Durante le epoche classiche e nel Medioevo le rovine vengono poco considerate mentre nel Rinascimento iniziano ad apparire come sfondo o supporto per il soggetto principale del quadro. Pensiamo ad esempio alle Madonne con bambino, alle Adorazioni dei Magi e a San Sebastiano raffigurato legato ad una colonna in rovina. Nel sedicesimo e diciassettesimo secolo vi è una crescente fascinazione per le rovine che raggiunge il culmine nel diciottesimo secolo dove, in Europa, la rovina occupa il posto centrale nell’arte, nella poesia, nel teatro. Si sviluppa una moda, soprattutto nell’aristocrazia inglese, che consiste nel costruire finte rovine greche e romane, finte abbazie e castelli medievali all’interno dei giardini delle ville. Secondo la Macaulay possiamo supporre che i primi segnali della fascinazione per le rovine risalgano al trionfo contro i nemici e siano quindi legati all’eccitazione e alla frenesia della guerra. Le prime letterature trattano del piacere che l’uomo prova nella celebrazione del disastro inflitto al nemico ma è ben diverso dal dire che egli provi fascinazione nella contemplazione delle rovine risultanti dalla battaglia. 12
In questo periodo burrascoso, nel mondo si producono innumerevoli rovine, ma pochi poeti scrivono a riguardo. Nell’antica Grecia vi erano certamente grandi poeti e molte rovine, ma quasi nessuno di questi scrive delle rovine in modo sentimentale. Basti pensare che la distruzione dell’Acropoli arcaica, avvenuta nel 480 a.C. per mano dei Fenici, non è stata descritta in questa maniera da nessuno storico, filosofo o poeta. Gli antichi non provano nessun diletto nella contemplazione delle città interamente distrutte dalle guerre, né tantomeno nelle devastazioni prodotte dalle attività naturali, siano terremoti o eruzioni vulcaniche. L’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. viene descritta da Tacito, da Svetonio e dai due Plini, ma pochi si soffermano a descriverne le conseguenze. Marco Aurelio considera le città distrutte come Elice, Pompei ed Ercolano, degli esempi da tenere sempre a mente delle “cose umane sempre effimere e prive di valore”. È questo il sentimento che anima Cicerone che, quando visita la città di Corinto poco prima che venga ricostruita dai Romani, rimane molto colpito e contempla a lungo le rovine. Il valore delle rovine per l’uomo antico è essenzialmente e nulla di più di un memento mori. È con la bibbia ebraica che nasce una tradizione diversa, ovvero quella profetica. Il popolo ebraico, sempre assediato dai potenti vicini, prevede e interpreta le rovine. Isaia (13: 19-22) e Geremia (25: 8) profetizzano la caduta di Babilonia, molto tempo dopo i Maccabei descrivono Gerusalemme distrutta (Maccabei 3: 45 e 4: 38-40) mentre ancora più tardi Gesù ne annuncia l’imminente distruzione (Matteo 23: 37-39). Anche nell’Apocalisse troviamo una profezia della distruzione, questa volta rivolta a Roma (Apocalisse 17: 1-8 e 18: 1-3). Girolamo, il traduttore della Bibbia, nel 403 d.C. scrive a proposito di Roma: “L’aureo Campidoglio giace squallido, tutti i templi di Roma sono coperti di fuliggine e ragnatele... Il culto pagano soffre di abbandono nella stessa urbe. Quelli che furono gli dèi dei popoli sono rimasti con i gufi e le nottole nelle loro cupole solitarie”. Girolamo vivrà il passaggio dal mondo antico, pagano, a quello nuovo, cristiano. Roma verrà saccheggiata sette anni più tardi dai goti di Alarico, seguiranno poi i sacchi 13
dei Vandali di Genserico nel 455 e quello dei Normanni di Roberto il Guiscardo nel 1084. Dopo questi la città si ritrova in uno stato rovinoso che è quello in cui l’hanno potuta vedere gli uomini dei secoli successivi e che ancora oggi è visibile. Nell’ottavo secolo, Alcuino di York scrive una formula che verrà usata a lungo anche dagli scrittori dei secoli successivi: “Roma, capitale del mondo, del mondo gloria, aurea Roma, /ora ti resta soltanto selvaggia rovina”. In questo periodo storico, quello della fine del mondo antico, si producono numerosissime rovine, causate sia dalle invasioni barbariche, sia dall’incuria e dalle spoliazioni sui templi pagani. È in Inghilterra, però, che le rovine trovano una forte risonanza letteraria. Gildas e Aldheim descrivono con toni apocalittici la situazione che si creò in Britannia subito dopo la partenza delle truppe romane. Lo scritto più famoso è l’elegia La rovina, tratta dal Libro di Exeter, forse ambientata a Bath e probabilmente risalente all’ottavo secolo. Nella composizione è evidente il senso della caducità di tutto ciò che è umano; riesce ad essere concreta nella descrizione del presente e piena di rimpianto verso il passato. La descrizione è molto potente e il lamento dell’elegia pieno di nostalgia per un tempo finito: Stupende mura di pietra: le spezzarono i fati, il castello decadde, dei giganti crollarono l’opere. I tetti rovinati, le torri cadute, rotta la porta, nella calcina il ghiaccio, spalancate le tettoia, strappate e infrante, rose dal tempo. Abbraccia la terra i mastri costruttori, dipartiti, periti ... Su questa poesia vi fu un grande dibattito, in primo luogo sull’identità della città descritta. Lo storico Heinrich Leo, nel 1865 fu il primo a suggerire che la città descritta potesse essere quella di Bath. Da allora tutti sono stati concordi nel dire che quello è il luogo descritto nel componimento, per più di tre caratteristiche: la fonte calda menzionata, l’indicazione che ci fossero molti stabilimenti termali e 14
soprattutto il riferimento a una piscina circolare. Diversi studiosi hanno avanzato altre ipotesi di interpretazione, tra questi William Johnson che reputa che la poesia non sia la descrizione fisica del luogo, ma piuttosto l’immaginazione del poeta anonimo per “mettere in relazione le rovine di pietra e gli esseri umani, come riflesso simbolico l’uno dell’altro”. Johnson vede la poesia come una metafora dell’esistenza umana, una dimostrazione del fatto che ogni forma di bellezza deve giungere a una fine. Considerando questo aspetto, l’autore potrebbe star descrivendo la decadenza dell’Impero romano mostrandone gli edifici, un tempo splendidi e grandiosi, ridotti in rovina esattamente come l’Impero stesso. Arnold Talentino vede in questa poesia non tanto un accorato lamento, quanto una realistica e rabbiosa condanna del popolo che aveva condotto ad una tale rovina. Questa interpretazione ha il pregio di sembrare più storicamente plausibile, perché rifletterebbe una concezione molto cristiana di “distruzione”, un tema comune a molte poesie in antico inglese. Cambiando completamente cultura, possiamo osservare come i Cinesi abbiano una visione delle rovine pacifica e malinconica. In uno scritto di un poeta anonimo del primo secolo d.C., un uomo che torna a casa dopo un lungo servizio da soldato, incontra un paesano che gli dice: That over there is your house, All covered over with trees and bushes. Rabbits had run in at the dog-hole, Pheasants flew down from the beam of the roof. In the courtyard was growing some wild grain, And by the well some wild mallows. I’ll boil the grain and make porridge, I’ll pluck the mallows and make soup Soup and porridge are both cooked, But there is no one to eat them with. I went out and looked towards the east, While tears fell and wetted my clothes. Gli scritti sul tema delle rovine in Cina non finiscono certo 15
qui. Durante la dinastia Tang (618-905) innumerevoli poemi contengono riflessioni sulla visita delle rovine. Tornando a Roma possiamo osservare un altro passo interessante verso una concezione più matura della fascinazione delle rovine, quando il monaco francese Ildeberto di Lavardin visita Roma nel 1116 e, riprendendo la formula di Alcuino, scrive: “Nulla è uguale a te Roma, anche totalmente in rovina come sei ora. Quanto grandiosa eri al massimo splendore, tanto lo sei ora in rovina. Lunghe epoche hanno distrutto il tuo splendore; gli archi di Cesare e gli antichi templi giacciono... Possiamo dirlo: Roma era! Ma né gli anni né le fiamme né la spada possono rovinare del tutto la tua bellezza. La cura degli uomini ha costruito Roma in modo tale che nessuno sforzo degli dei possa cancellarla.” Chiarisce anche, e questa è una nota molto interessante da ascoltare considerando il momento storico, che non vuole che nessuna rovina di Roma venga restaurata o ricostruita, poiché sono irreparabili e ineguagliabili. È evidente che fosse affascinato dalle possenti rovine così come erano in quel momento, sia dalla grandezza passata che esse rappresentano. La sua visione è simile a quella rinascimentale della bellezza della rovina in quanto tale. Petrarca, in una lettera a Giovanni Colonna (Familiares, VI, 2), racconta delle soste che fa insieme al suo amico, durante le lunghe camminate a Roma, salendo sulla copertura della terme di Diocleziano per contemplare il grande panorama di rovine che si presenta davanti ai loro occhi. Qui non è ancora presente il piacere della contemplazione, ma non vi è nemmeno la riflessione sulla caducità delle cose, che era stata la tipica reazione fino ad allora. Vi è invece un certo apprezzamento per il silenzio e per la solitudine della scena. Facendo un salto di quasi due secoli, arriviamo a Raffaello, che nel 1519 indirizza a papa Leone X una lettera in cui sono contenute tutte le sue ricerche sulle “antiquità”. L’artista è molto preoccupato per lo stato di conservazione dei monumenti ed esorta il Papa a prendersene cura. Muove poi 16
le sue accuse proprio verso i Papi, che secondo lui hanno contribuito a “ruinare templi antichi, statue, archi e altri edifici gloriosi” tanto “che tutta questa Roma nuova che ora si vede, quanto grande ch’ella si sia, quanto bella, quanto ornata di palagi, chiese e altri edifici che la scopriamo, tutta è fabbricata di calce e marmi antichi”. Raffaello è quindi molto cosciente del patrimonio artistico della città eterna ed ha una visione ispirata dall’Umanesimo petrarchesco. È interessante analizzare anche le impressioni degli stranieri che vivono a Roma, meno abituati all’impressionante quantità di rovine. Il celebre poeta francese Joachim Du Bellay vive a Roma dal 1553 al 1557 e dedicherà alla città i trentadue sonetti de Les Antiquequitez de Rome. Questi sono una delle più suggestive celebrazioni della Roma antica, attraverso le rovine del presente, che un poeta europeo abbia mai scritto. Du Bellay è sensibile al fascino che viene emanato del riutilizzo dei materiali antichi per le nuove costruzioni. A differenza di Raffaello, la reputa una vera e propria resurrezione. Scrive: “Roma scavando la sua antica dimora / si riedifica di tante opere divine. /Giudicherai che il demone romano / ancora si sforza con mano fatale / di resuscitare queste rovine polverose”. Diderot nel 1767, scrive a Hubert Robert: “Le idee che le rovine destano in me sono grandi. Tutto si annienta, tutto perisce, tutto passa. Il mondo soltanto resta. Il tempo soltanto dura”. Stendhal dirà che il Colosseo è forse più bello in quel momento, in rovina, che non al tempo del massimo splendore. Lo vede non solo come una grande testimonianza dell’opera romana, ma come “una reliquia vivente del popolo la cui storia ha colmato la nostra infanzia”. Il gusto per le rovine è ormai molto diffuso e universale. Analizzeremo più avanti il pensiero dei teorici del Novecento che sarà utile per cercare di comprendere l’identità e l’influenza delle rovine moderne nella cultura contemporanea.
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LA ROVINA COME FASCINAZIONE VISIVA
Andrea Mantegna, San Sebastiano, 1456-1457 circa, tempera su tavola, 68x30 cm, Vienna, Kunsthistorisches Museum
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Vorrei ora analizzare come, attraverso l’evoluzione delle rappresentazioni nel corso dei secoli, si modifichi la percezione del sentimento della fascinazione della rovina. Da quando esistono, le rovine sono sempre state osservate e descritte e questo fa si che la nostra percezione non sia immediata, ma filtrata da una lunga tradizione di rappresentazione. Nell’Inchiesta sul bello e il sublime, Edmund Burke parla del piacere delle rovine in un importante passo del suo scritto, sostenendo che davanti a certi eventi gli uomini provano dolore nella realtà, ma diletto nella rappresentazione. Scrive che questo dipende “dal fatto che non facciamo una distinzione sufficiente fra ciò che non sceglieremmo assolutamente di fare, e ciò che saremmo desiderosi di vedere se mai si facesse. Noi ci dilettiamo nel vedere cose a cui, ben lungi dal partecipare, desidereremmo porre rimedio”. Per percorrere il lungo cammino della fascinazione delle rovine potremmo partire da Andrea Mantegna. Sappiamo che la sua produzione pittorica è fortemente influenzata dalla passione antiquaria. Nel ciclo di dipinti Il trionfo di Cesare, richiesto dai Gonzaga per il loro castello alla fine del Quattrocento, riuscì a rievocare il mondo antico in maniera molto suggestiva. Questa rappresentazione è molto differente da quella utilizzata durante la giovinezza nella rappresentazione di San Sebastiano, che viene dipinto legato ad un arco trionfale in rovina e circondato da frammenti di statue ed altorilievi. È molto evidente la simbologia della fede cristiana: le rovine classiche rappresentano la fine del passato laico. Osservandole però da un altro punto di vista, possiamo vederle anche come l’esaltazione di reliquie di un epoca passata e rimpianta. Le rovine durante il Quattrocento hanno una duplice valenza: da un lato sono avvertite come un documento e un monito del naufragio della storia mentre dall’altro sono un modello con il quale l’età moderna cerca di stabilire un confronto. Questa duplice visione si ripresenterà anche nei secoli successivi. La celebre Consegna delle chiavi del Perugino è l’immagine che più di tutte rappresenta la legittimità del potere
Andrea Mantegna, I trionfi di Cesare, nona tela, Giulio Cesare sul carro trionfale, 1486-1505, tempera su tela, 268 x 278 cm, Londra, Hampton Court Herman Posthumus, Paesaggio con rovine romane, 1536, olio su tela, 95,8 x141,3 cm, Vaduz-Vienna, Collezione Liechtenstein
temporale pontificio. Nella piazza dipinta dall’artista vediamo due archi trionfali nei quali possiamo riconoscere le sembianze dell’Arco di Costantino. Questo non è però in rovina, stato in cui si trovava sicuramente in quel momento, ma perfettamente integro. La presenza dell’arco è quindi testimonianza della trasmissione del potere da Cristo a San Pietro, giustificando quindi il primato sui si basava l’autorità papale. Nel dipinto di Herman Posthumus del 1556, Paesaggio con rovine romane, Roma appare agli occhi del pittore come un cumulo di rovine. Nel paesaggio d’invenzione possiamo scorgere, tra gli edifici in rovina, molti bassorilievi e frammenti di statue. Al centro della rappresentazione vi è una lapide che riporta un memento mori, che viene però contrastato dalla presenza di un architetto che misura una colonna con compasso, squadra e filo a piombo. Il quadro è quindi un tributo alla bellezza della città e alla sua capacità
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Claude Lorrain, Capriccio con rovine del foro romano, 1634, olio su tela, 79,7 x 118,8 cm, Adelaide, Art Gallery of South Australia
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formativa. Nella pittura paesaggistica del Seicento dobbiamo necessariamente parlare di Poussin e Lorrain. I due artisti francesi sono quelli che più di tutti hanno contribuito a portare la pittura di paesaggio al livello di quella storica. Roma costituiva per loro, come per altri, un palestra necessaria per lo sviluppo del genere: Lorrain dedica la sua intera produzione artistica alla rappresentazione della campagna romana. Nei suo quadri le rovine sono riconoscibili, cosa che non succede in quelli di Poussin dove esse sono un elemento che permette l’operazione intellettuale del pittore, che mette in comunicazione età antica e moderna. Il ritorno all’antichità classica, nel Seicento, significa rifarsi a quegli ideali di equilibrio, di ordine e di misura che sono l’essenza stessa dell’idea di “classico”. Il “vero” e il “naturale”, pur rimanendo i presupposti della rappresentazione per i classicisti devono essere subordinati
François de Nomé, Fantasia di rovine con sant’Agostino e bambino, 1623, olio su tela, 45,7 x 65,7 cm, Londra, National Gallery
al filtro dell’idea, che consiste nella capacità dell’artista di conferire perfezione a ciò che è imperfetto, ordine al caos, bellezza al deforme. Il diciassettesimo secolo decreta invece il grande successo commerciale dei pittori quadristi e prospettici. Queste opere sono in grado di diffondere la fama delle architetture romane e della città dove l’antico si fonde con il moderno e il rapporto col passato è vissuto con molta disinvoltura. Uno degli artisti più noti di questo movimento è Monsù Desiderio, pittore lorenese che opera a Napoli. Solo a metà del Novecento si scopre che il nome era in realtà lo pseudonimo utilizzato da due pittori che avevano deciso di fare bottega insieme: Didier Barra, a cui vengono attribuiti i panorami più ordinati e François de Nomé, autore delle visioni più allucinate. Nei quadri realizzati dal secondo si osserva un mondo inquietante, dove gli essere umani 21
Hubert Robert, Vista della Grande Galleria del Louvre in Rovina, 1796, olio su tela, 114 x 146 cm, Parigi, Museo del Louvre
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sembrano non preoccuparsi della catastrofe imminente che le statue distrutte e gli edifici diroccati annunciano. Pittori come Charles-Louis Clérisseau, Giovanni Paolo Panini e Hubert Robert proseguono sulla strada iniziata dagli artisti prospettici ma aggiungono un maggior grado di verità alla composizione. Le rovine che Robert dipinge furono sempre esposte al Salon di Parigi. Incontrerà l’apprezzamento di Diderot che però lo criticherà anche, scrivendo nel 1767: “Signor Robert, vi siete votato alla pittura di rovine, sappiate che questo genere ha la sua poetica [...] Non vi rendete conto che qui ci sono troppe figure, che bisogna eliminarne i tre quarti? Vanno salvate solo quelle che contribuiranno alla solitudine e al silenzio”. Diderot sembra non comprendere veramente il lavoro di Robert. La sua visione dell’antico come memoria di un passato
J. M. Gandy, Vista a volo d’uccello della Bank of England, 1830, acquerello, 84,5 x 140 cm, Londra, Sir John Soane’s Museum
esemplare non gli fa cogliere l’interesse del pittore, che è quello di restituire un’immagine realistica dove la rovina appare desacralizzata, ma comunque con una grandissima forza espressiva. Nel 1796 Robert dipinge il suo quadro più celebre, La grande galleria del Louvre in rovina. Questa, che era ancora in allestimento, viene rappresentata in rovina con all’interno della scena un pittore intento a copiare l’Apollo del Belvedere. Questo quadro, oltre a paragonare la nuova costruzione del museo alle vestigia romane, riflette sul trascorrere del tempo e sul capriccio del fato. Hubert Robert non è il solo a pensare ad un edificio moderno in rovina. Nel 1830 Joseph Michael Gandy realizza un acquerello in cui immagina il palazzo della Bank of England, prossimo alla realizzazione, come una gigantesca rovina. La sua visione restituisce con forza l’immagine dell’edificio, progettato sull’esempio dell’architettura romana, simbolo della potenza economicopolitica dell’Inghilterra, nazione che in quel momento aveva appena sconfitto le truppe napoleoniche e vedeva concluso il processo di rispecchiamento con l’Impero romano. 23
Giovan Battista Lusieri, Veduta del Partenone da nord-ovest, 1802, acquerello, 58 x 95 cm, Atene, Museo Benaki
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Verso la fine del Settecento, i committenti illuminati iniziano a incaricare gli artisti di compiere i cosiddetti “viaggi pittorici”. Al loro ritorno i disegni venivano tradotti in splendide incisioni o in grandi acquerelli. È questo il caso di Giovan Battista Lusieri, artista che realizza vedute delle terme di Caracalla, del tempio di Pozzuoli e dei templi di Paestum. Questi risultano molto apprezzati per la grandezza del formato, per il lungo tempo di esecuzione e per l’impegno filologico della rappresentazione. Grazie a queste caratteristiche della sua opera viene chiamato nel 1799 da Lord Elgin per partecipare ad una spedizione di documentazione archeologica. Si trasferisce quindi ad Atene, dove realizza mirabili vedute del Partenone illuminato da un luce tenue che gli conferisce grande leggerezza. Nel 1810 Caspar David Friedrich dipinge L’Abbazia nel querceto. L’opera raffigura una processione di pochissimi frati che, portando la bara di un loro confratello defunto, si dirigono verso una grande monofora di un’abbazia gotica
diroccata. Il funerale avviene in uno scenario desolato: oltre alle rovine appaiono anche gli scheletri nudi delle querce. Possiamo notare come la rappresentazione delle croci nere in primo piano è molto simile, per forma e colore, a quella utilizzata per dipingere i monaci. Questo, assieme allo strato di nebbia che avvolge la scena, contribuisce a trasmettere una forte sensazione di inquietudine e smarrimento. In questo quadro ci sono numerosi ed espliciti riferimenti religiosi. L’alba, che viene resa con pennellate grigie e rosa, rinvia alla vita Eterna. La falce lunare allude all’Avvento di Cristo, mentre l’abbazia diroccata rivela un’aspra critica verso le istituzioni religiose. Con Friedrich la significazione della rappresentazione delle rovine inizia a cambiare. Vedremo in seguito come si svilupperà nel Novecento. Caspar David Friedrich, Abbazia nel querceto, 1810, olio su tela, 110,4 x 171 cm, Berlino, Alte Nationalgalerie
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LA ROVINA CHE DIVENTA LUOGO DI PROGETTO
Veduta della cattedrale di Siracusa, stampa litografica, 9 x 15 cm, tratta dal Poliorama Pittoresco
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Presento ora alcune fabbriche, antecedenti al diciottesimo secolo, in cui l’uomo ha costruito sopra o all’interno delle rovine. Il concetto di “restauro”, come lo interpretiamo oggi, è inteso come atto critico finalizzato alla conservazione delle testimonianze materiali aventi valore di civiltà. Questa accezione non esiste prima della metà del diciannovesimo secolo, quando si inizia a parlare della conservazione del patrimonio culturale. Fino a questo momento gli interventi sul patrimonio artistico e architettonico vengono eseguiti senza avvertire il distacco tra l’opera su cui si interviene
e il nuovo inserimento. L’opera viene concepita come incessantemente attuale e quindi riattualizzabile anche prevedendo interventi che modificano la funzione.
Sovrapposizione della piante del Tempio di Atena e del Duomo di Siracusa
Il primo progetto che voglio analizzare è il Duomo di Siracusa. La chiesa, la più importante della città, sorge sulla parte elevata dell’isola di Ortigia ed è edificata sopra al perimetro del tempio di Atena, costruito nel quinto secolo a.C. dal tiranno Gelone, per celebrare la vittoria contro i cartaginesi. Lo stile esterno della chiesa, completata nel 1753, è principalmente barocco e rococò. All’interno ci sono parti risalenti all’epoca siceliota, quelle che fanno parte del tempio greco, e parti risalenti all’epoca medievale, costruite dai Normanni. La costruzione di una basilica cristiana, su un terreno occupato precedentemente da un tempio greco, non è certamente un fatto atipico. Da sempre i luoghi sacri rimangono tali anche quando cambiano le popolazioni con differenti religioni che vi edificano sopra. Il sito dove sorge la chiesa è da sempre stato il fulcro della sacralità della città. I siculi vi si insediarono e costruirono un tempio ionico, una rarità in Italia e Europa e successivamente arriviamo alla costruzione del tempio di Atena. Sappiamo che il luogo mantiene la sua funzione sacrale anche durante il periodo
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romano, Cicerone infatti descrive le porte del tempio come le più belle che avesse mai visto. Durante il cristianesimo il tempio diventa la chiesa che ospita la prima comunità cristiana a nascere in Europa. I Bizantini imprimono il loro stile e successivamente i musulmani mutano la chiesa in moschea. Sotto la dominazione normanna il tempio riacquista la sua funzione cristiana e viene costruita la nuova facciata della chiesa. Durante il disastroso terremoto del 1693, che devastò gran parte delle città della Sicilia orientale, la facciata viene persa, ma la parte interna, comprese le colonne doriche, rimane intatta. Nel corso dell’epoca tardospagnola l’esterno della chiesa viene ricostruito, ed è questa fase barocca che è visibile tutt’oggi. Lo scrittore britannico Lawrence Durrel parla così della cattedrale di Siracusa:
Dettaglio della colonna dorica inglobata dalla muratura esterna del Duomo di Siracusa
“Prendete un tempio greco, incorporatelo per intero in un edificio cristiano, al quale aggiungete successivamente una facciata normanna, che viene abbattuta dal grande terremoto del 1693. Senza scoraggiarvi vi rimettete all’opera e, cambiando completamente direzione, sostituite la vecchia facciata con una deliziosa composizione barocca del ‘700. E il tutto, deteriorato com’è, continua a vivere e a sorridere, diffondendo nel mondo la sua immagine come se fosse stato ideato da un Leonardo o da un Michelangelo”. La resilienza di questo luogo a tutti gli avvenimenti accaduti nel corso dei secoli, ha reso il Duomo un simbolo per i siracusani e uno dei luoghi più singolari al mondo. È uno dei pochissimi edifici in cui una trasformazione, così diluita nei secoli, è ancora visibile oggi. Ciò che lo rende così unico è il fatto di essere stato da sempre il luogo sacro per tutte le popolazioni che vi si sono insediate. La trasformazione del tempio dorico in chiesa cristiana è uno degli aspetti che merita approfondimento. Il periptero esastilo di 6x14 colonne condivide con la cattedrale la stessa pianta e le componenti dei due sono costituite dagli stessi elementi materiali. Questo è molto evidente quando, percorrendo la navata laterale, si vedono le colonne doriche dall’altezza di 8,71 metri incastonate nel muro perimetrale
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della chiesa. Percorrendo invece la navata centrale possiamo notare come, nell’omogeneo muro di divisione, siano state praticate delle aperture ad arco per permettere il collegamento tra le navate. Comprendiamo quindi che la navata laterale non è altro che l’antica peristasi del tempio, mentre quella centrale è la cella. La trasformazione da tempio a basilica si verifica grazie a due semplici operazioni: la muratura degli intercolumni e la foratura della cella. Le caratteristiche di chiusura e continuità della cella del tempio greco vengono assunte dalle navate laterali della chiesa. Viceversa le peculiarità di apertura e discontinuità della peristasi sono quelle che caratterizzano la navata centrale. È come se con la costruzione della basilica si producesse un negativo del tempio greco: la peristasi si riempie e diventa una parete, le pareti della cella si svuotano e diventano peristasi. Due forme molto diverse, quella del tempio e della in alto: schemi della trasformazione dell’edificio in basso: sovrapposizione dei prospetti del Tempio di Atena e del Duomo di Siracusa
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in alto: Etienne Duperàc, Vista del frigidarium delle Terme di Diocleziano in rovina, 1575, incisione in basso: Giovanni Battista Nolli, da Nuova Topografia di Roma,1748
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basilica, mostrano la loro profonda identità. Il secondo progetto di interessante analisi è la basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri a Roma. L’edificio nasce nel 1561 quando, su commissione di papa Pio IV, Michelangelo Buonarroti trasforma la grande sala del frigidarium delle terme di Diocleziano in una chiesa. I lavori proseguirono anche dopo la sua morte a cura dell’architetto Giacomo Del Duca. Michelangelo interviene nel complesso termale restaurando l’aula del tepidarium e dimostrando un atteggiamento moderno e non distruttivo nei confronti dei resti archeologici. Delimita, con pochi setti murari, tre campate contigue coperte a crociera, a cui furono aggiunte due cappelle laterali quadrate. In questo modo crea un edificio ecclesiastico singolare per la sua epoca, con una spazialità dilatata lateralmente anziché longitudinalmente. L’asse principale parte dal vestibolo, ricavato da un piccolo vano adibito a ninfeo di passaggio verso il calidarium e si conclude nel coro ricavato nella zona della natatio. Il grande vestibolo circolare era originariamente il ninfeo
Giovanni Battista Piranesi, Veduta interna della chiesa di Santa Maria degli Angeli, 1748-1774, acquaforte, 54,6 x 78,9 cm,
delle terme di Diocleziano, aula di passaggio tra il calidarium e il tepidarium. Michelangelo vi interviene includendolo nell’asse longitudinale della chiesa e inserendo 4 edicole con timpano, che conservano i monumenti funebri. Il transetto è posto nell’antico frigidarium delle Terme di Diocleziano. Subisce varie modifiche, sia da parte di Michelangelo, sia da Jacopo Del Duca che da Vanvitelli. Ciascuno dei tre artisti rispetta la struttura originaria della costruzione romana, tra cui le dimensioni originali: l’altezza delle volte a crociera, pari a 29 metri e quella delle colonne con capitello e trabeazione, che raggiungono i 17,14 metri. L’intervento di Michelangelo vuole preservare la natura di rudere dell’edificio. L’architetto contrappone il non-finito dell’opus latericium pieno di fori per le appresature, con la finitezza dello stucco delle vele di copertura e dei marmi degli altari.
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Nel diciottesimo secolo questo interno doveva sembrare insopportabile agli occhi educati al barocco. L’architetto Luigi Vanvitelli modifica l’interno voluto da Michelangelo e ridisegna la facciata con un portale a timpano. Questa verrà rimossa nei restauri del 1911, che riportarono il prospetto al suo aspetto originario, ovvero una grande nicchia a esedra con due ingressi ad arco.
Giovanni Battista Piranesi, Veduta del teatro Marcello, 1757, acquaforte, 44,6 x 58 cm
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Il terzo ed ultimo progetto è il teatro di Marcello a Roma. Voluto da Cesare e poi continuato da Augusto, è l’unico teatro antico rimasto ancora oggi a Roma. Si trova nel Circo Flaminio, tra il Tevere ed il Campidoglio. Questo edificio fisserà lo schema del teatro romano e sarà d’esempio per la costruzione dell’anfiteatro Flavio.
Alfred Eisenstaedt, Teatro Marcello, 1947
Cesare, dopo aver fatto riedificare il teatro di Pompeo, avviò i lavori per la costruzione del nuovo teatro. Per fare ciò dovette espropriare una vasta area e far demolire alcuni edifici sacri, tra cui il tempio della dea Pietas. Alla prematura morte di Cesare erano state edificate solo le fondamenta ed i lavori vennero proseguiti da Augusto, che ampliò l’area di progetto per costruire un teatro più grande. Per fare ciò occupò una parte del Circo Flaminio, che divenne una piazza e fece spostare e riedificare alcuni edifici sacri, come il tempio di Apollo e il tempio di Bellona. Il teatro di Marcello costituisce uno dei più antichi edifici per spettacolo romani giunti fino a noi, nel quale l’articolazione del teatro romano appare già del tutto delineata, con la cavea a pianta semicircolare sorretta da articolate sostruzioni. Muri a raggiera, collegati da volte a botte inclinate sotto i gradini della cavea, vengono interrotti da due ambulacri concentrici, uno esterno, che si apre con arcate ed uno più interno. Esternamente compaiono tre ordini architettonici: al primo piano il tuscanico, al secondo lo ionico ed al terzo lesene corinzie. Di questi si conservano oggi solo i primi due piani. L’edificio al massimo della sua capienza poteva ospitare dai 15.000 a 20.000 spettatori.
Vista delle botteghe nelle arcate del teatro Marcello, 1880 circa
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In epoca medioevale l’edificio venne man mano occupato da piccole costruzioni e si trasformò in un castello fortificato. Nella seconda metà del XIV secolo apparteneva alla famiglia dei Savelli, che fecero restaurare da Baldassarre Peruzzi il palazzo tuttora esistente sopra le arcate della facciata. Nel XVIII secolo ne divennero proprietari gli Orsini duchi di Gravina, fino agli espropri degli anni trenta ed ai successivi lavori di liberazione (1926-1932), con i quali furono eliminate le numerose botteghe e abitazioni che occupavano le arcate e lo spazio circostante. I fornici, allora interrati per circa 4 m di altezza, vennero sterrati. I restauri comportarono il consolidamento di una parte delle arcate interne, con speroni in mattoni, e il rifacimento di parte della facciata, con ripresa dello schema architettonico delle arcate in pietra sperone. ROVINA E FRAMMENTO
Giovanni Battista Piranesi, Frammenti di marmo della Pianta di Roma antica, 1756, acquaforte, 76,5 x 54,1 cm
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La distinzione tra rovina e frammento inizia ad essere evidente a partire dal Settecento. Mentre le rovine continuano ad evocare una perdita irreparabile provocata da una catastrofe o da interventi umani, il frammento inizia ad acquisire significati differenti. Si inizia ad avviare dunque la cultura dell’apprezzamento e della valorizzazione del frammento. Prima di questo secolo le statue che avevano perso dei frammenti venivano reintegrate, anche in larga misura, da artisti come Bernini, Algardi e Maderno. Questi avevano sviluppato dei procedimenti tecnici che permettevano al ripristino di essere quasi non visibile. Le cose cambiano quando l’antiquaria, attraverso un processo di maggiore definizione degli strumenti storiografici, diventa una scienza archeologica. Il frammento diventa quindi un elemento in grado di portare nuove conoscenze e non più il segno di una perdita. A Roma nascono botteghe di esperti restauratori, come quella di Cavaceppi e di Pacetti. Il primo elabora una metodologia d’intervento scientifica che viene molto usata in quel periodo. I frammenti non vengono ancora apprezzati se non integrati, ma l’integrazione doveva essere fatta
Antoine-Laurent Vaudoyer, Trasporto del dito colossale, 1785, inchiostro, matita e guazzo su carta, 21 x 20 cm, Roma, Galleria W. Apolloni
Auguste Rodin, L’uomo che cammina, 1907, prototipo in bronzo, 213,5 x 71,7 x 156,5 cm, Parigi, Musée d’Orsay
seguendo criteri filologici. Il restauro non doveva rendere l’originale più raffinato ma, grazie all’uso di marmi simili a quella dell’opera su cui si stava lavorando, doveva garantire l’imitazione dello stile originale e ripristinare l’iconografia originaria. Si sviluppa l’attività di restauratore che richiede una grande preparazione e le loro remunerazioni toccano dei valori molto alti. Parallelamente al restauro di tipo filologico si sviluppa un apprezzamento per il singolo frammento. Si inizia a collezionarlo ed il mercato dei falsi valorizza le opere frammentarie, poiché le opere spezzate e frammentate sono certamente più autentica di quelle restaurate. Nella cultura del restauro inizia ad essere in crisi l’idea della necessità dell’integrazione dei frammenti antichi. Questo è molto evidente nella successione degli eventi che hanno seguito l’acquisto, da parte del British Museum, del gruppo di sculture frammentate che si erano staccate da un frontone del Partenone. Per il ripristino vennero chiamati a Londra i maggiori esperti europei delle antichità, Canova compreso, e concordarono che non fosse possibile intervenire poiché nessuno possedeva le capacità artistiche necessarie. L’atteggiamento del pubblico cominciava a riconoscere nel frammento la bellezza dell’intero. John Ruskin nelle Sette Lampade dell’Architettura (1849), scrive che un monumento raggiunge il suo massimo splendore solo dopo il trascorrere di qualche secolo, conquistando il colore “pittoresco”. Anche Flaubert, durante la visita all’Acropoli di Atene, ricorda di essere rimasto attonito davanti alla visione di un busto femminile senza testa né arti. Il passaggio dalla contemplazione e apprezzamento del frammento alla realizzazione di opere frammentarie avviene in modo molto naturale. Rodin è affascinato dalla bellezza del non-finito rinascimentale e dedicherà al tema del frammento la sua intera ricerca artistica. Nell’opera L’uomo che cammina, l’assenza della testa esalta il movimento del corpo. Nel Novecento il frammento diventa sempre più espressione della modernità. Pensiamo ai busti femminili 35
Vista della colonna del Filarete nella Ca’ del Duca
realizzati da Aristide Maillol e alla sculture di Alberto Viani e di Henry Moore. In questo secolo si crea anche un’estetica del frammento; André Malraux nel 1957 riflette sulla Vittoria di Samotracia, che era entrata al museo del Louvre senza subire integrazioni: “La Vittoria di Samotracia non è un’invenzione umana. Noi potremmo immaginarla intatta e supporla meravigliosa: ma cambierebbe la sua natura [...], la mancanza della testa le dona un movimento che non ha relazione con altre sculture antiche”. Vediamo ora come il frammento viene considerato da alcuni architetti italiani. Aldo Rossi reputa il frammento come un elemento architettonico in grado di essere testimonianza di qualcosa che è stato ma anche di essere un elemento generatore per le nuove architetture. La differenza tra reperto archeologico e frammento architettonico viene così definita dall’architetto: mentre il primo testimonia semplicemente la sua importante presenza, il secondo è in grado di esprimere principi progettuali validi per l’architettura contemporanea. Rossi descrive l’importanza che ha avuto per la sua architettura la visione della colonna del Filarete, inglobata nell’angolo della Ca’ del duca sul Canal Grande di Venezia: 36
“Una mattina che passavo per il Canal Grande in vaporetto qualcuno mi indicò improvvisamente la colonna del Filarete e il vicolo del Duca e le povere case costruite su quello che doveva essere l’ambizioso palazzo del signore milanese. Osservo sempre questa colonna e il suo basamento, questa colonna che è un principio e una fine. Questo inserto o relitto del tempo nella sua assoluta purezza formale, mi è sempre parso come un simbolo dell’architettura divorata dalla vita che la circonda. Ho ritrovato la colonna del Filarete, che guardo sempre con attenzione, negli avanzi romani di Budapest, nelle trasformazione degli anfiteatri, ma soprattutto come un frammento possibile di mille costruzioni”. Marco Introini, Edificio residenziale di Aldo Rossi in zona Vialba, Milano, 2013
La colonna del Filarete diventa un riferimento esplicito in
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Vista delle rovine del Palazzo di Lorenzo
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vari progetti di Aldo Rossi. Il primo edificio dove compare è il progetto per la Südliche Friedrichstadt a Berlino del 1981. L’angolo dell’edificio viene caratterizzato dalla presenze di una possente colonna in cemento bianco. La ritroviamo nel progetto del 1982 per l’area di Fontivegge a Perugia ed ancora nell’edificio del 1985 in zona Vialba a Milano. Un altro esempio di riproposizione di un frammento che diventa elemento progettuale è quello della torre scenica del Teatro Carlo Felice a Genova. Nel progetto, realizzato insieme a Ignazio Gardella, viene riproposto un cornicione neoclassico, tratto da una tavola del Vignola, che viene realizzato a scala maggiore e utilizzato per il coronamento della torre scenica. Secondo Rossi il vero valore sta nella reinterpretazione del frammento e le citazioni non devono essere semplicemente formali, ma devono diventare costitutive del progetto. Secondo Franco Purini, per verificare se un edificio risponde al carattere vitruviano delle venustas, è necessario rappresentarlo in forma di rovina: “Il rudere è una grande riflessione sul tempo che passa, è un grande ammonimento per le ambizioni umane [...] è impossibile per l’architettura vedere esporre solo la bellezza. [...] Per vedere solo la bellezza io devo distruggere sia l’utilitas, sia la firmitas. Devo cioè ridurre la cosa a rudere. Io penso che gli architetti amino il rudere per questo giacchè nel momento in cui esso non è più abitabile ed utilizzabile è solo bello”. Per Purini la nozione di frammento non è facile da definire perché il frammento investe la questione dei rapporti tra la parte e l’intero e l’intero e il tutto. La parte non è totalmente un frammento se non porta i segni di una violenza subita e se non contiene idealmente l’intero. Il frammento può rappresentare un’integrità perduta, ponendo quindi il problema della sua eventuale ricostruzione, ma può anche essere una costruzione mai completata, ponendo il dilemma del possibile completamento. L’architettura di Francesco Venezia è composta da una poetica progettazione fatta di frammenti del passato. L’architetto riconosce al frammento la capacità di proiettare l’esperienza di un edificio antico al di là della stessa durata temporale. Questo può accadere se si allontana il frammento
dal presente e lo si ricolloca in luogo che ne accentui la capacità evocatrice. In questo modo le antiche preesistenze possono convivere con il nuovo intervento e il frammento risulta reintegrato. Il Palazzo di Lorenzo a Gibellina progettato dall’architetto nel 1981 è un ottimo esempio per spiegare questo concetto. L’edificio è una casa-museo che racchiude, nella facciata del cortile interno, i resti del Palazzo di Lorenzo sopravvissuti al terremoto del 1968. Venezia riesce ad integrare la memoria antica all’interno di un edificio contemporaneo. Il trasporto del frammento della facciata originaria all’interno della nuova facciata dell’edificio, diventa un’occasione per realizzare un collegamento fra la nuova città e la memoria di un’identità ormai perduta. Vista dell’intervento di Francesco Venezia sulle rovine del Palazzo di Lorenzo
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ROVINE DEL NOVECENTO: RIFLESSIONI E RAPPRESENTAZIONI
Ludwig Meidner, Apokalyptische Landschaft, Junger Mann mit Strohhut, 1912, olio su tela, 94 x 109 cm, Germania, Collezione privata
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All’inizio del Novecento, a partire dalla Prima Guerra Mondiale, la pittura utilizza le rovine fisiche per suggerire le rovine interiori, ovvero le devastazioni psichiche dell’essere umano. L’opera di un pittore, Ludwig Meidner, viene considerata come anticipatrice degli scenari causati dalla guerra. Dal 1912 inizia a dipingere gli Apokalyptische Landschaft, paesaggi visionari e apocalittici, che gli fanno guadagnare il titolo di “il più espressionista fra gli espressionisti”.
Paul Klee, Angelus Novus, 1920, inchiostro su carta, 32,2 x 24,2 cm, Gerusalemme, The Israel Museum
L’intellettuale tedesco Walter Benjamin esprime le sue previsioni catastrofiche e la sua sfiducia nel futuro, servendosi di una meravigliosa metafora visiva. Si tratta dell’Angelus Novus, il piccolo dipinto realizzato da Paul Klee nel 1920, che Benjamin considera l’oggetto più prezioso che possiede. “C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede 41
una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.” Per Benjamin l’uomo viene trascinato via dal tempo e dal progresso, lasciandosi alle spalle le tragedie e gli orrori che non è stato possibile riscattare. L’Angelus vorrebbe trattenersi per attribuire un valore al sacrificio delle vittime, ma viene travolto da una tempesta che raffigura il progresso. L’unica possibilità di redenzione è dunque la memoria del ricordo delle persone scomparse e la contemplazione di un passato fatto di rovine. Lo scenario apocalittico immaginato dal filosofo tedesco incarna perfettamente il sentimento di inquietudine dell’uomo del Novecento, costretto a vivere in un secolo difficile e drammatico: quello delle grandi tragedie storiche, ma anche quello del progresso che produce rovine stravolgendo l’ambiente, il paesaggio, le città e gli uomini. I pittori italiani del Novecento sembrano giustificare le opere di demolizione di case e di interi quartieri storici, in nome della modernità. Vi è però un piccolo gruppo di pittori espressionisti, attivo a Roma dal 1928 al 1945, che si discosta da questo atteggiamento, sono gli esponenti della “Scuola di via Cavour”. Non si può propriamente parlare di una
Giovanni Battista Nolli, da Nuova Topografia di Roma,1748
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Mario Mafai, Demolizioni dei borghi, 1939, olio su tela, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna
“scuola”, ma di artisti che condividono una sintonia culturale e si contrappongono alla pittura ordinata del ritorno agli ordini degli anni venti. I principali esponenti sono Gino Bonichi, conosciuto con lo pseudonimo di Scipione, e Mario Mafai. Il secondo, a partire dal 1936 lavora alla serie pittorica chiamata Demolizioni in cui documenta gli interventi edilizi che stavano distruggendo alcune parti della città. I quadri sono una forte critica alla politica del fascismo che stava cancellando parti storiche della città di Roma. Nel quadro Demolizioni dei borghi viene ricordata la distruzione della Spina di Borgo, un insieme di edifici posti tra castel Sant’Angelo e la piazza San Pietro. I Borghi erano le sette strade che partivano a raggiera da Castel Sant’Angelo
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verso il Vaticano. La Spina di Borgo fu eliminata tra il 1936 e il 1937, su progetto di Piacentini e Spaccarelli, per realizzare via della Conciliazione. Le demolizioni tradirono il progetto originario di piazza San Pietro, che doveva aprirsi all’improvviso dopo il percorso tra le strette e corte vie e non ammirarsi, senza nessuna sorpresa, da un chilometro di distanza. La tela di Mafai rappresenta un isolato che non è riconoscibile, ma emergono numerosi dettagli come il colore acceso delle stanze ed il rottame di ringhiera posto su un cumulo di macerie. Il clima culturale che segue al primo conflitto mondiale dà vita, come sappiamo, al surrealismo, al dadaismo e ad altri movimenti derivati da questi, che sapranno utilizzare le rovine come motivo simbolico. L’artista olandese Carel Willink dopo un periodo espressionista ed astrattista, aderisce intorno agli anni ’20 al movimento del Realismo Magico che in pittura si caratterizza per la ricerca di elementi paradossali, che danno alla rappresentazione realista un effetto misterioso ed estraniante. Durante un viaggio in Italia intorno agli anni trenta Willink rimane colpito dalle opere di De Chirico, la cui influenza, soprattutto nell’utilizzo delle luci e delle ombre, è molto evidente nelle opere del pittore olandese. Nel 1931 Willink dipinge Gli ultimi visitatori di Pompei, nel quale sono rappresentati quattro personaggi tra le rovine della piazza del Foro di Pompei, dove la natura sembra aver avuto la meglio sui ruderi. Non è ben chiaro cosa i quattro visitatori stiano facendo, si danno le spalle e guardano in direzioni diverse; hanno probabilmente appena concluso una conversazione. Dai loro volti traspare un’espressione rassegnata e sembrano essere in grande pericolo. Se consideriamo il periodo storico in cui viene dipinto il quadro, possiamo elaborare una possibile interpretazione. All’inizio degli anni trenta negli stati europei prevalevano i regimi totalitari a discapito della cooperazione tra le nazioni. Willink esprime dunque la sua visione pessimistica sul futuro del mondo occidentale. Le rovine romane sono simbolicamente quelle della civiltà moderna e rappresentano un monito di ciò che potrebbe accadere di nuovo: una nuova distruzione. 44
Carel Willink, Gli ultimi visitatori di Pompei, 1931, olio su tela, 99 x 142 cm, Rotterdam, Museum Boijmans Van Beuningen
Tra gli anni venti e quaranta del Novecento, in Italia il tema delle rovine viene sviluppato dall’artista triestino Arturo Nathan, che nel 1930 dipinge Solitudine. Vi è raffigurato un uomo di spalle seduto di fronte al mare. Sulla spiaggia al di sotto della montagna si trovano rovine antiche mentre all’orizzonte si intravede un veliero. Quest’opera, come il quadro di Willink, è stata classificata all’interno del Realismo Magico, ma presenta anche elementi di pittura metafisica, del Simbolismo e del Romanticismo. Il dipinto ci fa entrare in una dimensione onirica, che corrisponde al sogno del personaggio rappresentato di spalle, probabilmente l’autore, il quale medita circondato da simboli nostalgici del passato: le rovine. Vittorio Sgarbi scrive a proposito del quadro: “L’impianto semplicissimo, quasi giottesco, della composizione nell’apparente serenità, accresce il disagio che il quadro intende comunicare”. L’artista, di religione ebraica, percepisce il clima di cambiamento politico in Europa che porterà all’affermazione 45
Arturo Nathan, Solitudine, 1930, olio e tempera grassa su tavola, 81 x 100 cm, Trieste, Collezione Malabotta
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del nazismo e alla successiva catastrofe dell’Olocausto, fino ad arrivare alla sua morte, avvenuta nel 1944 nel campo di concentramento di Biberach an der Riss in Germania. Un altro pittore che è molto critico nei confronti della guerra è Renato Guttuso che nel 1943 dipinge il quadro Massacro. Il dipinto è incentrato sul dramma della guerra e sulle sue conseguenze. Facendo un salto di circa trent’anni arriviamo all’opera La notte di Gibellina, dipinta nel 1970 in memoria del secondo anniversario del terremoto, che nel 1968 devastò la valle del Belìce in Sicilia. Molti artisti e architetti vengono coinvolti nella ricostruzione della valle; tra questi figura Alberto Burri, che nel 1985 realizza a Gibellina
uno dei pochi esempi di Land Art in Italia. Il Grande Cretto di Burri è un immenso monumento che, visto l’impossibilità di ricostruire la città sopra le rovine, lascia una testimonianza della tragedia per il ricordo delle vittime. L’artista concepisce l’opera come il congelamento della memoria storica del paese.
Vittorugo Contino, Cretto di Gibellina non ancora ultimato, 1988
“Andammo a Gibellina con l’architetto Zanmatti, il quale era stato incaricato dal sindaco di occuparsi della cosa. Quando andai a visitare il posto, in Sicilia, il paese nuovo era stato quasi ultimato ed era pieno di opere. Qui non ci faccio niente di sicuro, dissi subito, andiamo a vedere dove sorgeva il vecchio paese. Era quasi a venti chilometri. Ne rimasi veramente colpito. Mi veniva quasi da piangere e subito mi venne l’idea: ecco, io qui sento che potrei fare qualcosa. Io farei così: compattiamo le macerie che tanto sono un problema per tutti, le armiamo per bene, e con il cemento
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facciamo un immenso cretto bianco, così che resti perenne ricordo di quest’avvenimento.” Dall’alto il gigantesco monumento appare come un quadrilatero di circa 300 x 400 metri tagliato da profonde fratture. Ogni fenditura ha una larghezza tra i due e i tre metri, mentre i blocchi sono larghi dai dieci ai venti metri e sono alti circa un metro e settanta. L’opera occupa una superficie di circa ottanta mila metri quadrati, che la rendono una delle opere di arte contemporanea più grandi al mondo. Il cretto è stato realizzato in una prima fase dal 1985 al 1989, anno in cui si sono fermati i lavori a causa della mancanza dei fondi. Il completamento dell’opera è arrivato solo nel 2015, in occasione del centenario della nascita di Alberto Burri. Le due parti sono ora molto riconoscibili, poiché la sezione più recente non ha ancora accumulato sulla sua superficie la patina biologica. Il tracciato dei blocchi e delle fenditure ricalca in buona parte l’impianto urbanistico della città: la sua intenzione era proprio quella di restituire l’idea dell’antico abitato. Il progetto funziona sia come opera di Land Art, perché è visibile da chilometri di distanza, sia come spazio da percorrere: un enorme labirinto che permette di riflettere sulle idee di rovina, perdita e memoria. Il Grande Cretto rievoca la forza distruttrice della natura, immortalando il momento della tragedia.
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Vista aerea del Grande Cretto di Alberto Burri
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2 La Rovina nei progetti fotografici
Beirut, Gabriele Basilico Beirut, Libano 1994
Beirut, Gabriele Basilico Beirut, Libano 1994
Beyrouth Centre Ville, copertina del catalogo della mostra, 1992
Gabriele Basilico, Beirut, copertina del volume, 1994
Il progetto nasce nel 1991 quando la scrittrice libanese Dominique Eddé invita Basilico, assieme ad altri fotografi (Robert Frank, Fouad Elkoury, Josef Koudelka, René Burri e Raymond Depardon), a realizzare una documentazione fotografica dell’area centrale della città di Beirut. Questo lavoro verrà esposto l’anno successivo alla mostra collettiva al Palais de Tokyo di Parigi, dalla quale verrà prodotto il catalogo Beyrouth Centre Ville. La capitale libanese si trovava in un periodo cruciale della sua storia: la guerra civile[1] che durava da quindici anni era appena terminata e la città era in attesa della rinascita e della ricostruzione urbanistica. Era quindi un momento irripetibile per la documentazione di un dramma che non sarebbe più stato visibile dopo la ricostruzione. A nessun fotografo coinvolto era stato dato un preciso compito ma era stata solo individuata un’area topografica all’interno della quale lavorare. Questa corrispondeva alla parte centrale della città, delimitata a nord dal mare, a sud dalla tangenziale chiamata Ring, a est dal quartiere cristiano e a ovest da un altro quartiere residenziale. Quest’area era attraversata dalla “linea verde”, istituita alla fine della guerra civile per dividere le aree occupate dai cristiani e dai musulmani. “Sono arrivato a Beirut di notte, in una notte molto chiara. Un amico libanese mi ha fatto fare una prima ricognizione. La città non era illuminata e gli edifici sembravano dei fantasmi. Nel silenzio totale si sentiva solo il rumore dei generatori elettrici. Lo spazio era percepibile ma non la materia, come fossimo in una dimensione metafisica. L’atmosfera era allo stesso tempo pesante e affascinante.” Il primo approccio di Basilico alla città non è certo facile, prima di arrivare non aveva ancora deciso come affrontare il
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lavoro sia da un punto di vista etico sia ideologico. Il giorno successivo all’arrivo inizia ad osservare la città compiendo molti sopralluoghi e solo successivamente inizia a scattare, senza cavalletto, con una macchina di medio formato “per provare a stabilire una relazione possibile con la città”. Il fatto di lavorare su un’area limitata permette a Basilico di approfondire le sue analisi sulla città e procedere utilizzando il suo approccio documentarista. Gli interessa cercare di esprimere un equilibrio tra l’esperienza della sua visione e lo scenario che si trova davanti. Non vuole più vedere la città come una grande ferita aperta ma vuole instaurare un rapporto di dialogo con essa in modo più umano possibile. “Quando mi ha chiamato sembrava disperato, continuava a ripetere che non era un fotografo di guerra. Poi un giorno Eddé lo ha portato in cima all’Holiday Inn e per la prima volta, da quella prospettiva, ha capito che la città era viva e che solo la sua pelle era stata profondamente martoriata.” Giovanna Calvenzi Per Basilico è difficile combattere il sentimento di dolore provato nel vedere per la prima volta la città alla luce del sole. Ciò che lo colpisce è il fatto che la bellezza della città è tanto sorprendente quanto lo è la fascinazione data dalle sue rovine. Si rende presto conto che andando a leggere la città oltre il dramma storico subito, è possibile capirne la struttura complessa e guardarla come avrebbe potuto fare con qualsiasi altra città italiana. Inizia quindi a lavorare con una macchina di grande formato (10x12) e ad utilizzare l’indispensabile cavalletto. L’area centrale della città è completamente abbandonata e Basilico percepisce un forte senso di vuoto, elemento che si ritrova spesso nei suoi altri progetti fotografici. Il vuoto per lui non è mai una vera e propria assenza ma è come se si trattasse di una fase di silenzio che gli permette di instaurare un dialogo con la realtà. Questa assenza è molto evidente nello stato del luogo in cui lui si trova: è come se la città fosse caduta in un lungo periodo di attesa. Le parti distrutte della città non sono molte, perlopiù 55
causate dai bombardamenti del 1982. I danni causati sono generalmente dovuti all’uso di armi medie e leggere che hanno lasciato tracce ovunque.
Max Baur, Potsdam, 1948
“la città sembrava affetta da una malattia della pelle.” Basilico cerca di non farsi coinvolgere dalla fotogenia della distruzione, ma di immaginare la città come se i segni dovuti alla guerra non esistessero. Cerca di immaginarla come se fosse pronta a riprendere la vita interrotta. Ragiona sul fatto che le rovine siano più angoscianti dell’architettura ma che da un paesaggio di rovine possa nascere una forte fascinazione. Si chiede quindi come sia possibile creare un rapporto tra lo spettacolo delle rovine e una rappresentazione che non sia estetizzata. Ha infatti paura di deformare la realtà producendo delle immagini fuorvianti e lontane da quello che il paesaggio racconta. Il critico francese Jean-François Chevrier scrive che i fotografi sono sempre stati più affascinati dalle rovine che dalle architetture. A questo proposito è interessante citare anche la critica che il teorico dell’arte Heinz Lüdecke rivolge alle immagini scattate da Max Baur nel 1948 a Potsdam, che immortalano un palazzo in rovina. Secondo Lüdecke, Baur ha trasformato i ruderi in una vista romantica dove dense nubi fluttuanti avvolgevano le guglie del palazzo semidistrutto. La fotografia diventa quindi un’immagine dalle tinte pittoriche che sacrificava il contenuto storico a favore di una visione sentimentale troppo personale. Nella fotografia di Baur manca il giusto Einstellung, parola tedesca che sta a significare un’immagine precisa, un atteggiamento mentale ben precisio. Il corretto Einstellung è quello che riesce a rendere un corretto compromesso tra la disposizione formale e morale dell’oggetto osservato. Ancora, secondo Lüdecke, colui che fotografa deve rimanere sobrio e far emergere la giusta relazione spaziale e intellettuale di ciò che si trova davanti alla macchina. Scrive che: “Chi trasforma i segni della distruzione in un prodotto estetico mente. Nella guerra e nella violenza non vi è nulla né di idilliaco né di romantico”. Winfried Sebald ha un’opinione simile, pensa che un
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approccio concreto e obiettivo sia da preferire a una rappresentazione astratta e immaginaria. L’approccio di Basilico è concorde alle opinioni di Lüdecke e di Sebald, decide di non rappresentare Beirut in modo scenografico, enfatizzando l’effetto della distruzione, per non produrre dei falsi documenti. Josef Koudelka, anch’egli impegnato nella spedizione a Beirut, lavora in modo molto diverso da lui, andando ad amplificare nelle sue immagini l’effetto della distruzione. Lo fa utilizzando un formato panoramico e il suo caratteristico bianco e nero molto contrastato. Basilico, nell’intervista realizzata da Gabriel Bauret nel ‘94, dichiarerà che i due lavori avrebbero potuto avere risonanze politiche molto diverse. Sceglie quindi la sua tipica visione “realista”: rappresenta lo spazio in modo molto strutturato per restituire una visione urbana tipica dei suoi lavori precedenti. A lavoro finito Gabriele Basilico produrrà 560 immagini di formato 10x12 da cui nel 1994, grazie al contributo del suo amico e fotografo Vincenzo Castella, verranno scelte 42 fotografie da pubblicare nel volume Beirut. 1 [La guerra civile libanese è stata una guerra civile combattuta in Libano tra il 1975 ed il 1990, che ha visto numerosi contendenti e frequenti capovolgimenti di alleanze. Le cause del conflitto sono sia interne che esterne. L’elemento che innescò la guerra fu il contrasto di tipo settario tra la componente cristiana del Libano, che temeva di perdere la propria prevalenza demografica in seguito all’arrivo dei profughi palestinesi, e la componente musulmana, che si sentiva sottorappresentata nelle istituzioni e intendeva rimettere in discussione i rapporti di forza. Ad alimentare e prolungare la guerra contribuirono fattori esterni, ossia l’intervento di altri Stati decisi a perseguire i propri interessi: la Siria, intenzionata a porre sotto tutela il Libano secondo il progetto di una “grande Siria”, e Israele, che intendeva contrastare i miliziani dell’OLP creando una fascia di sicurezza sotto il proprio controllo.] Josef Koudelka, Beirut, 1991
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Rue Gouraud
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Rue Dakar
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Rue Karaouiya
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Bâtiment Pl. Ma / Sud-Ouest
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Place Martyrs
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Place Martyrs
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Rue Weygand
Rue Dakar
Place Martyrs
Rue Becara El Khoury
Rue Petro Paoli
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Rue Allemby Rue Nahr Ibrahim
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Rue Nahr Ibrahim Hotel Hilton / Ouest
Rue Ahmed Chaouqui
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Zones of Exclusion: Pripyat and Chernobyl, Robert Polidori Pripyat-Chernobyl, Ucraina 2003
Zones of exclusion: Pripyat and Chernobyl, Robert Polidori Pripyat-Chernobyl, Ucraina 2003
Robert Polidori, Zones of Exclusion: Pripyat and Chernobyl, copertina del volume, 2003
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Il progetto inizia nel 2001 quando al fotografo Robert Polidori viene permesso l’accesso all’area di esclusione istituita al tempo dall’unione sovietica, in seguito al disastro nucleare[1]. Questa si estende per 2600 km2 e include la città di Pripyat, costruita nel 1970 per ospitare i lavoratori della centrale nucleare. Quindici anni dopo le fotografie di Anatoly Rasskazov, il primo fotogiornalista a registrare la catastrofe, Polidori si muove nell’abbandonato territorio tra Chernobyl e Pripyat e immortala le profonde sequele causate dall’attività umana. Le sue fotografie raccontano un paesaggio urbano e naturale totalmente segnato e trasformato dall’esplosione del reattore numero 4, che ha portato alla diffusione nell’atmosfera di un enorme numero di elementi radioattivi. Polidori fotografa a colori utilizzando macchine fotografiche analogiche di medio e grande formato (5x7, 8x10 e 11x14). Queste vengono poi scansionate e, in altri lavori, vengono montate insieme digitalmente, praticando la tecnica dello “stitching”. Il suo approccio fotografico è di tipo inquisitivo. Dice: “Quando punti la macchina fotografica verso qualcosa, è come porre una domanda. Ma l’immagine che uscirà sarà come una risposta”. Nell’intervista rilasciata a Domus, alla domanda sull’utilizzo del bianco e nero in fotografia, Polidori risponde che non gli sembra logico utilizzare uno strumento che restituisce meno informazioni del reale. Continua dicendo che l’essere umano vede a colori e che per lui è difficile comprendere il valore del bianco e nero. Immersa nella malinconia, la serie Zones of Exclusion rivela lo stato rovinoso e di abbandono dell’area perimetrale al luogo del disastro. Evitando l’estetizzazione l’autore elabora una visione basata sull’assenza della messa in scena, utilizzando l’illuminazione naturale. Sia che fotografi interni di scuole, ospedali o all’esterno della centrale nucleare, Polidori riesce a catturare l’atmosfera angosciante di questa
regione che è stata come congelata nel tempo. Le sue fotografie documentano i resti dell’attività industriale ed economica ma anche sociale, in quanto permettono di vedere l’abbandono della città di Pripyat da parte di una comunità di circa 50.000 persone. Questo aspetto, che viene generalmente ignorato dal pubblico, è centrale nel lavoro dell’artista. Sebbene alcuni oggetti rimangano parzialmente intatti, come libri di testo, immagini di Lenin o maschere antigas visibili sullo sfondo di una delle immagini, lo stato fatiscente ed il caos degli spazi interni testimoniano la brutalità delle evacuazioni. La presenza di queste “reliquie” dell’impero sovietico, può essere letta anche come una metafora dell’evoluzione politica del blocco comunista. Pripyat, che era la città moderna per eccellenza, con numerose infrastrutture, ora giace in rovina ed è abbandonata ad un futuro incerto. Senza mai alterare la realtà, Polidori trasferisce nei suoi scatti gli aspetti emozionali dei luoghi, ne evoca la memoria e sublima la decadenza che diventa metafora di uno stato dell’essere. Le sue grandi fotografie dai colori saturi conducono lo spettatore in una dimensione di sospensione, dove le storie si sovrappongono e si rivelano attraverso gli strati di materia che mostrano la trama del lento logorio del tempo, dando vita a “pitture spontanee” che l’artista riesce a fissare sulla lastra fotografica.
1 [Il disastro di Černobyl’ avvenne il 26 aprile 1986 alle ore 1:23:40 del mattino, presso la centrale nucleare V.I. Lenin, situata in Ucraina settentrionale (all’epoca parte dell’Unione Sovietica), a 3 km dalla città di Pripyat’ e 18 km da quella di Černobyl’, 16 km a sud del confine con la Bielorussia. È stato il più grave incidente nucleare mai verificatosi in una centrale nucleare, e uno dei due incidenti classificati come catastrofici con il livello 7 (massimo della scala INES). Le cause furono indicate variamente in gravi mancanze da parte del personale, sia tecnico sia dirigenziale, in problemi relativi alla struttura e alla progettazione dell’impianto stesso e della sua errata gestione economica e amministrativa. Un rapporto del Chernobyl Forum redatto da agenzie dell’ONU (OMS, UNSCEAR, IAEA e altre) conta 65 morti accertati e più di 4 000 casi di tumore della tiroide fra quelli che avevano fra 0 e 18 anni al tempo del disastro, larga parte dei quali probabilmente attribuibili alle radiazioni. Il gruppo dei Verdi del parlamento europeo, pur concordando con il rapporto ufficiale ONU per quanto riguarda il numero dei morti accertati, se ne differenzia e lo contesta sulle morti presunte, che stima piuttosto in 30 000-60 000.]
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Aftermath: World Trade Center Archive, Joel Meyerowitz New York, Stati Uniti d’America 2006
Aftermath: World Trade Center Archive, Joel Meyerowitz New York, Stati Uniti d’America 2006
Joel Meyerowitz, Aftermath: World Trade Center Archive, copertina del volume, 2006
Il lavoro nasce nel Settembre 2001 quando Joel Meyerowitz riesce ad ottenere un permesso per poter accedere all’area di Ground Zero. È l’unico fotografo ad ottenerlo e lavorando dal settembre 2001 al marzo 2002 produce circa 8000 immagini che verranno conservate nell’archivio del museo della città di New York. Meyerowitz inizia a fotografare le torri gemelle dal 1981. Lo fa con lo stesso approccio col quale negli anni precedenti aveva fotografato la Harbor Beach a Provincetown, fotografandole durante tutte le stagioni e con ogni condizioni climatica. “Sono cresciuto a New York e il World Trade Center l’ho visto costruire. Se prendevi un teleobiettivo le torri sembravano banali, come una grattugia per il formaggio. Erano troppo grafiche, troppo grandi. Ma se le guardavi nel contesto, con lo spazio che le circondava strofinandosi l’una sull’altra, con i bordi luccicanti, con una scheggia rosa di sole che passava tra loro, diventavano uno spettacolo straordinario.” Scatterà l’ultima fotografia alle torri il 7 settembre 2001. La mattina dell’11 Settembre il fotografo non si trova a New York, è a Provincetown per realizzare un servizio commerciale. Riesce a tornare a Manhattan dopo 4 giorni (il sindaco Giuliani ha emesso una disposizione che vieta l’accesso all’isola). Recupera la sua Leica e si dirige all’area dove sorgeva il WTC ma viene bloccato da un poliziotto che gli vieta di fotografare sulla base di una restrizione emanata dal sindaco. “Rimasi scioccato, pensai che senza fotografie non ci sarebbe stata storia.”
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Dopo una non facile trattativa riesce ad ottenere il permesso per poter accedere all’area: sarà l’unico fotografo autorizzato a fotografare Ground Zero dopo la catastrofe[1]. Utilizza due macchine, una di grande formato che gli permette di ottenere immagini di grande dettaglio, e una 35mm standard che gli permette di muoversi facilmente sulla scena e di catturare ogni momento. L’obiettivo del libro che verrà pubblicato è quello di fornire una testimonianza della incredibile estensione degli attacchi al WTC e di documentare l’impegno dei lavoratori. Fotografa in modo sistematico l’impresa di pompieri, poliziotti e operai edili nel rimuovere decine di migliaia di tonnellate di detriti. Il suo è un atteggiamento meditativo, le sue immagini comunicano la grandezza della distruzione e la natura eroica della reazione. Le notevoli fotografie contenute all’interno dell’archivio mostrano la catastrofica distruzione degli attacchi dell’11 settembre, attraverso immagini che provocano una forte fascinazione e la dimensione fisica e umana dello sforzo dei lavori di recupero, che viene resa dai numerosi ritratti. “Sembra crudele scoprire la bellezza nelle foto di guerra. Eppure, un paesaggio di devastazione resta sempre un paesaggio. C’è bellezza nelle rovine. Ma riconoscere la bellezza nelle fotografie delle rovine del World Trade Center sembrava frivolo, sacrilego. Tutt’al più ci si arrischiava a dire che quelle foto sembravano “surreali”, ricorrendo a un affannoso eufemismo dietro il quale trovava riparo la screditata idea della bellezza.” Susan Sontag Il lavoro restituisce una toccante elegia sia per coloro che hanno perso la vita, sia come celebrazione della prolungata determinazione delle persone impegnate nei lavori. 1 [Gli attentati dell'11 settembre 2001 sono stati una serie di quattro attacchi suicidi e coordinati compiuti contro obiettivi civili e militari degli Stati Uniti d'America da un gruppo di terroristi aderenti ad al-Qaida. Essi causarono la morte di 2977 persone (più 19 dirottatori) e il ferimento di oltre 6 000. Negli anni successivi, altre persone sono morte a causa di tumori o malattie respiratorie causate dagli attentati. Per questi motivi e per gli ingenti danni infrastrutturali causati, questi eventi sono spesso citati dall'opinione pubblica come i più gravi attentati terroristici dell'età contemporanea.]
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The Ruins of Detroit, Yves Marchand, Romain Meffre Detroit, Stati Uniti d’America 2010
The Ruins of Detroit, Yves Marchand, Romain Meffre Detroit, Stati Uniti d’America 2010 “Le rovine sono i simboli e i monumenti della nostra società e dei suoi cambiamenti, piccoli pezzi di storia in sospensione”. Yves Marchand and Romain Meffre, The Ruins of Detroit, copertina del volume, 2010
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Il progetto è stato realizzato tra il 2005 e il 2010 dai due fotografi francesi. Insieme hanno documentato gli edifici abbandonati di Detroit, portando alla luce lo stato attuale della “Motor City” attraverso un’interessante serie di fotografie. Scattando con una macchina fotografica di grande formato, il lavoro dei due artisti, concepito come documento, restituisce allo spettatore una visione surreale della città che viene interrogata e interpretata attraverso le sue rovine. La storia di Detroit è stata fortemente influenzata dallo sviluppo e dal declino del settore automobilistico. Nel 1913 Henry Ford perfezionò la catena di montaggio su larga scala e la città stava per diventare la capitale mondiale dell’automobile. Per la prima volta nella storia la ricchezza era alla portata delle persone. Numerosi grattacieli e quartieri di lusso vennero costruiti per simboleggiare la ricchezza della città. Detroit divenne l’immagine del sogno americano e negli anni ’50 diventò la quarta città più grande degli Stati Uniti, con quasi 2 milioni di abitanti. Il sogno americano divenne però ben presto un incubo. Alla fine degli anni ’50 le macchine sostituirono i lavoratori e, nei decenni successivi, centinaia di migliaia persero il lavoro. Le fabbriche vennero trasferite nella periferia della città causando uno spostamento della classe media bianca verso queste zone. La tensione sociale che sfociò negli scontri del 1967[1] accelerò questo processo ed interi quartieri iniziarono a svanire. In cinquant’anni Detroit perse più della metà della sua popolazione. Le immagini dei due fotografi ricordano un disastro biblico. Le fabbriche e gli edifici abbandonati sono un toccante ricordo della fragilità del mondo moderno. Queste
La bandiera di Detroit con il motto “Speriamo in cose migliori, risorgeremo dalle ceneri.”
inquietanti fotografie guardano senza compromessi i resti della città, un tempo sorprendente per la sua veloce ascesa a centro globale del capitalismo ed oggi altrettanto sorprendente per l’ancor più veloce declino verso la rovina. Si ricorda il motto latino scritto nel 1805, dopo l’incendio della città, da Gabriel Richard, ancora oggi attuale: “Speriamo in cose migliori, risorgeremo dalle ceneri”. George Steinmetz elabora due concetti per parlare delle rovine di Detroit: rovine positive e rovine negative. Con le prime intende le rovine classiche, quindi quei luoghi che permettono al visitatore di entrare negli spazi decaduti e di ricostruire col pensiero le parti mancanti. Quando parla di rovine negative, intende luoghi impenetrabili, che mostrano solo il loro guscio esterno. È questo il caso delle migliaia di case abbandonate nella città che hanno l’involucro parzialmente integro, ma non ci permettono di vedere il loro interno e sono quindi privati della loro narratività. Detroit, capitale industriale del XX secolo, ha svolto un ruolo fondamentale nel plasmare il mondo moderno. La logica che ha creato la città l’ha anche distrutta. Le rovine della città sono diventate una componente naturale del paesaggio. Detroit presenta tutti gli edifici archetipici di una città americana in uno stato di mummificazione. I suoi splendidi monumenti in decadimento sono, non meno che le Piramidi d’Egitto, il Colosseo di Roma o l’Acropoli di Atene, resti del passaggio di un grande impero.
1 [La sommossa di Detroit del 1967, conosciuta anche come rivolta della 12th Street o Ribellione di Detroit del 1967, fu un violento tumulto che degenerò in una vera e propria rivolta nella città di Detroit, durata dal 23 al 27 luglio 1967. L'evento scatenante fu un raid della polizia in un bar notturno privo di licenza, il Blind Pig, all'angolo tra la 12th Street (oggi Rosa Parks Boulevard) e Clairmount Street, nella zona Near West Side della città. Lo scontro della polizia con i clienti e i passanti si trasformò in una delle rivolte più letali e distruttive della storia degli Stati Uniti, con violenze e distruzioni maggiori di quelle della rivolta razziale di Detroit del 1943.]
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View from Lafayette building rooftop
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Ballroom, American hotel
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Waiting hall, Michigan central station
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United artists theater
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Room 1605, Lee plaza hotel
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Melted clock, Cass technical high school
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Wallpaper, Broderick tower Offices, Highland park police station
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Bank vault, The national bank of Detroit Biology classroom, Cass technical high school
Biology classroom, George W. Ferris elementary school
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William livingstone house, Brush park Rich-dex apartments
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Luben apartments, Brush park Empty apartments
Evidence room, Highland park police station
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Interno perduto. L’immanenza del terremoto, Giovanni Chiaramonte Emilia-Romagna, Italia 2012
Interno perduto. L’immanenza del terremoto, Giovanni Chiaramonte Emilia-Romagna, Italia 2012
Giovanni Chiaramonte, Interno perduto. L’immanenza del terremoto, copertina del volume, 2012
Il progetto inizia nel 2012 quando Giovanni Chiaramonte, impegnato nelle lezioni di fotografia nel suo laboratorio a Cesena, dopo la seconda scossa di terremoto[1] decide di voler documentare gli effetti del terremoto. Le sue lezioni in quel periodo volgevano in particolare sul rapporto della sua fotografia con quella di Luigi Ghirri. Chiaramonte spiega che la vista della distruzione di quel territorio significava per lui una seconda perdita dell’amico fotografo. Insieme avevano percorso a lungo quella regione e ora sente il bisogno di documentare quel paesaggio che è stato colpito, violato e forse per sempre distrutto. “Mi rivenne in mente l’avventura con Luigi, il problema che avevamo nei primi anni, dal 1973 al 1978, era come mettere in scena il mondo esterno, io col mio lavoro degli anni ’80 e Ghirri con l’avventura sulla via Emilia. Era come se le parti si fossero invertite, il nostro percorso era come riuscito a comprendere l’originale perduto, era come aver ritrovato nel mondo esterno un significato interiore. Invece nel momento in cui, nella prima fase del viaggio nelle zone terremotate, mi sono scontrato con l’impossibilità di entrare nelle chiese e nelle case, e mentre constatavo la devastazione di un paesaggio massacrato dalla costruzione di centinaia di capannoni industriali e dall’insediamento di nuovi complessi abitativi, mentre vedevo tutto questo mi rendevo conto della distanza da quei viaggi lontani, di decenni prima, con Luigi, quando precorrevamo la campagna insieme.” Dopo due giorni di lavoro riesce ad accedere agli interni delle chiese, ma non delle case a causa dei mancati permessi della Protezione civile e dei Vigili del fuoco. È la prima volta che Chiaramonte affronta, in tempo reale, la documentazione di un evento di cronaca. Approccia il lavoro utilizzando varie macchine fotografiche: due Hasselblad e
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due banchi ottici con dorsi di formato 6x6 e 6x12. Ottiene così immagini quadrate, caratteristica tipica del suo lavoro ed immagini composte da un doppio quadrato, formato che ha utilizzato nei suo lavori più recenti. Possiamo però sempre riconoscere in queste fotografie un centro, una dimensione geometrica precisa, quasi assoluta, che le rende sia un documento realistico che una visione simbolica. Chiaramonte non realizza semplicemente immagini di cronaca, ma le trasforma in documenti che hanno un senso ulteriore. In molte delle fotografie di formato quadrato c’è una ricerca di ritaglio dell’immagine in diverse parti, che vengono scandite dalla linea dell’orizzonte oppure dalla montagna di macerie. In altre possiamo ritrovare un punto di riferimento verticale, un albero, una rovina o un palo, che fungono da polo e da asse costitutivo delle immagini. Vi è poi, nella composizione di Chiaramonte, una ricerca di dettagli simbolici. Vediamo ad esempio una banderuola, un ferro sospeso in un vecchio muro e delle semicolonne bianche. In alcune fotografie appaiono edifici nuovi e contrastanti con i casali tipici della campagna. È come se il fotografo volesse scrivere un epicedio di un paesaggio tanto amato, e adesso violentato e distrutto.
1 [Il terremoto dell'Emilia del 2012 è stato un evento sismico costituito da una serie di scosse localizzate nel distretto sismico della pianura padana emiliana, prevalentemente nelle province di Modena, Ferrara, Mantova, Reggio Emilia, Bologna e Rovigo, ma avvertite anche in un'area molto vasta comprendente tutta l'Italia Centro-Settentrionale e parte della Svizzera, della Slovenia, della Croazia, dell'Austria, della Francia sud-orientale e della Germania meridionale. Già tra il 25 e il 27 gennaio 2012 si ebbero in zona fenomeni significativi, ma la prima scossa più forte, di magnitudo 6.1 è stata registrata il 20 maggio 2012 alle ore 04:03:52 ora italiana (02:03:52 UTC), con epicentro nel territorio comunale di Finale Emilia (MO), con ipocentro a una profondità di 6,3 km.]
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Casale di campagna, Cividale, Mirandola (Modena)
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Casale di campagna, Cavezzo (Modena)
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I torrioni di San Prospero (Modena)
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Oratorio di campagna, Medolla (Modena)
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Chiesa parrocchiale di San Giovanni Battista, Disvetro, Cavezzo (Modena)
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Chiesa di Santa Maria ad Nives, Motta, Cavezzo (Modena)
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Casale di campagna, Cividale, Mirandola (Modena)
Casale di campagna, Cividale, Mirandola (Modena)
Canonica della Parrocchia di San Felice sul Panaro (Modena)
Teatro del Popolo, Concordia sul Secchia (Modena)
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Duomo di Mirandola (Modena)
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Chiesa di San Giovanni Battista, Disvetro, Cavezzo (Modena) Chiesa di San Francesco, Mirandola (Modena)
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Chiesa dei Santi Apostoli Giacomo e Filippo, Mirandola (Modena) Duomo di Mirandola (Modena)
Duomo di Mirandola (Modena)
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3 La Rovina nei progetti architettonici
Duisburg Nord Landscape Park, Latz + Partner Duisburg, Germania 2002
Duisburg Nord Landscape Park Progettisti: Latz + Partner Committente: Società di sviluppo statale Renania Settentrionale-Vestfalia Cronologia: 1990 (progetto), 2002 (completamento)
Il parco progettato dallo studio di architettura paesaggistica Latz+Partner, sorge sul sito delle acciaierie in disuso nel distretto della città di Duisburg, Meiderich/Beeck, occupando circa 200 ettari di terreno. Come in molti altri progetti nella Ruhr le inutilizzate costruzioni industriali, anziché essere demolite, vengono reinterpretate secondo una nuova sintassi e riutilizzate nella costruzione di un nuovo paesaggio. Il progetto prende vita all’interno del più ampio programma di riqualificazione ambientale e di sviluppo economico e sociale della regione industriale della Ruhr, voluto dall’International Building Exhibition Emscher Park (IBA). All’interno di questo programma, tra il 1989 e il 1999, vennero realizzati più di 120 progetti, tra cui il Bürger Park a Saarbrücken (sempre realizzato da Latz+Partner nel 1989). L’obiettivo di questi non è solamente quello di preservare le strutture industriali ma anche quello di salvaguardare la Vista aerea del sito nel 1956
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Pianta dell’Emscher Landscape Park, 1989-1999
flora e la fauna che stavano tornando a svilupparsi dopo l’abbandono della produzione industriale nella zona. Altro obiettivo è quello di creare grandi spazi aperti e ricreativi, in modo da migliorare in modo sostenibile la qualità della vita per la popolazione delle aree circostanti. Il grande parco offre spazi per lo sport e il tempo libero, vengono inoltre organizzati numerosi eventi culturali, spettacoli teatrali e concerti. Le rovine sono dei palinsesti che ci invitano ad osservare la stratificazione dei luoghi. Il filosofo tedesco Reinhart Koselleck esprime il suo concetto di storia come “processi temporali di diversa durata e origine, che nonostante questo sono presenti ed effettivi nello stesso momento”. I parchi a Duisburg e a Saarbrücken, come molti altri progetti realizzati in Germania, rendono visibile il palinsesto temporale integrando le vecchie strutture con la progettazione paesaggistica. Utilizzando la famosa frase di Benjamin, secondo cui “Le allegorie sono, nel campo del pensiero, ciò che le rovine sono in quello delle cose”, potremmo leggere le rovine industriali come allegorie post-industriali. Esse rappresentano il declino del Fordismo come sistema economico e sociopolitico, che ha sostenuto la ricostruzione nella Repubblica Federale Tedesca e il sogno socialista nella Repubblica Democratica Tedesca. Prima che i visitatori raggiungano il centro del parco 127
Concept progettuale
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passano di fianco all’ex centrale elettrica, sulla quale vi è una fascia con le fotografie ingrandite della serie Water Towers di Bernd e Hilla Becher. Collegando il progetto al lavoro dei coniugi Becher, si evidenziano le intenzioni di preservazione della cultura industriale nella regione della Ruhr, che gli artisti volevano mettere in risalto con le loro fotografie. Mentre le descrizioni dei Becher fermano il tempo e rappresentano le forme architettoniche in modo bidimensionale, il progetto del parco invita i visitatori a esplorare le rovine architettoniche nello spazio. Il parco nasce con specifiche differenti ed è stato progettato per rispondere a diverse funzioni. Dentro all’ex gasometro è stato realizzato il più grande centro per immersioni al chiuso in Europa. Con un diametro di 45 metri e una profondità di 13, permette agli interessati di immergersi in questo enorme gasometro. L’area dell’ex impianto di sinterizzazione era fortemente contaminata
in alto: Vista dell’ex impianto di sinterizzazione in basso: Vista della piazza metallica
e doveva essere demolita. Oggi è un grande giardino circondato ai lati dall’altoforno, dai resti della ex ferrovia e da un percorso sopraelevato. Questo, lungo 300 metri, permette di passare attraverso i vecchi serbatoi e offre una vista sui giardini costruiti ad altezze diverse. Il nuovo enorme mulino a vento non fa solo parte del ciclo ecologico dell’acqua ma è anche il simbolo del rinnovamento di un’area fortemente inquinata. Nell’area della ex fornace è stata progettata la piazza metallica che è da subito diventata il simbolo dell’intero parco. Le lastre di ferro che un tempo venivano utilizzate per coprire gli stampi di fusione nella lavorazione della ghisa, oggi costituiscono il cuore del parco. Queste piastre fin dall’inizio sono state erose da processi fisici e naturali e, in questa nuova sistemazione, continueranno a farlo. Il vecchio canale delle acque reflue che attraversa il parco da est a ovest, è stato trasformato in un canale con 129
Vista del canale
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acque chiare, alimentato esclusivamente dall’acqua piovana, con sentieri che gli corrono lateralmente e ponti che lo attraversano. Le acque reflue vengono ora trasportate all’interno di una conduttura sotterranea. Il canale e l’intero sistema idrico sono dei manufatti che mirano a ripristinare i processi naturali in un ambiente di devastazione. Questi processi sono governati dalle regole dell’ecologia, ma vengono avviati e mantenuti grazie all’uso della tecnologia. L’uomo utilizza questi manufatti come simboli della natura, ma rimane in realtà il responsabile del processo. Le linee ferroviarie in disuso sono importanti segni di connessione all’interno del parco. Formano uno schema a filigrana che si addentra nell’area industriale della città. I binari finiscono sopra ai serbatoi dei materiali grezzi che venivano utilizzati nella lavorazione siderurgica. Attraverso aperture nei muri e passerelle sopraelevate, è stato creato un percorso che permette di vedere i giardini e le installazioni
Vista di un’area gioco
artistiche e luminose, all’interno dei serbatoi. Gli spazi della fonderia sono stati trasformati in spazi per eventi come concerti, spettacoli teatrali, di danza, mostre, fiere, gala, presentazioni di prodotti e cinema. Numerose aree gioco si estendono all’interno del parco in maniera capillare. Per esempio su alcune pareti è possibile arrampicare e si può scendere da uno scivolo che passa attraverso i vecchi muri. L’area giochi ai piedi del mulino a vento consente ai bambini di controllare il flusso dell’acqua, la sedimentazione e l’erosione in una grande fossa di sabbia, dove possono imparare giocando. La creazione di uno spazio pubblico all’interno di un impianto di altoforno è stata una scommessa. Oggi la paura della inquinamento e della contaminazione ha lasciato il posto ad un calmo riconoscimento e apprezzamento delle vecchie strutture. Durante gli eventi fino a 50.000 persone si riuniscono in questo luogo dove gli alberi in fiore si intrecciano con il profilo dei resti industriali. Dove un tempo gli operai producevano milioni e milioni di tonnellate di acciaio, con un immenso costo per l’ambiente, il luogo è diventato tranquillo e silenzioso. L’arte e la natura sono diventati protagonisti.
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Kolumba Museum, Peter Zumthor Colonia, Germania 2007
Kolumba Museum Progettista: Peter Zumthor Committente: Arcidiocesi di Colonia Cronologia: 1997 (concorso), 2003 (inizio lavori), 2007 (completamento) XI Secolo
XII Secolo
XVI Secolo
1956
2007
Schemi e sovrapposizione delle stratificazioni storiche
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Il Kolumba è un museo di arte a Colonia, ospitato in un celebre edificio progettato dall’architetto svizzero Peter Zumthor. Il museo si trova su un sito caratterizzato da diverse fasi storiche. In questo luogo era presente una chiesa romanica edificata nell’XI secolo, che ha avuto diverse espansioni durante i secoli. La fase gotica è quella che è visibile oggi e che determina il perimetro del museo. Il Museo dell’Arcidiocesi di Colonia, il precursore del Kolumba, venne aperto nel 1853 come museo dedicato all’arte religiosa, dall’epoca paleocristiana in avanti, e ospitato nell’ex palazzo arcivescovile adiacente alla cattedrale cittadina. Il museo venne quasi completamente distrutto,
Pianta del piano terra
Le rovine della chiesa di Santa Kolumba, 1948
insieme a gran parte della città, durante i bombardamenti alleati della Seconda Guerra Mondiale. Nel 1950 viene costruita la cappella Madonna in den Trummen realizzata da Gottfried Bohm, sui resti della chiesa di Santa Kolumba, per accogliere una statua della Vergine risparmiata dai bombardamenti. Nel 1957 il piccolo edificio viene affiancato dalla cappella del Sacramento, su progetto dello stesso Bohm. Il museo venne riaperto nel 1954, benché in spazi inadeguati ed insufficienti. Nei primi anni ’90, la Diocesi prese la decisione di costruire una nuova sede per il museo, organizzando nel 1997 un concorso internazionale di progettazione al termine del quale l’architetto svizzero Peter Zumthor venne incaricato del progetto per il nuovo edificio. Completato nel 2007, il progetto di Zumthor combina abilmente i nuovi volumi con i resti delle costruzioni 135
in alto: Vista del rapporto tra muratura antica e nuova in basso: Vista interna sulle rovine
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medievali compresi quelli della chiesa di Santa Colomba. Benché articolato in pianta, l’edificio di Zumthor è molto pulito nei volumi; l’effetto complessivo è quello di una costruzione contemporanea che rimanda in modo sottile alla morfologia degli edifici della vecchia città di Colonia, con le sue case mercantili strette ed alte. La capacità di Zumthor sta nell’aver saputo creare un “luogo”, con tutta la ricchezza e profondità che l’architetto svizzero attribuisce a questo termine, in cui flessibilità non è affatto sinonimo di monotonia, uniformità e genericità, invitando il visitatore a un percorso di “scoperta”. Il suo atteggiamento nasce dalla riflessione sulla naturalezza con cui in passato i frammenti delle epoche precedenti venivano inglobati all’interno di una nuova unità architettonica, come nel caso della stessa chiesa di Santa Kolumba o di molti monumenti storici, tra i quali il duomo di Siracusa, da cui Zumthor sembra aver tratto una lezione preziosa.
Dettaglio del “mattone Kolumba”
L’edificio è costituito da muri monolitici di 60 cm di spessore. Non essendoci giunti di espansione ogni sei metri, i movimenti e le dilatazioni sono consentite da sottilissime fratture distribuite ovunque, in modo che non siano visibili, con una tecnica che richiama quella utilizzata negli antichi edifici di laterizio. La struttura si basa su un sistema statico misto messo a punto, sotto il controllo della soprintendenza, con l’ingegner Buchli, formato da muri portanti e sottili pilastri di acciaio, rivestiti di cemento, che sostengono gli ambienti costruiti sopra ai resti archeologici. Si è dovuto trivellare fino a 12 metri di profondità, in corrispondenza degli antichi piloni della chiesa, per inserire gli “aghi” in acciaio fino a raggiungere il fondo roccioso. Circa il novanta per cento del carico è portato dai pilastri, il restante dieci per cento dai vecchi muri. Per la tessitura muraria delle pareti di questo progetto, è stato ideato e progettato il “mattone Kolumba”, che ha portato a selezionare una ditta produttrice danese e a sviluppare un laterizio ad hoc, valutando i risultati con l’uso di modelli di pareti in scala uno a uno. Si tratta di un mattone fatto a mano, in un formato inusuale (54 x 21,5 x 4 cm), abbastanza sottile da adattarsi bene ai frammenti dei muri medievali, in modo da favorire la “fusione” tra il nuovo e l’antico. Anche il colore, un grigio caldo con riflessi gialli, verdi, rossi e blu è stato scelto per armonizzare le nuove superfici a quelle delle rovine, mentre la malta, più alta di quanto prescrive la normativa, accentua la tessitura “morbida” dei mattoni.
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Musealizzazione del sito archeologico di Praça Nova, João Luís Carrilho da Graça Lisbona, Portogallo 2009-10
Musealizzazione del sito archeologico di Praça Nova Progettisti: João Luís Carrilho da Graça, João Gomes da Silva Committente: Municipalità di Lisbona (EGEAC) Cronologia: 2008 (progetto), 2009-10 (completamento)
Inquadramento di Lisbona
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Il progetto per la musealizzazione del sito archeologico di Praça Nova, si inserisce su un’area di circa 3500 metri quadri adiacente al castello di São Jorge. La collina dove si trova è un punto strategico che domina l’estuario del fiume Tago. Qui è sorto il primo insediamento noto, risalente all’età del ferro, della città di Lisbona. La “Praça Nova” del castello occupa un promontorio intramurale, racchiuso da mura di difesa a nord e ovest e dalla chiesa di Santa Cruz a sud, con un dominio visivo sopra le mura orientali della città. Gli scavi sono iniziati nel 1996 e hanno riportato alla luce vari reperti appartenenti alla diverse fasi storiche: l’età del ferro, la dominazione musulmana del XI secolo e le rovine del palazzo dell’arcivescovo di Lisbona eretto nel XV secolo. Lo scopo del progetto è quello di valorizzare questi ritrovamenti attraverso un percorso che invita il visitatore ad esplorare le rovine appartenenti ad epoche differenti, che hanno caratterizzato l’antropizzazione del sito. Carrilho da Graça ha previsto la chiara delimitazione dell’area mediante l’utilizzo di una parete in acciaio corten, ove l’uso del materiale introduce al fascino delle rovine, che recinta il nucleo archeologico alla sua quota più elevata e ne determina gli accessi. Le pareti perimetrali di acciaio in alcuni punti si estendono e generano due volumi. A nord si trova una copertura che protegge i resti dei mosaici appartenenti al palazzo eretto nel XV secolo, la cui parte inferiore è rivestita da una superficie specchiante di colore nero che riflette trame e decori dei pavimenti. Nella parte più bassa dell’area si trova un volume che contiene i resti dell’insediamento preistorico. Esso è attraversato da una fessura orizzontale che invita i visitatori a osservare il prezioso contenuto interno. Per tutelare le abitazioni musulmane del XI secolo è stato realizzato un simulacro, una rappresentazione del
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periodo islamico 1. simulacro abitazioni musulmane 2. copertura del mosaico del XV secolo 3. recinto in acciaio corten 4. copertura dell’insediamento preistorico
età del ferro pavimento in basalto acciaio corten
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(al centro) simulacro, (sulla sinistra) copertura dell’insediamento prestorico, (sulla destra) copertura del mosaico del XV secolo
Dettaglio dell’attacco dei muri in cartongesso
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volume originario, restituendo gli spazi che lo costituivano: atrio, cucina, sala, stanza da letto, dispensa e bagno, il tutto distribuito attorno a un patio centrale. L’involucro del volume è costituito da pareti bianche in cartongesso, astratte e fluttuanti, che ricalcano il perimetro originale delle abitazioni. Esse poggiano sulle fondazioni, per non gravare sulle murature, attraverso una struttura a “ombrello” sorretta in sei punti in posizione centrale e si sviluppa a sbalzo fino al profilo esterno delle murature perimetrali. La copertura è realizzata in legno e policarbonato forato semiopaco, permettendo l’ingresso della luce naturale. Alla sera, la luce artificiale mette in evidenza la linea di sospensione tra le antiche mura e le nuove pareti bianche, dando così vita ad uno spettacolare effetto scenografico. Per evidenziare le differenze temporali tra le rovine è stata fatta una distinzione nell’uso del terreno: la terra ocra individua i resti islamici, mentre quella bruna l’area degli insediamenti dell’età del ferro. I percorsi, le scalinate e le sedute in pietra basaltica sono stati progettati ex-novo. In questo progetto nuovo ed esistente si esaltano a
Vista della copertura
vicenda, manifestando un rapporto reciproco. Significativa, a questo proposito, è l’interpretazione della figura del basamento di Carrilho Da Graça. Il basamento è il luogo di contatto con la terra, dove l’edificio scambia il suo ruolo con il contesto. Questo scambio, che è anche misura della distanza tra nuovo ed esistente, è espresso dal vuoto, da un distacco tra due entità che si vogliono differenti ma anche partecipi.
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Padiglione di accesso agli scavi dell’Artemision di Ortigia, Vincenzo Latina Siracusa, Italia 2012
Padiglione di accesso agli scavi dell’Artemision di Ortigia Progettista: Vincenzo Latina Committente: Comune di Siracusa, Assessorato ad Ortigia Cronologia: 2005 (progetto), 2012 (completamento)
Il progetto si inserisce nell’isola di Ortigia a Siracusa, sull’area dove un tempo sorgeva il tempio ionico dedicato ad Artemide. Il padiglione realizza un’altra stratificazione architettonica sopra al già ricco sedime dell’area, offrendo agli scavi un affaccio su piazza Minerva verso il Duomo di Siracusa. Sul sito sorgeva la chiesa di San Sebastianello che fu demolita per la costruzione degli edifici comunali progettati dall’architetto Gaetano Rapisardi. Le rovine del tempio, oltre ai resti di alcune capanne sicule e alla cripta della chiesa, sono state rinvenute durante gli scavi archeologici eseguiti negli anni ’60, al di sotto degli edifici comunali.
in alto e in basso: Studi delle giaciture sull’isola di Ortigia a destra: Pianta piano terra
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Vista del sito prima dell’intervento
Sezione trasversale
Prima dell’intervento di Latina sul sito vi era solamente la facciata di un edificio precedentemente demolito e all’interno dell’area vi erano una cabina dell’Enel e un prefabbricato in cemento. Il progetto fa parte di un piano generale di riqualificazione urbana voluto dall’amministrazione locale, che prevede gli interventi maggiori sull’isola di Ortigia, cuore di Siracusa. La rigenerazione urbana, come strumento di prolungamento della vita di un’opera, è parte della storia della città; un esempio è il tempio di Atena in cui si sono susseguite le molte stratificazioni di cui abbiamo parlato prima. In passato, costruire sui resti degli edifici antichi era una pratica comune di rigenerazione, oggi sembra essere diventato qualcosa di straordinario. Marguerite Yourcenar, nelle Memorie di Adriano, offre un’interessante chiave di lettura sulla costruzione dei siti antichi. Scrive: “milioni di vite passate, presenti e future, quegli
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edifici recenti, nati su edifici antichi e seguiti a loro volta da edifici ancora da costruirsi, mi sembra si susseguissero nel tempo, simili alle onde”. Il padiglione realizza, attraverso lo scavo archeologico, il collegamento con i sotterranei dell’edificio comunale. Il piccolo edificio viene concepito come un monolite di calcare duro. L’androne per l’accesso all’area archeologica è stato immaginato come una cella aperta, per richiamare la memoria del naos del tempio greco. L’interno è caratterizzato dalla penombra e la poca luce che filtra proviene da un lucernario che accentua il carattere
Vista della facciata
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sotterraneo dell’intervento. Il percorso termina nel retro dell’edificio dove è stato progettato un piccolo giardino. Il progetto crea una ricucitura urbana che ripristina la continuità del fronte edilizio su piazza Minerva. Il prospetto è completamente pieno tranne per un taglio verticale che mette in comunicazione l’interno del padiglione con la colonna d’angolo inglobata nel Duomo. Il rivestimento è caratterizzato da una trama muraria che rimanda ad un carattere di tipo catalano. Questo tipo di tessitura è presente in molti edifici nell’isola di Ortigia, sui quali si è innestato il barocco dopo il sisma del 1693. In particolare l’orditura del rivestimento è un richiamo al paramento murario della chiesa di S. Sebastianello. Nella Historia Naturalis, Plinio il Vecchio racconta che il tempio di Diana, a Efeso, era scampato alle più violente scosse del terremoto perché le sue fondamenta erano protette da “uno strato di carbone e da un altro di velli di lana. Quando arrivavano le scosse, l’edificio sacro non ondeggiava paurosamente: scivolava dolcemente sul terreno, e rimaneva indenne”. Dal punto di vista sismico l’architetto è intervenuto prevedendo una struttura a telaio che poggia solamente in sei punti, dove sono stati utilizzati degli isolatori antisismici ad alta dissipazione di energia. È stato necessario realizzare un giunto antisismico che nel prospetto genera uno stacco tra il suolo e la massa dell’edificio e che sembra far lievitare questo piccolo padiglione.
Esploso assonometrico
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Basilica di Siponto, Edoardo Tresoldi Manfredonia, Italia 2016
Basilica di Siponto Progettista: Edoardo Tresoldi Committente: Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo Cronologia: 2016 (completamento)
Vista della chiesa di Santa Maria Maggiore e della Basilica di Siponto, foto di Blind Eye Factory
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L’intervento realizzato nel Parco Archeologico di Siponto ripropone le sembianze dell’antica basilica paleocristiana, edificata nel IV secolo d.C.. L’intervento di Tresoldi si posiziona a ridosso della chiesa di Santa Maria Maggiore, edificata tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo, che è uno splendido esempio dell’architettura romanica pugliese. All’interno di questa sono visibili pregiati paramenti musivi e di notevole interesse è il portale con archivolto sostenuto da due leoni stilofori. Il Parco archeologico di Siponto riveste una grande rilevanza in quanto testimonia l’importanza raggiunta
Vista della Basilica di Siponto, foto di Blind Eye Factory
Bozzetto di Edoardo Tresoldi
dall’antica Siponto, colonia romana dal 194 a.C. Dopo l’impaludamento del porto e due violenti terremoti, nel 1223 e nel 1255, Siponto venne abbandonata e gli abitanti si trasferirono nella nascente città Manfredonia. I resti della basilica paleocristiana a tre navate con abside centrale e pavimento a mosaico ricordano che Siponto fu sede di una delle più importanti diocesi della regione. Il progetto Dove l’arte ricostruisce il tempo dell’artista lombardo, richiama nella forma l’ultima fase dell’antica basilica paleocristiana. L’opera, che si configura come un tentativo di dialogo tra archeologia ed arte contemporanea, è composta da 4.500 metri di rete elettrosaldata zincata; nel punto più alto raggiunge i quattordici metri e pesa circa sette tonnellate. Queste le parole di Tresoldi a proposito della realizzazione del progetto: “Ho lavorato come se fossi uno scultore applicato all’architettura, dove i vari elementi che utilizzo si compongono e relazionano con il resto del paesaggio e con la figura umana”. La costruzione della struttura è stata realizzata facendo delle piccole modifiche al progetto iniziale, a cui il team di lavoro è giunto durante i lavori in cantiere. Il curatore e critico d’arte Simone Pallotta spiega che l’artista è riuscito a trasfigurare l’architettura in un oggetto scultoreo che restituisce, reinterpretandola, la tridimensionalità della basilica paleocristiana. Secondo lui 153
la percezione visiva abituale di un ambiente costruito, viene qui sovvertita grazie alla trasparenza del materiale. Questo permette di percepire simultaneamente l’interno e l’esterno, dando vita a una visione evanescente. Se Burri con il cretto di Gibellina ricostruiva le tracce della città distrutta dal terremoto, evocando una dimensione tombale, Tresoldi ricostruisce la basilica suggerendo ai visitatori una visione onirica di come si presentava la chiesa secoli prima. È interessante approfondire il concetto di Rovina Metafisica elaborato dall’artista. Il ciclo architettonico comprende più stati fisici nell’arco della sua esistenza. All’inizio vi è uno stato di “non materia”, che l’uomo riempie costruendo un’architettura. Successivamente subentra l’abbandono e quindi il processo di alterazione e decadimento che porta il monumento alla sparizione, quindi a uno stato di assenza di materia. In questo momento entra in gioco la Rovina Metafisica che racconta gli ingombri e i linguaggi dell’architettura originaria, ma nel mentre genera un’esperienza onirica nel rapporto con il paesaggio contemporaneo e il contesto circostante. Questo è l’esempio della Basilica di Siponto che riesce a instaurare un dialogo inedito tra antico e contemporaneo, aprendo nuovi scenari per la conservazione e valorizzazione del patrimonio storico e artistico.
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Disegno di Edoardo Tresoldi
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Gustave Le Gray, Rovine di un tempio a Baalbek in Libano, 1860 circa, stampa su carta albuminata, 25,4 x 55,7 cm, Amsterdam, Rijksmuseum