CAMUCCINI FINELLI BIENAIME'

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a Vincenzo



Se il mondo fosse chiaro l’arte non esisterebbe Albert Camus

Nella vita di un antiquario è difficile stabilire con certezza se alcuni oggetti, spesso i più amati, siano stati effettivamente cercati o siano entrati nella sua vita per ragioni diverse, anche fortuite, ma in qualche modo facenti parte di un progetto unico, coerente. L’opportunità di avere nello stesso momento opere di tre artisti tra loro contemporanei, a me particolarmente cari, come Vincenzo Camuccini, Carlo Finelli e Luigi Bienaimé, è stata la scintilla, l’intuizione che avrei potuto riunirnli, in qualche modo farli rivivere in un unico contesto, a Roma, dopo quasi due secoli. Rendere operativo questo sogno non è stato facile, ma l’idea di far coincidere questo lavoro con l’inaugurazione del mio nuovo spazio espositivo in Via Margutta, mi ha dato l’entusiasmo necessario allo studio delle opere, alla realizzazione del catalogo, all’allestimento di questa mostra. In questa occasione, per me particolarmente importante, sono profondamente grata a mio padre per i suoi consigli, per i suoi insegnamenti, per la passione che mi ha trasmesso per l’arte.

Francesca Antonacci


con il Patrocinio del Comune di Roma

desidero ringraziare l’Archivio Camuccini, Francesca Antonini, Giovanna Capitelli, Patrizio Casadei, Lino Collavo, Pier Andrea De Rosa, Francesco Leone, Antonio Nervi, Sandra Pinto, Gianna Piantoni, Angelica Savinio, Mario Scalini, Annalisa Scarpa, Pia Vivarelli e tutti coloro che hanno, a vario titolo, partecipato alla realizzazione della mostra, in particolare Damiano Lapiccirella per i preziosi consigli.


CAMUCCINI FINELLI BIENAIMÉ Protagonisti del classicismo a Roma nell’Ottocento

Catalogo a cura di Francesca Antonacci e Giovanna Caterina de Feo

Roma, 15 maggio - 5 luglio 2003

Francesca Antonacci Via Margutta 54, Roma


CAMUCCINI FINELLI BIENAIMÉ Protagonisti del classicismo a Roma nell’Ottocento

Catalogo edito in occasione della mostra “Camuccini Finelli Bienaimé. Protagonisti del classicismo a Roma nell’Ottocento” Roma, 15 maggio - 5 luglio 2003

© Francesca Antonacci Via Margutta, 54 00187 Roma Tel. +39.06.45433036 - +39.06.45433054 e-mail: info@francescaantonacci.com http://www.francescaantonacci.com

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Vincenzo Camuccini, Autoritratto, distrutto durante la II Guerra Mondiale (Archivio Camuccini)


Note sulla fortuna critica di Vincenzo Camuccini disegnator e

È oramai noto che il disegno ha occupato nell’apprendistato artistico di Vincenzo Camuccini, un posto preminente: sin dalla prima giovinezza egli si è cimentato nella copia al tratto delle opere dei grandi Maestri del Cinquecento e del Seicento, nello studio dal vero e nella riproduzione delle statue romane, della Colonna Traiana, degli originali dei musei Capitolini e Vaticani . Recentemente è stato posto l’accento sul fatto che il pittore si è dedicato a queste attività individualmente, anticipando in tal modo la riforma della didattica dell’epoca napoleonica (1). Tale rigorosa preparazione era completata nell’Accademia dei Pensieri, un libero raduno di artisti, fondato a Roma da Felice Giani nel 1796 e frequentato dal pittore con Pietro Benvenuti, Luigi Sabatelli, Giuseppe Bossi, Giovanbattista Dell’Era e Jean-Baptiste Wicar, in cui insieme disegnavano dal vero e sul tema dell’invenzione e: “… uniti esercita vansi a comporre eleggendo subbietti delle storie e mettendo a tutta prova la loro immaginativa…”, proseguendo successivamente il confronto dei lavori in una libera discussione (2). L’attività disegnativa di Camuccini era già celebrata dai suoi contemporanei: note erano le copie delle opere di Raffaello, di Michelangelo, di Poussin, fatte “a capello”, così vengono definite dal biografo Carlo Falconieri (3), noti i disegni delle sculture romane dei musei Vaticani e Capitolini, realizzate a stretto contatto con Ennio Quirino Visconti (4). Le testimonianze della bravura di Camuccini come disegnatore sono numerose. Nelle sue considerazioni sullo stato delle Belle Arti in Italia, Guattani scrive: “... È cosa notissima come i profondi studi, che egli ha fatto su i due prototipi della Scuola Fiorentina e Romana, lo hanno condotto al punto di divenire la più cor retta amatita (sic), il disegnar più spedito e netto che si conosca, il compositor più ragionato ed esatto. Ad una piena notizia della Storia antica, della Favola, e di tutto ciò che ha rapporto alle memorie presenti e passate dell’Arte sua, tanta assiduità ed amore aggiunge nell’operare che già Roma conta vedere in questo suo figlio un pittore finito...” (5). Simili giudizi positivi riferisce Falconieri ancora molti anni dopo: “I disegni che egli operò erano, ripeto, quanto potevasi fare di preciso, di diligente nel contorno e nell’ombrare cosicchè venian lodati dai più schivi a lodare”… e prosegue, ammirato, nella descrizione dei disegni anatomici, cioè di studio di parti umane dal vero, eseguiti nell’ospedale di Santo Spirito: “… noterò che giusto verso quel tempo, riconoscendo che senza studio di anatomia, non vi può essere sapienza di disegno da valere gran fatto, curò di risicare vieppiù il tempo, onde consacrarvi, parecchie ore al dì recandosi all’ospedale di Santo Spirito a dise gnare il cadavere preparato dal coltello del cirusico… i quali studi conservansi in sua casa in due rari volumi, che dimostrano l’amore con cui son fatti...” (6). Pure Stendhal sottolinea tale fama, riferendo un episodio di quando, in meno di un mese, il pittore esegue una copia perfetta “… della Deposizione di Michelangelo da Caravaggio che i francesi avevano prelevato da Roma riuscendo non soltanto a riprodurre perfettamente il disegno e i colori del quadro, ma anche tutto il suo significato intimo…” (7). Curiosamente, a parte questo giudizio positivo, lo scrittore, altrove, dimostra implicitamente di non apprezzare affatto il pittore, anti-


cipando, sostanzialmente, un giudizio, in parte condiviso dalla critica anche più recente (8), che spesso apprezza maggiormente i disegni a scapito delle grandi opere pittoriche. Ciò si ravvisa anche nelle parole di Ugo Ojetti, scritte un secolo dopo nel volume sulla pittura italiana dell’Ottocento: “...eppure se di questo romano che da quelle mode trasse una fama allora europea e che fu a Napoli e a Roma per trenta anni il temuto principe dei pittori, osservi gli schizzi a penna acquerellati a bistro, e taluni bozzetti a colori dei suoi quadri, gli scopri una fantasia e un chiaroscuro e un’unità da maestro, così come in quel primo boccio pochi del seicento e del settecento gli starebbero alla pari. Ma sono vagiti. Appena il palpitante bozzetto diventa abbozzo o cartone, peggio appena diventa pittura finita e rifinita, egli torna schiavo legato alle unte catene della sua Accademia, abbigliato e inamidato per la parata ufficiale. …” (9). Nelle sale dedicate alla mostra dell’Ottocento che si svolge nell’ambito della XVI Biennale di Venezia vengono esposti un Ritratto di donna romana, il Ritratto del pittore Kral, due cornici con bozzetti (dei quali, purtroppo, non vengono specificati i titoli) e il Ritratto di Tommaso Gargallo (10). In questa scelta, che programmaticamente esclude le opere di soggetto storico (come ad esempio la Morte di Giulio Cesare e la Morte di Virginia, conservati presso la Galleria di Capodimonte a Napoli) sembra, però, riproporsi la contrapposizione tra pitture e disegni, rinnovando l’equazione, in qualche modo già sentita, di pittura = accademia, e disegno (o comunque abbozzo) = bravura e veridicità, intendendo l’accademia nella sua accezione negativa di coacervo di inutili esercitazioni, volte quasi a soffocare la creatività dell’artista. Da questo punto di vista muove anche il lungo articolo, pubblicato nello stesso anno da Pfister, dove l’autore si propone un’indagine più a vasto raggio del corpus dei disegni di Vincenzo Camuccini conser vati presso gli eredi dell’artista. Dopo aver sottolineato la sorprendente freschezza di mano, soprattutto rispetto alle grandi tele, alle quali talvolta si possono porre in relazione i disegni e i bozzetti, egli rileva come alcuni fogli siano concepiti come opere compiute, giungendo finalmente alla conclusione che tutti i disegni costituiscono un elemento indispensabile per la comprensione del modo in cui si è formato lo stile del pittore: “… i disegni non soltanto rivelano con maggiore evidenza le qualità e gli intenti dell’artista – e ciò quando essi hanno il carattere di un abbozzo e servono per fissare un’idea – ma spesso sono concepiti come opere finite, tanto che sono firmati in calce e portano talvolta perfino il prezzo a cui l’artista era disposto a ven derli. Vi si trovano al posto della fredda monotonia e della rigida concettualità che caratterizzano lo stile neo classico, una scioltezza, una vivacità, una forza espressiva che pongono in ben altra luce sia la produzione arti stica di Camuccini, sia – in genere – quella del suo tempo...”(11). Cinquant’anni dopo, la critica riprende ad interessarsi dell’opera grafica di Camuccini: nel 1978 a Roma presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna vengono esposti per la prima volta numerosi disegni provenienti dagli eredi dell’artista. Tale mostra scaturisce dall’attento lavoro, condotto in Archivio da Gianna Piantoni tra il 1972 e il 1975, che confluisce nel catalogo, dove vengono riuniti 206 fogli – per i quali viene proposta la data – che vengono ordinati secondo il tema: una larga parte è relativa ai quadri di storia e a quelli dei cicli decorativi per i palazzi Borghese e Torlonia; una parte sono studi (suddivisi in Studi dagli antichi maestri, Studi dalla Colonna Traiana, Studi di fisionomia da Michelangelo, Studi dall’antico, Studi di nudo, Studi di pieghe, Studi da vari autori, Motivi dal vero), altra parte ancora è riservata ad una serie di Studi per ritratti. Una rinnovata considerazione sull’intera opera dell’artista nasce da quest’esposizione, mentre si sottolinea il “...valore autonomo assunto dal disegno nella prassi degli artisti neo classici, in quanto momento primo e determinante del processo ideativo…” (12).


A questa fondamentale mostra sull’opera grafica – che ha l’indiscusso pregio di aver rivelato i complessi rapporti dell’opera di Camuccini con la cultura del proprio tempo – non ha fatto seguito, però, alcuno studio monografico sull’opera pittorica; in tal modo, nel percorso artistico di Camuccini, il disegno risulta maggiormente indagato – e quindi esemplificativo di per sé – giungendo ad avallare, involontariamente, la convinzione che i bozzetti siano qualitativamente superiori alle opere finite (13). Forse proprio per questo, negli ultimi anni sono i disegni e i cartoni del maestro romano che compaiono in mostre e sul mercato antiquario (14), mentre hanno poco risalto i maestosi dipinti conservati nelle collezioni dei maggiori musei, e le tele di soggetti religiosi che campeggiano in molte chiese italiane. È il caso, ad esempio, dell’Enea accompagnato dalla Sibilla nell’Ade (15), del Cartone di Sansone e Dalila “fra quelli noti della sua taglia forse il più bello in assoluto…” (16), o del bozzetto della Conversione di San Paolo (17). Concludo questo breve scritto, che vuole essere solo una prima riflessione su un argomento che necessiterebbe di maggiori approfondimenti, citando la grande mostra inaugurata recentemente a Roma, in tre sedi (la Galleria Nazionale d’Arte Moderna, l’Accademia di Francia e le Scuderie del Quirinale), che ha riproposto all’attenzione degli studiosi la storia dell’arte nella capitale. Da Napoleone all’Unità d’Italia, nei saggi di un esauriente catalogo che l’accompagna, vengono sottolineate le colte e non banali poetiche che sottendono alle composizioni dei quadri e delle sculture, i rapporti con gli artisti di passaggio a Roma, crocevia di produzione dell’arte internazionale, e quelli con i ricchi e sofisticati committenti europei (18). In quest’occasione, oltre ad alcuni dipinti di Camuccini (19), viene esposto il cartone della Pietà, una colossale matita su carta di m. 3 x 4, eseguita tra il 1833-34 e proveniente dalla collezione degli eredi dell’artista: “... l’ultimo passaggio dell’ar ticolata fase preparatoria che pre cedeva l’esecuzione di un dipinto e rappresentava il risultato più impegnativo e monumentale del l’abilità disegnativa dell’artista Studio, olio su tela


in un epoca che vedeva nella per fezione del disegno una delle qualità fondamentali della buona pittura” (20). La nostra mostra propone una serie di bozzetti e disegni diversi provenienti dallo studio dell’artista. Alcuni di questi sono stati già esposti nel 1978, tratti dai volumi nei quali vennero raccolti in parte dallo stesso pittore – come testimoniano gli indici manoscritti posti all’inizio di ciascun album, siglati V.C. – e in p a rte dal figlio Gi ova n n i Studio dalla Cappella Sistina, olio su tela Battista (21). Si è tentato inoltre di documentare le complesse fasi di preparazione di un dipinto: dal rapido schizzo iniziale al foglio concluso, la pratica dello studio accademico (con le copie dal vero o dagli antichi maestri), e i lavori perfettamente compiuti, a cui non fa seguito alcun quadro, in una privata esplorazione dell’artista nelle tematiche del proprio tempo. Questi disegni forniscono un duplice motivo di interesse: oltre al loro valore artistico, sono anche la testimonianza della prassi del lavoro del pittore. Camuccini, in accordo con gli assunti neoclassici, secondo una metodica che adotterà sempre, si applica al disegno nei diversi stadi di lavoro. Procede dal rapido schizzo iniziale da cui, passando per diversi altri momenti, giunge ad una composizione più accurata, studia le singole figure nei particolari (ad esempio dei panneggi), e solo più tardi giunge al modello, o bozzetto, ad olio, che a sua volta, è seguito dal cartone definitivo, ove l’artista riproduce le figure di grandezza uguale al quadro. Carlo Falconieri menziona anche un’ulteriore fase di lavorazione, cioè la realizzazione di alcuni particolari delle figure a grandezza naturale condotte ad olio, per meglio valutare l’impatto del colore nella misura grande (22). In tal modo il quadro finito è l’ultimo passaggio di un complesso percorso creativo che, talvolta prosegue nella realizzazione delle successive repliche, in una sorta di fortuna postuma del dipinto. Questa fase di lavoro, non secondaria nell’opera di Camuccini, è resa possibile proprio in virtù del distacco emotivo perseguito dall’artista. Egli lo ha raggiunto faticosamente, attraversando con perizia tutti gli stadi di lavoro descritti, che gli sono stati necessari per creare un’opera privata del proprio pathos. Il pittore che vuole sollecitare nello spettatore una reazione emotiva, non vuole mai risolverla – scioglierla – nella catarsi. Da artista colto qual è, egli sa che per essere un esempio deve mantenere fulgido, inalterato, inesploso il proprio carico di emotività. Giovanna Caterina de Feo


Note 1. 2. 3. 4.

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STEFANO GRANDESSO, Le arti e la storia davanti a Roma, in Maestà di Roma, 2003, p. 134. CARLO FALCONIERI, Vita di Vincenzo Camuccini e pochi studi sulla pittura contemporanea, Roma, 1875, p. 20 Ibidem, p. 18 ENNIO QUIRINO VISCONTI (Roma 1751 - Parigi 1818), archeologo e umanista di grande fama, consulente di studiosi e letterati. Ha collaborato con il padre Giovanni Antonio Battista alla descrizione del Museo Pio Clementino in VII volumi (1783-1807). Console della Repubblica Romana nel 1798, con la restaurazione ripara a Parigi dove dirige il Musée Napoleon (oggi Louvre). GIUSEPPE ANTONIO GUATTANI, Sullo stato attuale delle Belle Arti in Italia e particolarmente in Roma, in “Atti dell’Accademia italiana di Scienze, Lettere e Arti, Tomo I, Parte II, Livorno 1810, p. 273 , cit. anche in STEFANO GRANDESSO, Le arti e la storia… op. cit. (2003), p. 134 C. FALCONIERI, Vita, op. cit. (1875), p 42; anche Giovanni Sopiti ricorda: “i suoi studi sulle opere dei grandi e soprattutto di Raffaello di Urbino per guisa che in più volumi, che dal superstite del di lui degnissimo figlio son conservati, tradusse copie, disegni e profili, che per fermo rivelano di quanta venerazione fosse compreso verso i grandi maestri” (in G. STOPITI; Galleria Biografica d’Italia: Camuccini Vincenzo, Stabilimento tipografico Italiano, Roma 1884, s.p.) STENDHAL, (HENRY BEYLE), Promenade dans Rome, Paris 1929, in it. Passeggiate romane, Roma - Bari 1991, p. 274. Ibidem, p. 58: “…mi accorgo con una pena infinita che disgusterei i miei amici se li volessi forzare ad ammirare “le stanze”. In fondo una miniatura del Camuccini piace loro maggiormente...”. Tale giudizio poco lusinghiero a Parigi doveva essere in parte condiviso: in un lettera da Parigi (1824 ), di Luigi Calamatta a Paolo Mercuri: “ Saprai che ridono molto dell’usanza che c’è in Italia di fare i cartoni, e dicono che se gli antichi vi si adoperavano era perché facevano lavorare molto gli scolari sopra i loro quadri, e con tutto questo non passavano certo il tempo che ci si passa presentemente in Italia. Per esempio portano Camuccini e dicono: guardate i suoi bozzetti, sono bellissimi perché ci mette dentro tutto quel che sa. I cartoni sono molto più deboli, ma anco ra vi sono dei belli pezzi, alla fine arriva a fare il quadro senza forze e , avendo messo tutto quel che sapeva nel bozzetto e nel cartone, fa il quadro che è peggio di tutti. Vicar (Wicar) è nello stesso caso per il suo gran quadro, che sono molti migliori i car toni. Questo dicono tutti i francesi e le prove sono così evidenti che ti consiglierei di non far più cartoni ma solo un bozzetto non terminato per la combinazione e per l’effetto..” (cit. in. G. CAPITELLI, Disegni, bozzetti, modelli e cartoni: l’atelier dell’artista, in Maestà di Roma, (2003), op. cit., p. 450). UGO OJETTI, La pittura dell’Ottocento, casa editrice Bestetti e Tumminelli, Milano - Roma 1929, p. 14. UGO OJETTI, Mostra della pittura italiana dell’Ottocento, in XVI Esposizione Internazionale d’Arte della città di Venezia, catalogo ufficiale illustrato, Venezia 1928, pp. 27-31; fanno parte della commissione organizzatrice, oltre a Ugo Ojetti presidente, Nino Barbantini, Emilio Cecchi, Ezekiele Guardascione, Antonio Maraini, Cipriano Efisio Oppo, Margherita G. Sarfatti. Camuccini è anche nominato in: U. Nebbia, La XVI Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia MCMXXVIII, L’Alfieri e C. Editori Milano – Roma 1928 F. PFISTER, Disegni di Vincenzo Camuccini, in “Bollettino d’Arte”, A. VIII, Serie II, n. 1, Milano 1 luglio 1928, pp. 21-30. Vincenzo Camuccini (1771-1844) bozzetti e disegni dallo studio dell’artista, a cura di Gianna Piantoni de Angelis, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma 1978, p. 7. Vincenzo Camuccini, voce a cura di Antonio Bovero, Enciclopedia Universale dell’arte, Roma 1974, p.628 : “... poco ci dicono oggi le vaste, scolorite troppo rilasciate composizioni a Napoli galleria Nazionale di Capodimonte, ben altrimenti inte ressanti riescono i bozzetti rapidi e vivaci nell’estrema semplificazione della forma, e ancor più i disegni le prime idee che sve lano chiaramente le profonde radici culturali del pittore nel classicismo del seicento romano; poiché alla prospettiva romana egli non giunge per via diretta, ma per il tramite del Domenichino e del più severo Poussin…”. Parte della critica si era espressa in modo simile a proposito dei bozzetti in terracotta di Antonio Canova; a questo proposito scrive Giulio Carlo Argan: “un artista impegnato e cosciente (come Canova) deve essere discusso per le opere che ha licenziate come definitive e non dagli studi preparatori… e se il modellato del bozzetto è impulsivo spezzato, quasi violento nei contrasti di luce e ombra, e la scultura è perfettamente levigata, con un chiaroscuro finemente graduato, è chiaro che l’artista non si è proposto di rea lizzare, ma di superare e trasfigurare la qualità plastica del bozzetto” (cfr. G.C. ARGAN, Storia dell’arte italiana, Firenze 1968, p. 465). Disegni dal XVIII al XX secolo, Catalogo di vendita n. 16, Galleria Carlo Virgilio, Roma 1993: (n. 32 Episodio di storia classica, matita e inchiostro bruno acquerellato, mm. 236 x 340); Il mercante altrove. Disegni da una collezione, catalogo


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a cura di Sabina Gnisci con uno scritto di Gian Enzo Sperone, Roma marzo 1996, p. 118 (scena dall’antico matita e penna ad inchiostro, bruno acquarello biacca su carta, mm. 235 x 432). W. APOLLONI, La “mano italiana” disegni di tre secoli, Roma, 6-30 maggio 1981, n. 74. Si tratta di un grande cartone a matita, penna acquerello monocromo e biacca su carta nocciola, pesante, mm. 515 x 895, controfondata con cartone (che impedisce la lettura dell’eventuale filigrana), Firenze collezione privata. Proveniente dall’Inghilterra. Monogramma inquadrato MB, che secondo Lugr appartiene a Marv Brandegee, colei che nel 1904 acquistò 8200 disegni della celebre collezione Piancastelli di Roma dispersi sul mercato a partire dal 1944.(cit in. G.L. Mellini, Qualità di Camuccini, estratto da P.L. Grassi, Disegno e disegni, galleria editrice, pagg. 500-505). Quadreria. Dipinti ad acquerello dal XVIII al XX secolo, catalogo della mostra a cura di Serenella Rolfi e Chiara Stefani, Roma, Galleria Carlo Virgilio, novembre - dicembre 1999, pp. 38 e 39. Maestà di Roma da Napoleone all’Unità d’Italia. Universale ed eterna. Capitale delle arti, catalogo della mostra, progetto di Stefano Susino, realizzazione di Sandra Pinto con Liliana Barroero e Fernando Mazzocca, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Milano 2003. Pompeo chiamato alla difesa della patria da L. Emilio Paolo e C. Claudio Marcello, 1909 c, olio su tela, cm. 172 x 265; Ritratto di Pio VII, 1814-15, olio su tela, cm. 137 x 113,5; Ritratto di Bertel Thorvaldsen (copia fedele della sua allieva Luisa Bersani); Scena di sacrificio, Studio di mosaico in Vaticano su disegno di Vincenzo Camuccini, 1812 ca.; Conversione di San Paolo, olio su tela, cm. 132 x 70. Pietà, 1833-34, scheda di Federica Giacomini, in Maestà di Roma (2003) op. cit. p. 453. Nel catalogo si sottolinea anche l’importanza del cartone, sia nella fase della creazione dell’opera, sia per il fatto che rimanendo nell’atelier dell’artista, viene a costituire un repertorio di modelli che gli consente di riprodurre l’opera, talvolta in misura ridotta (cfr. Giovanna Capitelli, Disegni, bozzetti, modelli e cartoni, l’atelier dell’artista, in Maestà di Roma, (2003), op. cit., pp. 450-452) Sono volumi rilegati e intitolati: Studi dagli antichi autori, Studi da Michelangelo, Disegni dal vero, Disegni d’invenzione, Studi di pieghe. Oltre a questi sono conservati in Archivio le prime idee preparatorie per alcuni degli 84 disegni, fatti per illustrare il Vangelo, commissionatogli da Leone XII - disegnati tra il 1825-27, e riprodotti in litografia a partire del 183032, sotto il pontificato di Gregorio XVI . CARLO FALCONIERI, Vita, (1875) op. cit. p. 289: “… nella seguente sala sonvi incorniciati parecchi studi ad olio di teste , gambe braccia, estremità di misura doppia al vero, che Camuccini facea prima di eseguire i suoi quadri; imperocchè bene intendeva quan to difficile egli è saperle ritrarre dal vero e tradurle sollevando la forma in quelle proporzioni colossali, per andar sicuro nella esecu zione. E codesti pezzi appartengono ai quadri di San Francesco di Paola, a quello della Presentazione al tempio, ed al San Gregorio (dipinti per chiese, come conosce il lettore) nei quali il punto di veduta essendo assai discosto l’obbligarono a serie considerazioni…”.


Catalogo

Schede di Vincenzo Camuccini di Giovanna Caterina de Feo Schede di Carlo Finelli e Luigi BienaimĂŠ di Stefano Grandesso


Queste schede devono molto al precedente, minuzioso e appassionato, lavoro condotto da Gianna Piantoni, in occasione della mostra Vincenzo Camuccini (1771-1844) bozzetti e disegni dallo studio dell’artista, tenutasi nel 1978 a Roma, presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna, dove alcuni di questi disegni sono stati esposti..


Disegni di Vincenzo Camuccini


1 Morte di Giulio Cesar e matita su carta cm. 53,3 x 85

Questo disegno perfettamente compiuto in ogni sua parte, si riferisce al quadro in grande dimensione della Morte di Giulio Cesare, (Napoli, Museo di Capodimonte), commissionato nel 1793 da Frederick August Hervey, vescovo di Derby e quarto conte di Bristol, per il quale anni prima l’artista aveva già eseguito una copia della Deposizione di Raffaello. Il dipinto, forse il più noto del pittore, ha avuto un lungo iter creativo, interrotto anche dalla morte del Conte di Bristol avvenuta nel 1804, e una complessa vicenda per i pagamenti e per le successive copie in formato minore (Roma, 1978, p. 30). Nel 1796 viene ultimato il cartone che riscuote l’immediato interesse dei maggiori esponenti del neoclassicismo romano. Il quadro viene finito intorno al 1799, ma, al contrario di quanto era avvenuto per il cartone, il dipinto viene aspramente criticato portando l’artista a distruggere la tela (Falconieri, 1875, p. 41) e a ridipingerlo nuovamente, probabilmente ultimando questa nuova redazione intorno al 1806 (Cera, 1987, n. 221). Quasi sicuramente il tema viene scelto dallo stesso Lord Bristol, mentre “Il cennato Visconti che gli fu maestro e duce, ne ritraeva tutti gli elementi dalla descrizione di Flaminio Vacca”, almeno secondo la testimonianza di Falconieri che descrive con minuzia il quadro ambientato in una: “… vasta sala qua drilunga, in cui da un capo giravano a semicerchio, su a scaglioni, gli stalli dove sedeano i senatori, ed in mezzo sopra i gradini stava il seggio del dittatore: decoravano le pareti le statue di Giove, Giunone, Pallade e dal lato opposto elevasi maestosa la statua di Pompeo… il punto dell’azione toglieva da Valerio Pratercolo, il quale dice che Cesare tratto dalla fatalità, si recò alla curia: ove i congiurati avevano stabilita l’uccisio ne, e Svetonio riferisce ch’essi mentre gli stavano ossequiosi attorno, Cimbro, fingendo di offrirgli un foglio, gli afferrò la toga e Casca lo ferì. A questo primo colpo Cesare, fiero qual’era, surse in piede e lungamente si difese con gran coraggio dai colpi di Casca e degli altri, a tale che dibattendosi fu spinto… ai piedi della statua di Pompeo e colà lo vedi accerchiato dai congiurati; i quali ferocemente lo incalzano, gli si scaglia no addosso brandendo gli aguzzi pugnali… e già visto fra i feritori lo snaturato Bruto, il quale non giun gendo a sostenere lo sguardo, volge confuso il volto ed il braccio traditore gli tentenna, mentre Cesare pare gli dica: ‘E tu anche figlio mi uccidi’… dalla parte opposta irrompe il popolo pieno di sorpresa e spavento che per meglio vedere sale sui seggi… Le varie fogge del vestire sono precisissimi: li senatori addossano bian che toghe; gli altri la tunica, il noto manto e i calzari. Le figure principali sono ritratti levati dai busti e dalle statue esistenti: fin il simulacro di Pompeo è copiato da quello esistente a Palazzo Spada…” (Falconieri,1875, p. 53).



2 Morte di Ippolito penna e acquerello su carta avorio cm. 19,4 x 31,3 esposizioni: Roma, 1978, p. 23, n. 51

L’appunto autografo reca la dicitura La morte di Ippolito sogetto cavato dalla tragedia di Racine; potrebbe essere il foglio ricordato da Carlo Falconieri: “… bella è la morte di Ippolito, tratta dalla tragedia di Racene molto abilmente…” ( Falconieri, 1875, p. 257). Questo disegno è stato esposto a Roma nel 1978, dove si propone di datarlo tra la fine del 700 e i primi dell’800 per “... L’ascendenza seicentesca, una certa affinità con il Runciman, la concitazione dram matica espressa da un segno libero e reiterato che lega in una continuità dinamica figure ed oggetti, sono elementi che fanno ritenere possibile la datazione agli anni di più intensa sperimentazione…”. (Roma, 1978, p. 23). Il disegno contiene evidenti richiami agli studi condotti da Camuccini sui pittori classici: il corpo abbandonato di Ippolito morente, in particolare nella curva del braccio, sembra suggerito da quello del Trasporto di Cristo di Raffaello, un quadro copiato fedelmente dal pittore per il Vescovo di Bristol nel 1796, inoltre alcuni elementi compositivi, quali la grande roccia incombente sulla sinistra, la città in lontananza e il carro di Ippolito rovesciato tra i due gruppi, possono derivare da un disegno di Poussin di uguale soggetto, proveniente dalla collezione dello scultore Cavaceppi, che il pittore può aver conosciuto. (Parigi, 1958, fig. 92; Roma, 1978, p. 23).



3 Morte di Ippolito penna su carta avorio cm. 11 x 17,4 esposizioni: Roma, 1978, p. 23, n. 52

Questa penna su carta, sembra la prima idea del disegno precedente; qui con un tratto veloce il pittore delinea con sicurezza l’impianto complessivo del quadro: individua le masse delle figure, i chiaroscuri, e, infine, accenna al paesaggio. Il tema della morte di Ippolito è tratto dalla tragedia di Jean Racine (1677) della scena VI dell’atto V, in cui Teràmene, aio di Ippolito racconta a Teseo la fine del figlio, trascinato dai suoi cavalli imbizzarriti: …Verso l’irta scogliera l’orrore li trae a precipizio; l’asse stride e si spezza, e l’intrepido Ippolito vede sfasciarsi il suo carro e andare in mille frantumi, precipita a terra, le guide lo stringono nel loro groviglio.

Il pittore rappresenta il momento in cui Teramene accorre seguito dalla sua guardia, prende tra le braccia il corpo di Ippolito morente che proferisce le ultime parole, mentre dal lato sinistro: “ è sopraggiunta in quel momento la timida Aricia…” (Racine, 1952, p. 70).



4 La Continenza di Scipione matita su carta cm. 105 x 175 esposizioni: Roma, 1978, p. 39, n. 71

Si tratta di una matita relativa all’opera dal titolo omonimo commissionata dal generale russo Balk intorno al 1808, probabilmente elaborata dal pittore intorno al 1810, nel periodo di vicinanza con David, durante il suo soggiorno a Parigi. Tra i documenti d’Archivio risultano 840 Luigi per il pagamento del quadro. Sono nominati oltre a questo, conservato tra i Cartoni d’invenzione, uno Scipione in Cartagena per lo Studio, e un disegno, mentre Falconieri cita un bozzetto della Continenza donato allo scultore Tadolini (Falconieri, 1875, p. 263). Il dipinto viene replicato dall’artista nel 1833 per il principe di Colloredo, opera oggi probabilmente conservata al Kunsthistorisches Museum di Vienna. (Roma, 1978, p. 38). Il tema, che ebbe notevole successo anche presso alcuni pittori francesi, si riferisce a un episodio tratto da Plutarco che viene in tal modo descritto da Melchior Missirini: “Narrasi da Plutarco nella presa di Cartagena fatta da Scipione, avere singolarmente accresciuto fama e benevolenza al capitano un esempio di grande virtù: imperciocchè fra i prigionieri essendogli stata condotta d’innanzi una bellissima fanciulla, comandò che fosse guardata e difesa nell’onore; e sapendo di poi ch’ella era promessa sposa a un Luceio princi pe de’ celtiberi, fattolo a se venire ad esso che giovane era bello e gentile, la donzella restituì…” (Missirini,1835, p. 37)



5 Cornelia madre dei Gracchi matita su carta, su telaio di legno cm. 58 x 78,5

Il quadro, oggi nel Palazzo Ducale di Lucca, viene commissionato da Maria Luisa di Borbone, figlia di Carlo IV di Spagna, Regina d’Etruria, deposta dal trono da Napoleone nel 1807 e, probabilmente, viene eseguito dopo il soggiorno di Camuccini a Parigi, intorno al 1810-11 (Pinto, 1973, p. 333). Le note autografe delle vendite delle opere conservate in Archivio e pubblicate nel catalogo della mostra del 1978, consentono di ricostruire anche la fortuna che tale tema trovò presso i committenti di Camuccini, poiché egli eseguì in piccole dimensioni una replica per il cav. Fayler prima del 1824 e un’altra per la Contessa Ostrowska tra il 1832 e il 1833 (Roma, 1978, p.40). Stando a Falconieri è la stessa committente, rimasta vedova e madre di due figli, che suggerisce il tema per le evidenti allusioni autobiografiche. L’episodio interpretato nello stesso periodo anche da altri artisti, è tratto da Valerio Massimo, che cita Cornelia quale exemplum virtutis. (Missirini, 1835, p.41). Figlia di Scipione l’Africano, costei era una donna colta che prese parte attiva al circolo degli Scipioni, una libera associazione di pittori e intellettuali legati da idee comuni. Rimasta vedova, non si volle risposare per dedicarsi ai figli, rifiutando anche la proposta di re Tolomeo VII d’Egitto; Falconieri descrive la tela ambientata in: “… una vasta sala architettonicamente decorata, nelle cui pareti in due nicchie si ammirano i simulacri di Gracco e Scipione, accennando così alle glorie di famiglia. Un tramez zo e pochi scanni compiono il resto senza sfoggio di ricchi arredi. La composizione dividesi in tre gruppi. Cornelia siede in nobile atteggiamento di contro alla dama Capuana formosissima e fastosamente abbi gliata… alla quale ella in opposto con nobile atteggiamento, e con severa parola, le risponde: ecco le mie gioie! Additandole i suoi figlioli…” (Falconieri, 1875, p. 111).



6 Studio di piega per il quadro di Cornelia matita su carta beige cm. 37,5 x 41,5, esposizioni: Roma, 1978, p. 15, n. 29



7 Studio per il quadro della Cornelia matita e sfumino su carta avorio quadrettata a matita al verso: Studio per il convito degli dei matita su carta avorio cm. 20,5 x 30,9 esposizioni: Roma 1978, p. 41, n. 79; p. 42, n. 81

Un elenco autografo in francese, reca l’annotazione prem.idée du tableau de la Cornélie. Oltre al cartone del dipinto, conservato presso gli eredi del pittore a Cantalupo in Sabina, si conoscono almeno altre otto carte in cui questo soggetto è trattato. Piantoni identifica questo disegno con uno stadio intermedio della composizione, che nella redazione finale presenta alcune varianti nella posizione del fanciullo e del precettore (Roma, 1978, p. 41). Il foglio presenta sul verso una matita del Convito degli dei, che potrebbe essere la prima idea per il quadro commissionato a Camuccini dal Principe Torlonia per la decorazione della volta del Palazzo di Piazza Venezia (demolito nel 1903 per costruire il monumento a Vittorio Emanuele), il che porta a datare questo disegno intorno al 1810. Falconieri ci tramanda la descrizione del dipinto con l’apoteosi di Psiche: “… un lieto convito, in cui intervengono gli dei tutti. Siede Giove, il fulmineo, in atto di porgere l’ambrosia a Psiche, la quale con dolce e gentile atto stende la mano a prendere la coppa. Mercurio le siede al lato, ed alla destra di Giove seggono Plutone, Nettuno, e l’altera Giunone. Accosto al trono sorgono Minerva, Diana, saturno e Flora, più in fondo Ebe e Matuta. Dall’altro lato siede Apollo, in atto di solennizzare col giocondo verso il fausto giorno, e tutto presso gli stanno Ercole, Marte, e la bionda Cerere...” (Falconieri, 1875, p. 118).



8 Dame romane che portano le gioie all’erario (Magnanimità delle dame romane) penna, acquerello su carta avorio, quadrettatura a matita al verso: Romolo che riporta le spoglie opime penna e acquerello, alcune parti danneggiate per l’erosione della colla sul foglio cm. 8,6 x 17 esposizioni: Roma, 1978, p. 62, n. 134

È possibile che questo disegno sia relativo alla prima redazione di un quadro iniziato intorno al 1816, quando un dipinto con questo tema viene commissionato al pittore dall’ambasciatore a Roma presso la Santa Sede Pierre Louis Jean Casimir D’Aulps. Questo foglio viene datato da Gianna Piantoni intorno al 1816-20 e definito “… rapido nella delineazione delle figure e del panneggio, ma già perfetta mente compiuto nell’impianto della composizione e nello studio delle ombre…”. (Roma, 1978, p.62). I documenti conservati nell’Archivio Camuccini dimostrano che il dipinto ha avuto una certa fortuna tra i committenti del pittore, poiché viene eseguita una replica dipinta probabilmente per Marino Torlonia, Duca di Poli e un disegno. Successivamente l’immagine del quadro viene incisa da Marchetti. Carlo Falconieri descrive con dovizia di particolari la “... stupenda tela rappresentante la magnanimità delle donne romane, che volendo non essere da meno dei lor uomini (i quali spargevano il loro sangue sui campi di battaglia, in sostegno della patria grandezza) con virile animo donarono i loro gioielli al pubbli co Erario, recandoli nel Tempio di saturno, ove stava il Tesoro dello Stato… la scena viene rappresentata nell’interiore del tempio indicato con decorazione di colonne. Occupano il mezzo con due tavole: l’una è destinata ai pagatori delle milizie e nell’altra si veggono a sedere tre Edili; mentre quattro di loro in piedi dall’altra banda intendono ricevere i donativi presentategli dalle romane matrone. Qui vedesi portare d’un’ancella il cofano che offre la sua padrona: più in la chi depone la collana, chi il vezzo, chi l’anello, chi il braccialetto; e gli oggetti preziosi tanto s’accalcano che un’Edile va ponendoli in serbo. Bello soprattutto ci sembra il gruppo di mezzo, di cui una vaga donzelletta a suggerimento della madre, togliesi gli orecchini per farne dono alla patria...” (Falconieri, 1875, p. 193).



9 Morte di Porzia matita e lumi di biacca cm. 46 x 67

Su questo tema Camuccini esegue tra il 1816 – 20 un disegno, su commissione del Conte Apponiy, nel 1824 un bozzetto e, in seguito, anche, un dipinto (Roma, 1978, p. 67). Della Morte di Porzia si conoscono altri due disegni conservati rispettivamente negli album VI e XXVIII e un rapido schizzo contenuto in un piccolo taccuino. In questo disegno, condotto a matita con un sottile tracciato lineare, a tratti rafforzato da leggeri tocchi di biacca per conferire maggiore volume alle figure, è compiutamente identificato ciascun personaggio della storia, nonché ricostruito l’ambiente fin nei minimi particolari. Continuando nel solco della prassi adottata sin dalla prima stesura della Morte di Cesare, il pittore ricostruisce filologicamente gli arredi e gli abiti, mentre pone in alto, nelle nicchie, tre statue romane. A tal proposito Falconieri ricorda come il giovane artista era assistito in questo dall’archeologo Ennio Quirino Visconti “…..che le difficoltà gli spianava, riguardanti la forma degli edifizi ove i fatti erano avvenuti; non che la foggia di vestire di cui, per migliore intelligenza, tutto gli scrivea...” ( Falconieri,1875, p. 40) L’episodio è tratto dal Libro III di Valerio Massimo, che lo menziona tra gli esempi di Intrepidezza: si riferisce al momento in cui Bruto, richiamato dalle grida, entra nella stanza in cui giace sua moglie Porzia, che si era ferita volontariamente con un rasoio, avendo scoperto che egli tramava l’assassinio di Giulio Cesare.



10 Morte di Porzia penna su carta avorio al verso: Studio per una composizione penna cm 16 x 28,8 esposizioni: Roma, 1978, p. 66, n. 138

Questa penna su carta avorio è probabilmente una prima idea del disegno precedente. Lungo il margine destro a penna c’è una scritta, incompleta per il taglio del foglio: “dem /mas /fam /card / Chra / Re di / Pala / Voco/ P.B. / Mon.e Di”. Al recto si trova uno studio per una composizione non identificata: una scena di cavaliere, percorsa da un rapido movimento, condotta a penna, con tratto libero e veloce, simile ad altri disegni del genere, spesso volti a fissare l’idea iniziale della costruzione del quadro, o relativi a rapidi esercizi di scene riprese dal vero.



11 Curio Dentato rifiuta i doni dei Sanniti matita su carta su telaio di legno cm. 53 x 80

Il presente disegno, accuratamente rifinito e compiuto, si riferisce al dipinto realizzato intorno al 1824 per il principe Aldobrandini e in seguito replicato per Rotschild di Napoli e poi, ancora, per l’Ambasciatrice d’Austria, anche se probabilmente in dimensioni minori (Roma, 1978, p. 70). Oltre ai disegni esposti, si conosce un modello ad olio, uno studio di colore, esposto nel 1999 in una mostra a Roma (Roma, 1999, p. 36). Dal quadro l’incisore Bertini, nel 1824 sotto la guida di Camuccini, esegue la lastra al bulino (Roma, 1978, p. 72). Il dipinto viene accolto con favore dalla critica dell’epoca e, più tardi, nominato tra le opere più riuscite da Carlo Falconieri, che descrive la “… tela fatta per principe Aldobrandini che rappresenta Curio Dentato, romano duce che di costumi semplici e severi, viveasi in Sabina in una modestissima casa. Ora intervenne un di che gli ambasciatori sanniti sono iti a visitarlo e a pregarlo, si volesse interporre coi suoi romani, offrendogli parecchi vasellami d’oro; ai quali respingendo le offerte, rispondea con quella maschia virtù romana dei primi tempi: “amo meglio comandare a chi possiede questi tesori che possederli”. Questo soggetto stupendamente ritraeva Camuccini. Siede Curio alla parca mensa con scodelle contenenti scarse erbe ed un vaso di terra; egli si rivolge agli ambasciatori che gli presentano i doni con un atto così nobi le, così significante che ti par di sentire le memorabili parole. La madre la buona vecchia, sembra che applaudisca alla onestà del figlio, insieme alla sposa. Belli ed in modesto atteggiarsi stanno i suoi figlio li, se non che la figlia par si compiaccia della vista di splendidi ori per lei nuovi ed inusitati. La scena della rozza stanza, il fornello fumante, giova all’effetto stupendo del fondo, e pare che la ric chezza e la bellezza faccian contrasto alla superba povertà del luogo, in cui giganteggia la virtù del gran romano…” (Falconieri, 1875, p. 192).



12 Curio Dentato rifiuta i doni dei Sanniti penna su carta verso: Studio per scena storica matita cm. 15,5 x 25,5 esposizioni: Roma, 1978, p. 72, n. 151



13 Studio di pieghe per la figura di Curio Dentato matita su carta cm. 29 x 26 esposizioni: Roma, 1978, p. 15, n. 32



14 Panneggiamento dell’Attilio Regolo matita su carta cm. 40,2 x 33,7

Nel lungo, articolato, iter creativo che precede l’esecuzione del dipinto, l’attenzione del pittore si rivolge in particolare allo studio dei panneggi dei diversi personaggi della storia. Della “Partenza di Attilio Regolo quadro con figure al vero” (Falconieri, 1875, p. 112), di cui è conservato nel Palazzo di Cantalupo in Sabina il bozzetto ad olio su tela, sono gli studi del panneggio dell’attore principale, raffigurato mentre si accinge a salire sulla barca, già con le vele spiegate, che lo riporterà a Cartagine e del Console Manlio che in posa ieratica assiste alla partenza.



15 Figura del Console Manlio nel quadro di Attilio Regolo matita su carta cm. 30,8 x 42,3

Partenza di Attilio Regolo, olio su tela, Archivio Camuccini



16 Testa di cavallo matita su carta cm. 72 x 49

Questa grande testa di cavallo condotta a matita, deve molto della sua impostazione al rilievo del Carro trionfale di Marco Aurelio, che si trova nei Musei Capitolini (176-177 d.C.), ma potrebbe essere lo studio per uno dei due destrieri raffigurati nella grande pala della Conversione di San Paolo, una delle rare tele per la cui esecuzione il pittore non elabora il cartone definitivo grande al vero, come sino allora aveva fatto mettendo in pratica i rigorosi dettami della prassi accademica. (Giacomini, 2003, p. 457). Il biografo Carlo Falconieri nella descrizione del dipinto rileva il particolare realismo del “ gruppo di due cavalli che spaventati, sembra di udirsene il nitrito, tanto è vivace il movimento, e caccian fumo dalle ardenti narici, mentre sovra uno di essi tutto chinato il cavaliere affaticasi a scansare la quasi ine vitabile caduta…” (Falconieri,1875, p. 208)



17 Testa di cavallo matita su carta cm. 57 x 44

Camuccini per “apprendere il comporre” aveva disegnato da Raffaello, Michelangelo, Poussin e Domenichino; secondo Falconieri questo metodo di studio viene ulteriormente arricchito dalla pratica di disegnare dal vero, poiché l’esercizio della copia “… avrebbe troppo rivelato l’arte senza con sultare la natura. Così avendo letto che Leonardo si recava tra la folla per apprendere le diverse espres sioni dell’animo, così egli correva ai pubblici spettacoli, nei mercati, alla caccia dei tori, alle corse dei cavalli...” (Falconieri, 1875, p. 19).



18 Conversione di San Paolo penna e acquerello su carta avorio, quadrettatura a matita; filigrana. cm 49,7 x 26,6 esposizioni: Roma, 1978, p. 87, n. 187

Questo acquerello, si riferisce al grande dipinto commissionato al pittore da Leone XII, (Papa tra il 1823 e il 1828) per la nuova decorazione della Basilica di San Paolo fuori le mura, distrutta da un incendio nel 1823, e ricostruita nuovamente (Roma, 1978, p. 87). In questo foglio è evidente la quadrettatura a matita servita all’artista per trasporre l’immagine nel bozzetto preparatorio a olio datato tra il 1832-34, già segnalato da Carlo Falconieri nella Vita, esposto a Roma (Roma,1999, pag. 38). Rispetto alla redazione finale, qui sono ancora visibili alcuni particolari narrativi in seguito eliminati, come il paesaggio sullo sfondo e l’elmo caduto in primo piano. Il quadro della Conversione viene eseguito entro il 1835 e, finalmente, collocato nel transetto sinistro della Basilica nel 1840, insieme alla grande tela di San Paolo sollevato al Terzo cielo, eseguita e posta nell’abside. Inizialmente viene commissionata al pittore anche la grande pala d’altare la cui vicenda è esemplificativa della situazione dell’arte a Roma, nel periodo in cui si afferma la corrente purista: in occasione della pubblicazione della tela, infatti, si accende il dibattito in cui si sottolineano negativamente l’accentuato michelangiolismo e i riferimenti alla pittura seicentesca, in particolare di Caravaggio: in seguito a queste polemiche, Camuccini rinuncia alla realizzazione della pala, che viene affidata a Filippo Agricola (1795-1857) (Roma, 1978, p. 86). La disputa su quest’opera deve essere stata assai aspra se, ancora nel 1875, Carlo Falconieri sente la necessità di difendere l’autore del quadro: “... comunque già passasse gli anni sessanta, pure prese con ardor giovanile a fare la composizione in più maniere, il bozzetto, e disegnando parte a parte ogni figu ra. Dappoi contornato, per assicurare l’effetto si volse a dipingere un quadro di piccola misura condu cendolo con grandissima cura... il nostro artista trattando cotale subbietto ha seguito le tradizioni popo lari, anzi quelle degli artisti ” (Falconieri, 1875, p. 206). Della Conversione di San Paolo è nota anche la riproduzione, un carboncino su carta di Giovanni Battista Borani, (Brook, 2003, p. 562) per la realizzazione di una incisione realizzata nel 1828, per il rame di Domenico Marchetti allo scopo di ampliare la raccolta di 34 lastre eseguite sotto la guida di Camuccini, di proprietà della Calcografia (Miraglia, 1995, p. 117).



19 La consegna delle chiavi matita e biacca su carta beige cm. 17,5 x 26,9

Questo piccolo disegno appena accennato, ma preciso nella individuazione delle figure essenziali, è un bozzetto della parte destra del grande cartone conservato presso gli eredi dell’artista nel Palazzo di Cantalupo in Sabina, la cui composizione rammenta un bassorilievo di uguale soggetto eseguito da Thorvaldsen. E’ riferibile alla commissione, affidata al pittore da Papa Pio VIII nel 1829, del fregio da collocare all’interno della Basilica di San Pietro raffigurante le gesta degli Apostoli. (Roma, 1978, p. 81). Il cartone viene eseguito da Camuccini, “tinteggiato in chiaroscuro e che doveasi poi fare tradurre in musaico. Della quale nobilissima opera fatto avea schizzi e disegni in breve misura...” (Falconieri, 1875, p. 204), ma, per la sopraggiunta morte del Papa l’impresa non viene eseguita.

21 Testa di signifero dalla Battaglia di Costantino di Giulio Romano La consegna delle chiavi, cartone preparatorio, matita e biacca, Archivio Camuccini



20 Madonna in trono con Santa Caterina, San Pietro e San Paolo matita, acquerello e lumi di biacca su carta azzurra cm 24,1 x 21,5

Questo disegno raffigura la Madonna assisa in trono, contornata dai Santi Caterina, Pietro e Paolo, ed è simile nell’esecuzione ad un foglio con la Santa Caterina che confonde i dottori, conservato nell’album n. XVIII. Ambedue sono condotti sulla medesima carta azzurra e con la stessa perizia tecnica: il contorno è accurato, lineare, senza tratteggio, e il chiaroscuro è individuato mediante una velatura di acquerello, rialzato con tratti di biacca. La struttura del disegno è basata sul principio di simmetria, centralità e monumentalità, maturata attraverso il faticoso studio su Raffaello e sui maestri della tradizione figurativa del passato. Nella mostra “Maestà di Roma”, sull’arte da Napoleone all’Unità d’Italia nei cui scritti vengono indagati i molteplici aspetti della produzione artistica di quel periodo, si è sottolineato che “… a Roma la produzione di immagini religiose ruota attorno a tre figure chiave: Vincenzo Camuccini, Jean-Baptiste Wicar e Jean-Auguste Dominique Ingres. Questi tre artisti, ciascuno con la propria personale cifra stili stica, misero a punto fortunati prototipi figurativi per un arte sacra universale e senza tempo…” (Roma, 2003, p. 169).



21 Testa di signifero dalla Battaglia di Costantino matita su cartoncino avorio cm. 35 x 31,6 esposizioni: Roma, 1978, p. 9, n.2

Il disegno è tratto dalla Battaglia di Costantino di Giulio Romano ed è stato ordinato con altri fogli su Michelangelo, Raffaello, Giulio Romano e Poussin, in un album con gli studi dagli antichi autori; l’elenco autografo, conservato in Archivio, dove sono indicati i titoli dei soggetti e il valore dei disegni, reca la seguente annotazione: “questi disegni verrebbero pagati/ a Giovani Studenti i prezzi segnati/ per cui a me pare che bisogna regolar/si secondo chi li richiede./ A me piaceria che nel caso di doverli vendere / all’Accad. di Londra ovvero di Pietroburgo avend / done anni indietro manifestato il desiderio di / averli, ma questi a me formano il mio vero/ piacere per cui non ho mai voluto / sentirne voluto (sic) parlare poiché quel / poco che faccio nell’arte e quello che ho fatto/ a questi studi lo devo”. Camuccini si dedica alle copie dei pittori antichi a partire dal 1787, ma continua a farne anche negli anni seguenti, come è ricordato da Carlo Falconieri “...per apprendere il comporre egli disegnava a contorno le composizioni di Raffaello, di Domenichino e di Nicolò Possino e d’altri sommi maestri, non solo dai loro grandi originali, ma da quante buone stampe gli venivan per mano: disegni che in gran parte si veggono raccolti negli accennati volumi medesimamente in casa del figlio. È questo esercizio facea per ben conoscere da quali linee risultava quella ammirabile armonia, da essi ottenuta nella disposizio ne delle figure e nel modo di raggrupparle, specialmente nei soggetti della storia antica… però leggendo nei libri dell’arte che Leonardo si recava tra la folla, ovunque essa fosse, onde dalla natura viva apparis sero le diverse espressioni dell’animo, di gioia e di dolore (non in diversa guisa che fatto aveva Apelle) così egli correva ai pubblici spettacoli, nei mercati, alla caccia dei tori, alle corse dei cavalli, alle feste gio viali campestri dell’ottobre e si frammischiava alle carnovalesche giocondità. Insomma egli facevasi atten to osservatore, ovunque poteva cogliere l’espressione di gioia, d’ira, di dolore e di sconforto...” (Falconieri, 1875, p. 19).



22 Testa di angelo da La cacciata di Eliodor o carboncino e sfumino su cartoncino cm. 34 x 42 esposizioni: Roma, 1978, p. 10, n.5

Questo disegno raffigura il volto dell’angelo dalla Cacciata di Eliodoro, dalle Stanze di Raffaello (1511-12), un tema indagato a figura intera anche in un altro foglio. Il particolare interesse di Camuccini verso Raffaello, è largamente testimoniato da Carlo Falconieri, nella Vita del pittore, dove in piĂš di una occasione vengono ricordati i disegni tratti dalle Stanze Vaticane, dalla Farnesina, dal Trasporto di Cristo e dalla Trasfigurazione.

23 Angelo da La cacciata di Eliodor o matita su carta cm. 34,6 x 44,5



24 L’Incendio di Borgo matita, acquerello e lumi di biacca su carta ocra cm. 25,5 x 38,1

Non si conosce il titolo con cui il pittore ha identificato questo disegno, ma con tutta probabilità è ispirato dalla stanza dell’Incendio di Borgo, di Raffaello, dove in alto a sinistra si intravede il Castel Sant’Angelo tra le fiamme. Carlo Falconieri menziona i: “… disegni che il nostro Vincenzo faceva con ammirevole perfezione; tra quali per loro bellezza ci piace dire del gruppo di Enea portante sulle spalle il vecchio padre Anchise, ritratto a capello dal famosissimo affresco di Raffaello – l’incendio di borgo vecchio estinto da Leone IV…” (Falconieri, 1875, p. 9).



25 Figura nell’Incendio di Borgo matita su carta cm. 42,8 x 27,7

Intitolato Figura nell’Incendio di Borgo operata da Raffaello nella camera vat. [vaticana], si tratta della copia della nota figura della Canefora, un disegno anche ricordato da Falconieri: “… inoltre con la medesima e passionata cura, disegnava quella figura che porta un vaso pieno sul capo…”. (Falconieri, 1875, p. 13). La pratica della copia dagli antichi maestri è condivisa nello stesso periodo da altri artisti, tra questi Giuseppe Bossi, suo sodale insieme a Benvenuti nell’Accademia dei Pensieri fondata da Felice Giani nel 1876. Di Giuseppe Bossi è noto un disegno eseguito in controparte (evidentemente per una incisione), della Canefora tratta dall’Incendio di Borgo di Raffaello, oggi conservato presso l’accademia di Brera. (Collina Poppi, 1999, p. 168)



26 Psiche trasportata in cielo dagli amorini matita su carta cm. 33,6 x 33,7

Nell’Archivio Camuccini è conservato un manoscritto che reca la dicitura Psiche trasportata in cielo dagli amorini, dipinto da R.S. alla Farnesina, e al n. 18 quella di Vela della Farnesina con Giove e Amore. Gli studi di Camuccini sugli autori della Farnesina sono riferiti da Carlo Falconieri: “… e senza usci re di Raffaello noteremo quel Giove che bacia Amore d’una lunetta della Farnesina... Riappiccando il filo dei suoi studi, tornava il Camuccini al Buonarroti, appò cui par vero curava di attingere quella cota le terribilità, quel grande disegno unico e solo nei di lui concetti sublimi. Dappoi, allorquando credette Camuccini aver poste salde fondamenta nel disegno, passava alla Galleria Farnese, a studiare la Galatea e le altre mirabili pitture dei Carracci, del Domenichino; ritraeva quell’ossesso di Grottaferrata che vale un mondo, quando anche volesse paragonarsi a quello della Trasfigurazione; e della Comunione di S. Girolamo… Studiò poscia Albani e Guido a Galleria Borghese e la Caccia di Diana del Domenichino e più che altro vagheggiò in Campidoglio la Santa Petronilla del Guercino; l’assunta di Carracci; Lot di Guercino; Cristo morto del Vandyck; Carità di Shidone; deposizione di Caravaggio; Sacra Famiglia di Giulio Romano…” (Falconieri, 1875, p. 28).



27 Vela della Farnesina con Gio ve e Amor e matita su carta cm. 32,1 x 43,4



28 Gruppo dal Giudizio di Michelangelo sanguigna su carta cm. 32,2 x 23,5

Questo disegno condotto a sanguigna affine ad una serie di altre esercitazioni su Michelangelo conservate nell’album n. II, interamente dedicato da Camuccini agli studi sulla fisionomia dei dannati e dei demoni sulla barca di Caronte copiati dal Giudizio Universale. Tali disegni suscitano l’ammirazione di Carlo Falconieri; che in più di una occasione li nomina tra quelli degni di maggior considerazione in particolare la: “copia in disegno amorosamente condotta che egli fece della barca di Caronte, ritratta a capello dall’immenso Giudizio della Sistina…” (Falconieri, 1875, p.163). Nella mostra tenutasi alla Galleria d’Arte moderna di Roma nel 1978, Piantoni evidenzia, un’aspetto inedito dell’artista che, nel 1821, insieme al fratello Pietro, si propone per un intervento di ripulitura dell’affresco, da eseguire con mollica di pane, sul gruppo degli Angeli che portano la colonna; ne segue un aspro dibattito, che vede anche la partecipazione del purista Tommaso Minardi, maggiormente propenso ad un restauro di tipo conservativo, che accusa Camuccini di non essersi limitato ad eseguire una ripulitura con mollica di pane, ma di avere eseguito anche dei ritocchi a pennello (Roma, 1978, p. 11).



29 Studi di piede matita su carta cm. 21,9 x 40,9

Questo disegno è indicativo della rigorosa preparazione accademica di Camuccini, che si basa anche sulla copia dei rilievi e delle statue romane, a cui si dedica indirizzato dell’archeologo Ennio Quirino Visconti, autore delle illustrazioni dei monumenti del Museo Borghese e del Museo Pio Clementino. Piantoni cita un passo dell’Autobiografia manoscritta, al tempo depositata presso gli eredi del pittore, e oggi purtroppo dispersa, ove si legge: “al compiere dei 16 anni disegnai per il Principe Don Marcantonio Borghese tutte le statue e i bassorilievi della sua villa illustrati di poi da Ennio Quirino Visconti e n’ebbi un compenso di Luigi 220” (Roma, 1978, p. 9). Tale attività è anche riferita da Falconieri: “… In altro volume ritraeva a cento a cento teste, estremità, pieghe di Raffaello, Leonardo, Michelangelo, Giulio Romano, Domenichino; ed in altro medesimamen te gruppi e figure dall’antico, nonché studi di pieghe così accurati nelle squadrature e negli occhi, che non possono con maggior cura essere tradotte. Né questi studi facea soltanto nella sua giovinezza, che sarebbe stato impossibile raccoglierne tanti; ma egli si mostrò instancabile diremmo per tutta la sua vita, come vedremo facea , lungo i suoi viaggi...”(Falconieri, 1875, p. 14).



30 Studio di frammento antico di piede matita su carta cm. 43 x 65

I due grandi disegni seguenti sono la copia, quasi a grandezza naturale, dei Piedi di Mercurio, ancor oggi conservati tra i resti romani, nella Galleria che percorre longitudinalmente il primo piano dei Musei Capitolini, frequentati da Camuccini al tempo della sua giovinezza, nel periodo in cui, sulla scorta dei suggerimenti di Ennio Quirino Visconti, approfondisce le proprie cognizioni sulla statuaria antica.



31 Studio di frammento antico di piede matita sui carta cm 38 x 54



32 Discobolo matita e sfumino su carta cm. 54.8 x 39

Questo bel disegno, rovinato agli angoli, è una accurata copia del Discobolo conservato nel Museo Pio Clamentino, luogo dove dal 1786 Camuccini, si reca perfezionandosi negli studi sulla statuaria classica, coadiuvato dall’archeologo Ennio Quirino Visconti, in un percorso fondamentale, giustamente sottolineato in più di una occasione da Carlo Falconieri: “…ed anche a studiare l’antico die desi più indefessamente, e facendo senno sulle meravigliose antiche sculture si andava formando gli occhi allo squisito vedere la bellezza ideale; perciocché a me sembra che nelle statue greche trovasi consacrata la perfezione da quegli artisti i quali avean sottocchio forme di corpi non contraffatte dalle molli abitudi ni e dalle stolte fogge di vestire adottate dalla odierna società, ma si bene in opposto dall’esercizio delle membra e da ragionevoli usanze perfezionate…” (Falconieri, 1875, p. 17).



33 Studio di gamba matita su carta cm. 93 x 59

Particolare a grandezza naturale di una gamba copiata dal vero da un modello atteggiato secondo un prototipo classico. Falconieri rammenta che Camuccini aveva sempre riconosciuto l’importanza della “conoscenza procuratasi del celebre Ennio Quirino Visconti, (che)… fu per lui la maggior ventura che si avesse in vita sua perciocchè costui eminentemente dotto, gli rinvigoriva la mente con sapienti con sigli”. (Falconieri, 1875, p. 34). La preparazione accademica del pittore veniva poi completata nelle riunioni riferite dal primo biografo di Camuccini, Pietro Ercole Visconti, tenute nell’ultimo decennio del Settecento, sotto la guida di Domenico Corvi insieme a Luigi Sabatelli, Pietro Benvenuti e Giuseppe Bossi, anch’essi giovani artisti, con i quali era solito anche disegnare modelli dal vero (Visconti, 1845, p. 7). Durante queste riunioni il pittore acquisisce quelle nozioni (pure approfondite con i disegni di parti anatomiche nell’ospedale di Santo Spirito), che gli permettono di svolgere una pittura corretta anche dal punto di vista anatomico oltre che storico.



34 Frammento di Paride al Museo Vaticano matita su carta cm. 31,5 x 20,5 esposizioni: Roma, 1978, p. 13, n. 22

35 Frammento di statua di sacerdote nel Museo Vaticano matita su carta bianca cm. 35,6 x 24,0 esposizioni: Roma, 1978, p. 13, n. 23



36 Il cortile di Palazz o Venezia matita e olio su carta ocra cm. 27,8 x 41,2

Questa veduta non finita, mostra uno scorcio del cortile di Palazzo Venezia costruito dal cardinale veneziano Pietro Barbo nel XV secolo. Pontefice con il nome di Paolo II, Barbo è il promotore del famoso carnevale romano, che dal 1466 fa svolgere nella Via Lata (l’attuale Via del Corso), per potervi assistere dalle finestre del suo Palazzo Venezia. Dai secoli XVIII e XIX, il Carnevale romano diviene tra i più celebri di tutta Europa, il parteciparvi era di rigore per la variegata congerie di turisti di passaggio per la città, mentre le maggiori famiglie nobiliari della capitale rivaleggiavano nell’offerta di pranzi e festeggiamenti. Di fronte si trovava anche il Palazzo Torlonia, demolito nel 1903 per edificare il monumento a Vittorio Emanuele. Stendhal offre una vivace descrizione dell’atmosfera e delle personalità che affollavano le serate di gala nella Roma del 1828 : “… Il Torlonia è il banchiere di tutti gli inglesi che vengono a Roma e fa dei guadagni enormi pagando le loro lire sterline in scudi romani. Ogni inverno ci si vuol divertire con qualche nuovo racconto in cui figurano da un lato la tirchieria del freddo e tranquillo ban chiere e dall’altro le furie di qualche ricco inglese malcontento del cambio. In compenso il Torlonia dà a’ suoi clienti dei magnifici balli, di cui non si pagherebbe troppo caro l’ingresso quaranta franchi a testa. Quel giorno egli non è più avaro. I quattro lati della corte del suo palazzo sono occupati da una splen dida galleria che comunica con parecchi vasti saloni nei quali si balla e che i migliori pittori viventi, il Palagi, Il Camuccini, il Landi hanno ornato di pitture. Un salone è stato costruito appositamente per collocare bene il famoso gruppo colossale del Canova: Ercole furibondo lancia Lica nel mare...”(Stendhal, 1829, p. 83).



37 Testa di guerriero romano carboncino su carta cm. 75,5 x 48,0

Queste monumentali teste sembrano tratte dai rilievi dell’Arco di Costantino, un monumento che più di una volta ha attratto Camuccini: infatti nell’album XVI è conservato un disegno a matita in piccole dimensioni ma assai simile. Sin dalle prime pagine della Vita, Carlo Falconieri, sottolinea la propensione del pittore per lo studio dell’arte classica: “… per tre anni poco mancò che si portasse il suo letticciuolo in Vaticano; poiché andava allo spuntar dell’alba e lasciava il lavoro al declinar del sole, intento tutto a copiare con la mag giore intelligenza possibile Raffaello, Michelangelo ed i capolavori dell’arte antica che rendono unico al mondo il museo Pio-Clementino. Per vero fa meravigliare vedere in diciassette volumi (che il figlio gelo samente conserva nel palazzo Cesi , di cui più oltre parleremo) raccolti un numero sterminato di disegni, copie, schizzi, composizioni di tanta bellezza, che qualche fiata tengono in forse di preferirli al dipinto: disegni che il nostro Vincenzo faceva con ammirevole perfezione ...” (Falconieri, 1875, p. 9).



38 Testa di rilievo di guerriero romano matita grassa su carta cm. 74 x 49



39 Trofeo d’armi romane matita e lumi di biacca su carta acquerellata color seppia cm. 21,7 x 44,6

Questo disegno con uno studio di decorazione su carta acquerellata color seppia, ha per titolo Trofeo d’armi romane. Il motivo dei “trofei” – lance e armature – è desunto dai fregi romani: è esemplare la decorazione interna del tempio di Adriano (II sec. d.C.) conservato nel cortile del Museo Capitolino. È largamente diffuso nell’arte decorativa del XVI secolo. Nel secolo XIX la fortuna di questo motivo risulta, ad esempio, dalla sua presenza negli arredi scultorei di Piazza del Popolo, posti da Valadier intorno al 1816, al sommo delle colonne rostrate sulla collina del Pincio (Ciucci, 1974, p. 128). Tra il XVIII e XIX secolo, la moda archeologica non è confinata esclusivamente alla statuaria; a Roma ha goduto di molta fortuna il genere del mosaico, la cui manifattura specializzata nella copia e nella rielaborazione delle opere classiche, è diretta da Vincenzo Camuccini. Uno dei lavori più ammirati è il tavolo rotondo decorato con la raffigurazione dello scudo di Achille desunta dal testo omerico, con 12 scene concentriche eseguite da 9 dei maggiori mosaicisti allora attivi (Pucci, 1986, pp. 281-282).



40 Vittoria scrivendo le gesta di un eroe matita, acquerello e biacca su carta cm. 18,4 x 25,5

In questo elegante foglio, condotto a matita e acquerello, l’artista propone la Vittoria alata assisa su un cippo contornata da armi, scudi e lance, simboleggianti la guerra ormai finita. Intitolato Vittoria scrivendo le gesta di un eroe, questo disegno è una libera interpretazione de La vit toria alata registra su uno scudo la fine vittoriosa della prima guerra dacica. Il motivo è tratto della Colonna Traiana (113 d.C.), il monumento che già aveva attratto gli artisti del Rinascimento e che Camuccini studia a lungo, in una serie di disegni conservati in un album (Roma, 1978, p.10).



41 Studio per il ritratto di Maria Luisa di Borbone matita e sfumino su carta cm. 39 x 29

Questa matita su carta è riferibile al ritratto a olio della duchessa di Lucca Maria Luisa di Borbone, raffigurata a figura intera, che oggi si trova presso la galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti a Firenze. Il ritratto che “… piacque infinitamente pel perfetto somiglio non solo, ma eziandio pel nobi le atteggiare della persona, pel disegno correttissimo e per la squisita finitezza degli accessori…” (Falconieri, 1875, p. 224), viene eseguito intorno al 1811, e replicato verso il 1824 per la duchessa di Ossuna. Maria Luisa di Borbone, figlia di Carlo IV di Spagna, regina d’Etruria, deposta dal trono da Napoleone nel 1807, verso il 1808 aveva affidato a Camuccini l’esecuzione della tela di Cornelia, suggerendone, anche, il tema in cui essa stessa ravvisava delle allusioni autobiografiche (vedi scheda n. 5).



42 Studio per il ritratto della Duchessa di Ossuna matita su carta in basso: “La Duchessa d’Ossuna” cm. 25 x 21



43 Studio per il ritratto di Lucia Migliaccio, principessa di Partanna penna su carta cm. 23,8 x 15,4 esposizioni: Roma, 1978, p. 94, n. 202

Si tratta di uno dei bozzetti, penna su carta, del ritratto commissionato a Camuccini da Ferdinando I, re delle Due Sicilie, nel 1819, nel periodo in cui l’artista è a Napoli, incaricato di riordinare le Collezioni della Galleria. Del ritratto, che oggi si trova alla galleria Duca di Martina a Napoli, si conoscono due abbozzi: un olio su tela, dove è raffigurata solo la testa, e un olio su cartone, dove è riprodotta in modo simile al ritratto finito, a figura intera. Carlo Falconieri riporta una vivace descrizione delle sedute di posa della principessa, che il pittore ritrae : “… a figura intera e formosissima qual era, superando le tante e tante difficoltà”. L’impresa di tale ritratto non dovette essere delle più semplici, almeno stando alle notizie riportate nella Vita, dove oltre a descrivere la “... duchessa Floridia (moglie morganatica) principessa di Partanna, una delle triade che al dire del Colletta, eran per bellezza e per antiche libidini famose”, si riportano le parole di una lettera al fratello Pietro: “lunedì, egli dice, finii il contorno e martedì mi portai dalla medesima per dipingere; appena mi vide dissemi che quella posizione non le piaceva, onde dovetti sulla tela stessa fare un altro contorno, e fatte le tinte, appena cominciai a dare la prima pennellata, mi disse di essere stan ca e di tornare l’indomani alla stessa ora... quest’oggi è venuta vestita in gran gala, credendo che dovessi dipingerle gli abiti, onde ho abbozzato il cappello e il petto, senza poter far niente alla testa, dicendomi che lo stare ad azione per lei era una morte, e che tutti i ritratti fattole, l’erano stati presi in società, ovve ro guardandola. Non si crepa perché Iddio nol vuole, ma si soffre pene di morte. Dipingere una donna difficilissima senza vederla, senza tempo, con smania di tutti di vedere cosa viene e con tanti invidiosi (possano questi godere un’ora quello che io passo tutti i giorni prima di uscire dalle sue stanze). Ha volu to che fosse veduto il mio scarabocchio dalle sue dame e servitori; chi dice che gli occhi somigliano e chi la fronte e la gola, onde spero che a forza di pazienza ne potrò cavare qualche somiglianza. Domani dovrò tornare per istabilire il costume e subito comincerò sulla tela grande a lavorare...” (Falconieri, 1875, p. 128).



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Tre sculture di Luigi BienaimĂŠ


44 Psiche marmo di Carrara altezza cm. 139,5 Firmato sulla base: L. BIENAIMÉ F.

Giunto a Roma nel 1818 grazie alla vittoria del premio di pensionato bandito dall’Accademia di Belle Arti di Carrara, Luigi Bienaimé divenne romano d’adozione come molti altri colleghi della più diversa nazionalità che trovarono nella Città Eterna le condizioni ideali per professare la scultura: la possibilità di esercitare il continuo confronto con i modelli canonici della classicità, il ruolo di Roma come capitale delle belle arti e sede, anche nell’Ottocento, di un mercato artistico internazionale grazie all’afflusso dei viaggiatori e collezionisti stranieri, il vantaggio del magistero qui esercitato dai massimi scultori dell’epoca, Antonio Canova e Bertel Thorvaldsen. Del danese Bienaimé fu prima allievo e quindi il principale collaboratore, dopo la rottura tra questi e il prediletto Pietro Tenerani. L’attività di capo studio alle dipendenze di Thorvaldsen non gli impedì tuttavia l’affermazione professionale come scultore autonomo, richiesto da committenti di grande prestigio spesso condivisi con il maestro, dal conte Giambattista Sommariva al Duca di Devonshire, dallo zar Nicola I al principe Alessandro Torlonia (sull’artista Hartmann 1984; Carozzi in Carrara 1993, pp. 172-3). Il repertorio delle sue invenzioni, disponibile nella serie di modelli in gesso per sempre nuove repliche marmoree, si trova già quasi completamente esposto nel volume che nel 1838 il marchese reatino Angelo Maria Ricci gli dedicava, accompagnando le tavole disegnate da Paolo Guglielmi e incise da Domenico Marchetti con illustrazioni ecfrastiche in prosa e in versi (Ricci 1838). Vi si trovano soggetti sacri di ascendenza thorvaldseniana (L’Angelo custode, San Giovannino), letterari di “genere bello” (Telemaco), ma soprattutto mitologici di ispirazione “graziosa” e “gentile”. È attraverso raffinate variazioni sui temi di questo tipo trattati anche da Thorvaldsen che Bienaimé doveva individuare la propria originale vena artistica, indagandoli in una chiave di carattere narrativo e sentimentale diversa rispetto al rigore “filosofico” del maestro. La favola di Amore e Psiche di Apuleio, alla quale Thorvaldsen aveva dedicato la Psiche con il vaso della bellezza, l’Amore e Psiche riuniti in cielo e numerosi bassorilievi, ispirò a Bienaimé due invenzioni testimoniate dalle incisioni pubblicate dal Ricci: la Psiche che saggia il dardo di Amore e la Psiche armata, entrambe stanti ma con una diversa attitudine legata agli inserti bronzei che ne caratterizzavano l’azione. Nella prima (esemplare a Cittadella, collezione privata, datato 1877) la freccia di Cupido, di cui Psiche verifica la pericolosità, e la concentrazione immobile della giovinetta adombravano i misteri di amore. La seconda rappresentava Psiche protesa in avanti con la lucerna, necessaria per osservare nella notte le sembianze del suo amante misterioso, e il pugnale, non sapendo ancora se scoprirà nel nume “o creatura amabile, o mostro crudele” (Ricci 1838, p.11, tav. X). L’attitudine incerta doveva sollecitare l’osservatore a immedesimarsi nella giovinetta combattuta tra il timore e il desiderio di procedere, l’indecisione ma anche l’ardimento di chi è disposto a ferire. Ricci così descriveva questa seconda versione del tema: “Col sospetto, che annubila alquanto la fronte già sì spianata e serena, la bellissima Psiche irresoluta, soletta, timorosa tacitamente si avanza per notte senza stelle in cerca di Amore. Ha nella destra il pugnale, che trema al palpito propagato dal cuore al




braccio: ricopre colla sinistra la malfida lucerna: una leggiera sindone caduta sopra un vaso d’unguenti (fa puntello al marmo con meraviglioso ed opportuno accorgimento di arte) attesta la confusione in che la donzella esterrefatta levossi dalle inquiete piume” (Ricci 1838, pp. 12-13, tav. XII). La corrispondenza con la versione inedita di Psiche qui presentata, priva degli attributi in diverso materiale che originariamente doveva recare tra le mani, è quasi esatta. Una variante è costituita dal panneggio, che, anziché essere caduto, è tuttora avvolto intorno al braccio destro a coprire la nudità altrimenti integrale della fanciulla e a costituire da sé solo il necessario sostegno del marmo. Questo dettaglio ne sposta cronologicamente l’esecuzione in avanti rispetto all’opera descritta dal Ricci – da assegnare probabilmente all’inizio del quinto decennio – dato che questo tipo di sostegno era stato elaborato da Bienaimé per la successiva Venere eseguita su commissione di Alessandro Torlonia (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, cfr.di Majo in Roma 2003, p. 414). Lo scultore stesso mostrava scrivendone al Ricci le prerogative del panneggio disposto in questo modo sia per sostituire l’abusato sostegno del tronco d’albero sia come stratagemma per garantire la decenza della sua “Venere tutta pudica, e tale che nulla mostrasse in sé di lascivo”: “Essa tiene poi colla mano sinistra le vestimenta onde vestirsi di nuovo, e nel sostenerle ricuopre quanto la decenza vuole nascosto a sguardo impudico; e così mentre provvedeva alla verecondia, cercava di togliermi da quel noioso ed eterno tronco, solito sostegno di ogni statua, al quale suppliva col gruppo de’ panni.” (in Hartmann 1959, p.107, lettera dell’11 luglio 1838). Una seconda variante rispetto all’incisione è probabilmente costituita dalla mano sinistra della statua, qui in apparenza più aperta. È possibile che Bienaimé vi avesse inserito solo uno dei due oggetti citati, in questo caso probabilmente la lucerna, e che di volta in volta decidesse, nell’esecuzione di repliche, di variare in questo modo il soggetto, magari con opportune calibrature nell’espressione del volto. Ciò giustificherebbe le testimonianze apparentemente contraddittorie che la letteratura critica del tempo registra in gran numero, grazie alla notevole fortuna della statua. Il marchese Amico Ricci, nel resoconto della visita compiuti agli studi artistici romani nel 1835, affermava: “Tutta grazia e venustà, dice il ch.Visconti (Ape italiana vol. I pag. 31), è la Psiche, che il medesimo Bienaimé scolpì per il principe Teodoro Galitzin dai cui pregi non si dipartono certamente le altre due statue figuranti queste bellissime Fanciulle: in una delle quali la immaginò irritata stringente un pugnale, nell’altra sospettosa, ed agitata ricercando con la face l’infido” (Ricci 1836, p. 111). Quest’ultimo caso coinciderebbe dunque con la versione qui presentata, per la quale le fonti indicavano almeno due committenti: Lord Selsey e il conte Dietrechstein (Le Grice 1841, vol. I, p. 129). Oltre alla Psiche con il dardo Missirini ricordava solo quella lucerna: “ha in mano il lume della vita, e se ne scherma dagli occhi il verbero con un movimento e un pensiero tutto nuovo, e di massimo effetto” (Missirini 1837, p. 353). Mentre nella sequenza di statue dedicate dagli scultori di Roma al tema di Psiche, così numerose e varie che, descrivendole, il conte Tullio Dandolo poteva ripercorrere l’intera favola di Apuleio, l’opera si sdoppiava nuovamente colorandosi di sottili accenti psicologici: “Atteggiata di fierezza (statua di Bienaimé) in avviarsi al talamo tenta col dito la punta del pugnale… fierezza in que’ soavi lineamenti? No! Quel corrugamento è forzato; trema la mano, palpita il seno, Psiche non saprà avventare il colpo omicida, neppure se la lampada le appaleserà avverato il sospetto. Si avanza (altra statua di Bienaimé), raccolse quanta più potè vigoria, a farsene scudo intorno al cuore: oh ma a quel cuore, io l’indovino, parlano dolci reminiscenze, in quelle labbra è un fremito, un voto che il sospetto si sperda.” (Dandolo 1838). Stefano Grandesso


45 Zefiro marmo di Carrara altezza cm. 140 Firmato e datato sulla base a lato: L. BIENAIMÉ F. 1841 Lo Zefiro, scultura di soggetto “grazioso” dal carattere quanto mai piacevole e decorativo, rappresentante le forme giovanili del dolce vento di ponente, figlio di Eolo e dell’Aurora e sposo di Flora, è probabilmente tra le opere più riuscite di Bienaimé. Lo scultore seppe imprimere alla figura un moto temperato in avanti, suggerito dal passo leggero e conveniente alla natura mite del vento che essa personifica, ma non per questo meno schietto e diretto, adatto cioè al messaggero degli dei. Anche il volto, atteggiato, pur nel superiore distacco classico, a una ilare confidenza, concorre alla piacevolezza della rappresentazione. L’opera incontrò la fortuna della committenza e venne richiesta in un certo numero di repliche. Sono testimoniate dalle fonti la versione eseguita per il granduca ereditario di Russia Aleksandr Nikolaevic (1838-39, San Pietroburgo, Ermitage; Kosarëva in Carrara, Massa 1996, p. 168 n. 22) e quella, tuttora non identificata – ma non è escluso si possa trattare di questo esemplare – per il mecenate napoletano Vincenzo Ruffo di Motta e Bagnara, principe di Sant’Antimo (Le Grice 1841, vol. I, p. 130). Anche la fortuna critica presso la stampa contemporanea fu piuttosto significativa. Angelo Maria Ricci la descrisse con delicata eleganza e una partecipazione lirica di tono lievemente sentimentale: “L’amator di Flora inanellato le chiome da lieve benda infrenate, veste sottilissima tunica pari al tessuto di novellina corteccia di giovine palma. In un lembo di essa vagamente elevato con la sinistra mano raccoglie i fiori ancor freschi e stillanti della rugiada del mattino; offre nella destra il fior del granato in cui già turge la gemma del frutto; muove il Nume così leggiero e così veloce il piede, e la snella persona, che per vagheggiarlo, per respirar alquanto con lui il pregheresti di fermarsi un poco, immemore della pietra in cui sta scolto, dicendo a lui: Donde vieni, e dove vai, / Zeffiretto lusinghier? / Sol per me non torna mai / La stagione del piacer: / Deh mi lascia un fior che dia / Pace almeno al mio desir: / Ma tu passi, e dalla via / Mi rispondi in un sospir!” (Ricci 1838, p. 13, tav. XIII). Di tono erudito fu la recensione dell’ “Ape Italiana delle Belle Arti”, redatta dal suo direttore, il conte Giuseppe Melchiorri, che discettando sulla doppia natura del vento di Zefiro, “di essere mite cioè, e fecondatore, e di essere talvolta furioso, e dissipatore di nubi”, giustificava Bienaimé per averlo voluto rappresentare nella sua veste più soave e piacevole “siccome la scultura prende a rappresentare quelle cose che più dilettano la vista, e l’animo ricreano” e dunque il “mitissimo e dolcissimo vento di primavera il quale riveste le piante di foglie, e di fiori ricopre il prato” (Melchiorri 1837). Filippo Gerardi, su “Il Tiberino”, decifrava infine alcuni aspetti iconografici trovando “pensiero assai nuovo e gentile […] di indurre a credere chi guarda, che Zefiro tutto giubilante sen corra alla diletta sua sposa Flora per farla certa del grande studio da lui posto nel nutrire que’ prodotti della terra a lei consacrati. E di più volle il Bienaimé, che quel fiorellino che Zefiro ha in mano,



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mostrasse di essere uno di quelli propri d’alcuna pianta fruttifera, quasi l’avesse scelto fra tutti a fare aperto alla sua diletta, che egli non tanto si diede pensiero di educar que’ fiori, che la vista e l’odorato allettano, ma che gli furono soprattutto a cuore gli altri da cui gli uomini si aspettano alcuna utilità per la vita.” Felicemente Gerardi descriveva la snellezza delle forme del nume e il virtuosismo nella resa della leggera clamide increspata e in parte scesa a denudarne il torso, elementi che concorrevano “a ritrarre in effigie un venticello tutto piacevolezza e soavità: e riguardando quel suo viso ridente e sereno, renduto ancor più giulivo ed amabile da’ que’ capelli divisi sulla fronte, e scendenti in larghi bioccoli sul collo, non durerai fatica a confessare che in quella faccia non appariscano i segnali d’un essere, che ha sede fra gli abitatori dell’Olimpo, ed al quale è commessa l’educazione dei fiori, che dir si possono l’allegrezza dei campi ed il sorriso della natura” (Gerardi 1836, p. 152). L’opera doveva essere stata modellata poco prima di questi riscontri letterari, ideata come pendant della Pastorella (San Pietroburgo, Ermitage; Kosarëva in Carrara, Massa 1996, p. 168, n. 24), egualmente figura di età giovanile e recante il motivo floreale della ghirlanda che sta intessendo. Se negli stessi anni lo scultore inglese residente a Roma Richard James Wyatt riuniva in un unico gruppo Zefiro con la sua sposa Flora (Gigli 1840, marmo a Nostell Priory, W.Yorks, cfr.Robinson 1996), anche la statua di Bienaimé doveva trovare un’ideale compagna nella Flora di Pietro Tenerani, modellata nel 1835 (Grandesso in Roma 2003, p. 395), condividendo il tema del movimento e il motivo all’antica dei fiori raccolti in grembo con la veste. Il successo di questo accostamento doveva essere stato immediatamente verificato da due committenti di entrambi i lavori come il granduca ereditario Aleksandr Nikolaevic e il principe Ruffo. Stefano Grandesso


46 Baccante danzante marmo di Carrara altezza cm. 149 Firmato e datato sul tronco: L.BIENAIMÉ F. A ROMA 1846 Come la Psiche, anche la Baccante danzante era legata a soggetti precedentemente trattati da Bertel Thorvaldsen, in particolare la Danzatrice modellata nel 1817 per il principe Nicolaus Esterhazy (modello a Copenaghen, Thorvaldsen Museum), e prima di lui da Antonio Canova. Queste opere condividevano il riferimento archeologico ai panneggi gonfiati dal vento di statue antiche come la Hora degli Uffizi o quella allora in collezione Ludovisi, riecheggiato anche dalla Flora di Pietro Tenerani (di Majo, Susinno, in Roma 1989, p. 322). Rispetto al maestro Bienaimé ricercò l’espressione di una fisionomia facciale originale e non dipendente dalle morfologie thorvaldseniane e amplificò notevolmente il movimento con il risultato di espandere lo sviluppo tridimensionale della sua figura in termini assai distanti dalla frontalità caratteristica delle opere del danese. Come nella Psiche o nello Zefiro lo sviluppo serpentinato della figura nello spazio determinava l’assenza di lato privilegiato in favore di una molteplicità di punti di vista. L’opera doveva dialogare a contrasto con un’altra Baccante (San Pietroburgo, Ermitage), rappresentata nuda, distesa e in riposo. Così ne scriveva Angelo Maria Ricci: “Quantunque una sia la beltà, che come cosa celeste dovrebbe esser sempre pura e scevra di senso terreno, voluttuose forme, ma non oscene mai, ha la giovine donna seguace di Bacco, la quale giace su morbida vellosa pelle, che dall’ugne dinota la tigre. Le chiome ordinatamente scomposte sono compresse da un tralcio di ellera: il di lei volto manifesta l’ebbrezza: la voluttà traspira dagli occhi mezzo chiusi e lievemente supini, dalla bocca semiaperta, dal volto languidamente aberrato”. Alla Baccante danzante, vestita, in piedi e in movimento, era invece riservata questa più ampia descrizione: “Devota ma non serva di Bacco è questa Baccante danzatrice, alla quale il liquore prepotente non tolse ancora l’agilità delle grazie, e quel brio, che fa tutti gli organi eloquenti nella danza. Coronata le chiome ben disposte di fresca edera, che mette le sue gracili uve, serba l’aspetto svegliato e sereno in un’estasi di vivo piacere. Una tunica lieve che informasi della bella persona scende da due nodi sugli omeri, innanzi al petto mollemente cedevole al movimento delle braccia e delle mani, in cui balenano i sistri. La leggerissima tunica giunge appena al ginocchio, che bellamente s’incurva su due gambe tornite, che si preparano e si modellano al ballo. Non si aspetta, che lo squillo de’ sistri, ond’ella si spicchi al primo salto. Tutto in quel corpo, librato al primo slancio, è leggerezza ed armonia; e nelle linee del marmo e ne’ contorni morbidissimi sfugge l’idea del peso natio, e vedi compendiati in un sol atto i succedenti vezzi della danza tranquilla e decente. Un picciol tronco introdotto per sostegno ragionevole (come sempre opportunamente fa l’autore delle descritte sculture) e per appoggio del marmo determina forse, ed accenna la prospettiva della scena campestre, cui la danzatrice Baccante trasfonde nel suo movimento quasi anima e vita, come la Licori collocata nel fondo del rustico paesetto, che ancor verdeggia ne’ versi dell’immortal Mantovano.”



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L’interessante notazione sul fondo di paesaggio nel quale l’immaginazione portava ad ambientare la giovinetta danzante illustra un motivo caratteristico della percezione dei contemporanei della scultura, soprattutto di tema arcadico-pastorale, come dimostrano anche significative testimonianze sulle opere di Thorvaldsen (Jørnæs 1997, p. 66). Quest’opera a destinazione decorativa, anche per le sue dimensioni contenute, fu tra quelle di maggior successo eseguite da Bienaimé. Le Grice cita nel 1841 il principe Doldemburgh come acquirente dell’opera prima. Diverse repliche si trovano in Russia: quella di Erevan, Galleria Nazionale, commissionata nel 1845 dallo zar Nicola I e all’Ermitage di San Pietroburgo, una di dimensioni maggiori, datata 1840, proveniente dalla collezione dei principi Ol’denburgskij, e una di proporzioni simili a quella qui esposta, probabilmente eseguita per il principe Boris Jussupov (Kosarëva in Carrara, Massa 1996, p. 168, n. 23).


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Una scultura di Carlo Finelli


47 Le Tre Grazie marmo di Carrara cm. 158 x 119 x 67

Di Carlo Finelli i biografi ottocenteschi ricordavano la tensione continua verso alti traguardi nell’arte plastica spesso tradotta nell’insofferenza e nel rigetto verso i risultati già acquisiti. Doveva trattarsi, fin dall’opera che ne aveva precocemente stabilita la fama, ovvero il fregio con Il Trionfo di Giulio Cesare che nel 1812 lo scultore era stato chiamato a modellare per gli appartamenti napoleonici del Quirinale, anche della ricerca di una via formale propria e indipendente rispetto a quelle dettate dalle opere già ritenute classiche dei due protagonisti della scultura del tempo, Antonio Canova e Bertel Thorvaldsen. Pur contemplando rimandi formali e iconografici ai due illustri contemporanei e più eccentrici riferimenti alla scultura cinquecentesca, in particolare al Giambologna (Musetti 2001, p.154; Musetti 2002), questa ricerca doveva assestarsi, secondo il biografo Giuseppe Checchetelli, in un’eclettica sintesi, in grado di contemperare l’ideale classico della forma e “la purezza di pensiero e di sentimento” che i puristi rinvenivano nei primitivi del Tre e del Quattrocento (Checchetelli 1854, p.13). La sua incontentabilità nella verifica del divario tra aspirazioni e realizzazioni aveva però caratterizzato episodi come la distruzione nel 1844 del Marte, già donato all’Accademia di Belle Arti di Firenze e riavuto nel 1836 col pretesto di ritoccarlo, assieme a bozzetti e altri marmi come due Veneri e un Paride, o la circostanza della disposizione testamentaria che impose dopo la sua morte la distruzione di tutti i modelli in gesso conservati nello studio, a eccezione delle Ore danzanti e del San Michele Arcangelo che sconfigge Lucifero, destinati all’Accademia di Belle Arti di Carrara, evidentemente gli unici considerati veramente rappresentativi dei due generi mitologico e “cristiano”. Se questi fatti confermarono presso i contemporanei l’incostanza e la bizzarria della personalità di Finelli, contemporaneamente ne alimentarono il mito di artista di genio e indipendente - anche dalla committenza nella scelta dei soggetti, come sottolineava Campori (Campori 1873, p.100) degno del paragone con Michelangelo, l’artista “sublime” per eccellenza. L’accostamento venne evocato soprattutto a proposito del gruppo delle Tre Grazie, qui pubblicato per la prima volta, emblematico dell’intera sua vicenda artistica. Dopo aver terminato nel 1824 il marmo delle Ore danzanti per il grande mecenate russo Nikolaj Demidov (San Pietroburgo, Ermitage, cfr. Androsov, Musetti, in Roma 2003, p.394), lo scultore era tornato con le Grazie sul motivo di tre figure femminili di età giovanile, cimentandosi direttamente con il soggetto che nei gruppi di Canova e Thorvaldsen aveva trovato la formulazione esemplare di due opposte concezioni del “genere grazioso”. Dopo una prima versione, distrutta dall’autore, un secondo modello delle Grazie fu eliminato nel 1833. Finelli dunque decise di scolpire l’opera direttamente nel marmo, “alla prima” cioè, senza l’ausilio di un modello in gesso di riferimento, secondo una prassi eccezionale per i tempi e che per l’ardire, non ammettendo errori o pentimenti, immediatamente evocava la tecnica michelangiolesca. Finelli tuttavia non terminò mai l’opera, che tenne sempre celata ai visitatori dello studio e conobbe solo una fortuna postuma. Attraverso Anna



Massani, figlia di Filippo, nominato erede fiduciario dello scultore (Checchetelli 1854, p. 31), e seconda moglie di Giambattista Camuccini, figlio di Vincenzo, passò in seguito nella collezione di Cantalupo assieme alla Ebe (Mazzocca, in Milano 2001, pp. 16-20) e a una replica dell’Amore che tormenta l’anima simboleggiata da una farfalla (Musetti 2001, p. 155 e n. 16), suggellando in quella collocazione gli stretti rapporti di amicizia che avevano legato Finelli e Vincenzo Camuccini. Il non finito delle Tre Grazie costituisce un caso unico nella scultura del tempo. Oltre alle estremità, mani e piedi, in parte solo sbozzati, l’intera superficie delle tre figure attendeva un ulteriore processo di rifinitura. Probabilmente sia la vicenda dell’esecuzione, che l’assenza di un modello di riferimento, consigliarono a eredi e allievi dello studio di non ultimare l’opera come invece avveniva comunemente in questi casi. Univoche testimonianze consentono di verificare come proprio la qualità di non finito potesse accrescerne la suggesione presso i contemporanei. Secondo Checchetelli l’opera per “finitezza di stile” era “la più perfetta” di Finelli: “E, a vero dire, questo gruppo è tal cosa che incanta, né saprei giudicare se quelle estremità non finite tolgano più che non aggiungano a quel velo di magia che tutto involge questo lavoro. Vedi le tre donzelle intrecciar leggiadre le braccia senza darsi studio della persona, perché la grazia non ha vezzi fittizi; contempli que’ volti ingenui, quella trasparente serenità di pensiero, ed a buon diritto esclami, senza d’esse niuna cosa, neppur la bellezza aver pregio nel mondo!” (Checchetelli, p. 28). Svelte forme giovanili, osservate sul vero dei modelli viventi, erano state riunite in composizione guardando alle pose di celebri statue classiche, richiamate soprattutto dalle figure laterali. Quella di destra rispetto all’osservatore riprende in controparte la posa dell’Apollo con la cetra (Roma, Musei Capitolini), con il motivo delle gambe incrociate e la disposizione simile di braccia e tronco proteso a lato. Dalla parte opposta è esemplata la posa del prototipo prassitelico del Fauno in riposo (Ivi) compreso il braccio appoggiato sul fianco. La leggiadria delle movenze e la delicatezza delle estremità superiori evocano Canova. Una sorta di “dignità” generale si discosta però da quel modello come dalla severità thorvaldseniana, costituendo piuttosto l’ideale caratteristico di Finelli, che sapeva interpretare nobiltà e stile “grande” anche nelle opere “di piacevole soggetto”, attingendo ovunque al “carattere monumentale” come osservava Leoni (Leoni 1853, p. 230). Nelle Ore danzanti, “così lievi che giunte appena s’involano”, la gentilezza delle movenze rifuggiva ogni leziosità grazie anche all’allegoria “filosofica” che aveva nutrito di intensità psicologica i volti delle personificazioni dei momenti del giorno, “quella lietissima guardando in quella di mezzo men vivace ed ardita, la quale tende la mano alla terza il cui volto s’adombra di quieta tristezza”, simboleggiando la prima l’allegro mattino e l’ultima, rivolta altrove, “la melanconia della sera” (Checchetelli 1854, p. 17). Anche in questo secondo gruppo marmoreo la riflessiva nobiltà delle figure esprimeva attraverso gli attributi il contenuto sapienziale delle grazie civilizzatrici dell’uomo attraverso la poesia (la cetra) e apportatrici di fecondi benefici alla natura: “E nell’osservarle una coronata di fiori l’altra di spiche la terza di pampini ti persuadi che le grazie sono esse della natura, le quali allietano del lor riso l’uomo e la terra; che guidano sovressa bella di fiori la primavera, di messe la state, di uve l’autunno.” (Checchetelli 1854, p. 29). Stefano Grandesso



BIANCA


Vincenzo Camuccini (Roma, 22 febbraio 1771 - 2 settembre 1844)

Carlo Falconieri lo descrive “alto e robusto della persona, di forme regolari, spaziosa la fronte, con capelli folti color castagno e folte le sopraciglia, grandi espressivi gli occhi, e la bocca atteggiata ad un contegnoso sorriso. Bruno di carnagione, portava lunghe favorite e rasa la barba (pregiato vezzo del primo impero). Vestiva sem pre proprio; giovane amava di cavalcare una sua prediletta giumenta, recandosi al passeggio seguito da due cani; avea del gentleman inglese. Le belle oltramontane, lo abbiam detto non gli si mostravan ritrose – avea gioconde maniere e carezzevoli; infine era franco e soave parlatore…”. Rimasto orfano di padre in giovane età, spronato dal fratello maggiore Pietro, inizia il suo tirocinio pittorico presso lo studio di Domenico Corvi, il suo maestro in auge a Roma, che propone una pittura classicheggiante. Il fratello Pietro, giovane antiquario, lo introduce nella raffinata cerchia di intellettuali – collezionisti, artisti e letterati, tra cui Canova, Monti, Goethe – che a Roma frequenta il salotto di Angelica Kauffmann. Camuccini si cimenta nelle copie dai maestri del Cinquecento e del Seicento; a tal proposito è significativa quella della Deposizione di Raffaello eseguita nel 1789 per Lord Bristol. A quest’attività egli si dedica anche più tardi, negli anni della dominazione francese, allo scopo di sostituire gli originali esportati da Napoleone in Francia. Il giovane artista si lega d’amicizia con l’archeologo Ennio Quirino Visconti che lo stimola ad approfondire con rigore la conoscenza della scultura antica sugli esemplari dei Musei Vaticani e Capitolini. Con gli artisti suoi coetanei Pietro Benvenuti, Luigi Sabatelli e Giuseppe Bossi, e ad altri stranieri residenti a Roma, è tra i frequentatori dell’Accademia dei Pensieri, fondata da Felice Giani, dove i giovani artisti si riuniscono e si esercitano nella composizione di un tema stabilito, poi discusso collegialmente. Camuccini intende divenire l’interprete del quadro di storia, un quadro che illustra le virtù civili attraverso la narrazione di episodi storici, non solo tratti dalle fonti antiche, ma anche dalle più recenti interpretazioni moraleggianti dell’Histoire Romaine di C. Rollin (1738-48). Nel 1873 Lord Bristol, vescovo di Derby, commissiona al pittore La morte di Giulio Cesare ( 1793-1807) dopo poco La morte di Virginia (1793-1804), grandi tele di cui egli esegue anche delle repliche in formato minore, che segnano il definitivo affermarsi dell’artista sulla scena artistica romana. Nel 1790 sotto la direzione di Asprucci decora il soffitto della Villa Borghese con Archelao con Paride fanciullo. Si allontana da Roma durante la rivoluzione del 1798 visitando Firenze; nel 1802, al suo ritorno nella capitale, diviene accademico di San Luca, e ne diviene Principe dal 1806 al 1810, cosa eccezionale data la giovane età. Nel 1803 viene nominato da Pio VII direttore dello Studio dei Mosaici di San Pietro: durante questa attività, tra l’altro fornisce il cartone per l’incredulità di san Tommaso (1806). Nel 1806 esegue la Presentazione al Tempio per la Chiesa di San Giovanni a Piacenza, in concorrenza con il Landi autore per la stessa chiesa del Cristo al Calvario. Durante quegli anni il Conte Baglioni gli commissiona Ludovico Baglioni che riceve il Vicariato di Perugia da Federico Barbarossa (1806-10) e l’Ingresso di Malatesta Baglioni in Perugia (1807-12). Nel 1810 compie un viaggio a Monaco e Parigi dove frequenta lo studio di David.


È incaricato insieme al Landi della decorazione del salone centrale dell’Imperatore per il Palazzo di Montecavallo al Quirinale in occasione della prevista visita di Napoleone a Roma, per cui esegue Carlo Magno che ordina ai dotti italiani di fondare l’università di Parigi e di Tolomeo Filadelfo nella Biblioteca di Alessandria (1812-13). Sono altre importanti commissioni di quegli anni: La continenza di Scipione per il generale Balk (1808-15c), Cornelia madre dei Gracchi per Maria Luisa di Borbone (1808-11), Orazio Coclite per Manuel Godoy (1810-15) Pompeo chiamato alla difesa della patria per il Principe Gabrielli (1910-12), quadri poi replicati per altri committenti. Sono da ricordare un vastissimo numero di disegni. Contemporaneamente compie anche opere a soggetto mitologico di cui si ricorda Il convito degli dei alle nozze di Amore e Psiche (1810-17) per la volta di una sala del Palazzo Torlonia ora demolito. Nel 1814 viene nominato da Pio VII ispettore alla Conservazione delle Pubbliche pitture in Roma, carica che conserva fino al 1824. Morto Pio VII il suo successore Leone XII gli affida importanti opere di soggetto religioso, tra cui le illustrazioni dei fatti del Vangelo iniziata nel 1825 e pubblicata tra il 1830-32. Parallelamente continuano le commissioni di quadri storici databili nelle loro prime redazioni tra il 1824-25: Lucrezia trovata al lavoro da Collatino, Curio Dentato che rifiuta i doni dei Sanniti, Romolo e Remo, Attilio Regolo. In questo periodo è in contatto con i Borboni del Regno di Napoli: nel 1826 Francesco I lo incarica della sistemazione della Galleria di Napoli, e nel 1827 lo nomina direttore dei Pensionati di Belle arti a Roma. Sempre su incarico reale esegue la tela S. Francesco che risuscita un giovi netto per l’omonima chiesa di Napoli. L’ultima produzione di Camuccini è di carattere religioso: Giuditta e Oloferne per la Chiesa di Alzano presso Bergamo (1828) La discesa di Cristo nel Limbo (1831); per la riedificata Basilica di San Paolo La conversione di San Paolo (portata a termine nel 1835) e San Paolo rapito al terzo cielo (1839), un’opera che suscita giudizi negativi (nello stesso modo della Deposizione dalla Croce, commissionata nel 1835 per il Duomo di Terracina) e all’Assunta, di cui declinò l’incarico poi affidato a Agricola. Segno del trascorrere del tempo e della nuova sensibilità verso la cultura romantica, in modo negativo vengono accolti anche gli ultimi quadri di soggetto storico L’ingresso di Francesco Sforza a Milano (1835) e di soggetto romano: Furio Camillo che scaccia i galli dal Campidoglio, commissionatogli da Carlo Alberto per il palazzo Reale di Genova (1839-40). Da sottolineare la sua attività di ritrattista tra cui si segnala Il Ritratto di Thorvaldsen (1808), Il ritratto di Maria Luisa di Borbone duchessa di Lucca (1811) di Pio VII (1815) della Principessa di Partanna e di Ferdinando I di Napoli ( 1819-20) di Pio VIII (1829) dello Scultore de Fabris (1830) e del Cardinale Zurla (1831).

(da C. F ALCONIERI, Vita di Vincenzo Camuccini, Roma 1875; A B OVERO Vincenzo Camuccini, voce in Dizionario Biografico degli italiani, Vol XVII, Società Grafica Romana, Roma 1974, pagg. 627-630; Biografia, a cura di G. PIANTONI, in Vincenzo Camuccini ( 1771-1844) Bozzetti e disegni dallo studio dell’artista, Roma 1978).


Luigi Bienaimé (Carrara 1795 - Roma 1878)

Nato a Carrara il 2 marzo da Francesco Giusepppe e da Maria Caterina Tosi, frequenta l’Accademia di Belle Arti di Carrara, che nella seduta del 2 marzo 1818 gli concede il pensionato a Roma. Nella capitale entra nello studio di Bertel Thorvaldsen inizialmente come alievo, poi dal 1827 in qualità di principale collaboratore, tanto che vi tiene anche la contabilità. I rendiconti da lui redatti oltre a essere una preziosa testimonianza dell’epoca, costituiscono oggi la documentazione delle diverse copie eseguite dal suo Maestro, e di quelle in cui egli ha posto mano per terminarle. La pudicizia e la levigatezza sono caratteristiche della sua scultura, solo raramente abbandonate per uno stile più naturalistico; in genere egli svolge una scultura impermiata su soggetti di ascendenza thorvaldseniana, sacri o mitologici, di ispirazione “gentile” e “graziosa”, come le statue acquistate nel 1839 dal principe Alessandro di Russia per il Palazzo d’Inverno di Pietroburgo tra cui Telemaco (il cui gesso si trova all’Accademia di San Luca, e un marmo all’Accademia di Belle Arti di Carrara), Andromeda, Andromaca, Diana, Zefiro e l’Innocenza di cui esistono diversi esemplari. Per il duca Alessandro Torlonia esegue la Venere che oggi, insieme a un Mercurio, è nel Palazzo Corsini a Roma, mentre un’altra Venere per il Principe di Carignano è nel Museo Civico di Torino. Nella Protomoteca capitolina si trova un’Erma raffigurante Napoleone, la copia del busto dell’imperatore eseguito da Thorvaldsen nel 1829; un’attività, quella della copia delle opere dello scultore danese, a cui non è nuovo: già nel 1822 aveva eseguito sei copie del busto dello Zar Alessandro I di Thorvaldsen. All’Accademia di Carrara si conservano alcuni gessi: David (1819), due bassorilievi con Giasone alla con quista del vello d’oro e Mitridate che uccide Datame, un Autoritratto e un Gruppo con un Angelo custode. Un San Giovanni Battista è invece, conservato nel Metropolitan Museum di New York, il cui gesso è a Carrara nell’Accademia di Belle Arti. Nel 1844 alla morte di Thorvaldsen viene accolto nell’accademia di San Luca, tra gli accademici di merito residenti nella classe di scultura. Muore a Roma nel 1878.

(da B. A SOR ROSA SALETTI, Luigi Bienaimé, voce in Dizionario Biografico degli italiani, Vol X, Roma 1968, pp. 368-369).


Carlo Finelli (Carrara 1785 - Roma 1853)

Figlio di Vitale e Maria Antonietta Silici, nasce a Carrara il 25 aprile 1785. Viene avviato alla scultura dal padre discendente da una famiglia di scalpellini e scultori attivi dal secolo XVII. A 15 anni dopo aver vinto il premio per i giovani artisti si trasferisce a Firenze e poi a Milano. Nel 1805 vince il pensionato per Roma indetto dall’Accademia di Brera a Milano. Dal 1807 si stabilisce a Roma dal fratello Pietro che lo introduce nell’ambiente canoviano. Nel 1810 vince il Premio Balestra dell’Accademia di San Luca per la scultura con Venere che abbraccia Adone rianimato da Proserpina, opera che ottiene grande successo di pubblico e di critica. Forse anche per questo viene scelto dall’architetto Stern per la decorazione di uno dei saloni del Quirinale per celebrare storicamente l’imperatore Napoleone in occasione del previsto, ma non avvenuto, suo arrivo a Roma. Il fregio a bassorilievo raffigura il Trionfo di Traiano, ed è pendant con il Trionfo di Alessandro Magno di Thorvaldsen. Nel 1814 diventa Accademico di San Luca, e tra il 1914-15 su suggerimento di Canova realizza i busti di Ghiberti, Masaccio, Ariosto e Petrarca, i personaggi illustri del Pantheon. Per soddisfare le esigenze di un ricco collezionismo internazionale, soprattutto inglese e russo, inizia in questo periodo una produzione di opere di soggetto mitologico: risalgono al 1818 – 24 tre sculture di grande successo Venere nascente da una conchiglia, Psiche e Le ore danzanti, quest’ultima opera, eseguita per il conte russo Demidov, ispirata alle Tre grazie di Canova, ma con maggiore dinamismo. Tra il 1825 – 30 per il duca del Devonshire esegue le sculture Venere che raccoglie le vesti, Amore con far falla e Pastorella con i fiori. A partire dagli anni Trenta si allontana dai moduli canoviani, abbandona i soggetti mitologici legati al neoclassicismo e affronta i temi religiosi. Nel 1830 porta a termine i modelli di alcuni bassorilievi con le Storie della Vergine, poi eseguiti da altri scultori. È del 1836 il gruppo colossale con San Michele Arcangelo che scaccia Lucifero, che suscita l’ammirazione dei suoi contemporanei, una statua oggi collocata sulla scalinata che conduce alle tombe dei Savoia a Superga; nello stesso anno porta a termine il San Matteo, anch’esso di grandi proporzioni, che oggi si trova nella chiesa di San Francesco di Paola a Napoli. Nel 1842 esegue il San Maurizio per la chiesa omonima di Porto Maurizio (Imperia) e, tra il 1847-48, la statua di Raffaello per il Duomo di Urbino. Insoddisfatto del suo operato nonostante i numerosi riconoscimenti ufficiali, e il successo di pubblico, nell’ultimo periodo della sua vita distrugge tutte le forme in gesso ancora conservate nel suo studio romano, dove muore il 6 settembre del 1853.

(da S. F REZZOTTI, Carlo Finelli, voce in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma 1997, Vol. 48, pp. 30-32).


Bibliografia citata nelle schede

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Finito di stampare nel mese di Maggio 2003



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