Orizzonte in fuga

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Giorgio Antei

l’orizzonte in fuga Viaggi e vicende di Agostino Codazzi da Lugo

Leo S. Olschki



Giorgio Antei

l’orizzonte in fuga Viaggi e vicende di Agostino Codazzi da Lugo


Tutti i diritti riservati

Š Giorgio Antei, Cassa di Risparmio e Banca del Monte di Lugo

Questo volume è stato pubblicato con il contributo di:

ISBN 978 88 222 6219 6.


prefazione

Ritengo che Agostino Codazzi sia il personaggio più illustre a cui Lugo abbia mai dato i natali. Nell’arco di trentanni – fra il 1829 e il 1859 – portò a compimento un’opera straordinaria e antesignana: disegnò la cartografia sistematica di due vastissimi paesi (Venezuela e Colombia), elaborandone altresì la descrizione corografica. Progettò soluzioni razionali e moderne per lo sviluppo sociale e produttivo di entrambi, tracciò strade, canali, rotte fluviali, sbocchi marittimi; esortò i governi a ridistribuire utilmente le terre incolte; avviò esperimenti di colonizzazione basati sull’emigrazione straniera e interna; difese a spada tratta – letteralmente – gli assetti costituzionali delle due repubbliche contro ogni reazione autoritaria; formò una generazione di naturalisti, topografi e ingegneri e, soprattutto, rifondò le scienze geografiche, reinterpretandole in funzione del progresso civile, cioè, della felicità della gente. Questo libro nasce da una frequentazione più che ventennale. Scoprii Codazzi negli anni Settanta ma presi ad interessarmene seriamente solo nel 1992, su suggerimento dell’allora direttore della Biblioteca Nacional de Colombia. Ne risultò un primo libro, un secondo e inoltre saggi, mostre, cataloghi, ecc., sia in Sudamerica che in Italia. A Roma, nel 2005, si pensò di votare al lughese un seminario internazionale, ma il progetto non prosperò per una ragione curiosa: ad una rinomata docente della Sapienza, specialista in storia della geografia, parve che il volto di Codazzi non preannunciasse nulla di buono. Non vorrei preoccupare il lettore, ma agli occhi della collega la fronte aggrottata e lo sguardo melanconico del cartografo esprimevano un che di malefico, per non dire una iettatura. Gli influssi perniciosi emanati da certi grandi esploratori erano scansabili unicamente tenendosene alla larga, mi avvertì. Fra costoro figurava in primis lo scopritore genovese, il cui nome – mi confidò abbassando la voce

– poteva pronunciarsi solo facendo gli scongiuri (meglio dedicarsi a Vespucci, concluse ammiccante la professoressa). Prudentemente, il convegno non si tenne, nondimeno continuai ad occuparmi di Codazzi. All’inizio pensai che la mia curiosità nei suoi confronti scaturisse dall’interesse oggettivo verso un grande viaggiatore; poi mi resi conto che a motivarla era anche, se non principalmente, l’affinità che in qualche modo misterioso mi univa a lui: un’attrazione ‘simpatetica’, insomma, come se avessi riconosciuto nell’uomo Codazzi un paradigma personale, uno stampo. Al positivo e al negativo. Per questo, vinte le inibizioni, mi sono avvicinato a lui senza ritegno, frugando nella sua vita, cercando indizi, cacciando imposture, insomma, sforzandomi di capire. Questo libro, infatti, è il risultato di un tentativo anche intimo di comprensione. Ma, ahimè, ho l’impressione di non aver afferrato granchè, e il titolo del libro è, in un certo senso, una merafora della mia frustrazione (in realtà ho scelto “L’orizzonte in fuga” in omaggio alla concezione dello spazio di Codazzi). Mi spiegherò meglio con l’aiuto di un aneddoto riportato da Gian Biagio Conte in “Virgilio” (2007), a lui pervenuto attraverso Arnaldo Momigliano: «Un rabbino va a trovare un altro rabbino e lo trova immerso nella lettura della Torah. – Che stai facendo? – Cerco di interpretare un passo che studio da anni e che non riesco a spiegarmi fino in fondo. – Fammi vedere, provo a spiegartelo io. – Non serve. Anch’io sono capace di spiegarlo agli altri: è di spiegarlo a me stesso che non mi riesce». Nell’impulso a viaggiare si riverbera una concezione della vita intesa come fuga dall’infelicità. Prendiamo ad esempio Gemelli Careri, il grande viaggiatore napoletano del Seicento. Prima d’intraprendere il giro del mondo, era stato giurista frustrato e militare man-


cato: «Poichè avendo sì ne’ legali cimenti, come ne’ militari sperimentata troppo maligna la mia stella, pensai mutando cielo, mitigare in parte il rio influsso. E quantunque la lunga peregrinazione di vari, e disastrosi accidenti fornita, non mi abbia reso immune da’ perigli: tuttavolta meno rigida viaggiando essi meco portata la fortuna». Gli astri, dunque, asseconderebbero i naviganti, sgombrandone o quanto meno agevolandone la rotta. Anche Codazzi, a modo suo, lo credeva: la sorte premia gli audaci e chi più audace d’un viaggiatore? Invece, a differenza di Gemelli Careri, egli non faceva conto sulla Provvidenza, o meglio, non reputava che il senso del viaggiare fosse raccogliere testimonianze sulle opere del Creatore. Laicamente, era convinto che lo spirito divino si esaurisse nella Natura, in qualcosa di misurabile e soggiogabile. I saggi qui raccolti (tutti inediti tranne “Un posto al sole”) trattano aspetti legati alla figura – anche in senso iconografico –, alle vicende e ai tempi del lughese piuttosto che alla sua opera scientifica. Taluni argomenti portanti – i rapporti con la Patria, la Storia, lo Spazio, la Felicità, la Verità, ecc. – collegano fra di loro i vari saggi o capitoli, riaffiorando, magari ripetitivamente, in più punti. Mettendo a fuoco e concatenando certi momenti-chiave, mi sono riproposto di delineare l’evoluzione del personaggio da ‘figurante’ a ‘protagonista’, un tragitto – inutile preannunciarlo – fatto di progetti, ripensamenti, conquiste e rinunce. I dubbi che mi hanno accompagnato durante la stesura, in gran parte a tutt’oggi irrisolti, si riflettono nei frequenti interrogativi. I lettori così pazienti da non saltare a pie’ pari alla “Postfazione” avranno modo di condividerli con me. La domanda fondamentale riguarda il modo in cui Agostino Codazzi, da artigliere dell’esercito italico e legionario dell’América Libre, divenne uno dei geografi più importanti del suo tempo. Le circostanze e i passaggi sono più o meno noti: ciò che sfugge è la ‘molla occulta’, lo scatto mentale necessario ad una simile ascesa. Gli studi realizzati a Pavia durante l’addestramento militare – peraltro non verificabili, anzi dubitabili – non bastano a renderne ragione. La risposta è racchiusa nelle “Memorie” e nel carteggio personale, dissimulata così bene da apparire irriconoscibile. In una lettera a Costante Ferrari in data 15 febbraio 1835, Codazzi espresse all’amico il proprio rammarico per non poterlo raggiungere subito a Valencia (in Venezuela); sarebbe arrivato solo in autunno, disse, «essendo incaricato dal Governo di fare la Carta Corografica di Venezuela in cui travaglio tengo già sei anni». Le sue parole contengono l’annuncio dell’anzidetto ‘salto di qualità’, eppure manca in esse la vanità dell’uomo di successo, mentre ne traspare la modestia del lavoratore con i piedi per terra: è proprio questo caratteristico, depistante riserbo ad ostacolare la comprensione della sua figura. Il capitolo iniziale verte sulla circospezione del lughese nei confronti dei propri trascorsi militari napoleonici (o italici che dir si voglia), una reticenza densa di significato che, in un modo o nell’altro, permette di captare la sua posizione nei confronti di Lugo, dell’Ita-

lia e del Vecchio Mondo. Codazzi fu eroe – per l’esattezza eroe eponimo – in senso culturale, non militare, e poco importa che raggiungesse il grado di generale: gli eroi culturali portano doni, non seminano morte. Il secondo capitolo, intitolato foscolianamente “Bell’Italo regno”, parla del crollo del Regno Italico e delle reazioni che esso suscitò nei giovani volontari dell’esercito italiano. Sebbene ricca di importanti studi, la storiografia di quel periodo non ha ancora esaminato accuratamente la prospettiva dei soldati anonimi, le loro aspirazioni, i loro dubbi: le aspirazioni e i dubbi, per esempio, di Codazzi e Ferrari. Il terzo capitolo, “Fumo di Patria”, riguarda i mesi che il lughese trascorse nell’Italian Levy di Lord Bentinck. Com’è noto, fra il 1814 e il 1815 le grandi potenze decisero di sacrificare le spinte unitarie italiane alla ‘sicurezza europea’. Murat e Bentinck, l’un contro l’altro armati, si prefissero una soluzione diversa, apparentemente più generosa nei confronti della penisola. E anch’essi furono sacrificati. “Sapore di repubblica”, il quarto capitolo, parla di smobilitazione, espatrio, esilio, emigrazione e, soprattutto, della ricerca, condotta sparsamente da un’intera generazione, di un futuro di libertà. Tale ricerca, legata alla massoneria e agli ideali romantici, era generalmente impura. Codazzi e Ferrari s’imbarcarono per l’America alla ventura, confidando di trovare oltreoceano un ingaggio militare. Erano repubblicani e nutrivano un sincero spirito libertario, ma in primo luogo cercavano fortuna. Nel capitolo successivo, “América Libre”, i due amici sbarcano a Baltimora e in breve vengono arruolati nelle schiere bolivariane, compiendosi così il loro sogno. Ma a Codazzi ciò non basta: vuole farsi partecipe di imprese degne di essere raccontate. Osserva incuriosito, affascinato, incapace, nondimeno, di afferrare i meccanismi politici e gli interessi economici in gioco sul suolo del Nuovo Continente. Solo in seguito scoprirà che la felicità – nei fatti –, non è un diritto universale, né tanto meno la libertà. Segue “Il ratto di Amelia”, capitolo dedicato all’espansionismo degli Stati Uniti ai danni delle excolonie spagnole, e delle conseguenze che, in virtù di questa politica, ricaddero sulla novella Repubblica delle Due Floride. Nell’isola Amelia, Codazzi e Ferrari assistettero all’azione di una legge che non si sarebbero aspettati di ritrovare in America: quella del più forte. Subito dopo presero a incrociare nei Caraibi sotto bandiera corsara. Il capitolo successivo s’intitola “Stretta è la soglia”. Riguarda la prima impresa geografica portata a termine dal lughese, ovvero, la navigazione del fiume Atrato e l’attraversamento della regione del Chocó. Il suo concetto di spazio cambiò cammin facendo, approfondendosi e ampliandosi. Ciò che in merito a detta impresa raccontò nelle “Memorie” non è del tutto vero, tuttavia questo rende sia il testo che l’autore ancor più interessanti. Si passa poi a “Lunga è la via”, capitolo dedicato alle vicende del canale di Panamá, da Balboa a Drake,


da Henry Morgan a Dampier, da Humboldt a Codazzi. Contro l’opinione di tutti, il lughese fu il primo a convincersi che il tracciato del canale avrebbe dovuto seguire la ferrovia Panamá-Aspinwal. Arrivò a questa conclusione nel 1854, dopo un’attenta esplorazione della regione dell’istmo; nondimeno, affinché le sue osservazioni fossero accettate, ci vollero oltre dieci anni. Il capitolo seguente, intitolato “Un posto al sole”, prende in esame la visione europea dell’America tropicale nella prima metà dell’Ottocento in rapporto alle possibilità di emigrazione verso la medesima (in particolare verso la Nuova Granada). Il contributo dello scienziato lughese alla creazione di colonie agricole in Venezuela e in Colombia fu particolarmente rilevante, soprattutto in senso critico. Dal punto di vista di Codazzi, la conoscenza geografica aveva un significato sociale, equivaleva ad uno strumento razionale ai fini del progresso delle ‘sue’ repubbliche. “Ritratto parlato”, un capitolo ‘cum figuris’, vorrebbe ‘far dire cose’ agli svariati ritratti di Codazzi. In

effetti, essi raccontano una storia della quale, comprensibilmente, non posso anticipare nulla a parole. Segue un “Profilo biografico”(che il lettore indaffarato può scorrere saltando tutto il resto) e da ultimo una brevissima “Postfazione”, rassomigliante, in un certo senso, al coniglio del mago: un coniglio che, uscito dalla tuba, se ne fugge imprendibile. Le illustrazioni del libro, numerosissime, costituiscono un percorso unito ed allo stesso tempo separato da quello testuale. Esse infatti possono essere lette come un secondo libro, sicuramente molto più attraente del primo. Il titolo di ambedue – “L’orizzonte in fuga” – si deve chiaramente a Eugenio Montale. L’immagine di copertina è tratta da un bel dipinto di Tomás Sánchez (“Orilla”, 2010). (Un’avvertenza: salvo diversa indicazione, le traduzioni presenti nel testo sono mie, così come sono miei i corsivi non virgolettati). G.A.

ringraziamenti

“L’orizzonte in fuga” vede la luce grazie al sostegno, non solo economico, della Fondazione Cassa di Risparmio e Banca del Monte di Lugo. Il progetto venne caldeggiato inizialmente dall’anteriore presidente della stessa, Athos Billi, poi fatto proprio da Maurizio Roi, il presidente attuale. Sono profondamente grato ad entrambi. Le persone e le istituzioni che hanno contribuito al libro sono numerose. Desidero almeno menzionare Sante Medri, già direttore della Biblioteca Comunale “F. Trisi” di Lugo, e Ivana Pagani, cortese e informata bibliotecaria della medesima; il personale dell’archivio storico-documentario della Biblioteca Comunale di Imola, alla cui preziosa collaborazione si devono alcune pagine di questo libro; Antonella Imolesi, responsabile dei Fondi Antichi, Manoscritti e Raccolte Piancastelli della Biblioteca Comunale “A. Saffi” di Forlì, che ha svolto per me talune verifiche; Liliana Betuzzi, direttrice dell’Istituto Mazziniano - Museo del Risorgimento di Genova; i bibliotecari della Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino, presso la quale si conserva uno dei fondi codazziani più ricchi e meno esplorati; il personale dell’Archivo General de la Nación, a Bogotá, del Museo Nacional e della Biblioteca “L.A. Arango”, sempre a Bogotá; Iván Darío Gomez, direttore del colombiano Instituto Geográfico Agustín Codazzi, invariabilmente disponibile e generoso; il personale della Biblioteca Nacional del Venezuela, a Caracas, ecc. Fra le istituzioni desidero ricordare l’Archivo General de Indias, AGI, a Siviglia, e l’Archivo General de Simancas, AGS; l’Università del Texas a Austin, la John Carter Brown Library, Brown University, a Providence e la New York Public Library, nei cui fondi ho rovistato a lungo; la Reunion des Musées Nationaux, RMN, il Museo del Louvre, ecc. Ringrazio Stella, naturalmente, ed inoltre non posso non menzionare Carlotta e Massimo, che sanno il perché, e Daniele Olschki, ai cui consigli devo molto.


1. Lelio da Novellara, Allegoria della Geografia, sec. XVI, disegno.


la molla occulta Anteprima

“Si vedono avvenimenti e non si sanno i motivi, e il mondo è come quelle macchine che si muovono per molle occulte...” giacomo leopardi

“Gli uomini fanno la storia ma non sanno di farla” karl marx

Quale fu la molla occulta che, all’inizio dell’Ottocento, spinse un giovane romagnolo a diventare un instancabile viaggiatore? Che cosa lo portò a preferire la geografia alla storia, la misura dello spazio alla memoria? Agostino Codazzi si allontanò dall’Italia ventiduenne, nel 1815, vi tornò brevemente sette anni dopo per poi andarsene definitivamente nel 1827. Trascorse gran parte della sua vita oltreoceano, dedito alla progettazione di una repubblica ideale. Come molti suoi coetanei prese parte alle guerre napoleoniche, condividendo il sogno di un’Italia unita e indipendente. Tuttavia, quando si trattò di fissare in uno scritto autobiografico gli avvenimenti compresi fra il 1810 e il 1815, li liquidò in poche righe, come se non avessero dato luogo a ricordi. La Campagna di Germania (1813) equivalse per lui, come per i suoi commilitoni, ad un evento drammatico ed esaltante, ma non tale da colmare le sue aspettative. A ben vedere, infatti, nell’artigliere dell’esercito del Regno Italico era già presente quella visione delle cose inquisitiva e lungimirante che in seguito guiderà i passi del grande esploratore. Agostino Codazzi nacque a Lugo il 12 luglio 1793 e morì sessantaduenne a Espiritu Santo, piccolo villaggio colombiano poi ribattezzato con il suo nome. Trascorse la maggior parte del tempo in America del Sud, fra Venezuela e Nuova Granada (Colombia), portando a compimento un’impresa senza precedenti. Impresa resa possibile da un raro insieme di attitudini e qualità, che pervenne a sviluppare grazie ad una inesausta curiosità. A questa diede sfogo con il candore e l’intraprendenza dell’autodidatta. Seguendo le proprie inclinazioni ancor più che gli insegnamenti ricevuti – peraltro non trascurabili – divenne viaggiatore, geografo, cartografo, ingegnere militare e civile, pedagogo, pioniere, imprenditore ed altro an-

cora. In gioventù, lo spirito d’avventura lo spinse nella sola direzione possibile: fu artigliere napoleonico, legionario dell’Italian Levy, corsaro di Bolívar, agente segreto, ecc. ecc. Pur ammirando Napoleone, condivise gli ideali giacobini e repubblicani. Appartenne alla massoneria e forse ebbe contatti con i carbonari romagnoli ma, a differenza dell’amico Costante Ferrari, non prese parte ai moti risorgimentali. Piuttosto che un rivoluzionario fu un paladino della libertà e della giustizia sociale, ovvero, un propugnatore della felicità dei popoli. Insomma, un personaggio variegato, alla cui complessità contribuiscono anche aspetti ad alto contenuto retorico, quali il romanticismo, il patriottismo e l’eroismo, caratteristici in particolare del periodo giovanile. Riguardo all’eroismo, sarebbe meglio parlare di impegno sociale... se non fosse che Codazzi, raggiunta la maturità, lo interpretò e lo mise in pratica eroicamente. L’eroismo è una metafora militare plasmabile in versi e racconti, in bronzo o in marmo bianco di Carrara. In seno alla letteratura epica, l’eroismo civile, a differenza di quello marziale, appare di sfuggita, sprovvisto di quella veemenza che solo le armi riescono a ingenerare. O meglio, le armi e “un bel morir”. Non di rado, infatti, paladini e martiri formano un binomio ove all’ardimento si sommano il senso del dovere e lo spirito di sacrificio (come nel caso del mitico Rolando). Tuttavia, l’impulso sacrificale degli eroi non rimanda tanto a spinte etiche o a forme estreme di abnegazione quanto piuttosto alla passione, alla fede e al fanatismo. Oltre che sul valore militare, sulla tenacia e sulla temerarietà, l’eroismo poggia spesso sul talento e la destrezza (le incomparabili cabrate fanno tutt’uno con l’epopea di Francesco Baracca). Tutto ciò vale solo in parte per Codazzi (quanto meno per il Codazzi maturo), la cui posizio-


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2. Veduta della Sierra Nevada, 1887, litografia.

ne nei confronti dell’Eroe (antitetica, per esempio, rispetto alle idee di Hegel e di Carlyle), potrebbe esemplificarsi mediante uno scambio di battute tratto dalla Vita di Galileo di Bertolt Brecht: andrea galileo

– Infelice quel paese privo di eroi! – No, infelice quel paese che ha bisogno di eroi!

Gli eroi eponimi costituiscono un gruppo a parte, caratterizzato non tanto da eccelsi meriti marziali quanto da straordinarie doti umane (politiche, intellettuali, scientifiche). Sono spesso frutto di finzione letteraria ma, comunque sia, racchiudono invariabilmente elementi di eccezionalità e memorabilità. La prerogativa di ‘soprannominare’ un periodo o un luogo ricompensa più di ogni altro riconoscimento la generosità di chi antepone l’interesse della collettività a quello personale. Agostino Codazzi appartiene alla cerchia degli eroi eponimi di fatto e di diritto. Il suo diritto ne premia l’opera scientifica e il contributo dato attraverso di essa allo sviluppo sociale del Venezuela e della Colombia.1 Nei decenni successivi all’emancipazione dalla Spagna, lo spirito di cittadinanza e il senso d’identità dei venezuelani e dei colombiani maturò anche grazie al lavoro del nostro eroe. Nella sua veste di esploratore e ingegnere, egli, oltre a misurare e descrivere le due ex-colonie nella loro realtà fisica ed economica, oltre a valutarne criticamente le po-

tenzialità, si dedicò altruisticamente a progettarne il domani. Pur senza staccare i piedi da terra, spinse lo sguardo oltre l’orizzonte geografico e storico, alla ricerca di un mondo migliore, non solo più fecondo ma più equo e tollerante. La sua bussola tendeva alla felicità dei popoli, in particolare di quei settori esclusi da sempre dai benefici del progresso. In lui, scienza e coscienza coincidevano: da qui, in sintesi, il suo diritto di ‘soprannominare’; da qui l’esistenza di una città che – di fatto – porta il suo nome. Essa si trova ai piedi della Sierra de Motilones e guarda a nord-est, verso quelle pendici – il versante meridionale della Sierra Nevada – che agli occhi dei viaggiatori ottocenteschi apparvero paradisiache, luogo propizio come nessun altro alla colonizzazione europea (Fig. 2). Anche il lughese lo credette, ma non poté verificarlo. In Codazzi l’impegno etico fa un tutt’uno con lo spirito di sacrificio, un binomio che qualificò stoicamente le sue azioni fino alla morte (stremato dalle febbri malariche già in vista della Sierra Nevada, tappa conclusiva dell’impresa corografica, antepose il dovere alla malattia proseguendo la marcia fino all’ultimo respiro). Ciò, per altro, non vuol dire che 1

Con il nome di “Agustín Codazzi”, più comunemente “Codazzi”, è stata ribattezzata nel 1958 la località colombiana ove il cartografo morì, chiamata fino ad allora Espiritu Santo. Oggi è una città di 60 mila abitanti, non lontana dalla frontiera venezuelana.


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nutrisse ambizioni prometeiche: un’innata disposizione autocritica glielo avrebbe impedito. La tenacia, analogamente alla misura, erano in lui elementi costitutivi; elementi che condivideva con quei viaggiatori che concepivano e professavano il viaggiare come condizione e destino. Ed è proprio questa affinità che induce ad inserirlo, oltre che fra gli eroi eponimi, anche fra gli “eroi erranti”.2 Codazzi ebbe un solo amico, Costante Ferrari da Reggio (1785-1851). Spirito pugnace, questi aveva dell’eroismo una nozione convenzionale, basata sullo sprezzo del pericolo e il beau geste. Sorto da un comune progetto di vita, il sodalizio durò fintantoché fra i due non affiorarono irriducibili diversità caratteriali. Riflessivo e controllato l’uno, focoso ed emotivo l’altro, nel 1826 misero fine loro malgrado ad un’amicizia decennale prendendo ciascuno per la propria strada.3 Ferrari si unì alle lotte risorgimentali, svolgendovi un ruolo non trascurabile. Non assurse ad eroe, ma fu coerente con le proprie tendenze battagliere e libertarie. Codazzi, ufficiale di carriera e combattente non meno valoroso del compagno, smise di attenersi alla logica delle armi nel momento in cui ebbe modo di saggiarne in prima persona la fallacia. Di ritorno in America al termine dell’esperimento utopico avviato assieme al Ferrari nella tenuta del Serraglio, rimase coinvolto in una tragica vicenda che costò la vita a quattro indigeni guajiros (ritenuti a torto o a ragione alleati e complici degli spagnoli). A causarla fu la brutalità dei metodi marziali: per ordine superiore il lughese si vide obbligato a giustiziarli. Se mai avesse creduto nella gloria militare, i suoi sogni eroici svanirono in quel frangente.

3. Anon., Ritratto di Costante Ferrari, ca. 1825, dipinto.

Nelle Memorie, redatte nel 1825, Codazzi compendiò i primi vent’anni di vita in quattro pagine scarse.4 Vent’anni durante i quali aveva preso parte alla sfortunata campagna del 1813, aveva visto Buonaparte in persona, aveva assistito alla dissoluzione dell’esercito del Regno Italico, era stato con la legione di Lord Bentinck alla presa di Genova, aveva presenziato la caduta dell’impero napoleo­nico e sperimentato i primi effetti della Restaurazione e, soprattutto, era stato testimone del sorgere e del tramontare dell’illusione di un’Italia unita e indipendente. Costante Ferrari, anch’egli autore di un’autobiografia apparsa postuma, dedicò a quel medesimo periodo non meno di quattrocento pagine.

La reticenza delle Memorie rispetto al quinquennio 1810-1815 potrebbe attribuirsi ad una misura autocen­soria, adottata per non allarmare la gendarmeria delle Legazioni, comprensibilmente guardinga nei confronti dei veterani del Regno Italico. Nel 1825, la diffidenza, entro i confini dello Stato Pontificio, era così acuta che un individuo come Codazzi non avrebbe non potuto provocare sospetti: ciò non solo per i suoi trascorsi napoleonici ma anche per il servizio prestato agli ordini del Libertador Simón Bolívar, un personaggio che non godeva della stima né della Chiesa romana né della Santa Aleanza. La prudenza, pertanto, consigliava il silenzio. Tuttavia, al di là della circospezione, il riserbo di Codazzi rimanda ad un movente più celato, ad una tensione di fondo fra orgoglio e senso autocritico. Scritte per offrire agli amici il «dettaglio circostanziato» di mirabolanti avventure personali, le Memorie non potevano dilungarsi su avvenimenti storici arcinoti.

2 Sulla nozione di “eroe errante” si veda Giorgio Antei, Los Héroes Errantes. Historia de Agustín Codazzi, 1793-1822, Bogotá, 1993. Sono personaggi dalle forti connotazioni romantiche che viaggiano alla ricerca di luoghi ove battersi per la causa della libertà dei popoli, dall’America del Sud alla Grecia. 3 Rientrato in Italia assieme a Codazzi a fine dicembre 1822, Ferrari dette ben presto segni di scontentezza. Il progetto bucolico concepito dal lughese mal si addiceva alla sua indole inquieta e battagliera. Nel 1824 si recò in Grecia per unirsi, ahimè troppo tardi, ai legionari di Lord Byron. Tornò deluso a Massa Lombarda, dove fece un matrimonio d’interesse. Dopo che Codazzi ripartì per l’America, prese parte ai moti rivoluzionari del 1831

come capo della guardia civica di Imola. Esule in Francia, raggiunse Codazzi in Venezuela, ma male accolto dal vecchio amico fece ritorno a Massa Lombarda: «Così io rimasi in famiglia meno inquieto e travagliato che in passato, attendendo ai miei domestici affari», si legge nelle Memorie Postume. Ma non fu così: nel 1848 partecipò alla prima Guerra d’Indipendenza a capo d’un battaglione di volontari, distinguendosi in diverse azioni. 4 Codazzi redasse una prima versione abbreviata delle Memorie, oggi scomparsa, letta in occasione delle nozze del Ferrari, nel 1825. Quest’ultimo lesse a sua volta un proprio manoscritto, poi riprodotto parzialmente nell’autobiografia, oggi conservato nell’Archivio Storico della Biblioteca Comunale di Imola.


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4. A. Appiani, Napoleone vittorioso, ca. 1796, acquerello

Oltre ad agitare la polizia papalina, che interesse avrebbe potuto suscitare nei lettori il resoconto delle cannonate sparate da un semplice artigliere? Ed inoltre, che importanza rivestivano quelle cannonate e quell’artigliere nella memoria del Codazzi narratore? Le prodezze compiute oltreoceano, vere o immaginarie che fossero, erano di gran lunga più attraenti sia nella prospettiva del pubblico che dell’autore. La stessa cosa poteva dirsi dello sfondo: diversamente degli scontati scenari europei, quelli esotici arricchivano il racconto con suggestioni allettanti ed allo stesso tempo inoffensive. I ricordi più recenti, ci pare di capire, finirono per scalzare gli anteriori non solo perché politicamente più corretti, ma anche per il loro connaturato potere d’incantamento. Più che sessantenne, Codazzi continuava a canticchiare fra sé e sé le arie marziali con cui i vieux moustaches riscaldavano i bivacchi alla vigilia della battaglia. Erano canzoni frammiste di ardore e di malinconia, attraverso le quali, a detta di Manuel Ancízar, il cartografo soleva estrinsecare commozione e gioia. Evidentemente, l’oblio non aveva cancellato l’impronta delle emozioni avvertite “en campagne”; ciò nonostante, è più probabile che quelle arie indicassero ritorni di briosità giovanile piuttosto che il rimpianto di un’epoca volutamente estromessa dalla memoria. Codazzi morì nel 1859, a quattro anni di distanza da Ferrari (più anziano di lui di otto anni). Come quest’ultimo, anch’egli, sembra, si arruolò diciasset-

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tenne nell’esercito italiano, distinguendosi dapprima (forse) come allievo della Scuola teorico-pratica di Artiglieria di Pavia, poi come combattente. Tuttavia, a differenza del reggino, nel raccontare la propria storia tralasciò l’epopea napoleonica, dedicandosi invece alla ricostruzione del periodo successivo... quasi che fra i due amici fosse esistito un accordo distributivo: a Ferrari gli anni dal 1808 al 1815, a Codazzi quelli dal 1815 al 1822; al primo le vicende europee, al secondo quelle americane. Ma accordo non vi fu. Vi fu invece uno sfasamento di vent’anni fra la data di redazione delle rispettive memorie e, ancora più importante, una diversa valutazione dei fatti e del senso della vita. Per non parlare della differente rielaborazione dei ricordi: mentre il lughese li ritoccò e li integrò ad arte, trasformandoli in un racconto di viaggi e avventure, il reggino si limitò a registrarli più o meno fedelmente, a mo’ di cronaca. Questo disuguale trattamento della memoria, risultante da una diversa concezione del reale, condusse al progressivo distanziamento dei due amici. Codazzi disponeva di una facoltà inventiva assente in Ferrari, ragione per cui, a differenza di quest’ultimo, era in grado di prefigurare e progettare. Ciò lo proiettava in avanti, indebolendo in certo qual modo il suo rapporto con il passato... e con il compagno d’avventure. Per Ferrari le guerre napoleoniche, in partico­ lare la campagna di Spagna, costituirono le fasi di un noviziato protrattosi per tredici anni e conclusosi con la nomina a capitano dei granatieri e l’incorporazione nella Guardia Reale; un lungo periodo durante il quale dette prova ripetutamente di tempra bellicosa e senso dell’onore, di lealtà incrollabile al Grand’ Uomo e di devozione alla patria italiana.5 A riprova dell’importanza di quegli anni, l’autobiografia del reggino si effonde in mille episodi, azioni e fatterelli che delineano icasticamen­te lo sviluppo personale e militare del protagonista, dal giorno dell’arruolamento nella divisione Girard al giorno dello scioglimento dell’esercito del Regno Italico. Anche per Codazzi la campagna di Germania corrispose ad un momento formativo (oltre a rappresentare il suo battesimo del fuoco), pur tuttavia non coincise con la nascita del protagonista delle Memorie. Il lughese passò dalla condizione di comparsa a quella di attore a partire dalla sera del 18 giugno 1815, quando si spense l’eco della battaglia di Waterloo. Da quel momento in poi, il corso della storia europea, dopo l’accelerazione de5 Tipica ‘testa calda’, il Ferrari, in Spagna, ebbe modo di mettere a frutto eroicamente il proprio temperamento rissoso. Il seguente commento, che il Lancetti riserva ad una categoria di soldati che fa capo a Domenico Bianchini, potrebbe adattarsi anche al reggino: «Chi conosce la storia di quella ostinatissima guerra [la campagna napoleonica di Spagna] sa come codesti giovani italiani, mal sofferenti di freno, portati sul campo dell’onore, compensarono con mille eroiche azioni i passati loro traviamenti.» Cfr. Vincenzo Lancetti, Biografia Cremonese ossia dizionario storico delle famiglie e persone spettanti alla città di Cremona, Milano, 1820, p. 326.


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5. P.M. Sanson, Emisfero Occidentale, 1702

gli anni anteriori, andò rallentando fin quasi ad arrestarsi... ma non così il ritmo di vita di Codazzi, che, per contro, acquisì maggiore intensità e originalità. Dopo Waterloo, il suo comportamento divenne allo stesso tempo più energico e più giudizioso (compatibilmente con l’età): si guardò attorno, s’interrogò, riflettè sul futuro e, senza frapporre indugi, si avviò risolutamente per un cammino opposto a quello percorso in precedenza. È inutile sottolineare che una svolta così radicale non si sarebbe potuta verificare senza il simultaneo allentamento dei legami con il passato: questo fu il pedaggio che il nostro eroe dovette pagare per farsi strada (un pedaggio che, come vedremo, gli verrà richiesto altre volte). Le ragioni del suo silenzio sono molteplici, ma volendo schematizzare si potrebbe dire che a causarlo fu l’urgenza di far posto a ricordi più freschi e attraenti di quelli preteriti: i ricordi di viaggio. Codazzi aveva un’indole itinerante, che si esprimeva compiutamente ‘cammin facendo’, avanzando e ripartendo. Guardare all’indietro equivaleva per lui ad una torsione innaturale... a meno che gli occhi non ripercorressero strade, spazi. Il suo desiderio di spaziare – anche esistenzialmente – era genuino e profondo, un anelo che lo allontanò ancora adolescente dal contesto d’origine, indirizzandolo alla ricerca simultanea di nuovi orizzonti geografici e di nuove possibilità di vita. Fu proprio questo impulso, personale ma in qualche modo comune ad un’intera generazione, a motivarne l’arruolamento nell’esercito italico. I richiami mitici (patriottici, ideologici) esercitarono un peso notevole, ma ciò che portò il lughese a staccarsi

da Lugo e a preferire il nuovo al vecchio, l’azione alla contemplazione, la riflessione all’emozione furono principalmente l’intraprendenza e la curiosità del viaggiatore (a cui si sovrapporrà il rigore dell’uomo di scienza). Nel suo enfatico addio all’Europa, all’Italia e alla patria lughese è cifrato l’impeto di colui che si dispone a varcare i limiti dello spazio-tempo per inoltrarsi in una dimensione sconfinata e atemporale, una dimensione mitica, accessibile unicamente ai non mortali: Addio Europa. Italia addio. Patria mia ti saluto, concittadini, ed amici vi lascio, donne mie belle vi abbandono, parenti, e congiunti vi dò un amplesso, e voi mio caro Padre, madre fratello, e sorella vi abbraccio, e baciandovi e ribaciandovi vi auguro salute, tranquillità, e sorte, e col desiderio di poter un giorno stringervi tutti al mio seno, e divider con voi il frutto dei miei travagli vi saluto. Addio, addio, e parto glorioso, e trionfante per non mai morire...

Come unica condizione, a coloro che si prefiggevano di rincorrere l’orizzonte in fuga era richiesto di disfarsi dei propri ricordi. La nostalgia, infatti, avrebbe impedito loro di raggiungere la «Castilla d’Oro, il Brasil, il Perú, il Paraguai», regioni che nelle fantasiose cognizioni del giovane Codazzi equivalevano all’ Eldorado. Apparentemente, dopo il definitivo ritorno in America e l’avvio della carriera di ingegnere e topografo militare, i sentimenti di Codazzi nei confronti della famiglia e dell’Italia si affievolirono. Se a determinare il suo distacco iniziale da Lugo era stato il richiamo del nuovo, lo strappo successivo completò un lungo processo di estraniazione nei confronti


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6. A. Appiani, Allegoria della Repubblica Cisalpina, ca. 1800, incisione

di una realtà vieppiù incapace di coinvolgerlo emotivamente. Ma la rottura con il passato italiano non si produsse unicamente sul piano dei sentimenti: al di là degli aspetti biografici, essa corrispose ad un mutamento di prospettiva filosofica, ovvero, ad un nuovo approccio alle cose. Dedito ora all’esplorazione e alla misurazione del mondo fisico, il lughese si vide obbligato a ripensare i concetti di tempo e di spazio in seno al presente perpetuo della geografia. In altre parole, l’attività cartografica, basata su infinite misurazioni cronometriche e geodesiche eseguite ai margini del flusso evenemenziale, lo portò a disinteressarsi della dimensione storica, con inevitabili contraccolpi personali. Le regioni che andava via via rappresentando erano prive d’identità e, per così dire, di consistenza: leggi storiche altrui le avevano svuotate di forma e di contenuto. Né l’indipendenza testè raggiunta né le istituzioni repubblicane bastavano di per sé a farne delle nazioni rispettate. Il loro riconoscimento politico passava attraverso prove di esistenza fisica, sociale ed economica che solo la scienza poteva fornire. Questa missione ricadde in gran parte su Codazzi, un Codazzi rinnovato e irrobustito dalle nuove responsabilità, ora consapevole che la partita fra il reale e il possible non poteva giocarsi che fra il presente e il futuro. Oltre a rappresentare le coordinate entro le quali si sviluppava la sua attività scientifica e professionale, il presente e il futuro costituivano le dimensioni temporali della nuova storia americana. Il Venezuela e la Nueva Granada erano repubbliche di fresca data, sorte da una guerra devastante e decise a forgiarsi un

avvenire di libertà e benessere (si noti che il calendario dell’América Libre iniziava con il 1810, anno dei primi moti anti-spagnoli). Codazzi, che fra il 1817 e il 1822 si era battuto per l’indipendenza delle due colonie assistendo alla loro rinascita, dal 1827 in poi lottò per il loro sviluppo materiale e morale. Ciò a costo di sacrifici di ogni tipo: si sradicò dalla terra natia, rinunciò alla lingua materna, seppellì i ricordi, ripose le mire d’un tempo, mise fine ad una grande amicizia... in breve, si lasciò alle spalle il passato e il Vecchio Mondo. La rimozione di gran parte del proprio vissuto fu il prezzo con cui Codazzi pagò il sogno di un mondo migliore. La disattenzione nei confronti dell’epopea napoleonica e della situazione italiana si spiegano almeno in parte con questo patto faustiano. In quanto uomo di scienza, giacobino, massone e portatore di buon senso romagnolo, Codazzi era uno spirito laico (se non esattamente un esprit fort), immune non solo dalle ‘fantastiche mistiche’ ma anche dalle suggestioni demagogi­che. Per inclinazione lo era sempre stato. Come tutti i giovani della sua generazione venerò Napoleone, cedette al fascino delle armi e fu sensibile ai richiami patriottici del triennio giacobino italico. Ma a differenza della maggioranza dei suoi coetanei, non cadde in deliquio e alla conclusione dell’epopea bonapartista non esitò a voltare pagina. Agli ideali infranti sostituì dapprima un ottimismo panglossiano, poi valori più realistici, com’erano il progresso e la giustizia sociale (implicitamente connessi ai presupposti del socialismo utopico). In virtù di questo rinnovamen­to, adottò un concetto di


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‘patria’ opposto a quello assimilato in gioventù: si convinse che essa rientrava nella sfera della geografia e dell’economia ancor più che in quella della storia. Il sentimento patriottico non poteva scaturire se non da un luogo scelto in base a parametri razionali. L’attaccamento viscerale alla terra dei padri era spesso insensato: perché ripagare con devozione e rinunce un suolo avaro di promesse? Come ogni vero amore, anche il patriottismo doveva puntare non tanto alla fedeltà quanto alla felicità, ovvero, ad un compromes­ so fra il soddisfacimento dei bisogni e l’appagamento del desiderio di libertà. I progetti migratori di Codazzi si iscrivono appunto in questa nozione non emotiva e non genealogica di patria. Quando si trattò di convincere un gruppo di coloni europei ad abbandonare la terra natia ed emigrare in Venezuela, il lughese ebbe buon gioco dei loro sentimenti patri sottolineando l’in­ gratitudine di un suolo che, pur avendo dato loro i natali, non era in grado di nutrirli. La patria e le istituzioni connesse dovevano vegliare sul benessere dei cittadini, ed il benessere dipendeva in primo luogo dall’emancipazione dallo stato di necessità. Se la nazione non era in grado di garantire l’affrancamento dalla povertà non era nemmeno capace di salvaguardare la libertà e, dunque, veniva meno ai suoi principi costitutivi. Anche se a malincuore, al cittadino non rimaneva altra scelta che emigrare in cerca di un’altra patria, lasciandosi alle spalle il paese d’origine. Per il lughese, patria e repubblica coincidevano. Se ne persuase sbarcando a Baltimora nel 1817. Negli anni precedenti aveva cercato gloria e fortuna

rischiando la vita in battaglia e in mare, prima battendosi per la grandeur napoleonica, poi percorrendo mezza Europa a piedi a caccia d’un ingaggio. Negli Stati Uniti scoprì che la meta si situava oltre gli interessi personali e corporativi, nel punto in cui gli individui, elevatisi a persone civiche, portavano a compimento il progetto d’una società libera, egualitaria e felice. Il traguardo non poteva essere che un’assemblea di cittadini, ovvero, una repubblica. Di ritorno in Romagna, alla fine del 1822, giunse a pensare che una piccola comunità di parenti e amici potesse trasformarsi in un’oasi repubblicana nel bel mezzo del panorama più reazionario della penisola. A ricredersi impiegò tre anni, al termine dei quali riprese definitivamente la via delle Americhe, ormai convinto che l’humus patrio si trovasse oltre Atlantico, cioè, colà dove prosperavano le repubbliche. Da allora in poi tralasciò la cura del proprio giardino per dedicarsi alla coltivazione di intere regioni, coerentemente con le idee socialistiche sostituitesi all’individualismo romantico degli anni giovanili. Codazzi non prese parte alla campagna napoleonica di Spagna, ma ne sentì parlare profusamente da un reduce a lui vicinissimo, l’amico Ferrari. In quanto membro del corpo di spedizione italiano, questi partecipò attivamente alle fasi salienti della contrastata occupazione della penisola iberica, narrando poi nell’autobiografia le esperienze fatte fra il 1808 e il 1813. Giunto in Catalogna ventitreenne con il grado di sergente dei granatieri, ne ripartì sei anni dopo con il brevetto di tenente ed il titolo di

7. Nicolas de Courteille, La Ragione porta con sé la Repubblica e l’Abbondanza, 1793, olio.


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8. Pinelli-Pomares, Presa di Tarragona, 1816, inc.

Cavaliere della Croce della Corona Ferrea. Nel corso di tale periodo assistette all’ecatombe delle truppe italiche: «Le forze ita­liane che passarono in Ispagna – si legge nell’autobiografia – ascendono a 30.183 di cui 2.627 di cavalleria. Eppure i reduci in Italia ad epoche diverse non eccedono gli 8.958». In sei anni andarono perduti ben 21.213 combattenti, «se pure è da chiamarsi perduto chi confermò il nome italiano col dare il sangue e la vita sui campi dell’onore militare». Peraltro, un simile sacrificio non impedì che sui soldati italiani che guerreggiarono nella penisola iberica accanto ai francesi, ricadesse «l’ingratissimo e villano insulto del romanziere Balzac». Se avesse avuto modo di avvicinarsi allo scrittore, Ferrari l’avrebbe immancabilmente sfidato a duello (come sempre fece ogni qualvolta s’imbattè in chi osasse infangare il buon nome italiano). Il casus belli sorse a seguito del trattamento, a detta del Ferrari ingiurioso, che Balzac riservò alla vicenda del caporale bolognese Domenico Bianchini ne Les Marana.6 Granatiere del 6.o reggimento di linea dell’esercito del Regno Italico distaccato in Spagna agli ordini del colonnello Euge­nio Orsatelli,

Bianchini divenne già da vivo il simbolo dell’ardimento e dello spirito di sacri­ficio dei combattenti italiani.7 Contro i francesi che li dileggiavano apostrofandoli “soldats du Pape”, gli italiani si impegnarono a dimostrare che nelle loro vene scorreva il sangue degli antichi Romani (“Ils sont les dignes descendants des maîtres du monde” ebbe a dichiarare il Generale Saint-Cyr). L’eroismo di Bianchini ne era la riprova. Durante l’assalto al Forte Olivo, il caporale, che s’era già distinto in azioni precedenti, compì la mirabolante impresa di catturare da solo un manipolo di soldati e ufficiali nemici. Questo accadde mentre i difensori sguarnivano il forte in fretta e furia per sfuggire alla cattura: «Fu in questa fuga degli Spagnuoli – riferisce il reggino – che il valoroso nostro granatiere Bianchini bolognese, che ben sette volte nelle diverse mischie avea riportato ferite, ed era sempre il primo agli attacchi, l’ultimo nelle ritirate, correndo animosamente sui fuggitivi, valse a sgomentarli sì fattamente, che alla sola sua voce 4 ufficiali e 5 soldati deposero l’armi, e prigionieri lo seguirono». Giunto Bianchini al cospetto del generale Suchet assieme ai prigionieri, gli venne chiesto a quale ricompensa

6 H. de Balzac, Les Maraná, Paris, 1934. La novella apparve inizialmente su “La Revue de Paris”, 1832-1833. 7 Oltre a Bologna, si disputarono l’onore di aver dato i natali al Bianchini molte altre località. Fra i primi a riferirne l’epopea fu Vincenzo Lancetti nella citata Biografia Cremonese..., apparsa nel 1820. Secondo Lancetti, il granatiere nacque appunto

a Cremona. Lo disse cremonese anche Giuseppe Giulio Ceroni, ufficiale e versificatore, autore già nel 1811 di un poema intitolato La presa di Tarragona. Ma Ugo Lenzi, nel saggio Una gloria bolognese. Il sergente Bianchini, l’eroe di Tarragona, pubblicata a Bologna nel 1933, riportò documenti che ne attestano definitivamente l’origine bolognese.


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9. Ufficiale dei Granatieri dell’Esercito del Regno Italico, inc. colorata.


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10. Leopold Beyer, Scena di bivacco, 1813-1815, inc.


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aspirasse, «e quel prode rispose: l’onore, o generale, di montare per primo all’assalto di Tarragona». Il duca d’Albufera l’accontentò. Non solo lo promosse sergente sul campo, non solo l’insignì con la Croce della Corona Ferrea, ma giunto il momento dell’attacco lo mise «incontanente a capo di 30 gra­natieri francesi incaricato di far la via agli altri sulla breccia». Fu un mirabile spettacolo – com­menta emozionato Ferrari – «il vedersi da molte migliaia d’uomini o testimoni o partecipi dell’azione di quel prode granatiere italiano, solo in bianca divisa fra le azzurre francesi segnare a tutti arditamente la strada all’alto delle mura». Di fatto, appena udito il segnale d’attacco, il sergente Bianchini, alla testa del suo drappello, si slanciò allo scoperto dall’ultima trincea fino alla breccia aperta poco prima nelle mura. Dall’alto degli spalti, gli spagnoli risposero con salve di mitraglia che decimarono la prima ondata di assalitori, decisi a far pagare con un massacro la manovra di espugnazione franco-italiana. L’eventualità di un’ecatombe fu scongiurata solo grazie all’incredibile audacia del granatiere bolognese. Lungi dal lasciarsi intimorire dal fuoco nemico, questi continuò la scalata: Pur tuttociò non isgomentava il Bianchini, ché anzi con eroica calma, propria di chi sente e apprez­za l’onore nazionale, fra una siepe d’armi e un tempestare di sassi ascende il primo dinanzi a tutti sulla breccia. Lo segue a pochi passi il suo drappello di granatieri, cui tien dietro grosso e coraggioso il rimanente della prima colonna. Ma gli Spagnuoli lo prendono a bersaglio de’ loro colpi, l’urtano delle lancie, e ferendolo nel petto, in volto, e nella gola lo squilibrano su quel terreno cedevole, su cui nondimeno puntando saldo il piede si sta, ma stassi omai solo, che i compagni prevedendo sciagura si lasciano sdrucciolare all’indietro… Tutti gli oc11. Assedio di Tarragona, ca. 1812, inc. col..

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chi adunque erano intenti in quel soldato italiano, stante in piedi, solo, sul mezzo del pendio della breccia; e in lui solo reputavasi riposto l’esito dell’as­salto; perocché o cedesse terreno o ne acquistasse, gli altri seguito al certo l’avrebbero o nel disastro o nella vittoria. Infatti molti dubitavano di buon successo in vedendo quella prima colonna ritirarsi dal piede della breccia, occuparsi a rispondere al fuoco dei difensori, e farsi schero della muraglia del bastione.

La risolutezza e la temerarietà di Bianchini ebbero la meglio sia sulle ferite ricevute che sulla stessa orgogliosa resistenza spagnola: [Ecco] il Bianchini colà sulla breccia, che sollevasi ad un tratto, e facendosi ariete del capo e del fucile, salire in un baleno sull’alto, e penetrando fra le lancie nemiche trarre dietro a sé tutta quanta la colonna inoperosa al suo sostare, ed ora farsi concitata, e animosa al muoversi e avventarsi di quel prode in mezzo ai nemici.

Commosso al ricordo delle parole con cui il generale Suchet onorò quell’azione ardimentosa, il Ferrari le riporta testualmente (riprendendola probabilmente da un altro cronista dell’evento): Invocare qual premio il primo posto nell’assalto, lanciarsi innanzi, più volte ferito sulla breccia ascendere con calma invitando gli altri a seguirlo, è tratto degno di figurare fra le più eroiche ri­membranze.

Avido di nuova gloria, il granatiere bolognese, «benché tutto imbrattato del suo sangue da sette ferite, che avea sulla persona», si lanciò sulla sbigottita soldatesca spagnola, scompigliandola e mettendola in fuga. Ma proprio da quei difensori at­territi «ricevè nuova e profonda ferita nel petto, la quale, non


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12. W. Heath, da, Battaglia di Barrosa, 1813, acquatinta.

ostante il pronto soccorso postogli da tutti, il trasse in brev’ora a precoce morte». Nel rievocare l’episodio, Ferrari abbandona lo stile abituale, proprio d’un miles gloriosus ironico ed impulsivo, per adottare un tono di circostanza, consono al racconto delle gesta del Bianchini e ai propositi soggiacenti. Le «eroiche ri­membranze», soprattutto se intese in chiave didattica, richiedevano registri espressivi adeguati tanto al canone epico quanto alla funzione esemplificatrice. L’intrepidezza del guerriero che, piegato dalle ferite, si risolleva e incurante del dolore e del pericolo guida i suoi alla vittoria per poi pagare con la morte il proprio slancio, non poteva essere resa se non in termini apologetici. Il ricordo del sacrificio del prode Rolando a Roncisvalle era stato affidato ad un canto: l’impresa di Bianchini non meritava forse un’espressione all’altezza? Certo, presentare l’episodio sotto forma di bravata piuttosto che in chiave eroica sarebbe risultato conforme ai toni sardonici e sfiduciati comuni a molte pagine dell’autobiografia. Ma sull’onore delle armi italiche non era lecito ironizzare. Né era lecito, al di là degli ovvi abbellimenti, lavorare di fantasia su un fatto reale. Bianchini non era un personaggio immaginario, le sue gesta non erano frutto d’invenzione. Se Ferrari avesse rimarcato il loro (peraltro assai probabile) carattere leggendario, avrebbe profanato l’aura che da subito le circonfuse. I soldati del Regno Italico, Ferrari compreso, non costituivano una platea avida di favole o di smargiassate; rappresentavano invece una collettività quasi-nazionale bramosa di incitamenti

ed esempi. Bianchini incarnava il combattente italico per eccellenza: ciò in quanto portatore non solo di virtù romane bensì anche e soprattut­to dei tratti morali tipici dell’italianità (audacia, ostinazione, generosità, semplicità). Ed era appunto su que­sti tratti comuni che presto – chi poteva dubitarne? – sarebbe sorta l’Italia unita. Di conseguenza, nella percezione dei suoi commilitoni, le gesta del granatiere bolognese erano ben più che bravate o semplici favole: alla pari della disfida di Barletta o del sacrificio di Pietro Micca rientravano nei miti di fondazione. Nel raccontare la storia di Bianchini, Balzac non ponderò la suscettibilità dei lettori italiani, per cui non si peritò d’invertirne l’andamento epico, trasformando memorabili prodezze in volgari sbruffonate. All’atto di redigere Juana (prima parte di Les Marana), lo scrittore credette opportuno premettere al racconto una “digression histori­que, nécessaire pour expliquer comment le 6e de ligne entra le premier dans Tarragone, et pourquoi le désordre, assez naturel dans une ville emportée de vive force, dégénéra si promptement en un léger pillage” [digressione storica necessaria per spiegare come il 6.o di linea entrò per primo a Tarragona, e perché lo scompiglio, appena naturale in una città presa a viva forza, degenerò all’improvviso in un quasi sacco]. Il 6.o di linea, spiega Balzac, era un reggimento del Regno Italico di stanza sull’isola d’Elba composto dai resti della disciolta Legione Italiana. Quest’ultima, analogamente ai bat­taglioni coloniali francesi (l’attuale Legion Étrangère):


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avait servi à déporter honorablement et les fils de famille qui donnaient des craintes pour leur avenir, et ces grands hommes manqués, que la société marque d’avance au fer chaud, en les appelant des mauvais sujets. [era servito a deportare dignitosamente sia quei rampolli il cui avvenire impensieriva che quei grandi uomini mancati che la società marca a fuoco in anticipo definendoli cattivi soggetti].

Ebbene, proprio per il suo carattere punitivo e riottoso, il 6.o di linea “souvent décimé, toujours le même, acquit une grande réputation de valeur sur la scène militaire, et la plus détestable de toutes dans la vie privée” [spesso decimato ma sempre lo stesso, acquisì un’ottima reputazione nell’ambito militare e la più detestabile nella vita privata]. Fra gli ufficiali del reggimento, figurava il capitano Bianchi: Au siége de Tarragone, les Italiens perdirent leur célèbre capitaine Bianchi, le même qui, pendant la campagne, avait parié manger le coeur d’une sentinelle espagnole, et le mangea… Quoique Bian­chi fût le prince des démons incarnés auxquels ce régiment devait sa double réputation, il avait ce­pendant cette espèce d’honneur chevaleresque qui, à l’armée, fait excuser les plus grands excès. Pour tout dire en un mot, il eût été, dans l’autre siècle, un admirable flibustier. [All’assedio di Tarragona, gli italiani persero il celebre capitano Bianchi, quello stesso che durante la campagna ebbe a dire che avrebbe mangiato il cuore di una sentinella spagnola, e lo mangiò... Sebbene Bianchi fosse il principe di quei diavoli incarnati ai quali il reggimento doveva la dubbia reputazione, egli possedeva allo stesso tempo una sorta di onore cavalleresco che fra i soldati rende perdonabile ogni eccesso. In breve, nel secolo scorso egli sarebbe stato un mirabile filibustiere].

Le circostanze che precedono la morte in battaglia del capitano Bianchi evidenziano come Balzac, nel tratteggiarlo, avesse in mente il sergente Bianchini: Quelques jours auparavant, il [Bianchi] s’était distingué par une action d’éclat que le maréchal [Suchet] avait voulu reconnaître. Bianchi refusa grade, pension, décoration nouvelle, et réclama pour toute récompense la faveur de monter le premier à l’assaut de Tarragone. Le maréchal accorda la requête et oublia sa promesse; mais Bianchi le fit souvenir de Bianchi. L’enragé capitaine planta, le premier, le drapeau français sur la muraille, et y fut tué par un moine. [Qualche giorno prima, Bianchi si era distinto in un atto di valore, che il maresciallo Suchet aveva voluto premiare. Bianchi rifiutò grado, pensione, nuova medaglia e chiese per tutta ricompensa il favore di lanciarsi per primo all’assalto di Tarragona. Il maresciallo glielo accordò e se ne dimenticò; ma Bianchi fece in modo che se ne ricordasse. Il furibondo capitano piantò per primo il vessillo francese sulle mura, dove fu ucciso da un razzo].

Non era la prima volta che Balzac introduceva il capitano Bianchi nei propri racconti. L’apparizione dell’italiano si era già verificata in Une conversation entre onze heures et minuit, un testo apparso nel 1832 in seno ai Contes Bruns al quale lo scrittore rimanda i lettori di Les Marana desiderosi di approfondirne la conoscenza. Une conversation comincia così: J’ai connu en Espagne, reprit-il, un nommé Bianchi, capitaine au 6e de ligne,-il a été tué au siége de Tarragone,-qui joua ses oreilles pour mille écus. Il ne les joua pas, pardieu, il les paria bel et bien; mais le pari est un jeu. Son adversaire était un autre capitaine du même régiment, Italien com­me lui,

13. Honoré de Balzac, Les Marana, 1838.

comme lui mauvais garnement, deux vrais diables ensemble, mais bons officiers, excellens militaires. [Conobbi in Spagna, riprese, un certo Bianchi, capitano del 6.o di linea -è stato ucciso all’assedio di Tarragona- che mise in gioco le sue orecchie per mille scudi. Non le giocò, perbacco, le scommise e basta, ma la scommessa è un gioco. Il suo avversario era un altro capitano dello stesso reggimento, anch’egli italiano, anch’egli brutta peste, dei veri diavoli appaiati, ma buoni ufficiali, ottimi militari].

Le origini di trovatello, così come lo spregio di cui era stato oggetto fino all’arruolamento nella Legione Italiana e oltre, avevano inciso sicuramente sulla formazione del carattere demo­niaco del capitano: Ce Bianchi venait de l’hôpital de Como, où tous les enfans trouvés reçoivent le même nom, ils sont tous des Bianchi: c’est une coutume italienne. L’empereur avait fait déporter à l’île d’Elbe les mauvais sujets de l’Italie, les fils de famille incorrigibles, les malfaiteurs de la bonne société qu’il ne voulait pas tout-à-fait flétrir. Aussi, plus tard, il les enrégimenta, il en fit la légion italienne ; puis il les incorpora dans ses armées et en composa le 6e de ligne, auquel il donna pour colonel un Corse, nommé Eugène. C’était un régiment de démons. Il fallait les voir à un assaut, ou dans une mêlée!... Comme ils étaient presque tous décorés pour des actions d’éclat, ce colonel leur criait naïvement, en les menant au plus fort du feu: Avanti, avanti, signori ladroni, cavalieri ladri... En avant, che­valiers voleurs, en avant, seigneurs brigands! [Quel Bianchi proveniva dall’orfanotrofio di Como, dove tutti i trovatelli ricevono lo stesso nome, sono tutti dei Bianchi: è un’usanza italiana. L’imperatore aveva fatto deportare all’isola d’Elba i cattivi soggetti d’Italia, i figli di papà scapestrati, i furfanti d’alto bordo che


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egli non voleva far seccare. In seguito li irregimentò ricavandone la legione italiana; infine li incorporò nelle sue armate facendone il 6.o di linea, a cui mise a capo un colonnello corso, tale Eugenio. Era un reggimento di diavoli. Bisognava vederli all’attacco o in una mischia!... Poiché erano quasi tutti decorati per atti di valore, quel colonnello gridava loro d’impulso guidandoli contro il fuoco più accanito: Avanti, avanti, signori ladroni, cavalieri briganti!].

les perches, rajusta la marmite, attisa le feu, fit cuire le coeur et le mangea sans en être incommodé. [Cinque minuti dopo quel buffone di Bianchi si allontanò al galoppo come un cavallo, e fece ritorno tutto pallido e ansimante. Aveva in mano il cuore dello spagnolo e lo mostrò ridendo al suo avversario... Allora, senza lavarsi il sangue dalle mani, rialzò i bastoni, sistemò la marmitta, attizzò il fuoco, fece cuocere il cuore e se lo mangiò come se nulla fosse].

Temerario, malvagio e tracotante, Bianchi propone ad un commilitone una scommessa inaudita ed agghiacciante:

Il capitano Bianchi è un personaggio d’invenzione tratteggiato a partire dalla figura del granatiere Bianchini. Ma neppure quest’ultimo è del tutto aderente al vero. La veemenza retorica con cui Ferrari ed altri ne gonfiano le gesta, fino a farne il prototipo dell’eroismo italico, si risolve in mistificazione. Il ritratto di Balzac manca della vis grottesca dei “Desastres de la Guerra” di Goya, ma trabocca nondimeno di elementi orripilanti, di chiara matrice letteraria (v. figg. 14-15). Tuttavia, seppure frutto d’invenzione, l’atroce spacconata non è sufficiente a contrastare il tenore realistico del racconto. L’effetto di realtà si avvale in particolare della somiglianza Bianchi-Bianchini (ribadita nella citata “di­gression historique”), un’accoppiata che, prevedibilmente, suscitò il ripudio dei lettori italiani. A tutti parve che Balzac avesse voluto erigersi a portavoce del risaputo spregio transalpino nei confronti delle milizie italiche, facendo ricorso, non proprio nobilmente, alla diffamazione. («Ah, i francesi – esclama Ferrari – sempre un po’ boriosi, al solito e a torto malestimatori di noi poveri italiani»). Si era servito della letteratura, si disse, per infangare

Veux-tu parier mille écus, lui dit-il en montrant une sentinelle espagnole postée à cent cinquante pas environ de notre front de bandière, et dont nous apercevions la baïonnette au clair de la lune, veux-tu parier tes mille écus que, sans autre arme que le briquet de ton caporal,-et il prit le sabre d’un nommé Garde-à-Pied- je vais à cette sentinelle, j’en apporte le coeur, je le fais cuire et le mange... [Vuoi scommettere mille scudi, disse additando una sentinella spagnola appostata a cento cinquanta passi dalla nostra linea di fronte, e la cui baionetta s’intravedeva al chiaro di luna, vuoi scommettere mille scudi che, con la spada del tuo caporale come unica arma – e afferrò la sciabola d’un certo Garde-a-Pied –, mi avvicino a quella sentinella, le strappo il cuore, lo metto a cuocere e lo mangio...].

Raggiunta l’intesa, il capitano non esita a mettere in pratica quanto promesso: Cinq minutes après, ce farceur de Bianchi galopait dans le lointain comme un cheval, et revint tout pâle, tout haletant. Il tenait à la main le coeur de l’Espagnol, et le montra en riant à son adversai­re… Alors, sans laver le sang de ses mains, il releva 14. Francisco Goya, Desastres de la guerra, 1810.


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15. Francisco Goya, Desastres de la guerra, 1810.

la memoria di un eroe immolatosi per la Francia, e a tale scopo non s’era fatto scrupolo di scudarsi dietro la Storia, tergiversandola spudoratamente. Dal canto suo, Ferrari adottò senza esitare un’angolatura epica e didascalica. Non modi­ficò né date né luoghi, non corresse né i fatti né le circostanze, ma introdusse nella narrazione una serie di effetti mitici volti ad accentuare l’esemplarità dell’impresa e l’unicità dell’eroe. Detto diversamente, Ferrari teatralizzò l’assalto a Tarragona, convogliando ad arte l’attenzione del lettore-spettatore su un solo personaggio, il vero protagonista della scena. Non cambiò la storia, ma la rappresentò in modo tale che le migliaia di soldati presenti sul campo di battaglia divenissero a loro volta gli spettatori ammirati di un one man-show. Balzac aveva inteso sotto­lineare il carattere metonimico del capitano Bianchi, riunendo in lui tutti i “mauvais sujets”, “malfaiteurs” e “diables” presenti nell’esercito

del Regno Italico (e non solo nel 6.o di linea). Anche Ferrari elevò Bianchini ad esempio, ma allo scopo di additare agli italiani il cammino dell’affrancamento patriottico attraverso il coraggio e il sacrificio. La rigenerazione di un popolo – pensò il reggino nell’evocare il granatiere –, implicava l’adozione preliminare di modelli capaci di risvegliarlo e agglutinarlo.7 Il «sentimento dell’onor nazionale»: ecco ciò che spinse Bianchini ad immolarsi, ed ecco ciò che indusse Ferrari a intonare un peana alla sua memoria; quello stesso onore italiano che l’autore delle Memorie Postume fu sempre pronto a difendere a spada tratta, ora duellando ora guerreggiando. Ferrari prese a riordinare i propri ricordi spagnoli sulla soglia della sessantina, ossia, a vari decenni dagli eventi e dunque con il senno di poi. Era uno stimato co­lonnello intenzionato ad additare al figlio Augusto «ciò che puossi aspettare nel mondo, dagli amici e dalla fortuna». Il

7 Memorie postume del Cav. Costante Ferrari, Capitano delle Guardie Reali del Regno Italico, Tenente-Colonnello nelle Americhe e Colonnello effettivo in Italia, Rocca S. Casciano, 1855. Il Ferrari attinse a Camillo Vacani, maggiore del genio del Regno Italico, presente alla presa del Forte Olivo, autore della Storia delle campagne e degli assedii degli Italiani in Ispagna dal 1808 al 1813, Milano, 1823 (II, V). Si servì anche di una pubblicazione a stampa di Antonio Lissoni, già ufficiale di cavalleria del Regno Italico, intitolata Difesa dell’onore dell’armi italiane oltraggiato dal signor di Balzac nelle Scene della vita Parigina e confutazione di molti errori della storia militare della guerra di Spagna fatta

dagli Italiani, Milano, 1837. Bianchini non fu il solo eroe italico della Guerra Peninsular. Prima di lui, il 9 luglio 1809, il sottotenente veronese Luigi Pedrotti (non citato dal Vacani) si era distinto all’assedio di Montjouy: «Dopo molte prove di valore salì con alquanti de’ suoi sino all’estremità della breccia ed ivi combattendo con quel coraggio, che distingue i prodi nei maggiori cimenti, era vicino a riuscire vincitore». A troncare il suo slancio non fu una morte gloriosa ma una mattonata, alla quale seguì un’archibugiata «nella destra gamba». Pedrotti entrò poi al servizio dell’Austria. Cfr. Gino Capponi, Antologia: giornale di scienze, lettere e arti, Vol. 29, Firenze, 1828.


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l’orizzonte in fuga

16. Michele Sangiorgi, Orazio Coclite, ca. 1808, disegno e acquerello.

rampollo, ahimè, morì di lì a poco e l’autobiografia mancò l’obiettivo dichiarato. Centrò invece il fine sottaciuto: quello di segnalare dissi­mulatamente ai lettori, aggirando la censura papalina, la strada del riscatto nazionale. Come Leonida e Orazio Coclite, il granatiere bolognese si era sacrificato per la più nobile delle cause, consapevole non solo che “un bel morir tutta la vita onora”, ma anche e soprattutto che l’indipendenza italiana richiedeva martiri. Bianchini, insomma, era apparso sulla ribalta di Tarragona non per riscuotere l’applauso dei francesi ma per risvegliare la coscienza degli italiani. Analogamente alla funzione degli eroi tragici, la sua apparizione era stata catartica: attraverso l’ammirazione, la commozione e lo sgomento gli spettatori avevano ritrovato, per un istante, il coraggio di immaginare una patria. Nell’ambito dell’autobiografia del Ferrari – scritta non per niente alla vigilia della prima Guerra d’Indipendenza – il martirio di Bianchini, dunque, non costituiva soltanto un episodio memorabile, ma esprimeva altresì una valenza mitica atta a rigenerare i combattenti italiani, spronandoli al riscatto d’un paese diviso e asservito. Codazzi redasse le Memorie nel 1825, in piena Restaurazione, ma non fu solo per il timore di contrariare le autorità papaline che sorvolò sul periodo napoleonico. Come si è detto, se da una parte in quei giorni ostentare l’appartenenza alle milizie italiche sarebbe stato arrischiato, dall’altra le azioni guerresche compiute dal lughese fra il 1813 e il 1815 non erano

state tali da meritare un resoconto dettagliato. Se le salve sparate in Sassonia e in Assia non erano state sufficienti a impressionare il nemico, a che titolo supporre che potessero risvegliare l’attenzione di lettori disincantati? Tuttavia, la reticenza può spiegarsi anche in altri modi. Nel 1825, il futuro cartografo era assorbito da seri problemi monetari conseguenti allo scarso rendimento del podere del Serraglio, rendimento nemmeno sufficiente a ripagare i debiti contratti per metterlo a frutto. All’atto dell’acquisto i due amici si erano figurati un futuro da signori di campagna, ma la loro iniziativa era avulsa sia dal contesto agricolo ed economico locale, per niente incoraggiante, che dalla realtà italiana, a dir poco deprimente (per non parlare della situazione europea, non ancora ripresasi dalle guerre dei decenni anteriori). L’oasi repubblicana immaginata dal lughese era più prossima agli insediamenti sorti in Texas e in Alabama ad opera degli ex-ufficiali napoleonici che al contesto romagnolo. Così come i refugiés si erano proposti di fondare un’enclave bonapartista negli Stati Uniti, Codazzi s’impegnò a ricreare un angolo d’America nel cuore delle Legazioni, una comune libertaria in una delle zone più conservatrici della penisola. Il risveglio da questo sogno si produsse proprio nel 1825, quando il nostro dovette prendere atto che era più facile per Maometto dirigersi alla montagna che non il contrario. Dissipatosi il fervore bucolico, smorzatasi la speranza di un futuro tranquillo e agiato entro i confini aviti, nel lughese si moltiplicarono i dubbi sulle scelte operate, emotivamente più


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17. Uccelli acquatici, 1823, litografia su schizzo di C.F.P. von Martius.

che razionalmente, tre anni prima. L’idea iniziale dei due amici era di mettersi a trafficare fra le due sponde dell’Atlantico, tuttavia, sbarcati a Den Helder e ritrovatisi con discreto gruzzolo, avevano imboccato la strada che sappiamo. Se ne erano pentiti entrambi dopo qualche mese, ma Codazzi, a differenza del compagno, sul momento non volle ammetterlo. Si vide obbligato a prenderne atto allorchè, nel redigere le Memorie, dovette ricostruire il proprio vissuto. Riandando al passato, lo suddivise in remoto e prossimo, indi escluse il primo e concesse il massimo spazio al secondo. Fece questo sia perché gli anni recenti meritavano più attenzione – la sua epopea personale si era svolta fra il 1817 e il 1822 – sia perché i suoi trascorsi americani non rientravano del tutto nel passato (Codazzi era ancora ufficiale dell’esercito bolivariano e aveva affari in ballo nei Caraibi). Evocare ricordi siffatti – per così dire in corso – equivaleva a inserirli magicamente nel flusso del presente: fu appunto tale prospettiva a dirigere la penna del nostro eroe, non la riesumazione di guerre ed eroismi a lui remoti. Anziché indietreggiare nel tempo, Codazzi, spinto da una sorta di nostalgia del futuro, preferì staccarsene. Alla distanza si profilava un mondo carico di promesse, mentre i suoi piedi poggiavano su una terra ingrata e senza speranza. I concetti di ‘storia’, ‘regno’ e ‘Italia’ che avevano guidato i suoi passi da Lugo a Lutzen, da Hanau a Mantova, si erano ormai volatilizzati. Tutto indicava che era giunto il momento di ripartire, questa volta per un viaggio di sola andata.

L’allontanamento mentale e affettivo dalla Romagna e dall’Italia è già percepibile fra le pagine delle Memorie.8 Scaturisce per contrasto dall’infatuazione per i Tropici, per i mari, le coste e le isole sul cui sfondo aveva veleggiato a lungo: un orizzonte sfuggente, reso ancor più desiderabile dall’elusività. Invero, le pagine più partecipi e vibranti del manoscritto sono dedicate al paesaggio naturale e umano dell’America tropicale. Infatuazione si è detto, ma senza dimenticare che i lettori – Codazzi ne era conscio – erano ben più voraci di avventure di viaggio e di scenari esotici che di malinconici richiami a speranze infrante. A seguito dei primi viaggi per terra e per mare, protrattisi dal 1815 al 1822, il futuro cartografo acquisì un’impronta cosmopolita e un’ampiezza di vedute che contrastavano non solo con la chiusura dell’Europa della Restaurazione ma anche con le spinte patriottiche presenti (o latenti) nell’ambiente romagnolo. Questa nuova consapevolezza del mondo, questa prospettiva dilatata, lo rese in certo qual 8 Alcuni dei ricordi del cartografo furono raccolti dai congiunti e pubblicati a maniera di aneddoti familiari. Si tratta per lo più di fatterelli risalenti alla prima giovinezza, alle circostanze dell’arruolamento nell’artiglieria a cavallo, ecc.ecc. Cfr. Andrés Soriano Lleras, Anécdotas y leyendas familiares. Datos sobre la familia Codazzi-Fernández de la Hoz, Bogotá, 1956. In questa raccolta i ricordi codazziani, in particolare quelli relativi alla Campagna del 1813, vengono presentati per l’appunto in chiave leggendaria.


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modo estraneo a quanto si era lasciato alle spalle alla partenza. La conoscenza delle cose e di sé accumulata in sette anni di viaggi e avventure, mal si coniugava con le aspirazioni, pur nobili e valorose, di coloro che non avevano mai abbandonato la Romagna.9 Dunque, si mise a raccontare non del passato che lo

univa ad essi, e con il quale non si identificava, ma di luoghi e fatti lontani nello spazio. E così facendo, conformandosi inconsciamente ad un suggerimento di Abraham Ortelius, il grande cartografo fiammingo, fece il primo passo verso la trasformazione della geografia negli occhi della storia.

9 Com’era Lugo nel 1825? Non molto diversa da com’era trent’anni prima, nel 1793, quando vi nacque Agostino Codazzi: una cittadina – dichiarata ufficialmente tale solo nel 1817 – tipicamente romagnola, diversa da altre solo per la presenza di una consistente comunità ebraica, resa importante dalla fiera annuale e dal mercato settimanale, dedita al commercio della seta e, in misura minore, del bestiame. Ottomila anime (né tante né poche), molte chiese e conventi e quindi una folta presenza clericale (nulla di straordinario); il potere amministrativo e la proprietà terriera in mano alla nobiltà, composta da una quarantina di famiglie; forti legami con il papa e lo Stato della Chiesa. Un’ economia non proprio florida ma abbastanza sviluppata, al pari dell’agricoltura (basata sullo schema podere-mezzadria). Istruzione pubblica di discreto livello in mano ai preti o agli ordini religiosi (cfr. S.

Medri, Lugo, Codazzi e il suo Tempo, in La misura dell’Eldorado, a cura di G. Antei, Pontedera, 2005). E il paesaggio? Quello della Bassa romagnola, una terra ove in inverno «sembra di essere immersi nel pastis», piatta e in parte paludosa, l’orizzonte indistinguibile, poche le vie di fuga. Il podere del Serraglio era sito nei pressi di Massa Lombarda, a pochi chilometri da Lugo. Le famiglie di Codazzi e Ferrari – una decina di membri in tutto, ivi compresi due domestici neri, Francisco e Mamelucco – vi si stabilirono nella primavera del 1823. I lavori di ristrutturazione della casa padronale furono diretti dal futuro cartografo, che, a detta dell’amico, sperperò in inutili ampliamenti e abbellimenti gran parte del gruzzolo comune. In termini produttivi ed economici, il risultato delle nuove coltivazioni impiantate nel podere fu a dir poco deludente.


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18. Allegoria dei viaggi di esplorazione, 1727, inc.


19. Napoleone Buonaparte Imperatore dei Francesi, 1801, inc. col.


bell’italo regno

“L’armée est belle et animée d’un excellent esprit...” tascher de la pagerie

Per i giovani italiani dell’età di Codazzi, la caduta dell’Impero napoleonico, del Regno Italico in particolare, equivalse ad una tragedia. Ciò non tanto nell’accezione luttuosa del termine quanto in senso morale, giacché con il mito di Buonaparte s’infranse un complesso di credenze e di valori, ivi compresa la fede nell’indipendenza della Penisola. Lungi dal prodursi di colpo, la caduta si protrasse per tre anni, uno sdrucciolio marcato da guerre fra le più mortifere dell’intero periodo napoleonico. E mentre le battaglie perse si susseguivano – a danno delle popolazioni europee, obbligate a fornire sempre nuovi combattenti –, i condottieri dei tempi vittoriosi mutavano in esseri egoisti e meschini. Codazzi fu testimone e vittima di questo processo, un’esperienza che, come abbiamo visto, preferì dimenticare. Alla fine del 1813 il reparto di Agostino Codazzi, allora maresciallo d’alloggio capo, fu acquartierato a Valeggio, sul Mincio, a poca distanza dal lago di Garda. Successivamente fu distaccato nei pressi di Mantova. Quando Codazzi vi entrò, la città era ridotta ad una «piazza di guerra piena di truppe, d’istromenti di distruzione, e minacciata da un esercito nemico che l’assediava».1 Il principe Eugenio di Beauharnais, viceré d’Italia, che il primo febbraio 1814 aveva abbandonato la linea dell’Adige ripiegando sul Mincio, vi si era appena asserragliato facendone un 1

F. Coraccini, Storia dell’amministrazione del Regno d’Italia durante il dominio francese, Lugano, 1823, p. 240. 2 Proclama emesso in data 1 febbraio 1814. 3 A. Codazzi, Memorie. Si legge: «Alla sortita di Mantova all’occasione della morte del mio colonnello Milo [sic] pervenni a quello [grado] di ajutante sott’ufficiale». Terminato lo scontro, il Beauharnais scrisse alla moglie Amalia Augusta: “Encore une

baluardo contro l’avanzata austriaca. Non appena arrivato, aveva emesso un roboante proclama alle truppe italiche, ove fra l’altro additava loro il cammino dell’immortalità: Italiens! ceux-là seuls sont immortels, même dans l’estime et dans les annales étrangères, qui savent vivre et mourir fidèles à leur souverain et à leurs patrie, fidèles a leur serments et à leurs devoirs, fidèles à la reconnaissance et à l’honneur...[Italiani! Sono immortali, anche nella stima e negli annali stranieri, soltanto coloro che sanno vivere e morire fedeli al sovrano e alla patria, fedeli ai sentimenti e al dovere, fedeli alla riconoscenza e all’onore...].2

Il richiamo alla fedeltà era diretto ai coscritti, in particolare alle nuove leve, fra le quali le diserzioni erano frequenti. Da parte sua, il Reggimento di artiglieria a cavallo di cui faceva parte Codazzi, offrì un’ennesima prova di lealtà in occasione dell’inconcludente battaglia del Mincio, combattutasi l’8 febbraio, ove il suo comandante, il colonnello Achille Millo, morì da prode.3 Costante Ferrari, reduce dalla Spagna, capitano di una compagnia di granatieri del 1.o Reggimento Leggero di stanza nei dintorni di Mantova, prese parte anch’egli a detto scontro. Benché fosse terminato con una vittoria pirrica, ne serbò un ricordo glorioso: Fummo ordinati a battaglia dal generale francese Grenier colà venuto col Vice-Re. Il maresciallo Bellegarde avvi-

bataille gagnée!”; ma per altri fu uno scacco, quanto meno un’occasione perduta. Secondo il maresciallo Vaillant “avec de meilleures troupes dans la main du prince Eugène, avec plus de vigueur de la part du général Verdier, plus de persistance dans l’attaque des deux ailes, le prince aurait pu remporter une grande, une superbe victoire”. Cfr. A. Du Casse, Memoires et correspondence politique et militaire du Prince Eugène, X, Paris, 1860, pp. 52-53.


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20. Proclama del maresciallo Bellegarde, 12 giugno 1814.

savasi forse di aver a che fare con soldati di nuove cerne, ma ebbe a le mani de’ vecchi mustacchi avvezzi alla guerra, sì che il suo esercito andò in piena dirotta, e caddero in nostro potere molti prigionieri, e assai bandiere. E se Gioacchino Murat non avesse tradito, forse eravamo in grado di marciare sopra Vienna, e forse gli eventi avrebbero mutato aspetto.4

Nelle settimane seguenti, racconta Ferrari, il clima, nella città dei Gonzaga, si fece sempre più teso: tutti erano «sossopra per notizie vaghe, incerte, ma poco liete»; non solo i civili ma anche i militari, cominciando dagli alti gradi, che «erano non poco esagitati e impensieriti per cotali novelle». Alle tre antelucane del 27 aprile, il sonno dei mantovani, reso leggero e agitato dagli avvenimenti degli ultimi mesi, venne interrotto bruscamente da un grande strepito, quasi un rintrono, che non preannunciava nulla di

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Ferrari, Memorie postume, p. 331. Il timore d’un assedio era molto diffuso. Racconta Ferrari: «E perché si vociferava ancora che si potesse sostenere in Mantova un assedio, così io, e i miei uffiziali della compagnia... pensammo a mandare provvisioni da bocca colà in Mantova a fine di sopperire con essa al mezzo vitto, se vi fossimo condotti in caso di assedio. Facemmo acquisto pertanto d’una botte di vino, di molte paia di pollastri, d’ova, di carne salata, di farina e di formaggio e tutto... facemmo tradurre al nostro alloggio in Mantova». 6 Secondo Vaudoncourt il viceré firmò la convenzione di Schiarino-Rizzino “pour sauver le royaume de l’anarchie, et essayer de lui conserver son indépendance”. Cfr. F.G. de Vaudoncourt, Histoire politique et militaire du Prince Eugène Napoléon Vice-Roi d’Italie, II, Paris, 1828, p. 504. 5

buono. Certuni credettero che la cavalleria austriaca avesse preso d’assalto la città, altri pensarono ad una sollevazione del presidio. Il frastuono proveniva dalle parti del castello, possibilmente dal ponte di San Giorgio, ed era fatto di grida, nitriti, scalpitio e inoltre di un susseguirsi di boati come scariche di fucileria. Coloro che ebbero l’audacia di precipitarsi in strada o anche solo di affacciarsi alla finestra furono ben pochi, se mai qualcuno vi fu. In ogni caso, il sonno andò perduto e alla gente non rimase altro da fare che attendere desta la luce del giorno e con essa la verità, qualsiasi fosse. Poco dopo lo spuntare del sole, il freddo della notte cominciò a dileguarsi. Nonostante la durezza dell’inverno – uno dei più gelidi degli ultimi anni – e d’un marzo non meno freddo, il mese di aprile, abbastanza piovoso, era stato fin dall’inizio insolitamente soave, addolcendosi ancor più negli ultimi giorni. Ma fra i mantovani, non meno che fra i soldati accantonati entro le mura, circolava un’aria greve, che nulla aveva di primaverile. L’apprensione cresceva di ora in ora di pari passo con la confusione, il tutto esasperato dalle minacce immaginarie diffuse dalla quinta colonna nemica. Il clima di trepidazione era del tutto giustificato: le truppe austriache erano di là dal Mincio pronte ad attaccare, quelle italiane, disposte a difendere a morte le proprie posizioni. Che ne sarebbe stato della città? Al blocco già in atto avrebbero fatto seguito gli orrori di un assedio e poi... che sorte sarebbe toccata agli abitanti?5 Tuttavia, verso le 9 del mattino la tensione si allentò, e ciò a seguito di notizie dell’ultim’ora. Si venne infatti a sapere che a causare il frastuono notturno era stato null’altro che la precipitosa partenza del Principe Eugenio. Si scoprì pure che tre giorni prima questi aveva sottoscritto una seconda convenzione con l’Austria (dopo quella di Schiarino Rizzino siglata il 17 aprile)6, anzi, una vera e propria capitolazione, in virtù della quale Mantova e l’intero Regno Italico sarebbero passati alle forze alleate allo scoccare delle nove antimeridiane di quello stesso 27 aprile.7 Trapelò inoltre che un folto gruppo di alti ufficiali italiani si era opposto alla resa, sostenendo che l’armata era in grado di lottare; ma Beauharnais era stato irremovibile. Di fatto, mentre ancora si

7 A detta di Du Casse, il Principe Eugenio capitolò mosso dall’amore per l’Italia: “Écartant tout ressentiment et n’écoutant que son affection pour un peuple innocent des excés qui avaient été commis, il voulut encore lui assurer les garanties qu’il était en son pouvoir de estipuler”, Du Casse, op.cit., p. 175. Il primo articolo della Convenzione Schiarino-Rizzino stabiliva: “Toutes les places de guerre, forteresses et forts du royaume d’Italie, qui ne sont pas encore occupées par les troupes alliées, seront remises aux troupes autrichiennes”. In quanto all’esercito, il quarto articolo prescriveva: “Les troupes italiennes resteront dans leur organisation actuelle, jusqu’au moment où les hautes puissances alliées auront décidé de leur sort futur. En attendant, elles seront sous les ordres du feld-maréchal comte de Bellegarde, qui prend possession (...) de la partie non envahie du royaume d’Italie”. G. de Garden, Histoire générale des traités de paix, XV, Paris, 1852, p. 298 e ss.


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stentava a credere che il viceré avesse abbandonato l’Italia al suo destino, mentre l’incredulità si andava trasformando in rabbia e indignazione, le truppe di Bellegarde cominciarono a entrare in città. Qualche giorno addietro, il capitano Ferrari, assieme agli altri ufficiali della guarnigione, era stato convocato dal generale Carlo Zucchi. «Fummo chiamati quanti eravamo ufficiali dell’esercito dal generale governatore [di Mantova] Zucchi – ricorda il reggino nell’autobiografia – che ci tenne parole ambigue, la cui sostanza era, che noi avevamo fino a quel punto fatta la guerra con morti e storpiature di tanti senza sapere per che causa ci battevamo, e che parea giunto il momento di scegliere un capo per la nostra Italia».8 Parlando d’un «capo per la nostra Italia», Zucchi intendeva alludere al principe Beauharnais, ma sebbene l’antifona fosse chiara nessuno dei presenti rispose all’appello e ciò – spiega Ferrari – «perché il viceré non era troppo accetto alle nostre truppe, e spezialmente ai generali». Questo avveniva il 18 o 19 aprile. Qualche giorno dopo, quando ormai s’era consumata la ‘rivoluzione’ di Milano, si sparse la voce che il Beauharnais «volesse battersi fino all’estremo, ciò che rallegrava noi tutti, che solo potevamo sperare qualche vantaggio per noi e per l’Italia».9 Tale nuova però era infondata, o meglio, rifletteva l’anelo dei generali anziché la volontà del viceré. Ignorando che Beauharnais avesse risolto di darsi per vinto e non sapendo che il comando austriaco ne era già informato, il 22 aprile «i Generali e gli Ufficiali superiori si portarono dal Principe, e protestarono di non voler cedere senza garantigie per la conservazione del Regno».10 Tuttavia, Beauharnais non solo si rifiutò di marciare con l’esercito su Milano, ma si oppose altresì a detenerne il comando. Pur senza riferirsi apertamente all’impegno preso con Bellegarde, fu drastico nell’escludere l’ipotesi di ogni ulteriore suo coinvolgimento nella difesa del Regno Italico.11 Sabato 23 aprile Codazzi e Ferrari furono testimoni, all’insaputa l’uno dell’altro, di un preoccupante andirivieni di ufficiali nemici per le vie della città. Si legge nell’autobiografia del secondo: «Universal meraviglia cagionò nell’esercito, il 23 aprile, la vista di un incessante entrare ed uscire da Mantova, di generali ed uffiziali austriaci. Allo stupore conseguì l’agitazione e il sospetto».12 Non poco allarme

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Ferrari, op.cit., p. 343. Ibid. 10 F. Lechi, Note autobiografiche del conte generale Teodoro Lechi, illustrate e annotateda F. Lechi, in “Miscellanea di studi su Brescia nel Risorgimento”, Brescia, 1933, pp. 60-64. 11 Ibid. «Il Principe ci rispose, che se l’Esercito Italiano lo voleva per suo generale in capo, egli avrebbe giurato con esso di farsi seppellire sotto le rovine di Mantova, ma che ci faceva riflettere che esisteva in Milano un Governo formato da una reggenza ed un Generale in Capo nel generale Pino, da essa nominato, che il primo dovere di un soldato è l’obbedienza e che si avrebbe 9

21. E.R. Moreau, Ritratto del generale Carlo Zucchi, litogr.

dovette poi suscitare l’arrivo da Milano del bagaglio del Principe. Questi, di fatto, si era premurato di far pervenire a Mantova «tutte le sue migliori cose e denari», per avere «tutto pronto per partire al primo momento».13 Fra domenica 24 e lunedì 25 sorsero voci secondo le quali «le piazze e l’armata» sarebbero state presto «vendute», rumori che scatenarono una ridda di proteste. La resa avrebbe costituito una fellonia, un misfatto intollerabile: come poteva un esercito vittorioso e bene armato – si chiedevano i veterani – capitolare al nemico? Dove sarebbero finiti i meriti e la gloria accumulati in 14 anni di guerre continue al costo di decine di migliaia di caduti? Tuttavia, ben più che la salvaguardia dell’onore militare o degli ideali patri, ciò che premeva agli italiani, in quello scorcio di aprile, era la cessazione delle coscrizioni obbligatorie e delle imposte di guerra. In effetti, «si accagionava il principe di molte colpe supposte; ma la radice di tanti mali e della inquietu-

invece cominciato con una ribellione». De Laugier si riferisce al rifiuto del Viceré in questi termini: «Non accettò però questi [E. di B.]; ma invece, affettuosamente ringraziato, si dimise sino d’allora dal comando dell’esercito. Invano i generali, e gli uffiziali, il pregarono di resistere e di condurli a Milano, onde sedarvi il disordine e rovesciar l’anarchia. Fermo nell’annunciato proposito, vi si rifiutò formalmente». C. de Laugier, Fasti e vicende degl’italiani dal 1801 al 1815, XIII, Firenze, 1838, pag. 360. 12 Ferrari, op.cit., p. 344. 13 Ibid. «I furgoni del tesoro suo particolare erano guardati sotto i portici del palazzo ducale dalla Guardia Reale».


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Che vi sembra il partir? Sorte assai dura. Che lasciaste in Italia? Ogni sciagura. Cos’aveste da lei? Tutto l’umano. Qual’uso ne faceste? Iniquo e strano. Come v’appella? Orror della natura. Ma dunque l’eguaglianza? Fu un inganno. E quella libertà? Un sogno, un velo. E le vostre repubbliche? Cadranno. Che fanno i Parigini? Han rabbia e gelo. Che presagisce a voi? Lutto ed affanno. E chi v’oppresse al fin? L’ira del cielo.15

22. Bandiera della Repubblica Italiana, 1802-1805.

dine del paese erano le guerre insaziabili e rovinose per cui si smungevano i popoli».14 In quegli stessi giorni il Manzoni compose un’ode civile – “Aprile 1814” – dalla quale prorompeva il malcontento e la disaffezione alla Francia dei lombardi. Riferendosi alle recenti vittorie della Coalizione antifrancese, non esitò a scrivere: “Dico che Iddio coi ben pugnanti ha vinto;/ Che a ragion si rallegra il popol nostro.” Le forze alleate non erano certo portatrici di pace, ma la loro avanzata lasciava sperare che l’ecatombe della gioventù italiana stesse volgendo al termine. Invero, agli occhi del poeta nonché a quelli della maggioranza della popolazione del Regno Italico, il sacrificio di tante vite alla megalomania d’un tiranno straniero costituiva un misfatto crudele e insensato. Destinato ad esplodere a Milano il 20 aprile, tale risentimento emerge esemplarmente da un sonetto anonimo che circolò fra i milanesi subito dopo l’armistizio di Schiarino Rizzino, accordo che stabiliva il ritorno in patria delle truppe francesi di stanza nel regno: Dove o Francesi? Alle paterne mura. Chi vi sprona? Il valor Russo e Germano. Dov’è il vostro valor? È un nome vano.

14 Cfr. G. Melzi, Francesco Melzi d’Eril. Memorie, documenti e lettere inedite, I, Milano, 1865. Un “témoin oculaire” scrive: “La verité est que le vice-roi perdit beaucoup de monde, et sacrifia sur-tout beaucoup d’Italiens dans ces entreprises extrêmement hasardées, où il cherchait à se faire une grande réputation militaire”. Anon. (Chevalier S.J.), Dernière campagne de l’Armée Franco-Italienne sous les ordres d’Eugène de Beauharnais en 1813 et 1814, Parigi, 1817, p. 28. 15 Cfr. G. de Castro, Principio di secolo: Storia della caduta del Regno Italico, Milano, 1897, pp. 139-140. Se non maggioritario, il partito filo-francese era comunque molto forte. Circa lo stato d’animo degli italiani fra la fine del 1813 e l’inizio del 1814, scrive il de Laugier: «Tutto prese moto, attività, e vigore,

Da soldati di carriera quali erano, né Codazzi né Ferrari, nell’aprile del 1814, avevano una chiara nozione del bene e del male che il dominio napoleonico aveva arrecato all’Italia. Entrambi si erano arruolati attratti da un mestiere fra i più qualificati del tempo, ricco di promettenti sviluppi professionali ed in grado di convogliare la loro gagliardia e i loro impulsi patriottici; ma un mestiere, allo stesso tempo, avulso dalla vita politica ed economica del Regno. Di fatto, trascorsero sotto le armi, oppure nel chiuso di scuole reggimentali, caserme e accampamenti, gli anni cruciali che videro l’espandersi dell’opposizione ai metodi di governo francesi; e sebbene a loro volta non simpatizzassero con i camerati dell’Armée, venne a mancare loro l’opportunità di condividere il malcontento popolare o anche solo di capirne le ragioni. Quantunque fossero stati addestrati a ‘fare storia’, non erano però ugualmente preparati a coglierne il significato ed i risvolti: la disciplina, l’esprit de corps, il codice d’onore e l’ideale eroico mal si conciliavano con il discernimento. Subito dopo il loro ritorno dall’America, nel 1823, apparve a Parigi e a Lugano, a firma di Federico Coraccini, un interessante compendio delle vicissitudini del Regno Italico durante la dominazione francese. Codazzi era un buon lettore, ma è assai improbabile che quest’opera figurasse fra i suoi livres de chevet, se non altro a causa dei controlli polizieschi a cui erano sottoposti gli abitanti del Serraglio. Se avesse potuto scorrerla, avrebbe appreso un’importante lezione rispetto ad una storia che, forse, sul momento non aveva capito appieno. «Epilogando il fin qui detto, scrive Coraccini, la nostra popolazione crudelmente decimata, s’era veduta pel corso di nov’anni rapire un’immensa quantità di braccia svel-

ove l’impero di Napoleone estendevasi. L’Italia, ad imitazione della Francia, spiegò dal fondo delle Calabrie fino alle Alpi, una immensa energia, per riempire i vuoti cagionati nel grand’esercito dai disastri della campagna di Russia (...) La nostra penisola non ebbe mai tanti dei suoi figli sotto i vessilli militari come in quest’epoca... essi furono organizzati nel capo luogo di ciaschedun dipartimento Italiano, e composero dei corpi totalmente Italiani», C. de Laugier, op.cit., XII, p. 51. Più avanti ribadisce: «Ormai quasi che assuefatta la gioventù all’idea d’esser al militar servizio soggetta, partiva lieta e soddisfatta, colla lusinga delle gloriose ricompense che i valorosi attendevano. E questo spirito era tanto piú radicato quanto più antica era la dependenza dei dipartimenti Italiani alla Francia», ivi, p. 182.


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23. J.B. Bosio (da), Il Principe Eugenio Napoleone, ca. 1808, inc.


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24. P.A. Hennequin, da, Allegoria della libertà dell’Italia, 1797, inc.


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te all’agricoltura ed all’industria, il nostro territorio era stato in gran parte devastato da continue guerre. Il nostro sangue erasi sparso da lungi pegl’interessi d’un ambizioso sovrano, che invano studiavasi di farci considerar come nostri». Aveva avuto nozione di ciò il nostro eroe mentre studiava balistica a Pavia? Certamente no: sebbene paghino il prezzo più alto, i soldati sono sempre gli ultimi ad afferrare il terribile costo della guerra. La disamina di Coraccini prosegue implacabile: Il nostro commercio esterno era stato distrutto col chiudere ogni via di sfogo e di uscita alle nostre derrate, nel medesimo tempo che un sistema oppressivo d’imposte ed una amministrazione dispendiosa che aveva più di mira l’ostentazione che la solidità, scemavano il nostro benessere ed esaurivano le nostre risorse. Le coste ed i litorali del Regno erano stati continuamente esposti agl’insulti di tutte le potenze in guerra con Napoleone; e curvati sotto un giogo di ferro, noi eravamo rimasti, si può dir, senza patria.

Un lasso di nove anni – dal 1805 al 1814 – che Codazzi e Ferrari avevano trascorso in gran parte acquartierati o in campagna, e del quale alla fin fine sapevano ben poco. Mancavano loro, in particolare al lughese (il più giovane dei due), termini di paragone con la situazione anteriore, cioè, con le condizioni dell’Italia prima dell’arrivo dei francesi. «Dopo di avere indicato il male che ci fu fatto sotto si arbitrario regime – prosegue Coraccini – fa d’uopo altresì convenire, che l’amministrazione generale, considerata nelle sue diverse diramazioni, aveva provato dei miglioramenti sensibili». Un progresso notevolissimo si era verificato, per esempio, in campo giuridico, ove «un sistema giudiziario fondato sopra un piano meglio concepito, e più illuminato, offriva una garanzia ai cittadini di tutte le classi». Di conseguenza s’era dissolto il discredito che aveva contrassegnato l’amministrazione della giustizia fino all’epoca anteriore: Non si temeva più di vedere, come altre volte, i colpevoli d’un certo rango sottrarsi alla vendetta pubblica per privilegj, e sfidare insolentemente la giustizia. Il nobile ed il plebeo erano uguali innanzi alla legge, ed era uno spettacolo nuovo per noi il vedere il primo deporre nanti la magistratura il fasto de’ suoi titoli, e l’orgoglio della sua nascita.

Il crimine era ancora diffuso, ma era da attribuirsi al clima di eccezione creato dagli incessanti richiami alle armi piuttosto che all’inefficienza della polizia. Fra le cagioni della delinquenza, osserva Coraccini, primeggiava: Lo stato di guerra e d’invasione, nel quale vivemmo quasi continuamente durante quel periodo politico, anziché alla mancanza d’una polizia vigilante ed attiva, secondata dall’instituzione d’una gendarmeria numerosa, e saggiamente sostituita a que’ birri, i quali un tempo incaricati di prevenire o di reprimere i delitti, ne divenivano sovente gl’istromenti.

Anteriormente, la polizia si era limitata a perseguire i faziosi e i turbolenti, astenendosi dall’investigarne le opinioni e meno ancora le coscienze. La riforma aveva messo fine a quel tempo in cui:

25. Codice Napoleonico, 1804.

I capi stessi della polizia, sedotti dall’oro de’ malfattori o dei loro complici, soffocavano senza farsi alcun scrupolo, mediante una lungheria calcolata, l’indignazione che avevano eccitata i delitti più atroci, e ponevano in non cale i principi conservatori dell’ordine sociale, non arrossendo di lasciare la società oltraggiata senza la dovuta vendetta.

Soprattutto «non si aveva più a temere lo scandalo offerto dalla debolezza di alcuni governi precedenti, i quali per liberare il loro territorio dalle bande degli assassini che lo infestavano, non arrossivano di transigere con essi, e di accordar loro de’ salvo-condotti per andarsene ad infestare altri Stati». Un altro titolo di merito dell’amministrazione francese riguardava l’accattonaggio: La mendicità, una delle più vergognose ed invelenite piaghe d’Italia, era scomparsa in parecchie grandi città del nostro Regno. Molte case di lavoro pubblico toglievano all’ozio tante braccia inerti e avvezze ad anneghittire per una mal’intesa pietà di chi lor prestava soccorso; la scioperatezza era stata costretta a pagare il suo tributo alla società, e degli asili erano stati aperti alla vera povertà, come degli ospitali all’umanità sofferente.

Nella lista delle mete raggiunte durante il periodo napoleonico, figuravano nuove istituzioni culturali: Un istituto nazionale, ove sedevano de’ sapienti utili, de’ letterati insigni, e degli artisti distinti offriva un nobile sco-


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ratori di basso livello creava un clima d’intesa democratica che a sua volta favoriva il benessere generale. In quanto al commercio interno, «era stato agevolato dallo scavo di numerosi canali, e dalla costruzione di magnifiche strade». Le finanze stesse, «che eccitavano sì giuste querele per l’aumento enorme delle pubbliche spese, erano però amministrate con ordine, e la regolarità che vi si era introdotta, preveniva almeno le dilapidazioni de’ subalterni». Anche la religione s’era beneficiata del generale miglioramento della vita pubblica: Il culto, ad onta delle soppressioni di alcune chiese e conventi, forse troppo moltiplicati, aveva ripreso sotto Napoleone la pompa ed il lustro che gli convengono, e che aveva perduto particolarmente ne’ primi anni del regime repubblicano.

Nel quadro tracciato dal Coraccini non potevano mancare i riferimenti alle forze armate, vanto del regno napoleonico d’Italia, costituite da: un esercito prode e disciplinato, comandato da capi istrutti e zelanti, diretto da un principe giusto, umano, e valoroso, i cui falli potevansi dir meno suoi che dei di lui consiglieri, provava l’idoneità invan contrastata degl’Italiani all’arte militare, e quanto da essi potevasi attendere, se non si avesse consumato il loro ardore in folli imprese, ed in conquiste si funeste ai loro proprij interessi.

Al termine di un’analisi apparentemente equanime e ponderata, l’autore conclude: 26. Pio VII benedice Napoleone I, ca. 1805, inc.

L’istruzione generalmente diffusa, e messa alla portata di tutti, mediante un sistema graduale di scuole, apriva una carriera a tutti gli aspiri ed a tutti i talenti. Fino alle stesse femmine n’era accordato l’accesso, e le famiglie che ne sentivano il pregio, potevano facilmente procurare alle loro figlie una educazione solida ed aggradevole in certe case, ch’erano loro specialmente destinate.

Bisogna dunque convenire, che delle opere buone, grandi ed utili sono state intraprese, e condotte anche a termine, durante il dominio francese; che un movimento vitale e favorevole a tutti gli spiriti è stato impresso; che le nostre facili e frequenti comunicazioni colla Francia, riuscirono vantaggiose ai nostri dotti, letterati ed artisti; che l’industria interna ha ricevuto un incremento notabile in questo periodo politico, massimamente nella capitale... Un cangiamento morale più importante s’è operato fra noi. Le nostre anime sono state, in certa guisa, ricreate. L’eccesso della servitù ha prodotto l’ordinario suo effetto: un amore più vivo per la libertà, ed un odio più forte per l’oppressione. Noi abbiamo finalmente ricavato dai nostri mali medesimi, che ci hanno oppressi finora, il sentimento della nostra dignità e della nostra forza.16

Si doveva anche rimarcare che erano stati introdotti incoraggiamenti ed onori anche «al merito umile», gratificazioni inattese che di solito sorprendevano i prescelti «nel loro modesto ritiro». Inutile dire che l’apprezzamento pubblico nei confronti dei lavo-

Nelle Legazioni, immerse nel clima guardingo della Restaurazione, la Storia del Coraccini venne sicuramente messa all’indice, per cui, come si diceva, è improbabile che Codazzi giungesse a conoscerla. Ma pur ignorandola, è presumibile che ne condividesse

po d’emulazione ad ogni sorta di merito, egualmente che un vincolo fraterno con tutte le altre dotte società dell’Europa.

Anche l’educazione pubblica aveva conosciuto un notevole miglioramento:

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Sotto lo pseudonimo di ‘Federico Coraccini’ si nasconde Giuseppe Valeriani, veneziano. In passato, altri hanno creduto di riconoscere Carlo Giovanni La Folie. Cfr. Rinaldo Caddeo in “L’Educatore della Svizzera Italiana”, 3, 1936 e “Rassegna Storica del Risorgimento”, 23, 1936, p. 1276. Guido Santato, in Il Giacobinismo italiano: utopie e realtà fra Rivoluzione e Restaurazione, Padova-Milano, 1990, p. 107, osserva che le simpatie giacobine non impediscono all’autore della Storia dell’amministrazione del Regno d’Italia durante il dominio francese di puntualizzare la «mancata realizzazione di quelle riforme agrarie che avrebbero potuto elevare i contadini alla condizione di proprietari, coinvol-

gendoli nel processo rivoluzionario, com’era accaduto in Francia». Nemmeno il coinvolgimento dei militari, quanto meno a livello di truppa e di ufficiali inferiori, fu importante. Entro certi limiti vale per loro ciò che Coraccini-Valeriani pensava del popolo in generale, e cioè che «non aveva partecipato all’esperienza rivoluzionaria per la ragione obiettiva che gli era stato negato un ruolo attivo al suo interno». Sintomatico a questo proposito è il il caso di Codazzi, le cui tendenze giacobine e il cui impegno di combattente per la libertà presero forma mentre svolgeva un ruolo personale non secondario in seno alla rivoluzione dell’América spagnola.


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27. R. Focosi, Milizie italiche in parata davanti a Napoleone, Milano 1797, 1845, lit. col.

La notizia della ‘rivoluzione’ di Milano, occorsa il 20 aprile, giunse a Mantova in un baleno. Anche nella culla dei Gonzaga il sentimento antifrancese era assai diffuso, per cui non sorprende che molti la salutassero con gioia. L’insofferenza nei confronti del governo e della persona del viceré era condivisa

perfino dai napoleonisti moderati, ma Beauharnais ne era all’oscuro oppure non dava l’impressione di preoccuparsene. «Bisogna credere che il principe Eugenio, il quale gemeva in Mantova tra le gravi cure della guerra, e tra le angosce per l’incertezza della sua situazione, non fosse inteso di quanto si vociferava», scrive il conte Guicciardi.17 Non per noncuranza, si premura di puntualizzare, ma per la perfidia dei suoi fedelissimi... dacché per colpa dei cattivi consiglieri «la verità non arriva che tarda e zoppa ai gabinetti dei principi».18 Secondo Guicciardi, Eugenio, fedele gregario dell’Imperatore (nonché figlio suo adottivo), cominciò a pensare ai destini del regno d’Italia, «e forse anche a se stesso», quando ebbe notizia del trattato di Fontainebleau e dell’abdicazione di Napoleone.19 In quel momento, Beauharnais giunse a credere che gli interessi dell’Italia coincidessero con

17 Anon. [Diego Guicciardi], Sulla rivoluzione di Milano seguita nel giorno 20 aprile 1814, Parigi, 20 novembre 1814. 18 Il conte Étienne Méjan, uomo di fiducia del principe, e il barone Antoine Darnay de Nevers, suo aiutante di campo. 19 Per un certo periodo il viceré godette dell’apprezzamento dei sudditi. Tuttavia, le critiche non mancarono mai. Era leale e coraggioso ma “un peu léger, trop docile pour ceux qui flattaient ses goûts, n’ayant point assez étudié le caractère des peuples qu’il gouvernait”, scrive un memorialista anonimo. “On n’a reproché au prince Eugene qu’un petit nombre d’abus de pouvoir”, precisa in un altro punto, e spiega: “[il principe] ne fut pas toujours bien dirigé par quelques hommes de son Conseil”; aggiunge poi che “on lui a reproché d’avoir contraint quelques proprietaires de Monza à

lui vendre leurs métrieries pour agrandir le parc de sa maison de plaisir, ainsi que d’avoir déterminé, par un décret, les fabriciens d’une église à lui vendre un superbe tableau qu’il voulait acheter”. Non solo ma “on l’accusa néanmoins d’un penchant décidé à la parcimonie; et l’ordre qu’il établit dans les dispenses du palais fut en effet empreint d’un peu de mesquinerie”. La parsimonia permise al principe di ammassare una notevole fortuna: “Les économies qu’il avait faites e qu’il a emportées de Milan passent pour très considérables; et la régence provisoire, qui s’empara du gouvernement, le lendemain du 20 avril 1814 ne trouva presque rien dans les coffres. La caisse d’amortissement même, formée des retenues faites sur les employés subalternes de la maison royale, resta vide”. Anon., Dernière campagne..., op.cit., p. 122 e ss.

la visione. La sua ottica filo-francese si era formata a Lugo nei primissimi anni del secolo, per poi consolidarsi a Pavia fra il 1810 e l’inizio del 1813. Tuttavia, le esperienze vissute nel periodo immediatamente successivo – un anno di passione – non poterono non far nascere in lui riserve analoghe a quelle espresse da Coraccini. Se ciò non accadde durante la sanguinosa campagna di Germania, si produsse al rientro in Italia, ovvero, nei pochi mesi che precedettero la dissoluzione dell’Impero e del Regno Italico.


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l’orizzonte in fuga

Dopo l’armistizio con Bellegarde, [il principe Eugenio] diffuse un proclama a’ Francesi congedandoli, e facendosi credere Re d’Italia. I suoi partigiani spargevano che bisognava, per conseguenza, obbedire al Vice-Re che parlava sì positivamente; i suoi nemici lo trattavano da pazzo vanaglorioso: ma gli uomini avveduti, ed italiani deliberati, videro che con quel proclama egli voleva illudere gli Alleati, facendo credere che gl’Italiani lo preferivano ad ogni altro principe, e illudere gl’Italiani, quasi che gli alleati lo avessero investito con trattative secrete del principato d’una parte almeno del Regno. Questa condotta bassa inasprì tutti gli animi. 21

28. F.-X. Fabre, Ritratto di Ugo Foscolo, 1813, dis.

i propri e viceversa. Di conseguenza, sottoscrisse l’armistizio di Schiarino Rizzino non per calcolo bellico, bensì per poter proporre alle potenze alleate che «il regno [d’Italia] fosse chiamato a parte della pace generale... e godesse finalmente della sua indipendenza».20 Sulle preferenze degli italiani riguardo al loro futuro monarca, il Principe non nutriva alcun dubbio. Le parole con cui si congedò dalle truppe francesi che rientravano in patria, furono dettate dalla certezza che la Corona Ferrea fosse ormai sua: Soldati francesi, nel separarmi da voi, altri doveri mi rimangono a compiere. Un popolo buono, generoso e fedele reclama il resto d’una esistenza che da dieci anni gli ho consacrata. Non pretendo più disporre di me medesimo fintantoché potrò occuparmi della sua felicità, che è stata e sarà l’opera, siccome lo scopo di tutta la mia vita.

Ma, helás, i fatti di Milano misero fine al suo intento d’incoronarsi re d’Italia, impedendogli così di seguitare ad allietare l’avvenire degli italiani con la stessa generosità e lo stesso impegno dimostrati in passato. Secondo il Foscolo, Beauharnais peccò allo stesso tempo d’imprudenza e di bassezza: 20 Lo zar Alessandro I aveva confidato a Giuseppina Beauharnais che se gli italiani avessero voluto il principe Eugenio per sovrano, egli avrebbe caldeggiato la cosa presso gli alleati. 21 Ugo Foscolo, “Frammenti di storia del Regno Italico”, in Opere edite e postume di Ugo Foscolo. Prose politiche, Firenze, 1850, p. 278.

A Milano successe questo: convocato dal guardiasigilli del regno, Melzi d’Eril, il Senato si riuní in sessione straordinaria domenica 17 aprile. D’accordo con Beauharnais, Melzi d’Eril era certo di poter convincere i senatori a varare un decreto che autorizzasse una deputazione del senato stesso a recarsi dall’imperatore d’Austria, «all’uopo di ottenere l’indipendenza del regno, e l’elezione del re nella persona del principe Eugenio». Tuttavia, poiché «per dire il vero in quel momento i suffragi della nazione non concorrevano a favore del principe», il decreto approvato fu diverso: una delegazione di tre membri fu incaricata d’impetrare alle potenze della Coalizione la finale cessazione delle ostilità e «il godimento reale» dell’indipendenza del Regno... senza però proporre il nome di Beauharnais. Sebbene fosse contraria ai franciosanti, sia gli austriacanti che gli italici puri si opposero a tale risoluzione, sostenendo che le decisioni riguardanti la nazione erano di competenza dei collegi elettorali e non del senato. Quando il 20 aprile questo tornò a riunirsi, una folla incontenibile e furente, spinta da un gruppo non meglio identificato di ‘congiurati’, ne invase la sede, devastandola. Indi si diresse all’abitazione del ministro delle finanze, l’odiato Prina, e prelevatolo lo massacrò. Il giorno successivo, giovedì 21, il consiglio comunale di Milano nominò una reggenza provvisoria di governo, escludendone ovviamente i franciosanti. La notizia della sommossa pervenne al viceré la sera stessa del 20 aprile – per telegrafo – , mentre fra le truppe acquartierate a Mantova cominciò a spargersi il giorno successivo. Costante Ferrari non ne fa cenno, ma, in quanto capitano, dovette venirne a conoscenza rapidamente; non solo, dovette ricevere altresì l’ordine di prepararsi a marciare su Milano. Non v’è dubbio che lo venisse a sapere anche Codazzi, ed è anzi probabile che pure il suo reggimento fosse posto in stato di allerta. Sull’atteggiamento delle milizie italiche rispetto ai fatti di Milano, il Foscolo abbozzò un quadro che non pare del tutto aderente al vero. «I soldati italiani – si legge nella Lettera Apologetica – non udirono di quella rivoluzione se non da lontano, e guardavano intorno tuttavia sbalorditi dal modo della caduta di Napoleone, sì che avevano perduto ogni cura di sé e della patria e di tutto». Assai diverso è il punto di vista di un ufficiale in servizio attivo come Ferrari, secondo cui l’apprensione e lo sgomento che pervase le truppe in quei giorni di aprile non scalfì la loro volontà di battersi sia per l’onore delle armi che per l’indipendenza dell’Italia. Ciò che


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29. L’eccidio del ministro Prina, stampa polare ottocentesca.

mancò loro – e che Foscolo dipinge come apatia – fu determinazione e unità d’intenti da parte dei comandi superiori. Comunque sia, l’autore dei Sepolcri, che presenziò inorridito la rivolta milanese, ivi compreso il linciaggio del ministro Prina, riepilogò come segue i fattori che si coniugarono in essa:

Anche l’opinione di Alessandro Manzoni, che a sua volta presenziò la sommossa, era pressoché opposta a quella del Foscolo, ma non per questo necessariamente affine alla posizione dell’amico Confalonieri. In una lettera a Claude Fauriel del 24 aprile si riferì brevemente ai fatti di qualche giorno prima:

In quel tumulto tramato e maturato dal danaro e dall’impotente vendetta di pochi patrizi, fomentato dal ministero instupidito per la caduta dell’astro napolenico, che li lasciò tutti confusi nelle loro tenebre, provocato dall’importuna e fanciullesca ambizione del viceré, ed eseguito dalla plebaglia avida di stragi, d’anarchia e di rapine – in quel tumulto entrò la feccia di tutti i partiti giacobini stolti e avventati, che speravano la democrazia; fraudi e vendette sacerdotali; v’entrò in alcuni il desiderio degli Austriaci, come nel ‘96; in altri il terrore de’ Francesi; se mai avessero potuto e voluto vendicarsi, almeno per pochi giorni; v’entrò sopra tutto la meschina e potentissima ne’ Milanesi, vanità municipale, e l’orgoglio patrizio, e mille altre specie di passioni, di odi, di desideri, di fazioni politiche; e tutte basse, inermi, senza consiglio, senza capi, senza fine determinato, senza mezzi probabili.22

Mio cugino vi racconterà la rivoluzione che si è compiuta da noi. Essa fu unanime, ed oso dire, sapiente e pura, quantunque sia stata, pur troppo, macchiata di sangue; poiché certo che quelli i quali compirono la rivoluzione (essi formano la migliore e la maggior parte della cittadinanza) non c’ebbero che vedere; nulla è , anzi, più lontano dal loro carattere... Voi sapete, del resto, che il popolo è sempre un buon giurato ed un cattivo giudice.23

Fra i «pochi patrizi» denunciati dal Foscolo rientrava sicuramente Federico Confalonieri, che a detta di molti era stato l’aizzatore dell’uccisione di Prina.

Ma torniamo a martedì 26 aprile. Per non accrescere l’inquietudine della popolazione civile e delle truppe, il principe aveva deciso di abbandonare Mantova in piena notte, nascostamente.24 Ma la scriteriata preparazione del viaggio ne pregiudicò il piano, trasformando la sua partenza in una fuga rumorosa e accidentata. In redingote blu, il cappello calato sugli occhi lacrimosi, Eugenio apparve sulla soglia del palazzo alle tre in punto, dando il brac-

22 Foscolo alla contessa d’Albany, 16 maggio 1814; lettera citata da L. Ceria, L’eccidio del Prina e gli ultimi giorni del Regno Italico, Milano, 1937, p. 171. 23 A. de Gubernatis, Il Manzoni ed il Fauriel studiati nel loro carteggio inedito, Roma, 1880, p. 305. Il testo integrale dice: “Mon cousin vous racontera la révolution qui s’est opérée chez nous. Elle a été unanime, et j’ose l’appeler sage et pure, quoiqu’elle ait été malheuresement souillée par un meurtre, car il est sur que

ceux qui ont fait la revolution (et c’est la plus grande et la meilleure partie de la ville) n’y ont point trempé... Vous savez d’ailleurs que le peuple est partout un bon jury et un mauvais tribunal”. 24 Anon., Dernière campagne... op.cit., p. 119. Questo misterioso autore riferisce: “Il [Beauharnais] comptait s’échapper à l’insu de l’armée, dont une partie n’avait pas reçu la solde depuis plusieurs mois; mais la clandestinité était difficile avec tant de bagages et une nombreuse famille”.


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cio alla giovane moglie, Amalia Augusta, appena ristabilita dall’ultimo parto, avvenuto due settimane innanzi.25 Trentatré anni lui, ventisei lei, la coppia, dopo i commoventi addii degli ufficiali della Guardia d’Onore, prese posto su una carrozza a sei cavalli. Similmente ad Eugenio, che non dissimulava l’abbattimento, Amalia appariva afflitta e sofferente: il ricordo delle sfavillanti soirées succedutesi da quando, nel 1806, era divenuta vice-regina d’Italia, rendeva ancor più lugubre la notte, notte, in effetti, che un languido quarto di luna crescente non con-

tribuiva affatto a rischiarare.26 L’alba sarebbe sorta di lì a poco spazzando via, ahimè, non l’oscurità che ricopriva il futuro bensì i sogni del passato. «I destini che sembrano i più brillanti non sono sovente che fuochi fatui, che abbagliano in un istante, e ci lasciano poi nelle tenebre», ebbe a scrivere pochi anni dopo Federico Coraccini riandando con la memoria a quel periodo.27 (Per inciso, tale sfolgorio affascinò anche il Foscolo, che riteneva Amalia Augusta «bellissima fra le giovani, e d’indole angelica»).28 Nella seconda carrozza presero posto i quattro figlioletti, nella terza la neonata Teodolinda con la nutrice e le ancelle, nella quarta la duchessa Litta e altre dame del seguito, nella quinta gli ufficiali di corte, nella sesta e la settima i servitori. Seguivano numerosi carri e furgoni con gli ingenti bagagli. Non appena i passeggeri si furono accomodati, operazione non semplice alla fioca luce dei lumi, i dragoni della scorta si avviarono al trotto verso l’uscita del castello, piombando rumorosamente sul ponte levatoio. Nelle tenebre, il fragore degli zoccoli dei cavalli sull’antico tavolato, del tutto simile a scariche di fucileria, non poteva non espandersi funestamente sia all’interno che all’esterno delle mura, e così fu. Benché innervositi i cavalli della carrozza reale traversarono spigliatamente il ponte di San Giorgio raggiungendo la sponda orientale del Mincio. Ma la seconda carrozza ebbe minor fortuna. Atterriti dal frastuono che colmava la notte, non appena imboccarono il ponte i due cavalli della pariglia di volata «presero a saltare, a deviar di strada, e caddero nel Mincio, in questo punto largo e profondo».29 Un frangente tremebondo che avrebbe potuto degenerare in tragedia se non fosse stato per l’eroico intervento di un soldato italico: «Capivolti e ciondoloni [i due quadrupedi] stavano per trascinar seco loro gli altri cavalli e la carrozza, quando un dragone della guardia precipitatosi da cavallo, tagliò a colpi di sciabola le tirelle, e salvò l’innocente famiglia del viceré».30 Prevedibilmente, «quest’accidente cagionò un terribile spavento al principe e alla principessa», non solo per il pericolo corso dalla figliolanza ma fors’anche per inquietanti rimandi simbolici: quei cavalli disorientati e spauriti non rassomigliavano forse

25 Ibid. “Le prince, en redingotte bleue, le chapeau enfoncé, avait un air fort triste et les larmes aux yeux ; la princesse laissait apercevoir à travers son voile, la physionomie la plus suffrante et la plus abattue.” Teodolinda, quinta nata, vide la luce a Mantova il 13 aprile 1814. 26 Otto anni fitti di feste, cacce, processioni e amorevolezza. Scriveva Eugenio ad Amalia il 4 marzo 1814: “Je suis monté à cheval aujourd’hui comme à mon ordinaire, et croirais-tu que j’ai trouvé des violettes, je te les envoie; elles me rappellent l’heureux temps où nous les cueillions ensemble. Patience, il reviendra bientôt”. Non da meno, Amalia rispondeva: “Courage! Mon ami, nous ne méritons pas notre sort: notre tendresse, notre bonne conscience, nous suffiront et, dans un simple cabane, nous trouverons le bonheur que tant d’autres cherchent inutilement sur les trônes”. Ai milanesi, la vice-regina risultava particolarmente gradita. Si legge nelle Mémoires sur la cour du prince... op.cit.: “Quant à la vice-

reine, elle charmait tout le monde par son aménité, par sa modestie et par ses grâces, en même temps qu’elle transpirait une profonde vénération par ses vertus. C’est une de ces femmes rares, dont on pouvait dire que, pour trouver une tache dans sa vie, il aurait fallu l’inventer”. I milanesi, per contro, non godevano della stima di Amalia Augusta, che li considerava infidi e ingrati. Cfr. F. de Bernardy, Eugène de Beauharnais, 1781-1824, Parigi, 1973, passim 27 Cfr. F.Coraccini, op.cit., p. 78. 28 Correva voce che la bella Amalia, già promessa al principe di Baden, avesse acconsentito di malavoglia a sposare Eugenio. Ma con il tempo era sopravvenuta la dedizione. È appunto al suo amore coniugale che Foscolo dedica una strofa delle “Grazie”, laddove Maddalena Bignami reca ad Amalia il cigno che questa offre agli dei grata per il ritorno del consorte dalla guerra. 29 C. de Laugier, op.cit., XIII, pp. 368-369. 30 Ibid.

30. A. Appiani, Ritratto di Amalia Augusta di Baviera, 1806-1807.


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31. Commiato di Napoleone I, Fontainebleau 31 marzo 1814, inc.

alle Loro Altezze? Non si dirigevano anch’esse verso l’abisso? Non appena uno squadrone di ussari ungheresi, inviato dal maresciallo Bellegarde, ebbe rilevato la scorta italiana, l’ansia si acquietò. Amalia Augusta, che «accoppiava ai pregi della bella persona quelli altresì dell’intelletto e del cuore»31, sapeva di poter contare sulla protezione del padre, Massimiliano I re di Baviera, alla cui corte la coppia era di fatto diretta. Il castello di Schleissheim rivaleggiava con la villa reale di Monza, ed il parco in cui era immerso era addirittura superiore; per non dire dei boschi circostanti, adattissimi alle battute di caccia. Anche se quella che spuntava non era esattamente «l’aurora d’un felice avvenire», non appariva neppure così minacciosa: il fato non avrebbe mandato altro dolore, e il pericolo testè scampato ne era l’annuncio.32 Eugenio, dal canto suo, era sicuro di poter ottenere dagli alleati, in base al trattato di Fontainebleau, 29

C. de Laugier, op.cit., XIII, pp. 368-369. Ibid. 31 Melzi d’Eril, op.cit. 32 Carlo Botta, Storia d’Italia dal 1789 al 1832, IV, Parigi, 1832, p. 437. 33 Du Casse, op.cit. 34 Il Congresso di Vienna convenne di assegnare al Beauharnais un principato di 50 mila anime da ritagliare dal regno di Napoli. Dopo una lunga trattativa, che vide gli inglesi schierati dalla parte del re delle Due Sicilie, il principato venne scambiato con un’indennità di 12 milioni di franchi, poi ridotti a 5. Cfr. 30

“un établissement convenable à son rang et à la haute position qu’il occupait depuis 1805” [una sistemazione adeguata al suo rango e all’alta posizione che occupava dal 1805]: non la corona del Regno d’Italia, ormai sfumata, ma almeno un principato.33 Era inoltre deciso a difendere l’appannaggio concessogli nel 1810 da Napoleone (si trattava di 2.300 tenute agricole e 137 palazzi urbani nelle Marche, facenti parte in origine dei beni della Chiesa), manovra coronata poi dal successo.34 Invero, “seul à peu près de tous les membres de la famille de Napoleón, le prince Eugène trouva, après la chute de l’Empire, une existence convenable à son rang et put jouir d’une veritable tranquillité”. [Il principe Eugenio fu l’unico, fra quasi tutti i membri della famiglia di Napoleone, che dopo la caduta dell’Impero potesse godere di un’ esistenza all’altezza del suo rango e d’una vera tranquillità].35 Non per nulla era uno degli uomini più ricchi d’Europa. “Rassegna storica del Risorgimento”, 42, 1955, p. 580; Du Casse, op.cit., p. 275. 35 Du Casse, op.cit., p. 264 e ss. L’appannaggio consisteva in beni da poco confiscati a conventi, monasteri, enti religiosi, ecc. Si trattava complessivamente di 2300 appezzamenti, 138 edifici urbani e un’ottantina di opifici e mulini, tutti situati nelle Marche (regione che nel 1808 era stata annessa al Regno d’Italia), in particolare nei dipartimenti del Metauro e del Musone (province di Pesaro e Urbino, Ancona, Macerata). Fra gli edifici figurava il Palazzo Reale di Ancona (poi chiamato Palazzo dell’Appannaggio).


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suite – annotò von Hügel – est allé faire une visite au Viceroi, qui, à cette occasion, avoit l’aire calme; ses créatures conservoient toujours encore leur petit air d’impertinence.” [Il Maresciallo accompagnato da tutto il

seguito si è recato in visita dal Viceré, che, in questo caso, appariva calmo; i suoi figli mantenevano ancora quell’arietta impertinente]. Giovedì 28, il principe rese la visita al

maresciallo. Von Hügel, che la presenziò, ne trasse la stessa impressione del giorno anteriore: tanto Beauharnais come il suo seguito avevano l’aria distesa, quasi compiaciuta. Il barone, sconcertato, annotò: “A nous voir vis-à-vis de la suite du Viceroi, personne ne pourroit hésiter un instant de nous prendre pour les battus.” [Vedendoci al cospetto del seguito del Viceré,

nessuno avrebbe dubitato un solo istante a scambiarci per gli sconfitti]. 37

Ancorché per molti mantovani la partenza del viceré rappresentasse uno «sgravio», essa provocò rabbia e indignazione nella maggior parte dei sudditi del Regno Italico, e a nulla servì che egli, poche ore prima di mettersi in viaggio, augurasse loro ogni bene. Invero, al di là delle iperboli e degli eufemismi, il messaggio di commiato – date le circostanze – parve ipocrita, per non dire cinico (Foscolo l’avrebbe definito un «manifesto ciarlatanesco»38):

32. Ritratto del maresciallo von Bellegarde, ca. 1815, inc.

La prima tappa del viaggio fu a Verona. Il barone Clemens von Hügel, attaché del feldmaresciallo Heinrich von Bellegarde, il cui comando era situato appunto a Verona (da quando vi si era ritirato dopo la battaglia del Mincio), annotò sul proprio diario: Le 26 Avril – Les troubles continuent en Italie. Il y en a même à Mantoue; les troupes on demandé leur solde du Viceroi. Ce dernier est parti dans la nuit de Mantoue et est arrivé le soir a Vérone accompagné de toute sa suite et de la Vicereine. Le Gouvernement provisoire de Milan fait le diable à quatre, et l’armée italienne en est très mécontente. [26 aprile. In Italia continuano le agitazioni. Ce ne sono anche a Mantova; le truppe reclamano il soldo al Viceré. Questi è partito in piena notte da Mantova ed è arrivato in serata a Verona accompagnato dal seguito al completo e dalla Viceregina. Il Governo provvisorio di Milano fa il diavolo a quattro, e l’esercito italiano è assai scontento].36

La mattina successiva all’arrivo a Verona, Beauharnais ricevette la visita di Bellegarde e dello stato maggiore austriaco. In apparenza, i drammatici avvenimenti degli ultimi giorni non l’avevano scosso più di tanto. “Le Marechal accompagné de toute sa 36 F. Lemmi, La restaurazione in Italia nel 1814 nel diario del barone von Hügel, Roma-Milano, 1910, pp. 92-93. 37 Ibid.

Peuples du royaume! en quelque lieu que la Providence me place, le cours de mes affections ne peut plus changer. Depuis longtemps, le premier objet de mes voeux ne pouvait plus être que votre félicité. Italiens! soyez donc heureux! vous pouvez me devenir étrangers; mais indifférents, jamais...” [Genti del regno! Ovunque la Provvidenza mi conduca, il corso dei miei affetti non può più cambiare. Ho riposto a lungo ogni mia speranza nel vostro benessere. Italiani, siate felici! Un giorno sarete forse a me stranieri, ma indifferenti mai...]39

Il paragrafo più accorato del proclama era indirizzato all’esercito italiano: Et vous! brave armée italienne! soldats, dont j’emporte à jamais gravés dans mon coeur tous les traits, toutes les blessures, tous les services!... ces blessures reçues sous mes yeux!... ces services dont je vous ai procuré les justes récompenses!... Peut-être ne me verrez-vous plus à votre tête dans vos rangs, peut-être n’entendrai-je plus vos acclamations! Mais si jamais la patrie vous rappelle aux armes, j’en suis sûr, braves soldats, vous aimerez encore, au fort du danger, à vous rappeler le nom d’Eugène. [E tu, prode esercito italico! Soldati, i vostri volti, le vostre ferite, le vostre imprese resteranno incise per sempre nel mio cuore!... quelle ferite ricevute sotto i miei occhi!... quelle gesta per le quali vi ho fatto avere il meritato premio!... Forse non mi vedrete più al comando nei vostri ranghi, forse non udrò più le vostre acclamazioni! Ma se un giorno la patria vi chiamerà alle armi, oh valorosi soldati, sono certo che vi piacerà ancora, in mezzo al pericolo, ricordarvi del nome di Eugenio].40

Evidentemente, l’accenno alla patria non poteva piacere a dei soldati che l’avevano appena perduta, 38 39 40

U. Foscolo, Lettera Apologetica. Citato da Du Casse, op.cit., p. 178. Ibid.


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33. Le truppe alleate entrano a Parigi, marzo 1814, inc.

non per viltà o inettitudine bensí per la defezione del loro comandante. Disarmando l’esercito, Beauharnais aveva consegnato i propri sudditi «inermi nelle altrui mani»: come poteva ad un tempo sostenere «di aver egli voluto giovare agl’italiani»?41 Nel momento stesso in cui aveva deposto lo scettro e rinunciato al comando delle truppe «[era cessato] in lui ogni potere, per trattare, in qualunque guisa, col nemico, delle sorti del regno». Avendo abdicato, egli aveva di fatto riconosciuto «l’autorità bene o male costituita, che il surrogava [la reggenza provvisoria] e doveva ad essa consegnare intatte e le fortezze e l’esercito». Dun41

C. de Laugier, op.cit., pag. 361. Come altri storici, anche Carlo Botta ritiene che la defezione di Beauharnais fosse motivata dal dispetto più che dal calcolo. Indignato per il rifiuto del senato di Milano di accoglierlo come sovrano del nuovo regno d’Italia, «il vicerè, che tuttavia sedeva in Mantova, diè la fortezza in mano degli Austriaci, atto veramente biasimevole, del quale perpetuamente la posterità accuserà Eugenio; imperciocchè gli uomini giusti e grandi non operano per dispetto, nè Mantova era d’Eugenio, ma degl’Italiani: miserabili calate dei Napoleonidi. Napoleone tutto stipulava per se, nulla pe’ suoi a Fontainebleau, Eugenio non solo nulla stipulava pe’ suoi, ma ancora tutto quel maggior male fece loro, partendo, che potè. Partiva da Mantova per la Baviera, le italiche ricchezze seco portando». C.Botta, op.cit., IV, p. 537. G. Martini parla esplicitamente di tradimento: «Trovavasi la piazza [Mantova] bene provveduta di munizioni da guerra e da bocca per 42

que, la resa concordata con Bellegarde il 23 aprile costituiva un atto arbitrario e indegno, disonorava le milizie italiane e macchiava indelebilmente la reputazione del principe. Era vieppiù esecrabile che questi avesse dato a conoscere l’avvenuta capitolazione poche ore prima di abbandonare Mantova.42 La notizia della resa «si tenne celata all’esercito sino alla sera del 26 [aprile]», riferisce De Laugier, e subito aggiunge: «Non è da dirsi il funesto effetto da essa prodotto nelle truppe. Si accusò il viceré (...) di venalità, di tradimento». Il tumulto fu tale che «senza le misure di previdenza adottate per diminuire precedentepiù mesi; agguerriti e fedeli, comechè poco numerosi, i soldati italiani; consenzienti molti capi dei francesi, fra i quali il generale Grenier che prometteva di aiutare con la sua schiera lo sforzo dell’esercito nostro, vergognoso di quei patti e del tradimento del vicerè... speravano infine di ottenere condizioni più convenienti al paese col far mostra di armi risolute ad opporsi ad una convenzione, la quale non altro seco portava che sciagure, danni e vergogne», cfr. G.Martini, Storia d’Italia continuata da quella del Botta dall’anno 1814 al 1834: parte prima 1814-22, I, p. 38. Il carteggio fra il principe e Massimiliano I, suo suocero, porta a credere ad una mossa premeditata da tempo, ritardata in attesa del “denouement”. D’altra parte Beauharnais sapeva di non godere dell’apprezzamento degli italiani. Se ne lamentò con Darnay il 17 dicembre 1813: “Vous comprenez qu’il ne gûere flatteur pour moi de voir huite années de pénibles travaux aussi mal payés par l’esprit public”. Cfr. F. de Bernardy, op.cit., p. 411 e passim.


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mente la guarnigione, e far entrare sollecitamente in Mantova un numeroso corpo austriaco, non ponno calcolarsi le conseguenze, che l’ira e l’accecamento poteva cagionare».44 In realtà, Beauharnais era decaduto da tempo nella stima delle truppe italiche, principalmente a causa del manifesto favore da lui accordato a quelle francesi. Tale preferenza si era fatta evidente durante la campagna di Russia, sfiorando a momenti livelli oltraggiosi. Il deterioramento dell’intesa fra il principe, allora comandante in capo dell’Armée, e i generali italiani si aggravò a partire da un incidente che s’impresse, forse ingigantito ad arte, nell’immaginazione della truppa, inducendola a rivedere il giudizio favorevole riservato a Beauharnais fino a quel momento. Irritato per l’insistenza con cui il generale Pino, capo dell’armata italiana, difendeva il buon diritto dei suoi uomini, il principe aveva troncato le rimostranze dell’ufficiale con una frase oltremodo ingiuriosa. Per i soldati italici si trattò di un’amara rivelazione, tale che scosse la loro fiducia non solo in Beauharnais ma anche nell’Imperatore.45 Riandando con la memoria ai caotici avvenimenti di quei giorni di aprile, Ferrari, dando sfogo alla propria amarezza di soldato e italiano tradito, li compendiò così: Ma indi a pochi giorni fu affisso un proclama che egli [Beahuarnais] lasciò partendo concepito in questi termini ‘La politica e le vicende del mondo mi chiamano altrove. Con dolore debbo abbandonare l’armata: ma però ho nel mio cuore l’Italia. Se il mio braccio fosse buono, sarei pronto ad adoperarlo per essa’. Nella notte più cassoni tirati da 4 e 6 cavalli uscirono da Mantova contenenti il tesoro del viceré, e al povero esercito nemmeno un bicchier d’acqua. Il giorno appresso si dové sgombrare Mantova con vergogna di chi reggeva temporaneamente l’esercito senza procacciargli nessuna guarentigia, nessun onorevole accordo. Sventurati italiani. Ahi! Male spesi nostri stenti, mal versato nostro sangue!

Le parole del reggino – vergate a oltre trent’anni dai fatti da un patriota risorgimentale – fanno eco al rancore che s’impadronì delle truppe italiane al momento di essere abbandonate, o piuttosto, ripudiate dal loro capo supremo. Al disinganno per la defezione di costui si sommava lo sdegno per i tempi e i modi in cui l’aveva messa in atto; per non dire del suo messaggio di addio, che dietro la commozione pareva celare lo scherno. I vieux mustaches come 34. Tamburino dell’esercito italico, 1806-1815, ca. 1820, acquatinta. 44 Melzi d’Eril, op.cit., p. 334. In proposito, si legge in Dernière campagne... op.cit., p. XV: “Devenu indifférent au peuple, il acheva [Beauharnais] de le mécontenter pendant la campagne de 1813 et 1814, par des conscriptions et des réquisitions forcées, mais surtout par les reproches de lâcheté qu’il adressa aux soldats italiens; tellement qu’au mois d’avril, il n’etai plus qu’un objet de haine”. 45 Cfr. C. de Laugier, Gli Italiani in Russia. Memorie di un ufiziale italiano, I, 1825, p. 388 e ss. Riferisce il de Laugier: «Una divisione francese, ed una italiana erano quasi contemporaneamente giunte in Dokszyce [agosto 1812]. Eravi un magazzino di biscotto sfuggito al saccheggio dei Cosacchi. I Francesi, presentatisi i primi, se ne impadronirono. Gl’Italiani sopravvennero e

ne richiesero la divisione. Essi avevano diviso, ed erano per dividere i patimenti, ed i pericoli; morivano di fame, i loro diritti erano eguali (...) Il generale [Pino] presentossi al principe Eugenio per farli valere. Il principe obiettò la presa di possesso, il diritto del primo occupante. Il generale resistè esponendo vivamente i bisogni urgentissimi delle sue truppe; egli era accompagnato da alcuni uffiziali (...) “Eh f... Signori, disse loro il principe, ciò che volete non è possibile. Se voi non siete contenti tornate pure in Italia, che non m’importa nulla né di voi né di lei [l’Italia]; sappiate che non temo più le vostre spade che i vostri stiletti.” La frase era terribile per cuori pieni d’onore, e consapevoli delle loro azioni. L’imbarazzo in cui era il principe non lo giustificava. Egli non doveva dimenticare che era viceré d’Italia; e che essen-


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Ferrari avevano combattuto per anni spinti da due ideali complementari, quello bonapartista e quello filo-italiano. Le prodezze e i sacrifici compiuti per conto dell’Imperatore in Spagna, in Russia o in Germania erano destinati, al di là delle contingenze belliche, alla costruzione d’un paese indipendente e unitario: l’esercito aveva dato il meglio di sé – sforzo attestato dalle molte migliaia di morti e feriti – per l’Italia, e non solo per la grandezza dell’Impero. Ma ora, mentre l’armata francese si accingeva a rivalicare il Moncenisio e Beauharnais fuggiva in Baviera, essi scoprivano che fra i due ideali non vi era mai stata corrispondenza. Amaramente, non restava loro che prendere atto di essersi battuti invano: dopo averla spremuta e dissanguata, dopo averle promesso unità e libertà, la Francia di Napoleone I abbandonava l’Italia alla sua sorte, ancor peggio, la consegnava nelle mani dell’Austria barattandola con “un établissement convenable” ai titoli dell’ex-viceré. A quanti Codazzi, a quanti Ferrari, a quanti veterani delle milizie italiche le strofe che Leopardi dedicò all’Italia nel 1818 non avranno richiamato alla memoria l’aprile del 1814? Versi dolenti che, oltre a rimarcare l’inanità del sangue versato, denunciavano la stoltezza di coloro che, fatti carne da cannone, si erano sacrificati ai disegni altrui: A che pugna in quei campi L’itala gioventude? O numi, o numi: Pugnan per altra terra itali acciari. Oh misero colui che in guerra è spento, Non per li patrii lidi e per la pia Consorte e i figli cari, Ma da nemici altrui Per altra gente, e non può dir morendo: Alma terra natia, La vita che mi desti ecco ti rendo.

Come reagirono i soldati della classe ‘93, appena ventunenni, ai fatti di quell’anno terribile? Erano in maggioranza coscritti arruolati da pochi mesi, per lo più di estrazione contadina, illetterati, sordi ai richiami patriottici e inclini alla diserzione. Ciò che premeva loro, invero, non era né la gloria militare né l’indipendenza del Regno; non odiavano il nemico, di cui sapevano poco o nulla, bensì il governo, quel governo che da anni reclutava a viva forza la povera gente, per la rovina dei campi e delle famiglie. Il male, per i coscritti, s’incarnava nei signori della guerra, in se parlava però ad Italiani. Gli animi ne rimasero esacerbati, e parve loro scorgere a nudo quello del principe». Lo stesso sentimento era condiviso dagli ufficiali inferiori. 46 Nel 1802 il Compagnoni presentò a Melzi d’Eril un rapporto sulla situazione della nazione dal titolo Considerazioni sulle relazioni politico-diplomatiche della Repubblica italiana. In esso espose lo stato delle relazioni internazionali, raccomandando il potenziamento dell’esercito e dell’istruzione pubblica in quanto pilastri di una repubblica sovrana. Nelle Considerazioni, Compagnoni «sviluppava l’ideologia della coscrizione obbligatoria come fattore di potenza e ‘scuola’ della nazione. L’autore pro-

35. Uniformi dell’esercito italico, 1806-1815, ca. 1820, acquatinta.

coloro che li strappavano alle loro case e li portavano a morire senza un perché. Aveva un bel dire Giuseppe Compagnoni che la coscrizione obbligatoria era un fattore di «potenza» e «scuola» della nazione!46 Nella sua prospettiva di ideologo d’una patria repubblicana nata ad opera delle armi francesi e resa forte dalle armi italiane, ciò era sicuramente giusto. Ma dal punto di vista dei villici romagnoli o lombardi, la paponeva infatti di introdurre l’educazione militare nella pubblica istruzione e di levare ogni anno 15.000 coscritti con ferma triennale, riunendoli in nuovi corpi “onde non avessero a corrompersi amalgamandosi coi soldati che abbiamo” ed eliminando man mano i mercenari». Cfr. Virgilio Ilari, Storia Militare del Regno d’Italia, I, I, pp. 205-266. Lo stesso studioso osserva giustamente che l’autore delle Considerazioni nutriva «l’ingenuo ottimismo dell’ideologo senza piedi per terra», inclinazione che lo portò a proclamare che «la coscrizione avrebbe fatto cessare le diserzioni e che ad ogni bisogno la Repubblica [avrebbe avuto) una difesa formidabile».


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36. Ritratto di Giuseppe Compagnoni, inc.

tria era la terra, non una repubblica o una nazione, ed era appunto sulla terra che essi si educavano. Ad onta di questo retrogrado attaccamento alla gleba – espressione di caparbietà ma non certo di audacia –, non mancava chi li considerava animati da un genuino spirito guerriero. Rispetto alla leva del 1812, posteriore alla campagna di Russia, il De Laugier annota: «Ormai quasi che assuefatta la gioventù all’idea d’esser al militar servizio soggetta, partiva lieta e soddisfatta, colla lusinga delle gloriose ricompense che i valorosi attendevano». L’animo dei coscritti, osserva ancora De Laugier, era tanto più fiducioso quanto più antica era la dipendenza dalla Francia dei dipartimenti di provenienza. In effetti, con il susseguirsi delle leve e l’inasprirsi delle sanzioni, il fenomeno della renitenza era andato diminuendo. Tuttavia, l’avversione al servizio militare non era affatto scemata, anzi, dato l’esito funesto della campagna di Russia, si era rinvigorita, aumentando di pari passo il numero delle diserzioni. Ciò porta a pensare che De Laugier, un valoroso ufficiale distintosi giovanissimo in Spagna e in Russia, attribuisse ai coscritti un ardore bellico che nella generalità dei casi non provavano minimamente, così come non nutrivano passioni patriottiche. Se da una parte Compagnoni ravvisava nel servizio di leva e nell’educazione militare – a suo dire inscindibile dalla pubblica istruzione –, fattori peda-

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gogico-politici di consolidamento civile e nazionale, dall’altro De Laugier era convinto che il futuro dell’Italia dipendesse dal risveglio delle virtù marziali degli ufficiali e dei soldati del Regno. In realtà, l’ufficialità italiana era incapace d’inquadrare la questione militare in una prospettiva veramente politica e nazionale. «Selezionata in base al tasso di conformismo, la maggioranza [degli ufficiali] non vedeva nell’esercito altro che la carriera delle armi.»47 Quantunque il risentimento antifrancese fosse più diffuso tra i militari che tra i civili (per la semplice ragione che le occasioni di attrito, nel caso dei militari, erano proporzionali all’assiduità dei loro contatti con i commilitoni transalpini), l’astio nasceva da una visione corporativa, non nazionale, ed era semmai controproducente sotto il profilo politico. Invero, «non si trattava di sparlare alle spalle dei padroni francesi o magari provocarli in qualche rissa fra ubriachi, ma di servire con disciplina, dignità e senso di responsabilità un grande progetto politico nazionale».48 Ma ciò era assente dal loro limitato orizzonte: il patriottismo da caserma, ai fini dei destini delle nazioni, ha sempre fatto più male che bene. Nondimeno, è importante precisare come l’atteggiamento dei soldati volontari fosse sostanzialmente diverso da quello dei coscritti; un rilievo lapalissiano, che purtuttavia aiuta a captare le tensioni sottese ad un esercito composto da individui e ceti sociali diversi piuttosto che contrapposti: da un lato coloro che consideravano la carriera delle armi la più nobile delle professioni, dall’altro coloro che la reputavano fonte di indicibili sciagure. Inutile dire che fra i primi campeggiavano i napoleonisti, cioè, quei volontari convinti che guerreggiare per l’impero equivalesse a battersi per una repubblica italiana a venire. Lo credevano ancora, oppure le ultime vicende ne avevano scosso la fiducia? Conosciamo la risposta. A partire dalla campagna di Russia, il culto del Grand’Uomo aveva perso molti adepti. La lealtà del nostro artigliere alla causa ‘italiana’ si protrasse fino all’ultimo, ma ciò non vuol dire che perdurassero i suoi sentimenti filo-francesi. Il fatto che, dopo lo scioglimento dell’esercito, si unisse all’Italian Levy di lord Bentinck piuttosto che alle schiere di Murat, dimostra che l’amore per la Francia era sbollito. Dopo il funesto epilogo della campagna di Germania si andò impossessando di lui, come s’impossessò della maggior parte delle milizie italiche, una crescente disaffezione verso il mito napoleonico e il paese transalpino. Disaffezione che mutò in rancore quando si rese conto che per i francesi l’Italia equivaleva non ad uno stato alleato ma ad un mero possedimento, possedimento che, in quanto tale, poteva essere sguarnito, ceduto e barattato.

47 V. Ilari, “Pianificazione e spese militari del Regno Italico e del Regno Murattiano”, tratto da Storia Militare del Regno Italico, op.cit.; inoltre Storia Militare del Regno Murattiano, 2007. 48 Ibid.


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Ai superstiti della divisione Fontanelli (ivi compreso Codazzi), rientrati in Italia dalla Germania il 15 novembre 1813, Napoleone fece pervenire un messaggio con cui li assicurava che la condotta tenuta nella recente campagna e nelle guerre anteriori li rendeva «degni di essere chiamati per primi alla difesa del loro paese».49 Vi era di che inorgoglirsi, non solo per il riconoscimento del valore e dei sacrifici compiuti, ma anche per l’allusione alla «difesa del paese»: i soldati italici si sarebbero battuti in prima linea a salvaguardia dell’Italia, guidati e sostenuti dall’Imperatore, al quale le sorti del fedele alleato – sembrava sottintendere il messaggio – erano care come quelle della Francia.50 Al pari dei suoi commilitoni, anche il lughese dovette rallegrarsene. Infatti, chi avrebbe potuto immaginare che le parole di Napoleone racchiudevano non una promessa, bensì un infausto avvertimento? Fra i soldati in armi, nessuno avrebbe creduto che l’Imperatore avesse deciso da tempo di abbandonare il Regno al suo destino... ma era così: l’armata francese di stanza nella penisola sarebbe rimpatriata, per cui la difesa del suolo italico, minacciato dai quattro punti cardinali, sarebbe ricaduta esclusivamente su quel che restava dell’armata italiana. Invero, Buonaparte non confidava più nel futuro dell’Italia. Il 17 dicembre scrisse a Beauharnais dicendogli: “il me semble important que vous gagniez les Alpes avec toute l’armée”.51 Non alludeva ad un arretramento tattico ma ad una ritirata definitiva e dunque alla cessione dell’Italia al nemico. Per questo concluse consigliando il figlioccio di riportare con se in Francia ogni suo avere: “(...) ayant soin d’amener l’argenterie et autres effets de la maison, et caisses, etc.” (consiglio che Beauharnais, come sappiamo, seguì a metà: si portò dietro tutto il suo e molto di più, ma anziché dirigersi a ponente se ne partì per il settentrione). Simili per certi versi, Codazzi e Ferrari si differenziavano per altri: per l’età, per il grado, per l’arma di appartenenza e soprattutto per l’anzianità di servizio e i trascorsi bellici. Mentre Ferrari aveva combattuto in Spagna per l’intera durata della campagna, dal 1808 a tutto il 1813, guadagnandosi i galloni sul campo, l’esperienza di guerra di Codazzi si limitava ai pochi mesi trascorsi in Germania e poi sul Mincio. Anche se entrambe si combatterono su suolo straniero concludendosi con ritirate, le campagne di 49

La divisione Fontanelli, della quale faceva parte il reggimento di artiglieria a cavallo agli ordini del colonnello Gaetano Millo, si mise in marcia per l’Italia il 6 novembre 1813. «Non si numeravano allora che 3000 uomini e 500 cavalli», afferma lo Zanoli. All’arrivo in Germania, sette mesi prima, la divisione Fontanelli, già Peyri, aveva una forza totale di 19 mila 422 uomini, 5822 cavalli con 28 cannoni. Ai primi di giugno, quando Fontanelli rilevò il comando, il numero era già sceso a 14 mila uomini. Cfr. A. Zanoli, Sulla Milizia Cisalpino-Italiana. Cenni storico-statistici dal 1796 al 1814, II, Milano, 1845; inoltre G. Jacopetti, Biografie di Achille Fontanelli, di Francesco Teodoro Arese e di Pietro Teulie, Milano, 1845.

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37. Napoleone I imperatore di Francia e re d’Italia, inc.

Spagna e di Germania erano assai diverse: non solo perché la prima si protrasse per anni e la seconda per mesi, ma anche perché l’una terminò con un ripiegamento, l’altra con una débâcle. Per questo, lo stato d’animo dei veterani della campagna di Spagna era assai diverso da quello dei superstiti della campagna di Germania. Ferrari apparteneva ad un reggimento malconcio ma sostanzialmente invitto, Codazzi, invece, era scampato ad una disfatta e al cedimento che ne era seguito. A differenza di Ferrari, dunque, il lughese aveva sperimentato lo sgomento e la demoralizzazione del vinto. In effetti, nel giro di pochi mesi i volontari italiani non solo videro cadere la maggior parte dei loro camerati, non solo assaporarono l’amaro della scon50

Dopo la battaglia di Hanau, da cui le truppe italiche uscirono pressochè annientate, Buonaparte dispose che il generale Fontanelli rientrasse in Italia in qualità di ministro della guerra (incarico che aveva occupato in precedenza), con l’ordine espresso di «rifondere l’esercito italiano con tutti i mezzi possibili; eccitare lo spirito nazionale ad un estremo sforzo per arrivare alla meta de’ suoi voti, ed assicurarlo ch’ei, l’imperatore, avrebbe sollevato il Regno Italico dal contributo dei trenta milioni verso la Francia», Iacopetti, op.cit., pp. 29-30. 51 J. de Norvins, Défense des operations militaires du Prince Eugène, in “Journal des Sciences Militaires des Armées de Terre et de Mer”, VII, 1827, p. 159.


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38. R. Focosi, Rassegna delle truppe italiane, 1807, litogr. col.

fitta, ma videro infrangersi il mito di Napoleone e con esso il mondo illusorio entro il quale erano cresciuti. Nell’aprile del 1814, la guerra, ai loro occhi disincantati, aveva ormai un significato opposto a quello che le avevano assegnato inizialmente. All’indomani della battaglia del Mincio, Tascher de la Pagerie informò l’imperatore che “l’armée est belle et animée d’un excellent esprit!”. Non era vero. Benché un ritorno di fiamma avvolgesse per un istante i veterani della guerra di Spagna, i reduci dalla Germania, «divenuti quasi insensibili per le dure fatiche, le malattie contagiose, il difetto di vitto e lo scoraggiamento», si limitarono a seppellire i morti, sicuri che fossero caduti invano. Ma neppure questo era vero. Con il loro sacrificio le vittime avevano confutato la nota equazione del Machiavelli secondo cui gli italiani, non possedendo virtù militari, non potevano essere indipendenti.52 Negli anni bui della Restaurazione, divenne palese che detto spirito di sacrificio, lungi dal disseccarsi nei cimiteri di guerra, sopravviveva nei reduci. Di fatto, osserva Francesco Frasca, “à la Restauration, les anciens soldats partisans de Napoléon, presque partout pourchassés, furent les plus fermes soutiens du mouvement unitaire et libéral: Carbonari, Adelfi, Filadelfi, etc”.53 Le milizie italiche si batterono per altri e furono tradite nelle loro aspirazioni politiche – prosegue Frasca –, purtuttavia costituirono il crogiolo dell’indipendenza: “Finalement, l’armée italienne avait été le creuset où les éléments les plus hétérogènes venaient se fondre en un métal unique, qui servit à forger une arme solide et tranchante pour les guerres d’indépendance italiennes.” Resta però da stabilire in che cosa consistesse l’“armée italienne”, se fosse un’entità co-

esa e temprata, come si addice ad una forgia, oppure un insieme composito e raccogliticcio destinato a disgregarsi e a disperdersi. In altre parole, dall’esercito del Regno Italico colò un metallo unico o dei residui sparsi? Non vi è dubbio che, individualmente inteso, il servizio nell’esercito del Regno Italico fu spesso determinante al fine della formazione d’una coscienza nazionale e di sentimenti patriottici; ed è altrettanto indubbio che tale coscienza e tali sentimenti sfociarono poi in “une arme solide et tranchante pour les guerres d’indépendance italiennes”.54 Ma alla luce delle esperienze di personaggi quali Codazzi e Ferrari, scorgere nell’ esercito il crogiolo dell’indipendenza italiana può causare qualche perplessità. Oltre che un apprendistato, esso fu, in molti casi, forgia di spade e d’intrepidezza; tuttavia, non costituì né il germe né il glutine dell’unità della penisola. Il progetto nazionale sorse altrove, ad opera dei giacobini. Furono costoro, infatti, a capire che la causa dell’indipendenza faceva tutt’uno con quella democratica e che il solo modo per perseguirla era l’azione rivoluzionaria, non la guerra. Dal loro punto di vista, battersi sotto bandiera francese o austriaca significava comunque sacrificarsi per il nemico, un 52

Machiavelli si riferì alla debolezza militare come causa dell’asservimento della penisola nell’Arte della Guerra, nel Principe e nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio. 53 F. Frasca, Les Italiens dans l’Armée napoléonienne: des Légions aux Armées de la République italienne et du Royaume d’Italie, in “Etudes Napoléoniennes”, IV, Paris, 1998. 54 F. Frasca, Les Italiens dans l’Armée française: recrutement et encadrement, tesi di dottorato dell’Università di ParisSorbonne PARIS IV, 1992. Materiale on-line.


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39. R. Focosi, Rassegna delle truppe italiane, 1812, litogr. col.

nemico opportunista e spergiuro che, al di là delle promesse, considerava la penisola una provincia di conquista. Ma come poteva una popolazione inerme sollevarsi in armi e portare a compimento la rivoluzione? E inoltre... quale popolazione, visto che alle masse – lazzari e cafoni – l’emancipazione promessa dagli ideologi giacobini ripugnava ancor più del dispotismo dell’Ancien Régime? I disegni rivoluzionari e le aspirazioni unitarie si scontravano con l’impotenza, l’incomprensione e le fazioni politiche. Queste ultime, «sostenute da ferocia di plebe senza nerbo d’esercito», spianavano il cammino all’oppressione straniera. Insomma – si doleva Foscolo – se da un lato i soldati italici combattevano stolidamente per gli stessi predatori della penisola, dall’altro i civili, gretti e divisi, erano incapaci di ribellarsi al secolare servaggio... mentre la plebe si stringeva attorno agli altari. In una celebre invettiva posta in calce agli scritti destinati al progettato libro Della servitù dell’Italia il poeta esclama furente: Italiani, voi non siete più un popolo, non dovete avere più storia. La nazione che ostenta la boria del nome, e non sa farlo rispettare col proprio coraggio; che si lamenta dello stato servile, e non ardì sollevarsi con tutta l’Europa, fuorché a parole, all’indipendenza; sì fatta nazione somministra ragioni di deriderla come vana e occasioni di giovarsi delle sue ricchezze e riprometterle libertà, ed aggregarla a nuovi popoli conquistati. Or sì fatta nazione è la vostra. Adunque siate servi e tacete!55

Codazzi si presentò volontario nel 1810, a 17 anni forse non compiuti. L’anno prima ai fenomeni abituali della renitenza alla leva e della diserzione si era aggiunto quello ben più serio dell’insorgenza, localizzata principalmente in Alto Adige e in Romagna (solo a Bologna vennero fucilati 29 rivoltosi). Il ban-

ditismo investì anche la Romandiola, e Lugo, come si evince da una lettera del Compagnoni a Valentino Rossi, si distinse per l’efficacia con cui seppe soffocarlo. Ciò lasciava presagire che la coscrizione per il 1810 non avrebbe raggiunto il contingente previsto di 12 mila reclute. Il 14 novembre 1809 il prefetto del Reno aveva scritto al ministero che i coscrittti si davano latitanti prima ancora di ricevere la lettera di requisizione, specie «nelle comuni aperte e montane» ove l’avversione al servizio militare era «più decisa e generale» e la coscrizione era «odiosa» e «guardata con occhio d’orrore e disprezzo» (nel distretto militare del Rubicone, che comprendeva anche Lugo, la situazione era analoga). A sua volta, il prefetto del Tagliamento era ricorso all’opera di convincimento del clero, ricordando ai parroci che – nel nome di Dio – dovevano inculcare «rispetto, obbedienza, sommessione alle leggi». Tuttavia la leva andò bene.56 All’opposizione generalizzata alla coscrizione obbligatoria faceva da contraltare l’entusiasmo di quei giovani di provincia, appartenenti al ceto medio ed istruiti, che ritenevano la carriera delle armi il mezzo più idoneo al raggiungimento delle loro mete ideali e pratiche (ed è appunto a costoro che si riferisce il De Laugier). Fino ad allora le milizie italiche avevano condiviso la gloria dell’Armée, passando di vittoria in vittoria. È perciò comprensibile che per Codazzi e i suoi simili – diciassettenni istruiti e inquieti – la guer55

Ugo Foscolo, Discorsi della servitù dell’Italia ovvero Questioni intorno alla indipendenza dell’Italia, 1814-1815. 56 Virgilio Ilari, Reclutamento e coscrizione in Italia durante le guerre napoleoniche in Storia militare del Regno Italico, op.cit Il sorteggio dei coscritti dava luogo ad accuse di manipolazione e favoritismo che spesso degeneravano in proteste violente.


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40. Artiglieria a cavallo, esercito di Sassonia, 1813, inc.

ra costituisse un’occasione dorata, l’unica in grado di emanciparli dalla grettezza provinciale e di realizzarne le aspirazioni personali. (È inutile sottolineare che i volontari, rispetto ai coscritti, rappresentavano una percentuale minima, proporzionale alla scarsità numerica del ceto medio provinciale nell’ambito del Regno Italico). I tre anni trascorsi a Pavia dovettero convincere il lughese di aver imbroccato la strada giusta (o per dirla alla Pangloss «la migliore delle strade possibili»). Forse continuò a crederlo anche durante la marcia che, nella primavera del 1813, condusse il reggimento di artiglieria a cavallo in Sassonia. Ma giunto colà le cose cambiarono. Il battesimo del fuoco, per lui, avvenne a Königswartha, nelle ore pomeridiane del 19 maggio. Napoleone aveva ordinato che il IV corpo d’armata al comando di Henri Bertrand si riunisse con le truppe di Michel Ney, in previsione di un attacco su Bautzen. Bertrand, a sua volta, aveva disposto che della manovra di congiunzione s’incaricasse la divisione italiana al comando di Luigi Peyri. Di fatto, questi raggiunse Königswartha, ad una lega appena dall’armata di Ney, nel pomeriggio del 19 maggio, sostandovi in attesa dell’arrivo del grosso delle truppe di Bertrand. Sopraggiunse invece l’attacco in forze del nemico: La divisione Peyri, che fiduciosa attendeva l’arrivo di quest’ultimo [Bertrand] attaccata improvvisamente dal ne-

mico verso le 6 del pomeriggio, mentre poco e male si guardava, venne a trovarsi in una situazione assai critica.57

Il primo a sostenere l’attacco fu il generale Sant’Andrea, che, radunate alla meglio le truppe sbigottite, riuscì a contenere parzialmente l’avversario. Sebbene lo scontro si protraesse per poche ore, le malaugurate circostanze entro le quali si produsse per poco non causarono l’annientamento dell’intera divisione. Alla fine, il disastro poté essere scongiurato, ma ad un costo altissimo in perdite umane e materiali. «Il combattimento – osserva uno storico militare – specie in principio, fu addirittura tumultuario, sia perché... i nostri erano stati sorpresi e sia perché l’azione si svolgeva in parte nei boschi prossimi al villaggio, in terreno cioè assai coperto».58 Finalmente la divisione riuscì a formarsi in quadrato, l’artiglieria del maggiore Armandi si mise in batteria, e cominciò così una resistenza più ordinata, ma sempre in condizioni d’inferiorità. Per fortuna, «quando la situazione andava facendosi sempre più tragica, comparve la cavalleria del V corpo, guidata da Kellermann, che felicemente disimpegnava la disgra57 N. Giacchi, Gli Italiani in Germania nel 1813, USSME, Città di Castello, 1914, p. 152 e ss. Giacchi ricalca la ricostruzione di A. Zanoli, op.cit., I, pp. 226-227. 58 Ibid.


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41. Artiglieria a cavallo, esercito austriaco, ca. 1813, acquatinta.

ziata divisione italiana.» Malgrado le perdite subite («1290 uomini furono presi prigionieri unitamente al capo di stato maggiore, generale Balathier, trafitto da cinque ferite, altri 1600 uomini furono uccisi e feriti, 4 pezzi e tutti i bagagli furono perduti») «gli Italiani dettero non comuni prove di valore, stimolati dai generali Peyri, Martel, Sant’Andrea, dai comandanti di corpo, e dagli ufficiali tutti».59 Scrivendo a trent’anni di distanza dall’accaduto, Giacomo Lombroso, autore delle note Vite dei Primarj Generali e Ufficiali che si distinsero nelle guerre Napoleoniche, ne offre una versione particolareggiata e decisamente critica: Il general Peyri trascorreva rapidamente il cammino che il guidava all’incontro di quel duce [Ney], allorché giungendo nelle vicinanze della piccola città di Königswartha veniva informato da’ suoi scorridori che il maresciallo non era lungi che una lega. A tale annuncio il general Peyri sostava, pago di risparmiare alle sue truppe quel faticoso viaggio in un’ ora cosi calda sul fitto meriggio, per cui trascorrendo, come sovente accade, dall’uno all’altro estremo, mentre da prima di null’altro era così premuroso che di spingersi avanti per ricongiungersi al maresciallo, depose quasi ogni pensiero di guerra da che fu certo che Ney si sarebbe riunito a lui... Fermo in questa sua determinazione il general Peyri cadde nell’imperdonabile errore di ordinare alla divisione intera di riposarsi e fare la zuppa, mettendo a fasci le armi, qualché fosse stato in piena pace nel centro di paese amico, e non già a pochi passi dai Russi. Egli pose il colmo alla inconcepibi-

le sua improvvida negligenza, omettendo le precauzioni di uso, trascurando di perlustrare i boschi vicini, né tampoco pensò a collocare i posti di sicurezza a garanzia delle truppe che egli esponeva così disarmate in balia del nemico... Uno sbaglio cosi grossolano sarebbe stato appena appena perdonabile in un giovine ufficiale assunto al grado per diritti degli avi, e che vedesse per la prima volta il fuoco, ma come mai condonarlo ad un canuto generale, invecchiato sotto le armi, ad un generale che erasi distinto cotanto nelle guerre del Tirolo e della Catalogna; guerre che esigevano, nel duce che le dirigeva, un complesso ammirabile di finezza, di valore e di perizia? Dimentico di sé stesso, Peyri erasi pacificamente collocato nell’interno del castello, riposandosi a suo bell’agio e facendovi riposare le sue truppe sparse qua e là alla rinfusa, senz’armi e senza precauzioni, intente sole a rifocillarsi, sdraiate al rezzo degli alberi onde ripararsi dai cocenti ardori del sole. I comandanti delle artiglierie stesse e dei bagagli, giunti verso le tre ore pomeridiane, ricevono ordine di entrare nella vasta corte del castello, di staccare i cavalli e riposarsi essi pure per poter seguire a tempo opportuno il movimento della divisione. Intanto i generali russi, altrettanto vigili, quanto indolente mostravasi l’italiano duce, avevano dal vicino bosco potuto a loro bell’agio esplorare quanto accadeva nel campo di Peyri, e non perdettero un istante ad approfittarne; e quasi sicuri di quella preda, disposero chetamente le loro truppe per sorprendere quel corpo prima che Ney giunger potesse in suo soccorso. Eran le quattro pomeridiane allorché i Russi, rinforzati da molti Prussiani, sbucavano impetuosi dal lato di Ratibor sugli Italiani i quali, in gran parte

59

Ibid.


l’orizzonte in fuga

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42. Panoramica della battaglia di Lutzen, ca. 1814, acquatinta.

anche novelli nell’armi, sbandansi, sorpresi così disarmati, sparsi, senza ufficiali, senza duci, senza guida. I più inesperti fuggivano alla ventura, senza direzione, mentre i pochi provetti tentavano di rannodarsi e di avvicinarsi ai fasci d’armi da cui già sono intercisi, giacché prima cura dei nemici quella si fu di impedire ai soldati italiani di riprendere le armi che giacevano qua e là ammonticchiate, come è di costume nei momenti consacrati alla ricreazione... I cannonieri soprattutto mostrarono in quella giornata cosa valgono gli uomini in guerra, nei cimenti, nei pericoli, e gli uomini non già abbrutiti da eccedente disciplina, ma bensì quelli penetrati dai doveri che la divozione e la gloria delle bandiere sotto cui combattono ad essi impongono. Quegli intrepidi artiglieri divisi spontaneamente e senza alcun ordine fra loro gli incarichi e le cure, vegliavano chi ai cannoni onde non cadessero nelle mani dei Russi; chi correva alle scuderie per estrarre i cavalli ed attaccarli ai pezzi per muoverli verso qualche sbocco e condurli alla aperta per potersene servire; chi infine atterrava una parte del muro dal lato opposto a quello per dove erano entrati i nemici, ed aprivano così un varco sicuro a quelle artiglierie che pervennero in tal modo a porre in salvo.60

Sebbene riuscisse in extremis ad evitare la catastrofe, il generale Peyri venne comunque esautorato ed il comando della divisione passò pro tempore al generale Sant’Andrea (in attesa dell’arrivo dall’Italia del generale Fontanelli). Oltre alla ricostruzione del Lombroso, dello scontro di Koenigswartha ci sono pervenute varie testimonianze dirette, una di queste 60 Giacomo Lombroso, Vite dei primarj generali ed ufficiali italiani che si distinsero nelle guerre napoleoniche dal 1796 al 1815, Milano, 1843, pp. 397-400.

a firma di Pier Damiano Armandi, che quel fatidico 19 maggio si ritrovò a comandare l’artiglieria. In un rapporto diretto al colonnello Ruggero Bidasio stilato il 5 giugno si legge: Il giorno 12 maggio p. p. ho dovuto per superiore disposizione prendere il comando dell’artiglieria italiana, servita dalla 1ª e 13ª compagnia del Reggimento da Lei Comandato. Ho in seguito avuto parecchie occasioni di condurre al fuoco le predette due compagnie, e testimonio dell’intrepidezza, istruzione, calma e disciplina con cui si sono diportate, non che del buon contegno loro in ogni altra occasione di servizio, mi credo in dovere signor colonnello, di raccomandarle alla di Lei bontà, assicurandola che ambedue, ma particolarmente la prima, hanno ottimamente meritato del nome Italiano e dell’Arma. Al disastroso affilare di Königswartha dove la divisione forte di circa 4000 uomini fu sopraffatta da almeno 16 mila nemici, si può dire che l’artiglieria salvò le altre truppe. La sola 1a compagnia era presente a quel fatto con 8 bocche da fuoco ed ebbe la presenza di spirito di porne due in batteria a pochi passi dai plotoni nemici che caricavano le nostre truppe nel villaggio. Il capitano Verna fece varie scariche di mitraglia assai micidiali che arrestarono per un momento la furia degli assalitori e permisero alla divisione di riordinarsi. Egli è vero che i cannonieri furono vittima del loro zelo. I due sergenti capi pezzi Colleoni e Delfini e parecchi cannonieri caddero sotto la baionetta russa, come ella vedrà dal qui unito rapporto, ed a noi non fu possibile di salvare che la metà delle nostre bocche da fuoco, ed anche queste insanguinate sotto le ferite dei cannonieri che le avevano difese. E più è da osservare che tutti i cannonieri morti e feriti sono stati percossi di baionetta e non di arma da fuoco, tanto era la vicinanza a cui si combatteva. Io che ho veduto l’intrepidezza di questi bravi non posso che compiangere vivamente la loro perdita. Al sortire dal villaggio l’artiglieria sostenne sempre i quarrè (sic)


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43. Panoramica della battaglia di Bautzen, ca. 1814, acquatinta.

Il maggiore Armandi, già direttore dell’arsenale di Brescia, apparteneva al reggimento di artiglieria a cavallo agli ordini del colonnello Millo.62 Durante la campagna di Germania il comando effettivo di detta unità, limitatamente alle compagnie impiegate colà, ricadde su di lui e sui capisquadrone Neri e Ferrari.63 Nel rapporto citato, però, egli loda la condotta di due compagnie appartenenti al reggimento di artiglieria a piedi agli ordini del colonnello Ruggero Bidasio, tralasciando di riferirsi alla propria unità. A prima vista, ciò sembrerebbe indicare che quest’ul-

tima non fosse presente allo scontro; tuttavia, è più probabile che l’omissione si debba ad un riguardo di Armandi nei confronti sia di Bidasio, il destinatario del rapporto, che del codice militare, basato sul principio ubi maior minor cessat. In questa prospettiva, non sarebbe affatto strano se per correttezza nei confronti del colonnello, il maggiore avesse sorvolato su ciò che lo riguardava personalmente, vale a dire, il comportamento dei propri uomini.64 Se così fosse, sapremmo per certo che ad impartire il battesimo del fuoco all’artigliere Codazzi furono i russi di Barclay de Tolly il 19 maggio 1813, nel corso d’un episodio avvilente ma non meno formativo. Infatti, se per un verso le circostanze furono tali da scoraggiare un soldato alle prime armi, per l’altro una matricola ricettiva come il lughese dové trarne una lezione indimenticabile. Ciò, in primo luogo, perché quel giorno a guidarlo fu un comandante valoroso che, con perizia e sangue freddo, raccolse la truppa allo sbando e la rincuorò, sollecitandola a far fronte disciplinatamente alle forze nemiche.65 Ancor

61 Armandi a Bidasio, “Rapporto in data 5 giugno 1813”, Arch. di St. di Milano, Cartella 45 A, Ministero Guerra. Citato da N. Giacchi, op.cit. 62 Cfr. M. Persico, C. Remino, “Le fucine della Valle Trompia alla base della metallurgia bresciana”, in Storia dell’Ingegneria. Atti del 2o. Covegno Nazionale, Napoli, 2008, I, p. 1110. 63 A. Zanoli, op.cit., p. 351. 64 A Koenigswartha Armandi rilevò il maggiore Vincenzo

Giacosa al comando della 1.a e 13.a compagnia di artiglieria a piedi, coadiuvato dal capitano Giuseppe Verna. Fra gli aneddoti diffusi dai discendenti di Codazzi, uno fra i più gustosi narra le circostanze dell’arruolamento di quest’ultimo, appena diciasettenne, ad opera appunto di Armandi. Cfr. M. Longhena, Le Memorie inedite di Agostino Codazzi, Milano, 1930. 65 Cenni sull’attuazione di Armandi e Verna a Koenigswartha in A .Zanoli, op.cit., pag. 226.

della infanteria sino al raillement, e degli ultimi a ritirarsi fu il capitano Verna con un pezzo fiancheggiante un plotone comandato dal signor generale S. Andrea, dove si trovava anche il tenente Caraffolli in mia compagnia. Malgrado le rivalità di mestiere che vi sono alcune volte fra corpo e corpo, tutta la Divisione e i signori generali ed ufficiali superiori resero in quel giorno onorevole testimonianza all’artiglieria e lo stesso generale in capo lo ha saputo. Il signor tenente Caraffolli colpito nel piede da una palla ricusò di ritirarsi malgrado i forti dolori, né mai volle scostarsi dal mio fianco e mi segui pure il 21 a cavallo sul campo di Bautzen.61


l’orizzonte in fuga

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più importante, a Königswartha Codazzi scoprì – o lo scoprì a Bautzen o a Lipsia o ad Hanau – che la guerra era orribile. Nei tre (pur fantomatici) anni trascorsi a Pavia presso la Scuola Teorico Pratica di Artiglieria se ne era fatto un’idea diversa, più nobile, comunque meno sporca e sanguinolenta. Ma le belle uniformi, il decoro, la fierezza... tutto svanì in poche ore per colpa di un’orda di cosacchi imbaldanziti dalla vodka. Nelle Memorie, Codazzi non accenna minimamente all’accaduto. Non solo, ma Koenigswartha non rientra nemmeno fra i ricordi di guerra trasmessi ai congiunti. Lo rimosse perché mancava d’un adeguato ingrediente epico? Certamente no, visto che di eroismo, quel 19 maggio, ne fu prodigato in quantità. Perché se ne sbarazzò, dunque? A causa delle umilianti circostanze dello scontro oppure per il fatto puro e semplice che si trattò di uno scacco? I ricordi di guerra del lughese – sia quei pochi relativi al periodo napoleonico che quelli ben più folti riguardanti gli anni americani – privilegiano comprensibilmente gli eventi vittoriosi, in particolare se lo coinvolgono in prima persona. Come si è detto nel capitolo anteriore, Codazzi giunse a nutrire dell’eroismo un’idea non convenzionale, più legata all’impegno civile che al valore bellico, ma ciò non vuol dire che in gioventù non lo concepisse come la maggioranza dei suoi commilitoni, cioè, come una prodezza individuale all’altezza dell’Albo napoleonico. Ci si rendeva degni dell’iscrizione compiendo un beau geste, un atto leggendario. Al riguardo, è illustrativo un episodio, tramandato dai discendenti di Codazzi, relativo alla battaglia di Lutzen, combattutasi il 2 maggio 1813: In questa battaglia, la prima a cui prese parte Codazzi, accadde che la sua compagnia fu inviata a difendere una posizione di particolare importanza, con l’ordine di passare per le armi chiunque avesse abbandonato il proprio pezzo. Il nemico piazzò una grossa batteria proprio di fronte a quella di Codazzi. In breve, quest’ultima si ritrovò decimata sicchè il capitano spedì un tenente a chiedere rinforzi. Nel frattempo le perdite aumentarono a tal punto che rimasero in vita unicamente il maresciallo Codazzi ed un soldato. Essi continuarono a far fuoco fino a quando il soldato cadde ferito mortalmente. Rimasto solo, Codazzi decise di rimanere al proprio posto ed ebbe l’audacia di montare a cavallo del cannone in attesa della morte. In quel momento sopraggiunsero i rinforzi, agli ordini del maggiore comandante dell’unità. Questi gridò a Codazzi: Che fai lassù? Ed egli rispose: ici foutu en attendant la mort!66

Ma torniamo alla primavera del 1814. Era consapevole il nostro eroe di ciò che accadeva attorno a sé? Nel momento in cui il Regno d’Italia crollò e l’eser-

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Cfr. D. Magnani, Agustín Codazzi, Bogotá, 1881, p. 6.

cito venne disciolto, Codazzi non aveva ancora compiuto 21 anni. Era un maresciallo alle prime armi, reduce da una campagna disastrosa alla quale aveva preso parte in una posizione del tutto subalterna. I suoi trascorsi militari sommavano a due anni (o forse quattro) ma la sua esperienza bellica era di appena qualche mese. Aveva intrapreso la carriera militare per scelta e ciò comportava che, una volta congedato, avrebbe dovuto cercare un altro ingaggio. Comportava pure, ahimè, che da milite italico si sarebbe trasformato in mercenario. Comunque, ciò che più lo assillava non era tanto la situazione dell’Italia quanto il proprio avvenire. Non era mai venuto meno ai sacri principi del dovere e dell’onore, tuttavia l’orgoglio non gli impediva di avvertire l’illusorietà della condizione militare. Aveva voluto credere che il reggimento di Artiglieria a cavallo rappresentasse un’alternativa reale, ma si era sbagliato. Ora era davvero foutu. Devoto ad oltranza alla causa napoleonica, Ferrari, diversamente da Codazzi, riprese posto fra i resti dell’armata italica, questa volta agli ordini di Gioacchino Murat, l’ultimo discusso napoleonista. In quanto capitano della Guardia Reale e cavaliere della Croce di Ferro, il reggino non avrebbe potuto agire altrimenti: in gioco, per gli ufficiali del suo stampo, non vi era soltanto la leatà all’Imperatore ma anche e soprattutto il senso dell’onore militare. L’onorabilità era comune anche al lughese, tuttavia questi era un sottufficiale, un artigliere anonimo privo di convinzioni sedimentate, legato all’esercito italiano da un voto irriflessivo, dal quale si ritrovò affrancato a fortiori. Mentre per un soldato per vocazione come Ferrari la dedizione non aveva né limiti né scadenze, per il lughese sì ne aveva, e di fatto la sua promessa di fedeltà venne meno automaticamente, senza visibili contraccolpi. A differenza di Ferrari, che fin da adolescente si era realizzato attraverso la carriera delle armi, Codazzi abbordò la vita militare come un tentativo di fuga dall’orizzonte della sua terra natale. Non era insensibile alla religione delle armi, ma era uno spirito laico, e la curiosità esercitava su di lui un potere superiore a quello della fede. Ciò che gli premeva non era tanto coprirsi di gloria quanto conoscere il mondo. Intese sempre la carriera militare come un mezzo più che un fine: un mezzo per emanciparsi e farsi strada, vale a dire, per «solcare i più lontani mari, vedere le più remote regioni, e le molteplici e grandi opere della natura, da un’estremità all’altra di questa terra». In conclusione, mentre per Ferrari essere uomo significava essere soldato, per Codazzi un uomo era un uomo.


bell’italo regno

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44. L. Beyer, Soldati allo sbando, 1813-1815, inc.


45. Anon., Allegoria della fine della Republica Cisalpina, 1797, inc. col.


fumo di patria

Dopo la caduta del Regno, le milizie italiche vennero disciolte. Agli ufficiali e ai soldati di carriera venne offerto (o piuttosto concesso) di passare sotto bandiera austriaca. Molti accettarono, altri invece si rifiutarono perché attratti dalla prospettiva di continuare in armi non più per la Francia bensì per l’Italia. Richiami in questo senso giungevano da più parti. Il maggiore Pier Damiano Armandi e il capitano Costante Ferrari, per esempio, si unirono alle fila di Murat, il cui progetto di emancipazione della penisola parve convincente a buona parte dei soldati-patrioti. Agostino Codazzi, invece, si arruolò nell’Italian Levy di Lord Bentinck. Ma le promesse dei “liberatori” risultarono vane: ciò non solo per colpa di costoro ma anche per la mancanza, fra gli italiani, di un’idea comune, di una comune volontà di riscatto. A Codazzi, alla fine, ne venne in tasca una «buona gratificazione», pari a tre anni di paga, abbastanza per cominciare una nuova vita. Nel dicembre del 1815 i militi dell’Italian Levy riuniti a Genova vennero informati dell’imminente scioglimento del corpo. Di lì a pochi giorni, a ciascuno di loro venne consegnato un benservito a stampa, datato 16 gennaio 1816, sormontato dallo stemma britannico sorretto dal leone coronato e dal liocorno col motto “Dieu et mon Droit”.1 Quello del nostro eroe diceva (o avrebbe potuto dire): «Certifico io sottoscritto coll. Giambattista Ciravegna che il tenente in 2.a Agostino Codazzi del detto 3.o Reggimento

1

Cfr. Ilari, Crociani, Ales, Il regno di Sardegna nelle guerre napoleoniche e le legioni anglo-italiane (1799-1815), Novara, 2008, pp. 283-284. 2 Ibid. In verità, il nome di Codazzi non compare nelle liste degli ufficiali dei tre reggimenti dell’Italian Levy riportate da

ha servito per lo spazio di un anno e sette mesi non avendo in tutto questo tempo mai dato motivo di lagnarsi di lui, essendosi sempre diportato con buona ed onorevole condotta dando prove d’attività ed esattezza nel servizio, per i quali motivi gli rilascio il presente perché se ne possa valere dove il crederà necessario».2 Nel corso di quell’anno e sette mesi il mondo che Codazzi, ora ventiduenne, s’era costruito in gioventù, gli crollò addosso. Svanì il mito dell’invincibilità napoleonica, andò in malora il Regno Italico e si concluse la sua breve carriera militare nell’esercito italiano. Arruolatosi di seguito nell’Italian Levy di lord William Bentinck, assisté all’agonia della Repubblica di Genova (conclusasi il 12 dicembre 1814 con l’annessione al Piemonte). Incorporato alla spedizione anglo-siciliana contro Murat, nella primavera del 1815 presenziò la fine del sogno di un’Italia unita e indipendente. A Marsiglia, nell’estate successiva, fu spettatore del ritorno sul trono di Luigi XVIII e a Genova, alla fine dell’anno, dell’arrivo delle truppe sabaude. Nelle Memorie – che per quel che riguarda il periodo napoleonico sappiamo improntate ad un singolare riserbo – i mesi trascorsi nell’Italian Levy vengono narrati così: [Allo scioglimento dell’esercito del Regno Italico] venni in Patria e pochi dì mi ristette e passato in Genova presi servizio nelle truppe italo-britanniche sotto i comandi di Lord Bentinck al 3.o Regg. della leva ital. come cadetto. Passai di

Ilari. In proposito, è possibile che le liste fossero riservate ai soli ufficiali in servizio effettivo (e non a quelli di nomina). È possibile altresì che il lughese fosse stato distaccato presso l’artiglieria siciliana. Comunque sia, non vi è dubbio che fu congedato con il grado di tenente in seconda del corpo italo-britannico.


l’orizzonte in fuga

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46. L. Beyer, Soldati in marcia, 1813-1815, inc.

poscia nell’artiglieria e partì per la Sicilia alla discesa delle truppe napoletane negli stati pontifici. Rivenni poscia in Genova, indi a Marsiglia dopo accaduta la battaglia di Vaterloo, ove per vari mesi restai in guarnigione occupando allora il grado di tenente in 2.o e disimpegnando le funzioni di quartier mastro. Ritornai a Genova ove furono sciolte le truppe italo-britanniche (...) onde mi decisi a rivolgere altrove i miei passi.

Con ogni probabilità l’aiutante sottufficiale Codazzi si allontanò da Mantova poco dopo l’arrivo in città delle truppe di Bellegarde, avvenuto come si ricorderà il 27 aprile 1814, quando fu chiaro che per i soldati italiani non esisteva più un futuro. Da Lugo, dove giunse nella seconda metà di giugno, trattenendovisi per un paio di settimane o poco più, proseguì verso Genova. Dal canto suo, il capitano Ferrari, allora trentenne, venne congedato forzosamente il 26 luglio 1814. «Ecco adunque finita la mia militare carriera dopo quasi 14 anni di servigio, e nel meglio dell’età e delle speranze...», si rammarica nell’autobiografia al ricordo ancor vivo, dopo trent’anni, dell’infausto giorno in cui, appesa la spada a un chio3

C. Ferrari, Memorie postume, pp. 356-405. Citato da M. Menghini nella sua introduzione alle Memorie postume (ed. 1942). 5 Ibid. 4

do, era precipitato nel «nulla civile, segno e ludibrio della ingiuriosa fortuna». Quello stato infamante, patito entro le pareti d’una casa – quella paterna – immersa nella quiete neghittosa della provincia emiliana, durò fino ai primi mesi dell’anno successivo, quando si lasciò alle spalle la «vita inoperosa e molle» del reduce per volgersi nuovamente al mestiere delle armi. A riscattarlo fu Murat, di gran lunga il più pittoresco dei napoleonidi. Trascinato dall’impeto di re Gioacchino, Ferrari ruppe gli indugi il 28 febbraio 1815, intraprendendo un lungo viaggio a piedi che da Reggio, attraverso Ancona e Sulmona, lo condusse a Napoli. Ma sebbene movimentata, la sua nuova «militare carriera» durò soltanto fino al dicembre successivo.3 Il racconto delle peripezie vissute dal reggino nel corso di quell’annus horribilis in Italia, in Francia e in Corsica – dapprima sulle orme di Murat poi del Buonaparte dei Cento giorni – è a dir poco rivelatore. A differenza di altri cronisti, Ferrari offre dei fatti uno scorcio del tutto personale, scevro o quasi da intonazioni retoriche e da intenti di storicizzazione. «Franco, ardito, impetuoso, schietto – osserva Francesco Campi – [Ferrari] racconta di sé il buono e il cattivo, dipinge le cose con evidenza e con brio».4 Scritte per «fuggir ozio» e destinate a non lasciar mai gli stipi dello scrittoio dell’autore, le Memorie postume possono peccare d’ingenuità e d’imprecisione ma non mancano certo di buonsenso; ed è appunto questa fondamentale ragionevolezza a renderne la lettura utile oltre che godibile.5 Dalle non poche pagine dedicate agli avvenimenti in questione non affiorano solo i penosi sentimenti di un giovane ufficiale sbandato nei confronti del tracollo napoleonico e dell’infausta impresa del re di Napoli, ma ne traspare anche l’inconsapevolezza politica – se non la totale incomprensione – degli ex-soldati del Regno Italico rispetto ai progetti indipendentisti. Sebbene fossero sinceramente disposti a battersi per l’emancipazione della penisola – Ferrari insegna – ben pochi di essi attribuivano a tale obiettivo un significato concreto. Le fazioni politiche e le correnti ideologiche attive nella società civile, in particolare a Milano e nelle grandi città, non avevano equivalenti nella soldatesca. Diciture quali italici puri, murattiani, austriacanti e franciosanti non dicevano nulla a dei ‘vecchi mustacchi’ accomunati dall’idolatria bonapartista e dall’odio per l’Austria. Ferrari era in primo luogo un soldato, poi un devoto napoleonista e solo da ultimo un patriota: l’esprit de corps, l’onore militare e la fedeltà al Caporaletto venivano prima dell’Italia. Benché accorati, gli accenni all’indipendenza della penisola – nelle Memorie postume – sono contati, e forse frutto di esperienze e idee maturate posteriormente. Nel 1814 l’amore patrio d’un Ferrari o d’un Codazzi non riguardava tanto un inesistente stato nazionale a forma di stivale quanto i luoghi natii, si chiamassero Reggio o Lugo. Un amore, si aggiunga, che s’incarnava simbolicamente nella figura del padre, il depositario dei sacri lari. La patria era innnanzi tutto la


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47. Veduta di Lugo e chiesa del Carmine nel primo Ottocento, inc.

casa – il «domestico focolare» –, poi il reggimento e infine l’Italia... quell’araba fenice introvabile eppure così presente sulle labbra di tutti.6

Si apre per Voi un nuov’ordine diretto a ripristinare e stabilire la Vostra felicità... è del Vostro interesse, Coraggiosi e Bravi Italiani, il farvi strada colle Armi al Vostro risorgimento, ed al Vostro ben’essere... Avete tutti a divenire una Nazione indipendente: avete a far distinguere il vostro zelo pel Pubblico bene. Diverrete felici se sarete fidi a chi vi ama, e protegge!8

Quando Codazzi, lasciatasi alle spalle l’artiglieria a cavallo, arrivò a Lugo, il generale Ekhard era stato nominato da pochi giorni governatore civile e militare di tutte e tre le Legazioni in nome del Governo provvisorio austriaco.7 Nella cittadina continuava ad aleggiare il ricordo del Regno d’Italia Indipendente fondato a Ravenna l’8 dicembre anteriore dal conte Nugent, comandante delle «forze austro-britanne», ed estintosi in gennaio, ed è probabile che vi circolassero ancora copie dell’appello che lo stesso Nugent aveva rivolto ai romagnoli in tale occasione:

A differenza di molti altri lughesi, Codazzi non amava affatto l’Austria, motivo per cui non intendeva accettarne la protezione né tanto meno schierarsi dalla sua parte. Esistevano altri modi più onorevoli per «farsi strada con le armi al risorgimento» dell’Italia che non giurando fedeltà ad una bandiera contro la quale aveva combattuto fino a poche settimane prima. Ciò che aveva ispirato le milizie italiche fin dalla

6 Si rammenti che Ferrari svolse un ruolo non del tutto trascurabile nelle lotte risorgimentali. In merito basti vedere la scheda a suo nome nel Dizionario Biografico degli Italiani, firmata da V. Fannini: «Nel 1831, allo scoppio dell’insurrezione dell’Italia centrale, il F. offrì subito i propri servizi alla causa liberale. L’8 febbraio 1831 la Commissione provvisoria di governo di Imola lo nominò comandante in capo della forza nazionale della città, conferendogli dieci giorni dopo il grado di colonnello. Partito alla testa di un ristretto manipolo di volontari romagnoli alla volta di Roma, dovette desistere dal suo intento per la capitolazione di Ancona (...) A trarlo dal grigiore [del Serraglio] furono i gloriosi trascorsi militari che gli valsero, nell’ottobre del 1847, la nomina a comandante del battaglione civico di Imola da parte

del governo pontificio. Alcuni mesi dopo assunse il comando di un battaglione di volontari che, tra le truppe agli ordini del gen. G. Durando, combatté nella campagna del Veneto, prendendo parte alla resistenza di Vicenza all’assedio austriaco. Dopo la capitolazione della città (11 giugno 1848) il F. ed i suoi uomini si concentrarono a Bologna, dove furono coinvolti negli scontri che portarono alla cacciata degli Austriaci (...) Ultimo suo atto politico fu, nell’aprile del 1849, l’adesione alla vibrante, ma sterile, protesta contro la spedizione francese su Roma. A partecipare alla difesa della città fu impedito dall’età e dagli acciacchi». 7 Cfr. L. Rava, Il maestro d’un dittatore. Domenico Antonio Farini, Roma, 1899, pp. 50-55. 8 Riprodotto da L.Rava, op.cit., pp. 54-55.


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48. F. Guascone, Allegoria della Libertà, ca. 1797, olio su tela.

loro creazione era quello stesso ideale patriottico di cui gli austriaci cercavano ora di servirsi per confondere le coscienze. Uno dei modi per «farsi strada» era quello additato dal comandante delle forze britanniche nel Mediterraneo, lord William Bentick, un uomo di comprovata fede liberale. Questi, dopo essersi adoprato con successo per dotare il Regno di Sicilia d’una costituzione di stampo inglese, aveva messo in marcia un piano ben più ambizioso, finalizzato alla creazione di una nazione indipendente sui domini francesi o filo-francesi in Italia. Nel prosieguo di tale schema, scrive il Colletta, lord Bentinck si diresse per mare a Livorno, dove «con mostre d’amicizia sbarcò dal naviglio schiere inglesi e siciliane, sotto insegna che portava scritto ‘Libertà e indipendenza italica’, e le incamminò sopra Genova».9 Il 14 marzo, ad una settimana dallo sbarco, Bentinck diffuse un proclama invitando gli italiani ad unirsi al suo intento. Subito dopo si mosse verso la Liguria, scacciando i francesi dalla Riviera di Levante. Dando prova di coerenza e sincerità, il 26 aprile successivo accolse la richiesta dei genovesi di ripristinare l’antica costituzione repubblicana. Ben9

Pietro Colletta, Storia del Reame di Napoli dal 1734 sino al 1825, Parigi, 1837, II, p. 121. 10 W. Bentinck, “Proclama per la formazione del Governo

tinck si era premurato di darne pubblico annuncio con queste parole: Avendo l’armata di S. M. Britannica sotto il mio comando scacciati i Francesi dal territorio di Genova, è divenuto necessario il provvedere al mantenimento del buon ordine e governo di questo Stato. Considerando che il desiderio generale della Nazione genovese pare essere di ritornare a quell’antico Governo, sotto il quale godeva libertà, prosperità ed indipendenza; e considerando altresì che questo desiderio sembra essere conforme ai principii riconosciuti dalle alte Potenze alleate di restituire a tutti i loro antichi diritti e privilegi: dichiaro che la Costituzione degli Stati genovesi, quale esisteva nell’anno 1797, con quelle modificazioni, che il pubblico bene e lo spirito della originale Costituzione del 1576 sembrano richiedere, è ristabilita.10

Codazzi, che sicuramente conobbe l’editto genovese, non potè non coglierne gli aspetti positivi. La libertà, la prosperità e l’indipendenza del popolo ligure antecedevano ogni altra considerazione, e se il «desiderio generale» era o appariva «conforme ai principii riconosciuti dalle alte Potenze alleate» tanto di guadagnato. L’eventualità che tale rispondenza equivalesse in realtà ad una condizione imposta dalProvvisorio dello Stato Genovese”, in Raccolta delle leggi ed atti pubblicati dal Governo provvisorio della Serenissima Repubblica di Genova, Genova, 1814.


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49. Repubblica di Genova, carta geografica secentesca.

la Coalizione a scapito del diritto delle genti liguri all’autodeterminazione, venne scartata sui due piedi. Alla fine di aprile del 1814 i disegni alleati circa il futuro degli stati italiani erano un’incognita, quindi non esistevano elementi per dubitare della buona fede di un whig come lord Bentinck. Se questi aveva menzionato la ‘conformità’, probabilmente l’aveva fatto o per esigenze diplomatiche o per fugare in anticipo la diffidenza che l’assetto repubblicano della Liguria avrebbe potuto causare negli austriaci. D’altronde, la genuinità dell’interesse di lord Bentinck per il «pubblico bene» era già ravvisabile nel proclama di Livorno, un documento per certi versi più esplicito e diretto dell’editto genovese. Infatti, mentre in quest’ultimo si annunciava il ripristino di istituzioni e privilegi soppressi dai francesi, nel proclama del 14 marzo s’incitavano gli italiani ad unirsi in armi per far valere il sacrosanto diritto alla libertà: Italiani! Non più esitate, siate Italiani, e tu specialmente Armata Italiana pensa che la gran causa della tua Patria è nelle tue mani. Guerrieri dell’Italia non vi si domanda di venire a noi, ma vi si domanda che facciate valere i vostri propri diritti, e che siate liberi.

Fra l’appello di Bentick e quello di Nugent esisteva una significativa differenza, differenza che i veri patrioti non potevano non cogliere. Mentre il secondo intendeva la felicità degli italiani in termini riduttivi, condizionandola alla loro sudditanza ad una potenza straniera, il primo la interpretava come un diritto naturale, offrendo appoggio a quegli italiani

che avessero voluto battersi per assicurarla. Era appunto in previsione degli appelli di costoro – diceva il proclama di Livorno – che la Gran Bretagna aveva sbarcato un contingente sui lidi toscani: «Chiamateci, e noi accorreremo, ed allora i nostri sforzi riuniti faranno che l’Italia divenga ciò che nei migliori suoi tempi l’Italia già fu...». Tendenzialmente romantico alla stregua di gran parte della gioventù dell’epoca, Codazzi, anche per questo, non era in grado di avvertire i rischi connessi alle promesse d’un uomo che “where his political principles and Italian liberation were concerned... remained an incurable romantic”.11 Qualcosa di analogo può dirsi del rapporto acritico stabilito da Ferrari nei confronti delle lusinghe di Murat. Nel caso del reggino, gli effetti illusori scatenati in lui dagli editti murattiani furono particolarmente intensi, non da ultimo per la somiglianza di temperamento che lo univa al re di Napoli, anch’egli «giocondo sempre e pur guerresco».12 Comunque sia, il proclama apparso a 11 Cfr. D. Gregory, Sicily, the insecure base: a history of the British occupation of Sicily, London-Toronto, 1988, p. 188. Al di là dell’impronta demagogica, il proclama di lord Bentinck rivela meccanismi retorici ampiamente diffusi nel linguaggio politico e nella cultura romantica dei primi anni dell’Ottocento. Oltre a non essere ancora così scaltrito da afferrare appieno l’ambiguità dell’editto, Codazzi era ovviamente esposto all’effetto illusorio di meccanismi persuasivi di tal fatta. 12 L’espressione è del Ferrari, che la rivolge a se stesso.


l’orizzonte in fuga

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50. Proclama di Rimini, 30 marzo 1815, I.

51. Proclama di Rimini, 30 marzo 1815, II.

Rimini il 30 marzo 1815 era ben più articolato e toccante di quello livornese di Bentinck. Murat l’aveva concepito al fine di raccogliere attorno a sé quanti avessero «profondamente meditato sugli interessi della loro patria»:

tempi: «Padroni una volta del mondo, espiaste questa gloria perigliosa con venti secoli d’oppressioni e di stragi». Pareggiati i conti con la storia, era giunta l’ora di rialzare la testa: «Sia oggi vostra gloria di non avere più padroni. Ogni nazione deve contenersi nei limiti che le diè natura. Mari e monti inaccessibili, ecco i limiti vostri». Ma l’ordine della natura doveva ristabilirsi con la spada: «Torni all’armi deposte chi le usò tra voi, e si addestri ad usarle la gioventù inesperta... Tutta insomma si spieghi ed in tutte le forme l’energia nazionale». Il destino bussava alla porta, bisognava decidere subito il futuro dell’Italia, «se dovrà essere libera, o piegare ancora per secoli la fronte umiliata al servaggio». La lotta per l’affrancamento dallo straniero non ammetteva altri tentennamenti, la libertà e l’onore erano beni troppo grandi per concedersi tregue: «La lotta sia decisiva: e ben vedremo assicurata lungamente la prosperità d’una patria bella, che, lacera ancora ed insanguinata, eccita tante gare straniere». Il mondo trepidava nell’attesa, pronto ad acclamare la vittoria d’un popolo voglioso solo della propria indipendenza: «Gli uomini illuminati d’ogni contrada, le nazioni intere degne d’un governo liberale, i sovrani che si distinguono per grandezza di carattere godranno della vostra intrapresa, ed applaudiranno al vostro trionfo». Finalmente Murat si domandava: «Potrebbe ella non applaudirvi l’In-

Italiani! L’ora è venuta che debbono compiersi gli alti vostri destini. La Provvidenza vi chiama infine ad essere una nazione indipendente. Dall’Alpi allo stretto di Scilla odasi un grido solo “L’indipendenza d’Italia!” Ed a qual titolo popoli stranieri pretendono togliervi questa indipendenza, primo diritto, e primo bene d’ogni popolo? A qual titolo signoreggiano essi le vostre più belle contrade? A qual titolo s’appropriano le vostre ricchezze per trasportarle in regioni ove non nacquero? A qual titolo finalmente vi strappano i figli, destinandogli a servire, a languire, a morire lungi dalle tombe degli avi?13

Subito dopo il re di Napoli si chiedeva: «Invano adunque natura levò per voi le barriere delle Alpi? Vi cinse invano di barriere più insormontabili ancora la differenza dei linguaggi e dei costumi, l’invincibile antipatia de’ caratteri?». La risposta non poteva essere che una: «No, no: sgombri dal suolo italico ogni dominio straniero!». Gli italiani avevano scontato con invasioni e scempi le glorie accumulate in altri 13

“Editto di Rimini”, 15 marzo 1815.


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52. H. Goltzius, Orazio Coclite, 1586, inc.

ghilterra, quel modello di reggimento costituzionale, quel popolo libero, che si reca a gloria di combattere, e di profondere i suoi tesori per l’indipendenza delle Nazioni?». Indi, rivolto ai soldati, Murat prorompeva: «Il grido di guerra risuona di bel nuovo tra voi. La voce dell’onore e della gloria ci chiama a combattere». L’Austria non aveva adempiuto alle promesse e si era rivoltata in armi contro il popolo italico, privandolo di ciò che era suo. Dalle «province concedute all’Austria in pegno di condizioni da essa non adempiute» si levavano in coro voci che chiamavano «le armi vendicatrici del nome Italiano, a liberarle dall’unque mai detestato Austriaco giogo». La storia incalzava, l’orgoglio nazionale pure: E qual mai causa più santa trattossi della nostra? Noi combatteremo per la libertà, per la Indipendenza della Patria, pel trionfo dei principi liberali (...), e per la gloria militare prima sorgente della forza, e della grandezza delle Nazioni.

Sui vessilli dell’armata liberatrice era ricamata la scritta “Onore e Fedeltà senza macchia”: virtù più nobili non esistevano. Murat non adduceva esempi, 14

Si veda la legenda dell’incisione di Hendrik Goltzius riprodotta sopra a destra: “Nempe haec imperii sunt incrementa futuri unum tot remorae millibus esse virum”. La stessa incisione venne corredata da due diverse legende; quella citata si deve a William van Est (Guilelmus Estius).

53. H. Goltzius, Marco Valerio Corvo, 1586, inc.

ma il rimando agli artefici della grandezza romana – Orazio Coclite o Marco Valerio Corvo – era trasparente: se un solo uomo coraggioso aveva determinato il futuro d’un impero, che cosa non avrebbero fatto migliaia di patrioti in armi?14 Per un ex-capitano della Guardia Reale e irriducibile napoleonista come Ferrari il proclama di Rimini rappresentava la sospirata conclusione di una snervante attesa. Tuttavia, l’accenno all’Inghilterra quale stato modello e campione di libertà, non dové piacergli, e ciò a causa dell’idea negativa che si era fatto della ‘perfida Albione’. Nemmeno Codazzi, probabilmente, avrebbe aderito al lusinghiero giudizio formulato da Murat. Nell’arco dei circa dieci mesi trascorsi fino ad allora al servizio di Sua Maestà britannica, l’appello di Livorno s’era rivelato inconsistente se non ingannevole, e il fatto che ciò fosse imputabile non a Bentinck bensì all’ipocrisia del governo inglese, deciso a compiacere l’Austria ad ogni costo, non cambiava le cose. Arruolatosi sotto l’Union Jack in virtù dei riflessi libertari che ne emanavano, il lughese si era ritrovato invece a combattere a favore del nemico storico dell’indipendenza italiana. Mentre si accingeva a sbarcare sulla costa napoletana per unirsi alle truppe austriache incaricate di mettere fine una volta per tutte ai progetti di Murat, Codazzi era ormai conscio, che le promesse britanniche si riducevano a propaganda. Un attento testimone degli eventi, il romagnolo Domenico Antonio Farini, annotò in proposito:


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54. Napoleone sbarca ad Antibes, 1 marzo 1815, litogr. col. da acquerello di Ph.F. Reinhold.

(...) Si fece correr voce che era nella mente delle alte Potenze di render questo suolo libero da ogni straniero vincolo. Queste voci si fecero correre da ogni angolo dove gli Inglesi ponevano piede e venivano poi accreditate da proclami, da promesse e dai discorsi che tenevano i principali personaggi che figuravano in questa scena, fra i quali merita speciale ricordanza lord Bentinck.15

Murattiano convinto, Farini non avrebbe ammesso che anche l’editto di Rimini potesse rientrare in una strategia propagandistica, ma era così: assecondando, anzi, capeggiando le aspirazioni patriottiche degli italiani, Murat puntava a smaterializzare ai loro occhi le proprie mire personali. Tale effetto purificatore era necessario per dare credibilità – e ottenere di conserva appoggio popolare – alla propria candidatura a sovrano della penisola. D’altro canto, erano forse più sincere le parole che Buonaparte, in esilio all’isola d’Elba, rivolse a chi gli proponeva d’incoronarsi imperatore di Roma? Disse Napoleone che avrebbe fatto degli sparsi popoli d’Italia una sola nazione, unificandone i costumi ed elevandola a livelli di civiltà e progresso mai neanche immaginati, e alla fine promise: Sous mon règne, l’antique majesté du peuple-roi s’alliera à la civilisation moderne de mon premier empire; et Rome égalera Paris, sans cesser d’être à la hauteur de ses immenses souvenirs, qu’elle associera à la force d’institution de Lacédémone et à l’atticisme d’Athènes. J’ai été en France le colosse de la guerre, je deviendrai en Italie, le colosse de la paix. [Sotto il mio regno, l’antico potere del popolo-re farà tutt’uno con

la moderna civiltà del mio primo impero; e Roma sarà pari a Parigi, pur permanendo all’altezza delle sue grandi memorie, che essa unirà alla forza istituzionale di Sparta e all’atticismo di Atene. In Francia sono stato il colosso della guerra, in Italia mi trasformerò nel colosso della pace]. 16

Per un cadetto dell’Italian Levy classe 1793, nato dunque nel bel mezzo del periodo rivoluzionario, le potenze europee si dividevano in retrograde e avanzate. Crollato l’impero napoleonico, fra le seconde rimaneva soltanto l’Inghilterra, che vi figurava per essersi schierata a fianco dei combattenti per la libertà spagnoli. Se ora essa si alleava con l’Austria e gli altri stati reazionari, chi si sarebbe eretto a paladino degli ideali più cari? Chi avrebbe tutelato il diritto all’indipendenza e alla felicità dei popoli? Ovviamente Codazzi ignorava i giochi di potere in corso al Congresso di Vienna; tuttavia, l’esperienza e la sensatezza non potevano non renderlo circospetto nei confronti delle nazioni vincitrici, soprattutto quando queste non si peritavano di scindere la politica dal diritto, l’interesse dei governi da quello dei popoli. Dal suo punto di vista, l’argomento addotto 15

Citato da L. Rava, op.cit., p. 52. Napoleone Buonaparte a due membri del congresso italiano in visita all’Elba, ott.-dic. 1814. Cfr. Melchiorre Delfico [un Citoyen de la Corse], La Verité sur les Cent Jours principalement par rapport à la renaissance projetée de l’Empire Romain, Bruxelles 1825, pp. 218-221. 16


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fumo di patria

dall’Inghilterra secondo il quale le aspirazioni degli stati italiani all’autodeterminazione erano sacrificabili all’accrescimento strategico della potenza austriaca e, di conseguenza, alla sicurezza delle corone europee, sarebbe parso arrogante e oltraggioso. Pur nella sua crudezza, tale ragionamento non mancava di coerenza, quanto meno nella logica dei firmatari degli accordi di Vienna. Di fatto, sotto la guida del visconte Castlereagh, ministro degli esteri dal 1812 al 1822, la diplomazia britannica s’imperniò sul principio “of consolidating the different states on the frontiers of France, to prevent a recurrence of those evils from which Europe had so recently been delivered” [stabilizzare i diversi stati confinanti con la Francia onde prevenire la ricomparsa di quei mali da cui l’Europa si era così da poco liberata].17 Oltre a determinare lo smantellamento della Repubblica di Genova a favore del re di Sardegna, tale direttiva promosse l’irrobustimento della presenza austriaca nella penisola. Per l’Inghilterra il costo delle campagne combattute contro Napoleone – soprattutto in Europa – era stato ed era ancora altissimo, motivo per cui ne urgeva l’abbattimento; tuttavia, il ritiro dei Red Coats dal continente era subordinato al trasferimento ad una potenza fidata delle funzioni di vigilanza e repressione dei possibili intenti destabilizzatori (l’avanzata francese era stata favorita appunto dall’assenza di efficaci deterrenti politico-militari a livello europeo). In questa prospettiva, l’Austria, se sostenuta, avrebbe potuto svolgere al meglio il ruolo di Cerbero. L’accordo fra il visconte Castlereagh e il principe di Metternick non si fondava unicamente sul riconoscimento inglese del nuovo status austriaco, ma anche su un comune intendimento circa i metodi con cui preservare la sicurezza europea. Al riordinamento continentale del 1815 si giunse principalmente grazie a questa convergenza di interessi e di vedute.18 Prefigurato da Metternich già nel 1813 nella “Déclaration de Frankfort”, l’assetto sancito a Vienna si basò su una dottrina formulata dal principe stesso: “Un juste équilibre par une sage repartition des forces”. [Un giusto equlibrio mediante una saggia ripartizione delle forze].19 La saggezza voleva che le forze fossero distribuite secondo un disegno strategico sovranazionale che garantisse i nuovi equilibri. Questi, nella loro superiore legittimità, potevano implicare il non rico17 Lettera di lord Caslereagh a William Bentinck. Cfr. “Papers relating to Genoa” e “Motion respecting the Transfer of Genoa” in The Parliamentary Debates from the year 1803 to the present time, XXX, 1815, pp. 387-418 e pp. 820-840. 18 Ivi, p. 840. La spiegazione data da lord Castlereagh circa la cessione di Genova al Piemonte fu questa: poiché a causa della debolezza del re di Sardegna “Buonaparte had been able to over-run and conquer Italy”, ora l’Inghilterra intendeva “to place a barrier between France and Italy, that would prevent such a consequence in future”. Tale obietivo era conseguibile “by making the Power which was the natural guardian of the Alps strong enough to defend the passages [delle Alpi occidentali]”.

55. Red Coat, seconda metà XVIII sec., inc. col.

noscimento di diritti e rivendicazioni nazionali. L’iniquità del principio secondo cui il prezzo della pace e del benessere dei più forti sarebbe ricaduto sui più deboli era solo apparente. Questi ultimi, infatti, non solo avrebbero usufruito di riflesso di beni inestimabili quali la quiete e la sicurezza, ma si sarebbero avvalsi della protezione delle grandi potenze contro i nemici interni. Tutto ciò a cambio della rinuncia a incoerenti velleità libertarie. Gli egoismi (fossero irredentisti o costituzionalisti) dovevano soccombere all’altruismo: era questo il postulato morale, ancor prima che politico, condiviso da Castlereagh e Metternich.20 Nel caso dell’Italia, tale presupposto implicava in primo luogo la soppres19 K. von Metternich, “Mémoire”, 28 genn. 1815: “Dans l’intention de conquérir la paix de l’Europe [si rende necessario] l’établissement d’un système d’équilibre fondé sur une juste répartition de Forces entre les Puissances”. Cfr. British and Foreign State Papers, 1814-1815, London, 1839; G. de Garden, Histoire génerale des Traités de Paix, XV, Paris, 1848-1859, pp. 183-184. 20 Il visconte Castlereagh si spinse oltre, trasferendo in patria lo stesso principio, in questo confortato da lord Sidmouth, segretario agli interni. L’intransigente opposizione di entrambi alle proteste per la dilagante pauperizzazione delle classi popolari portò al massacro di St. Peter’s Field, il 16 agosto 1819, con 11 morti e 600 feriti. P.B. Shelley fece eco al massacro con il poema


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l’orizzonte in fuga

56. T. Lawrence, Ritratto di Lord Castlereagh, 1809-1811.

57. T. Lawrence, Ritratto di Richard Wellesley, inc.

sione dei fermenti indipendentisti in atto da Nord a Sud. Sebbene funzionali alla cacciata dei francesi, le sollevazioni armate erano comunque deleterie, giacché, a prescindere dal maggiore o minore appoggio popolare, minavano il rispetto per l’ordine costituito. Non sorprende, dunque, che Castlereagh, visto in copia l’editto di Livorno, strapazzasse Bentinck: “It is not Insurrection we now want in Italy... we wont disciplined Force under Sovereigns we can trust”. [Non è un’insurrezione ciò che noi desideriamo in Italia... bensì una forza disciplinata sotto un sovrano di nostra fiducia].21 A differenza di Castlereagh, il suo predecessore al Foreign Office, Richard Wellesley, non si era op-

posto, per lo meno non in linea di principio, ad una possibile ‘rivoluzione italica’; anzi, aveva cercato di favorirla avvalendosi delle truppe inglesi di stanza in Sicilia.22 Conscio che i fautori dell’indipendenza della penisola erano molti e «unanimi le inclinazioni degli italiani per la causa nazionale», egli – come si vedrà più avanti – pensò che appoggiare il «desiderio generale» rientrasse nell’interesse dell’Inghilterra.23 «Lo scarso apprezzamento che Napoleone aveva fatto dell’Italia – osserva Capograssi –, il disprezzo con cui aveva accolto i voti degli italiani di costituirsi in uno stato unito e indipendente, diventavano ora nelle mani degl’inglesi arma potente contro di lui». Il sentimento dell’indipendenza era germogliato proprio

“Mask of Anarchy”. A Castlereagh, morto suicida nel 1822, Byron dedicò questo sferzante epitaffio: “Posterity will ne’er survey/ A nobler scene than this./ Here lie the bones of Castlereagh./ Stop traveller, and piss”. 21 Nella prospettiva di Castlereagh la sfida liberale era particolarmente insidiosa perché, generando emulazione, tendeva a riprodursi e moltiplicarsi. Tutto era iniziato con la Rivoluzione Francese: “One revolution was made the means of giving birth to another”. Le guerre napoleoniche, terribili motori di diffusione dei principi giacobini, avevano condotto alla delegittimazione della tradizionale concezione del potere, basata sulla terna “un roi, une foi, une loi”, e del principio regolatore della politica internazionale dell’Ancien régime: la raison d’état. Il Concerto Europeo, voluto in particolare dal principe di Metternich per mettere fine a tale scompiglio, tacitava a distanza di più di vent’anni l’appello alla sovversione lanciato da Saint-Just il 10 ottobre 1793 in seno al “Rapport à la convention nationale au nom du comité de salut public”. Saint-Just aveva detto fra l’altro

che «in tempi di rinnovamento, tutto ciò che non è nuovo è pernicioso. L’arte militare della monarchia non serve più perché siamo uomini diversi ed abbiamo nemici diversi. La potenza e conquista dei popoli, lo splendore della loro politica e della loro strategia militare, sono sempre dipese da un singolo principio, una singola poderosa istituzione (...) La nostra nazione ha già un carattere nazionale in se stessa. Il suo sistema militare deve essere diverso da quello dei suoi nemici (...)». Cfr. Paul MacDonald, The Strength of Weak Norms: The Concert of Europe and International Relations Theory, 2002 (http://isanet.ccit.arizona. edu/noarchive/macdonald.html). 22 Richard Wellesley (1760-1842), fratello maggiore di Arthur, il duca di Wellington, fu ministro degli esteri dal dicembre 1809 al febbraio 1812. Entrò alla Camera dei Comuni nel 1784 come “liberal Whig”. 23 Lettera del Principe Ereditario a Castelcicala, cfr. Antonio Capograssi, Gl’inglesi in Italia durante le campagne napoleoniche, Bari, 1949, p. 121.


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58. Personificazione della Libertà, fine Settecento, inc.

durante le campagne napoleoniche e l’esercito del Regno Italico ne aveva costituito il semenzaio: «Sotto le sue bandiere gloriose erano accorsi i figli di tutte le province palpitando alle idee di patria e di libertà». Nelle parole di Capograssi sembrano riverberare quelle di De Laugier e di altri apologisti dell’eroismo nostrano. Tuttavia, questa visione, per così dire ottimistica, non trova riscontro in altri cronisti o testimoni. Dai ricordi di Ferrari, per esempio, affiora un atteggiamento meno veemente e convinto: fra i soldati, riferisce infatti il reggino, lo spirito patriottico era sì piuttosto diffuso, ma generalmente mescolato ad altri sentimenti. Episodi come quello del granatiere Bianchini portano a pensare che, in seno all’esercito, la salvaguardia dell’onore militare fosse ancor più sentita dell’adesione agli ideali patriottici: una preminenza comprensibile, visto che da un lato era in gioco la dignità del collettivo di appartenenza, dall’altro un’aspirazione – l’emancipazione italiana – neanche ben definita. La dialettica fra lo spirito di corpo e l’amor patrio è ravvisabile in filigrana nei rapporti fra l’Esercito italico e l’Armée. In Spagna, in Russia e in Germania la rivalità verso i francesi contribuì senz’altro a rinfocolare l’orgoglio dei nostri soldati, destandone i sentimenti patri; tuttavia, queste spinte patriottiche non sfociarono se non sporadicamente in un’autentica presa di coscienza nazionale: gli eventi dell’aprile 1814 ne costituiscono la riprova.

59. Allegoria della Libertà, fine Settecento, inc.

Benché i vessilli reggimentali alludessero all’Italia nei colori e nei motti, la simbologia nazionale, dopo il 1805, aveva ceduto il posto a quella napoleonica. Una volta creato il Regno Italico, la personificazione dell’Indipendenza era svanita assieme a quella della Repubblica, come ovvia conseguenza figurale della svolta monarchica (per rivedere l’Italia incarnata bisognerà aspettare trent’anni). In assenza d’una rappresentazione allegorica, alla penisola non rimaneva altro che un profilo geografico... non abbastanza da suscitare una grande passione. I francesi potevano vagheggiare Marianna, cifrando nella sua immagine il rammarico per le promesse rivoluzionarie infrante. I soldati italici nutrivano sì aspirazioni, ma non disponevano di una fanciulla verso cui convogliarle. Le traversie simboliche, inutile dirlo, incidono sulla realtà storica, in particolare sui processi ideologici e politici; ed è altrettanto inutile precisare che incisero anche sul limitato coinvolgimento dei soldati italici nel progetto indipendentista. Dopo la caduta del Regno la loro partecipazione mutò, ma non sempre in meglio. Infatti, per molti ex-militari il rimpianto per l’Imperatore – stimolato da una varietà di immagini ‘devozionali’– divenne più pressante degli stessi aneliti patriottici (esemplare il disorientamento dei nostri due eroi, in particolare di Ferrari). Condivisa dalla maggior parte dei reduci di guerra francesi e italiani (specialmente se ufficiali e massoni), la no-


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60. L’Italia, carta geografica inglese, ca.1820.

stalgia bonapartista portò a sua volta alla creazione d’una sorta d’‘internazionale napoleonica’, una rete paneuropea e poi panamericana di solidarietà e complicità in concorrenza, sotto certi aspetti, non solo con le sette segrete ma anche con l’ideale di nazione (nuovamente emblematico, al riguardo, il caso di Codazzi e Ferrari). Nell’Italia settentrionale l’intenzione di svincolarsi dalla Francia si propagò e s’intensificò non tanto per gli stimoli provenienti dall’esercito quanto piuttosto per il malcontento della società civile, in particolare urbana, delusa dalle sconfitte militari e oppressa oltre ogni dire dalle coscrizioni obbligatorie e dalle contribuzioni di guerra. (Il rigetto della tutela francese fu percepito da Lamartine fin dal 1811, quando, in viaggio per l’Italia, notò la mancanza di simpatia che circondava i suoi connazionali). Questa tendenza andò rafforzandosi via via che tramontava il mito dell’invincibilità napoleonica. Dopo la campagna di Russia, il tracollo della politica imperiale cominciò ad apparire inevitabile. Di conserva, divenne chiaro che il destino del Regno Italico era segnato. La percezione della svolta storica in atto dette adito a pronostici e proponimenti generalmente centrati sull’emancipazione della penisola dallo straniero. In tal modo, l’indipendenza italiana, fino ad allora su24

A. Capograssi, op. cit., p. 178. E. Rota, Il problema italiano dal 1700 al 1815. L’idea unitaria, Milano, 1938, pp. 27-29. 26 Cfr. Rassegna Storica del Risorgimento, II, 1915, p. 337. Il 3 gennaio 1814, Fouché, giunto da pochi giorni a Napoli, scrisse a Napoleone: «Al mio arrivo a Napoli io fui sorpreso dalla di25

61. Il Regno di Napoli, carta geografica inglese, ca.1820.

bordinata alla benevolenza francese, assunse significato e proporzioni nazionali. Ciò, tuttavia, dista dal dire che le inclinazioni degli italiani per la causa nazionale fossero unanimi. Come osserva Capograssi, il regionalismo era vivissimo e non meno risoluta l’avversione all’unità delle masse popolari. Del resto, le parole ‘unità’, ‘regno’ e ‘Italia’ avevano un senso limitato: «S’intendeva il regno napoleonico un po’ più esteso, vi s’includevano il Piemonte, la Sardegna, Genova, la Toscana e gran parte delle Legazioni, ma non Roma, non l’Illiria, non la Dalmazia, non il Regno delle Due Sicilie».24 Benché nutrite unicamente da una minoranza della popolazione, le aspirazioni indipendentiste turbavano il sonno dei diplomatici stranieri. A Castlereagh e Wellesley abbiamo già accennato; Metternich, osservatore attento e particolarmente interessato, «ebbe a lamentare come ovunque nella penisola serpeggiasse un giacobinismo italiano, tutto rapito dall’idea d’un regno unico d’Italia».25 La volontà di emancipazione si diffuse vieppiù dopo la campagna di Germania, tant’è che all’inizio del 1814 Fouché notificò da Roma: «Qui come in tutta l’Italia, la parola indipendenza ha acquistato una virtù magica».26 Poche settimane prima, Armand de Caulaincourt aveva indagato lo stesso fenomeno per rezione dell’opinione (...) La pa­rola indipendenza è divenuta la parola di riunione generale (...) La parola indipendenza seduce le teste napoletane come le parole li­bertà, eguaglianza hanno sedotto i Francesi nel 1789 (... ) Gli Italiani che non vogliono alcun giogo (...) nelle loro idee di indipen­denza respingono egualmente la dominazione austriaca e la do­minazione francese». Cfr. anche


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fumo di patria

62. J.A.D. Ingres, Ritratto di Carlo Catinelli, Roma, 1816.

63. J.A.D. Ingres, Ritratto di Lord e Lady Bentinck, Roma, 1816.

ordine diretto di Napoleone. La diffusione delle mire unitarie gli risultò subito chiara, non solo ma ne offrì un’interpretazione originale, centrata sull’azione sobillatrice della propaganda alleata. A detta del Duca di Vicenza, gli inglesi erano intenzionati a trarre il massimo profitto «[dai] progetti d’indipendenza italiana, [dalla] possibile costituzione d’un regno d’Italia, [da] quelle idee di risorgimento, di libertà, il cui miraggio si faceva balenare agli occhi d’un popolo dall’immaginazione ardente». La messa a punto di questa tattica si doveva principalmente al capo delle truppe britanniche nel Mediterraneo:

rante. Due giorni dopo Bentinck, appunto allo scopo d’incoraggiare il movimento d’emancipazione peninsulare, autorizzò lo sbarco di Carlo Catinelli sulla costa toscana. La spedizione venne narrata anni dopo dallo stesso Catinelli:

Lord William Bentinck è stato il primo a manifestare apertamente intenzioni e mire che sapeva dovevano allettare gli italiani, a incoraggiare un movimento di emancipazione, che non poteva essere che superficiale perché prematuro, dichiarando che il suo governo era pronto non solo a favorire qualsiasi tentativo di riscatto politico ma a cooperare ancora alla creazione della sua unità, al ristabilimento del suo antico splendore.27

Il rapporto del duca di Vicenza, datato 27 novembre 1813, è sorprendentemente sagace e lungimiE.Rota, Il problema italiano dal 1700 al 1815. L’idea unitaria, Milano, 1938, pp. 27-29. 27 Rapporto di Caulaincourt a Napoleone, 27 nov. 1813, in M.H.Weil, Le prince Eugène et Murat, III, Paris, 1902, p. 130. 28 C. Catinelli, Sopra la questione italiana, Gorizia, 1858, pp. 34-35. Si veda scheda di S. Cella in Diz. Biogr. degli Italiani.

Vi aveva nell’autunno del 1814 [1813] a Palermo al quartier generale di Lord William Bentinck un continuo venire e andare d’Italiani che sollecitavano sbarchi di truppe e di armi, ora su questa ora su quella costa. Assicuravano che nella penisola non vi aveva che un pensiero, quello di un riscatto dalla tirannia sotto alla quale non gemevano ma fremevano; avervi migliaia di coscritti-refrattari, che se avessero armi sortirebbero dal loro nascondiglio, e libererebbero da sé soli il paese. Milord Bentinck volendo verificare questi ragguagli pensò di tentare uno sbarco sulla costa della Toscana, e vi destinò circa ottocento uomini della legione italiana (...) Il giorno 10 dicembre [1813] si prese terra a Viareggio, piccolo porto lucchese (...) In due ore si poté porsi in marcia per Lucca; a mezzanotte, dopo due o tre colpi di cannone tirati contro una delle porte della città, vi si entrò. La truppa prese posto sulle mura... e vi restò unita. Fattosi giorno, i Lucchesi le facevano buon viso, la lodavano, ma nient’altro. Dopo alcune ore si produsse un grande concorso di paesani; si credette che fossero insorgenti; erano curiosi. Si avevano diverse casse con bei fucili inglesi che loro si offrivano, ringraziavano con belle maniere, ma si guardavano di toccarli. Si venne presto a comprendere che a quella fiera non si farebbero affari.28

Vista l’indifferenza della popolazione, il commodoro Josias Rowley, al comando della flottiglia da sbarco, fece rimbarcare i legionari e, «un po’ sdegnato», si diresse verso la Sicilia. Rientrato a Palermo,


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l’orizzonte in fuga

64. Ritratto di L. Caulaincourt, duca di Vicenza, inc.

65. Ritratto di Giocchino Murat, re di Napoli, inc.

Catinelli riferì a lord Bentinck che «i ragguagli che si avevano» non corrispondevano al vero: «Quelle popolazioni che [Catinelli] aveva vedute sembravano come ammortite; vi regnava una grande esacerbazione contro il loro governo [ma] il pensiero d’insorgere non vi aveva». Durata meno di una settimana e conclusasi con un fiasco solenne, la presa di Lucca impartì a Bentinck una lezione della quale non si dimenticò; lezione che, fra l’altro, confermava la giustezza del corollario di Caulaincourt: quantunque fautori del proprio riscatto, gli italiani non erano propensi a sollevarsi in armi, ragione per cui i tentativi in detta direzione, anche se appoggiati dall’esterno, si sarebbero rivelati sterili e prematuri. Quanto avrebbe tardato il risveglio? Scrivendo a Napoleone negli stessi giorni in cui Catinelli rendeva il suo sconfortante rapporto a lord Bentinck, il Duca di Vicenza, sorprendentemente, si disse convinto che l’ora dell’Italia stava per scoccare... probabilmente a vantaggio di Murat, il solo ad esserne consapevole:

Sebbene in forma indiretta, le parole di Caulaincourt non dissimulano certo biasimo nei confronti dell’Imperatore. Dopo aver risvegliato la coscienza nazionale degli italiani, questi, rimangiandosi la parola data, non aveva voluto concedere loro la sospirata esistenza politica. Così facendo aveva perso l’occasione di erigere la penisola a regno indipendente, ricco e potente. Napoleone se ne dovette ricordare qualche mese dopo, durante l’esilio all’isola d’Elba, quando rispose con le parole citate anteriormente a chi gli offriva la corona dell’impero romano. In esse, in effetti, sembra riverberare, velata di contrizione, l’ottimistica premonizione del duca. Benché si fosse reso conto delle potenzialità strategiche ed economiche d’un regno d’Italia a sé stante, Murat sbagliò nel credere che gli italiani l’avrebbero seguito – le armi in pugno – nella lotta per l’indipendenza e l’unità nazionale; sbagliò perché non capì che per il popolo Emancipazione e Felicità non significavano la stessa cosa. Nell’affermare che la maggior parte degli italiani desiderava avere un’esistenza politica, Caulaincourt vedeva giusto, ma, similmente a Murat, calcolava male nel presumere che gli italiani fossero ormai disposti a battersi per raggiungerla. Qualora ci chiedessimo se Codazzi e Ferrari erano (o sarebbero stati) pronti a farlo, la risposta sarebbe affermativa... precisando però che lo erano (o lo sarebbero stati) in quanto soldati, non in quanto patrioti.

La maggior parte degli italiani desidera avere un’esistenza politica. Il re di Napoli se n’è avveduto. Erano popoli sparsi. Vostra Maestà ne ha fatto una nazione... L’Italia ha 16 milioni di abitanti e tutti i vantaggi d’un suolo fertile e d’una felice situazione politica e commerciale. Un’oculata amministrazione può, in una generazione, accrescere della metà la sua popolazione. I suoi arsenali, il suo commercio, la sua marina s’ingrandiscono nel medesimo tempo. Essa rapisce alla Francia il commercio del Levante, la preponderanza sul Mediterraneo, e forte della sua posizione fra una catena di montagne rocciose e i due mari diventa la prima potenza del mezzogiorno.29

29 Lettera del Duca di Vicenza a Napoleone, Parigi, 30 dic. 1813, in M.H. Weil, op.cit., p. 302.


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La meta dei reduci e degli sbandati (termini che fra il 1814 e il 1815 giunsero a coincidere) non era l’affiliazione ad una causa, per nobile che fosse, bensì la prosecuzione della carriera militare. Visto che per la maggior parte di loro il mestiere delle armi costituiva l’unico orizzonte professionale ed esistenziale, un simile obiettivo si può ben capire. Essere ingaggiati nelle truppe napoletane o inglesi, turche o papaline... purchè non austriache: ecco la loro antieroica aspirazione. Identificare degli ex-volontari napoleonici come Codazzi e Ferrari con dei campioni in nuce dell’indipendenza italiana si giustificherebbe unicamente se, dal loro punto di vista, nazione e felicità avessero voluto dire la stessa cosa. Ma non era così. Tornando a Wellesley, la benevolenza del ministro degli esteri nei confronti della causa italiana era funzionale all’abbattimento di Napoleone. Al fine di “rescue Italy from the domination of Buonaparte”, il governo inglese era disposto a fornire alla popolazione della penisola “every practicable assistance”, compreso l’intervento militare di un’armata italo-britannica in via di costituzione sotto il comando di lord Bentinck.30 Ma occorreva essere prudenti. Sebbene “the general disposition prevailing in Italy, of endeavouring to break the French yoke” [la tendenza prevalente in Italia di fare ogni sforzo per rompere il giogo francese] fosse nota tanto al Foreign Office come allo stesso Bentinck, Wellesley – facendosi interprete della volontà del principe reggente, il futuro Giorgio IV – ordinò al generale di astenersi dallo spingere la popolazione “to any exertions, which they [gli italiani] may not think necessary for their own safety and interests” [verso quelle iniziative che possano non ritenere necessarie alla loro sicurezza e ai loro interessi] e dall’affrettare “the measures of resistance, which may be in progress” [le forme di resistenza già in atto.] Il governo credeva che “the principal reliance of Italy must rest upon the unanimity, courage, and perseverance of her own People, in applying the resources of their Country against the common Enemy, with the necessary precautions of prudence” [il maggiore affidamento sull’Italia deve basarsi sull’unanimità, il coraggio e la tenacia del popolo italiano nell’impiegare le risorse del paese contro il nostro comune nemico, con le precauzioni dettate dalla prudenza]. Per questo si sarebbe opposto a quelle imprese parziali o improvvisate “which should neither unite the energy and zeal of the great body of the People, nor be founded on a sense of the difficulties and dangers of such an enterprise; nor on a reasonable comparison of the means to be employed, with the ends to be pursued” [che non riunissero le energie e l’impegno delle masse e non fossero basate né sulla consapevolezza delle difficoltà 30 Lettera del marchese Wellesley a lord Bentinck, 21 ottobre 1811, in British and Foreign State Papers, II, London, 1839, pp. 306-308. 31 Idid. 32 Ibid.

66. Ritratto di Klemens von Metternich, litogr.

e dei rischi né su un raffronto sensato fra i mezzi necessari e gli obiettivi in gioco].31 Se lette al positivo, quali enunciati altruistici, le premesse formulate da Wellesley costituivano una sorta di manuale d’istruzioni per una proficua sollevazione della penisola: da un lato bisognava radunare le energie e gli slanci dell’intera popolazione, dall’altro addivenire alla piena consapevolezza delle difficoltà e dei pericoli connessi all’impresa, e da ultimo bilanciare razionalmente i mezzi e i fini. Bentinck veniva invitato “to ascertain the inclination and strength of the several Parties in that Country [l’Italia] and to frame such a plan as may promise the best success on the principles already stated” [verificare la tendenza e la forza dei vari partiti politici e tracciare un piano in grado di garantire il miglior risultato alle condizioni già esposte]. In quanto alla ventilata candidatura di Francesco d’Austria-Este quale futuro re d’Italia – in linea di principio “not unfavourable” ai piani britannici – non la si poteva far dipendere dalla volontà del popolo italiano “unless a decided preference and confidence shall be manifested in his favour.” [A meno che non fossero palesi una chiara preferenza e una chiara fiducia nei suoi confronti].32 Wellesley era un whig convinto. Come Bentinck credeva che la felicità delle nazioni dipendesse in primo luogo dalla loro emancipazione e dal libero esercizio della sovranità popolare, sotto il governo d’un principe illuminato e benvoluto e con le garanzie d’una costituzione moderna e liberale. Allo stesso


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tempo, in quanto ministro degli esteri, lord Richard non aveva alcun dubbio che tanto l’assetto interno come l’ordinamento delle singole nazioni, dovessero armonizzarsi con gli interessi britannici. In altre parole era sicuro che l’appagamento del suo popolo fosse la necessaria premessa del benessere degli altri popoli, premessa che poteva esigere da parte inglese forme di controllo e d’intervento sul piano internazionale. Riguardo alla proposta di Francesco d’Austria-Este, per certo “honourable and salutary”, era opportuno che essa godesse del beneplacito della corte viennese, “especially if [detta corte] should manifest any satisfactory symptons of resistance to the designs of Buonaparte” [soprattutto se dovesse mostrare segni positivi di resistenza al volere di Buonaparte].33 Per contro, l’opinione austriaca sarebbe divenuta trascurabile “if that Court should continue its present system of policy” [se detta Corte perseverasse nell’attuale posizione politica], ovvero, se fosse perdurata l’alleanza con Napoleone. Lo stesso ragionamento poteva applicarsi al riscatto dell’Italia: la Gran Bretagna ne avrebbe appoggiato l’indipendenza nella misura in cui si fosse sollevata contro il potere francese, altrimenti l’avrebbe abbandonata a se stessa.34 A ben vedere, Castlereagh non fece altro che sviluppare, da buon tory, il sillogismo del suo predecessore. Poiché l’abbattimento di Napoleone dipendeva grandemente dalla posizione della corte viennese, e poiché questa aveva deciso di voltarglisi contro, una stretta alleanza con l’Austria diveniva indispensabile sia dal punto di vista politico che strategico. Motivata da una “Common cause”, tale intesa implicava che ogni decisione riguardante il futuro assetto internazionale, ivi compreso l’ordinamento interno dei singoli paesi, avrebbe dovuto contare sull’approvazione austriaca. Come si è già detto, comportava altresì che, per l’avvenire, la sicurezza delle nazioni sarebbe dipesa da due forze, quella britannica sui mari e quella austriaca sul continente. In quanto alla felicità di questo o quel popolo, era d’uopo anteporvi la stabilità interna e gli equilibri internazionali.

A differenza di Wellesley, Castlereagh non era affatto convinto che il destino di una nazione potesse dipendere dalla volontà dei cittadini, salvo che questa coincidesse con la strategia politica della Coalizione. Le spinte patriottiche erano sempre destabilizzanti, ancor più se collegate a progetti nazionali sgraditi a Vienna (cioè, non facenti capo ad un monarca voluto da Metternick). Il conte di Bathurst, segretario alla guerra, era della stessa opinione. In un dispaccio a Bentinck del 20 aprile 1813 espresse preoccupazione perché nei vari stati italiani vi era una tale avversione a tornare sotto gli antichi governi, che la mancanza di un comune punto di aggregazione – un’alternativa consensuale – si sarebbe rivelata necessariamente pregiudizievole ad ogni iniziativa britannica volta alla liberazione della penisola dal dominio francese.35 In altre parole Bathurst temeva una ‘rivoluzione italica’ e sospettava che l’Italian Levy, agli ordini di un liberal whig come Bentinck, avrebbe potuto aiutare a scatenarla. Di fatto, una cosa era appoggiare un principe di casa d’Austria intenzionato a riunire la penisola sotto il proprio scettro, un’altra favorire un’insurrezione popolare tesa a liberare l’Italia non solo dal giogo napoleonico ma anche dai fantasmi dell’Ancien régime. A questo riguardo, la posizione del segretario alla guerra nei confronti di Genova può dirsi emblematica. Il 28 dicembre 1813 Bathurst vergò un dispaccio per Bentinck comunicandogli che il governo riteneva l’occupazione del capoluogo ligure “the main object” degli sforzi inglesi nel Mediterraneo. Per questa ragione lo autorizzava a prendere possesso della città (“you may take possession of Genoa...”), purchè ciò godesse dell’unanime appoggio degli abitanti... come se il consenso popolare fosse la conditio sine qua dell’operazione. Bathurst si era forse convinto che il diritto all’autodeterminazione si collocava al di sopra degli interessi delle grandi potenze? Helas no! Il ministro concludeva la frase specificando che la presa della Superba doveva essere effettuata “...in the name and on the behalf of His

33 L’Austria era divenuta alleata di Napoleone dopo la disfatta della Terza Coalizione e nel 1811 l’alleanza perdurava. L’anno prima Buonaparte aveva sposato l’arciduchessa Maria Luisa, figlia dell’imperatore Francesco I. 34 In un dispaccio segreto del 4 marzo 1812, il conte di Liverpool informò lord Bentinck che il principe reggente considerava che eventuali operazioni britanniche in appoggio ad un’insurrezione nella penisola dovessero posporsi “unless there should appear a much stronger manifestation of a disposition to resist the power of France, on the part of the People of Italy, than is apparent from any information at present in the possession of His Royal Highness’s Government”. Il dispaccio prosegue così: “There is certainly reason to believe that a considerable degree of dissatisfaction, and even some degree of ferment, pervades the greater part of Italy: but there appears to be no sufficient ground to rely on the evidence which has been produced, of any formed conspiracy, or of any settled or systematic plan of operations to shake off the yoke of France”. In mancanza di prove chiare circa l’impegno italiano – considerava il governo – sarebbe stato preferibile che Bentinck impiegasse le truppe anglo-sicule “in favour of the

Allies in the Spanish Peninsula.” D’un tenore ancor più deciso appare un messaggio di lord Bathurst in data 13 ottobre 1812, ove si ordina a Bentinck di spostare l’armata in Spagna visto che la situazione in Italia era peggiorata: “Accounts from Italy by no means represent the state of that Country to be as prepared for concerted action, as it appeared to be towards the close of last year”. Bathurst tornò sulla situazione italiana l’anno dopo, il 20 aprile 1813, dicendo: “There can be little doubt that the dissatisfaction in Italy is general and great, but... no confident reliance can be placed upon the active co-operation of the Inhabitants.” Cfr. British and Foreign State Papers, pp. 309-311. 35 Dal dispaccio segreto di Bathurst a Bentinck in data 20 aprile 1813: “(...) there is unhappily such a distaste in the several States of Italy to returning to their ancient connections, that the want of a common point of union must be extremely prejudicial to any undertaking in Italy, for the liberation of the Inhabitants from the dominion of France.” Lord Bathurst credeva che le tiepide reazioni degli italiani ai trionfi alleati dei mesi precedenti si dovessero alla medesima circostanza. Cfr. Journal of the House of Commons, Vol. 70, London, 1816, p. 624.


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67. F. Guascone, Allegoria della Repubblica Ligure tradita da Lord Bentinck, ca. 1815, olio.

Sardinian Majesty” [lei può occupare Genova in nome e per conto di sua maestà il re di Sardegna].36 Come sappiamo, lord Bentinck non si attenne alle istruzioni di Bathurst e tanto meno obbedì al capo del Foreign Office. Benché Castlereagh non facesse mistero del proprio disappunto riguardo al deprecabile andamento della guerra in Italia, attribuibile in particolare all’inerzia di Bellegarde, capo delle truppe austriache nella penisola, nell’aprile del 1814 impose a Bentinck di collocare l’Italian Levy agli ordini dello stesso Bellegarde. “In order to bring the Italian Campaign to a speedy and successful result – scrisse il ministro al generale – it is essential that your Lordship should consider your Force merely as an Auxiliary Corps, and that you should accomodate yourself... to the views and wishes of the Austrian Commander-in-Chief”. [Allo scopo di condurre la campagna d’Italia ad un rapido e positivo risultato è essenziale che sua signoria si limiti a considerare le truppe al suo comando come un corpo ausiliare, e si aggiusti... alle opinioni e al volere del comandante in capo austriaco].37 Non solo, ma mise in chiaro (si fa per dire) qual’era la posizione del governo inglese rispetto ai tentativi di promuovere la ‘rivoluzione italica’. Bentinck – riconobbe Castlereagh – vi si era impegnato “very properly, and under Orders from home”, cioè, su istruzioni di Wellesley; ma le cose erano cambiate, avvertì subito dopo, ed egli era tenuto a regolare il proprio ope-

rato “in strict conformity to the present system of your Government”.38 Anteriormente al risveglio europeo (prima che l’Austria si schierasse contro Napoleone), il Foreign Office aveva favorito il solo progetto in grado di scuotere il potere francese nella penisola, consistente come s’è detto in un’insurrezione popolare appoggiata dall’esterno, seguita dall’istallazione sul trono dell’Italia liberata d’un monarca “unconnected with any other Power”.39 Ma essendo sorto “a different and better order of things”, il governo aveva cambiato parere e, ora come ora, considerava, di comune accordo con Metternick, che il miglior modo per contenere eventuali tentazioni espansionistiche francesi fosse il rafforzamento della presenza austriaca e piemontese nella penisola. La Common cause anglo-austriaca s’imperniava su un assetto europeo equilibrato e stabile basato appunto sul consolidamento dei “different states on the frontiers of France”. Ciò escludeva la creazione d’uno stato italiano unitario e indipendente. Anziché soffiare sulle braci dell’orgoglio patrio e diffondere messaggi libertari, Bentinck – concluse il ministro – doveva guardarsi

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The Parliamentary Debates, XXX, p. 388. Ivi, XXXI, pp. 71-72. Dispacci del 30 marzo e del 3 aprile 1814. 38 Ivi, p. 75. 39 British and Foreign Papers, op.cit., p. 307. 37


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68. Il Congresso di Vienna, stampa.

“against any act or expression which might countenance an idea... inconsistent with the arrangements understood between the great powers of Europe” [astenersi da ogni iniziativa o atteggiamento che potesse significare qualcosa... non in linea con gli accordi stabiliti fra le grandi potenze europee].40 La reprimenda di Castlereagh faceva seguito al proclama di Livorno, un incitamento che non poteva non allarmare il Foreign Office. Allo stesso tempo, rispondeva ad un giudizio negativo su Bentinck condiviso, se non stimolato, dal principe di Metternick. In una nota di quest’ultimo al maresciallo Bellegarde del 4 aprile 1814 (il dispaccio di Castlereagh è datato 3 aprile), si legge: Lord William Bentinck... transporte en Italie les idées qu’il suit depuis des années. Il parait ne pas avoir calculé assez que l’Italie, loin d’avoir besoin de moyens insurrectionneles pour être delivré du joug français ne peut plus être perdue pour la cause que par ces moyens. Les proclamations qu’il a répandue, la conduite que tiennent les troupes siciliennes prouvent que lord Bentinck suite une fausse marche. Il ne devait jamais se regarder comme une partie principale en Italie. Ses instructions ne peuvent pas avoir portée sur ce point. La marche du cabinet britannique est si loyale et si ronde, ses points de vue coincident si parfaitement avec les notres que je pois répondre des intentions de ce cabinet, et certainement de celles de lord Bentinck, sans pouvoir excuser les moyens ni les formes dont il use depuis son débarquement en Toscane... Les instructions précises et si fort (...) que je vous ai envoyées pour lord Bentinck de la part de lord Castlereagh auront tempéré le trop d’ardeur du général anglais animé certainement des meilleurs intentions, mais trop

40

The Parliamentary Debates, XXXI, p. 75. Lettera citata da Capograssi, op.cit., p. 204. 42 R.M.Johnston, Lord William Bentinck and Murat, “The English Historical Review”, XIX, 74 (Apr. 1904), pp. 263-280. 41

chaud et poussé peut-être par les Jacobins Italiens et par les sectaires qui tous ne vont qu’à leur but en oubliant celui de la Coalition.[Lord W.B. trasferisce in Italia idee che egli segue da anni. Sembra non aver calcolato abbastanza che l’Italia, lungi dal necessitare mezzi insurrezionali per liberarsi dal giogo francese può essere perduta per la nostra causa proprio attraverso quegli stessi mezzi. Il proclama che egli ha diffuso, la condotta delle truppe siciliane confermano che Lord B. segue un cammino sbagliato. Non lo si doveva considerare come uno degli attori principali in Italia. Le sue istruzioni non possono averlo condotto in quella direzione. La posizione del governo britannico è così leale e ferma, i nostri punti di vista coincidono così perfettamente che io posso rispondere delle intenzioni di detto governo, ed anche di quelle di Lord B., sebbene non possa scusare i mezzi e i modi che egli impiega dal momento del suo sbarco in Toscana... Le istruzioni precise e risolute... che le ho fatto pervenire affinché siano consegnate a Lord B. da parte di Lord Castlereagh avranno temperato l’ardore del generale inglese, animato sicuramente dalle migliori intenzioni, ma troppo focoso e forse trascinato dai giacobini italiani e da quei settari che perseguono il loro scopo dimenticandosi di quello della Coalizione].41

Convinto assertore di idee di stampo liberale eppure ligio alla politica opportunistica e pragmatica del suo paese, lord Bentinck – uomo scostante e intransigente – pagò tale dualità con conseguenze d’ogni tipo, ivi compreso un giudizio storico tutt’altro che lusinghiero. “Among the minor personages of the Napoleonic period – osserva R.M. Johnston – few have been more neglected, or, when remembered, more attacked, than Lord William Bentinck”. [Fra i personaggi minori dell’età napoleonica, pochi sono stati più trascurati, o, se ricordati, più attaccati di lord W.B.].42 Taluno si è limitato a sottolinearne la “total want of military capacity”, tal’altro l’ha accusato di aver preso cantonate “in every public situation in which he [was] placed”, altri ancora hanno affermato che “[Bentinck] was a brilliant and unbalanced egoist, all


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fumo di patria

the more dangerous because he was also imbued with a species of idealism”. [B. era un egoista brillante e parziale, particolarmente pericoloso perché imbevuto d’una sorta di idealismo].43 Che immagine se ne fosse fatta Codazzi è impossibile dire. Ad onta dei 17 mesi trascorsi al servizio di Sua Maestà britannica, il periodo effettivamente passato agli ordini di lord William fu piuttosto breve. Al suo arrivo a Genova, questi era già partito per la Sicilia, per cui il lughese dovette farne la conoscenza qualche tempo dopo, quando ormai “his vision of a strong, united Italy had faded”. Nondimeno, benché il generale avesse perso l’iniziale entusiasmo e gran parte del potere, conservava quell’aura prometeica che ne aveva soffuso la figura fin dall’arrivo in Sicilia nel 1811.44 Eroe d’una causa persa, egli si era astenuto coraggiosamente dall’assecondare la Common

cause, sostenendo, anche dopo essere stato esautorato, che la creazione d’uno stato italiano indipendente, unitario e forte, era di fondamentale importanza per il futuro dell’Europa. Mentre il battaglione d’artiglieria di Codazzi si apprestava ad imbarcarsi per Napoli per dare man forte alle truppe austriache impegnate contro Murat e riportare i Borboni sul trono delle Due Sicilie, Bentinck giunse suo malgrado alla conclusione che il destino della nuova Italia era nelle mani del pur odiatissimo francese. Se nella primavera precedente i due si fossero accordati per un’azione comune, une cause commune, nulla avrebbe potuto fermarli... ed è probabile che una simile evenienza non fosse sfuggita a Metternich. Ma ciò non accadde, e Codazzi perse per sempre l’occasione di battersi per l’Italia. Per questo se ne andò cercando libertà altrove.

69. Allegoria della Restaurazione, 1814, stampa.

43 J.Rosselli, Lord William Bentinck. The Making of a Liberal Imperialist 1774-1839, London, 1974, p. 21. 44 Lord Bentinck cessò formalmente dalle funzioni di comandante dell’Italian Levy il 24 maggio 1815, ma di fatto aveva rimesso il comando al generale Hornstedt esattamente un anno prima, alla sua partenza per la Sicilia il 29 maggio 1814. Il 15 luglio successivo lasciò Palermo a bordo della HMS Aboukir e

sbarcò a Genova una settimana dopo, il 21 luglio. Qui fu accolto con feste e balli (a cui condiscese rispondendo con analoghi inviti). Durante la permanenza nella Superba nominó d’ufficio i componenti del Maggior e Minor Consiglio della Repubblica. Cfr. Demetrius C.Boulger, Lord William Bentinck, Oxford, 1892. È possibile che Codazzi avesse avuto modo di vederlo in persona appena arrivato a Genova.


70. F. Valentin, La Francia addita al mondo i valori repubblicani, fine XVIII sec., dis.


sapore di repubblica

“Exul eram: requiesque mihi, non fama petita est” ovidio

Codazzi s’imbarcò per l’America nell’aprile del 1817, al termine di un lungo e frustrante periplo attraverso l’Europa orientale e il mar Baltico. Fra gli effetti della pace sancita a Vienna vi fu la smobilitazione delle truppe in armi e la riduzione generalizzata degli eserciti. Venuta meno la possibilità d’un ingaggio nel Vecchio Mondo e fallito il tentativo di darsi al commercio, il lughese, in compagnia dell’ormai inseparabile amico, andò a cercare fortuna oltre Atlantico. I reduci delle guerre napoleoniche che emigrarono in America furono innumerevoli. Alcuni desideravano rifarsi una vita, colonizzare terre, metterle a frutto. Altri puntavano a fondare repubbliche o imperi, onde resuscitare il sogno bonapartista. Ciò che avevano perduto in Europa si trovava in America e, in apparenza, bastava recarvisi e prenderlo. Ma le ragioni per le quali gli Stati Uniti si offrirono di ospitare e di aiutare gli exilés non si basavano né sulla solidarietà nei confronti della patria di Lafayette né, tanto meno, sulla simpatia per Napoleone. L’ex-artigliere Codazzi non poteva immmaginare che la politica nordamericana, nonostante le promesse fatte il 4 luglio 1776, s’ispirasse allo stesso “realismo” che aveva fatto scuola al Congresso di Vienna. A breve distanza dalla morte del nostro eroe, sul “Bulletin de la Société de Géographie” apparve un necrologio, firmato da José María Samper, ove fra l’altro si diceva: “Il fallait voir cet héroique vieillard, hardi pionnier de la science, traverser les plaines insalubres de l’Amazone, de l’Orénoque, de l’Apure, du Magdalena et du Patia... gravir ces montagnes superbes, ces cordillères colossales des Andes”. [Bisognava vederlo quell’eroico vegliardo. quell’ardito pioniere della scienza, attraversare i pianori malsani dell’Amazzonia, dell’Orinoco, dell’Apure, del Magdalena e del Patia... scalare quelle superbe montagne, le colossali cordiglie-

re delle Ande].1 Strumenti alla mano, valicava quelle immani barriere naturali sempre fiducioso e imperturbabile: “Le généreux savant bravait tout, supérieur à la fatigue et à la faim, soutenu par son amour de la science”. [Quel nobile studioso sfidava ogni ostacolo, incurante della fatica e della fame, sorretto dall’amore per la scienza]. Convinto che Codazzi fosse dieci anni più vecchio di quanto non fosse in realtà, Samper sbagliava nel considerarlo un vegliardo, ma aveva tutte le ragioni nel sottolinearne lo stoicismo. Invero, sia in Venezuela che nella Nueva Granada, Codazzi si dette a conoscere per uno stile di vita sobrio fino alla frugalità, tant’è che lo stesso Samper, che lo conosceva personalmente, riferisce che nel corso dei faticosissimi viaggi di esplorazione il lughese s’accontentava d’ingurgitare grandi quantità di caffé amaro e agua de panela. “Tenía gran pasión por las ciencias, amaba a estas repúblicas como a su patria – scrive Samper – y su mayor felicidad era andar por riscos y montañas descubriendo nuevas comarcas, describiéndolas y fijando alturas, distancias, grados de temperatura, etc.” [Nutriva per la scienza un’autentica passione, amava queste repubbliche come la sua patria e la sua più grande felicità, per lui, era andare fra monti e burroni alla scoperta di nuove contrade, descrivendole, misurando altitudini, distanze, gradi di temperatura, ecc.].2 La felicità che Codazzi ricavava dalla misurazione e dallo studio del territorio si doveva sia a ragioni scientifiche che etiche. Infatti, nella sua prospettiva,

1 J.M. Samper, Notice biographique sur M. le Général Codazzi, “Bulletin de la Société de Géographie”, XVIII, Paris, 1859, pp. 49-52. 2 J.M. Samper, Historia de un alma, Medellin, 1971.


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sulla quale navigava diretto in Olanda assieme a Ferrari, ciò che contrassegnava sia lui che il reggino era un contegno gaudente e spensierato, per altro non sorprendente in giovani ex-combattenti espatriati in cerca di fortuna. L’uno e l’altro amavano viaggiare e improvvisare ed entrambi erano, in certo qual modo, dei fatalisti: non perché fossero rassegnati al peggio, ma perché good sports. Un atteggiamento simile al loro è riscontrabile in molti altri veterani delle guerre napoleoniche, soprattutto fra coloro che, dopo Waterloo, si diressero ai quattro venti alla ricerca di un nuovo ingaggio. Di ritorno in Europa, taluni pubblicarono interessanti resoconti delle loro peripezie, cronistorie spesso più attente alle attese dei lettori che non alla veridicità dei fatti (nel frontespizio di una di esse si legge: “nihil est aptius ad delectationem lectoris quam temporum varietates fortunaquae vicissitudines”). Il contegno degli eroi di queste narrazioni – che nell’insieme formano un sottogenere a metà strada fra la letteratura di viaggio e di guerra – si distingue per lo stesso miscuglio di candore, opportunismo e irresponsabilità attribuibile ai due amici. Le Memorie di Codazzi costituiscono uno dei pochi apporti italiani a detta ‘collana’ (non vi rientrano invece i ricordi di Ferrari, quasi indifferenti alla geografia), anche in virtù della mistura di spavalderia e dabbenaggine che ne caratterizza molte pagine. Si veda per esempio il paragrafo in cui il futuro cartografo descrive l’attraversamento dello Skagerrak: 71. Narrative of a voyage to the Spanish Main, 1819, frontespizio.

la geografia, attraverso lo studio approfondito delle caratteristiche non solo fisiche di un dato paese, ne favoriva doppiamente il progresso: consentiva di individuare il cammino verso un migliore sfruttamento delle risorse ed allo stesso tempo agiva da stimolo alla coscienza repubblicana, ovvero, nazionale. Per questo, oltre che esperienza e abilità, l’esercizio della geografia richiedeva un grande senso di responsabilità. Scalare montagne, risalire correnti, percorrere a piedi o a dorso di mulo regioni inesplorate non bastava: occorrevano altresì impegno e visione, spirito di sacrificio e consapevolezza. L’abnegazione e la lungimiranza del lughese trovano riscontro, fra l’altro, negli scritti di Manuel Ancizar, suo compagno di viaggio per oltre un anno. Ancizar dipinse con pennellate impareggiabili il ritratto di un savant scrupoloso e paterno, che dirigeva l’attività dei membri della Comisión Corográfica con severità quasi militare, conscio dei benefici che il loro lavoro, se rigoroso, avrebbe potuto arrecate alla Repubblica.3 La posta in gioco era tale da giustificare qualsiasi sforzo, indipendentemente dal riconoscimento pubblico che ne sarebbe potuto derivare. Infatti, per il nostro geografo lo stoicismo rientrava fra i doveri del buon cittadino. Codazzi pervenne a questa convinzione in età matura. Nel gennaio 1817, mentre i marosi dello Jutland minacciavano di travolgere l’imbarcazione

Crebbe il periglio a segno tale che tutti ci tenevamo per perduti. La forza del vento e delle onde ci spingeva verso gli scogli... quasi invisibili ed a fior d’acqua come tante aguzze punte... Ad ogni urto che davano nel bastimento le onde sembrava a quelli uomini di mare di toccare quegli scogli e vedevasi sul loro volto dipinto il pallore. Noi intanto chiusi nella stanza mangiavamo e bevevamo lasciando correre la barca a suo piacimento rassegnati in tutto e per tutto ai voleri del destino.4

In casi estremi, aggiunge Codazzi, una reazione del genere «fa sì che si habbi alta forza d’animo, una presenza di spirito imperturbabile cui l’aspetto stesso della morte non fa vacillare». La versione di Ferrari si discosta di poco da quella dell’amico: ... la burrasca invigoriva ognora più tanto che il capitano non potendo più reggere alla bufera, fe’ legare il timone, e ammainare tutte le vele... [sceso sottocoperta] ci chiamò tutti, e... ci disse tutto costernato e semivivo dalla paura che pregassimo la Vergine per la comune salvezza. [Questo] sbigottì più che

3

Manuel Ancizar, giornalista e diplomatico colombiano nato nel 1812, partecipò alle prime spedizioni della Comisión Corográfica diretta da Codazzi. Narrò tale esperienza in La peregrinación del Alpha por las provincias del norte de la Nueva Granada en 1850-1851, Bogotá, 1853. Scrisse anche una succinta biografía del cartografo apparsa sulla rivista bogotana “Mosaico” subito dopo la morte di questi (“Biografía de Codazzi”, 1859). 4 Le citazioni dalle Memorie provengono invariabilmente da Le Memorie di Agosino Codazzi, Milano, 1960, a cura di M. Longhena; nel caso di Ferrari, provengono sempre da C. Ferrari, Memorie Postume, Milano, 1942, a cura di M. Menghini.


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mai i marinai che si tennero perduti. Certo non fu quello il miglior mezzo d’inanimirli a combattere arditamente contro il minacciante naufragio.

Nonostante tutto, il brigantino riuscì ad ancorare a Kristiansand, dove rimase alla fonda per quaranta giorni in attesa che il tempo migliorasse. Ripresa la navigazione, «dopo 11 ore di vento favorevole il tempo cambiò di nuovo... laonde fu forza l’ancorare in una baia disabitata della Norvegia». Le circostanze, ironizza Ferrari, richiedevano grande spirito di sopportazione: «Qui ben cadeva in taglio il mio adagio tout pour le mieux, giacché una navigazione sì fortunosa avrebbe tolta la pazienza ad un Giobbe». L’origine leibniziana della massima “tout pour le mieux” è nota. Nello specifico, la coniò Voltaire con scoperte intenzioni satiriche, mettendola in bocca a Pangloss ogni qualvolta questi spiega a Candido che «tutto va per il meglio nel migliore dei mondi possibili». Il pupillo passa di disgrazia in disgrazia ma... “tout est pour le mieux dans le meilleur des mondes possibles.” Racconta Voltaire: Et Pangloss disait quelquefois à Candide: tous les événements sont enchaînés dans le meilleur des mondes possibles; car enfin si vous n’aviez pas été chassé d’un beau château à grands coups de pied dans le derrière pour l’amour de mademoiselle Cunégonde, si vous n’aviez pas été mis à l’inquisition, si vous n’aviez pas couru l’Amérique à pied, si vous n’aviez pas donné un bon coup d’épée au baron, si vous n’aviez pas perdu tous vos moutons du bon pays d’Eldorado, vous ne mangeriez pas ici des cédrats confits et des pistaches. [Pangloss diceva qualche volta a Candido: Tutti gli avvenimenti sono concatenati nel miglior de’ mondi possibili, perchè finalmente se voi non foste stato scacciato a pedate da un bel castello per amor di Cunegonda, se voi non foste stato messo all’Inquisizione, se non aveste scorso l’America a piedi, se non aveste dato una stoccata al barone, se non aveste perduto tutti i vostri montoni del buon paese d’Eldorado, voi non mangereste qui dei cedri canditi e de’ pistacchi].5

La maliziosa elusività della frase seguente, con la quale termina il romanzo, ha fatto ammattire stuoli di glossatori: “Cela est bien dit, répondit Candide, mais il faut cultiver notre jardin”. Nel presente contesto la risposta di Candido può servire a sintetizzare – appunto alla maniera di Pangloss – le tappe dell’itinerario biografico di Codazzi dalla Romandiola alle Ande: se non si fosse arruolato nell’esercito del Regno Italico, se non avesse fatto naufragio a Itaca, se non avesse attraversato indenne lo Skagerrak, se non avesse perso il bastimento per Batavia, se non avesse “couru l’Amérique à pied”... non sarebbe poi diventato quel che diventò. Cela est bien dit... tuttavia, il destino del nostro eroe non dipese solo dal concatenarsi di occasioni e infortuni, ma anche e soprattutto dalla cura con cui – placati gli astratti furori giovanili – si dedicò a coltivare il proprio giardino. 5 Voltaire, Candide ou l’optimisme, 1759. Traduz. T.M. Grandi, Milano, 2009. Il Candide rientra in certo modo nel dibattito sul ‘buon selvaggio’, molto vivace in Francia fra il 1750 e il 1760. Voltaire prende le distanze con caratteristica ironia.

72. Illusrazione dal Candide di Voltaire, ed. 1778.

Mentre il brick solcava il Mare del Nord diretto al porto di Den Helder, nella mente del lughese non vi era spazio per il pessimismo. Da mesi teneva un diario di viaggio ed era giunto il momento di riversarne il sunto nella lettera che avrebbe scritto al padre non appena sbarcato. La spedizione per Batavia, della quale i due amici erano venuti a conoscenza mesi prima decidendo di aggregarvisi, doveva essere pronta a salpare. La missiva si sarebbe chiusa con la fausta notizia dell’arruolamento nell’armata olandese: un ingaggio di prim’ordine in un esercito che, al pari di quello italico, s’era battuto agli ordini di Napoleone fino a tre anni prima, cioè fintantoché il regno d’Olanda aveva fatto parte del Grand Empire. Come se ciò fosse poco, l’inquadramento in un corpo destinato ai possedimenti d’Asia, dov’erano in corso operazioni militari volte al loro ingrandimento, avrebbe permesso a lui e all’amico di fare una rapida carriera. La loro tempra di reduci napoleonici e la loro conoscenza del mondo garantivano che in un paio d’anni sarebbero stati entrambi ufficiali superiori. Ma arrivato ad Amsterdam, il lughese scoprì che la spedizione per la capitale delle Indie olandesi o era già salpata o non era mai esistita, per cui si vide costretto, unitamente al compagno, ad un repentino cambio di piani. Dalle parole rivolte al genitore traspaiono segni d’inquietudine che il tenore gaio e speranzoso della missiva non riesce a dissimulare:


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73. Monticelli-Gallina, Allegoria dell’America, 1820, inc. col.

Ora in qual parte devo volgere i miei passi se dopo un anno, e più di continuo viaggio non ho trovato impiego presso tutte le Nazioni Europee, ed una porzione delle Asiatiche, ed Africane? La sol’America mi si è presentata a miei occhi, e là vado.6

In realtà, nei mesi anteriori un paio di offerte d’impiego gli erano pervenute, ma non, come aveva sperato, sotto forma d’ingaggio militare. Volendo, avrebbe potuto sistemarsi in Polonia «con un buon onorario dando in francese lezioni di scherma, e cavallerizza», ma un’ansia struggente di trovarsi fra il rumore delle armi «piuttosto che in un pacifico dobbato Palazzo», l’aveva indotto a rinunciare. Per lo stesso motivo aveva respinto la proposta di trattenersi a Danzica quale «ajo in una ricca casa». Rifiuti che a prima vista potrebbero apparire avventati, ma che a lungo andare si rivelarono azzeccati: se avesse accondisceso, avrebbe finito per sprecare l’avvenire al servizio di qualche junker prussiano, ignorando – come

6 A. Codazzi, “Lettera al padre”, 28 aprile 1817, Archivio di Stato di Ravenna, sez. Atti Notarili. 7 Un insediamento del genere sorse davvero, ma sotto altro nome e con una popolazione di poche centinaia di emigrés: la Vine and Olive Colony, cfr. infra. Curiosamente Codazzi vi si riferisce in anticipo sulla data della sua fondazione (luglio 1817).

avrebbe detto Pangloss – il mandato del destino. Invece era in procinto di salpare per le leggendarie Indie Occidentali, la porzione più attraente e femminea del globo, seducente come la sua personificazione allegorica, più attraente, nelle sue forme ignude, della stessa Marianna. Mentre costei rappresentava la resistenza civile, l’America simboleggiava lo stato di natura, la libertà primigenia: come sfuggire al suo incanto, come rifiutarne l’invito? Conoscendone le doti d’immaginazione, non sarebbe affatto strano se il lughese, in attesa di salpare, si fosse figurato davvero il Nuovo Mondo in chiave allegorica (v. fig. 73). Ciò non solo per effetto dell’eterno femminino, ma anche per il brillio dell’oro: le lusinghe di sempre. Last not least, l’America (con buona pace di Shelley, sarebbe il caso di dire) era il vero paradiso degli esuli: Sono già colà passati più di diecimila uffiziali Francesi, alla di cui testa evvi Giuseppe Bonaparte, i quali stanno fabbricando una nuova città chiamata Persinpopolis [sic].7

Tutto lasciava prevedere che oltreoceano la sorte sua e del sodale si sarebbe raddrizzata. Ad Amsterdam si andava dicendo che il governo degli Stati Uniti, nella sua lungimiranza, aveva predisposto per gli ufficiali napoleonici un’accoglienza che, se da una parte ne premiava i trascorsi militari, dall’altra ricompensava anticipatamente i servizi che la Repubblica


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avrebbe richiesto loro qualora si fosse vista minacciata.8 Per i due amici era un invito a nozze: Pensiamo di cambiare in questo Nuovo Mondo la nostra sorte, giacché qui è pubblico, che ogni ufficiale è accettato non solo con un buon soldo, ma ancora il Governo gli passa una certa quantità di terreno con tanti schiavi neri quanti sono bastanti per coltivarlo, ed il prodotto è di vantaggio dell’ufficiale, a cui restagli il peso del mantenimento dei nuovi travagliatori, e di prender le armi ad ogni cenno per la difesa dello Stato.9

Certo, il buon senso romagnolo invitava alla circospezione. Inoltre, era ancora cocente la delusione per i miseri risultati del lungo periplo appena ultimato. Tuttavia, quand’anche si fosse trattato di fanfaluche e nella Repubblica del Nord non avessero trovato il bengodi, a Sud si sarebbero presentate altre possibilità: (...) spero di riuscire nelle mie brame, e quante volte ancora fossero favole ciò che da tutti qui dicesi, mi resta per ultimo la risorsa di andare sotto Cristoforo Capo dei Neri di Santo Domingo, o veramente unirmi alle bande dei ribelli Americani Spagnoli, e così mi sarà facile il vedere la Castiglia d’Oro, il Brasil, il Perú ed i1 Paraguai.

La mappa delle alternative sudamericane ha contorni incerti e suggestivi ed è cosparsa di toponimi sonori ed evocatori. Del Paraguai Codazzi aveva una vaga nozione trasmessagli dai gesuiti rifugiatisi in Romagna dopo l’espulsione dai possedimenti spagnoli (1768); la parola ‘Perú’ tornava spesso nel frasario popolare per indicare una ricchezza sconfinata; con il nome ‘Brasil’ una cartografia obsoleta ma ricca d’incanto aveva battezzato l’intero subcontinente meridionale; la Castiglia d’Oro aveva lo stesso potere di seduzione e la stessa elusività dell’Eldorado. Per contro, la ribellione degli spagnoli d’America rientrava fra i fatti di cronaca ed è probabile che il lughese la attingesse dai giornali. Per quel che concerne «Cristoforo Capo dei Neri di Santo Domingo», la spiegazione è più complessa. La rivoluzione di Haiti era durata dal 1791 al 1803 e aveva comportato da parte degli insorti – gli schiavi neri capitanati da Toussaint Louverture – un valore inaudito: nel corso di tredici anni avevano sconfitto i piantatori bianchi e la guarnigione locale, respinto un’invasione spagnola, fatto fronte a una spedizione inglese di 60 mila uomini e umiliato un contingente francese... raggiungendo infine l’indipendenza. Da vittime passive d’una secolare oppressione, gli schiavi si erano eretti ad agenti della propria emancipazione, una lezione che in seguito avrebbe portato al crollo del sistema coloniale. Codazzi ignorava tutto ciò. Sapeva dell’esistenza d’un

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In effetti, esisteva una French Emigrant Association, creata dal conte Pierre-François Réal (1757-1834) con l’appoggio di Giuseppe Buonaparte, tesa ad assicurare protezione ai veterani di guerra leali a Napoleone. Il conte esercitò ogni possibile pressione sul governo degli Stati Uniti al fine di ottenere per tale iniziativa sostegno politico e finaziario.

74. Toussaint Louverture a cavallo, 1802, inc.

certo «Cristoforo», tuttavia non immaginava che si trattasse di Henri Christophe, eroe della rivoluzione haitiana e, dal 1811, “premier monarque couronné du Nouveau-Monde”. Le sue erano lacune comuni. La disinformazione riguardo ai fatti di Haiti era tale che nel 1817, in Europa, l’isola seguitava a considerarsi una colonia francese e a chiamarsi Saint-Domingue, convincimento avallato dal Trattato di Parigi del 1814 e poi da quello di Vienna (la Francia riconobbe l’indipendenza di Haiti solo nel 1838). Mentre la geografia si stava facendo passo, la storia, nelle nozioni del nostro eroe, era ancora arretrata; tuttavia, la sua sete di conoscenza lasciava ben sperare. Riprendendo ciò che s’è detto poc’anzi sul suo modo di essere all’epoca della partenza per l’America, bisognerebbe aggiungere che alla baldanza e all’ingenuità si univa la costumatezza, una sorta di antidoto contro l’intemperanza inoculatogli nell’infanzia assieme alle altre virtù familiari. Quantunque si fosse arruolato contravvenendo alla volontà di Domenico, il giudizio paterno seguitava a rappre-

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Codazzi riprende voci diffuse dai giornali europei e americani in circolazione ad Amsterdam. Scrivendo che gli ufficiali avevano l’obbligo di «prender le armi ad ogni cenno per la difesa dello Stato», anticipa ciò che il generale Lallemand proclamerà in Texas l’anno successivo, nel momento di fondare il Champ d’Asile. Cfr. infra.


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madre, fratello, e sorella vi abbraccio, e baciandovi e ribaciandovi vi auguro salute, tranquillità, e sorte, e col desiderio di poter un giorno stringervi tutti al mio seno, e divider con voi il frutto dei miei travagli vi saluto. Addio, addio, e parto glorioso e trionfante per non mai più morire.

75. L’addio all’esule, prima metà dell’Ottocento, stampa popolare.

sentare per lui la massima istanza morale. Tale soggezione, peraltro benaccetta, lo spingeva a sottoporre al genitore progetti e rendiconti. A riprova di ciò, si veda la frase seguente: Credo che dopo letta questa lettera crederete tutto ciò che è scritto una favola combinata, giacché riflettendo che se un anno addietro perderei tutto, come mai possibile abbi potuto fare lunghi viaggi, trattenermi nelle più Gran Capitali, e poi ora riuscire nel viaggio d’America... mi contenterò di dirvi: che non ho in alcun punto disonorato la famiglia, né mi sono reso indegno della Patria, né mi sono avvilito, né ho degradato il mio rango.

La navigazione sarebbe iniziata di lì a due giorni, il 30 aprile, per cui era giunta l’ora di congedarsi. Le parole di commiato confermano l’appartenenza di Codazzi ad una generazione spaesata e inappagata, disposta a salpare alla volta di mondi improbabili con lo stesso empito cieco con cui aveva sfidato il nemico sui campi di battaglia; e nel contempo una generazione fiduciosa, positiva, pronta ad affrontare il futuro con le armi o con la vanga. Il domani era oltreoceano, lontano dagli affetti e dalle usanze. Raggiungerlo implicava una separazione straziante ma transitoria e in fin dei conti proficua: per questo chi partiva era allo stesso tempo triste e lieto. Ecco nuovamente il saluto del nostro eroe: Addio Europa. Italia addio. Patria mia ti saluto, concittadini, ed amici vi lascio, donne mie belle vi abbandono, parenti, e congiunti vi do un amplesso, e voi mio caro Padre,

Benché iperbolico, il commiato non è tutto retorica. Oltre alla genuina commozione del distacco, dalle righe trapela un sincero desiderio di ricongiungimento, a sua volta sorretto da un’idea circolare del viaggio e del tempo. Prevedere la durata dell’itinerario e le mutazioni di stato sarebbe stato impossibile; tuttavia, al di là delle incognite, il nostro eroe non dubitava che il punto finale avrebbe coinciso con il punto di avvio. Il cerchio si sarebbe chiuso quando le circostanze che ora lo allontanavano gli avrebbero permesso di tornare; e poiché il movente del viaggio era il miglioramento della sorte, la conclusione non avrebbe potuto essere se non vittoriosa: premio già di per sé, il suo ritorno avrebbe arrecato altresì i frutti dell’assenza. «Cangia suolo, e non sorte un infelice», dice l’iscrizione in calce all’incisione riprodotta nella pagina accanto (v. fig. 76): ciò poteva essere vero per un esiliato, giammai per un individuo fattivo e fiducioso come Codazzi. L’addio è improntato ad una caratteristica mistura di epicità ed emotività, rapportabile ai moduli linguistici e stilistici dell’epoca. Di fatto, vi si ravvisano i riflessi d’un gusto espressivo veemente e retorico, vicino ai modi del romanticismo. Le conoscenze letterarie di Codazzi erano sorte sui banchi di scuola, in un ambiente poco stimolante e ancor meno aggiornato. Ma negli ultimi cinque anni era entrato in contatto, pur anche alla lontana, con la cultura in fieri, permeata a tutti i livelli di suggestioni romantiche. Uno spunto di questo tipo è ravvisabile nel ‘saluto dell’esule alla patria’, uno dei temi più struggenti della poesia del primo Ottocento, a cominciare dal Foscolo. Ma si badi alle differenze, ben più significative delle somiglianze. Il lughese ‘non va fuggendo’ di patria in patria come il vate di Zante: è anch’egli uno sradicato, ma la sua condizione non è, né potrebbe essere, quella del coscritto... perché ‘patria’ – nella lettera – non significa ‘Patria’. L’Europa e l’Italia, per il nostro eroe, erano entità geografiche formanti il Vecchio Mondo, mentre la sua vera patria era la culla romagnola. Eclissatosi l’astro napoleonico, l’Italia e l’Europa avevano perduto – agli occhi di Codazzi – l’identità e le attrattive possedute in precedenza. Fino alla metà del 1814, l’Italia aveva costituito un tutt’uno con l’esercito del Regno, mentre l’Europa si era identificata con l’Impero. A tre anni di distanza, l’una e l’altra erano cambiate tanto da apparire irriconoscibili. Un ordine continentale ed una concezione della storia – quell’ordine e quella storia entro cui Codazzi era nato e cresciuto – erano scomparsi. Lo sconvolgimento era tale che coglierne la portata, in termini mentali oltre che ideologico-politici, era pressochè impossibile. Immutati erano rimasti unicamente i lineamenti geografici e gli aspetti immaginari del Vec-


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chio Mondo. Ed è appunto quest’ultimo – crediamo – che egli aveva in mente quando scrisse: «Addio Europa. Italia addio». Per i reduci fra i venti e i trent’anni, ‘restaurazione’ significava non già il ritorno ad uno stato di cose anteriore, bensì l’avvio di una fase incognita e male accetta. Nonostante la breve età, ciò che primeggiava in loro era la nostalgia del passato napoleonico, un’epoca esaltante e colma di opportunità. Napoleone aveva riscattato migliaia di giovani dalla piattezza della vita di provincia, dilatandone le prospettive e facendone degli uomini valenti: come non rimpiangerlo? A differenza dell’Italia e dell’Europa, nozioni incerte, la patria, per Codazzi e molti suoi coetanei, era qualcosa di concreto e stabile... com’erano concrete e stabili le strade e le piazze di Lugo, o gli amici, le donne e i parenti lasciati indietro. Ma una patria priva di valenze nazionali e patriottiche non rientrava nell’immaginario romantico, o meglio, poteva rientrarvi soltanto se trasfigurata e ingigantita dal pathos del distacco. Intesa in questo senso, la veemenza dell’addio sarebbe da collegarsi, più che alla drammaticità del momento, alla ricerca di un effetto letterario nobilitante. Non appena imbarcati, la condizione dei due amici passò da reduci di guerra sbandati ad esuli. Per esilio s’intende di norma l’allontanamento forzato o volontario, perpetuo o temporaneo, dalla patria, un significato che si addice anche al loro caso. Nell’antichità era obbligato a prendere la via dell’esilio chiunque, a seguito d’una condanna, fosse stato privato del diritto al fuoco e all’acqua (“igni ac aqua interdictus”). Tuttavia, era considerato esule anche colui che, non riconoscendosi nella patria, si sottraeva ai propri doveri verso di lei (“exilium patitur patriae qui se denegat”, recita la nota sentenza di Publilio Siro). In sintesi, a provocare l’allontanamento dalla terra dei padri poteva essere sia il bisogno che l’infelicità, sia la ricerca dei mezzi di sussistenza che il rifiuto di uno stato di cose inaccettabile. Se a determinarlo era la sospensione d’un diritto, l’esilio costituiva una penitenza; se a causarlo erano le privazioni, equivaleva ad un flagello; se all’origine vi era lo scontento, rappresentava un sacrificio o una liberazione (o entrambe le cose). Se Codazzi e Ferrari fossero partiti a causa dello snaturamento subito dall’Italia e dall’Europa dopo la débâcle napoleonica, il loro espatrio potrebbe definirsi ‘foscoliano’; se, per contro, fossero stati condannati al confino, si tratterebbe d’un esilio ‘ovidiano’. Ma poiché a provocarne la partenza furono particolari circostanze materiali – la perdita dei mezzi di sostentamento a seguito della smobilitazione delle armate europee – dobbiamo convenire che si trattò di allontanamento ex necessitate. In realtà, il caso di Codazzi e Ferrari sfugge alla tipologia classica, e ciò perché, dalla seconda metà del Settecento in poi, entrarono in gioco altre distinzioni. Agli esuli si affiancarono i profughi, i proscritti, gli emigranti, i rifugiati e gli espatriati, categorie

76. L’infelicità dell’esule, ca. 1815, inc.

non del tutto nuove ma diversamente caratterizzate rispetto al mondo antico. In questo quadro ampliato, l’esperienza dei nostri eroi è tecnicamente più vicina all’espatrio che non all’esilio o all’emigrazione. Di fatto, all’espatrio – diverso dall’emigrazione in quanto limitato nel tempo – corrisponde il minor grado di coercizione ed il maggiore grado di attesa. Ciò nonostante, dal punto di vista esistenziale, Codazzi e Ferrari sono degli autentici esuli, non diversamente da coloro che “embrace exile as their status and their role, as their place in history, because it is their fate” [abbracciano l’esilio quale stato e ruolo, come posto nella storia, perché tale è il loro destino].10 Questo vale in particolare per il lughese, la cui vita fu scandita da tre successivi esili: del primo ci stiamo occupando, il secondo lo allontanerà definitivamente da Lugo e dall’Italia nel 1826 e il terzo lo obbligherà ad abbandonare il Venezuela nel 1849. Tre variazioni sul distacco e sulla delusione in un crescendo doloroso e drammatico, dall’eccitazione della 10

M.E. Jiménez, The politics of exile: class, power and the exilic, in “Cultural Logic”, 2003.


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nascondesse mire politico-militari volte al riscatto di Napoleone, unirsi a detto piano avrebbe significato, oltre al proseguimento della carriera delle armi (con gli annessi privilegi economici e sociali), la partecipazione ad un’impresa che si preannunciava esaltante.12 Poco importava che Codazzi e Ferrari non fossero dei veri e propri exilés: se è vero che non erano né francesi né proscritti, se è vero che non possedevano una patria nel senso transalpino di ‘stato nazionale indipendente’, è altrettanto vero che per uomini affratellati dall’esprit de corps, dal senso dell’onore e da una causa comune, simili puntualizzazioni erano trascurabili. Dal momento che gli italiani e i francesi si erano battuti gomito a gomito in Spagna e in Russia, perché distinguere fra esuli ed exilés?13

partenza dall’Olanda all’amarezza dell’addio definitivo al ‘dolce paese’ fino allo strazio per l’abbandono forzato della patria adottiva (v. fig. 77). Le speranze perseguite dai due amici nel corso della peregrinazione nell’Europa orientale erano state le stesse che li avevano sospinti ad imbarcarsi sul brigantino Union. Purtuttavia, nel momento di salpare per l’America, alla prospettiva d’un ingaggio militare (che – parbleu! – non poteva continuare a sfuggir loro) si aggiunse il miraggio d’una vita rispettabile e laboriosa all’interno d’una comunità di refugiés. La possibilità di associarsi a una “confédération napoléonienne” era oltremodo desiderabile per ragioni ad un tempo ideali e pratiche.11 Poiché la fede bonapartista degli exilés lasciava supporre che l’insediamento di una colonia nel sud degli Stati Uniti

Ad Amsterdam, in quei giorni di aprile, vi erano «molti bastimenti degli Stati Uniti venuti espressamente per caricare famiglie che senza interruzione arrivavano dalla Svizzera, dalla Sassonia e dall’Annover e si contavano già dei partiti più di ottomila, mentre erano già pronti al passaggio più di altri tre milla». Si trattava in maggioranza di «coltivatori di terra, orefici, orologiari e di molte arti meccaniche», i quali «con tutte le loro famiglie si portavano nel nuovo mondo sperando trovare colà una sorte migliore che li assicurasse». Anche il grosso dei passeggeri assiepati sul brick – circa duecento cinquanta – era costituito da artigiani e contadini («molti agricoltori e artieri, che si recavano in America a fondarvi una colonia»). Oltre a questi due gruppi e ai veterani di guerra figuravano dei religiosi, per la precisione «un vescovo francese con quattro suoi sacerdoti, che andavano per quelle parti come missionari». Insomma, riprendendo il discorso avviato sopra, accanto a coloro che, sradicati dal paese d’origine dalla povertà, andavano in cerca della terra promessa, vi erano altri che viaggiavano mossi non dal bisogno ma da ideali politici o religiosi, mentre altri ancora fuggivano da paesi divenuti inospitali. Mentre nell’antichità tutte le esperienze relative all’allontanamento coatto o deliberato dal suolo natio rientravano nella categoria ‘esilio’, in epoca moderna si è voluto raggrupparle sotto l’etichetta ‘emigrazione’. Fin dai tempi di Ovidio l’esilio, se inteso come condanna, ha rivestito connotazioni politiche oltre che giuridiche; tuttavia, dalla seconda metà del Settecento in poi, cioè, da quando il fenomeno migratorio ha cominciato ad assumere proporzioni di

11 A detta di Hyde de Neuville, ministro plenipotenziario francese a Washington, il Champ d’Asile, fondato in Texas dal generale Lallemand, costituiva appunto una ‘confederazione napoleonica’. Cfr. G. Bertin, Joseph Bonaparte en Amérique, Paris, 1893, p. 220; anche J. Reeves, The Napoleonic Exiles in America, Baltimore, 1905, pp. 47 e ss.; E. Ocampo, The emperor’s last campaign: a Napoleonic empire in America, Tuscaloosa, 2009. 12 Bertin, op.cit., p. 222. I rifugiati francesi “rêverènt d’établir un royaume espagnol au Mexique et au Texas, dont Joseph Bonaparte serait le roi... Joseph refusa constamment de ternir son

passé de royauté et de compromettre l’avenir par une entreprise révolutionnaire”. Sulle reazioni di Napoleone alle proposte di chi voleva riscattarlo dall’esilio e offrirgli un impero nel Nuovo Mondo, cfr. Ch.-T. Montholon, History of the Captivity of Napoleon at St.Helena, II, London, pp. 272-274. 13 In realtà, l’aver combattuto agli ordini di Napoleone non bastava a uguagliare i soldati stranieri ai francesi. L’accesso al Champ d’Asile, per esempio, era riservato ai francesi o agli stranieri reduci della Grande Armée. Benché veterani dell’esercito italico, Codazzi e Ferrari non sarebbero stati accettati.

77. La partenza degli emigranti, prima metà dell’Ottocento, acquatinta.


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78. Duplessis Berteaux, Allegoria dell’indipendenza degli Stati Uniti, 1786, inc.

massa, l’aspetto politico è divenuto via via più importante. Lo spostamento di masse pauperizzate da un continente all’altro – per non parlare di ‘reiezione’ – va annoverato fra i contraccolpi della rivoluzione industriale e della sovrapposizione di economia, demografia e politica teorizzata dal pensiero liberale. Come osserva uno studioso, «la storia delle emigrazioni politiche si inserisce nel quadro più vasto delle emigrazioni in genere, cioè in quelle cosiddette di massa», anche se ne sono diverse le motivazioni, facendo leva queste piuttosto su esigenze di carattere economico e quelle su istanze ideologiche.14 Parlare di esilio è più romantico che non parlare di emigrazione, diaspora, deportazione e simili, ma comunque lo si chiami è un fenomeno anche o soprattutto politico: “Exile is always a political construction and, as such, an expression of political power”.15 A provocarlo, infatti, sono poteri che allo stesso tempo

opprimono ed incitano alla resistenza. A seguito della sua espansione l’esilio, ribattezzato ‘emigrazione’, ha coinvolto milioni di persone, ben poche di esse “political actors in a narrow sense”, ma tutte trascinate da forze politico-economiche incontrollabili.

14 S. Candido, “Appunti sull’apporto italiano alla storia delle emigrazioni politiche ecc.”, Centro Virtual Cervantes, materiale

on-line (cvc@cervantes.es). 15 M.E.Jiménez, op.cit.

Da questo punto di vista, la situazione, nel 1817, era sostanzialmente la stessa: anche allora il distacco dal paese natale era provocato da un intreccio di elementi politici ed economici ed anche allora, aggiungiamo, l’obiettivo era la felicità. Dalla dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti erano trascorsi quattro decenni, quarant’anni durante i quali le parole di Thomas Jefferson erano assurte a manifesto di tutti gli esuli e di tutti gli emigranti. L’esistenza umana e i rapporti fra gli individui non potevano non fondarsi su verità di per sé evidenti come il diritto alla vita, la libertà e “the pursuit of Happiness” (v. fig. 78). Di ciò


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venture e di tesori, ma allo stesso tempo confidavano nelle esortazioni di Jefferson e vagheggiavano una repubblica con le fattezze di Marianna (v. fig. 80). Non erano dei veri e propri rifugiati eppure abbisognavano di asilo: un luogo dove venisse riconosciuto il diritto dell’uomo a una società libera e ugualitaria, senza re e senza papi. Avevano combattuto per anni per la grandezza dell’Impero ed ora, dimentichi delle repubbliche immolate all’ambizione di Buonaparte, erano pronti a impugnare nuovamente la spada per strapparlo all’esilio e collocarlo sul trono... di una repubblica imperiale americana!16 Contraddizioni su contraddizioni: non però nell’ottica di Codazzi e Ferrari, giacobini in pectore, esuli sui generis, patrioti mancati, amanti delle donne e del vino. Con ogni probabilità la repubblica dei loro sogni, nell’aprile del 1817, rassomigliava a quella cantata da PierreJean de Béranger (v. fig. 79): J’ai pris gout à la république Depuis que j’ai vus tant de rois: Je m’en fais une, et je m’applique A luis donner de bonnes lois. On n’y comerce que pour boire, On n’y juge qu’avec gaité: Ma table est tout son territoire, Sa devise est la liberté.17 79. Ritratto del poeta P.J. de Béranger, ca. 1820, litogr.

erano unanimemente convinti anche i compagni di viaggio del lughese. Tuttavia, il il significato attribuito alla parola ‘felicità’ cambiava da persona a persona, rinviando ad aspirazioni e progetti diversi. Per taluni la felicità s’identificava con il benessere collettivo, per altri con l’appagamento individuale. Gli artigiani e i contadini si recavano nel Nuovo Mondo premeditatamente, decisi a trapiantarvisi e a costruirvi un avvenire comune. I veterani, per contro, non avevano né piani né mete fisse: andavano oltreoceano in cerca di fortuna ed emozioni, ben decisi a tornare prima o poi in Europa con «il frutto dei loro travagli». Al pari dei loro vecchi compagni d’arme, Codazzi e Ferrari avevano in mente una permanenza prolungata – uno «stabilimento per molti anni» – ma non certo un trasferimento a perpetuo. Non essendo proscritti politici e nemmeno coloni, i veterani di guerra non rientravano del tutto né nella categoria degli esuli né in quella degli emigranti, e definirli ‘espatriati’ non aiuta più di tanto a precisarne il profilo. All’equivocità del loro status fa da contrappeso l’incertezza dei loro moventi. Si accingevano a partire per l’America desiderosi di av-

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“Ma republique”, in Pierre-Jean de Béranger, Chansons de P.-J. de Béranger, Paris, 1830. Béranger fu molto amato dai patrioti italiani. Giuseppe Garibaldi narra un episodio avvenuto nel 1834 a Marsiglia, quando era fuggiasco: «Intonai il “Dio della gente da bene” [“Dieu des bonnes gens”]. Se io non avessi avuto altra vocazione, mi sarei fatto cantante; io ho una voce da tenore, che se non fosse stata un po’ faticata, avrebbe potuto prendere

Codazzi “amaba a estas repúblicas como a su patria”, ricorda José María Samper riferendosi all’attaccamento al Venezuela e alla Nueva Granada.18 Il sentimento repubblicano, nel lughese, era di vecchia data, annoso come l’ansia di orizzonti aperti. Più che da una scelta ideologica scaturiva da un impulso vitale, da un’intuizione più che da un sillogismo. Finché non si trasferì del tutto in America, la parola ‘patria’, seguitò a significare per lui, oltre che il luogo natale, una repubblica in absentia, agognata e inafferrabile. Questo anelito lo avvicinava e nel contempo lo allontanava dai francesi: anch’essi s’erano lasciati invogliare dal ‘gusto di repubblica’, ma, assaggiatolo e magnificatolo, l’avevano presto disdegnato. Quando la Repubblica Cisalpina svanì, Codazzi aveva dodici anni scarsi, troppo pochi per distinguerne e conservarne appieno il sapore. Eppure si sobbarcò enormi sforzi pur di gustarlo nuovamente. Tornando al 1817, si potrebbe dire che la differenza principale fra i nostri eroi e gli exilés era che costoro avevano una nozione abbastanza precisa di patria (in senso territoriale se non politico), mentre Codazzi e Ferrari stentavano a figurarsela. Comunque sia, la coscienza nazionale dei francesi non era bastata a salvare né la Repubblica né l’Impero. Contriti e

una certa estensione. I versi di Béranger, la franchezza con la quale venivano cantati, la ripetizione del ritornello, la popolarità del poeta entusiasmarono tutti gli ascoltatori. Mi fecero ripetere due o tre strofe, mi si abbracciò all’ultima, gridando: Viva Béranger, viva la Francia, viva l’Italia!». Cfr. G. Garibaldi, Memorie di Giuseppe Garibaldi pubblicate da Alessandro Dumas, Palermo, 1860. 18 J.M. Samper, Historia de un alma, op.cit.


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80. P.-P. Prud’hon, Allegoria della Repubblica, ca. 1793, dis.

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81. A. Borel, L’Amérique Indépendante, 1778, inc.


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82. P. Mortier, L’Oceano Atlantico o Mar del Nord, 1700.

spossessati, ora se ne partivano per terre lontane magari cantando mestamente un ritornello di Béranger: D’une terre chérie C’est un fils désolé, Rendons une patrie, Une patrie Au pauvre exilé.19

A Codazzi, a cui non era stato sottratto alcunché (di cui si ricordasse), mancava il senso della perdita: per questo non vi era in lui né desolazione né nostalgia («la malinconia non s’è mai impadronita del mio cuore», si legge nella lettera). Proverà lo struggimento della privazione anni dopo – fra il 1823 e il 1826 – non però per la lontananza dalla patria lughese bensì, all’opposto, per la mancanza di quella libertà e di quella vastità di orizzonti che aveva trovato, e perduto, nel Nuovo Mondo. I versi con cui Béranger descrive l’apprensione dell’exilé di ritorno in patria si addicono anche al lughese... ma per descrivere ciò che dovette sperimentare nel maggio del 1826, quando, lasciata per sempre l’Italia, andò a cercare la felicità oltreoceano: Qu’il va lentement le navire A qui j’ai confié mon sort! Au rivage où mon coeur aspire, Qu’il est lent à trouver un port!20

Negli oltre trent’anni trascorsi nell’America tropicale, Codazzi pervenne a identificare la sua patria con le repubbliche comprese fra le Ande e il Mar dei Caraibi, l’Orinoco e il Río Grande della Magdalena. Ciò nonostante, nel 1817, mentre l’Union si apprestava a salpare, una simile evenienza era impensabile, non solo perché era sua ferma intenzione far ritorno in Romagna «onde dividere in famiglia i frutti dei suoi travagli», ma anche perché tali repubbliche non esistevano ancora. Era in corso una rivoluzione che avrebbe portato in breve alla loro nascita, ma il nostro eroe ne sapeva ben poco, come d’altronde sapeva poco dell’America in generale. Diversamente da ciò che si potrebbe credere, le informazioni riversate in seguito nelle Memorie rimandano solo in parte ad esperienze e osservazioni personali, procedendo in molti casi da letture fatte dopo il ritorno in Italia. Al momento della partenza dall’Europa, Codazzi disponeva soltanto di qualche ricordo scolastico e di notizie frammentarie e imprecise riportate dalle gazzette. Priva, nelle sue nozioni, di lineamenti storicogeografici, l’America gli appariva sotto le spoglie allegoriche menzionate poc’anzi, vale a dire, come una 19 de 20 de

Béranger, “L’exile”. Béranger, “Le retour dans la patrie”.


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83. Emigranti in attesa d’imbarco, seconda metà dell’Ottocento, stampa.

donna ignuda, bella e selvaggia (v. fig. 73). Il nuovo continente spuntò fisicamente all’orizzonte «dopo tre mesi e quindici giorni di navigazione molestissima per disagi e pericoli» in notevole ritardo sui normali tempi di navigazione. Ciò si dovette sia ai venti contrari che ad una falla apertasi nella sentina a poche settimane della partenza, da cui conseguì l’appesantimento del brigantino. «Riceveva tant’acqua – ricorda Codazzi – che erano obbligate le due pompe a non cessare giammai notte né giorno». Tutti i passeggeri, non esclusi i preti, erano obbligati a pompare a quattro a quattro. «Molti per altro non ressero a quella enorme fatica – aggiunge Ferrari – e ammalarono di reni per la disagiata postura, che facea d’uopo tenere in quel lavoro». Rotti ai pericoli e alle tribolazioni dei viaggi per mare, i due amici se ne gloriavano e per di più ne traevano profitto: Ad ogni menomo movimento del legno cagionato dai venti e dalle onde quasi tutti i passeggieri erano presi dal mar di mare, e quindi rimanevano più morti che vivi. Noi soli in quelle giornate stavamo meglio perché tutto il ponte era sgombro a noi per passeggiare e la cucina senza concorrenti ci dava comodo per procacciarci un piatto di più.

Benché sedessero alla tavola del capitano, privilegio tutt’altro che trascurabile, il vitto era scarso e monotono («sempre salumi, biscotto, birra, fagioli, poco riso, e acqua per lo più non troppo buona»). Ancor peggiore era l’alloggio: sottocoperta, costituito da due ordini di cubicoli sovrapposti disposti lungo le fiancate dello scafo, venti da un lato e venti dall’altro, a cui si accedeva mediante stretti corridoi.

«Eravamo quasi ammucchiati in quelle anguste camerette – scrive Ferrari – e a cinque a cinque per ogni bugigattolo». Codazzi precisa: «E noi fummo i soli che più per prepotenza che per altro volemmo dormire in quattro associando a noi un ufficiale francese per nome Studer ed il suo compagno studente di Strasburgo, nominato Henri». Stipati in «cabanne» soffocanti, sofferenti, malnutriti, assetati, sporchi... ad accrescere le tribolazioni dei passeggeri contribuivano pure la tracotanza e la rissosità dei quattro compagnons: Varie questioni ed alterchi passavano durante il viaggio che sempre finirono col batterci e col riuscire noi vittoriosi e pervenimmo a tale che noi quattro tenevamo fronte a tutti e nessuno osava contraddirci.

Incurabile attaccabrighe, duellante incontenibile, Ferrari non seppe trattenersi nemmeno a bordo dell’Union: Un giorno (...) un giovinotto prussiano di alta statura volle prendere il partito generale e cercare di scuotere il giogo ma ne fu sì ben malmenato dal compagno Ferrari che poco mancò non fosse gettato in mare.

Ridotti ai loro occhi di vieux moustaches ad un gregge pavido e belante, gli emigranti venivano ulteriormente scherniti con diversivi di bassa lega: Per miglior passatempo inventammo le ombre chinesi e così alla sera rappresentavamo nel corridoio tutte le sciocchezze e le goffezze che si facevano di quei pusillanimi compagni di viaggio.


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84. Emigranti sottocoperta, seconda metà dell’Ottocento, stampa.

Compilate a sette anni dalla traversata, quando l’autore era trentunenne, le Memorie lasciano trapelare le tracce d’una spocchia – chiaramente percepibile nella lettera citata – destinata a dissolversi del tutto nel giro di pochi mesi. A provocarne la sparizione sarà l’insuccesso del Serraglio (profilatosi in tutta la sua gravità appunto nel 1825), un’esperienza che acuirà il suo senso autocritico. Il lughese mise mano alle Memorie per motivi diversi, fra cui quello di mitigare la propria crescente scontentezza: un malessere derivante non solo dalla situazione del podere, dal peggioramento dei rapporti con l’amico e dal clima irrespirabile delle Legazioni ma anche e soprattutto dalla nostalgia dei Tropici. Niente, nel mondo circostante, corrispondeva a quanto aveva previsto o vagheggiato durante la permanenza oltreoceano. Le Memorie, in questo senso, gli offrirono la doppia possibilità di oltrepassare i limiti di tempo e luogo e di dischiudersi all’immaginazione. Il tenore quasi letterario del testo, i voli di fantasia e l’autocompiacimento rimandano alla stessa intenzione di fondo, cioè, quella di fuggire dal Serraglio. Non sapeva, però, che ricordare non basta, che «occorre saperli dimenticare i ricordi, possedere la grande pazienza d’attendere che ritornino». Ignaro di ciò, si mise a scrivere pressando la memoria, convinto che in essa risiedesse comunque un elemento liberatorio, inventivo. Forse non scoprì mai che i ricordi, in sé, non sono manifestazioni creative, ma che – come intuisce finemente Rilke – assurgono a poesia solo quando «divengono in noi sangue, sguardo, gesto, quando non hanno più nome e non si distinguono più dal nostro essere». Benché non fosse

in grado di sublimare liricamente il proprio vissuto, benché nel raccontarlo rivelasse più immodestia che afflato, il lughese, come dimostra il brano seguente, aveva comunque un notevole talento descrittivo: Il muggito orrendo di quelle acque, il fischiar orribile dei venti, lo sventolar delle lacere vele, e le spaventose onde che dal timoniere non potendosi evitare venivano tratto a tratto ad urtare contro il naviglio ed a coprirlo interamente, ci facevano temere di essere ad ogni istante sommersi, per cui era d’uopo tenerci bene stretti per non essere dalla forza delle onde gettati in mare. Tutti i boccaporti erano ben chiusi e sigillati acciò le acque non riempissero il legno e non lo traessero a fondo. I meschini passeggieri chiusi nell’oscuro entraponte erano sbalzati dalle cabanne non solo, ma una porzione di queste essendosi rotte, avevano fatto cadere i superiori sopra gli inferiori ora da una parte ora dall’altra, misti uomini e donne ed in mezzo alle immondizie del vomito e di tutto ciò che portano i naturali bisogni ai quali nella presente agitazione non era lecito cercare commodo luogo. Durò la tempesta due notti ed un dì intero; all’apparire del secondo giorno calmaronsi i venti e a poco a poco appianati i flutti presero un movimento men rapido e più ordinato per cui si potè mettere qualche piccola vela e chiamare alla luce i poveri passeggieri. Oh perché non fui io allora un pittore da dipingere il quadro che presentavano questi infelici! Certamente non avrei avuto bisogno di una viva immaginazione che il loro aspetto mi presentava le scene le più curiose che mai si possano in questo genere immaginare: quivi vedevasi gruppi di ogni specie d’uomini, donne, vecchi, giovani, tutti mezzi nudi, mezzi morti coperti di sudore e di immondizie l’un frapposto all’altro senza ragione di pudore che li rimovesse dalle posizioni in cui si trovavano.

Spinto dal bisogno d’un diversivo, Codazzi, nel redigere le Memorie, optò per un indirizzo narrativo


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85. Affresco a Villa Serraglio, Massa Lombarda.

piuttosto che documentaristico. Tuttavia, si guardò bene dall’ammettere le vere ragioni della sua scelta, ricorrendo piuttosto ad una spiegazione di oraziana memoria: poiché la mancanza di pennelli e colori aveva impedito al nostro eroe di raffigurare personaggi ed eventi mediante la pittura, era stato gioco forza ricorrere alla penna.21 In realtà, l’idea d’una cronistoria personale era vecchia di anni, tant’è che nella lettera al padre allude all’esistenza d’un fitto diario di viaggio: «Tengo un giornale in cui scrivo tutto ciò che mi accade, e tante strane vicende mi sono avvenute che sono già al terzo tomo». Lo teneva pensando al futuro, con l’idea d’intrattenere i familiari e nel contempo dimostrare al genitore, nero su bianco, la veridicità delle sue avventure: «Se un giorno, come spero, avrò la sorte di restituirmi alla Patria lo leggerete al domestico focolare, e conoscerete allora la verità dei miei detti». Ad un certo livello, le Memorie obbediscono al proposito di miscere utile dulci: dilettare congiunti e amici con un racconto arricchito da riflessioni, notizie curiose e interpolazioni esotiche. Ad un livello ulteriore è invece ravvisabile l’intenzione didatticoideologica di mettere a contrasto il patriottismo, la generosità e la fede repubblicana dei combattenti per la libertà delle colonie ispanoamericane con l’inazione e lo smarrimento degli ex-giacobini italiani, so21

Codazzi era abile disegnatore e coloritore. Lo confermano fra l’altro le mappe inserite nelle Memorie, le illustrazioni a corredo degli appunti didattici, le vedute ideali, gli innumerevoli schizzi topografici e le carte preparatorie realizzate in Venezuela e nella Nuova Granada. A villa Serraglio si conservano tracce di affreschi, indubbiamente di sua mano, raffiguranti scene di guerra marittima. Si veda in alto fig. 85.

prattutto in seno allo Stato della Chiesa. A chi aveva occhi per leggere, la morale non poteva sfuggire: solo una rivoluzione basata su principi laici e razionali sarebbe stata in grado di generare uno stato libero, votato al benessere dei cittadini. A conferma di ciò si vedesse l’esempio degli Stati Uniti, ove il progresso sociale era inseparabile dalla libertà e dalla ragione. Ciò che differenzia le Memorie da un libro di viaggi o da un racconto di avventure è appunto l’elemento ideologico, un elemento dissimulato ma non per questo meno riconoscibile. In un modo o nell’altro l’etica repubblicana, unitamente a quella massonica, è onnipresente, impersonata dai protagonisti degli eventi, da Aury a Mina a Bolívar allo stesso Codazzi. Le iperboli, gli abbellimenti letterari e le «favole combinate» che costellano il testo non devono fuorviarci: ciò che pervade le Memorie – scritte, non dimentichiamolo, in piena Restaurazione e da un suddito pontificio scontento – è sempre e comunque “the pursuit of Happiness”. All’arrivo a Baltimora, verso il 15 agosto, i due amici rimasero strabiliati al cospetto del progresso inverosimile della città: Qual fu la nostra sorpresa quando entrammo in una vasta città le di cui strade sono larghe due volte e tutte a linee rette con palazzi e case costrutte di un gusto elegante simmetrico e moderno con una quantità infinita di botteghe e magazzeni ove compransi merci e manifatture di ogni genere e qualità e lavori i più fini che mai possasi immaginare.

La capitale del Maryland racchiudeva aspetti della vita quotidiana altrettanto incomparabili, riflessi di una concezione del mondo del tutto nuova, per non dire rovesciata: [Una] sera per godere il fresco passeggiando incontrammo varie gentili giovinette pulitamente messe senza scorta di


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verun uomo per cui avvezzi noi agl’usi nostri credemmo aver trovata una fortunata compagnia mentre avvicinatisi e chiesto loro se ci permettevono di accompagnarle accettarono di buon grado il nostro invito ed uniti andavamo verso la loro abitazione, trattenendoci sopra il nostro viaggio e l’impressione che questi paesi avevano potuto fare sopra di noi quando giungemmo d’avanti un superbo palazzo ove aperte le porte da domestici fummo introdotti in una signorile conversazione, e queste giovinette vollero presentarci ai loro parenti raccontando la gentilezza che loro avevamo usata di accompagnarle. Allora solo conoscemmo il nostro inganno e portando la cosa cavallerescamente dopo pochi istanti ci congedammo.

Codazzi e Ferrari appresero in tal modo che il sesso femminile, nella giovane repubblica americana, «non era tanto tenuto in ristrettezza» come nelle Legazioni. «Dovemmo in seguito convincerci – annota il lughese – che i costumi e l’educazione loro era ben diversa dalla nostra e che [le donne] non avevano a temere di notte di trovarsi anche sole nelle pubbliche strade». Le sorprese erano appena iniziate. Che dire dell’immigrazione? Per i due amici si trattava d’un fenomeno inedito, le cui dimensioni e le cui ripercussioni sfuggivano alla loro comprensione. Benché le banchine del porto di Baltimora costituissero un buon punto di osservazione, per degli esuli improvvisati come i nostri eroi afferrare la portata storicosociale dello spostamento di masse di popolazione dal Vecchio al Nuovo Mondo era impossibile. Prescindendo da quanto avevano appreso durante la navigazione o dalle gazzette scorse in precedenza, mancavano di dati statistici e di termini di giudizio. Negli anni immediatamente successivi alle guerre napoleoniche, il contributo italiano al movimento migratorio fu quantitavamente irrilevante, comunque insufficiente a generare risonanza popolare. La maggior parte di coloro che attraversarono l’Atlantico lo fecero per iniziativa personale. Più che dalle classi inferiori provenivano dal ceto medio, per cui le loro motivazioni non erano principalmente economiche. Si trattava, insomma, di esuli sui generis, proprio come Codazzi, Ferrari, Castelli e Rondizzoni.22 Sorvolando sulla scarsità dell’apporto italiano, fra il 1790 e il 1820 giunsero negli Stati Uniti non meno di 230 mila europei, numero destinato ad accrescersi enormemente nei decenni successivi. Per fare un solo esempio, sappiamo dal “Blackwood’s Edinburgh magazine” che nel corso dell’ultima settimana di luglio del 1817, ossia pochi giorni prima che il brick Union 22 Carlo Maria Luigi Castelli (1790-1860), piemontese, ufficiale napoleonico, combatté agli ordini di Bolívar raggiungendo il grado di generale. Fu governatore e ministro della guerra e della marina del Venezuela. Come Codazzi è sepolto a Caracas nel Pantheon della Patria. Giuseppe Rondizzoni (1788-1866), parmigiano, capitano della Grande Armée, Legion d’Onore. Giunse a Filadelfia alla fine del 1816 e da lì proseguì per l’America del Sud, dove si battè per l’indipendenza del Cile e del Perú. Come Castelli e Codazzi, raggiunse il grado di generale. 23 Da uno dei tanti articoli apparsi sulle gazzette inglesi nel 1817 si percepiscono sia le dimensioni del fenomeno che il grado di attenzione che la stampa riservava all’emigrazione: “The

86. Dichiarazione d’Indipendenza, 4 luglio 1776.

approdasse a Baltimora, erano sbarcati a New York duemila 285 emigranti.23 Da Amsterdam ne erano partiti 477 a bordo d’una nave olandese, il tre alberi Johanna, dei quali 50 erano periti durante la traversata.24 Quantunque il lughese si dilunghi a descrivere ammirato un fenomeno osservato nel 1817, a guidarne la penna è chiaramente il senno del 1825. L’impatto ricevuto sul momento fu comunque durevole, anzi, definitivo. Invero, le prospettive e i problemi connessi all’emigrazione saranno oggetto da parte sua di proposte e riflessioni che cesseranno solo nel 1859, quando si spense con lo sguardo rivolto alla Sierra Nevada di Santa Marta, luogo che egli considerava propizio all’insediamento europeo. Ma ciò che maggiormente colpì Codazzi fu il consenso civile e lo spirito democratico che reggevaemigration from Europe, according to the last american papers, was particularly extensive in the last week of July. In this short interval, there had arrived at New York, from England, 649 persons; Ireland, 581; Scotland, 137; Wales, 51 and France, 31; making in the whole, with additions from other situations, 2285 emigrants”, “Blackwood’s Edinburgh Magazine”, I, Apr.-Sept. 1817, Edinburgh-London. 24 “The Dutch ship, Johanna, alone, had 477 emigrants from Amsterdam, fifty of whom perished on the passage”, ibidem. Le vittime della traversata continuarono a rappresentare oltre il 10 per cento dei passeggeri imbarcati fino a ben oltre la metà dell’Ottocento.


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no e, per così dire, sostanziavano la repubblica americana. Considerando che furono stilati nell’ambiente tradizionalmente sanfedista della Romandiola, i suoi commenti al riguardo sono, come già accennato, particolarmente significativi (e forse spiegano perché le Memorie rimasero inedite). Ciò che ne trapela è in primo luogo l’ammirato stupore per «la grande libertà che ognuno gode in questi climi e lavora», nonché per la conseguente tolleranza religiosa. «Le tante religioni e sette che ivi professansi – osserva il lughese – sembrerebbe che avessero dovuto depravare il costume e portare la licenza all’eccesso, ma è bene il contrario», e ciò per la semplice ragione che «le savie leggi dettate da un popolo veramente sovrano fa[nno] sì che si mantengano fortemente l’ordine morale, la pubblica decenza e la libertà». Poco importa che le parole di Codazzi riflettano letture piuttosto che riflessioni personali: il quid non riguarda l’originalità del discorso bensì la sincerità dei suoi apprezzamenti filo-repubblicani.25 Alla base della sovranità popolare giaceva la partecipazione consapevole di ciascuno alla costruzione del benessere collettivo, ossia, comunanza d’intendimenti e condivisione di responsabilità. La religione, che ovunque si erigeva al di sopra del potere temporale in virtù della propria autorità spirituale, si piegava qui alle leggi e all’interesse della società, e dunque all’organo di governo. «È veramente per noi europei una cosa del tutto nuova – rileva il nostro – il vedere la prosperità di un governo che non professa alcuna religione, che tutte le permette e le tollera, e che manda nel giorno di domenica i suoi soldati una volta in un tempio, un’altra in un altro e così successivamente finchè li abbian trascorsi tutti». Ciò poteva accadere perché «questo ammasso di popolo è contenuto dalle leggi civili, e non dalla religione come da noi». Amor patrio e onestà naturale, ecco il credo dei liberi cittadini della novella repubblica, senza dimenticare l’uguaglianza e il rispetto reciproco: «[Qui non scordano che] sono tutti uguali e che il titolo di nobiltà, che [qui] non esiste, non gl’inalza al di sopra degl’altri». Era appunto la parità di diritti ad invogliare ricchi e poveri, indistintamente, ad educare i propri figli. L’educazione faceva sì che i cittadini agissero «per virtù di raziocinio non per violenza di passione», comportamento non certo estraneo al vistoso progresso materiale della nazione. Riguardo alla forma di governo, dopo averne descritto l’organizzazione e i membri, Codazzi rimarca:

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dure semplici e brevi, schiette e rette (...) Tale forma di regime civile passa per il capo d’opera che mente d’uomini liberi abbia potuto tracciare soprattutto potendo prescindere dalla religione che è la base fondamentale di tutti i codici fin qui usciti dall’epoca della civilizzazione romana.

Sottolineare nuovamente che le parole di Codazi esprimono in controluce una dura critica nei confronti e dello Stato della Chiesa e della generalità delle monarchie europee sarebbe inutile. Politicamente, l’orbe europeo si ubicava agli antipodi del nuovo continente: i regimi risorti dal Consiglio di Vienna negavano la libertà, misconoscevano la volontà popolare, non ammettevano costituzione alcuna, si avvalevano di leggi obsolete, si prosternavano ai piedi del papa, trascuravano il bene pubblico, ignoravano la decenza e l’onestà... Come non capire il ‘mal d’America’ del nostro eroe?

Questi depositari del volere del popolo amministrano e tengono mani ad una costituzione che per l’eccellenza delle leggi tendenti al bene pubblico e dello stato, al riposo e tranquillità generale, alla decenza ed onestà di tutti, al freno dei delitti e sopra tutto del fasto, al conseguimento dei diritti d’ognuno senza strepiti d’incavillati giudizi, ma con proce-

Messo piede a terra, i due amici dovettero fare i conti con una realtà assai diversa da quella ottimisticamente abbozzata nella lettera a Domenico Codazzi. Spaesati, squattrinati e disinformati, non poterono se non chiedersi se l’America – pur così affascinante e progredita – fosse davvero, per loro, “le meilleur des mondes possibles”. Presero alloggio in una locanda a buon mercato, «condotta da certo Boarel francese, uomo assai dabbene». Facendosi partecipe del «nostro meschino stato – ricorda Ferrari – [Boarel] ci fe’ animo a sperare di trovare servizio in qualche parte d’America, che era in guerra per la propria indipendenza». Nell’attesa, s’accordarono con lui «per una dozzena tenue», cifra che comprendeva «una piccola cameretta, e pel vitto, zuppa con patate, erbaggi, lesso, e un altro piatto di legumi, o di pesce, poco pane, ma patate abbondanti, e tè per bevanda, che troppo spesso – non si trattiene dal rimarcare il reggino – mi richiamava alla mente gli ottimi vini della nostra Italia». I quindici franchi a cui si riduceva il loro peculio non consentivano né pause di riflessione né ricerche prolungate, per cui i due si videro obbligati (se di obbligo si può parlare nel loro caso) ad affidarsi per l’ennesima volta alla sorte... anche se ciò non vuol dire che se ne stessero inerti ad aspettare che essa bussasse alla porta. Invero, fin dal giorno successivo allo sbarco si dedicarono a battere la città in cerca del modo «onde potersi impiegare». In quanto veterani di guerra, ambedue sapevano che non avrebbero scambiato in nessun caso la spada per l’aratro, una decisione che restringeva notevolmente le loro possibilità d’impiego. D’altronde, non essendo predisposti alla vita civile e mancando di esperienza di lavoro (e men che meno di qualifiche professionali o di specifiche abilità), come avrebbero potuto trasformarsi in pionieri o in artigiani?26 Date

25 A distanza di trent’anni, riferendosi agli Stati Uniti in un saggio dedicato all’immigrazione straniera nella Nueva Granada, (“Apuntamientos sobre inmigración y colonización”, cfr. infra) Codazzi continuerà a parlarne con la stessa ammirazione.

26 Come i fondatori del Champ d’Asile, “ils n’avaient jamais connu que la discipline, le drapeau, le respect, l’admitation des chefs et, avant tout, l’esprit de corps. Il n’etaient pas, à proprement parler, des citoyens: ils etaient des soldats... les ‘anciens’, les


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87. Carta geografica con il sito del Champ-d’Asile, 1818.

le circostanze, l’arruolamento costituiva da tutti i punti di vista l’unica uscita ammissibile. Ciò premettendo, «per seguitare la carriera delle armi non vi era altro luogo che l’America Meridionale ove sollevatisi gli abitatori in varie parti si erano formate diverse repubbliche»: era pertanto in quella direzione che bisognava muoversi. Tuttavia, i nostri eroi scoprirono ben presto che altre centinaia di ex-militari europei erano giunti alla loro stessa conclusione, consonanza che si traduceva in una crescente sproporzione fra domanda e offerta. Non solo gli ingaggi erano pochi e disputati, ma gli ex-ufficiali francesi erano decisamente favoriti. Fino all’anno prima, le opportunità erano state maggiori. Per fare un solo esempio, Giuseppe Rondizzoni, sbarcato a Baltimora alla fine del 1816, era stato arruolato d’immediato. Capitano della Guardia Imperiale, Legion d’Onore, reduce dalla campagna di Russia e di Germania, presente come Codazzi alle battaglie di Lutzen, Bautzen e Lipsia, in prima linea a Waterloo, incarnava il modello del combattente ‘grognards’, lés heros... les martyrs! Comment aurait-il été possible que de pareils hommes, formés pour et par une telle existence, eussent pu devenir du jour au lendemain de simples manouvriers et de paisibles agriculteurs”, cfr. Bertin, op. cit., pp. 228-229. La distinzione fra ‘cittadini’ e ‘soldati’ è fondamentale per inquadrare la visione del mondo dei due italiani. Codazzi diventerà un vero cittadino dopo il 1826, con l’inizio della fase costruttiva della sua vita.

adamantino. Oltre che nell’onore delle armi credeva nella causa della libertà, e fu proprio quest’ultima a spingerlo verso l’America. A pochi giorni dallo sbarco, s’imbattè in José Miguel Carrera, patriota cileno che fungeva da agente arruolatore per l’esercito del suo paese, dal quale fu ingaggiato su due piedi. Giunto a Santiago e unitosi alla lotta indipendentista, fece una brillante carriera militare. Anche Codazzi e Ferrari si ritroveranno a combattere sotto una bandiera cilena (quella un po’ fantomatica degli Estados Unidos de Buenos Ayres y Chile) e anch’essi faranno carriera... ma per il momento non potevano far altro che sperare in un colpo di fortuna. Rispetto alla possibilità di unirsi agli ufficiali bonapartisti impegnati nel progetto menzionato nella lettera, vennero a sapere da Boarel che «era falsa la notizia che erasi sparsa in Europa che Giuseppe Bonaparte formasse una città col nome di Proscrittopolis e composta da tutti gli ufficiali emigrati a cui si davano terreni e mezzi per coltivarli». In realtà, benché l’ex-re di Spagna non fosse a capo di alcun disegno immigratorio, la notizia era doppiamente fondata. In primo luogo, un gruppo di ex-ufficiali napoleonici agli ordini del generale Charles Lallemand e del fratello Henri-Dominique stava veramente progettando una ‘città-rifugio’ in Texas, poi divenuta celebre con il nome di Champ d’Asile. Voci in merito dovettero giungere all’udito dei nostri eroi parecchi mesi dopo lo sbarco a Baltimora, forse quando la ‘repubblica’ texana era già stata abbandonata.


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88. J.F. Garneray (Yerenrag), Veduta del Champ-d’Asile, ca. 1820, acquatinta.

L’intento dichiarato dei refugiés era “la formation d’une colonie dans un pays désert, qui n’attandait que des habitans industrieux pour devenir un des plus beaux et des plus fertiles de la terre”; ciò sulla base del diritto “que la nature accorde à tout homme de fertiliser des solitudes incultes, et dont personne n’est autorisé à lui disputer la possession” [la creazione d’una colonia in un paese spopolato, che attendeva solo degli abitanti laboriosi per diventare uno dei più belli e fertili della terra... che la natura concede a tutti gli uomini di mettere a frutto i luoghi inabitati e incolti, e dei quali nessuno è autorizzato a metterne in discussione il possesso].27 Tuttavia, si diceva da più parti che la colonia, al di là delle dichiarazioni, nascondesse un obiettivo del tutto diverso: radunare in un punto strategico, isolato ma non lontano dal mare, un gran numero di veterani della Grande Armée allo scopo finale di liberare Napoleone da Sant’Elena.28

La “filosofia” del Champ d’Asile venne consacrata l’11 maggio 1818 in un proclama redatto dal generale Lallemand nel quale, mentre si rimarcava la vocazione agricola e commerciale della colonia, se ne sottolineava il carattere militare (anche se solo a fini difensivi)29, ambiguità che generò i sospetti degli spagnoli, mettendo a repentaglio la vita della colonia (che di fatto durò l’espace d’un matin). Mormorii riguardanti il riscatto di Napoleone e la creazione di un impero napoleonico d’America erano stati riportati dai giornali americani ed europei fin dal momento dello sbarco di Giuseppe Buonaparte a New York, nell’agosto del 1815. Con ogni probabilità, Codazzi e Ferrari ne erano venuti a conoscenza ad Amsterdam e, come si diceva, non sarebbe affatto strano se la decisione d’imbarcarsi per l’America fosse stata determinata almeno in parte dalle speranze suscitate da tali voci. Pur non avendo militato nella Grande Armée, erano

27 L.F. L’Héritier, Le Champ-D’Asile. Tableau Topographique et Historique du Texas, Paris, 1819, pp. 18-19. Sottoscritta da Lallemand, la dichiarazione d’intenti venne consegnata all’ambasciatore spagnolo negli Stati Uniti, che si guardò bene dal rispondere. 28 Ricorda Charles-Léonard Gallois (1785-1851): «Io stesso ebbi occasione di chiedere ad uno degli ufficiali che fecero parte del Champ d’Asile quale fosse lo scopo che essi si prefiggevano. Egli mi assicurò che non era loro intenzione stabilirsi definitivamente in Texas: volevano radunare molti francesi, principalmente veterani, allo scopo di tentare di riscattare Napoleone da

Sant’Elena. La loro dispersione portò al fallimento del progetto, che ad ogni buon conto non era altro che un sogno.», in Gallois, Histoire de France d’Anquetil continuée... par Léonard Gallois, Paris, 1839, IV. Il massimo animatore della cospirazione per liberare Napoleone dall’esilio di Sant’Elena fu Pierre-François Réal, che fece costruire a Cape Vincent, nello stato di New York, una curiosa stone-house destinata, si diceva segretamente, ad ospitare l’imperatore redento. 29 “Nous nommerons la place où notre colonie est établie, le Champ-d’Asile. Ce nom, en nous rappelant nos adversités, nous rappelera aussi la nécessité de fixer nos destinées, d’établir nouve-


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89. J.F. Garneray (Yerenrag), Veduta di Aigleville, ca. 1820, acquatinta.

comunque degli ex-soldati fedeli al giuramento fatto all’Imperatore, per cui la prospettiva di partecipare alla rentrée napoleonica non avrebbe potuto non attrarli. Prescindendo da ciò che celava, dal Champ d’Asile, ancor prima di essere fondato, emanava un richiamo che L’Héritier espresse con queste parole: Rassurez-vous, amis de la patrie! vous tous qui avez de coeurs français, des âmes ouvertes à la pitié, rassurez-vous! nos frères, nos parens, nos amis, nos compagnons d’armes ont enfin rencontré sur le globe un point où ils n’auront plus à gémir de la cruelle interdiction de l’eau et du feu” [Rallegratevi, amici della patria! Voi tutti che avete cuori francesi, animi disposti alla pietà, rallegratevi! I nostri fratelli, i nostri genitori, gli amici e i compagni d’arme hanno infine trovato sulla faccia della terra un punto dove non dovremo più dolerci della crudele interdizione dell’acqua e del fuoco].30

insediamento agricolo popolato da qualche centinaio di rifugiati francesi, fra cui i fratelli Lallemand e altri personaggi famosi per nobiltà o meriti di guerra. I refugiés vi si erano stabiliti per concessione del governo americano, che aveva venduto loro il terreno a due dollari l’acro mediante un prestito a quattordici anni senza interessi. Ideata in prima istanza per promuovere la coltivazione della vite e dell’olivo, la colonia – similmente al Champ d’Asile – nascondeva forse propositi meno bucolici.32 Osserva in proposito Rafe Blaufarb:

Con buona pace del locandiere Boarel, una città nominata ‘Proscritspolis’ esisteva davvero. Era stata fondata poche settimane prima dell’arrivo dei due amici a Baltimora in una zona sperduta del Grand South chiamata niente meno che ‘Marengo County’.31 Situata lungo il fiume Tombigbee (Alabama), la contea aveva un’estensione di 144 miglia quadrate ed ospitava la Vine and Olive Colony, un

Intended to be peopled with Napoleonic veterans, situated on a strategic waterway connecting the contested port of Mobile with the interior of the United States, located within marching distance of Florida, and just a short sea voyage from Texas, the Vine and Olive colony was no mere agricultural experiment, but a move in a treacherous diplomatic chess game: the struggle between Spain and the United States over their contested borderland. [Concepita per essere popolata da veterani napoleonici, situata lungo una via d’acqua strategica che collegava il porto contestato di Mobile con l’entroterra degli Stati Uniti, a distanza di marcia dalla Florida e a pochi giorni di viaggio dal Texas, la Vine and Olive Colony non era un mero esperimento agricolo, ma una mossa d’una insidiosa partita a scacchi: la lotta fra la Spagna e gli Stati Uniti per i loro confini in lizza].

aux dieux pénates, en un mot de créer une nouvelle patrie. La colonie, essentiellement agricole et commerciale, sera militaire pour sa conservation.”, cit. da L’Héritier, op.cit., pp. 44-47. Secondo Hartmann e Millard, che parteciparono all’impresa, il proclama fu scritto da Lallemand, cfr. Hartmann, Millard, Le Texas ou

notice historique sur le Champ d’Asile, Paris, 1819, p. 44. 30 L’Héritier, op.cit. 31 L’insediamento venne presto ribattezzato ‘Demopolis’. 32 Sui rapporti generativi fra la Vine and Olive Colony e il Champ d’Asile, cfr. L’Héritier, op.cit., p. 15 e ss.


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credeva che non avrebbero favorito il movimento indipendentista, o quanto meno non si sarebbero compromessi. Essendo consapevole dell’importanza che le potenze europee attribuivano al futuro dei domini transatlantici d’una monarchia non meno europea, il governo americano si sarebbe mosso in modo tale da non interferire con interessi resi palesi dalla «disponibilità delle grandi potenze d’Europa a intervenire da mediatrici negli affari dell’America e nella sua pacificazione». Intralciarli sarebbe stato imprudente, e gli Stati Uniti – il duca di Richelieu ne era sicuro – se ne sarebbero astenuti.34 Secondo l’imperatore Alessandro I di Russia la difesa dei diritti spagnoli sui possedimenti americani rientrava nel campo d’azione della Santa Alleanza. Non si trattava d’una mera questione statutaria. In una nota del 17 novembre 1817, egli richiamò l’attenzione degli alleati sulla ricchezza di quelle «vaste e fertili regioni dell’Emisfero Occidentale», sottolineando che le nazioni europee erano tenute a fare qualsiasi sforzo per «preservarle dagli orrori della rivoluzione». Dunque, bisognava a tutti i costi

90. Ritratto di A.M. du Plessis de Richelieu.

pacifier les Colonies par l’ascendant seul de l’unanimité éclairé et impartiale des principaux Cabinets [atteso che] le premier besoin, comme le plus grand intéret de l’Espagne et du Portugal, aussi bien que de Puissances médiatrices, consiste à mantenir la paix et l’alliance générale, et à ecarter soigneusement tous les motifs qui peuvent en relacher ou rompre les liens. [Riportare l’ordine nelle colonie ricorrendo all’influenza unanime, saggia e imparziale dei principali governi... l’obiettivo più importante, nell’interesse sia della Spagna e del Portogallo che delle potenze mediatrici, consiste nel mantenere la pace e l’alleanza generale, evitando accuratamente tutti quei motivi di contrasto che possono allentare o rompere i legami].35

In gioco non vi era unicamente un’annosa disputa territoriale fra la corona spagnola e il governo nordamericano, vi erano altresì le manovre delle grandi potenze europee, intenzionate a ricavare il massimo profitto dall’imminente crollo dell’impero coloniale ispanico. Nella perfida partita a scacchi di cui parla Blaufarb, rimasero coinvolti in qualche modo anche Codazzi e Ferrari, assieme ad altre migliaia di legionari europei ignari degli intrighi in atto nelle cancellerie del Vecchio Mondo.33 Il 20 luglio 1817, pochi giorni prima che l’Union gettasse l’ancora nel porto di Baltimora, Armand Emmanuel du Plessis de Richelieu, ministro degli esteri di Luigi XVIII, espose al barone Hyde de Neuville, ambasciatore francese a Washington, le proprie riflessioni rispetto alla rivolta delle colonie spagnole. L’Europa non poteva rimanere indifferente al diffondersi di un’insurrezione dalle tinte anarcoidi che minacciava di spargersi a tutto il continente americano. D’altro canto la proposta di creare nel Nuovo Mondo due monarchie sotto lo scettro dei Borboni, benché saggia, non avrebbe ottenuto l’avallo di Madrid. In quanto agli Stati Uniti, du Plessis

Dal punto di vista spagnolo l’impegno degli alleati – della Russia in particolare – avrebbe dovuto spingersi al di là di una semplice mediazione e concretarsi in una spedizione militare di grandi proporzioni («trenta o quarantamila soldati europei che avrebbero ridotto gli insorti ispano-americani alla più abbietta sottomissione»).36 Ma se da un lato la Russia non era disposta a sobbarcarsi né in tutto né in parte un’impresa del genere, l’Inghilterra, pur riconoscendo formalmente la legittimità dei titoli spagnoli, era interessata piuttosto a favorire la lotta di emancipazione, al fine non proprio nobile di subentrare alla Spagna nel commercio con le Indie. Alle pressioni del governo di Madrid, gli alleati risposero nel giugno del 1818 promettendo di riunirsi quanto prima a Aix-la-Chapelle. Il 6 agosto successivo, il duca di Richelieu indirizzò all’ambasciatore francese presso la corte spagnola, Laval-Montmorency, un memoran-

33 R. Blaufarb, Bonapartists in the borderlands. French exiles and refugees on the gulf coast, 1815-1835, Tuscaloosa, 2005, p. XVIII; si veda anche E. Saugera, Reborn in America. French Exiles and Refugees in the United States and the Vine and Olive Adventure, Tuscaloosa, 2011. 34 Cfr. W.S. Robertson, France and Latin American Independence, Baltimore, 1939, p. 140 e ss.

35 “Correspondence of the Russian Ministers in Washington, 1818-1825”, in “The American Historical Review”, v. 18 (19121913), p. 311 e ss. La politica russa, si legge nei dispacci diplomatici, si fondava sul rispetto religioso e inalterabile di quegli impegni “dont l’ensemble constitue le système général de l’Europe”, cioè sulla stretta osservanza dei trattati di Parigi e di Vienna, e dei principi della Santa Alleanza.


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dum ove fra l’altro si riferì all’opinione del governo francese sulla questione americana e sul trattamento inadeguato della medesima da parte spagnola: Date le attuali circostanze, [la Spagna] non potendo contare sull’Inghilterra, attaccata e umiliata dagli Stati Uniti, priva di marina militare, priva di denaro, quasi priva di un’amministrazione, non farebbe meglio ad accettare il consiglio dei suoi veri amici, sottraendosi ai raggiri di tutti coloro che intendono arricchirsi alle sue spalle? È necessario che [la Spagna] si decida a rinunciare con buona grazia a ciò che non potrà mai riavere, e concordare con gli insorti [argentini] la creazione di una monarchia sotto la sua protezione. Sollevata da questo problema... la Spagna potrà facilmente pacificare il Venezuela, garantendo qualche concessione... Pacificate queste due grandi regioni [Virreinato del Río de la Plata e Capitanía General de Venezuela], il Messico e il Perú non causeranno problemi, se solo sarà adottato un sistema più liberale, soprattutto rispetto al commercio e all’ammissione di creoli negli impieghi pubblici. 37

Secondo du Plessis il movimento rivoluzionario ispanoamericano era destinato a causare contraccolpi disastrosi in Europa, ragione per cui era impellente riorganizzare le colonie su base monarchica, facendone dei protettorati. Dalla data del dispaccio a Hyde de Neville citato sopra (20 luglio 1817), l’opposizione del governo spagnolo a tale soluzione non poteva non essersi attenuata: Può [la Spagna] continuare a credere in buona fede di essere in grado di ristabilire la sua autorità nel Nuovo Mondo con la forza delle armi? Dove sono le navi, dove sono i soldati, dove i fondi necessari agli armamenti...?

Se le potenze europee non si fossero affrettate a convincere Fernando VII dell’importanza – per il bene delle stesse potenze – di convertire il Virreinato del Río de la Plata in una monarchia autonoma sotto l’egida borbonica, il governo americano, seppure contro voglia, avrebbero riconosciuto l’indipendenza argentina... e per gli interessi europei sarebbe stato un terribile colpo. Le previsioni del duca di Richelieu si basavano su una conoscenza approssimata della posizione degli Stati Uniti rispetto alla questione delle colonie spagnole. Eppure Thomas Jefferson l’aveva messa in chiaro (quanto meno privatamente) fin dal 1786, quando ebbe a dirsi timoroso che la Spagna avrebbe potuto non essere in grado di conservare l’impero “till our population can be sufficiently advanced to gain it piece by piece” [fintantoché il nostro popolo non si sarà rafforzato abbastanza da prenderselo pezzo per pezzo].38 Ventidue anni dopo, quando era ormai prevedibile che l’impero non avrebbe retto a lungo, egli espose al Congresso un disegno politico tendente appunto a 36

Alle pretese spagnole si riferì Friedrich von Gentz (17641832), confidente e consigliere di Metterinch, in una lettera a Karl Nesselrode (1780-1862), diplomatico russo, capo della delegazione del suo paese al congresso di Vienna. 37 Citato da Robertson, op.cit., p. 144. 38 Citato da C.C.Griffin, The United States and the disrup-

91. Ritratto di Thomas Jefferson.

incamerarlo piece by piece. Dalla rivoluzione delle colonie – dichiarò nel 1808 – gli Stati Uniti avrebbero potuto ricavare notevoli vantaggi, come l’annessione dei territori spagnoli limitrofi, l’apertura di nuovi mercati e soprattutto l’esclusione dell’influenza europea dall’emisfero occidentale, divenendo più facile portare a compimento il processo di emancipazione iniziato con la Dichiarazione d’Indipendenza. Nonostante tutto, se la corona spagnola avesse conservato le colonie, il governo americano non avrebbe avuto nulla da eccepire. Per contro – precisò – si sarebbe opposto all’eventualità che esse cadessero sotto il dominio della Francia o dell’Inghilterra. Prescindendo dai propositi a lungo termine, lo scopo immediato di Jefferson era rimpiazzare l’autorità spagnola con la sovranità statunitense in province contigue quali la Florida, il Texas e... Cuba.39 Tale obiettivo fu fatto proprio da James Madison, che convinse il Congresso a varare una legge che affidava al presidente «la facoltà di prendere possesso in determinate circostanze dei territori situati a Est del fiume Perdido e a Sud dello stato della Georgia, nonché il Territorio tion of the Spanish Empire, 1810-1822, New York, 1937, p. 44. Cfr. anche J. Rydjord, Foreign interest in the independence of New Spain, Durhan, 1935, p. 110 e ss. 39 Cfr. S.Flagg Bemis, The Latin-American Policy of the United States, New York, 1943; La diplomacia de los Estados Unidos en la América Latina, México, 1944, p. 36 e ss.


l’orizzonte in fuga

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92. La Dea della Saggezza dona la costituzione agli Stati Uniti, ca. 1790, inc.

del Mississippi».40 I poteri speciali includevano altresì l’occupazione della Florida orientale, ma a patto che le autorità locali si dichiarassero d’accordo. Che queste ultime fossero legittime (spagnole) o de facto (rivoluzionarie) non importava, così come non importava che l’accordo fosse volontario o meno. A pochi mesi dal loro arrivo in America, Codazzi e Ferrari si trovarono a presenziare l’applicazione di questa legge nei confronti d’una repubblica sorta sotto gli auspici della rivoluzione del ‘76. La comprensione dello sfondo politico-diplomatico dell’occupazione dell’isola Amelia da parte delle forze statunitensi non era alla loro portata; tuttavia, non dovette sfuggire loro che “the pursuit of Happiness” d’un popolo poteva comportare l’infelicità di altri popoli. Il governo di Wahington continuò a soppesare l’emancipazione delle colonie spagnole con il metro di Jefferson fino alla conclusione del processo rivoluzionario. Il libero esercizio della sovranità del40

Ibid. John Quincy Adams rivolto a Henry Clay, in J.Q. Adams, Memoirs, vol. V, pp. 324-325. Adams (1767-1848) fu il sesto presidente degli Stati Uniti. Dal 1817 al 1824 fu Segretario di Stato del presidente James Monroe. Difese strenuamente il principio di neutralità, soprattutto nei confronti degli insorti sudamericani. In proposito dichiarò (sempre rivolto a Clay): “That the final issue of their present struggle [degli insorti] would be their entire 41

le popolazioni insorte stava a cuore a molti cittadini statunitensi, ma allo stesso tempo dava luogo a non poche perplessità. John Quincy Adams, per esempio, non credeva nella possibilità d’uno sviluppo armonioso e civile delle nuove repubbliche. Quantunque si augurasse il bene della loro causa – ebbe ad affermare nel 1821 – “I had seen and yet see no prospect that they would establish free or liberal institutions of government”. [Non ho visto in passato e a tutt’oggi non vedo alcuna possibilità che stabiliscano forme di governo democratiche e liberali].41 Era assai improbabile che con il loro esempio fomentassero lo spirito di libertà e d’ordine, e ciò perché “they have not the first elements of good or free government” [non possiedono gli elementi costitutivi d’un buon governo]. Le radici di tale carenza erano profonde: “Arbitrary power, military and ecclesiastical, was stamped upon their education, upon their habits, and upon all their institutions”. [L’arbitrarietà del potere, militare ed ecclesiastico, è cifrata nella loro educazione, nei loro independence of Spain I had never doubted. That it was our true politicy and duty to take no part in the contest I was equally clear. The principle of neutrality to all foreign wars was, in my opinion, fundamental to the continuance of our liberties and of our Union”. Henry Clay (1777-1852) fu speaker della Camera, Segretario di Stato sotto Adams – che fu eletto grazie a lui – e candidato presidenziale in quattro occasioni. Cfr. J. Basset, Henry Clay and Pan-Americanism, Frankfort, 1915.


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sapore di repubblica

93. Miss Liberty, allegoria, 1776, acqu.

94. Lotta per l’indipendenza americana, allegoria, dopo 1776, stampa.

costumi e nelle loro istituzioni]. Come sorprendersi, dunque, che il dissenso civile infondesse i loro principi fondamentali e che il germe della guerra e della violenza si annidasse in “every member of their organization, moral, political, and physical”? Data la loro indole conflittuale e sfrenata, sperare che assimilassero qualche lezione politica dagli Stati Uniti era vano. Il tempo avrebbe detto se vedeva nel giusto, concluse il Segretario di Stato, “but nothing had hitherto occurred to weaken in my mind the view which I had taken of this subject from the first”[ma fino ad ora non è accaduto niente che abbia fatto cambiare l’opinione che mi ero fatto inizialmente a questo stesso proposito]. All’opposto di Quincy Adams, Henry Clay, accanito sostenitore della rivoluzione sudamericana, non solo credeva nel futuro delle nuove repubbliche ma era convinto che gli Stati Uniti avrebbero avuto la massima convenienza nell’appoggiarle. In un discorso alla Camera dei Rappresentanti pronunciato nel marzo del 1818 dichiarò che non era mai esistita nella storia del paese, né mai sarebbe esistita, una questione d’un interesse superiore a quella del loro riconoscimento formale. «Questo interesse – affermò – riguarda la nostra politica, il nostro commercio e la nostra navigazione». Indi tuonò: «Non vi può essere alcun dubbio che l’America Spagnola, una volta raggiunta l’indipendenza e a prescindere dal tipo di governo stabilito nelle sue singole parti, quei governi saranno animati da un sentimento Americano e guidati da

una politica Americana». Concluse dicendo: “They [i nuovi governi] will obey the laws of the system of the new world, of which they will compose a part in contradistinction to that of Europe”. [Obbediranno alle leggi che regolano il sistema del nuovo mondo, del quale faranno parte in alternativa a quello dell’Europa].42 Ossia, l’America agli americani! Le parole di Clay, in effetti, si richiamavano alla ‘dottrina Monroe’ e ai principi del pan-americanismo.43 Allo stesso tempo, però, riflettevano una posizione espansionistica basata sull’idea che il diritto delle ex-colonie di erigersi in stati sovrani doveva comunque sottostare alla potestà degli Stati Uniti di elevarsi a guida del ‘sistema del nuovo mondo’. Per i patrioti latinoamericani, la Repubblica del Nord simboleggiava il ‘sole della rivoluzione’ e come gli anarchici diretti in Svizzera andavano cantando: Al Sur Fuerte le extiende sus Brazos la Patria Ilustre de Washington El Nuevo mundo todo se reune En Eterna Confederación! 44

42

Citato da C.C.Griffin, op.cit., p. 136. Cfr. S.Flagg Bemis, John Quincy Adams and the Foundations of American Foreign Policy, 1949. 44 “Al sud possente tende le braccia/ la patria illustre di Washington/ il Nuovo mondo tutto si raccoglie/ in Eterna Confederazione!”, strofa attribuita all’eroe cileno Camilo Henríquez. 43


l’orizzonte in fuga

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95. Ritratto di John Quincy Adams.

96. Ritratto di Henry Clay.

Innegabilmente, la patria di Washington cominciò ad allungare le braccia verso Sud (e verso Ovest) fin dai primi tentennamenti dell’impero spagnolo, e ciò, in un modo o nell’altro, favorì la causa delle colonie insorte. Come si sa, non sorse alcuna ‘Confederazione Pan-Americana’, ma gli Stati Uniti non desistettero dal proposito di dirigere il destino delle Americhe. In definitiva, se avesse avuto ragione

Quincy Adams, Codazzi e Ferrari si sarebbero ritrovati a battersi per l’ennesima volta per una causa sbagliata; se invece avesse avuto ragione Clay, avrebbero impugnato le armi a sostegno della causa non delle nuove repubbliche ma dell’Impero Americano: nella prospettiva degli interessi degli Stati Uniti e della politica storicamente applicata nei confronti dell’America Latina, avevano ragione entrambi.


sapore di repubblica

96 a. Omaggio del “Nile’s Weekly Register” ai patrioti sudamericani, 1817.

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97. Allegoria dell’América Libre, 1819, olio.


américa libre

Codazzi conosceva il francese ma ignorava o quasi l’inglese. Se non fosse stato per questo, una semplice occhiata al “Federal Republican”, uno dei fogli più

diffusi di Baltimora, gli avrebbe consentito di farsi un’idea delle circostanze e dei personaggi destinati di lì a poco a determinare svolte importanti nella sua vita.1 Un lungo servizio apparso il 29 agosto – nei giorni in cui i due amici erano in città – sollevava una serie di interrogativi morali rispetto alla rivoluzione dell’America Meridionale, prospettando l’eventualità che essa desse luogo – sulla soglia di casa! – ad un Terrore ancor più sanguinario di quello francese.2 In un altro pezzo venivano esaminati attentamente, alla luce degli interessi degli Stati Uniti, i rischi connessi alla presenza di corsari e pirati nelle acque del Golfo del Messico.3 Inoltre, dal 22 luglio in avanti si erano moltiplicate le notizie su Gregor MacGregor e la presa dell’isola Amelia, nella Florida Orientale.4 Per non parlare della spedizione messicana di Xavier Mina, che i giornali seguivano da oltre un anno, cioè, dal giorno in cui il giovane eroe navarro era sbarcato sulle rive del Patapsco: insomma, un florilegio di articoli, resoconti e analisi che documentano la curiosità degli abitanti del Maryland nei confronti dell’insurrezione delle colonie spagnole.

1 Fra i giornali di Baltimore figuravano “The Maryland Journal & Baltimore Advertiser”, il“National Intelligencer”, la “Federal Gazette”, il “Federal Republican and Baltimore Telegraph” e il “Niles’ Weekly Register”. 2 Nel “Federal Republican” dell’8 luglio 1817 si legge: “Do we wish to see all the horrors of the French revolution acted over again, and in our own quarter of the globe also? Do we wish to see the revolutionary wheel turned by a torrent of innocent blood?”. 3 Ibid. “The south American patriots...have much to fear from the system of privateering that has been adopted”. Sul fenomeno corsaro, cfr, W.A. Morgan, Sea power in the Gulf of Mexico and in the Carribean during the mexican and colombian wars of Independence, 1815-1830, Los Angeles, 1969, passim.

4 “Federal Republican”, 22 luglio 1817. Il proclama emanato da MacGregor il 29 giugno precedente è fra i più roboanti dell’epoca: “Soldiers and sailors! The 29th of June will be forever memorable in the annals of the independence of South America. On that day a body of brave men, animated by noble zeal for the happiness of mankind.... awed the enemy into immediate capitulation... This will be an everlasting proof of what the sons of freedom can achieve when fighting in a great and glorious cause... . The children of South America will re-echo your names in their songs; your heroic deeds will be handed down to succeeding generation, and will cover yourselves, and your latest posterity, with a never fading wreath of glory. The path of honor is now open before you... Long live the conquerors of Amelia!”.

A pochi giorni dal loro arrivo a Baltimora, Codazzi e Ferrari furono ingaggiati nelle file dell’esercito venezuelano da Villaret, agente arruolatore di Bolívar. Benché gli Stati Uniti insistessero nel dichiararsi neutrali, il porto di Baltimora fungeva da base di appoggio per le operazioni navali dei patrioti sudamericani, una prestazione molto lucrativa per i mercanti del Maryland. L’attività di supporto includeva l’assistenza ai vascelli corsari, i quali costituivano la quasi totalità della marina rivoluzionaria. Salvo significative eccezioni, i legionari stranieri – francesi, inglesi o italiani che fossero – erano spinti, oltre che da incerte motivazioni ideali, da ragioni pratiche ed economiche; ragioni che, come sappiamo, valgono anche per Codazzi e Ferrari. Lasciata Baltimora i due amici si diressero a Sud e per parecchio tempo mantennero la stessa direzione. Il racconto di Codazzi non è sempre veridico ma, paradossalmente, parte del suo interesse consiste nell’infedeltà.


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l’orizzonte in fuga

fra tutti quello di Baltimora. Fra i numerosi simpatizzanti non mancarono coloro che, impugnate le armi, si unirono personalmente alla lotta.8 Prescindendo da altre motivazioni meno nobili, ciò che attraeva i legionari – fossero inglesi, francesi, italiani o nordamericani – era quello stesso sentimento prometeico che lord Byron cantò in una delle sue stanze: When a man hath no freedom to fight for at home, Let him combat for that of his neighbours; …........................................................... To do good to mankind is the chivalrous plan, And is always as nobly requited; Then battle for freedom wherever you can, And, if not shot or hang’d, you’ll get knighted.9

98. W. Leighton Leitch da G. Sanders, Ritratto di Lord Byron, acqu.

Le parole con cui W.D. Weatherhead, scampato ad una sciagurata spedizione contro Panamá, si riferì alla propagazione dell’impulso libertario fra gli inglesi sono così simili a quelle di Byron che si direbbero vergate dalla stessa penna: “Liberty hath become such an innate priciple in the breasts of Englishmen, that whenever an opportunity has occurred to evince this feeIing, they have invariably shewn a warmth and devotedness in its cause”. [Nel petto degli inglesi la libertà è divenuta un principio così connaturato, che ovunque si sia presentata l’occasione di metterlo a prova, essi hanno dimostrato invariabilmente passione e devozione per la sua causa].10 La frase di Weatherhead risale all’incirca al periodo in cui Byron compose i versi citati, ma mentre quest’ultimo alludeva all’indipendenza dell’Italia, Weatherhead intendeva riferirsi alle guerre d’indipendenza ispano-americane.

Ma quantunque “the sympathies of the American people were overwhelmingly in favor of the colonial cause”, ciò non bastava a condizionare la ragione di stato.5 Usciti indenni dalla Guerra del 1812 contro l’impero britannico, gli Stati Uniti non intendevano invischiarsi in un conflitto con la Spagna e i suoi alleati, e chiaramente inalberare il vessillo della libertà del Sud America sarebbe stato interpretato come un atto ostile.6 Onde mantenere rapporti pacifici con le grandi potenze era preferibile attenersi a principi di stretta neutralità e, approfittando della debolezza della Spagna sia in Europa che nelle colonie, cercare invece d’impossessarsi di parte dei suoi domini per via diplomatica.7 Ciò nonostante, complice il favore accordato da molti alla causa dei patrioti sudamericani, la neutralità fu violata ripetutamente. In barba alla politica ufficiale, le navi corsare dell’América Libre, per esempio, furono accolte amichevolmente o addirittura armate in molti porti statunitensi, primo

La partecipazione inglese alla causa dell’emancipazione dei popoli rientra nel quadro dei fermenti europei sorti dopo Vienna. L’oppressione e lo scontento provocati dalla Restaurazione, con la nota sequela di misure repressive, sfociarono in un movimento internazionale di solidarietà armata ispirato agli ideali repubblicani e rivolto in particolare alla Rivoluzione dell’America Meridionale. Tuttavia, accanto a coloro che impugnarono le armi spinti dalla “honourable pretence of liberating a slaved and suffering country” ve ne furono altri – invero la maggioranza – che furono spronati da incentivi molto meno astratti.11 A detta di J.F. Rattenbury, legionario inglese, “the reduction of the army and navy, at the coclusion of the war [le guerre napoleoniche] had thrown from employment numbers of young and ardents spirits”. [Il ridimensionamento dell’esercito e della marina alla fine

5 Cfr. H.G. Warren, Sword was their passport. A history of American filibustering in the Mexican revolution, Baton Rouge, 1943, passim. 6 V. corrispondenza Richelieu-Hyde de Neville cit. supra. 7 Sulla questione della neutralità degli Stati Uniti, v. supra. 8 La partecipazione fu maggiore sui mari; i volontari nordamericani venivano chiamati “americans”. 9 G.G. Byron, Stanzas, Nov. 1820. 10 W.D. Weatherhead, An account of the late expedition

against the Isthmus of Darien, under the command of Gregor MacGregor, London, 1821, passim. 11 Osserva A. Walker: “They [i legionari] had heard of América as the country of gold and silver; they had read of the mines of Peru and Mexico, and they conceived that little more was necessary .than to present themselves for acquire some share of those riches the Spaniards had kept so long for themselves”. Cfr. A. Walker, Colombia. Being a geographical, statistical, agricultural, commercial and political account of that country, London, 1822.


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99. L. Beyer, Reduci di guerra, 1813-1815, inc.

della guerra aveva lasciato senza impiego molti giovani e ardenti spiriti].12 Sperperato il gruzzolo risparmiato sotto le armi, presi dallo sconforto e dall’indolenza, i reduci più giovani si misero in cerca di “some new object to occupy their time, and interest their feelings”. [Qualche nuovo oggetto a cui dedicare il tempo, e sul quale convogliare i loro sentimenti]. L’oggetto della ricerca poteva variare, ma il risultato a cui puntavano era lo stesso: associarsi ad un’impresa che permettesse loro di allontanarsi da casa onde sfuggire a “the dunning of tradesmen and the precincts of a prison”. [ I solleciti di pagamento dei negozianti e le mura di una prigione]. Da un momento all’altro decine di migliaia di ufficiali e soldati rimasero senza impiego e abbandonati a se stessi. Al termine non voluto di una ferma pluriennale, i più erano disabituati alla vita civile e, sebbene le operazioni belliche li avessero costretti a viaggiare per terra e per mare, non poterono vincere l’angoscia dello spaesamento. La loro geografia era tutta militare, ragione per cui, per sentirsi a casa, non vi era altra scelta che rientrare nei ranghi. La rivoluzione sudamericana offrì ai reduci più intraprendenti

questa possibilità, o per lo meno così parve loro.13 In effetti, mentre taluni seppero trarne vantaggio, altri soccombettero allo sforzo fisico e alle privazioni, per non parlare delle armi spagnole (anche sotto forma di plotoni di esecuzione), dei naufragi e via dicendo.14 Al pari di Weatherhead, anche Michael Rafter sostiene che la ragione di fondo che indusse i veterani britannici ad arruolarsi oltreoceano fu “the general stagnation which prevailed at home”.15 Fra i miliziani di ogni nazionalità, aggiunge, molti erano “disbanded soldiers anxious for an asylum”: un asilo castrense come il Champ d’Asile o più semplicemente un reggimento, una nave, un’isola... Al loro sbarco a Santa Catalina (isola della Vieja Providencia) i variopinti legionari dell’América Libre – ivi compresi Codazzi e Ferrari –, vennero accolti dal commodoro LouisMichel Aury con un proclama che iniziava così:

12 J.F. Rattenbury, Narrative of a voyage to the Spanish Main in the ship “Two Friends”, London, 1819, passim. 13 A. Hasbrouch, Foreign Legionaries in the Liberation of Spanish South America, London, 1928, p. 38. 14 “There are privations, scrive un legionario dell’América Libre, which the spirit of a soldier could hardly, surmount, even when lead on in an honourable cause, or in the service of his count-

ry”. Cfr. J.H. Robinson, Journal of an expedition 1400 miles up to Orinoco, etc., London, 1822. Riguardo alle penose condizioni in cui i patrioti si trovarono spesso ad operare, si vedano le parole rivolte dal contrammiraglio Villaret ai nostri eroi. 15 M. Rafter, Memoirs of Gregor MacGregor, comprising a sketch of the revolution in New Granada and Venezuela etc., London, 1820, passim.

Compagni di pellegrinaggio e senza patria! Valorosi stranieri, che per sentimenti politici o per altri motivi siete pervenuti alla Zona Torrida, dotati delle virtù che caratterizzano gli uomini d’onore... godrete qui di quella libertà civile e religiosa di cui il fanatismo e la crudeltà dei despoti vi ha


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100. P.J. Figueroa, Bolívar y la América niña, ca. 1820, olio.

privato fino ad ora. Io vi assicuro che condivideremo tutti i doni che questa incantevole e fertile terra promette.16

Dovizia di beni e libertà, ecco ciò che prometteva l’asilo americano ai soldati sbandati. Di fatto, la storia dei combattenti stranieri unitisi alla rivoluzione sudamericana rimanda quasi invariabilmente a personaggi contraddittori e spregiuticati, pronti a sacrificarsi in battaglia ma non meno pronti, in determinate circostanze, ad anteporre l’interesse e l’ambizione ai grandi ideali.17 Sia che riguardi figure minori come Codazzi e Ferrari o di prima grandezza come MacGregor e Aury, la fenomenologia dei legionari richiede un approccio realistico e misurato... salvo riconoscere che le loro vicende contengono aspetti realmente smisurati. Se da un lato l’iperbolicità e l’eroicità sono tratti tipici del contegno marziale, dall’altro – come nella fattispecie – sono piuttosto espressioni della retorica romantica, intendendo quest’ultima non secondo criteri europei ma come un peculiare 16

“Niles’ Weekly Register”, 3 ottobre 1818. In certi casi, l’atteggiamento dei legionari rifletteva quello dei governanti del Vecchio Mondo, e ciò perché condividevano i medesimi pregiudizi. Scrive l’abate de Pradt: “Los europeos han despreciado siempre a los colonos. Constantemente los han considerado como hombres de labor y como súbditos, como sus inferiores y sus sirvientes.” Cfr. Dominique de Pradt, Impreso sobre los seis últimos meses de la América y del Brasil, Buenos Aires, 1818. 17

sistema di figure e riferimenti sorto al calore del Tropico e della Revolución de la América Meridional. Nel caso dell’ “epopeya bolivariana” (svoltasi in gran parte su uno sfondo tropicale), si potrebbe dire che l’elemento retorico sia connaturato e alle persone e agli avvenimenti, a tal punto che si è indotti a sospettare che certe scelte politico-militari potrebbero aver risposto ad esigenze figurali ancor prima che a necessità belliche. Di per sé la propaganda, in quanto strumento di pressione e persuasione, equivale ad un sotto-sistema retorico, basato su tropi in uso da sempre. Nel corso delle Guerre d’Indipendenza gli insorti ne fecero largo uso non solo al fine classico di screditare o dissuadere il nemico, ma anche per fomentare il patriottismo e innalzare il morale. Inneggiando retoricamente all’aut-aut “Victoria o Muerte”, si voleva infondere nei combattenti la certezza che immolarsi per una giusta causa equivalesse al più nobile dei sacrifici.18 Soltanto i patrioti erano degni d’un “bel morir”, non certo gli spagnoli. Decretando la “Guerra a muerte”, il Libertador mise mano a un ulteriore espediente retorico-propagandistico, volto ad inculcare in un nemico già demoralizzato il terrore d’una fine miseranda: «Spagnoli, qualora non collaboriate attivamente alla liberazione del Venezuela, voi morrete anche se innocenti!», proclamò Bolívar, «Americani, voi vivrete anche se colpevoli!».19 A tale ipotetico sistema di figure, nel contempo romantico e tropicale, andrebbe ricondotto in primo luogo il linguaggio rivoluzionario, e in particolare il fenomeno dei proclami. Questi intessono una storia chimerica che per certi versi ricorda le annotazioni allucinate di Colombo alla vista delle Indie Nuove. Nella mente del genovese non vi era posto per gli ideali di Aury, ma l’incanto della Zona Torrida fu sentito sia dall’Ammiraglio che dal commodoro. Ciò ad onta che i cosmografi dell’antichità, da Aristotele a Tolomeo, assicurassero che delle cinque fasce costituenti la terra, la terza, corrispondente per l’appunto alla Zona Torrida, non fosse abitabile. Guai a quegli europei che avessero osato entrarvi: i raggi del sole li avrebbero ben presto mutati in negri! Al medesimo impianto retorico è rapportabile anche l’iconografia dell’América Libre. A partire dalla rivoluzione del 1789 piuttosto che da quella del 1776, le immagini a stampa, sfornate e diffuse a ritmo accelerato, presero a esercitare un ruolo inedito sul piano del condizionamento ideologico. La propaganda politica, sia in versione proselitistica che satirica, conobbe grazie al linguaggio visuale una straordinaria fioritura, che si propagó anche all’America insorta. 18 Scrive Codazzi: «Gli uniformi di marina erano bleu e sul gusto francese con bottoni su cui eravi incise un Indiano e le parole America Libre. I marinai sul cappello avevano una lastra su cui era incisa la morte e le parole o vincere o morir». 19 Il decreto della “Guerra a Muerte” è datato 15 giugno 1813. Bolívar intendeva vendicarsi delle efferatezze commesse dagli spagnoli, tali e tante che giurò: “Nuestro odio será implacable y la guerra será a muerte!”.


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101. La jura de Bolívar, ca. 1821, inc. col.

A questo proposito può essere interessante esaminare brevemente una stampa francese che circolò fra i patrioti sudamericani dopo il Congresso di Cúcuta (3 ottobre 1821), intitolata ‘La Jura de Bolívar” (v. fig. 101). Rappresenta il giuramento di fedeltà alla costituzione e racchiude la visione europea della rivoluzione americana. A sinistra, genuflessa sotto un albero da frutta tropicale (Musa acuminata) appare una giovane madre discinta, il capo abbellito da un diadema d’oro sormontato da un ricco piumaggio. Abbraccia un fanciullo che ella invita col gesto ad onorare il personaggio centrale, un uomo baffuto che a giudicare dall’uniforme si direbbe un generale. Costui stende il braccio destro su due tavole marmoree poggiate su un basamento anch’esso di marmo, mentre una donna dall’aspetto marziale, ricoperta da una tunica tricolore, si erige accanto a lui nell’atto di incoronarlo di alloro. Alle spalle dei due sono visibili sei bandiere e una palma. In lontananza s’intravede un vascello. A destra, con le braccia stese a salutare romanamente il generale, appaiono due personaggi: in primo piano un aitante ufficiale armato di sciabola; seminascosto da questi un guerriero barbuto addobbato di piume e armato d’arco. Da ultimo, sullo sfondo, spuntano un soldato, un cannone e un’esile palma arcuata ricoperta d’edera. Il significato della scena è trasparente: nel personaggio centrale è riconoscibile Bolívar, mentre le tavole della legge alludono alla carta costituzionale delle

nuove repubbliche, raffigurate mediante le rispettive bandiere. In quanto alla donna accanto al Libertador, il capo mozzo di Medusa sullo scudo, l’elmo e l’alloro rivelano che si tratta di Minerva, personificazione delle virtù repubblicane. La gloria e la perdurabilità della vittoria sono rappresentate dalla palma che si innalza solenne al centro della composizione. L’albero da frutta simboleggia invece la prodigalità della natura tropicale, mentre la seconda palma e l’edera ad essa avvinta rimandano alla resistenza e alla fedeltà. A Codazzi e Ferrari sarebbe bastata un’occhiata per afferrare gli etimi napoleonici dei due militari restanti (un ufficiale degli ussari e un simple soldat). Per contro, avrebbero stentato a identificare nella donna genuflessa un’indiana, nell’arciere barbuto un indiano (ambedue rappresentazioni allegoriche del quarto continente) e nel fanciullo la rinascita repubblicana delle ex-colonie spagnole. Ma qualche perplessità non avrebbe impedito loro di afferrare il senso complessivo dell’immagine: la dea della ragione e della rivoluzione incorona l’artefice dell’indipendenza e padre delle giovanissime repubbliche nonché protettore dei diritti costituzionali, mentre i legionari europei, i combattenti sudamericani e l’America in persona salutano in lui il condottiero. Stampata a Parigi attorno al 1821, l’incisione rende omaggio al Libertador, sottolineando – non certo en passant – il contributo filosofico e militare della Francia alla causa rivoluzionaria (tant’è che le


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tavole sono ricalcate su quelle della Declaration des droits de l’homme et du citoyen del 1789). Inutile dire che se la “Jura de Bolívar” fosse stata stampata a Londra, le uniformi avrebbero avuto un taglio inglese e il posto di Minerva, dea dei philosophes, sarebbe stato occupato da Mercurio, dio dei mercanti.20 Tornando al punto, dai ricordi dei nostri eroi trapela un atteggiamento non dissimile da quello della generalità dei legionari, sintesi d’impetuosità e senso pratico. Ricorda Ferrari che presentatisi a Gustave Villaret, contrammiraglio della marina bolivariana, nella speranza di essere arruolati al servizio del Venezuela, vennero ricevuti con queste parole: Signori, io non voglio ingannare nessuno. Dirò dunque loro la natura della guerra che accade tra noi... La nostra guerra è sanguinosa: non si da quartiere per ambe le parti combattenti; le nostre truppe alle volte si trovano nell’abbondanza, e altre volte sprovviste di tutto; sono obbligate spesso a marciare senza scarpe a traverso de’ boschi, di montagne, e di fiumi, senza vestito, armati di lance per scarsità d’arme da fuoco, e sovente costrette a starsi de’ mesi senza toccare un soldo. Per altro ci è modo d’arricchire, e il Governo è assai generoso con quelli che servono con zelo e fedeltà...

Al che Ferrari ribattè: «Signore... se avessi un diavolo di fronte, non mi ritrarrei davvero, specialmente al servizio di una Nazione, che cerca acquistare i sacri diritti dell’indipendenza». I due amici furono ingaggiati e nel giro di pochi giorni s’imbarcarono per Norfolk, dove li attendevano le lettere-brevetto di Villaret. «Fu una gioia indicibile per noi il ricevimento di tali lettere – rammenta il reggino –, perocché d’un tratto passavamo dal disagio, dall’incertezza a uno stabile e comodo stato di vita». Per i Codazzi e i Ferrari che attraversarono l’Atlantico per sentirsi a casa, il reclutamento nelle milizie sparute e male armate di una repubblica sconosciuta costituiva il coronamento di un doppio sogno: il ritorno alle armi e uno stato di vita comodo e stabile... Neanche il diavolo avrebbe potuto interporsi alla loro beatitudine!

102. Ritratto di Giuseppe Garibaldi corsaro.

Prima che le aspirazioni degli espatriati italiani assumessero un significato ideologico definito avreb-

bero dovuto passare più di tre lustri, diciassette lunghi anni che videro la fioritura delle società segrete e il fallimento dei primi tentativi insurrezionali. L’insuccesso dei moti mazziniani del 1833-1834 fece sì che molti cospiratori prendessero la via delle Americhe, determinati a perseguire la causa della libertà oltre Atlantico. Benché gli aspetti venali non fossero esclusi (quando mai?), in tale decisione prevalsero le considerazioni politiche. In effetti, l’impegno patriottico dei fuoriusciti di seconda generazione era più fondato che non il generico fervore rivoluzionario dei volontari dell’América Libre. Come questi ulti-

20 La personificazione dell’America riflette gli spostamenti di significato verificatisi nel Settecento, limitatamente all’area franco-britannica, in campo antropologico e politico. La donna selvaggia, totalmente ignuda, cara all’iconografia tradizionale, viene sostituita da una giovinetta ricoperta parzialmente con vesti classiche, diademi e piumaggi, quasi a rappresentare una principessa (per un confronto, si veda l’incisione da disegno di A. Monticelli riprodotta supra, fig. 73). Tale trasformazione allude ad una nuova realtà etnica e politica: l’America non è più un mondo sconosciuto abitato da temibili omuncoli, bensì un continente ormai noto, popolato dai discendenti dei primi coloni europei e ricco di promesse (la colonia francese di Santo Domingo era la più ricca del Nuovo Mondo). Incivilita e prospera, l’America si veste. La donna ignuda continua ad apparire sporadicamente, in posizione servile, ad indicare il passato indigeno. Le immagini che Codazzi ebbe modo di adocchiare nell’adolescenza erano certamente del tipo iniziale. Al suo arrivo

nel Nuovo Mondo, tuttavia, s’imbattè in una varietà di figure simili a quella esaminata sopra, in certi casi ancora più nobili e riccamente agghindate. Negli Stati Uniti poté vederne alcune irriconoscibili, mutate in slanciate dame del New England, volutamente o meno estranee alla primitiva matrice iconografica e semantica (si veda “Lady Liberty”, fig. 93). Anche nell’America spagnola la distanza dall’immagine tradizionale si fece sempre maggiore, ma con esiti diversi da quelli nordamericani. Infatti a sud del Río Grande esisteva il mestizaje (meticciato), un carattere razziale che interessava la maggioranza della popolazione e che, dunque, non poteva essere ignorato sul piano figurale. In questa prospettiva è particolarmente interessante il ritratto di Bolívar di P.J. Figueroa (v. fig. 100). L’incarnazione dell’America ha tratti meticci, possiede gli attributi convenzionali (perle, arco e frecce), è elegantemente addobbata... ma manca di tutti i segni del riscatto repubblicano: è appena una niña (anche se fisicamente sviluppata) e la libertà richiede maturità. Che cresca e si vedrà!


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mi, anche i primi presero parte ai movimenti politici sudamericani, più spesso in veste civile che militare, ma allo stesso tempo continuarono a coltivare il progetto risorgimentale (riorganizzandosi, diffondendo le idee della Giovane Italia, riunendo volontari da inviare nella penisola, ecc.). Ciò non vuol dire che fra gli esuli della prima e della seconda epoca non esistano elementi di continuità: li collega una comune natura peripatetica, il medesimo slancio libertario e la stessa sensibilità romantica, ivi compresi gli stessi schemi retorici. Disposti com’erano a offrire la propria spada e il proprio sangue a qualunque popolo in lotta contro la tirannide – avrebbe detto l’Eroe dei due mondi – sia gli uni che gli altri divennero cosmopoliti e adottarono l’America come patria. Garibaldi sbarcò a Rio de Janeiro alla fine del 1835 e su istruzioni di Mazzini fondò una confraternita della Giovane Italia. Ansioso di battersi, il 4 maggio 1837 ottenne dal governo insurrezionale di Rio Grande una patente di corsa. La sua emozione fu grande: «Eravamo adunque finalmente liberi – si legge nelle memorie pubblicate dal Dumas – navigavamo sotto bandiera repubblicana, eravamo corsari!».21 Garibaldi sostiene che «il soldato di ventura non voleva arricchire, voleva battersi e mantenere la data parola»22: questo vale per i combattenti di prima e seconda generazione, senza peraltro implicare che per molti di essi – come ad esempio Codazzi e Ferrari – non contasse anzitutto passare «dal disagio, dall’incertezza a uno stabile e comodo stato di vita». Lungi dal limitarsi a seguire sulle gazzette le vicende della rivoluzione sudamericana (per saziare così i loro “diseased appetites”), gli abitanti di Baltimora e degli altri porti atlantici dettero prova d’un interesse più concreto. Intensificatasi a partire dal 1815, la simpatia per l’América Libre era già diffusa nel 1806, quando una cinquantina di americans salparono da New York a bordo del brick Leander con l’intento – rivelatosi catastrofico – di portare a compimento “a revolution in South America”.23 L’attenzione si riaccese alla fine del 1809, stimolata dall’arrivo a Baltimora della fregata Tilsit, recante a bordo alcune decine di cospiratori francesi incaricati segretamente di organizzare cellule insurrezionali sulle coste del Venezuela e della Nuova Granada.24 Infine, in 21

G. Garibaldi, Memorie, op.cit. Ibid. 23 Salpati il 2 febbraio 1806, il Leander, il Bee e il Bacchus, che trasportavano un corpo di spedizione agli ordini di Francisco de Miranda, toccarono la costa venezuelana in vicinanza di Ocumare il 28 aprile successivo. Le navi spagnole sorpresero i patrioti e li vinsero. Solo il Leander, su cui viaggiava Miranda, riuscì a farla franca. I legionari catturati furono passati per le armi o condannati ai lavori forzati. 24 Questa cospirazione fu organizzata per volere di Giuseppe Buonaparte, allora re di Spagna, allo scopo di bloccare l’aiuto che la Junta de Gobierno anti-francese continuava a ricevere dalle colonie transatlantiche. Cfr. M. Palacio Fajardo, Esquisse de la Revolution de l’Amérique Espagnole etc., Paris, 1817. 22

103. H. Moll, Carta geografica della Virginia e Maryland, 1729.

anni più recenti, Baltimora (assieme a New Orleans e Filadelfia) era divenuta per la causa rivoluzionaria un centro logistico della massima importanza. In barba alle leggi di neutralità, sulle rive del Patapsco si svolgevano vere e proprie attività d’intendenza militare, come il reclutamento di legionari, l’approvvigionamento, la raccolta di fondi, l’allestimento di navi da guerra ed in particolare il noleggio e l’armamento di legni corsari.25 Improntato all’avidità, il sentimento filo-rivoluzionario dei baltimoreans sfociava spesso in forme di connivenza, se non di correità, ovviamente contrarie alla politica ufficiale del governo. Ma le regole dettate a Washington, venivano spesso disattese dagli stessi funzionari governativi (in special modo a Baltimora), notoriamente tolleranti nei confronti dei privateers.26 Per esempio, il “Niles’ Weekly Register”, 25 Nessuna delle ex-colonie aveva tradizioni navali, per cui “the issuance of privateering commissions became the means to offset Spain’s maritime advantage by harrassing that country’s commerce”, cfr. F. Hopkins, For freedom and profit: Baltimore privateers in the wars of South American independence, in “The Northern Mariner/le marin du nord”, XVIII, 3-4, 2008, p. 94. 26 “Privateer” traduce allo spesso tempo ‘corsaro’ e ‘nave corsara’. In termini legali significa “a vessel owned by one or by a society of private individuals, armed and equipped at his or their expense, for the purpose of carrying on a maritime war by the authority of one of the belligerent parties. For the purpose of encouraging the owners of private armed vessels, they are usually allowed to appropriate to themselves the property they capture, or at least a large proportion of it”.


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104. Mappa del porto di Baltimora, XVIII sec.

foglio vicino al governo, si levò a difesa dei corsari patrioti comparando le loro azioni a quelle compiute dai loro omologhi durante la rivoluzione del ‘76. “This attitude together with the desire for commercial gain – osserva H.G. Warren – made it possible for privateers and pirates to use the principal American ports as headquarters for their depredations against Spanish commerce”.27 Ben più che su un’astratta “south american mania”, siffatta condiscendenza faceva perno su una circostanza concreta: oltre la metà delle navi corsare con patente patriota erano di proprietà di cittadini statunitensi, e quand’anche non lo fossero, venivano comunque armate ed equipaggiate in arsenali degli Stati Uniti.28 «Gli agenti sudamericani – osserva Flagg Bemis – comprarono e allestirono illegalmente legni corsari nei porti degli Stati Uniti, in particolare a Baltimora e a New Orleans, reclutarono illegalmente equipaggi nordamericani, contrattarono illegalmente capitani nordamericani, fornendo loro bandiere e patenti fraudolente», tutto questo sotto il naso delle autorità governative.29 Nel solo porto di Baltimora vennero armati venti di tali legni, la maggior parte dei quali si mise in caccia sotto la bandiera degli Estados Unidos de Buenos Ayres y Chile (stato privo di consistenza 27

H.G. Warren, op.cit. F. Hopkins, op. cit., p. 95 29 S. Flagg Bemis, op. cit. 30 J.Quincy Adams, Memoirs, IV, pp. 318-319. Come si è visto anteriormente, Quincy Adams considerava gli abitanti del Sud America alla stregua d’una turba meticcia immersa nell’igno28

territoriale e politica, ma dotato di una pur discutibile esistenza diplomatica). Negli stessi giorni in cui Codazzi y Ferrari si dirigevano a Norfolk, la complicità di Baltimora con i privateers dell’América Libre fece sbottare il Segretario di Stato: The misfortune is not only that this abomination has spread over a large portion of the merchants and of the poputation of Baltimore but that it has infected almost every officer of the United States in the place. They are all fanatics of the South American cause... Baltimore is as rotten as corruption can make it.[Il male non è solo che un tale abominio si è diffuso fra gran parte dei mercanti e della gente di Baltimora, ma che ha corrotto la quasi totalità dei funzionari statali in loco. Costoro sono tutti dei fanatici della causa sudamericana... la corruzione ha portato Baltimora al degrado].30

In sintesi, la causa dell’indipendenza sudamericana, più in particolare la presenza sul suolo statunitense o in aree adiacenti di basi d’appoggio per le forze navali ribelli, provocò sentimenti e prese di posizione diverse nel governo e nell’opinione pubblica, coerentemente con i rispettivi interessi. Mentre Washington non cessò di ribadire la propria neutralità, rifiutando ogni forma di sostegno ufficiale agli insorti ed, anzi, proibendo le iniziative private in tal senso, le autorità ranza a causa d’una secolare tirannide politica e clericale, incapace di governarsi e “hardly profitable for the communion of free men.” Cfr. anche S. Flagg Bemis, John Quincy Adams and the Foundations of American Foreign policy, New York, 1949. Ciò premettendo, non sorprende che il Segretario di Stato considerasse l’appoggio alla causa patriottica un fenomeno nefasto.


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105. Stato di servizio del tenente colonnello Codazzi, 1822.

amministrative dei porti atlantici e di New Orleans furono a dir poco tolleranti. A loro volta, i commercianti, gli armatori e gli speculatori prestarono all’attività dei privateers battenti bandiera rivoluzionaria una collaborazione entusiastica (e altrettanto venale). Fra il 1817 e il 1822, gli anni durante i quali Codazzi e Ferrari parteciparono alla lotta marittima – si legga corsara –, questa si svolse principalmente nelle acque dei Caraibi e del Golfo del Messico, un quadrante strategico sia per l’intenso traffico commerciale che per le caratteristiche fisiche delle coste: litorali spopolati, piccole isole sperdute e semideserte, secche, banchi di sabbia, ecc. offrivano ai corsari rifugio e protezione dalla persecuzione spagnola. Inoltre ad Haiti, la prima repubblica indipendente dell’America non anglofona, e altrove esistevano ‘tribunali delle prede’, istanze d’obbligo per la legalizzazione e la commercializzazione del bottino.31 Abili marinai, intrepidi combattenti, fervidi rivoluzionari, avventurieri, filibustieri, contrabbandieri: nei corsari l’ideale libertario si fondeva con l’opportunismo, l’altruismo con la cupidigia. Per cinque anni, i nostri eroi si mossero in mezzo a loro, condividendo arrembaggi, saccheggi, scaramucce, fughe, naufragi, uragani, malattie, privazioni. A differenza

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J. Grafenstein Gareis, Corsarios y piratas en un territorio en disputa, 1810-1819, in “Theorethikos”, III, 1, San Salvador, 2000. 32 Maurice Persat, Mémoires du Commandant Persat, 1806 à 1844, Paris, 1858 (a cura di G. Schlumberger). 33 Nel trascrivere l’autografo delle Memorie, Longhena les-

del corsaro Giuseppe Garibaldi, non percepirono appieno il fascino del mare (né ricevettero gravi ferite, né furono imprigionati o torturati). Tuttavia, benché fossero uomini di terra, veleggiarono instancabilmente tra i flutti del Tropico, animati da uno spirito di avventura che nulla aveva da invidiare a quello dei lupi di mare. Il fanatismo dei baltimoreans nei confronti della causa rivoluzionaria fece sì che verso la capitale del Maryland confluissero i rappresentanti politici e gli incaricati d’affari delle colonie insorte. Fra costoro vanno ricordati Pedro Gual per la Nuova Granada, Lino de Clemente per il Venezuela e Martin Thompson per Buenos Ayres. Nel 1817 giunse a Baltimora, in incognito, anche il vice-ammiraglio Gustave Villaret, allo scopo di procacciare rinforzi e vettovagliamenti all’esercito di Bolívar. «Persona onoratissima, e caldo napoleonista», questi, come s’è detto, assoldò i nostri eroi.32 Ciò avvenne i primi di settembre, a due settimane circa dal loro arrivo. Di fatto, dallo Stato di servizio di Codazzi risulta: “Entrado al servicio de la República Mexicana el 1.o Sbre. 1817 como Teniente primero de Artillería” (v. fig. 105).33 Di lì a poco ricevettero l’ordine di dirigersi a Norfolk, porto

se: «Dallo stato di servizio avuto in Providenza [sic] prima di abbandonare il servizio si vede l’entrata al servizio della Repp. ca di Mexico il 1 ott. 1817». Tuttavia l’Estado de Servicio dice o sembra dire: “Entrado al servicio de la Reppubl.a Mexicana el 1o. Sbre. 1817”. Forse l’arruolamento venne retrodatato d’un mese per aumentare l’anzianità di servizio.


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106. Brigantino ottocentesco, stampa.

situato all’imboccatura della baia di Chesapeake. Preso posto su una «barcaccia che menava acqua» (circostanza che li obbligò una volta ancora ad aiutarsi con le pompe), arrivarono o sarebbero dovuti arrivare a destinazione verso la fine di settembre. A Norfolk s’imbarcarono sul brick América Libre, nave ammiraglia di Villaret.34 A dare ascolto al reggino, appena saliti a bordo il capitano Bernard consegnò loro le anzidette lettere-brevetto, siglate dal contrammiraglio in data 17 settembre.35 In esse si diceva che i due italiani dovevano ritenersi al servizio della repubblica del Venezuela dalla data di ricevimento delle medesime. A bordo del brigantino, ricorda Ferrari, vi erano «più che 200 persone d’ogni arme e nazione... fra le quali moltissimi uffiziali, come noi»: legionari francesi, polacchi, italiani, americani, mori e spagnoli, di fanteria e d’altre armi. Secondo Codazzi, sul brick si trovavano «tra soldati marinai e cannonieri 150 uomini dei più risoluti che mi abbia mai incontrato», ai quali in seguito si aggregarono «molti altri ufficiali francesi ed italiani non che vari emigrati americani del sud».36 Mentre in rapporto al personale imbarcato i ricordi dei due amici non si discostano più di tanto, divergono radicalmente rispetto ai movimenti

e alla tabella di marcia dell’América Libre. Codazzi sostiene che, lasciato il porto di Norfolk, fecero rotta per New York – «immensa città che per la sua bella posizione e per la distribuzione e costruzione è degna d’essere veduta» –, da dove proseguirono per Charleston. Secondo Ferrari, si diressero invece a Filadelfia – «grande e bella città» – ove dettero fondo per qualche giorno «per un po’ di riposo», proseguendo poi per Charleston. La discrepanza non riguarda tanto i luoghi quanto i tempi, e mette in luce uno degli aspetti più interessanti e problematici delle memorie del lughese.37 Ammettendo che i nostri eroi avessero ricevuto le lettere-brevetto dopo il 17 settembre, non avrebbero potuto salpare da Norfolk se non in data posteriore, per cui non avrebbero potuto raggiungere New York (o Filadelfia) prima della fine di settembre o dell’inizio di ottobre.38 Infatti, visto che sbarcarono a Baltimora attorno al 15 agosto e furono ingaggiati il primo settembre successivo, anticipare la data di partenza dal porto della Virginia sarebbe matematicamente impossibile.39 Ciò nondimeno, si sa per certo che il brick América Libre ancorò di fronte a Staten Island all’inizio di settembre, rimanendo alla fonda

34 L’América Libre era il “vaisseau amiral de M. Villaret... et fin voilier”, M. Persat, op.cit. Il termine ‘brick’ sta per ‘brig’. 35 Il capitano si chiamava Bernard (o Bernardo) Ferrero, cfr. M. Persat, op.cit. 36 Persat parla di 200 uomini. 37 Persat, che s’imbarcò sull’América Libre a New York, non menziona affatto lo scalo a Norfolk. 38 Il capitano Bernard consegnò ai due amici lettere-brevetto datate 17 settembre. A sua volta, Bernard le ricevette da Villaret il 17 stesso o giorni dopo. Alle mani dei destinatari, dunque, giunsero necessariamente in una data successiva.

39 La lettera di Codazzi al padre è datata 28 aprile, per cui la partenza da Amsterdam dovette prodursi qualche giorno dopo. Calcolando tre mesi e mezzo di navigazione, i due amici non poterono arrivare a Baltimora prima del 15 agosto. 40 Il “Niles’ Weekly Register” del 27 dicembre 1817 riporta una cronaca da New York datata 8 settembre dalla quale risulta che l’América Libre era all’ancora a Staten Island fin dal 7 settembre. Da una lettera di Pedro Gual sappiamo che era alla fonda nello stesso punto il 17 successivo. Dal canto suo Maurice Persat afferma che il brigantino si allontanò dalla “superbe rade de New York” il 22 settembre.


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107. Varo della fregata a vapore Demologos, stampa.

nella baia di New York fino al 22 dello stesso mese,40 per poi dirigersi a sud. Chiaramente, questo porta ad escludere che l’imbarco avesse potuto prodursi prima della fine di settembre – la traversata New YorkNorfolk richiedeva non meno di 8-10 giorni – e che il brigantino, una volta lasciata Norfolk, avesse fatto rotta per New York... porto dal quale proveniva! Da ultimo, induce a dubitare che Codazzi avesse avuto modo di visitare quell’immensa città. Eppure... se non è vero è ben trovato! Annota il lughese: «Ammirammo in questo vasto porto [di New York] di guerra una fragata di recente costruzione portando 48 cannoni di grosso calibro, e che viaggia a forza di vapore e non di vele mediante le ruote coperte che tiene ai fianchi», un vascello che poteva navigare controvento e controcorrente a più di 10 miglia l’ora, ustionando gli eventuali inseguitori con getti di acqua bollente. Invero, nel porto di New York stazionava dal 1816 il Demologos, una fregata a vapore progettata da Robert Fulton (era stata varata due anni prima e veniva chiamata Fulton the First). Era un’imbarcazione stupefacente per più d’un verso, anche se, bisogna dire, le sue caratteristiche non erano all’altezza di quelle riportate dal nostro: era armata con 16 pezzi d’artiglieria, non aveva ruote ai fianchi bensì al centro del doppio scafo, era dotata di vele supplementari, aveva una velocità massima di 6 miglia in condizioni ottimali e, in particolare, dalle fiancate non fuoriscivano né 300 lance né 300 sciabole retrattili destinate a «tagliare a pezzi chiunque osasse montare all’abbordaggio». Poiché l’eventualità che il lughese avesse avuto modo di ammirare personalmente il Demologos è a dir poco remota, dette

discrepanze possono considerarsi minori. In termini generali, la descrizione riportata nelle Memorie è non meno veridica di molte notizie riportate sui fogli dell’epoca: altrettanto inesatta e iperbolica, frutto anch’essa del mito del progresso tecnologico, ma non falsa. Basti vedere la stampa qui riprodotta (v. fig. 107): pubblicata nel 1815, l’immagine si basa su un bozzetto dal vero eseguito al momento del varo; ona volta ultimata, si legge nella didascalia, la fregata sarebbe stata munita di 30 cannoni da 32 e 2 carronate da 100, e infatti sulla murata appaiono quindici portelli. Ma tale informazione, e con essa la rispettiva illustrazione, non corrispondeva né alla nave reale né al progetto: diversamente da quanto divulgato, era previsto che il Demologos montasse solo 16 pezzi da 32 e così fu. Con ogni probabilità, l’autore del bozzetto tracciò le 8 aperture effettivamente esistenti, ma il litografo, dando credito alle voci circolanti, decise di aggiungerne altrettante. Nel corso del tempo, l’incisione fu ripresa e abbellita ripetutamente, e ad ogni riapparizione il naviglio migliorò, finché divenne “le plus formidable que le génie de l’homme ait pu jamais concevoir”. In quest’ultima stampa il numero dei cannoni fu elevato a 38 “du plus gros calibre”, per cui non è strano che Codazzi ne contasse 48. Nel futuro cartografo, la capacità di osservazione e la memoria si fondono con l’estro e l’inventiva, un amalgama che suole dare adito a finzioni. Lungi dal limitarsi a percorrere distanze e a documentare l’esistente al fine di accrescere la propria e l’altrui conoscenza del mondo, i viaggiatori ‘di razza’ si propongono di stupire con il racconto di ciò che


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108. Allegoria dell’indipendenza messicana, litogr..

potrebbe esistere o essere esistito, accadere o essere accaduto. Tornare da un viaggio senza un racconto è come tornare da caccia senza una preda: per questo i cacciatori, al pari dei viaggiatori, sono esimi fabulatori. Seppure fittizia, l’andata a New York non è per questo meno verosimile, anzi, nella sua inconsistenza lo è maggiormente. Infatti, all’udito di chi ascolta un racconto di viaggio, non vi è nulla di più allettante di ciò che si allontana dal consueto. Questo, peraltro, non vuol dire che Codazzi, lavorando d’immaginazione, sconfinasse nel libertinaggio narrativo. Salvo poche eccezioni, le sue finzioni sono fin troppo subordinate al vero storico, fin troppo condizionate sia dal proposito didattico delle Memorie che dal suo personale scetticismo. Pur con questi limiti, mettendo nero su bianco i ricordi dei primi viaggi, il nostro raggiunse l’apice dell’invenzione. Subito dopo dette un passo in senso diametralmente opposto: rinunciò a raccontare per dedicarsi a misurare. In ogni caso, prima di optare per il teodolite, ebbe modo di realizzare esperienze (appena) oltre il reale. Partiti da New York, ricorda il lughese, «costeggiammo in lontananza le coste degli Stati Uniti e nella provincia della Georgia venimmo in Charleston ove intendemmo che la febbre gialla faceva flagello», per cui l’América Libre, senza nemmeno gettare l’ancora, proseguì verso sud. «Entrammo dopo passati la Florida nel golfo del Mexico – continua il nostro – e venimmo all’isola di Galveston ove allora sventolava la bandiera mexicana consistente in uno scacchiere

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bleu e bianco contornato di rosso e in mezzo un’aquila posata sopra d’un fico d’India avente in bocca una serpe che si dimenava». Comandava quell’isola il generale Aury, «che sperava di giorno in giorno di potere avanzarsi con le truppe nell’interiore [del Messico]». L’arrivo del contingente imbarcato sull’América Libre, unitosi subito agli uomini di Aury, dette il via all’operazione. Sorvoliamo sulla circostanza che il brigantino non si diresse affatto a Galveston e che Aury non si trovava al momento su quel tratto di costa, e seguiamo piuttosto Codazzi «all’interno della provincia di Texas». Sbarcato assieme a 300 compagni, attraversò un’orrida selva lungo orridi sentieri, guidato da indios agilissimi, parchi e del tutto ignudi, con il solo difetto del cannibalismo. «Alcune tribù di queste che dimorano in quest’ampia provincia – racconta il lughese – sono antropofagi e due dei nostri soldati... furono mangiati e ne trovammo le loro ossa vicino ad un fuoco che aveva servito a cuocere il miserando pasto». Alle foreste si susseguirono le praterie, così piatte e sconfinate ch’era d’uopo servirsi della bussola. Dai nativi i legionari ebbero «più cavalli che non domandavamo ed apprendemmo che in quelle immense pianure vagavano a piacimento mandre numerosissime di destrieri», proprio come nelle pampas del sud (destrieri che gli indios, non casualmente, catturavano con tecniche da gauchos). Durante la marcia si adattarono a cibarsi di buoi allo stato brado, che squartavano, arrostivano e mangiavano mezzo crudi e senza sale. Lo scopo della spedizione era dare man forte a Xavier Mina, l’eroe navarro, che, dopo essersi battutto contro i francesi in patria, ora combatteva contro i suoi stessi compatrioti per l’indipendenza del Messico. In poco tempo l’inventore della guerrilla aveva radunato «migliaia d’uomini ed Indiani che a folla accorrevano sotto i suoi stendardi», per cui «aveva potuto invadere varie provincie». Forte di tanto successo, aveva creduto «convenevole di riunire i maggiori e stimati di queste [province] onde proponessero una forma di governo sul modello di quello degli Stati Uniti, e formassero una costituzione adattata al loro paese ed ai loro interessi». Mina aspirava a: spezzare le catene che li opprimevano [i messicani] e rendendoli liberi farli ancora padroni di sciegliersi la forma di governo che più gli piacesse, mentr’egli [Mina] non voleva essere altro che l’esecutore degli ordini che dal sovrano congresso gli fossero trasmessi.

Ma il suo nobile intento fallì miseramente. Mentre erano accampati sulle rive del fiume Hondo, gli indios recarono ai legionari «l’infausta notizia della morte di Mina, della dispersione di tutto l’esercito e della fuga ancora dei generali tutti». Il condottiero navarro era caduto vittima d’una congiura ordita da certi spagnoli e portata a termine all’interno della chiesa ove si erano appena conclusi i lavori del congresso. «Pieno di buona fede e non conoscendo punto l’inganno ordito», Mina vi si recò per essere inve-


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stito del potere esecutivo, ma «appena ebbe posto il piede che quegli stessi che lo attorniavano immersero nel petto sia a lui che ai suoi aiutanti i nascosti pugnali e con replicati colpi esangui li stesero al suolo». Al corpo di spedizione di Aury, dunque, non rimase altro che ripercorrere a marce forzate il lungo cammino fino a Galveston e reimbarcarsi. Prescindendo dalla maggiore o minore veridicità, la narrazione contiene tutti gli ingredienti del dramma romantico: una natura vasta e solitaria, ora piatta come il mare ora ammantata di scure foreste, degli indios leali e servizievoli ad onta dell’indole selvaggia e, dulcis in fundo, un condottiero impavido, altruista e sciagurato. La scena finale poi – lo scempio in un sacro recinto – si colloca ad un’altezza tragica quasi verdiana. Insomma, se solo vi avesse fatto colare del sentimento, da una storia siffatta Codazzi avrebbe potuto ricavare un romanzo più suggestivo di Atala e di Paul et Virginie.41 Ma il suo intento era etnografico e didattico ancor più che letterario. Da un lato si proponeva di fornire ai lughesi notizie curiose sulla natura e i costumi esotici del Nuovo Mondo, dall’altro voleva comunicare loro un messaggio morale e politico. Dal sacrificio di Xavier Mina si potevano trarre molteplici insegnamenti: lezioni riguardanti il diritto dei popoli alla libertà e alla sovranità, l’obbligo di ciascuno di combattere e immolarsi per tali ideali, le conseguenze dell’ingenuità, le insidie connesse a un nemico subdolo e malvagio... Che importanza poteva avere che il racconto fosse spurio e forzato quando l’obiettivo precipuo del narratore era renderlo avvincente e icastico? Vi è poi da dire che, in ultima analisi, non si discostava dal vero. Francisco Xavier Mina nacque ad Otano, in Navarra, nel 1789. Dopo aver studiato nel seminario di Pamplona, si iscrisse all’università di Saragozza. A seguito della cosidetta “entrevue de Bayonne” (ove si decise l’abdicazione di Carlo IV di Borbone a favore di Napoleone), a Saragozza, nel giugno 1808, scoppiò una sommossa anti-francese che vide Mina in prima linea. Subito dopo l’ex-seminarista si unì alla resistenza, divenendo in breve il capo del Corso Terrestre de Navarra, una compagine irregolare composta da colonne volanti e autonome destinate ad attaccare il nemico di sorpresa. I colpi inferti agli invasori dai guerrilleros furono tali e la fama del giovanissimo caudillo si sparse tanto, che divenne popolare dire “irse a Mina” per dire ‘unirsi ai patrioti’. La buona stella di Mina si spense nel 1810, quando venne catturato dai francesi. Trascorse i quattro anni successivi nel castello di Vincennes. Di ritorno in Spagna si scontrò con una realtà ben diversa da quella per cui aveva combattuto. Animato da idee liberali, visceralmente contrario al dispotismo di Ferdinando VII, si unì allora ad un gruppo di congiurati decisi a “alzar el estandarte de la Constitución”. Fallito questo intento, si rifugiò a Londra “with the determination to defend the cause of liberty wherever an opportunity existed”. In Inghilterra entrò in contatto con i patrioti

109. Francisco Xavier Mina, acquatinta.

sudamericani, i quali, impressionati dal suo carisma e dai suoi trascorsi, gli affidarono una nave, armi e munizioni affinchè capitanasse un’impresa a lungo vagheggiata “que tenía por objeto dar un golpe mortal al despotismo de Fernando VII en el reino de México”. Obbligato dalle circostanze a posporre sine die ogni tentativo di ristabilire la libertà in Spagna, l’ex-guerrillero si decise così a “consagrar su brazo a la defensa de la libertad en América”. Mina e i suoi (non più di 20) sbarcarono a Norfolk il 30 luglio 1816, proseguendo di lì a poco per Baltimora, dove venne creata la Mexican Company (società composta da investitori e simpatizzanti statunitensi intesa a finanziare e organizzare una spedizione contro il Messico). Il progetto stentò a concretarsi e quando finalmente si mise in marcia minacciò di naufragare, non da ultimo a causa di un uragano che distrusse la flottiglia dell’ex-guerrigliero nei pressi di Haiti e della febbre gialla che decimò i suoi uomini. Come Dio volle il corpo di spedizione – ben 140 41

Paul et Virginie, di Jacques-Henri Bernardin de SaintPierre, fu pubblicato per la prima volta nel 1787. Atala, di François-René de Chateaubriand, apparve nel 1801. Risalenti ambedue alle idee di Rousseau, ricollegabili – in particolare Atala – allo spirito romantico, furono opere decisive per la formazione dell’immagine della ‘nuova’ America in Europa (ne fu influenzato anche Humboldt). Probabilmente figuravano nella biblioteca del Serraglio.


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l’orizzonte in fuga

non veniamo a conquistare, bensì ad aiutare gli illustri difensori dei più sacri diritti della società umana.

Alla popolazione locale Mina rivolse parole ispirate ad una sincera abnegazione: Messicani! Consentitemi unirmi al vostro glorioso intento, accettate i servizi che offro alla vostra sublime impresa, accoglietemi come vostro compatriota! Possa io meritare questo onore o coadiuvando al raggiungimento della vostra libertà o sacrificando ad essa la mia vita! Se dovessi perire, per compensarmi direte ai vostri figli: “Questa terra fu inondata due volte dal sangue di spagnoli, la prima volta esso fu sparso da dei miserabili vassalli d’un re, la seconda da spagnoli liberali e patrioti, che sacrificarono la loro tranquillità e la loro vita per il nostro bene.

Dopo alcuni colpi bene assestati, che se da un lato rinfocolarono l’entusiasmo dei legionari dall’altro allarmarono le autorità spagnole spingendole a reagire energicamente, per il caudillo di Otano iniziò la parabola finale: un epilogo tragico causato o affrettato dalla diffidenza degli stessi insorti messicani. Catturato il 27 ottobre 1817, venne fucilato l’11 novembre successivo, all’età di 27 anni.42

Compagni d’arme! Siete al mio comando per battervi per la libertà e l’indipendenza del Messico... La possibilità di prendere parte alla lotta viene offerta soltanto agli spiriti generosi: seguendomi, voi avete scelto di far vostra la migliore delle cause. Sbarcando sul suolo messicano, voi già lo sapete,

Non tutte le interpolazioni immaginarie presenti nelle Memorie perseguono lo stesso fine. Il racconto del viaggio a Buenos Aires, per esempio, privilegia il mondo degli abitanti della pampa (curiosamente chiamati «pastori»). Il fascino emanato da costoro agli occhi degli europei era grande, per cui Codazzi, ricorrendo a fonti bene informate, ne descrisse diffusamente le usanze. Se una morale da tale descrizione si può trarre, non si ricollega affatto al topico illuministico dello stato di natura (nesso percepibile in altri punti delle Memorie). I gauchos erano dei selvaggi senza attenuanti, dediti a scannarsi reciprocamente «coi grandi coltelli che sempre portano alla cintura». Mancavano non solo di regole di civile convivenza ma anche della più elementare umanità: «Tanto sono avvezzi ad imbrattarsi le mani nel sangue e così lontani dal freno della legge dell’onore e del dovere che godendo di una selvaggia indipendenza sembra loro la stessa cosa il servirsi di quell’arma contro l’uomo come contro gli animali». La morale, semmai, riguarda il disprezzo per la barbarie e, per contrasto, l’elogio della civiltà. In questa prospettiva, gli antropofaghi texani e gli indios in genere ricevettero dal nostro un trattamento di favore, giustificato dalla loro condizione di aborigeni ignari del vivere civile, selvaggi di natura e non per scelleratezza.43

42 W.D. Robinson, Memoirs of the Mexican Revolution including a Narrative of the Expedition of General Xavier Mina ecc. ecc., Philadelphia, 1820.Il lungo titolo del libro di Robinson – vedi frontespizio riprodotto qui sopra (v. fig. 110) – è significativo di per sé. Consapevole della natura economica dell’nteresse americano circa l’emancipazione del Messico dalla Spagna, l’autore integra la narrazione dei fatti con osservazioni di carattere commerciale. Il fallimento del progetto di Mina si dovette in parte alla dualità del progetto stesso: da un lato il sincero patriottismo

del navarro, dall’altro le mire per nulla patriottiche dei supporters nordamericani. Va da sé che i legionari stranieri che presero parte alla lotta per l’indipendenza dell’America spagnola fossero quasi sempre ignari degli interessi internazionali in gioco. 43 L’opinione di Codazzi sugli indigeni della pampa non sarebbe piaciuta a Garibaldi. Questi, com’è noto, combattè per anni alla testa di schiere di gauchos ed ebbe sempre per costoro il massimo rispetto (fra l’altro dai gauchos apprese alcune tecniche di combattimento che poi applicherà in Italia).

110. W.D. Robinson, Memoirs of the Mexican Revolution.

legionari! – giunse a Galveston, sul litorale texano, dove fu soccorso dal commodoro Aury, all’epoca governatore di una fantomatica ‘República de Méjico’. Fallito il tentativo di ottenere rinforzi dai mercanti di New Orleans (interessati piuttosto ad investire in una spedizione contro la Florida occidentale), Mina decise comunque di avanzare. Al comando di 250 uomini, si diresse via mare a Soto la Marina, nella provincia del Nuevo Santander, dove si attestò il 21 aprile 1817. Gli appelli lanciati nel toccare terra messicana costituiscono un contributo non minore alla storia dei proclami libertari:


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111. A. Codazzi, Carta del Golfo del Messico e Mar dei Caraibi.

Con un’immagine cartesiana si potrebbe dire che, mentre il viaggio a Costantinopoli e il lungo periplo fino a Baltimora si svolgono sull’ascissa della geografia, le esperienze successive s’intersecano con l’ordinata della storia: ciò perché oltreoceano il lughese diede, a suo dire, un contributo personale alla nascita delle nuove repubbliche. Lo fece solcando l’oceano da nord a sud, incrociando i Caraibi e il Golfo del Messico, risalendo fiumi, addentrandosi nel continente, prendendo parte a battaglie e assedi, capitanando assalti, portando a termine vitali missioni segrete, ecc.ecc. Fu vera gloria? Per attenerci alla realtà dei fatti, i servizi resi da Codazzi alla causa dell’América Libre si riducono alla partecipazione ad azioni corsare e a operazioni di scarso rilievo bellico sulla costa centroamericana, più “una misión secreta de mucha consecuencia de Providencia cerca el almirante Cocranne en el Mar del Sur traversando toda tierra firma, y cerca de S.E. el Presidente Bolivar”.44 Non poco, ma insufficiente a farne un co-protagonista dell’epopeya libertadora, insufficiente al suo ego e ancor più alle attese dei suoi lettori. Appunto per sanare tale manchevolezza, le Memorie narrano due viaggi, l’uno realmente effettuato, l’altro costruito ad

44

Cfr. “Estado de Servicio del Oficial Superior Codazzi”, 1821, Biblioteca Comunale di Imola, Archivio Storico. 45 La carta geografica dell’America Centrale e Caraibi riprodotta in alto (v. fig. 111) si deve alla mano di Codazzi e fa parte delle mappe allegate alle Memorie. Si tratta ovviamente di una copia, tuttavia è interessante notare come in essa figurino i luoghi

arte. Per la stessa ragione raccontano due storie, la prima aderente ai fatti, l’altra romanzesca. L’abilità di di Codazzi, nonché la sua sfrontatezza, consiste da un lato nel rimescolare i due viaggi fino a renderli pressoché indistinguibili, dall’altro nell’inventare situazioni ed eventi mantenendosi comunque fedele al criterio di verosimiglianza. Un po’ esploratore e un po’ antropologo – oltre che soldato, rivoluzionario, massone e sognatore –, di ritorno in Italia Codazzi – ripetiamolo – rielaborò lo struggimento nei confronti delll’America e della natura primigenia dei tropici in una visione oltre il reale. Vediamo un esempio. Un giorno la goletta sulla quale navigava a 200 miglia dalla costa del Nicaragua si arenò disastrosamente sulle secche di Serranilla, equidistanti dall’isola di Giamaica e dalla costa del Nicaragua.45 Costruita una zattera, per giorni i naufraghi andarono alla cieca su un mare infestato da pescecani, privi d’acqua e di cibo. «È orribile ricordarmi ora di quel naufragio – scrive il lughese – per le conseguenze del terribile viaggio di 5 giorni e 5 notti prima di giungere a terra, più spinti dai flutti e dalla corrente che dalla perizia dei piloti». La zattera galleggiava a malapena, per cui «bisognava tenersi stret-

delle avventure corsare del nostro eroe, compreso il naufragio nei pressi delle secche di Serranilla. In effetti, molte delle località marcate non figuravano nella carta originale (a scala troppo piccola per includere scogli o isolotti) e si devono a integrazioni dello stesso Codazzi, frutto dei suoi interessi esploratori e saggio dell’accuratezza che ne caratterizzerà il lavoro cartografico.


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112. C.N. Cochin, Marina et autres femmes donnés a Cortez, ca. 1745, inc.

ti per non essere balzati fuori dalle onde che per ogni parte ci coprivano». Non era quello il problema peggiore: «La fame ci divorava, l’acqua continua salata ci faceva bruciare la pelle, i ‘rachin’ pesci divoratori di carne umana si aggiravano a noi d’intorno ed attendevano il fortunato momento che divenissimo pasto loro». Come se ciò non bastasse, cominciò ad insinuarsi fra i naufraghi il fantasma dell’antropofagia. «Ognuno di noi – ricorda Codazzi – vedeva presente il memorando naufragio della fregata francese, la Medusa, ove più di cento uomini furono mangiati», e in effetti «già cominciavansi a fare i complotti onde difenderci reciprocamente dalla fame, mentre principiavansi a sentire i sintomi dell’uomo disperato che per vivere non ha ripugnanza ad uccidere i compagni, saziarsi delle loro carni crude e palpitanti». Ma l’avvistamento di un basso litorale boscoso li salvò dal divorarsi mutuamente. Finirono esausti sulla costa dei Mosquitos, non lontano dal capo Gracias de Dios: «Così riuscimmo salvati dalla buona ventura in terra barbara ma amica».46 L’indole e le usanze dei nativi ed in particolare l’ospitalità con cui accolsero i naufraghi, impressionarono vivamente il lughese, 46 Mosquitía o Mosquito Shore, fra il Nicaragua e l’Honduras. Cabo Gracias de Dios, sul confine fra i due paesi, è posto al centro del territorio degli indios Mosquitos (o Miskitos). Bluefields è oggi la cittadina più importante della zona.

che nelle Memorie dedicò a quell’incontro inatteso e provvidenziale righe permeate di rinnovato stupore. Ancor più di altre volte, il racconto – in omaggio alla curiosità e alle ossessioni dei lettori – è sospeso fra fedeltà etnografica e contraffazione: Gli indiani Moschiti [Mosquitos] non solo divisero con noi le lor capanne, lor natte, ed il loro vitto, ma ancora ci prestarono ad uso le lor mogli e le loro figlie. Qui è costume che a forastieri di pregio si fanno questi ultimi presenti e guai se non si accettassero: sarebbe la più grossa offesa che loro si potesse fare.

C’era di che rimanere a bocca spalancata, in preda non solo allo stupore ma anche all’invidia, non da ultimo perché Codazzi ritiene di dover precisare che tale manna era riservata ai «principali ufficiali», un’élite di cui lui – all’epoca tenente colonnello di artiglieria – faceva senz’altro parte. Obbligati dagli usi locali, gli ufficiali «di buon grado accolsero quelle indiane che tutte nude furono presentate meno un piccolo grembiule largo come un foglio di carta posto più per bizzarria che per coprire le parti vergognose». Infierendo sul suo pubblico, il lughese aggiunge un dettaglio piccante: «La donna attacca la sua amaca vicino a voi e da voi attende che impieghiate qualche ora allo sfogo della lubricità». Subito dopo, quasi a parare eventuali obiezioni estetiche e razziali, precisa: «Queste indiane sono alte ben fatte con occhi piccoli, piccola fronte, naso aquilino,


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113. L.F. Aubry, Hernán Cortés libera una schiava azteca, ca. 1820, stampa.

mento tondo, capelli nerissimi, lunghi e cadenti sulle spalle». E il resto, com’era il resto? «Hanno grosse anche, rotondo sedere, tornite coscie, belle gambe, piccoli piedi e sono di color noce chiara». In quanto alla loro sollecitudine, basti dire che le native «erano le assolute schiave degli uomini». La donna intesa come guiderdone e ristoro dei naviganti è presente nell’epopea fin dai tempi omerici. Per averne diritto bisognava compiere prodezze, patire travagli o, quanto meno, godere della benevolenza degli dei. In detta prospettiva, il naufragio rappresentava un cimento e chi lo superava otteneva occasionalmente di poter sbarcare “na ilha dos Amores”, l’isola favolosa cantata da Luis de Camões nei Lusiadas. Fin dai tempi della Conquista, l’America – incarnata come si è visto anteriormente in una fanciulla ignuda – fu prodiga di doni verso i baldi guerrieri del Vecchio Mondo. L’omaggio di 20 schiave offerto a Hernán Cortés dagli indios Tabasco in segno di sottomissione all’indomani della strage di Cetla, ha fatto sognare – grazie ad una bella incisione di C.N. Cochin (v. fig. 112) – generazioni di lettori europei. L’immagine apparve nel 1746 in seno all’Histoire Générale des Voyages dell’abbé Prevost, opera forse presente nella biblioteca del Serraglio. Rappresenta

46 A.F. Prevost, Histoire Géneral des Voyages, Paris, 17461761, XVIII, p. 272. Secondo Prevost la cottura del pane venne invocata da Cortés come pretesto per dissimulare la propria concupiscenza. Díaz del Castillo, fonte dell’abbé, non si riferisce affatto al pane. Cfr. B. Díaz del Castillo, Historia verdadera de la conquista de Nueva España, I, XXXVI, Madrid, 1632, p. 23v.

il momento in cui le giovanette (fra cui la famosa Marina) vengono consegnate al Conquistador. A differenza delle donne Mosquito, i cui pregi si riducevano a lascivia, le 20 schiave sapevano preparare il pane di mais, ed è questa – dice l’abbé – la ragione per cui Cortés si rallegrò del dono46; allegria che, nondimeno, rintuzzò, lasciandosi guidare piuttosto dalla saggezza. Poiché il suo scopo era ingraziarsi gli indigeni, anche se a malincuore restituì il regalo: ce lo da a intendere L.F. Aubry in una stampa apparsa a Parigi verso il 1820 (v. fig. 113), nella quale la schiava si trasforma in prêtresse du soleil. ll senso dell’immagine è ambiguo: se non fosse per la legenda, sembrerebbe un’allegoria dell’emancipazione dell’America ispana (per inciso, vi figurano personaggi a noi già noti). Le conquiste dell’América Libre – potrebbe significare – includono i sacri diritti dei nativi. Come si vedrà in seguito, anche il lughese usufruì di una schiava donata, e anch’egli finì per staccarsene, donandole la libertà. Ma come nel caso di Cortés, non si può essere del tutto certi della sua generosità. Quantunque Codazzi e i suoi compagni di ventura sbarcassero su una spiaggia arroventata, lontana le mille miglia dal paesaggio fresco e ombroso della tradizione classica, e benché le donzelle locali, in luogo di accoglierli al suono di flauti, continuassero a grattugiare la manioca, l’ospitalità dei Mosquitos smuove tali reminiscenze letterarie che, indipendentemente dalla sua autenticità, il racconto sembra fittizio. È vero però anche il contrario: l’aderenza al dato etnografico è tale che la narrazione, a prescindere dalla sua inattendibilità, appare comunque credibile. Parlando dei giacigli degli indios, il lughese annota:


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«Le amache, sono una specie di rete lunga più d’un uomo, alla cui estremità si uniscono tante cordicine, che si congiungono a due anelle a cui sono raccomandate due corde che si legano ai travi delle pareti». A sua volta, la rete era costituita da funicelle simili alla canapa. Inutile sottolinearlo: l’amaca è descritta con tale esattezza che irradia credibilità all’intero contesto narrativo... ivi compreso l’impiego particolare dell’artefatto da parte delle donne indigene. Prima di Codazzi, sui costumi dei Mosquitos si era dilungato il capitano inglese George Henderson, loro ospite nel 1806.47 In quanto al modo di coricarsi,

Henderson scrive: “The bed of each [indigeno], a mat, is placed on what is called a barbecu, a frame made os sticks, and raised a few feet from the ground”. A chi credere, dunque, alle amache del tenente colonnello o alle stuoie del capitano? Racconta quest’ultimo che gli indios lo accolsero con grande cordialità: in men che non si dica gli prepararono una zuppa (la più gustosa che avesse mai mangiato) e fabbricarono con pali e frasche una capanna ove potesse riposare.48 Neanche una nativa, però, si stese accanto a lui sulla stuoia onde potesse dar sfogo alla lubricità (in cambio non gli lesinarono dei ricchi breakfast).49 In quanto alla nudità, vi accenna anche l’inglese, precisando nel contempo che gli indios indossavano spesso indumenti splendidi e fantasiosi.50 Anch’egli come Codazzi sottolinea l’usanza della poligamia, ma annotando a latere che la colpa dell’adulterio ricadeva sull’uomo, che doveva compensare immancabilmente il marito tradito con un bue.51 Ciò, inutile dirlo, induce a dubitare della liberalità dei Mosquitos nei confronti delle loro donne (anche se, dato l’utile, avrebbero potuto prestarle agli ospiti per stimolare perfidamente le naturali tendenze fedifraghe di questi... onde averne buoi!). Sempre a proposito delle indiane, Henderson concorda sul fatto che erano spesso belle e ben fatte, aggiungendo dettagli sfuggiti al nostro, come il loro amore per le collane e il costume di dipingersi il viso di rosso.52 Codazzi non avvertì neppure che le funzioni del sacerdote e del medico si fondevano nella figura dello sciamano, o Sokee, “whose occult skill is ever regarded with the deepest and most implicit veneration.”53 Ancor più strano, non si accorse della grande passione dei nativi per il canto e le improvvisazioni poetiche in rima.54 Scoprì invece che i villaggi facevano capo ad un cacicco, mentre l’intera Mosquitía dipendeva da re Giorgio, «incoronato con questo nome dagli inglesi alla Giamaica, dopo di averlo tenuto per più anni in educazione in quello stabilimento onde si civilizzasse». Di ritorno in patria, il monarca smise gli abiti da generale che gli avevano regalato e «contento di una camicia rossa ed un cappello di paglia se la vive come i suoi india-

47 G. Henderson, An account of the British settlement of Honduras... To which are added sketches of the manners and customs of the Mosquito indians etc., London, 1809 (1811). 48 Autore di un lessico della lingua Mosquito, Henderson traduce il vocabolo ‘capanna’ con “ootla” o “outla”. Secondo Codazzi gli indios dicevano “karbet”. 49 Fino a che punto Codazzi si allontana dal vero? Gli insediamenti costieri erano popolati principalmente da Sambos, cioè, nativi rimescolati con schiavi neri fuggitivi o scampati al naufragio di navi negriere. Costoro erano noti sia per la licenziosità dei costumi sessuali che per l’alcolismo. A causa della “total absence of marriage relations” e ai frequenti rapporti con mercanti e marinai, erano spesso affetti da lebbra, tant’è che i Mosquitos genuini li rifuggivano. Cfr. O.W. Roberts, Narrative of voyages and excursions on the east coast and in the interior of Central America ecc., London, 1827. A sua volta Gregor MacGregor osserva: “In the Mosquito Shore a plurality of mistresses is considered no disgrace. It is no uncommon circumstance for a British subject to

have one or more of these native women at different parts of the coast. They have acquired great influence through them”, citato da E.G. Squier, Notes on Central America; particularly the states of Honduras and San Salvador: their geography, topography, climate, population, resources, productions, ecc., New York, 1855. 50 Henderson, op.cit.: “...if not tastefully or fashionably dressed, [gli indios] were at least splendidly and variously so”. 51 Henderson, ivi. 52 Henderson, ivi: “The women are in the habit of decorating their persons with a profusion of beads, to which species of finery they are passionately attached, and very commonly paint their faces and necks with a kind of red ochre, which is found in their country”. 53 Ibid. 54 Riguardo alle usanze festive dei Mosquitos, Codazzi, lungi dal concordare con Henderson, annota: «Le loro feste sempre finiscono col sedere sulle loro amacche ed ubbriacarsi fino a non più reggere in piedi».

49

114. Amaca degli indios Puris (Brasile).


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ni». Pure Henderson parla di re Giorgio, non però in termini spregiativi, anzi, rileva che la monarchia mosquita era calcata su quella britannica.55 Ciò che a prima vista sembra emergere dal riscontro dei due ragguagli è che Codazzi, forse perché privo di attitudine antropologica, non riuscì ad afferrare appieno la complessità della cultura nativa. Tuttavia, non si può escludere che la sua superficialità dissimuli inconsapevolmente il proposito di esemplificare attraverso i Mosquitos gli aspetti infraumani della condizione primitiva, traendone una massima universale: i selvaggi sono innanzi tutto dei selvaggi. Con questo non si vuol dire che il lughese fosse a conoscenza dei termini della ‘disputa del Nuovo

Mondo’ o che la sua posizione rimandi a convinzioni anti-illuministiche. Le Memorie sono sottese di buon senso ben più che di filosofia, per cui sarebbe vano appellare a spiegazioni intellettualistiche. Codazzi intendeva raccontare una storia aderente alle convenzioni della letteratura di viaggio e d’avventure, un genere che non solo ammetteva bensì esigeva licenze, invenzioni e quant’altro servisse a suscitare stupore e ammirazione. La trasformazione di una società relativamente acculturata in un branco di bruti rientra in questo quadro, ovvero, fa parte dei dispositivi di seduzione del lettore.56 In quanto elemento di genere, i selvaggi erano necessari al racconto, e nulla vietava di collocarli dove più convenisse. Oltre che compiacere i lettori – si aggiunga – la comparsa di esseri del genere beneficiava la persona stessa dell’autore, accrescendone il prestigio: quanti romagnoli, infatti, potevano vantarsi di aver fatto incontri talmente straordinari? A differenza di Henderson, il nostro eroe non credeva nell’efficacia narrativa degli eventi ordinari. “Were it not for that fertile and never-failing theme, the weather – si chiedeva il capitano – of what would the greater part of the narratives of most voyagers and travellers consist?” [Se non fosse per quel fecondo ed infallibile argomento che è il clima, in che cosa consisterebbe la maggior parte dei racconti della maggior parte dei viaggiatori?]. Non casualmente, il lughese si dilungò sul clima soltanto nel caso di fenomeni immani e, per così dire, mitici: tempeste e uragani. Ciò che lo distingue dal viaggiatore inglese, sia nei confronti dei fenomeni atmosferici che etnografici, è per l’appunto il disinteresse per la realtà minuta e consuetudinaria, quella realtà che si era lasciato alle spalle nel 1810 (o 1812?) e dentro la quale i suoi compatrioti erano più che mai rinchiusi. Mettendo per iscritto i propri ricordi, autentici o spuri che fossero, Codazzi si assegnò il compito di portare sollievo alla piattezza della Romandiola, una regione che la mancanza di rilievi rendeva simile ad un mare senza onde e senza vento. Parlando della costruzione delle repubbliche sudamericane, si propose di riaccendere la speranza dei suoi compatrioti; per contro, riandando ai giorni favolosi fra i Mosquitos, intese farli sognare... tutto questo ad onta del fatto che il calcolo quotidiano del clima o, quanto meno, della pressione barometrica

55 Il nome completo del re era George Frederic Augustus I. Suo nonno, George I, era stato educato a Londra, cfr. The American Gazetteer, exhibiting a full account of the civil divisions, rivers, harbours, indian tribes, etc. of the American continent, etc., Boston 1804. Tuttavia, uno studioso come Robert Naylor mette in dubbio l’esistenza del regno mosquito: “The territory [Mosquitía] was occupied by scattered clusters of Indians with no formal conception of territorial domain in the western sense. Therefore, the British would virtually have had to create the very entity to which they were allegedly allied. The creation existed more in theory than in practice and was largerly a fiction”. Cfr. R. Naylor, Penny Ante Imperialism: The Mosquito Shore and the Bay of Honduras, 1600-1914 – A Case Study in British Informal Empire, LondonToronto, 1989; a sua volta Olien osserva: “Miskito kings (...) have

been viewed, first, as puppets of the British, (…) who were kept intoxicated and put into or removed form office by the English when it suited to their interests. (…) Since the Miskito did not have a centralized political system, it has been argued, the Miskito Kings necessarily represented something new and imposed entirely from the outside. But the historical data suggest other possibilities”, cfr. D. Olien, The Miskito Kings and the Line of Succession in “Journal of Anthropological Research” 39, 2, 1983. 56 Codazzi riepiloga così le notizie sui Mosquitos: «Per tanti e così strani particolari dirò, come un viaggiatore, che questi popoli hanno gli occhi di un’aquila, l’udito di un orso, i piedi di un cervo, la sagacità di un cane da caccia e la destrezza di una deità». L’accenno al ‘viaggiatore’ è un’esplicita ammissione dei prestiti ricevuti da altri esploratori.

115. Henderson, An Account of the British Settlement ecc., 1811.


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116. Veduta del Principato di Poyais, 1822, inc., inc.

sarebbe diventato in seguito uno dei temi più fertili del suo lavoro di misuratore. Nell’ambito della letteratura di viaggio, non mancano quegli autori che, facendosi scudo in malafede della premessa che l’onestà del narratore è proporzionale all’ubbidienza verso le regole del racconto e non al rispetto per la verità, perseguono un tornaconto personale. In questo senso, un caso emblematico tocca di striscio l’avventura di Codazzi fra i Mosquitos. Da più fonti sappiamo che mentre il nostro eroe attendeva di essere riscattato da una nave amica, a poche miglia di distanza re George Frederic Augustus investiva solennemente un generale scozzese con il titolo di cacique di Poyais, assegnandogli a perpetuità un feudo che si estendeva su parte della Mosquitía (compreso forse il villaggio dove soggiornava il lughese). A detta di Thomas Strangeways, misterioso viaggiatore inglese autore di uno Sketch of Mosquito Shore, l’etnia mosquita era imparentata con gli antichi Maya, retaggio che si traduceva in “an anxious desire” di imitare i costumi europei, una tendenza all’incivilimento di cui era prova l’attaccamento all’Inghilterra.57 Come poté Codazzi non percepire una simile inclinazione? Come poté

ignorare la venerazione che gli indios tributavano al nuovo cacique? La risposta si annida fra le pagine dello Sketch of Mosquito Shore. In esso, l’autore fa riferimento ad un proclama indirizzato da Sua Altezza il Cacicco al popolo dei Poyer, con l’annuncio che si sarebbe recato in Europa per procurarsi istruttori religiosi e morali, nonché esperti in produttività agricola e conservazione delle risorse, specificando che avrebbe invitato unicamente emigranti di specchiata onestà e comprovata industriosità (dato in Rio Seco il 13 aprile 1821).58 Era fuor di dubbio che Sua Altezza, mediante il fomento dell’immigrazione, la stretta osservanza dei principi di giustizia e il diniego di ogni immoralità, avrebbe conseguito l’approvazione dei suoi fedeli indios, il plauso di tutti gli amici dello sviluppo della razza umana e onore immortale per sé: parola di Strangeways. Quell’uomo atruista e illuminato si chiamava Gregor MacGregor e i suoi trascorsi agli ordini di Bolívar ne facevano un eroe dell’indipendenza sudamericana. Codazzi l’aveva «distintamente veduto» quattro anni prima, mentre a bordo di un legno con bandiera inglese fuggiva dall’isola Amelia.59 Per sua personale dichiarazione, MacGregor era divenuto

57 T. Strangeways, Sketch of Mosquito Shore: including the territory of Poyais... chiefly intended for the use of settlers, Edinburgh, 1822. Si è insinuato da più parti che il vero autore del libro sarebbe lo stesso Gregor MacGregor, che l’avrebbe scritto per reclamizzare il progetto di lottizzazione del principato.

58 I Poyer, più noti come Paya, facevano parte della famiglia mosquita. Cfr. T. Young, Narrative of a residence on the Mosquito shore ecc., London, 1842. 59 Con tutta probabilità, Codazzi fece la conoscenza diretta di MacGregor molti anni dopo, forse nel 1839, a Caracas, quan-


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117. Strangeways, Sketch of the Mosquito Shore, 1822.

118. Ritratto di Gregor MacGregor, principe di Poyais.

principe di Poyais, un territorio di oltre tre milioni di ettari sulle rive del basso Río Negro, in virtù di una volontaria concessione dei nativi (nella persona del già menzionato monarca) risalente al 1821.60 Attraverso l’accurata descrizione del capitano Strangeways, basata in parte su testimonianze di viaggiatori anteriori, non si poteva non concludere che il dominio dello scozzese fosse “one of the fairest portions of the globe”: un paese prodigiosamente fertile, coperto di foreste d’ebano, ricco d’oro e altri minerali, facilmente accessibile per mare e attraverso vie fluviali, dotato d’un clima paradisiaco, abitato da nativi pacifici e disponibili (pronti ad impiegarsi per pochi spiccioli nelle piantagioni dei coloni europei, liberandoli così dal lavoro della terra e permettendo loro di arricchire in santa pace). Per non dire della

capitale del principato, St Joseph, una cittadina di forse 15 mila abitanti dotata di bei palazzi, banche e perfino un teatro d’opera. Insomma – ribadisce l’autore dello Sketch – era fuor di dubbio che, “protected by the wise and vigorous administration, sound policy and comprehensive views of His Highmess the Cazique of Poyais”, il principato centroamericano sarebbe progredito rapidamente in prosperità e civiltà, fino a diventare uno dei più attraenti “radiant realms beyond the Atlantic wave.”61 L’immagine d’un reame radioso al di là dei flutti oceanici non era di Strangeways. L’aveva partorita Bryan Edwards mezzo secolo prima, in seno ad un poema dedicato all’isola di Giamaica (poema appartenente ad un’opera maggiore, definita dall’autore “West Indian Georgic”, rimasta inconclusa):

do lo scozzese vi si trasferì definitivamente (a Caracas gli fu riconosciuto il grado e la pensione di generale venezuelano). 60 Nel dicembre del 1824, il generale dichiarò in terza persona: “Gregor MacGregor, descendant of the ancient Kings of Scotland, follower of both orthodox and roman catholic faith is in possession of the country of Poyais (Mosquito Province in the nor-

thern region of America) due to a voluntary concession made by the local people”. I titoli avanzati dallo scozzese erano in tutto o in gran parte falsi. 61 Strangeways, op.cit. Cfr. A. Hasbrouch, “Gregor McGregor and the Colonization of Poyais, between 1820 and 1824”, “The Hispanic American Historical Review”, 7, 1927, pp. 438-


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Nel 1773, Edwards presentò al parlamento inglese un’estesa relazione riguardo alle caratteristiche geografiche del territorio mosquito, ai diritti britannici sul medesimo e all’opportunità di fondarvi insediamenti. Il suolo era ovunque fertile, “capable of producing, in the utmost perfection, whatever is produced between the Tropics”. Un paese a dir poco fortunato: “Every variety of animal and vegetable nature, for use or beauty, for food or luxury, has been most liberally bestowed on this country”.63 Il capitano Stangeways attinse a piene mani dal rapporto di Edwards, ricalcandone a volte interi paragrafi. A sua volta, quest’ultimo si era basato su “authentic and well selected information”, fornitagli in particolare da un certo reverendo in uno scritto ammirevole per forza, chiarezza ed eleganza (qualità indubbiamente apprezzate da un aspirante poeta come Edwars). Insomma, passando di penna in penna, la Mosquitia divenne la più ricca, promettente e ambita porzione costiera dell’America centrale, per poi – con l’apparizione del principato di Poyais – assumere addirittura connotati prodigiosi. Giunto a Londra, Sua Altezza il Cacicco si affrettò ad aprire una lussuosa rappresentanza diplomatica, che divenne celebre per i numerosi ricevimenti. Subito dopo, suddivise il principato in lotti da 540 acri (216 ettari) ciascuno, ulteriormente frazionabili, che mise in vendita al prezzo di due scellini e tre pence l’acro. Per circa 11 sterline gli strabiliati compratori poterono assicurarsi 100 acri di paradiso (40 ettari). Inutile dire che i lotti, soprattutto di piccolo taglio, andarono a ruba. Nel frattempo le gazzette londinesi inneggiavano e a MacGregor e alla sua generosa impresa civilizzatrice. Tanta notorietà fece sì che l’emissione d’un prestito obbligazionario garantito dallo Stato Sovrano di Poyais fosse un completo successo (infatti il cacique intascò centinaia di migliaia di sterline). Armati del vademecum di Strangeways, le tasche

piene di moneta locale (battuta all’uopo da MacGregor), i primi 43 coloni giunsero alla foce del Río Negro l’11 febbraio 1823; altri 160 seguirono di lì a poco ed altri ancora dopo qualche mese. Nel giro di poche ore i nuovi arrivati si resero conto di essere sbarcati su un litorale arido e inospitale, limitato da una selva inaccessibile, privo di acqua potabile e di qualsiasi risorsa commestibile. La città di St Joseph non esisteva, gli indios erano ostili, il clima insalubre, la terra non coltivabile... Costernati, assetati, affamati, riarsi dal sole e torturati dagli insetti, i coloni si ammalarono, molti morirono. A quei pochi che insistettero nel mettere a frutto gli appezzamenti – spesso acquistati indebitandosi –, re George fece sapere che i loro titoli di proprietà erano illegali. Se avessero voluto stabilirsi in Mosquitia, avrebbero dovuto ricomprare la terra a un quarto di dollaro l’acro. Tornare in Inghilterra avrebbe comportato l’incarceramento per debiti nella Fleet Prison o altra simile; restare avrebbe voluto dire affidarsi allo spirito caritativo degli indios. Insomma a cambio del loro sogno tropicale, i malcapitati coloni scozzesi non ricevettero nulla, nemmeno le carezze con cui tre anni prima le fanciulle indigene avevano accolto il naufrago Codazzi. L’avvilimento fu tale che nessuno volle raccontare l’accaduto (se non, vanamente, in questo o quel tribunale). Nel loro caso la regola di Pangloss si rivelò infondata, et pour cause... dal momento che confusero il ‘migliore dei mondi possibili’ con l’inferno. Ciò che guidava Codazzi non era la fiducia nella Provvidenza e nemmeno un miraggio edenico. La vita intesa come stabilità, lavoro e prosperità su un suolo benedetto non faceva parte dei suoi piani. Vi rientrerà in seguito, e la sua delusione sarà grande. Ciò che allora desiderava era vedere mondi nuovi e raccontarne. Nella sua prospettiva, la costa dei Mosquitos esisteva non per trapiantarvisi, bensì per essere riposta nella memoria. Recarvisi fisicamente non era indispensabile: un lungo tratto del litorale centroamericano, dalla foce dell’Atrato fino al golfo dell’Honduras, era simile sia sotto il profilo geografico che antropologico, e i destinatari dei racconti di avventure amavano soprattutto stupirsi. D’altro canto, non per tutti e non sempre “le bon Dieu est dans le détail.”

Sinclair, The land that never was, Cambridge, 2003; T. Young, op.cit.; E.G. Squier, op.cit. 62 B. Edwards, “Jamaica, a descriptive and didactic poem”, in The History, civil and commercial. of the British West Indies, V, London, 1819 (1793). B. Edwards, 1743-1800, fu un ricco

commerciante e parlamentare inglese. In gioventù visse a lungo nell’isola di Giamaica. 63 “Some Account of the British Settlements on the Musquito Shore drawn up for the Use of Government in 1773”, in B. Edwards, op.cit., pp. 202-214.

Jamaica’s beauteous isle and genial clime I sing. Attend, ye Britons! nor disdain Th’ adventorous muse to verdant vales that soar, And radiant realms, beyond th’ Atlantic wave; Ardent to gather for the Albion’s brow A tropic wreath, green with immortal spring.62


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amĂŠrica libre

119. Dichiarazione d’indipendenza di Haiti indigena, 1804.


120. Soldato indigeno, 1822, acquatinta.


il ratto di amelia

“In quanto a me, non rinnegherò mai la Repubblica. Qualsiasi cosa accada, la difenderò coraggiosamente, e spero di non meritare mai l’accusa di aver ceduto”. cicerone

Attorno al 2 ottobre 1817 l’América Libre gettò l’ancora nella grande baia di Charleston.1 Temendo che i volontari imbarcati nei porti toccati anteriormente ne approfittassero per disertare, Il contrammiraglio Villaret prese controvoglia la decisione di farvi scalo.2 Fra l’altro, Charleston era in preda ad un’epidemia di febbre gialla, ragione per cui molti abitanti se ne erano allontanati. “Toutefois – ricorda il comandante Persat – les Français étaient restés, entre outres le citoyen Picault, qui tenait un hôtel où nous allâmes loger”.3 Ferrari accenna di sfuggita a questa sosta, mentre Codazzi non la menziona affatto. Nondimeno, entrambi dovettero fare onore alla cena che Picault preparò per i nuovi arrivati, “un diner tout monarchique, c’est-à-dire fin, copieux et agrémenté

de bon vin”. Fra i commensali vi era anche il capitano dell’América Libre, Bernard Ferrero (o Farero), uomo intrepido e dal carattere faceto. Giunti al dessert, questi indirizzò con voce tuonante un brindisi all’Imperatore, sicché “Français, Anglais, Américains, Italiens, noirs et mulâtres, etc., se levèrent spontanément et répétèrent ce toast européen”: tutti meno il locandiere che rimase seduto mormorando “Je ne bois pas à la santé des tyrans!”. Allora il capitano lo raggiunse d’un balzo e, afferratolo per la gola, tentò di strozzarlo mentre gridava “Gredin, apprends que je servi la République mieux que toi; mais je servi aussi l’Empereur, et, en tous lieux et en tous temps, je ne souffrirai jamais que l’on insulte ni l’une ni l’autre!”. In effetti, al pari di Picault, anche il capitano Bernard era un repubblicano convinto e appunto sotto la Repubblica aveva preso parte all’ultimo, leggendario combattimento del Vengeur du Peuple, avvenuto nel 1794 (v. fig. 121). La sua carriera era continuata nella marina napoleonica agli ordini dell’ammiraglio GuyVictor Duperré.4 Se da un lato la svolta bonapartista non aveva incrinato la sua lealtà alla Francia, dall’altro aveva reso ancor più fervida la sua devozione per la causa della libertà. Con un volo retorico d’epoca, si potrebbe dire che l’eco dei versi di ÉcouchardLebrun gli tornava all’udito ogniqualvolta l’America Libre spiegava le vele:

1 La data è fornita da M. Persat in Memoires du Commandant Persat, op.cit. 2 Ibid. 3 Ibid. 4 L’anno anteriore, più precisamente il 30 aprile 1816, Bernard Ferrero aveva preso parte alla battaglia navale svoltasi in prossimità dell’isola Margarita, dove 7 golette bolivariane “de

mucha fuerza” avevano affrontato una squadra spagnola, sconfiggendola. Ferrero era al comando di una delle golette, la Conejo, di sua proprietà. In precedenza, aveva prestato servizio sulla Vengeur du Peuple agli ordini dell’ammiraglio Villaret de Joyeuse, prendendo parte alla battaglia che ne vide l’affondamento (1 giugno 1794). Poi aveva combattuto sotto il comando del contrammiraglio Duperré, forse sulla fregata Bellona.

Fra l’ottobre e il dicembre del 1817, Codazzi e Ferrari vissero una delle esperienze più importanti e, per così dire, sconvolgenti dell’intero periodo americano. Non presero parte a battaglie, ma assistettero comunque ad una tragedia d’indole storica. Fino ad allora, i loro contatti con gli eventi politici erano stati indiretti: ne avevano patito le conseguenze ma non avevano partecipato alla loro dinamica, percependo solo parzialmente la loro logica. In quel lasso di tempo collaborarono alla costruzione di una repubblica e assistettero alla sua morte.


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121. A.E.F. Mayer (da), Affondamento del Vengeur du Peuple, litogr.

Tornando al porto di Charleston, è probabile che della febbre gialla cadesse vittima anche Gustave Villaret, che forse per questa ragione perse temporaneamente il controllo della spedizione. Il capitano Bernard se ne avvantaggiò e, in barba al piano ori-

ginale, riprese la navigazione volgendo la prua non già verso l’isola Margarita bensì verso la Florida settentrionale. Non appena le sue condizioni di salute glielo permisero, il contrammiraglio – rimasto a terra – pubblicò una diffida sui giornali di Charleston e denunciò la condotta abusiva del capitano alle autorità portuali degli Stati Uniti. Ma giunto a sua volta in Florida e avuto modo di chiarire l’incidente con Bernard (nonché con Pedro Gual, rappresentante del governo rivoluzionario della Nuova Granada), si ricredette e ritirò la denuncia.6 A detta di Persat, i capi patrioti decisero di mutare destinazione con il benestare del contrammiraglio. Lo determinarono a Charleston, dopo avere appreso che «un francese chiamato Aury s’era impossessato dell’isola Amelia, sulla costa della Florida orientale, proclamando la Repubblica delle due Floride». Villaret, Gual e Bernard conoscevano Aury, per cui decisero di «andare a trovare il nuovo presidente».

5 P.D. Écouchard-Lebrun, “Ode sur le vaisseau Le Vengeur”, in Oevres choisies de Lebrun, Paris, 1829. 6 Consta da una lettera di Villaret a John H. Elton, comandante dell’US Saranac, alla fonda nelle acque del St. Marys River, in data 4 novembre: “My having been very sick has prevented me of the honor of seeing you. You will probably see in the Charleston papers an advertisement of mine, stating that captain Bernard Ferrero had run away with the schooner America Libre; now, I have received this day a letter of the said captain Bernard, in which he explains to me the motive of his sailing, mistaking or misunderstanding one of my orders, which has put me under the necessity to send an express this morning to Charleston to contradict the

first advertisement, begging the collectors and navy officers of the United States not to detain the said Bernard, as I had requested by my first advertisement. I therefore beg you, sir, should the said captain Bernard appear off this port with the said schooner America Libre, or any prize of her; not to molest them, and allow them to enter freely here: as I have charged Dr. Gual with all the business of Venezuela, he will give you any other information, should any difficulty occur with respect to captain Bernard, or the prizes he may send him, which I hope will not be the case, trusting, that after this application of mine, to you, you will let them freely enter this port.” Cfr. Message from the President of the United States communicating information ecc.ecc., Washington, 1817, pp.43-44

Toi, que je chante et que j’adore, Dirige, ó Liberté!, mon vaisseau dans son cours.

Versi che richiamavano alla mente del capitano l’occasione da cui erano scaturiti – e di cui era stato testimone – ossia, l’affondamento del Vengeur: Voyez ce drapeau tricolore Qu’élève en périssant leur courage indompté; Sous le flot qui le couvre, entendez vous encore Ce cri: Vive la liberté ! Ce cri, c’est en vain qu’il expire Étouffé par la mort et par les flots jaloux; Sans cesse il revivra répété par ma lyre: Siècles, il planera sur vous.5


il ratto di amelia

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122. Fregata della US Navy, litogr. ottocentesca.

Questo cambio di programma indusse alcuni dei volontari francesi a staccarsi dalla spedizione. Dal canto suo, Persat si risolvette a seguire il contrammiraglio (“d’autant plus que je préférais me trouver avec des Français qu’avec des Espagnols”). Prescindendo dalla maggiore o minore attendibilità dei ricordi del commandant – ricordi che in questo caso divergono dalla testimonianza dello stesso Villaret – il cambio di rotta del capitano Bernard (per non chiamarlo ‘ammutinamento’) si può spiegare con l’impellente bisogno, da parte di questi, di una lettera di marca con cui legittimare la propria attività corsara e respingere l’accusa di pirateria.7 Dal momento che né il contrammiraglio Villaret né Pedro Gual erano autorizzati a emettere patenti di corsa,8 Bernard pensò bene di rivolgersi a Aury, sua vecchia conoscenza, che notoriamente godeva di tale attribuzione.9 Non solo, ma a Fernandina – importante centro di traffici corsari – era stato creato da poco un Tribunale delle Prede (Admiralty Court), organo con facoltà discre-

zionali in quanto alla legalizzazione e lo smercio del bottino, ivi compresi i navigli catturati. In questa prospettiva, il viaggio in Florida dei nostri eroi obbedì a loro insaputa non tanto ad un progetto ideale quanto ad uno schema venale (una circostanza che ci riporta ancora una volta alle equivoche fondamenta di molte gesta storiche, in particolare quelle ostentatamente altruistiche). Ricordiamo però che, nella cornice della partecipazione straniera alla rivoluzione sudamericana, la distinzione fra avidità e altruismo non era affatto netta. Forme ripugnanti di utilitarismo si avvicendavano a encomiabili slanci umanitari senza che ciò desse luogo a denunce o a tentennamenti morali. Nell’ottica della maggioranza dei legionari, la partecipazione alla lotta per l’indipendenza delle excolonie equivaleva ad un’attività lucrativa ancor più che ad una missione (per dirla con Codazzi, corrispondeva ad un modo di «procacciarsi onestamente da vivere», di «procurarsi una qualunque tenue fortuna col mezzo delle armi»).

7 Da una postilla alla lettera di Villaret a Elton citata sopra sappiamo che “captain Bernard Ferrero, had no commission as commander of the schooner America Libre”. 8 Evidentemente Bolívar non li aveva dotati di quella facoltà specifica. Tuttavia, avevano poteri più ampli, come quello di affidare incarichi militari d’importanza strategica a persone di loro scelta. Si veda più sotto il caso di MacGregor. 9 Le inversioni di rotta improvvise, i cambi di destinazione, i cambi di bandiera, di nome della nave e di equipaggio erano pratiche frequenti fra i corsari. Si veda questo esempio tratto dal

“Poulson’s American Daily Advertiser”, 10 nov. 1817, relativo ad una nota da Newport in data 4 ottobre: “...the above privateer [General MacGregor ex-Brutus] sailed from Bristol, in this state [Georgia], in July last, as the American brig Enterprize, and bound for Fayal [Azzorre]. The day after sailing, her destination was changed, and having received on board guns, powder, etc. She sailed for Amelia Island. On her arrival there, after considerable delay, she obtained a Commission to cruise against the Spanish Commerce, under the name of the General MacGregor. [Capt. French] She sailed from Amelia on 16th ult.”.


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123. B. Romans, Carta della Florida, Georgia e North Carolina, 1776.

L’América Libre prese il largo il 10 ottobre e cinque giorni dopo approdò a Fernandina, il porto dell’isola Amelia, dove «il presidente e generalissimo delle armate di terra e di mare della Repubblica delle due Floride» ricevette i legionari con particolare entusiasmo.10 Il resoconto di Ferrari non si discosta nella sostanza da quello di Persat: Da Charleston appresso varii giorni pel golfo del Messico [sic] giungemmo a S.Maria per avere schiarimenti intorno la flotta di Venezuela, e si seppe che il generale Magregor dopo avere occupata colle truppe repubblicane l’isola Amelia nelle Floride era stato battuto e costretto a sgombrarla dall’inimico. Allora il comandante Bernard veleggiò pel porto di Fernandina alla menzionata isola Amelia. Ma quivi giunti vedemmo con giubilo sventolare sul Forte la bandiera messicana. Avverossi la mattina il fatto, ed era veramente l’isola in potere dei Repubblicani comandati dal prode generale Aury, che dopo Magregor [sic] l’avea riconquistata. Colà dunque approdammo con reciproche accoglienze di cordialità e di gioja tra noi e il presidio repubblicano di quel Forte.

La testimonianza di Codazzi, per contro, discrepa totalmente dalle altre. Lasciatisi Galveston alle spalle (dopo il fallito tentativo, descritto in preceden-

7 Le ‘due Floride’ si riferiscono a Orientale e Occidentale. Quando gli inglesi, nel 1763, strapparono la Florida alla Spagna la divisero in East e West Florida. Quest’ultima era costituita da una fascia costiera sul Golfo del Messico (corrispondente agli attuali stati dell’Alabama e del Missisipi). Durante la guerra d’indipendenza americana, gli spagnoli si riappropriano dei due porti della West Florida, Pensacola e Mobile. Successivamente riebbero anche la Florida Orientale.

za, di unirsi all’impresa di Mina), i legionari s’imbarcarono sulle navi di Aury diretti a Cuba. Ma durante la traversata il commodoro modificò i propri piani e decise invece di «scendere sulla Florida inalberare lo stendardo del Mexico e chiamare quei popoli alla libertà». La scelta d’inserire nel quadro degli avvenimenti un episodio spurio – come per l’appunto l’immaginaria spedizione in Messico – da la stura ad ulteriori contraffazioni: Volte le prore verso la Florida in pochi dì la vedemmo e ci avvicinammo all’isola designata [Amelia], quando un forte cannonamento che veniva da quella ci indicava abbastanza che ivi truppe si battevano vivamente. Forzammo le vele per entrare in un canale che dà accesso al forte quando incontrammo un legno con bandiera inglese che fuggiva su cui eravi il generale MacGregor da tutti distintamente veduto e conosciuto da Aury in particolare, il quale disse che la piazza era perduta.

Colti di sorpresa, i legionari non capirono come mai un generale repubblicano, che in altri tempi aveva militato da prode sotto Bolívar, si trovasse fuggiasco da quelle parti. «Ma Aury non perdette tempo – prosegue Codazzi imbastendo un periodo non meno incalzante degli avvenimenti narrati – e fatto segnale di scendere alle truppe gettò l’ancora all’ingresso del porto ed egli alla testa di queste scese sull’isola e marciò rapidamente verso la città di Fernandina in vista degli Spagnuoli che disperatamente si battevano con un pugno di repubblicani rifuggiati nel forte sotto gli ordini dell’intrepido colonel Hirvin il quale veduto l’inaspettato rinforzo di mexicani che ivi giungeva rincorò tanto i suoi soldati che tenner fermo e die-


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124. Mappa della foce del fiume St. Marys e porto di Fernandina, 1857.

der campo a noi di giungere ai fianchi del nemico, batterlo e porlo in una pronta fuga, onde appena ebbe il tempo di rimbarcarsi e fuggire a S. Agostino». Respinto il nemico, gli americans di Hirvin (Irwin, Irvine) si unirono ai nuovi arrivati «e la bandiera mexicana con tutti gli onori fu inalberata sul forte... che domina il porto». Il combattimento, va detto, ha basi reali. Dopo la presa di Amelia da parte di MacGregor, il governatore spagnolo della Florida, José Coppinger, si ripromise di riconquistarla.9 In effetti un tentativo fu fatto il 13 settembre, ed è appunto ad esso che Codazzi si riferisce.10 Il corpo di spedizione spagnolo, agli ordini del tenente colonnello Tomás Llorente, si mosse da San Agustín (St. Augustine) il 7 settembre scortato da due lance cannoniere. Erano in tutto 300 uomini distribuiti in tre ‘divisioni’. Attraversata l’isola per il lungo, si avvicinarono all’abitato di Fernandina alla luce del sole e per prima cosa si appropriarono dell’altura di MacClure (Lures Hill). Non appena si

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Sul tentativo di riconquista dell’isola Amelia cfr. “Albany Gazette”, 18 sett. 1817 (nota da Charleston in data 5 settembre): “It was also reported, that Gov. Coppinger was preparing an expedition at St. Augustine to disloge the Patriots from their position at Amelia.” Sui preparativi dell’operazione vedere anche “People’s Watch-Tower”, 6 sett. 1817: “A battle at Amelia is now daily expected to ensue...”. 10 “We also learn, from several of the crew of the [brig] Gen. MacGregor, who were in the action fought at Fernandina on the 13th of Sept. And in which the Spaniards were repulsed, that the loss of the Patriots was three killed and three wounded; the loss of

resero conto di questa manovra, i difensori iniziarono a cannoneggiare le truppe in avvicinamento. A sua volta, il brigantino corsaro San José, ancorato nel porto e notoriamente fuori combattimento, prese a sparare di sorpresa con tutte le sue otto bocche da fuoco. Le prime perdite (un morto e due feriti) seminarono il panico nel contingente spagnolo che, calate le tenebre, si vide assottigliato da numerose diserzioni. Durante la notte dal 12 al 13 settembre, i difensori continuarono a sparare salve d’artiglieria ogni quarto d’ora, puntualmente ribattute da cannonate spagnole. Il tenente colonnello Llorente predispose l’attacco finale per le tre del mattino, per cui, riuniti gli uomini, dette istruzioni precise e trenta cartucce a ciascuno di essi. Nel frattempo giunse la notizia che la casa di Mr. Marshall, obiettivo iniziale della prima divisione, era minata. Pochi minuti prima dell’ora stabilita, il tenente Jorge Clarke avvisò il comandante che buona parte dei soldati erano spariti; i restanti si rifiutavano di andare all’attacco perché «non era-

the Spaniard was not known. No other attack had been made when they left Amelia”, cfr. “Poulson’s American Daily Advertiser”, 11 nov. 1817. Interessante anche se inesatta la versione di Thomas Wayne, commissario di bordo dell’US Saranac: “On our arrival here, we found general M’Gregor in command of Amelia Island. A few days afterwards he decamped, and embarked on board the privateer McGregor, formerly the St. Joseph. The command of the island devolved on colonel Irvin, an American, who was, in a few days, attacked by the Spaniards. After an engagement of forty-eight hours, which was all smoke: it terminated without the loss of a single life, and the Spaniards retreated”.


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125. Mappa dell’abitato di Fernandina, ca. 1810.

no avvezzi a combattere contro castelli e cannoni». A questa nuova, considerando che apparentemente a Fernandina stavano confluendo rinforzi nemici e che il brigantino Morgiana, armato con 18 bocche da fuoco, aveva occupato una posizione strategica, valutate inoltre informazioni fresche su altri siti minati e vista da ultimo l’abbondante fucileria appostata sui balconi, il colonnello Llorente ordinò la ritirata.11 A bordo del brick Morgiana, quella fatidica notte, vi erano il generale MacGregor e la moglie Josefa, gravida di sette mesi. Lo scozzese aveva conquistato l’isola due mesi e mezzo prima, ma, deluso per il mancato arrivo degli appoggi in uomini e denaro promessigli negli Stati Uniti, aveva deciso di ritirarsi. A far traboccare il vaso era stato per l’appunto l’arrivo del Morgiana da New York, «anelato con la stessa ansia con cui nell’antichità era stato agognato il ritorno della nave Argo con il vello d’oro». Ma a bordo del brigantino non vi era “nothing for MacGregor, no money, men or train of cannon to batter, in short no munitions of war for him” [niente per MacGregor, niente denaro, uomini o pezzi d’artiglieria, in una parola, niente rinforzi]. Il Morgiana stesso, essendo un legno corsaro a caccia di prede, non era certo dispo-

sto ad unirsi alla causa rivoluzionaria per la gloria.12 Da una lettera di uno degli uomini dello scozzese sappiamo che costoro dapprima avevano fatto assegnamento su una rapida (e proficua) conquista della Florida; ma poi, avendo fiutato che gli ingenti aiuti promessi al generale dai suoi agenti statunitensi erano una panzana, le loro speranze erano sfumate. Essendo privi dei mezzi indispensabili a condurre una guerra in terra straniera ed avendo ormai dato fondo alle scarse risorse personali – dice la lettera – si erano visti forzati ad abbandonare l’isola. Il generale MacGregor “embarked on Friday last, with all his suite, on board the Morgiana (...) for she was to have brought us $ 20,000 and 150 men, but when she arrived, she had not one cent and but 30 men” [s’imbarcò venerdì scorso con tutto il seguito a bordo del Morgiana... perché avrebbe dovuto portarci 20 mila dollari e 150 uomini, ma quando arrivò non aveva neanche un centesimo e solo 30 uomini]. Fatta l’amara scoperta che “no confidence could be placed in his agents, [MacGregor] inmediately resigned” [non poteva far conto sui suoi agenti, si dimise immediatamente].13 Chi avrebbe mai potuto biasimare il generale e i suoi uomini per questo? Sorprendentemente, dovettero incolparlo in parecchi, tant’è vero che uno

11 Rapporto del tenente colonnello Tomás Llorente al governatore spagnolo della Florida, in Papeles procedentes de Cuba, Leg. 1875, Archivo General de Indias, Sevilla. 12 Cfr. “Watch-Tower”, 2 ottobre 1817. 13 Lettera non firmata alla “Charleston City Gazette” da St. Marys in data 13 settembre, apparsa sull’edizione del 19 set-

tembre dello stesso anno. Durante la permanenza a Fernandina MacGregor esibì il titolo di Brigadiere generale dell’esercito delle Province Unite della Nuova Granada e del Venezuela, e Comandante in capo delle operazioni volte alla liberazione delle province delle due Floride, incaricato dai supremi governi del Messico e Sud America, ecc.


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il ratto di amelia

dei fedelissimi dello scozzese pubblicò una nota di protesta denunciando l’ingiustizia delle calunnie ricadute sui partecipanti alla spedizione: The followers of MacGregor have been denounced indiscriminately as a band of lawless and desperate adventurers seeking through blood and slaughter the gratification of an insatiate avarice. [I seguaci di MacGregor sono stati definiti indistintamente una banda di fuorilegge e avventurieri disperati dediti a saziare la loro cupidigia attraverso il sangue e le carneficine].

Gli uomini dello scozzese, si vociferava, erano indifferenti alle sofferenze dei popoli oppressi e, ancor più grave, si beffavano dei principi stessi dell’onore: “In short... the Patriots at Amelia were guilty of every act which characterizes robbers and freebooters”. [In breve si diceva che i patrioti di Amelia erano colpevoli delle azioni tipiche dei rapinatori e dei filibustieri].14 La verità, secondo l’autore della nota, era tutt’altra. L’arrivo di MacGregor negli Stati Uniti aveva suscitato grande interesse fra i simpatizzanti della causa rivoluzionaria. Trascinati dalla foga dello scozzese, costoro si erano persuasi che l’ora della liberazione finale delle colonie dal giogo di Ferdinando VII era scoccata. Il re si era rimangiato la costituzione concessa a Cadice nel 1812 (v. fig. 126), dimostrando che il cammino dell’emancipazione non poteva non passare attraverso la lotta armata: ciò avevano inteso i patrioti e tutti coloro che, in ogni dove, caldeggiavano la causa della libertà. Fu subito chiaro che la missione di MacGregor consisteva appunto nel radunare “all those ardent spirits who were desirous of combatting in that cause of liberty”.15 I consensi riscossi convinsero il generale che esistevano le condizioni per un’impresa di grande portata, come per esempio la conquista della Florida Occidentale e Orientale. In virtù dell’invidiabile posizione geografica di detta regione, con coste e porti sull’Atlantico e sul Golfo del Messico, la sua occupazione avrebbe permesso ai patrioti di convogliare verso il continente meridionale le derrate e gli armamenti provenienti da Nord. Venuti a conoscenza del progetto, alcuni cittadini statunitensi d’alto livello avevano fatto credere a MacGregor che gli abitanti delle due Floride l’avrebbero accolto “with the utmost joy and gratitude”. Non appena il vessillo della libertà avesse sventolato a Sud della Georgia, gli dissero, si sarebbero raccolti attorno a lui centinaia, forse migliaia di volontari nordamericani. Tutto ciò aveva indotto lo scozzese ad avviare i preparativi della spedizione.16 Prescindendo dalla maggiore o minore esattezza di questa ricostruzione (non proprio disinteressata), MacGregor, di fatto, convinse i rappresentanti dei 14 “Narrative of the expedition to Amelia Island (by one concerned)”, in “The American Star”, 6 ottobre 1817 (pubblicato originalmente su “The Enquirer”). 15 Ibid. 16 Ibid.

126. Frontespizio della Costituzione di Cadice, 1812.

governi sudamericani negli Stati Uniti ad affidargli un incarico ufficiale. Il documento venne stilato a Filadelfia il 31 marzo 1817 e sottoscritto da Lino de Clemente per il Venezuela, Pedro Gual per la Nuova Granada e Martin Thompson per le Provincias Unidas de Buenos Ayres y Chile. Esso diceva: I Deputati dell’América Libre residenti negli Stati Uniti del Nord, salutano il loro Compatriota, Gregor MacGregor, Generale di Brigata al servizio delle Province Unite della Nuova Granada e del Venezuela: Data la grande importanza della rapida presa di possesso della Florida Orientale e Occidentale sia per gli interessi del Popolo che abbiamo l’onore di rappresentare e per quelli della popolazione locale, in termini di libere istituzioni e sicurezza dei diritti naturali: in ottemperanza alle nostre Istruzioni, e in conformità ai desideri dei nostri rispettivi Governi, abbiamo dato al Brigadier Generale Gregor MacGregor l’incarico di portare a termine, in tutto o in parte, la menzionata impresa, rilevante per la gloriosa Causa nella quale siamo impegnati. Pertanto, considerando il vostro zelo e la vostra devozione verso la Repubblica, noi vi chiediamo, a nome dei nostri Governi, agendo sotto la vostra responsabilità e quella delle su nominate Province, di adottare tutti i provvedimenti che a vostro giudizio sembrino più atti a garantire in tempi brevi ai nostri fratelli di ambedue le Floride, Orientale e Occidentale, il godimento di quei benefici, che vengono offerti loro in virtù dell’importanza della loro


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l’orizzonte in fuga

127. Mappa spagnola della Florida, XVII sec.

posizione geografica; e a tale scopo vi autorizziamo, senza che vi allontaniate dagli usi e costumi delle Nazioni civili, e nel dovuto rispetto delle Leggi degli Stati Uniti, in particolare di quelle relative alla loro Neutralità verso le Potenze Straniere, ad armare navi, senza limiti alla di esse giurisdizione, e a conferire in via provvisoria gradi agli Ufficiali Navali e Militari, fino al momento in cui il Governo che verrà instaurato dalla libera volontà di quel Popolo, possa provvedere, nel modo più opportuno, all’organizzazione dei suoi diversi Uffici. Vi servano da guida, nel portare a compimento tutto ciò, le Istruzioni che oggi vi affidiamo.17

Dal momento che la prima iniziativa volta a garantire agli abitanti della Florida la fruizione dei sospirati diritti civili consisteva nell’occupazione armata della regione, le misure da adottare non potevano essere che militari. Tuttavia, l’impresa non poteva ridursi ad un’invasione. Già a livello di progettazione, essa doveva comprendere aspetti quali le reazioni diplomatiche internazionali, i risvolti politici, gli 17 “Documents communicated by Don Vicente Pazos with his memorial to the President”, materiali annessi a “Message from the President of the United States...”, op.cit. 18 “Anales Diplomáticos de Venezuela. Relaciones con los Estados Unidos”, 6, Caracas, 1976. 19 Ibid.

aspetti giuridici, istituzionali, amministrativi, ecc. I rappresentanti sudamericani analizzarono tutto ciò in un “Plan para lanzar por la fuerza armada al Gobierno Español de las Floridas” (redatto da Lino de Clemente), che venne consegnato a MacGregor sotto forma di istruzioni. Pur privilegiando gli obiettivi strategici, il documento ribadiva il principio secondo cui le azioni militari dovevano essere precedute dalla pianificazione del nuovo assetto sociale e civile delle località da occupare, di modo che l’amministrazione pubblica potesse funzionare d’immediato.18 Rispetto alla nuova configurazione politica – dice il “Plan” – «la Florida, divenuta stato indipendente e sovrano, verrà riconosciuta come una parte della confederazione dell’America del Sud». Tale riconoscimento, peraltro, non intendeva ledere il diritto all’autodeterminazione del popolo della Florida, che, infatti, sarebbe stato libero di unirsi «o alla confederazione del Sud o a quella del Nord».19 Ma il riscatto da “un sistema miserable de sujeción colonial” non poteva iniziare se non con la formulazione e l’adozione di una costituzione democratica: I funzionari pubblici delle Repubbliche del Sud che si trovassero a occupare parte della Florida, avranno l’obbligo di gettare le basi iniziali di una Costituzione repubblicana, come un severo rispetto per l’esperienza e la conoscenza del


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secolo, attenti agli effetti che le prime decisioni di qualsivoglia Governo suscitano nelle abitudini e nelle inclinazioni del popolo, in particolare se reduce dallo scompiglio di una rivoluzione.

Il “Plan” si diffondeva in considerazioni che attestano la rilevanza degli aspetti politico-filosofici in seno al pensiero, nonché alla prassi, del movimento indipendentista. Le conquiste militari dovevano essere subordinate e funzionali alle conquiste civili. La rivoluzione non era fine a se stessa, bensì una tappa verso lo stabilimento per via democratica e razionale di un nuovo ordine sociale basato sui diritti dei popoli e degli individui. Come sarebbe stata, dunque, la Florida di domani? “Un Estado soberano, independiente de toda otra autoridad que no sea el pueblo como fuente de su gobierno, sujeto solamente a sus propias leyes dentro de su jurisdicción”: uno stato in cui la giustizia e l’equità sociale avrebbero dominato su tutto, dove la sicurezza delle persone e il diritto di proprietà avrebbero fatto parte delle garanzie fondamentali, dove i contratti sarebbero stati rispettati e gli atti contrari alla buona fede ripudiati; uno stato in cui i funzionari pubblici sarebbero stati assoggettati alle loro responsabilità e dove le regole della convivenza civile sarebbero state poche, trasparenti e universali. Il peso che MacGregor attribuì alle istruzioni dei patrioti sudamericani si deduce facilmente dal modo in cui allestì, condusse e mise fine alla spedizione, un argomento di cui ci occuperemo tra poco. Per ora basti dire che lo scozzese, benché negli anni precedenti si fosse battuto lealmente per la causa rivoluzionaria, alla fine del 1816 si era dimesso dall’esercito bolivariano, deciso a ritagliarsi uno spazio autonomo fra gli artefici dell’Indipendenza: quando ricevette la citata commission e relative istruzioni, il suo scopo dichiarato era proprio questo. Orbene, non è da escludere che i nostri eroi venissero a conoscenza del “Plan” attraverso la prolungata frequentazione di uno dei suoi firmatari, Pedro Gual; anzi, non sarebbe strano se questi avesse approfittato della dimestichezza esistente fra loro per indottrinarli sui principi e le mete rivoluzionarie. Imbevuti di retorica militare e di nostalgia napoleonica, Codazzi e Ferrari erano patrioti e repubblicani per inclinazione, non certo per formazione (inclinazione a cui va aggiunto il giuramento massonico, forse pronunciato ancor prima di arrivare in America). Fu proprio in Florida dove cominciarono a gustare seriamente il ‘sapore di repubblica’, magari edotti e invogliati da ideologi come Gual. In Florida, per così dire, si misero in pari con ‘il secolo’, ne assimilarono gli insegnamenti sfuggiti loro in precedenza. La teoria e la pratica del sistema repubblicano consentirono loro di capire appieno perché l’esercizio del potere, in uno stato libero e moderno, fosse una prerogativa della società civile, prerogativa che le forze armate erano tenute a difendere. Sotto Napoleone avevano imparato che la gloria e l’onore erano le guide degli uomini di rispetto: in Florida ebbero modo di verificare che esistevano valori ancora più importanti.

128. Milizia coloniale spagnola (Florida), XVIII sec.

In Florida, inoltre, appresero il significato di una nozione non ancora formulata concettualmente eppure diffusa e operante come poche: il razzismo. Lo sprezzo verso i neri, i mulatti e gli indios accomunava la maggior parte dei legionari europei e la totalità degli americans (secondo questi ultimi i negri erano «cani assetati di sangue», buoni solo come schiavi). Per contro, il commodoro Aury, che distingueva le persone in base al merito e non alla razza, non dissimulava la propria stima per il coraggio e la lealtà dei neri. Tale egualitarismo, ritenuto provocatorio dagli schiavisti del Nord (impauriti a causa del successo della rivoluzione di Haiti), non è estraneo all’ostilità con cui Aury venne giudicato dalle autorità e dalla stampa degli Stati Uniti. In effetti, la ragione di fondo per cui i residenti nordamericani della Florida orientale invocarono la cacciata del francese dall’isola Amelia fu – ben più della nomea di pirata – la sua simpatia per i neri. Ad Amelia, Codazzi e Ferrari impararono ad apprezzare i loro commilitoni di colore e a ricono-


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l’orizzonte in fuga

Ma torniamo a MacGregor. Trasferitosi a Baltimora, lo scozzese strinse amicizia con John Stuart Skinner, il Postmaster, al quale confidò i suoi pia-

ni. A Baltimora e nelle città visitate posteriormente raccolse fra i sostenitori dell’impresa fondi per circa 160 mila dollari (oltre alla promessa di ulteriori cospicui finanziamenti). Ottenne il denaro a cambio di appezzamenti di 2000 acri di suolo floridiano a 50 centesimi di dollaro l’acro! Prescindendo dalla lottizzazione delle terre di prossima conquista, lo schema dello scozzese sembrava conformarsi alle istruzioni degli agenti sudamericani, ma in realtà il suo scopo era solo apparentemente patriottico. Infatti, nell’intento non certo limpido di assecondare le mire degli Stati Uniti sulle due Floride, reinterpretò il contenuto del “Plan” in modo avverso agli interessi dell’América Libre... obbligandosi segretamente a ‘girare’ la conquista a favore di Washington. Tale manovra traeva spunto dall’impegno dei patrioti di rispettare l’autodeterminazione degli abitanti della Florida anche nel caso in cui essi avessero scelto di far parte della «confederazione del Nord». Data questa disponibilità, perché non concordare preliminarmente con il governo di Monroe il passaggio della Florida agli Stati Uniti? Quantunque fosse innegabile che un’intesa simile avrebbe implicato l’accantonamento dei principi rivoluzionari e lo scavalcamento dei diritti del popolo floridiano – dovette riflettere MacGregor – non era meno vero che essa, alla fin fine, avrebbe accontentato tutti. Dunque, confidando nell’interesse degli Stati Uniti al riguardo, espose i punti d’un possibile accordo a Skinner, il quale a sua volta ne informò il governo.21 Reazioni ufficiali non ve ne furono, ma tutto lasciava supporre che la Casa Bianca non si sarebbe lasciata scappare l’occasione. James Monroe era succeduto a James Madison il 4 marzo (mentre MacGregor era a Baltimora) e sicuramente il nuovo presidente avrebbe visto con favore una proposta destinata a dar lustro alla sua amministrazione. I vantaggi dell’intesa erano talmente ovvi, che la risposta poteva darsi per scontata: in fondo si trattava di annettere agli Stati Uniti – nel rispetto dei trattati di pace e delle leggi di neutralità – un territorio ambitissimo... per un milione e mezzo di dollari tutto compreso, una cifra ridicola.22 L’acquisto della Louisiana era costato a Jefferson 15 milioni e la Florida, calcolò lo scozzese,

21 John Skinner trasmise la proposta di MacGregor al governo solo dopo la presa dell’isola Amelia. Si veda “Extract of a letter to a gentleman in the District of Columbia, dated Baltimore, 30th July, 1817”, in Message from the President..., op.cit. Vi si legge: “He [MacGregor] declared his object to be, in the first place, to take possession of Amelia. Thence to wrest the Floridas from Spain, when he should immediately call on the inhabitants, by proclamation, to designate some of their most respectable fellow citizens to form a constitution on the model of some of the adjoining states. That so far as it might depend on him, he would encourage the existing disposition of the people in that section to confederate with the United States; leaving it to the will and policy of this government [degli Stati Uniti], and to political circumstances, as they might arise, to indicate the most favorable time for their admission into the Union. That, in the mean time, he would

endeavor to hold them as the most eligible depot to collect and organize the supplies necessary to the government, as of the highest importance and utility. He was, moreover, of opinion, that it would be compatible with the best policy of the United States, under the explanations here given, to connive at the occupation of them [Floridas] by a patriot force; because, in that way, the patriots might have access to the resources, and profit of the enterprising spirit of this country, without necessarily involving a positive violation of any of our [degli Stati Uniti] strictly neutral, or pacific obligations. To any complaint from Spain, he thought, we [il governo degli Stati Uniti] might sufficiently answer, that we were not responsible for any operations conducted beyond our jurisdiction, in a territory claimed by her”. 22 Cfr. “Memorial of Vicente Pazos” in “Nile’s Weekly Register”, 11 aprile 1818.

129. Ritratto di Pedro Gual.

scerne la fondamentale parità. Questo non vuol dire che non intascassero i dividendi provenienti dalla cattura di navi negriere e dal contrabbando di schiavi, o che, per opposizione alle distinzioni razziali, non volessero attendenti neri (anzi, tornarono in Europa con i rispettivi servitori di colore); significa piuttosto che, indotti da Aury, non condivisero i pregiudizi degli americans, rifiutandosi di credere che i loro compagni fossero “a set of desperate bloody dogs”.


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il ratto di amelia

non era certo meno importante. Il prezzo venne rivelato a William Thornton, sovrintendente del Patent Office, poco prima della partenza della spedizione. Questi a sua volta lo riferì a Richard Rush, Segretario di Stato di Madison.23 Dunque, fatti i suoi conti, Mac Gregor mise le vele al vento. Della presa dell’isola Amelia, avvenuta il 29 giugno 1817, esistono vari resoconti. Alcuni mettono l’accento sull’ardimento di MacGregor e della sua schiera di “brave men”, altri sottolineano il contributo di Thornton Posey e dei suoi arditi, altri ancora lasciano intendere che l’artefice del successo fu Joseph de Yribarren, il segretario dello scozzese, che ottenne la resa della piazza senza che fosse sparato un colpo.24 Secondo fonti attendibili, l’invasione iniziò verso l’una del pomeriggio e si concluse poco più di tre ore dopo con la firma della resa da parte del comandante spagnolo.25 Il corpo di spedizione di MacGregor era composto da una sessantina di uomini, armati con 50 fucili. Alcuni portavano sciabole, pistole, coltelli e perfino bastoni. Non più di venti, che si diceva fossero di cavalleria, vestivano una casacca verde dai risvolti rossi. Erano in maggioranza americans, ma vi erano pure francesi, portoghesi, irlandesi e due o tre sudamericani. Subito dopo lo sbarco nemico, Francisco Morales, il comandante della piazza, fu subissato da informazioni più o meno unanimi riguardo alle forze nemiche, calcolate dalle vedette in 300-400 uomini. La defezione della milizia urbana (composta da residenti americani e spagnoli), l’esiguità della guarnigione (61 uomini fra fanteria e artiglieria), il timore di una carneficina e non da ultimo la sua stessa inettitudine ridussero il capitano Morales all’inazione. Le

23 J. Quincy Adams, Memoirs, IV, p. 54. Ricorda Quincy Adams: “He [William Thornton] had stated in a publication signed “A Columbian,” in the National Intelligencer of 7th January last [1818], that McGregor had told him last June [1817] it was the intention of the patriots to take the Floridas from Spain and sell them to the United States for a million and a half of dollars, and that he had communicated this to a member of the late Cabinet. I asked him who this was; he said Mr. Rush”. 24 L’anonimo autore della “Narrative of the expedition to Amelia Island..”, op.cit., racconta la vicenda in termini che ridicolizzano la difesa spagnola: “On the 27th of June, the whole of this force [le forze di MacGregor] proceeded for Amelia, the General by sea in his brig, and Col. Posey in open boats through what is called the Inland Passage. It was supposeed that they would probably arrive before Amelia at the same time, and thus make a combined attack upon the works at Fernandina. The General, favored by a fair wind, arrived off Amelia bar on the 28th of June, where he continued waiting for the arrival of Col. Posey until the 29th. Impatient of longer delay, on that day at 3 pm he landed on the enemy’s shore about 4 miles from the town of Fernandina, with a force of 54 men, officers and privates; and after marching three miles up the sea beach unmolested, crossed a deep morass, in reach of the guns from one block-house, and presented himself upon an eminence in rear of the town, and within musket shot of the lines which had been erected for its defence. Not a gun had been fired by the enemy during his approach to this position, and his further progress was arrested by the appearance of a flag of truce, which

130. Ritratto di William Thornton.

Reali Ordinanze Militari prescrivevano che in caso di attacco l’ufficiale al comando difendesse la piazza fino a perdere i due terzi delle truppe, dopo di che

had been sent out by the commandant Morales, to propose terms of capitulation. These were soon entered into, and in 30 minutes after he had placed himself before the town the patriot flag was seen waving over a fort which contained 10 or 12 guns, and was warrisoned by 54 regular troops, independent of 20 or 30 citizens, who had armed themselves for the defence of the place!”. La versione riportata da Posey (in J. Posey, General Thomas Posey: son of the American Revolution, East Lansing, 1992, p. 252) è abbastanza diversa: “On 29 june 1817 about fifty-five lightly armed men led by Thomas Posey waded ashore from rowboats onto Amelia Island, and advanced through waist-deep swamps toward a Spanish fort held by an alert and tensely waiting seventy-man garrison poised to fire a salvo from their dozen sixteen-pound cannons. The landing party moved forward in groups of two or three men, making it appear that they were only the advance element of a larger invading force. Although they could be wiped out with one broadside, not a shot was fired. When Colonel Posey, drawn sword in hand, walked up to the gate of the fort and demanded its capitulation, the Spanish commander struck his flag and offered his own sword in surrender. Posey then took ceremonial possession of the fort, raising a banner of white emblazoned with the green cross of St. George, the personal flag of General Sir Gregor MacGregor”. 25 Questa ricostruzione si basa su “Testimonio del proceso formado contra el capitán Francisco Morales... por haber entregado el puerto de Fernandina a una partida de insurgentes en 29 de junio de 1817”, fs. 47-55, leg. 1958B, Archivo General de Indias, Sevilla, AE, MC.


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131. Milizie coloniali spagnole (granatiere e fuciliere bianco), fine XVIII sec.

avrebbe potuto considerare soluzioni d’emergenza. In effetti, quando qualcuno alluse all’inutilità di uno spargimento di sangue, Morales, memore di tale precetto, sbottò: “Carajo! ¿Qué quiere Vuestra Merced? ¿que nos entreguemos como cochinos? No puede ser. Es preciso defendernos!”. [Diamine! Cosa mai pretende, che ci consegnamo al nemico come maiali? Non può essere. Dobbiamo difenderci!]. Alle due, il brigantino dello scozzese sparò una cannonata di avvertimento. Quantunque l’isola fosse fortificata e le bocche da fuoco numerose (13 di diverso calibro), i difensori non risposero. Poco prima delle quattro, il capitano Morales ricevette la visita inattesa del venezuelano Yribarren, segretario del generale MacGregor, venuto a parlamentare. Dopo aver sottolineato la superiorità numerica e tattica dei patrioti, costui gli sottopose una proposta di capitolazione in quattro punti, avvertendo che se la guarnigione non avesse gettato le armi, le conseguenze sarebbero ricadute sulla popolazione civile. La resa fu sottoscritta alle quattro e mezza. Alle sei, uno dei residenti invitò i vincitori ad un rinfresco che culminò con ripetuti brindisi di benvenuto. Più tardi il generale prese parte ad una cena in suo onore.26 A detta di taluni testimoni, all’atto dello sbarco aveva

26

“Testimonio del proceso...”, op.cit. 27 T. Posey e altri ufficiali si dimisero il 3 settembre, mentre il generale faceva i bagagli, cfr. General Thomas Posey... op.cit.

dichiarato: «Questa sera sarò morto o dormirò a Fernandina!», e da uomo d’onore e da soldato mantenne la promessa. MacGregor si trattenne a Fernandina per nove settimane, dopo di che abbandonò l’isola e i “Vencedores de Amelia” al loro destino.27 Dapprima si spostò a bordo del brick Morgiana, indi, il 16 settembre, prese il largo sul due alberi General MacGregor. Se ne andò dalla Florida in barba alle istruzioni dei patrioti, alle promesse fatte alla popolazione e ai suoi stessi uomini (ai quali non pagò il soldo), indispettito per il mancato arrivo delle somme annunciate, sdegnato per l’indifferenza del governo americano nei confronti del business proposto (non poteva sapere che Monroe era intenzionato a prendersi la Florida senza sborsare un solo cent), stizzito per il guadagno sfumato e anelante di avventure più redditizie. Fece in tempo a lucrare sulle lettere di marca concesse a questo o quel corsaro e sulle prede convalidate dal tribunale creato a Fernandina. Qualche provento gli venne pure dal contrabbando di schiavi ed altri beni in Georgia, ma niente di più. Quando Codazzi e Ferrari sbarcarono sull’isola, sulle pareti delle case di Fernandina erano ancora affissi i proclami del generale. Uno di essi, rivolto ai “Vencedores de Amelia”, diceva: Soldati e marinai! Il 29 giugno sarà ricordato per sempre negli Annali dell’Indipendenza del Sud America. In tale data, un Corpo di Uomini coraggiosi, animati da un nobile fervore per la felicità dell’umanità, avanzò vero Fernandina


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132. Milizie coloniali spagnole (mulatto e nero), fine XVIII sec.

fra spari di fucile e salve di cannone, obbligando il Nemico a capitolare d’immediato, nonostante la sua più che favorevole posizione. Questa sarà una prova imperitura di ciò di cui sono capaci i Figli della libertà quando si trovano a combattere per una Causa grande e gloriosa, contro un Governo che ha disconosciuto tutti i diritti essenziali e naturali elargiti all’Uomo da Dio (…) Confido che, sostenuti dagli stessi nobili principi, sarete presto in grado di liberare l’intera Florida dalla tirannia e dall’oppressione. Poi spero di guidarvi verso il Continente Sudamericano, onde raccogliere nuovi allori nella lotta per la Libertà (...) I fanciulli dell’America Meridionale riecheggeranno i vostri nomi nelle loro canzoni; le vostre eroiche gesta saranno evocate dalle generazioni a venire, ricoprendo voi e la vostra progenie con un manto luminoso di gloria, ecc.28

Il proclama alla popolazione dell’isola, non più di 300 persone, iniziava così: Abitanti dell’Isola Amelia! I vostri fratelli del Messico, di Buenos Ayres, della Nuova Granada e del Venezuela, così gloriosamente impegnati nella lotta per la loro Indipendenza, quel dono inestimabile che la Natura ha elargito ai suoi Figli, quel dono che tutte le Nazioni civilizzate cercano di assicurarsi per mezzo di Patti sociali – desiderosi che tutti i Figli di Colombia [l’America di Colombo] godano di questo imprescindibile diritto – mi hanno affidato il comando delle Forze di Terra e di Mare. Pacifici abitanti di Amelia! (…) Unite le vostre forze alle nostre, finché l’America Spagnola raggiunga il rango fra le Nazioni assegnatole dal Destino: il rango più alto, poiché è un Paese che, per estensione e fertilità, offre le più abbondanti risorse di ricchezza e felicità. Il momento è importante, non lasciatevi sfuggire l’occasione di strappare il continente colombiano alla tirannia che l’ha soffocato in ogni dove e che, per conservarsi al potere, ha mantenuto il Popolo nella più degradante ignoranza, privandolo dei vantaggi deri-

vanti dal libero scambio con le altre Nazioni, e di quella prosperità che fruttifica dalle arti e dalle scienze al calore di Leggi sagge; tutti doni che potrete apprezzare compiutamente solo dopo che vi erigerete in Popolo libero.29

Prima che MacGregor se ne andasse, era giunto a St. Marys, scalo navale alla foce del fiume omonimo, il brick Saranac della Marina degli Stati Uniti, allo scopo di contrastare la più fiorente e redditizia attività della bassa Georgia: il contrabbando e l’importazione illegale di schiavi (dichiarata tale nel 1808). A questo fine, l’isola Amelia, situata come si ricorderà in prossimità della medesima foce, costituiva una formidabile base operativa e di stoccaggio. Data la sua posizione strategica, molti americani, ivi compresi esponenti politici e funzionari governativi del più alto livello, la consideravano la chiave di accesso alla Florida, ovvero, il punto da cui intraprenderne l’annessione. Nel 1812 era stata occupata clandestinamente da un gruppo di soldati irregolari statunitensi agli ordini di George Mathews, ex-governatore della Georgia, che però avevano dovuto sloggiare – nonostante l’appoggio offerto copertamente agli invasori dal presidente Madison – a causa dell’irata protesta dell’ambasciatore spagnolo. Al pari del suo predecessore, anche il presidente Monroe era convinto

28 Cfr. British and Foreign State Papers, V, London, 1837, pp. 816-817. 29 Ibid., pp. 814-816.


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Un avventuriero irlandese o scozzese, MacGregor, in fuga dalla Colombia [sic], où il avait fait ses premières armes, si era impadronito dell’isola Amelia con circa duecento suoi compatrioti, frammisti ad Americani. È probabile che MacGregor fosse stato indirizzato ad Amelia da agenti degli Stati Uniti; infatti, dopo aver proclamato l’indipendenza delle due Floride, egli abbandonò l’isola lasciandovi un governatore civile americano venuto direttamente da Washington.

133. Mappa della Georgia e Florida settentrionale, inizio XIX sec.

dell’importanza dell’isola, per cui era in attesa d’una nuova occasione (ma non certo quella prospettata da MacGregor). La presenza dell’US Saranac a St. Marys era per l’appunto un segno visibile delle mire americane sull’isola (v. fig. 133). Il 27 settembre, Thomas Wayne, commissario di bordo e agente informatore, comunicò a Benjamin Homans, alto funzionario della Casa Bianca: Al nostro arrivo trovammo il generale MacGregor al comando dell’isola Amelia. Pochi giorni dopo egli si dimise, imbarcandosi sulla nave corsara MacGregor, chiamata dapprima St. Joseph. Il comando dell’isola venne affidato al colonnello Irwin, cittadino statunitense, che dopo poco fu attaccato dagli spagnoli. Al termine d’uno scontro di 48 ore, tutto fumo, conclusosi senza vittime, gli attaccanti si ritirarono... I patrioti di Amelia sono un gruppo dei più eterogenei, composto da uomini di svariati paesi e svariate lingue, eccettuati i sudamericani. Fra di essi si trovano americani, francesi, irlandesi, scozzesi, inglesi, olandesi, tedeschi, haitiani, domenicani ecc. Tutti dichiarano di voler aiutare la causa dei patrioti dell’America meridionale; ma il loro vero motivo è senza dubbio quello di arraffare ciò che possono. Se dovessero stabilirsi sull’isola, Amelia diventerebbe una seconda Barataria. In questo momento il governo è formato da monsieur Aury [sbarcato a Fernandina il 21 settembre], che è comandante in capo delle forze navali e di terra, e da Ruggles Hubbard, anteriormente sceriffo-capo a New York, che funge da governatore civile.30

Il 27 settembre Codazzi e Ferrari erano ancora a Norfolk e non immaginavano lontanamente che sarebbero finiti in Florida. Dando credito a Persat vi giunsero il 15 ottobre: «Innalzammo le vele il 10 ottobre con una moderata brezza di terra; il mare era uniforme come uno specchio; bordeggiammo le coste della Carolina, della Georgia, etc. fino all’isola Amelia, dove approdammo il 15».31 Non appena sbarcati i nuovi arrivati vennero a conoscenza dell’impresa conclusasi ingloriosamente il mese addietro. Il commandant la riassume così:

L’astio di Persat per i ‘confederati del Nord’ (del cui governo non si perita di rimarcare “le despotisme et l’ambition”, storture proprie d’un “fils bâtard du gouvernement anglais, mais son digne héritier pour prendre et garder”) non toglie che i suoi sospetti nei confronti dello scozzese non fossero fondati. Come si ricorderà, l’incarico affidato a quest’ultimo concerneva la presa delle due Floride, non l’occupazione di un’isola in particolare: perché, dunque, decise di appropriarsi di una località notoriamente ambita dalla Repubblica del Nord? Visto che l’appoggio degli Stati Uniti (utilitaristico o meno) era vitale alla causa rivoluzionaria, perché avviare l’invasione della penisola con una mossa provocatoria? Ecco alcune delle possibili risposte: 1) MacGregor stimò che ai fini della conquista della Florida, Amelia rivestisse la massima importanza strategica; 2) calcolò che l’isola, rinomata da tempo per i traffici illegali, sotto bandiera venezuelana sarebbe divenuta una base corsara conveniente ai patrioti e redditizia per sé; 3) si convinse che Washington avrebbe accettato la sua proposta d’una annessione sottobanco contro il pagamento d’una certa somma; 4) reputò che per accontentare tutti, fosse meglio adoperarsi simultaneamente sia per i patrioti che per i ‘confederati del Nord’, cercando di trarre vantaggio da entrambi; 5) non si rese conto di essere “a tool in the hands of the American administration”.32 La diffidenza di Aury nei confronti di MacGregor scaturiva da un’interpretazione non benevola della presa di Amelia, basata appunto sulla connivenza in chiave venale fra lo scozzese e il governo statunitense, a scapito della causa patriottica. Persat, che di per sé aborriva sia i britons che gli americans, aderì di slancio all’opinione del commodoro. Quest’ultimo, riferisce il commandant, arrivò in prossimità di Amelia precisamente nel momento in cui MacGregor se ne allontanava: Aury lo convocò a bordo del suo brick Le Congrès [Congreso Mexicano] e gli chiese imperiosamente quali erano i motivi che l’avevano forzato a lasciare l’isola. Interpellato in tal modo, MacGregor balbettò ch’era stato cacciato dagli Americani. Allora Aury gli disse: Stando così le cose, venite con me e cacceremo a nostra volta messieurs les Americains! MacGregor si rifiutò perché aveva ricevuto una forte somma di denaro dal loro governo.

30

British and Foreign State Papers, op.cit., p. 480. Memoirs du Commandant Persat, op.cit. 32 M. Rafter, op.cit., p. 376. La frase completa dice: “In the affair of Amelia Island he had not sufficient penetration to perceive, that he was nothing more than a tool in the hands of the American administration”. 31


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134. Veduta del molo di Fernandina (Isola Amelia), inizio XIX sec., litogr.

Giunti ad Amelia, Codazzi e Ferrari prestarono giuramento alla bandiera messicana. «Quivi adunque ci unimmo in numero di 250 a quelle truppe – scrive Ferrari –, di che il generale Aury fu assai pago». Subito vennero formati tre battaglioni, «uno di Americani e Inglesi compromessi (...) il secondo di mori e molatri (...) il terzo di Francesi, Polacchi, Prussiani, e Italiani, e qualche Spagnuolo». Ben presto il reggino fu promosso e posto a capo del battaglione europeo, mentre su Codazzi ricadde la responsabilità dell’artiglieria. A sua volta, Maurice Persat venne nominato maggior generale. A Fernandina la situazione era tesa a causa dei contrasti insanabili (e dei diversi interessi) fra il partito francese e il partito americano. «Prima del nostro arrivo ad Amelia – annota il commandant – erano frequenti le risse fra i due partiti. Quello americano, più numeroso del nostro, faceva il rodomonte; ma cambiarono modi e tono quando videro sbarcare dall’América Libre duecento uomini armati fino ai denti». Sebbene gli organi informativi degli Stati Uniti seguissero con attenzione la vicenda floridiana, l’arrivo dell’América Libre ad Amelia passò sotto silenzio. Allo sbarco dei legionari non si riferiscono neppure i rapporti confidenziali. A quindici giorni dal loro arrivo, un informatore descrisse la situazione dell’isola in una lettera diretta al Segretario del Tesoro, William Crawford: L’attuale capo, il commodoro Aury, prese il comando con sommo disappunto dello sceriffo Hubbard e del colonnello Irwin. Quando Aury giunse a Fernandina con la sua squadra di legni corsari e prede, questi due erano completamente al verde; egli dichiarò che “se li avesse aiutati l’avrebbe fatto a condizione di essere nominato comandante in capo, e che la bandiera della repubblica della Florida avrebbe dovuto essere rimpiazzata da quella del Messico; inoltre Fernandina

avrebbe dovuto essere considerata una conquista della repubblica messicana (per conto della quale egli agiva)”. Hubbard e Irwin acconsentirono a malincuore alle condizioni mortificanti imposte da Aury, in particolare perché le forze di costui erano composte principalmente da banditi negri... I due partiti sono nominati Americans e Francesi... Aury dispone d’un gruppo di francesi che si dice fossero ufficiali di Buonaparte. Costoro sono inclini, anche per interesse, ad appoggiare il loro compatriota. Comunque egli dipende principalmente da 130 briganti negri, una masnada di cani assetati di sangue. Il partito degli Americans, abbastanza più folto dell’altro, è formato più che altro da marinai nordamericani, inglesi e irlandesi, ma al momento non hanno un leader dichiarato... Dal canto mio credo che in quanto a morale, patriottismo e scopi i due partiti si equivalgano. Tuttavia, i neri di Aury rendono i dintorni pericolosi per noi residenti; sono convinto che se non verranno espulsi quanto prima [dall’isola Amelia], sul nostro paese ricadranno conseguenze nefaste. Pare che [i neri] affermino che se corressero il pericolo di essere sopraffatti, chiederebbero aiuto a tutti i negri della zona. Invero, mi hanno detto che il linguaggio degli schiavi della Florida è già tale da creare il massimo allarme.33

Fra il 20 e il 23 ottobre approdò nel porto di Fernandina il brick inglese Two Friends. Era ricolmo di ufficiali britannici allo sbando, a cui era stata fatta balenare falsamente la possibilità d’un arruolamento nelle truppe bolivariane. Aury si rifiutò di ingaggiarli chiarendo che gli ufficiali, nelle sue file, erano già in soprannumero, mentre scarseggiavano i soldati semplici.34 Sgomenti e risentiti, i nuovi arrivati si ri-

33 Lettera di MacIntosh a Crawford, 30 ottobre 1817, in “Message from the President...”, op.cit. William Crawford era il Segretario del Tesoro di James Monroe. 34 Cfr. Narrative of a Voyage to the Spanish Main in the Ship Two Friends, op.cit.


l’orizzonte in fuga

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135. Ritratto di Louis-Michel Aury.

valsero screditando pubblicamente il commodoro. Questa campagna diffamatoria – imperniata su accuse che andavano dalla prepotenza alla disonestà – si aggiunse alle tensioni esistenti sull’isola, logorando la già tenue popolarità dei patrioti (invisi dall’inizio per la loro composizione razziale, dominata da neri e mulatti) e motivando in qualche modo l’intervento degli Stati Uniti. L’ostilità verso Aury trova riscontro in varie cronache dell’epoca, redatte da ufficiali respinti, segnatamente nella Narrative of a Voyage to the Spanish Main in the Ship Two Friends e nelle Campaigns and Cruises in Venezuela and New Granada.35 L’autore di queste ultime, Richard Vowell, descrive il commodoro in termini palesemente astiosi. A suo dire, “General Aurrey, a French officer, who was, or had been, in the service of Venezuela... soon he proved himself to be totally incompetent to undertake the arduous situation of Governor of a disputed territory... His advanced age, and increasing infirmities, had deprived him of all energy, both mental and corporeal” [Il generale Aurrey [sic], un ufficiale francese che era o era stato al servizio del Venezuela... ben presto dimostrò di essere del tutto incapace di esercitare il difficile

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L’autore della Narrative, apparsa anonima, è stato identificato con Joseph Freeman Rattenbury. 36 Richard Vowell, Campaigns and Cruises in Venezuela and New Granada and in the Pacific Ocean, I, London, 1831. 37 Cfr. G. Antei, Los Héroes Errantes, op.cit. 38 J. Quincy Adams, Memoirs. Forse le conoscenze di Aury, al di fuori dell’ambito marittimo, non erano granché, tuttavia

ruolo di governatore di un territorio in disputa... L’età avanzata, la salute vieppiù precaria l’avevano privato di ogni energia, sia fisica che mentale].36 La malafede di Vowell prorompe nell’ultima frase, deliberatamente inesatta. Nato a Parigi nel 1781, Louis-Michel Aury non aveva ancora quarant’anni e, con buona pace dei suoi detrattori, “rêvait toujours république” (v. fig. 136). Dotato d’una fervida immaginazione, spinto da una rispettabile ambizione – riferisce Persat – era sempre a caccia di gloria, e la trovava “non en attaquant les navires marchands espagnols, mais en attaquant des bâtiments de guerre”. Non alto, di complessione robusta, nonostante le numerose ferite ricevute negli anni era un uomo vigoroso e intrepido. Nel dicembre 1815, per esempio, aveva forzato il blocco spagnolo di Cartagena, portando in salvo sulla sua flottiglia tre mila profughi (impresa che tuttavia non gli risparmiò l’animosità del Libertador).37 Odiava gli Stati Uniti, dal cui governo era cordialmente corrisposto. Nell’opinione di Quincy Adams, Aury era “a man entirely illiterate and ignorant”, oltre che un fuorilegge ed un predone.38 «Non ho un carattere vendicativo – scrisse a sua volta il corsaro nel 1812, quasi a ribattere anticipatamente le parole del Segretario di Stato – ma per tutti i danni che [gli Stati Uniti] mi hanno causato, vorrei che il nostro Imperatore, dopo aver sottomesso la Russia e l’Inghilterra, castigasse quelle canaglie come si meritano». Non si trattava unicamente di danni materiali ma di crimini imperdonabili, tanto più gravi in quanto eseguiti a sangue freddo: “Je me suis troveé quelques fois dans des scenes d’horreur et de carnage, mais dans ma vie [j’avais] vu une barbarie aussi prémedité et aussi froide que celle-la; qu’un homme poussé par la vengeance, par le sang que coule sous ses yeux soit cruel et barbare, celui-la peut encore être excusé, mai qu’un homme de sang froid puisse egorger des malhereuses epars et sans armes, est a mes yeux le [comble de la] cruanté, et voila ce que les americains ont commis à regard de nos matelots, dont ils ont tués ou blessés 12”. [Mi è capitato a volte di assistere a scene di orrore e di massacro ma mai in vita mia avevo visto un atto di barbarie così premeditato ed efferato; che un uomo spinto dalla vendetta, dal sangue versato sotto i suoi occhi, sia malvagio e brutale lo si può ancora capire, ma che un uomo possa sgozzare a sangue freddo dei disgraziati sparpagliati e disarmati, è ai miei occhi il colmo della crudeltà, ed è questo ciò che gli Americani fecero ai nostri marinai, trucidandone o ferendone dodici].39 Codazzi abbozza di Aury un ritratto che, mutatis mutandis, potrebbe adattarsi a Codazzi stesso in età

non è vero che fosse incolto e ancor meno analfabeta. Dal suo carteggio personale e da altri documenti da lui stilati traspare ragionevolezza, misura e dominio della scrittura (oltre ad uno straordinario attaccamento alla famiglia). 39 Lettera di Aury a Ms. Maignet, Baltimora 10 settembre 1812, in “Louis-Michel Aury Papers”, Dolph Briscoe Center for American History, University of Texas at Austin.


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136. Patente corsara emessa dal governo della Colombia, ca. 1821.

matura. Dalla descrizione consegnata alle Memorie, si ricava l’impressione che il commodoro, nell’arco dei cinque anni che il lughese trascorse al suo fianco, fosse giunto a rappresentare per lui non solo un capo generoso e paterno, ma anche un mentore. In effetti, nel prosieguo della sua vita, Codazzi dimostrò di avere assimilato quelle doti di coraggio e resistenza che egli ammirava in Aury, un uomo che amava dire di sé: “Les événements pourront abattre les plans que j’aurait construit, mais jamais mon courage et mon espoir”. Per questa ragione, lungi dal ridursi ad un semplice necrologio, il profilo tracciato nelle Memorie costituisce una testimonianza di stima e affetto nei confronti di un amico indimenticabile: Quest’uomo dell’età di 40 anni, di mediocre statura, ben complesso di larghe spalle con capelli neri e ciglia inarcate, occhi neri, grandi basette e mustacchi, aveva un cuor dolce, sentimenti nobili ed elevati. Amava il bel sesso ma perciò non perdeva di vista i fini che si proponeva per giungere ai quali non l’intimorivano disgrazie, avversità, pericoli, ostacoli di qualsivoglia sorte, e sembrava che più questi si opponevano più persisteva nel vincerli e superarli. Era di gran coraggio e sangue freddo, amava i suoi soldati ed era famigliare cogli ufficiali; poco dormiva e sempre passeggiando maturava i suoi piani che erano parto delle sue idee. Ambiva di farsi un nome ed era disinteressato, e molto amava ricompensare.

Le parole di Codazzi dipingono un corsaro sagace e generoso, radicalmente diverso dal pirata stolido e dispotico descritto da altri testimoni; ciò nondimeno, inferirne che Aury avesse in spregio il denaro o che si attenesse sempre alla lettera della leg-

ge sarebbe errato. Le patenti di corsa di cui dispose in successione, fossero messicane o argentine o altro, autorizzavano assalti clandestini contro navi il più delle volte inermi allo scopo precipuo di rovinare i traffici marittimi spagnoli, ed egli ne fece uso e abuso anche per proprio tornaconto. La guerra corsara non presupponeva né purezza d’intenti né, tanto meno, correttezza di metodi. Aury non la concepiva in modo diverso, se non che, personalmente, preferiva attaccare navi militari piuttosto che mercantili; inoltre, a differenza di altri corsari, “il revait toujours républiques” e nutriva una sincera devozione per la causa dell’indipendenza dell’America spagnola. Ad avvalorare il ritratto di Codazzi sovviene il carteggio familiare di Aury, una dozzina di lettere da cui affiorano i lineamenti d’una persona affettuosa e disponibile, desiderosa, proprio come il lughese, di ritrovarsi prima o poi con i congiunti per «spartire con loro il frutto dei suoi travagli». Dalla corrispondenza emergono anche altre qualità, come la schiettezza, la generosità e l’ottimismo, non sempre compatibili con la tortuosa realtà dei rapporti umani. Amaramente, si può dire che furono proprio queste doti ad impedire al commodoro di ottenere giustizia non solo dai suoi contemporanei ma anche dalla posterità. Ed è per questo che Aury fa parte della schiera degli eroi erranti, quelle figure a grandezza variabile che vagano ai confini della memoria, erranti da vivi, erranti post mortem. Fra costoro rientra a più titoli lo stesso Codazzi, in particolare per essere rimasto lealmente accanto al commodoro fino alla fine, ubbi-


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137. Schiavo ribelle (maroon o cimarrón), fine XVIII. sec.

dendo ai suoi ordini, portando a termine coraggiosamente le missioni affidategli e, da ultimo, agendo da suo esecutore testamentario. Ma torniamo ad Amelia. L’arrivo degli ufficiali britannici a bordo del brick Two Friends rinforzò il partito degli americans. A seguito del mancato ingaggio da parte di Aury, alcuni dei nuovi arrivati proseguirono per l’isola Margarita (in mano al generale patriota Juan Bautista Arismendi), mentre altri rimasero a Fernandina, unendosi al complotto ordito dagli uomini del colonnello Irvin. Il piano degli americans consisteva nel sopraffare il bando di Aury, composto da reduci napoleonici, mulatti e neri, e costringerli a sloggiare.40 Una volta impadronitisi dell’isola e della flottiglia del commodoro, avrebbero potuto ripescare lo schema di MacGregor, ripulendolo preliminarmente da ogni velleità patriottica. Secondo Persat, chi soffiava sul fuoco era niente meno che il governo degli Stati Uniti, attraverso il governa-

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Si veda in particolare la citata Narrative of a Voyage to the Spanish Main in the Ship “Two Friends”. Dapprima Rattenbury partecipò attivamente al complotto, poi, visti i tentennamenti di Irvine (Hirwin), il suo entusiasmo sbollì. 41 Memoirs du Commandant Persat, op.cit. Secondo Vicen-

tore civile dell’isola, lo sceriffo Hubbard.41 «Il partito americano – riferisce il commandant – aveva deciso di passare all’azione il 16 novembre e dal canto nostro eravamo pronti a dar battaglia».42 Gli americans disponevano di due cannoni di grosso calibro che collocarono minacciosamente davanti ad una delle fortificazioni difese dai patrioti, questi ultimi agli ordini dello stesso Persat. Per nulla intimoriti, gli uomini di Aury si lanciarono alla baionetta contro gli attaccanti, che “prirent la fuite sans décharger leurs deux canons ni même leurs fusils”. L’arroganza e la fellonia degli americans esasperarono gli animi, ma il commodoro seppe ricondurli alla calma: “Déjà nos vingt canons étaient pointés sur les maisons en bois où ils s’étaient réfugies précipitamment, lorsque notre président Aury m’envoya l’ordre de suspendre l’extermination de ces misérables.” [I nostri venti cannoni erano già puntati sulle case in legno dove si erano rifugiati in fretta e furia, allorché il nostro presidente Aury mi fece recapitare l’ordine di sospendere lo sterminio di quei miserabili]. Secondo Ferrari, le cose andarono diversamente. La rivolta iniziò con il furto, da parte degli americans, di tre sacchi di cartucce, seguito dall’immediato arresto dei responsabili ad opera del reggino. In risposta, fu sparata una fucilata contro quest’ultimo, il quale a sua volta comandò ai cannonieri di porsi ai pezzi, facendoli caricare uno a mitraglia e l’altro a palle. «Come videro che era risoluto a mitragliarli – ricorda Ferrari – s’intimorirono gridando stop, stop, cioè fermi, fermi, e benché di mal in cuore si ritirarono al loro alloggio». Ma l’incidente non finì lì. Gli americans «non dubitarono di trarre alcune fucilate» contro i patrioti, ferendone uno. Allora, prosegue il reggino, «feci battere incontamente la generale, e ponendo tosto i miei uomini in battaglia, percorremmo a passo di carica tutte le strade della città, contegno che mise a rispetto i rivoltosi, che fuggirono». Al pari di Ferrari, anche Codazzi divide la rivolta in due momenti, ma ne propone una versione diversa da quella dell’amico: Un dì [gli americans] si rivoluzionarono ed un cannone da 24 che imboccava una strada lo portarono sulla piazza volgendolo contro la porta del forte. A costoro noi non potevamo opporre che due pezzi da sei. Nel frangente Aury fece suonare la generale e portatosi in mezzo alla piazza... e solo con un aiutante di campo si mischiò fra la folla degli Americani ed arditamente montato sul pezzo con un piede chiuse la lumiera e mostrando il suo petto indicò che ivi se non erano contenti dovevano ferire, ma non già inveire contro i suoi fratelli d’armi.

Colti di sorpresa dalla melodrammatica uscita del commodoro, gli americans tornarono ai loro

te Pazos, il complotto fu organizzato da Ruggles Hubbard, che, scoperto, venne accusato di tradimento, codardia e collusione con gli spagnoli. 42 Ibid. La data fornita da Persat è erronea. L’ammutinamento ebbe luogo prima del 5 novembre.


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quartieri. La notizia dell’incidente si diffuse rapidamente sulla terraferma e non solo entro i confini della Florida. Il “New York Daily Advertiser” la riferì così: A letter from Amelia dated 15th inst states that on the Sunday evening preceding, there was a disturbance between the withes and blacks, the latter got possession of the fort, and kept it all the evening. The white sailors placed a 24 pounder before the picquets, determined to bring the blacks to action, but before any thing very serious took place, the Governor quelled the riot. The blacks are to be driven from the island [Una lettera da Amelia in data 15 us riferisce che la domenica precedente, in ore pomeridiane, ci fu una mischia fra bianchi e neri; questi ultimi si impossessarono del forte e lo tennero fino a notte. I marinai bianchi collocarono un pezzo da 24 davanti ai picchetti, decisi a sfidare i neri, ma prima che la cosa degenerasse, il Governatore placò la rissa. I neri devono essere allontanati dall’isola]. 43

Al sole dei tropici, i veterani delle guerre napoleoniche si colorano di nero, proprio come succedeva nell’antichità a coloro che osavano penetrare nella zona torrida; ma la tinteggiatura, in questo caso, è razziale e politica anziché mitologica. Comunque sia, lo scontro era appena all’inizio. Prosegue il nostro eroe: All’indomani un frequente passare vicino al forte degli Americani armati e un affollarsi di questi al corpo di guardia ove era il loro cannone e l’entrare nelle vicine case di uomini armati c’indusse a credere che costoro tentassero l’ultimo colpo... frattanto io puntavo un cannone da sei verso il gruppo maggiore che era sulla piazza quando voltandomi vedo che un cannoniere americano puntava un altro verso di me. Al vederlo, saltargli sopra, portargli via la miccia fu un punto solo, ed imposi talmente colla mia audacia che nessuno della guardia sotto l’armi osò farmi fuoco sopra, ma non appena avevo preso la miccia che le grida del compagno mi fanno correre a lui, ed in un lampo coi suoi soldati ponemmo in batteria un cannone da 24 verso una casa che posta lateralmente al forte lo dominava ed era piena di Americani che coi fucili calati ci ordinarono d’arrendersi. La guardia doveva seguire l’istesso movimento ma ritenuta da un altro pezzo che all’istante le puntammo sopra restava immobile. Non permettemmo che dimorassero tre minuti ai balconi ed alle finestre minacciandoli di distrugger la casa. Il resto degli Americani ch’era sulla piazze e vicine case aspettava l’esito del forte, ma veduto mancare il primo colpo non seppero ripiegare, perché noi fieri del risultato forzammo la guardia a partire dal forte e ne restammo i soli padroni. Il generale coi suoi fedeli che attraverso le palizzate e sopra i parapetti prendevamo dentro ci fecero maggior coraggio di modo che fatti forti per il numero e per la posizione si domandò e si ordinò che la piazza fosse al momento sgombra altrimenti li avremmo tutti mitragliati. Perciò si allontanarono in un istante...

138. Leonard Parkinson, capitano dei Maroons, 1837.

le truppe di questi al possedimento dell’isola». Questo piano non era stato concepito autonomamente dagli uomini di Irvin ma era stato architettato a Washington, per volontà del presidente degli Stati Uniti, «il quale temeva che noi conquistassimo le Floride e che fossero per loro perdute». Il 5 novembre, subito dopo la tentata ribellione, Aury promulgò la legge marziale, ed è fuor di dubbio che Codazzi e Ferrari se ne compiacessero.44 Il corsaro annunciò tale misura con un proclama che diceva:

Come Persat, anche Codazzi si dice convinto che all’origine della sedizione non vi fosse unicamente lo scontento degli americans nei confronti di Aury e dei suoi blacks. L’intento riposto degli ammutinati «era di impadronirsi del forte e indurci a partire inalberando essi la bandiera degli Stati Uniti e chiamare poi

Cittadini! Un orribile complotto ha tentato di distruggere sul nascere la nostra Repubblica. La discordia, sempre pronta a servirsi delle sue arti insidiose, ci ha trascinati sull’orlo di una guerra civile; per fortuna, noi abbiamo conservato il rispetto per la libertà e per la causa che difendiamo. Abbiamo scoperto le segrete macchinazioni di un governo dispotico e ci siamo salvati dalla rovina, in cui la perfidia spagnola voleva affondarci (...) Cittadini! Noi siamo repubblicani per principio; abbiamo speso le nostre fortune e arrischiato le nostre vite per la più gloriosa delle cause. Siamo venuti qui per piantare l’albero della libertà, creare libere istituzioni e combattere la tirannia della Spagna, che opprime l’America ed è nemica dei diritti dell’uomo. Noi siamo sempre disposti ad inchinarci ai principi del repubblicanesimo, ma altrettanto decisi a non accettare i dettami di una fazione. Quando l’ardore della passione sarà scemato, quando la pace pubblica

43 Apparsa inizialmente sul foglio di New York, la notizia venne ripresa dalla “Albany Gazette”, dalla quale è stata estratta.

44 “Nile’s Register”, 22 nov. 1817, “Proclamation issued by commodore Aury, Nov, 5th 1817”.


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139. Proclama di Aury con l’annuncio dei risultati elettorali, 27 nov. 1817.

e la quiete saranno restaurate, noi vedremo con il più vivo piacere lo stabilimento di un governo provvisorio confacente all’interesse comune, e al progresso della nostra gloriosa causa.

Aury non allude affatto alle più che probabili trame statunitensi. Per contro, guardandosi dallo scoprire le carte, attribuisce la responsabilità della cospirazione alla Spagna: ciò, evidentemente, allo scopo di evitare le imprevedibili conseguenze di una denuncia non ponderata alla luce degli sfavorevoli rapporti di forza. Oltre ad esasperare la conflittualità esistente, il commodoro, svelando la macchinazione, avrebbe disorientato e inasprito i suoi stessi uomini. Costoro avevano degli eventi una nozione schematica e faziosa, per cui, in quel momento di tensione, divulgare informazioni che ne avessero infiammato gli animi sarebbe stato imprudente. Smascherare pubblicamente l’intrigo avrebbe potuto rivelarsi controproducente anche in un’altro senso. Parlassero in inglese o spagnolo, in italiano o francese, le parti in gioco erano portatrici degli stessi ideali di libertà, giustizia e solidarietà ed erano accomunate dalla medesima nobiltà d’animo: se ne fosse stata svelata la meschinità, che ne sarebbe stato della causa repubblicana, dell’América Libre e delle speranze dei sudditi delle monarchie europee? Per quel che concerne i nostri eroi, anch’essi parzialmente ignari dei risvolti degli avvenimenti in corso, il proclama non avrebbe potuto se non rallegrarli. In esso, infatti, veniva riconosciuta per la prima volta la loro appartenenza alla schiera dei combattenti per

la libertà dei popoli. Finalmente veniva offerto loro ciò che avevano perseguito vanamente nel Vecchio Mondo: una causa in cui credere e per la quale battersi (oltre alle condizioni per farlo). Questo salto qualitativo comportava il riscatto dalla mediocrità e dall’anonimato e, di conserva, un maggior grado di partecipazione agli eventi. Ora, infatti, disponevano di coscienza storica, un livello di consapevolezza mai raggiunto prima (non da Codazzi, almeno). Nonostante tutto, nessuno dei due da segno di ricordare ciò che avvenne a pochi giorni dall’apparizione del proclama, allo scadere dei termini della legge marziale: niente meno che il concepimento di una repubblica. Il 16 novembre Aury li convocò ad un’adunata di ufficiali per esaminare la proposta di indire elezioni popolari onde scegliere quei rappresentanti che, riuniti in assemblea, avrebbero nominato il governo provvisorio della Repubblica delle Floride. Trovato l’accordo, venne pubblicato d’immediato il bando elettorale: Mercoledì 19 pv, gli abitanti dell’Isola Amelia sono convocati allo scopo di eleggere i rappresentanti incaricati di formare il governo provvisorio, il quale rimarrà al potere fintanto non sia redatta la costituzione dello stato ad opera di una convenzione legalmente istituita, composta dai delegati del popolo delle Floride, libero e indipendente dal re di Spagna, nonché dai suoi eredi e successori. Avranno diritto a votare tutti i liberi abitanti domiciliati sull’isola da almeno 15 giorni, ma prima di poterlo fare dovranno prestare il seguente giuramento: “Giuro che nei limiti delle mie possibilità appoggerò sinceramente e fedelmente la causa della Repubblica delle Floride contro i suoi nemici. Rinuncio ad ogni promessa di


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140. Mappa spagnola dell’Isola Amelia (Amalia), ca. 1810.

lealtà verso quegli stati che non si battano attivamente per l’emancipazione dell’America spagnola, e che Dio mi aiuti”. Nessun ufficiale militare, ufficiale irregolare o soldato in servizio attivo, sarà autorizzato a votare, tuttavia potrà essere eletto come Rappresentante. Ci saranno nove Rappresentanti. Ogni votante dovrà consegnare per iscritto i nomi dei suoi nove preferiti ai funzionari appositamente incaricati (...) I seggi saranno aperti il giorno 19 da mezzogiorno al tramonto e il giorno 20 dall’alba al tramonto.45

La clausola secondo cui ai votanti era fatto obbligo di rinunciare alla fedeltà nei confronti di quei paesi che non avessero reso pubblica l’adesione alla causa dell’indipendenza, era intesa a scongiurare ulteriori macchinazioni da parte dei residenti americani di Fernandina. Costituendo la maggioranza della popolazione (il cui numero totale era calcolabile in decine più che in centinaia di anime), costoro avrebbero potuto approfittare delle elezioni per legalizzare lo schema alla base del fallito complotto: costituire un governo filo-statunitense spalleggiato dagli americans in armi, per poi consegnare la Florida a Washington. Ma Aury sapeva che a bloccare tale piano non sarebbe bastato un escamotage, e la clausola in questione altro non era che questo. Da buon giacobino, il commodoro confidava nella democrazia rappresentativa, ed era deciso a rispettare e a far rispettare il risultato elettorale. Desiderava ardentemente che la Florida diventasse una repubblica indipendente in seno alla ‘confederazione del Sud’, ciò nondimeno si sarebbe conformato alla volontà popolare anche nel caso in cui la maggioranza avesse deciso il passaggio di Ame-

lia alla ‘confederazione del Nord’. Tutto, meno sottostare a un regime che ignorava i diritti dell’uomo. Nella prospettiva delle preannunciate elezioni, le due alternative sul tappeto erano diverse sul piano ideologico e politico-amministrativo, mentre erano sostanzialmente simili in quanto a risvolti utilitaristici. Il programma degli accoliti di Irwin assecondava sì la strategia espansionistica di Washington, ma allo stesso tempo non trascurava, anzi, dava la precedenza al vantaggio economico degli americans e dei residenti di Fernandina (lucro rappresentato sia dal monopolio dei traffici legali e illegali dell’isola che dalla ricompensa per la cessione di Amelia agli Stati Uniti). Irwin caldeggiava altresì l’espulsione dei colored e degli stranieri – cioè, la totalità del contingente di terra e di mare di Aury –, una misura che avrebbe beneficiato i planters della regione in termini di sicurezza.46 La rivoluzione di Haiti (l’ex-colonia francese di Saint-Domingue) aveva provocato l’esodo forzato dall’isola dei proprietari terrieri bianchi, molti dei quali si erano trapiantati negli stati meridionali dell’Unione e nella Florida settentrionale. Le piantagioni dipendevano dalla produttività degli schiavi e questa, a sua volta, dalla loro docilità. Se gli ameri-

45 Le ordinanze elettorali e i successivi proclami apparvero sia in inglese che in spagnolo. Per i testi in inglese cfr. F.T. Davis, “MacGregor’s Invasion of Florida, 1817”, Florida Historical Quarterly, VII, 1928. Per la versione spagnola, si veda G. Antei, Los Héroes Errantes, op.cit.


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141. J.M. Vien, Trionfo della Repubblica, 1793, dis.

cans avessero ripulito Amelia dai ribelli neri di Aury – un ‘focolaio d’infezione’ reso ancor più virulento dai ‘microbi giacobini’46 – i planters del circondario avrebbero ripagato lautamente il favore.47 (La riconoscenza di costoro sarebbe stata ben più grande se gli americans, scavalcando le restrizioni legali varate dal congresso statunitense nel 1807, avessero introdotto schiavi oltre il confine della Georgia). Votato alla causa rivoluzionaria, il programma di Aury perseguiva il riscatto repubblicano delle excolonie spagnole, una meta che, si badi bene, non escludeva la ricerca del profitto. Nella mentalità del commodoro e dei suoi uomini la libertà e la fortuna si fondevano in una sola aspirazione: “the pursuit of Happiness”. Se per un verso Amelia era il luogo de-

putato al compimento d’un progetto politico d’avanguardia, allo stesso tempo essa rappresentava una felice opportunità. Aury, Hirwin, gli americans, i colored, i legionari europei, gli abitanti di Fernandina... tutti loro avevano in comune l’idea della libertà come emancipazione dallo stato di necessità. Sul piano politico, Aury era convinto che l’insediamento di una repubblica patriottica in Florida non potesse non riscuotere il plauso di tutti i veri amici del Sud America. “The influence of the emancipation of the Floridas on that of Mexico, New Granada, Venezuela, Buenos Ayres, Chile, and Peru – aveva scritto Gual nel luglio precedente – is of more magnitude than it is generally imagined, even by the best informed”, e il commodoro non ne dubitava.48 Svoltesi le

46 Il “Savannah Republican” li definì “brigands who had participated in the horrors of St. Domingo”. Come s’è già detto, l’egualitarismo fu uno dei fattori che minarono i piani di Aury. Riferenndosi alla promiscuità razziale degli uomini del commodoro, il “Baltimore Patriot” tuonò: “Yes! Seated at the same table, eating the same food, drinking from the same cup and wearing the same insignias!”. Si ricordi che Codazzi faceva parte del gruppo. Cfr. J. Landers, Atlantic Creoles in the Age of Revolutions, Cambridge, Ma., 2010, pp. 98-138. 47 La situazione della Florida nord-orientale, regione appartenente alla corona spagnola, era piuttosto complessa. Per evitare che si perpetuasse lo stato di anarchia in cui era immersa da anni, gli abitanti ottennerro dal governatore spagnolo di erigersi in una specie di repubblica indipendente – chiamata Northern Division of East Florida – appartenente alla Spagna. In realtà, poiché la popolazione locale era composta quasi esclusivamente da anglofoni, è probabile che tale ‘secessione’ fosse

intesa a favorire il passaggio della Florida settentrionale agli Stati Uniti. Della Northern Division non faceva parte l’isola Amelia, che le autorità coloniali intendevano conservare in proprio per l’alto interesse militare e commerciale. Fernandina era un porto franco da cui transitavano il contrabbando e il traffico negriero diretti verso gli stati del Deep South (Georgia e Carolina) e la stessa Northern Division. In termini economici era sicuramente il punto più importante dell’intera Florida Orientale: per questo la Spagna intendeva difenderlo (o eventualmente venderlo) mentre gli Stati Uniti volevano appropriarsene (anche comprandolo). La creazione di una ‘repubblica corsara’ ad Amelia non poteva piacere se non ai corsari stessi o a quei patrioti che consideravano la guerra corsara uno strumento decisivo per la vittoria finale. Cfr. F. Lawrence Osley, G.A. Smith, Filibusters and Expansionists, Tuscaloosa, 1997, pp. 118-140. 48 Lettera di P. Gual a W. Thornton, 23 luglio 1817. Cfr. J. Landers, Atlantic Creoles... op.cit.


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elezioni e contati i voti, il partito di Aury ottenne la maggioranza (cinque rappresentanti contro quattro). I rappresentanti si riunirono il primo dicembre e costituirono un comitato di tre membri allo scopo di disegnare l’assetto costituzionale e amministrativo del governo provvisorio della repubblica. Nel corso della settimana successiva, il comitato elaborò un primo progetto basato sui seguenti punti: lo stato si sarebbe retto su tre poteri, esecutivo, legislativo e giudiziario; le forze militari sarebbero dipese sempre e comunque dalle autorità civili; il potere esecutivo sarebbe stato affidato ad un governatore, appoggiato da un consiglio di tre membri e assistito da un luogotenente (con diritto di voto limitato); si sarebbero creati tre segretariati, esteri, tesoro e guerra; il sistema parlamentare sarebbe stato unicamerale (per ovvie ragioni numeriche); l’autorità giudiziaria sarebbe stata a carico di una corte suprema composta da quattro membri, ivi compreso un procuratore generale.49 La bozza di costituzione venne integrata da un complesso di “Reglas Fundamentales para un Gobierno Democrático y Republicano”. Queste stabilivano che il governatore avrebbe avuto diritto di veto sulle decisioni dell’assemblea, potendo a sua volta essere ricusato dai due terzi di essa; l’assemblea, i cui membri avrebbero goduto di immunità da ogni persecuzione «per le opinioni espresse e le dottrine professate» nell’ambito dell’attività legislativa, avrebbe avuto la facoltà di destituire il capo dell’esecutivo. Due articoli garantivano la libertà di stampa e la libertà di coscienza. Gli articoli riguardanti il governo provvisorio sarebbero rimasti in forza fino al momento in cui la carta costituzionale non fosse stata «adottata da una Convenzione legalmente convocata e composta dai Delegati della maggioranza dei Distretti delle due Floride». Nel presentare il documento all’assemblea dei rappresentanti, i membri del comitato (composto da Pedro Gual, Vicente Pazos e John Murden) sottolinearono che nella formulazione delle regole si erano attenuti strettamente ai «principi dei Liberi Governi», uniformandosi in particolare alla forma e ai contenuti della costituzione degli Stati Uniti. Nei giorni successivi venne creata una Legislatura Provvisoria e vide la luce il “Telégrafo de las Floridas”, gazzetta sulla quale vennero pubblicati gli atti legislativi ed altre informazioni «interessanti e importanti per la felicità del popolo».50

142. Barbi-Marbois (da), Ercole incarna l’Unione, 1784, inc.

I progressi della Repubblica delle Floride non contribuirono a migliorare la pessima reputazione che Aury e il suo “set of desperate and bloody dogs” avevano negli Stati Uniti. Sebbene William Thornton

si sforzasse di contrastare i pregiudizi e la maldicenza affermando che i legionari erano «uomini coraggiosi, intraprendenti, intelligenti e onesti, votati alla causa della libertà», molti insistevano nel giudicarli briganti dediti agli imbrogli e al ladrocinio.51 «Da lontano non si può capire appieno in che cosa consista l’emancipazione della Florida – scrive un ricco planter di St. Marys nel novembre del 1817 –, o cosa significhino i progressi di questa giovane repubblica in fatto di civiltà». Riguardo al governo in via di formazione, era chiaro che i patrioti s’ispiravano alla rivoluzione francese, tant’è che stavano riunendo una convenzione simile a quella d’infausta memoria. “We espect daily to see a guillotine erected in Fernandina – conclude lo scrivente – and some Mexican chief holding up the reeking head of an American citizen, exclaiming: Behold the head of a traitor!”.52 Il presidente Monroe e il suo gabinetto condividevano appieno il punto di vista dei detrattori di Aury. Per l’Amministrazione il commodoro e i suoi “party-colored associates” erano privi di qualsivoglia legittimità ed erano quindi da considerarsi dei banditi.

49 “Report of the Committee Appointed to frame the plan of provisional Government for the Republic of Floridas”, in Horst Dippel (ed.), Constitutions of the World from the late 18th Century to the Middle of the 19th Century, Munchen, 2006, pp. 303306. Cfr. Tulio Arends, La República de las Floridas, 1817-1818, Caracas, 1986, passim.

50 Cfr. C.H. Bowman Jr., Vicente Pazos and the Amelia island affair, 1817, in “The Florida Historical Quarterly”, 53, 3, 1975. Del “Telégrafo de las Floridas” uscirono solo tre numeri. 51 Ibid. 52 Lettera apparsa sulla “Columbian Museum and Savannah Daily Gazette”, 1 dicembre 1817.


l’orizzonte in fuga

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143. “Non siamo sudditi di nessun re”, stampa popolare ottocentesca.

Tale conclusione discendeva da una logica argomentativa resa indiscutibile dalla forza erculea dell’Unione: visto che al presidente Monroe l’esistenza di una Repubblica del Messico non risultava, l’autorità da essa conferita al commodoro doveva ritenersi non valida.53 In mancanza d’una patente di corsa in regola (“aknowledged commission”), i corsari erano assimilati a pirati, e poco importava che sventolassero una bandiera repubblicana e si battessero gomito a gomito con i patrioti. Aury non faceva eccezione: non godendo della copertura di un governo riconosciuto (dagli Stati Uniti), i titoli da lui accampati erano insussistenti. Di conseguenza, l’occupazione dell’isola

Amelia era doppiamente illegale: primo, perché non essendo autorizzato da un governo costituito, il commodoro non poteva appropriarsi dell’isola; secondo, perché le azioni corsare svolte dalle sue navi consistevano in atti di pirateria.54 Per quanto ipocrita, questo ragionamento rende comprensibile perché l’amministrazione statunitense avesse espresso ripetutamente il proposito di cacciare da Amelia la masnada di predatori che ne aveva preso possesso... masnada della quale facevano parte anche Codazzi e Ferrari. Il 12 novembre, appellandosi ad un “Secret Act” del 1811 che lo autorizzava ad espellere con la forza qualsiasi potenza straniera che tentasse di occupare

53 Nella sua emblematicità, l’affaire Amelia induce a riflettere sul vero significato della neutralità degli Stati Uniti nei confronti della rivoluzione dell’America ispana. La simpatia popolare per la causa della libertà deve essere esaminata alla luce del pragmatismo nordamericano, ovvero, alla luce di elementi quali lo schiavismo, la libertà di commercio, l’espansionismo territoriale e l’ideologia del “manifest destiny”. A proposito dei metodi imperiosi impiegati verso la Repubblica delle Floride, si veda l’immagine riprodotta nella pagina anteriore (v. fig. 142): un Ercole giovane e nerboruto si leva a difesa di un ponte decorato da tredici stemmi. L’immagine, risalente al 1784, si deve a BarbiMarbois e venne adottata dagli Stati Uniti per raffigurare allegoricamente il principio fondatore “e pluribus unum” (i tredici stati dell’Unione raggruppati in un tutt’uno invincibile). Vista nella

prospettiva della storia degli Stati Uniti, la figura di Ercole potrebbe esprimere un altro significato: la forza dell’Unione come strumento di espansionismo. La figura in questa pagina (v. fig. 143) conduce in una direzione analoga: i marinai dell’Unione, orgoglio della Repubblica, irradiano ovunque il messaggio di libertà del loro Paese... ma, come sappiamo, non per altruismo. 54 Non si può dire che Aury andasse per il sottile, ma è pur vero che le regole della guerra corsara erano molto elastiche. Oltre ai navigli spagnoli, assaltava anche quelli francesi (la Francia era alleata della Spagna) e di altre nazionalità, sempre e quando trasportassero merci di proprietà spagnola. In quanto suddito francese, Aury, in Francia, era considerato un traditore, per cui, se catturato, sarebbe stato impiccato. Negli Stati Uniti era accusato di pirateria, per cui avrebbe fatto la stessa fine.


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il ratto di amelia

144. Bandiera di Louis Aury (Marina delle Provincias Unidas de Buenoa Ayres y Chile), 1818.

la Florida spagnola, il presidente Monroe ordinò di procedere alla presa di Amelia e all’espulsione dei sedicenti patrioti: Il Presidente, convinto che gli individui che s’impadronirono tempo addietro dell’isola Amelia, lo fecero senza la sanzione di nessuna delle colonie spagnole, o di nessun governo in qualche modo costituito, e animati da scopi non amichevoli e incompatibili con gli interessi degli Stati Uniti, ha deciso di sopprimere detto insediamento e di prendere temporaneamente possesso dell’isola.55

L’ordine di Monroe venne eseguito il 25 dicembre 1817. «In sull’alba col canocchiale scorsi molti legni diretti alla nostra volta – ricorda Ferrari – [per cui] feci suonare tosto a raccolta, rammentando ai cannonieri e soldati il debito loro di sostenere l’onore dell’arme e la difesa della Repubblica, facendo loro rinnovare il giuramento». Dopo che ebbe fatto tirare un colpo a salve, «ecco il bastimento ammiraglio inalberare la bandiera degli Stati Uniti», cosa che dapprima non persuase il reggino. Ma fu costretto a prenderne atto un paio d’ore dopo, quando un emissario consegnò ad Aury «un decreto della Repubblica degli Stati Uniti». Diceva il documento che «il re di Spagna avea venduto le Floride al Governo degli 55

Cfr. “Nile’s Register”, Baltimora, 24 gennaio 1818. Gli Stati Uniti avevano avviato da tempo trattative con la Spagna, ma queste si conclusero solo nel 1822, a cinque anni dalla presa di Amelia. L’ambasciatore spagnolo a Washington, Pedro de Onís, reclamò ripetutamente la restituzione dell’isola, ma Quincy Adams continuò a fare orecchie da mercante. Non si può scartare che a spargere la voce della cessione fosse lo stesso commodoro, per giustificare la resa dell’isola di fronte ai suoi uomini. 56

Stati Uniti, e le avea vendute in un’epoca avanti che noi le occupassimo».56 Di fatto, il giorno seguente l’isola venne invasa dalle truppe da sbarco statunitensi. Passato il primo momento di sconforto, prosegue Ferrari, il commodoro gli disse: «Stiamo di buon animo, caro Ferrari... consoliamoci che l’America è grande, e molti Stati sono in piena rivoluzione, non mancherà terreno per noi». Codazzi ricostruisce l’occupazione americana in dettaglio: Apprendemmo che in vicinanza dell’isola veleggiava una flotta degli Stati Uniti e che da Santa Maria [St. Marys] venivano delle forze numerose... onde impadronirsi dell’isola e di tutta la Florida. Difatti non tardò molto in presentarsi un colonnello parlamentario esponendo che il Presidente degli Stati Uniti autorizzato dal Senato spediva un’armata onde prendere possesso delle Floride cedute dal re di Spagna agli Stati dell’Unione in compenso dei danni che avevano i suoi popoli sofferto nell’ultima guerra, e perciò il trattato essendo stato stato segnato a Madrid prima che le forze mexicane la occupassero così dovessimo cedere Amelia. Non valse che Aury il chiedere copia del trattato che gli fu negata... Convenne dunque lasciar entrare la flotta e sbarcare le truppe.

Ad onta dell’ottimismo di Aury, che come sappiamo non smetteva mai di sognare repubbliche, «il dispiacere era grande in tutti noi nel vedere di essere obbligati a cedere ciò che avevamo conquistato e verificarsi il proverbio della ragione del più forte». Se si fosse risaputo che la cessione del re di Spagna addotta dagli americani era fittizia, lo scontento del lughese e dei suoi compagni si sarebbe tramutato in sdegno. A detta di Persat, l’evacuazione di Amelia fu decisa non in virtù del buon diritto dei ‘confederati del Nord’ ma appunto sulla base di un sopruso. Ad un certo punto, scrive il commandant, “les Américains, levant la masque, vinrent nous signifier d’évacuer Amélia”


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e siccome le loro forze erano troppo superiori per tentare un’onorevole resistenza, fu gioco forza rassegnarsi. Comunque sia, l’avvertimento consegnato ad Aury dal «colonnello parlamentario» non si dilungava a spiegare le ragioni della presa di posizione del governo degli Stati Uniti, limitandosi a dire: Sir: we have received orders from our government to take possession of Amelia Island, and to occupy the port of Fernandina with part of our force, which will be moved over as soon as it will be convenient for your troops to evacuate it... Should you, contrary to the expectations of the President of the United States, refuse to give us peaceable possession of the island, the consequence of resistance must rest with you [Signore, abbiamo ricevuto dal nostro governo l’ordine di prendere possesso dell’isola Amelia e di occupare il porto di Fernandina con parte delle nostre forze, che entreranno in azione non appena le vostre truppe avranno modo di evacuarlo... Se contrariamente alle attese del Presidente degli Stati Uniti, rifiuterete di consegnarci pacificamente l’isola, le conseguenze della resistenza ricadranno su di voi].57

Lasciata l’isola alla fine di febbraio, la squadra corsara si diresse a Charleston, per poi mettersi in caccia lungo la corrente del Golfo, fra la Georgia e l’arcipelago delle Bahamas. In tal modo, Codazzi e Ferrari, che fino a quel momento avevano fatto parte delle truppe di terra, furono battezzati a fuoco come combattenti di mare. Di questa conversione, non si parla apertamente nelle Memorie; tuttavia, il lughese, nel riferire un episodio che evoca le usanze dei bucanieri, dá prova dell’avvenuto passaggio: Queste reliquie dell’annichilita repubblica mexicana [della Florida] veleggiavano però allegramente verso l’isola di Cuba, ove sbarcati... c’inoltrammo per una marcia di un dì in una grande prateria ove facemmo provvista di molti bovi, galline, zucchero e banane e tutto tratto al mare imbarcammo meno i bovi che sulla spiaggia istessa furono messi in pezzi salati e riempiti i vuoti barili.58

l’orizzonte in fuga

me, e sempre con vittoria della nostra bandiera, per la quale combattevamo con tutto l’animo, intenti solo a vincere o perire». Mentre la penna di Codazzi trasforma il saccheggio della campagna cubana in una bravata goliardica, Ferrari presenta gli abbordaggi di navi mercantili come valorosi fatti d’arme, combattuti e vinti con genuino spirito patriottico (ci si crederebbe se non precisasse «mandammo le robe prese... alla Giamaica», dove potevano essere smerciate). Il reggino descrive in dettaglio uno di tali fatti d’arme: Un giorno verso le 3 pomeridiane la sentinella di gabbia diede segno dell’appressarsi di una nave. Il generale la riconobbe per nemica, sì che fu grande la gioja di tutti d’avere a combattere gli Spagnuoli. Quel legno faceva opera di tenersi al largo e noi forzando le vele di accostarvici. E ci accostammo in fatti a due tiri di cannone traendo una cannonata a polvere, e inalberando la bandiera spagnuola a disegno d’ingannarlo. Ma non cadeva nell’agguato il nemico sì che ci fu forza ajutarci viepiù di vela, e trarre una cannonata a palla perché quel bastimento si ponesse di traverso. Venuti quasi a contatto, il generale col portavoce chiese in castigliano che naviglio fosse quello, e fu risposto la “Concezione”. Di rimando fu chiesto che fosse il nostro; e il generale rispose: “il Cacciatore di guerra spagnuolo”. Lo credette il capitano nemico, e contento pose a richiesta del generale il suo palischermo in mare per venire al nostro bordo con tutte le sue carte del carico, dell’equipaggio e de’ passaggeri. Noi tutti eravamo intanto sotto l’armi, ognuno al suo posto, e in grande silenzio. Appena il capitano ebbe posto piede nel nostro legno, il generale fece levare la bandiera spagnuola, inalberare la messicana, e tirare un colpo di cannone. Allora noi levammo un solo grido: “Evviva l’America libera!”... Quella presa fu una vera provvidenza alle nostre necessità, perocché trovammo su quel bastimento tutto il ben di Dio... il valsente di tutto arrivò ad un milione.

Indi, «contenti di essersi in parte ben provveduti alla barba del nemico», si diressero verso le Lucaie (Bahamas). Ferrari ha degli eventi di quelle settimane un ricordo un po’ diverso: «Dopo un mese di navigazione pel mare del Nord – scrive – passammo il Tropico del Cancro dando la caccia a varii bastimenti nemici, co’ quali avemmo alcuni scontri, e fatti d’ar-

Mentre incrociavano a caccia di prede nelle acque delle Indie Occidentali, Codazzi e Ferrari ricevettero una doppia iniziazione: da una parte, vennero incorporati a tutti gli effetti nei ranghi dell’América Libre; dall’altra, fu schiuso loro l’accesso alla leggendaria Filibusta. Con il susseguirsi degli arrembaggi, al gusto repubblicano si fu mescolando il sapore d’avventura, con il suo caratteristico retrogusto d’oro. I mari americani erano vasti, l’insurrezione delle colonie al rosso vivo, le occasioni a portata di mano: i due amici potevano stare di buon animo.

57 British and Foreign States Papers, V, op.cit. Per l’intero carteggio relativo alla presa di Amelia, ivi compresi i comunicati del presidente Monroe al Congresso, si rimanda a Message from the President..., op.cit. 58 Sull’usanza dei bucanieri di saccheggiare il bestiame del-

le isole cfr. A. Exquemelin, Buccaneers of America (1678). Non si può scartare la possibilità che fra le prede rientrasse qualche fanciulla locale; anzi, si potrebbe avanzare l’ipotesi che la «sposa precaria» di Codazzi, della quale si parlerà più avanti, provenisse proprio da una razzia in quel di Cuba. V. infra.


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il ratto di amelia

145. Bando elettorale stampato a Fernandina, isola Amelia, 1817.


146. Fiume d’oro con schiavi,XVIII sec., inc.


stretta è la soglia

Oltre che conoscenze ed esperienza, l’attività corografica presuppone altresì una particolare sensibilità, vale a dire, una comprensione non superficiale dello spazio. Codazzi disponeva di una straordinaria ricettività: stabiliva con i luoghi una consonanza a più livelli, da quello cartografico a quello etnografico, da quello economico a quello archeologico. Lo sviluppo di questa facoltà iniziò inavvertitamente o quasi, durante l’attraversamento in solitario di una delle regioni più impervie e sconosciute della Nuova Granada. Risalire il fiume Atrato, addentrarsi nella selva primigenia del Chocó, conoscerne gli abitanti e le risorse... tutto questo diede luogo a una forma più lucida e inquisitiva di curiosità, gettando le premesse della sua futura carriera scientifica; senza trascurare che si recò nel Chocó per ragioni militari, nel corso di una “misión secreta de mucha consecuencia”, una missione così avventurosa da sembrare a momenti inventata. Coloro che accompagnarono Codazzi nei viaggi di esplorazione poterono comprovare che era dotato di una virtù più unica che rara, che potremmo definire ‘intuizione dello spazio’: una facoltà che trascendeva il senso d’orientamento del topografo e la capacità di osservazione del geografo per sfociare in una percezione ‘sovrumana’ dei luoghi. Manuel Ancízar, che gli fu accanto durante le prime spedizioni neogranadine (1850-1851), si riferì a tale virtù in una lettera al lughese: “Conozco el privilegiado golpe de vista de Usted [Codazzi] para descubrir y fijar lo que otros no alcanzan” [riconosco che lei dispone d’un colpo d’occhio privilegiato, che le consente di scoprire e localizzare ciò che altri non vedono]. In Codazzi, la ricettività del viaggiatore, il fiuto dell’esploratore e la meticolosità del misuratore si sovrapponevano come altrettante lenti, qualificandone e intensificandone

la vista. Dotato fin dall’adolescenza di una peculiare curiosità geografica – un’ansia tutta sua di «poter solcare i più lontani mari, vedere le più remote regioni» – rinvenne nell’esperienza odeporica una fonte di appagamento personale, oltre che di conoscenza e autodisciplina. Come il “caminante” di Antonio Machado, apprese presto che “se hace camino al andar”, assimilando la lezione così bene che difficilmente gli accadeva di sbagliava direzione. Non erano infrequenti i momenti in cui i suoi compagni di viaggio – persone generalmente esperte in materia geografica – non avessero idea di dove si trovassero. Se egli non li avesse orientati si sarebbero persi inesorabilmente: «Né i miei figli [suoi accompagnatori abituali] né Ponce [l’allievo prediletto] – annotò Codazzi nel 1857 durante la penultima spedizione – riuscirebbero mai a trovare il cammino». Forse vi era in questo sesto senso un che di innato – Ancízar lo definì “natural comprensión topográfica” – , nulla però di trascendente. L’abbiamo definito ‘sovrumano’ non perchè divino o magico, bensì perché umanamente eccezionale. Forse il destino gli dette una mano, ma se il lughese giunse a disporre d’una facoltà del genere, fu superando un difficile tirocinio, fatto di “trials and errors”. Non solo. Guadagnò la meta reprimendo un’altra attitudine a lui cara, la propensione fabulatoria, un gusto che coltivò per i primi trentadue anni di vita. Ottenne il ‘dono dello spazio’ ripudiando l’inventiva: un patto faustiano che non mancò di tormentarlo (ogniqualvolta l’assalì il dubbio che la razionalità e il rigore non ripagassero i sacrifici fatti). In quanto al menzionato tirocinio, se da un lato lo indirizzò verso le scienze della terra, dall’altro gli fece toccare con mano il rapporto spazio-tempo, quel nesso che occuperà il centro della sua visione del mondo.


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l’orizzonte in fuga

l’adeguamento del pianeta ai bisogni umani: e chi altri, se non un geografo intuitivo e sapiente, sarebbe stato in grado di discernere nel continuum del reale i luoghi più adatti al conseguimento della felicità? Ma un obiettivo del genere eccedeva i limiti della geografia per sconfinare in un ambito scientifico quasi indefinibile nella sua complessità. In effetti, si trattava di descrivere accuratamente ogni porzione del territorio (nella fattispecie venezuelano o neogranadino) dal punto di vista fisico e antropico, di rappresentarla cartograficamente ed infine ricomporla in un quadro unitario che desse ragione della fisionomia e delle possibilità di sviluppo dell’intera nazione (o ‘repubblica’, come avrebbe detto Codazzi). Quei pochi che fino ad allora si erano prefissi traguardi simili non avevano demarcato teoricamente il loro intento (peraltro quasi mai raggiunto), per cui non si poteva far conto né su esempi né su indicazioni epistemologiche. Tuttavia, esisteva un rimando illustre. Nel primo libro della Geografia, Tolomeo si era riferito alla necessità di rappresentare cartograficamente non solo l’oikoumene, ovvero la totalità del mondo abitato, ma anche le diverse parti per separato; ciò mediante una scienza apposita:

147. Frontespizio della Geografia di Tolomeo, 1597.

La Corografia... dividendo i luoghi particolari, gli espone separatamente, & ciascuno secondo se stesso; et insieme descrive tutte quasi le cose, ancorche minime, le quali in quelle parti, o in quei luoghi, che ella descrive, son contenuti, sì come sono i porti, le ville, i popoli, i rami, che escono dai primi fiumi, & l’altre cose simili a queste. Là ove proprio della Geografia è di mostrar tutta in uno, & continua la Terra cognita.2

Intuire lo spazio equivaleva anche nel caso di Codazzi a ‘saper vedere’; in lui, tuttavia, questa facoltà, lungi dal ridursi al “sçavoir de l’oeil” formulato da Nicholas Poussin, consisteva in una dote ben più comprensiva, entro la quale rientrava appunto la capacità di proiettare lo spazio sull’asse del tempo, collegando l’esistente al potenziale, il presente al futuro.1 Di fatto, giunto a maturità, il nostro eroe imparò ad inquadrare la geografia con lo sguardo della storia, a interpretarla quale spazialità umana ancor più che dimensione fisica: una visuale che lo portò a privilegiare la società nei confronti della natura. Benché quest’ultima meritasse profondo rispetto, i suoi interessi erano rivolti all’uomo, che egli, in un’ottica più positivistica che romantica, considerava il vero artefice del mondo. Ai suoi occhi, la geografia rifletteva uno stato di cose provvisorio, destinato a cambiare per superiori ragioni storiche. Da persona laica, pragmatica e progressista qual’era, Codazzi, insomma, ammirava le opere del creato in quanto sottomesse alla volontà e all’azione dell’uomo. La scoperta e la misura dello spazio costituivano i primi passi verso

Recuperato dalla cultura umanistica, il termine ‘corografia’ passò a designare un tipo di descrizione scritta concernente in particolare gli aspetti storici e antiquari di un determinato territorio. I primi approcci corografici a paesi del Nuovo Mondo

1 André Felibien Des Avaux, Entretiens sur les vies et sur les ouvrages des plus excellents peintres, Parigi, 1688, II, p. 343. Fra la visuale del pittore e quella del topografo vi sono indubbie similitudini. Dice Nicolás Poussin: “Ce que je nomme le Prospect est un office de raison qui dépend de trois choses, sçavoir de l’oeil, du rayon visuel, & de la distance de l’oeil à l’objet: & c’est de cette

connoissance dont il seroit à souhaiter que ceux qui se meslent de donner leur jugement fussent bien instruits”. 2 Cfr. Claudio Tolomeo, La geografia di Claudio Tolomeo Alessandrino nuovamente tradotta di Greco in Italiano da Girolamo Ruscelli, Venezia, 1561, p. 1. 3 Ivi.

Il fine della Corografia, prosegue l’Alessandrino, era di «rappresentare una sola parte, come chi imitasse o dipingesse un’orecchia sola, o un occhio», quello della Geografia, per contro, quello di «considerare il tutto in universale». Compito del corografo era il raffigurare le parti in rapporto all’insieme, alla maniera dei pittori: In tutte queste figure o imagini, che noi ci proponiamo a ritrarre, o rappresentare, [conviene] primieramente accomodare & disporre le prime o principali lor parti, & che sieno debitamente situate, & con misure, & proportioni, che sofficientemente corrispondano alla lontananza della vista, perché, o intera, & tutta, o particolare che ella sia, possa tutta sensibilmente comprendersi.3


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si produssero fra la seconda metà del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, e fu attraverso di essi che la parola ‘corografia’ transitò in Venezuela e nella Nuova Granada, appunto per definire l’impresa affidata a Codazzi. Tuttavia, il significato cui questi la piegò ha poco a che vedere con le precedenti accezioni. In proposito, è esemplare il caso della Corografia Brazilica ou Relação Histórica e Geográfica do Reino do Brasil, apparsa nel 1817 a Rio de Janeiro. L’autore, il presbitero Manuel Aires de Casal, si attenne al metodo dei corografi del Rinascimento, ovvero, compilò e riprodusse acriticamente notizie e descrizioni preesistenti. Così, parlando degli indios, ripetè informazioni risalenti ad una relazione del 1571, il cui autore non era mai stato in Brasile. L’abisso che divide Aires de Casal da Codazzi è il medesimo esistente fra un’enciclopedia medievale e un trattato scientifico-sperimentale. Fra la pubblicazione dell’opera del presbitero e quella del lughese passarono poco più di vent’anni, ma vent’anni durante i quali il concetto di corografia subì, ad opera del secondo, una trasformazione radicale. Invero, per merito di Codazzi, il campo semantico delimitato da Tolomeo e dai geografi successivi si dilatò e si approfondì fino ad includere il passato, il presente e il futuro di una provincia, di una regione, di un intero paese. Il lughese reiventò la corografia: grazie alla sua ‘sovrumana’ intuizione dello spazio, alle conoscenze scientifiche e alla fiducia nel primato dell’uomo, la elevò a prassi e teoria del benessere sociale.4 Ciò non vuol dire che il suo lavoro corografico, nella parte applicativa, avesse sempre successo. Quando elaborò lo schema della Colonia Tovar si avvalse di criteri squisitamente scientifici: esplorò, osservò, individuò, comparò, prospettò, ecc. Eppure il progetto non andò a buon fine, ovvero, non divenne l’elemento di traino di un programma immigratorio su grande scala; anzi, dimostrò l’inadeguatezza di piani simili ai fini del progresso del Venezuela. Codazzi si accorse presto dei limiti insormontabili dell’impresa e ne capì l’origine. Lo sforzo richiesto per domare la natura equinoziale non era alla portata dell’uomo, o non lo era in seno al progetto da lui ideato. La messa a frutto di zone montane boscose (le uniche climaticamente adatte ai coloni europei) implicava in via preliminare un immane lavoro di disboscamento e scasso che non poteva essere lasciato ai nuovi arrivati; ciò per non parlare delle infrastruttu4 Rispetto al termine ‘corografia’, un raffronto interessante può essere stabilito fra l’accezione codazziana e quella attribuitale da Zuccagni-Orlandini, la cui Corografia apparve contemporaneamente al Resúmen de la Geografía de Venezuela (cfr. A. Zuccagni-Orlandini, Corografia fisica, storica e statistica dell’Italia e delle sue isole, Firenze, 1845). Nell’“Advertencia” preposta al Resúmen si legge: “La geografía física es toda obra del autor [Codazzi]... En la geografía política [Codazzi] se ha ausiliado con las obras de Humboldt y Depons, para lo antiguo; con la de Balbi, para la etnografía, y con los documentos oficiales, para la organisacion actual. En la geografía descriptiva de las provincias [Codazzi] solo ha consultado para los hechos históricos la obra del señor Feliciano

148. Frontespizio della Corografia Brazilica, 1817.

re necessarie ad un insediamento produttivo, quali le vie di comunicazione, anch’esse a carico del governo. Ma la Colonia Tovar era un’impresa sostanzialmente privata e lo stato, che pure l’aveva favorita, non dette tutto l’appoggio richiesto. D’altro canto, gli immigrati europei non erano in grado di trasformarsi in pionieri del Tropico: la loro idea della Terra Promessa si avvicinava di più ad una mitica Schlaraffenland che non ad una valle selvatica in attesa di sudore e sacrifici. Codazzi sbagliò e fece ammenda. Si lasciò trascinare dall’ottimismo – una tendenza che, come una febbre intermittente, l’assalì e riassalì fino a tarda età – ma, ravvedutosi, non si sottrasse alle proprie responsabilità umane e ‘corografiche’. Così facendo, Montenegro de Colon...”. Codazzi “por sus ojos vio y por sus pies anduvo”, mentre Zuccagni-Orlandini fu un diligente compilatore che, nel corso di un decennio, raccolse e vagliò una massa considerevole di libri e documenti, elaborando un quadro della penisola abbastanza aggiornato. Sottopose a revisione anche la cartografia, ma sempre sulla base dell’esistente. Tuttavia, sia Codazzi che Zuccagni-Orlandini furono consapevoli che il lavoro corografico era un modo di ‘far patria’: per il primo la corografia era un fattore di progresso, per il secondo una modalità di sensibilizzazione patriottica (tant’è che nel Prologo scrisse: «Giova ora sperare che i connazionali di animo cortese ai quali è cara la patria, non vorranno negarci benignità ed indulgenza».).


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149. Theodorus de Bry, Americae Pars IV, 1594.

non solo salvò la Colonia Tovar dall’estinzione, ma dette prova di una capacità di analisi e d’un senso critico e autocritico degni d’un grande savant.5 Nel 1820, mentre risaliva la corrente del fiume Atrato addentrandosi sempre più nella Nuova Granada, Agostino Codazzi penetrò in uno degli scenari privilegiati delle sue avventure, o meglio, nel teatro stesso della sua storia. Scenario e teatro sono metafore frequenti nelle Memorie, nel cui ambito rimandano all’orizzonte dell’azione; metafore che, al di là del loro facile significato incidentale, rendono manifesta l’importanza che l’immagine simbolica dello spazio rivestì all’interno del linguaggio e del pensiero del nostro eroe molto prima che la corografia occupasse il centro della sua attività scientifica. Alla loro origine non vi è un movente puramente espressivo, bensì il complesso rapporto che il lughese intrattenne col mondo esterno fin dall’adolescenza. «Il mondo è

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Nel caso del progetto agricolo del Serraglio, Codazzi non dette prova d’un uguale senso critico. Neppure l’idea della Colonia Tovar era immune da venature utopistiche, ma l’esperienza e le conoscenze accumulate in quasi vent’anni di permanenza in Venezuela fecero sì che nell’arco di qualche mese il lughese scoprisse i punti deboli dell’impresa. Incapace di prevedere i problemi derivanti dall’insediamento di coloni nord-europei in zone

grande, ma dentro di noi è profondo come il mare», ha scritto R.M. Rilke, un’aforisma che nella nostra prospettiva può risultare illuminante. Il fatto che lo spazio, per Codazzi, rappresentasse una dimensione problematica può spiegarsi facilmente con la difficoltà obbiettiva dell’individuo di trovare la propria strada; tuttavia, nel suo caso, intervengono altresì tensioni e conflitti del tutto soggettivi. In tal senso, non sarebbe strano se l’inquietudine in esame fosse da collegarsi alle caratteristiche dell’orizzonte geografico dei suoi anni giovanili. Come si è accennato altrove, la Bassa romagnola – così chiamata a ragion veduta – ha un aspetto piatto e continuo. La mancanza di rilievi fa sì che la visuale non riesca a spaziare, potendone derivare una sensazione di oppressione. A differenza di ciò che avviene in alto mare, dove l’orizzonte vuoto provoca smarrimento (l’horror vacui dei naviganti d’altri tempi), il panorama della Romandiola può generare

tropicali ancora vergini, Codazzi si era illuso che il il progresso di una nazione come il Venezuela e il benessere di una comunità di contadini tedeschi potessero armonizzarsi fra di loro e con l’interesse pecuniario di un gruppo di investitori. In seguito si dovette convincere che lo sviluppo delle repubbliche sudamericane era inseparabile dall’immigrazione interna e da una politica avveduta di distribuzione della terra.


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150. Tavola comparativa delle montagne e dei fiumi, 1836.

un senso di chiusura. Uno scenario del genere permette di capire perché il giovane Codazzi, sensibile e suggestionabile, cercasse il modo per allontanarsi da contrade che, sebbene amate, erano anguste ai suoi occhi. Nelle Memorie questo impulso alla fuga viene descritto come un’ «inclinazione irresistibile» che lo «trascinava a viaggiare», a sognare di «poter solcare i più lontani mari, vedere le più remote regioni e le molteplici e grandi opere della natura da un’estremità all’altra di questa terra». Parafrasando l’autore delle Duineser Elegien – già invocato altrove nelle pagine di questo libro – si potrebbe dire che Codazzi, non potendo soddisfare da subito tale inclinazione, andò immergendosi nelle proprie profondità, imparando a vivere lo spazio come dimensione immaginaria. Ma i vagabondaggi virtuali non ne sedarono la spinta a viaggiare realmente «da un’estremità all’altra di questa terra», semmai la rafforzarono. Ciò non vuol dire che, messosi davvero in cammino, il ricordo della pianura della sua infanzia l’abbandonasse. Al contrario, la dialettica dell’aperto e del chiuso – dell’essere libero e dell’essere incatenato – continuò a condizionarlo sotto diverse forme per tutta la vita. Da un lato essa lo spinse a prendere incessantemente il largo verso orizzonti lontani («gli spazi che amiamo – osserva Bachelard – non vogliono rimanere al chiuso»), dall’altro, lo costrinse a tornare senza sosta ai luoghi amati. La problematicità del rapporto di Codazzi con lo spazio affonda le radici in questa contraddizione di fondo, con essa si spiega sia

l’affanno di rinchiudere la superficie terrestre entro griglie geometriche che l’ansia reciproca e opposta di inoltrarsi in distese sconfinate. Ad appianare almeno in parte questa antitesi fu il lavoro corografico, che di fatto gli consentì di disciplinare e mettere a frutto i propri impulsi. A sua volta l’impegno scientifico – inteso come responsabilità sociale oltre che attività intellettuale – provocò in lui un aggiustamento esistenziale che lo rese più schivo e malinconico (una piega percepita chiaramente dai suoi compagni di viaggio). Stabilendo punti astronomici e calcolando distanze, il lughese non solo imbrigliò lo spazio fisico piegandolo al metro dell’uomo, ma si raccolse su se stesso... come già gli era accaduto da giovinetto. Metaforicamente, la misura del mondo gli permise di ritrovare il cammino di casa: non più Lugo, non più Massa Lombarda bensì un luogo nel contempo chiuso e schiuso nei pressi della linea equinoziale. Codazzi amava l’intimità della vita domestica, il tepore del focolare, i patios fioriti: ad essi tornava anno dopo anno al termine di ogni spedizione, trattenendosi a volte per settimane, a volte per mesi. L’ambiente familiare giunse a rappresentare in seno alla sua personale cosmografia l’unità corografica minima, la vera patria nel contesto della sua storia, un punto fermo a fronte della sua perpetua mobilità. Il nostro eroe imparò a misurare lo spazio misurandosi dapprima con se stesso, un apprendistato avviato seriamente nella selva del Chocó nel 1820. Risalendo l’Atrato, si desume dalle Memorie, assimilò


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151. Viaggiatore europeo risale un fiume amazzonico, 1829, litogr.

molteplici insegnamenti: nozioni di geografia, di storia naturale, antropologia, medicina, cultura materiale e alimentazione, architettura tropicale, tecniche di navigazione fluviale e sfruttamento aurifero e, non da ultimo, lezioni di vita. Altre cose gli sfuggirono. A destra e a sinistra del fiume si stendeva un territorio «quasi tutto inondato e coperto di grandi e folte selve serrato fra due Cordigliere», rovente, piovoso e malsano, un vero “país del demonio”: «Questo clima è così diabolico che nessuno può sortirne senza febbri quotidiane o terzane, putride o pestilenziali, vomito nero, lebbra, ostruzioni di fegato, colpi di sole, Epian che fa cadere a pezzi le membra incancrenite». Come facesse Codazzi a non contrarre la malaria è un mistero (ne fu vittima in seguito); in quanto all’Epian, per salvarsene era sufficiente mantenersi casti o quanto meno tenersi alla larga da indios, negri e sambos, anche se si diceva che la malattia, purulenta come il vaiolo, poteva essere trasmessa dalle mosche.7 Le Memorie sorvolano, ma si sapeva che il morbo, di origine africana, era arrivato nel Chocó con gli schiavi, passato ai nativi per via coitale ed ereditato dai

7

Cfr. F. Swediaur, Traité complet sur les symptomes, les effets, la nature et le traitment des maladies syphilitiques, Paris, 1801, II, p. 384 e ss. 8 Cfr. O. Jiménez, El Chocó, un paraíso del demonio: Nóvita, Citará y El Baudó siglo XVIII, Medellín, 2004, pp. 43 e ss. Sul fenomeno del cimarronismo esiste un’ampia bibliografia.

sambos (meticci nati da negri e indios e viceversa); una piaga che allignava nelle rochelas, quegli agglomerati sottratti al potere civile e religioso spagnolo ove gli schiavi ribelli, in compagnia degli indigeni, si davano a una vita “holgazana, de amancebamientos, juegos, pendencias, bebezones, y otras varias inquietudes perniciosas propias de negros y de indios”.8 Il lughese non entra nel merito di queste scostumatezze, invece rileva la sopportazione e lo sforzo dei vogatori indigeni: «La lor pazienza in queste difficili navigazioni è sorprendente ed è maggiormente da considerarsi la fatica continua di questi uomini nel maneggiare le loro palanche, onde spingere avanti le pirocche». Nessun rematore bianco avrebbe resistito ad un «travaglio» del genere, «molto più se si considera il poco nutrimento che prendono nelle lunghe giornate». Pur tuttavia, erano abili «solo nella navigazione del fiume e niente più». In quanto ai negri, servivano da domestici «nelle varie abitazioni poste lungo le rive dei fiumi», oltre a lavorare nell’estrazione dell’oro. Infatti erano gli unici «capaci di resistere alle grandi fatiche, alle acque continue, al clima perverso e putrido di queste contrade», i soli che potessero sopportare tutto ciò «senza verun danno». Che dire dei bianchi? «Se deboli sono gli Indiani naturali di questi paesi al segno d’essere incapaci a lavorare nelle miniere, ognuno può immaginarsi cosa possano essere i creoli americani qui stabiliti». Erano accecati dal bagliore dell’oro, incuranti per questo della guerra che il cielo e la terra avevano dichiarato


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152. Schiava nera incatenata, 1825, litogr.

loro: «L’ingordigia sola dell’oro li ha tratti dall’interior delle terre e dai posti di mare per venire quivi a condurre una vita delle più miserabili che si possa immaginare». Bastava guardarli: «Il loro giallastro colore e le grandi pancie che hanno indicano chiaramente che le febbri, le idropisie, le ostruzioni non li abbandonano giammai». Quel che si dice un castigo di Dio: «Uomini e donne sono sempre ammalati ed in questo infelice stato poco possono curare i loro interessi e bisogna che si affidino il più delle volte ai capi dei negri per il lavoro delle miniere». Nel 1820 la composizione etnica del Chocó comprendeva indios, neri, gente “de todos los colores” e bianchi. Gli individui “de todos los colores” (meticci frutto dell’incrocio indio-nero-bianco in tutte le varianti) costituivano il gruppo dei “libres”, e nella scala sociale venivano dopo i creoli americani (discendenti di spagnoli). Seguivano gli indios, che, benché umiliati e spossessati, godevano in teoria di qualche diritto. Da ultimo venivano i “negros”, ovvero, gli schiavi, che costituivano la porzione maggiore della popolazione. Organizzati in cuadrillas di una trentina di individui, su di loro ricadeva l’intero, sfiancante processo estrattivo. Curiosamente, Codazzi non si riferisce al fenomeno della schiavitù – di certo il più vistoso della regione sia dal punto di vista umano che economico –, o meglio, non la chiama per nome.

Dice che il lavoro domestico e l’estrazione dell’oro era incombenza dei neri, che essi dipendevano da ‘capi’ (sicuramente liberti ‘di tutti i colori’) e che le miniere appartenevano ai bianchi, ma non li definisce schiavi. Fin dall’epoca coloniale, il tipo razziale “negro” rientrava nella categoria sociale “esclavo”, tant’è vero che i due termini erano intercambiabili. Nel rapporto sullo stato del Nuevo Reino de Granada, stilato nel 1789, il viceré-arcivescovo Caballero y Gongora parla quasi sempre di “negros”, premurandosi tuttavia di chiarire l’equivalenza e rimarcando che gli schiavi – troppo pochi dal suo punto di vista – costituivano “un jénero de primera necesidad”.9 Theodore Mollien, che visitò la regione nel 1823, ovvero, tre anni dopo il lughese, scrive: “La couleur noire domine dans le Choco. Presque tous les nègres sont esclaves, et travaillent aux mines”.10 Codazzi, non potè non rendersene conto: perché, allora, non entrò nel merito della questione? Si potrebbe rispondere che benché desiderasse impressionare i lettori con racconti e ricostruzioni, ciò che maggiormente intendeva comunicare era la visione delle «molteplici e grandi opere della natura»; un intento lodevole, destinato agli sviluppi che sappiamo, ma che sul momento lo indusse a tralasciare fenomeni d’altro tipo. Vi è poi da dire che la vocazione dello

9 A. Caballero y Góngora, “Relación del estado del Nuevo Reino de Granada que hace el Arzobispo Obispo de Córdova a su sucesor el Exmo. Sr. Don Francisco Gil y Lemus, Año de 1789”, in Relaciones de los virreyes del Nuevo Reino de Granada ahora EstadosUnidos de Venezuela, Estados Unidos de Colombia y Ecuador, New York, 1869, p. 260 e passim.

10 C.T. Mollien, Voyage dans la Republique de Colombie en 1823, Paris, 1824. II, p. 128 e ss. Osserva Mollien: “Le nombre des mulàtres est peu considérables; ils consituent ici la classe patricienne. Ils sont presque tous propriétaires de mines”. Secondo Joaquín Acosta i proprietari delle miniere erano bianchi e vivevano in città dell’interno come Bogotá, Cali, ecc.ecc.


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l’orizzonte in fuga

153. Mappa del basso corso dell’Atrato e regione del Darién, XVIII sec.

scopritore, alimentata dal gusto del nuovo, lo portò a dilungarsi sugli aspetti esotici a scapito di realtà più sostanziali (d’altronde, nella prospettiva del suo pubblico, l’esotismo era molto più appagante di qualsiasi nozionismo). Last not least, non bisogna dimenticare che per i destinatari delle Memorie, così come per l’arcivescovo Caballero y Góngora, la parola ‘negro’ rimandava a ‘schiavo’. Codazzi, insomma, dette per scontata un’equazione che altri viaggiatori più o meno coevi commentarono ampiamente. Interi capitoli delle Memorie si leggono come un romanzo, una sensazione non immotivata... visto che in più d’un caso le vicende riferite sono frutto di fantasia. Delle tre linee argomentali che s’intrecciano nel testo – autobiografica, storica e geografica – la più esposta alle contraffazioni è ovviamente la prima. Tuttavia, pur di suscitare lo sbigottimento e l’ammirazione dei lettori, il nostro eroe non esitò ad aggiustare anche le altre due: spostò date e luoghi, ritoccò i paesaggi, chiamò in causa personaggi improbabili, in breve, inventò scenari e frangenti.13 Ciò non solo per

porre in risalto se stesso ma anche per compiacere il pubblico e, non da ultimo, per convogliare il flusso d’una realtà storica iniqua nell’alveo d’una ideale o piuttosto immaginaria equità (le pagine dedicate alle gesta apocrife del commodoro Aury, l’insistenza sull’infamia dei suoi nemici, tenderebbero appunto a raddrizzare i torti fatti a costui dalla storia). Nel 1825, risvegliatosi malamente dal sogno bucolico del Serraglio, Codazzi cercò riparo nella sfera non meno onirica dei suoi ricordi. In effetti, anziché riscattarli nella loro modesta integrità, li plasmò fittiziamente, ricavandone un racconto di viaggi, avventure e imprese epiche del quale si eresse a protagonista. Così facendo assurse ad eroe dell’América Libre. Con il tempo scoprirà una verità cara al Galileo di Bertolt Brecht, ovvero, quant’è felice quel mondo che non ha bisogno di eroi, ma per il momento non aveva altro di che nutrirsi e di che alimentare il proprio pubblico. Pur di presentarsi in veste di campione dell’indipendenza americana, non esitò a sfidare l’evidenza dei fatti e a costruire un nuovo corso storico; non solo, ma abbozzò un’inedita realtà etnografi-

13 L’esame dell’Estado de Servicio del nostro eroe, relativo al periodo 1817-1821, da adito al sospetto d’una contraffazione. L’incongruenza linguistica e contenutistica del documento è tale che difficilmente potrebbe essere stato rilasciato dall’Estado Mayor della Stazion [sic] di Santa Catalina. L’elenco delle “Axciones Campales” [sic], ben 14 nel giro di 15 mesi, è del tutto inverosimile. La missione a Buenos Aires è fittizia, gli assedi di Cartagena e Santa Marta dubbi... Si veda il seguente profilo ove in corsivo appaiono gli strafalcioni e fra parentesi quadre le parole corret-

te: “Augustin [Agustín] Codazzi, nado [nacido] en Lugo, Ciudá [ciudad] de Italia Provincia de Romagna, de annos [años] 28, muciaccio [muchacho, ma avrebbe dovuto dire ‘soltero’].” È vero che a Providencia-Santa Catalina, la base navale di Louis Aury, si parlava una specie di lingua franca, ma questo non vale per i documenti legali, che, fra l’altro, venivano compilati utilizzando moduli a stampa. Insomma, il linguaggio dell’Estado de Servicio è un tale guazzabuglio d’italiano e spagnolo che fa pensare alla mano di Codazzi.


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154. O. Roth, Humboldt e Bonpland, 1870, inc.

ca, popolando luoghi immaginari di tribù altrettanto fantasiose (basti pensare al suo soggiorno fra i Mosquitos). Lo fece con una tale disinvoltura che pochi dubitarono della sua veracità. Invero, ancora oggi viene contato fra i próceres (o personaggi di spicco) della lotta indipendentista e molti credono che fosse in confidenza con il Libertador. Biografi seri e bene informati – in primo luogo Schumacher, che ebbe modo di consultare lettere e documenti poi dispersi – fecero eco alle sue mirabolanti imprese, aggiungendovi episodi desunti dai ricordi dei congiunti (come per esempio il nostro eroe a cavalcioni d’un cannone che sfida il fuoco nemico gridando: “Ici, foutu, en attendant la mort!”). Ciò che sorprende, non è che Codazzi avesse voluto romanzare ad uso personale e dei lettori ricordi altrimenti poco curiosi, ma che da un momento all’altro rinunciasse alla vena fantastica (già riscontrabile nella citata lettera al padre) per immergersi nel reale; stupisce che la sua straordinaria carriera scientifica sbocciasse da un terreno intriso di illusioni ed invenzioni. Sappiamo che la fisica e la poesia non sono antitetiche, che l’immaginazione e il ricordo si ricollegano alla ricerca empirica, ma in questo caso siamo al cospetto di una frattura mentale, o piuttosto, di un riassetto cerebrale: come se l’emisfero intuitivo-olistico del nostro eroe fosse 14

Il Chocó è una regione ancora in parte selvatica della Colombia settentrionale che si affaccia sull’Oceano Pacifico, compresa fra la catena montuosa di Baudó e la Cordigliera Orientale delle Ande. È solcata dal fiume Atrato, a volte detto Darién. In epoca tardo-coloniale, quando Humboldt e Bonpland visitarono l’attuale Colombia, questa, assieme al Venezuela, l’Ecuador e Panamá, costituiva il Nuevo Reino de Granada. Dopo l’Indipen-

stato riassorbito da quello logico-razionale; come se l’interesse corografico, vieppiù dominante, avesse asservito e riadattato le spinte creative. Comunque sia, il viaggio attraverso il Chocó è autentico e le inesattezze in quanto a date e circostanze non ne inficiano l’interesse. Codazzi risalì davvero l’Atrato e portò realmente a termine un’importante missione militare (che, di fatto, gli fruttò la promozione a tenente colonnello). Per quel che riguarda la geografia, l’ambiente naturale, gli aspetti etnografici e sociali, la progressione e le modalità del viaggio, ecc., i suoi ragguagli sono fedeli e particolareggiati. Nel redigerli, il lughese si avvalse non solo dei propri ricordi e di possibili appunti di viaggio ma anche di fonti bibliografiche diverse, ivi comprese le opere di Humboldt e di Mollien. Inutile dire che tali rimandi (per altro mai dichiarati) arricchiscono la narrazione con osservazioni al di fuori della sua portata.14 Humboldt era ritenuto da tutti il massimo conoscitore dell’America tropicale, ragione per cui la lettura dei suoi scritti costituí un vademecum o un termine di riscontro per quei viaggiatori che ne seguirono le orme. Giunto a Cartagena de Indias nel marzo del 1801, il savant si trattenne nel Nuevo Reino de Granada per pochi mesi e non ebbe modo di esplorare il Chocó.15 Ciò nonotante, raccolse una messe importante di denza, si chiamò Repubblica della Nuova Granada. 15 A. von Humboldt, Essai politique sur le royaume de la Nouvelle-Espagne, I, Paris, 1811. Alcuni dei documenti raccolti dal barone rimasero inediti mentre altri andarono smarriti. Durante l’esplorazione del 1853 Codazzi si servì di una descrizionedel Chocó a suo tempo appartenuta a Humboldt (cfr. Schumacher, op.cit.).


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dati, che riprodusse e analizzò in uno dei suoi primi saggi. Fra i suoi appunti di viaggio, figurano considerazioni sulla schiavitù che consentono di inquadrare ciò che anche il lughese vide ma trascurò: Nel Chocó, ogni negro sposato che lavora lavando oro, riceve settimanalmente 4 o 5 chili di mais e 16 platani [Musa Acum.]. Questi disgraziati non starebbero in piedi se la natura selvaggia, erma e boscosa non fosse ricca di porci selvatici (...) Ai fini dello sfruttamento minerario, la schiavitù è chiaramente controproducente. In molte miniere, i capoccia [mayordomos] comprano agli schiavi più polvere d’oro di quanta questi ne estraggano per i padroni, ciò perché gli schiavi, nel giorno e mezzo di riposo concesso loro lavorano di più che nei restanti cinque e mezzo (...) Ridotti ad uno stato miserabile, questi negri, pur di migliorare un po’, cercano miniere d’oro come i cani cercano i tartufi (...) Ci sono esempi di schiavi neri che con le miniere scoperte non solo si sono pagati la libertà, ma hanno comprato a loro volta decine di schiavi.16

l’orizzonte in fuga

Le curé [del Pueblo de la Cruz] est un mulatre qui ne pratique pas plus qu’eux [i parrocchiani negri o meticci] les devoirs de la bienseance et de l’humanité. Guidé uniquement par l’intéret, ils se constitue marchand, vend à ses paroissiens toute sortie de vivres, de viandes salées, qu’il leur fait payer un quart en sus de ce que les vendent les autres marchands, et une grande quantité d’eau-de-vie de cannes à sucre... L’or qu’il possède feroit la fortune de plusieurs familles, et il ne l’emploie que dans l’intime conviction de le doubler ou tripler [Il parroco è un mulatto che pratica ancor meno dei suoi parrocchiani i doveri di bontà e di umanità. Guidato unicamente dall’interesse, s’è trasformato in mercante, vende ai fedeli ogni sorta di viveri, carni salate, che egli fa pagare ad un prezzo d’un quarto superiore a quello degli altri mercanti, acquavite di canna da zucchero (...) L’oro che egli possiede farebbe la fortuna di molte famiglie, ma egli lo impiega unicamente al fine di raddoppiarlo o triplicarlo].17

Non per niente il Chocó era noto come “el país del Diablo”! Mentre Codazzi si addentrava nella selva tropicale, solo con se stesso, misurando le proprie forze e figurandosi il racconto che avrebbe tratto da quel viaggio, i suoi occhi rincorrevano le cose della natura desiderosi di registrarle e inventariarle. Il suo spirito di osservazione si andò acuendo, il rapporto con lo spazio approfondendo. Lasciata Zitara (o Citará) diretto a Nóvita, seguendo il corso del fiume Quibdó (o Quito) giunse alla Bodega di San Pablo:

Le annotazioni di Humboldt si riferiscono ad una situazione anteriore di vent’anni al viaggio del nostro eroe, nondimeno nel frattempo le cose non erano cambiate. Al contrario, “pour comble de malheur”, nel 1816 varie località del Chocó erano state devastate dai patrioti indipendentisti, che non avevano lasciato agli sfortunati abitanti “que les yeux pour pleurer”. Neanche Jullien Mellet, che visitò la regione poco prima di Codazzi, menziona la schiavitù, limitandosi anch’egli a parlare di “nègres”. Ma a differenza del lughese, egli si riferisce alla vita religiosa:

Alla mattina del quinto giorno fummo di buon’ora alla bottega di San Pablo ove caricati sul dorso di Indiani i forzieri mi posi in cammino a piedi traversando in men di due ore

16 Il testo completo degli appunti di Humboldt relativi all’estrazione dell’oro e al lavoro degli schiavi è il seguente (si ricordi che il savant raccolse informazioni di seconda mano): “Allí todos están encaprichados con la búsqueda de oro, y consecuentemente, como en las provincias de Antioquia y Popayán, el cultivo de la tierra está totalmente desatendido. La carestía del maíz, de la carne... no resulta por exceso (baratura del oro) sino debido a la escasez de los productos y a la dificultad para introducirlos desde Popayán, e incluso desde la provincia de Antioquia. En el Chocó (Nóvita, Tadó) una libra de carne de res normalmente vale 2 reales. Carne de cerdo, 1 real. Una colada de maíz que tiene 6 almudes, cuesta de 4 a 5 pesos. En el Chocó, a un negro casado que trabaja lavando oro en las minas, semanalmente se le entrega 1 almud de maíz y 16 plátanos. Esos infelices negros no podrían mantenerse si en esa naturaleza salvaje, boscosa y abandonada, no existiese gran cantidad de cerdos salvajes. De ahí la importancia de los perros, y también porque el tigre, a pesar de ser pequeño, de todos modos es muy ágil y frecuentemente agresivo. Un perro cuesta allí de 8 a 10 pesos, y eso el más ordinario. El tigre y el caimán están ávidos de la carne de perro, lo mismo que el gato de la de ratón. Aquí siembran el maíz según antiguas costumbres, de manera totalmente a la loca. Sin aflojar la tierra, esperpean puñados de maíz entre los arbustos. Cuando la planta adquiere un desarrollo de 6 a 8 pulgadas, tumban los arbustos, por lo cual muchos tallos de maíz son aplastados. Se cree que secándose el follaje y pudriéndose abona más la planta... Pero el poco maíz que aquí se siembra es arrastrado, en su mayor parte, por las crecientes de los ríos San Juan, Calima y Tamaná. En esas épocas, las palmas de taparo, chontaduro y palma de mil-pesos son un gran consuelo para el pueblo pobre, especialmente la primera de las nombradas, así como el tipo crexo (?) Bacao. En Citará (porque el transporte es muy raro y difícil) los alimentos de primera necesidad son muy caros. 1 libra de carne de res cuesta

3 reales. En el Chocó no florecerá la minería mientras no se desarrolle el cultivo de la tierra y la cría de animales en esos valles tan excelentes, fértiles e indescriptiblemente húmedos. También la esclavitud es claramente contraproducente para la minería. En muchas minas los mayordomos compran más polvo de oro a los esclavos del que éstos recogen para sus amos, porque los esclavos, en el 1 ½ día que se les concede, obtienen mas oro que (pereza de esclavo) en 5 ½ días de trabajo obligado. Con hombres libres, dándole al trabajador cierto porcentaje, el Chocó podría producir de 3 a 4 veces más oro que hasta ahora. A eso hay que añadir el desconocimiento para transportar agua, para entresacar, lavar... Los negros, no solo los nacidos aquí, sino también los traídos de la costa africana, quienes nunca antes han visto lavar oro, aquí son los (admirados) directores de la explotación minera. Estos negros, para mejorar un tanto su estado miserable, buscan minas de oro como los perros a la trufas. Cada negro conoce de 4 a 5 puntos en los que recoge por su propia cuenta. Si ese sitio es productivo, el esclavo se lo vende al señor y así, como en Alemania los mineros particulares empiezan toda explotación minera; asimismo, aquí cada mina grande de aluvión tiene que agradecer su origen a los negros. Pero también hay ejemplos de esclavos negros que por medio de minas encontradas por ellos mismos no sólo han comprado su libertad, sino que inclusive han obtenido de 60 a 70 esclavos”. Cfr. A. von Humboldt, Extractos de sus diarios preparados y traducidos por la Academia Colombiana de Ciencias Exactas, Físicas y Naturales, Bogotá, 1982, p. 105a110a; A. von Humboldt, Reise auf dem Rio Magdalena, Berlin, 1986; Michael Zeuske, “Alexander von Humboldt y la comparación de las esclavitudes en las Américas”, HiN, VI, 11, 2005. 17 Jullien Mellet, Voyages dans l’intérieur de l’Amérique Méridionale, à l’intérieur de la côte ferme, et aux îles de Cuba et de la Jamaïque, depuis 1808 jusqu’en 1819, III, Paris, 1824, p. 222 e ss. Cfr. anche von Humboldt, Extractos, op.cit., p. 96a.


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155. Mappa del Golfo del Darién e regione del Chocó, XVIII sec.

quest’istmo che atto sarebbe ad esser tagliato onde far comunicare il Quibdó con il fiume S. Giovanni [Río San Juan] che si getta nell’Oceano Pacifico e così unire mediante questi due fiumi i 2 mari, cioè l’Atlantico e il Pacifico.

Senza saperlo, il lughese era pervenuto ad uno dei siti più vagheggiati dell’America Centrale, il mitico “Arrastradero de San Pablo”, altrimenti detto “de la Raspadura”. In quel momento egli ignorava l’interesse che l’istmo aveva suscitato nei decenni anteriori, ma quando scrisse le Memorie doveva averne nozione, poiché era sicuramente a conoscenza di quanto Humboldt aveva scritto al riguardo. Fra gli appunti presi dal savant durante il soggiorno neogranadino, appare questa informazione: Fra il fiume Quito e l’Atrato esistono due arrastraderos [passaggi o corridoi], il primo posto più in alto segue la così detta “Quebrada de Raspadura”, dove in realtà esiste un canale navigabile che unisce i due mari, atto a piccole imbarcazioni; il secondo, più piccolo, è noto come “Arrastradero de San Pablo”. Quest’ultimo rientra nella rotta commerciale abituale da Cali a Citará, o Quibdó, via Nóvita.

Il barone tornò sull’argomento nell’Essai politique sur le royaume de la Nouvelle-Espagne, pubblicato nel 1811: Dans l’intérieur de la province du Chocó, le petit Ravin (Quebrada) de la Raspadura unit le Rio de Noanama, appelé vulgairement Rio San Juan, à la petit rivière de Quibdó. Cette dernière, grossie par les eaux d’Andagueda et du rio Zitara, forme le Rio d’Atrato qui se jette dans le Mer des Antilles, tandis que le Rio San Juan débouche dans le Mer du Sud. Un moine très actif, curé du village de Nóvita, a fait creuser par ses paroissiens un petit canal dans le ravin de la Raspadura. Au mo-

yen de ce canal, navigable lorsque les pluies sont abondantes, des canots chargés de cacao sont venus d’une mer à l’autre. Voilà donc une communication intérieure qui existe depuis 1788, et que l’on ignore en Europe. [All’interno della provincia del Chocó, il torrentello della Raspadura unisce il fiume Noanamá, detto volgarmente San Juan, con il piccolo fiume Quibdó. Quest’ultimo, alimentato dalle acque dell’Andagueda e del fiume Citará forma il Río Atrato, che sfocia nel Mar delle Antille. Un monaco industrioso, curato del villaggio di Nóvita, ha fatto scavare dai suoi parrocchiani un piccolo canale nel torrente della Raspadura. Per mezzo di tale canale, navigabile quando le piogge sono abbondanti, delle canoe cariche di cacao sono passate da un mare all’altro. Ecco dunque una via di comunicazione interna esistente dal 1788 di cui in Europa non si sa nulla].18

Da alcuni traduttori il termine “ravin” venne interpretato in modo diverso dal previsto.19 Nell’edizione italiana, per esempio, il significato attribuitogli fu ‘burrone’ (accezione peraltro legittima), ciò che rendeva incomprensibile il lavoro eseguito dai poveri parrocchiani. Già sappiamo che i curati del Chocó, generalmente “de todos los colores”, avevano scarsa stima degli indios e dei negri, ma obbligarli a scavare – “a punta de pulmón y pica” – una fenditura sulla parete d’una scarpata non aveva alcun senso. Nella fattispecie, il religioso si chiamava Rafael Antonio de Cerezo ed era un missionario gesuita, o forse si trattava di Gabriel Arratachaguí, un semplice chierico. Humboldt lo definisce “un moine”, in spa18

A. von Humboldt, Essai politique, op.cit., p. 235. La parola “quebrada” può significare ‘scarpata’ o, nel lessico dell’America ispana, ‘torrente, fiumiciattolo’. 19


l’orizzonte in fuga

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156. Mappa del corso del fiume Atrato, XVII sec.

gnolo “monje”, e di fatto battezzò lo scavo “Canal del Monje”, ma non vi erano frati da quelle parti. Le prime notizie ufficiali sul Canal del Cura (così venne ribattezzato) risalgono al citato rapporto di Caballero y Góngora, un documento a cui il barone attinse dichiaratamente.20 Secondo le informazioni raccolte dal viceré, «i fiumi San Juan, che sbocca nel mar del Sur [Oceano Pacifico], e Quito [o Quibdó] che s’immette nell’Atrato, sono divisi unicamente da un istmo o lingua di terra».21 Allo scopo di sfruttare le proprie miniere d’oro, riferisce Caballero y Góngora, un ecclesiastico aveva aperto un canale di comunicazione fra i due fiumi, dando pendenza all’alveo del torrente Raspadura e facendone entrare le acque nel fiume San Juan. Con tale operazione, il corso del torrente era stato diviso in due bracci, quello originario che, unitosi al torrente San Pablo, confluiva nel Quito, tributario dell’Atrato, ed il canale che portava al San Juan. Tuttavia, dacchè il flusso d’acqua che scorreva in quest’ultimo era insufficiente, non era percorribile se non da piccole canoe.22 Si era pensato di farvi sboccare altri torrentelli, ma tutto indicava che non sarebbe bastato. Una possibile soluzione era stata prospettata da un abitante del luogo, tale Antonio Pesca, pratico in canalizzazioni minerarie. Questi si era offerto di convogliare verso il canale corsi d’acqua di maggiore portata, onde renderlo navigabile

20

A. von Humboldt, Ensayo político sobre Nueva España, Paris, 1827 (2), III, p. 47. 21 Caballero y Góngora, “Relación...”, op.cit.

alle imbarcazioni da carico (ranchadas), il tutto in un anno e con l’aiuto di 100 peones.23 Caballero y Góngora lasciò al suo successore il merito dell’apertura d’una comunicazione fluviale fra i due oceani: “¡Cuánta satisfacción y gloria resultará a Vuestra Excelencia, y cuántas ventajas y utilidad al público!”.24 Il nuovo vicerè, in effetti, fece esplorare l’istmo da Joaquín Francisco Fidalgo, poi divenuto esimio navigatore e cartografo, il quale considerò fattibile il taglio dell’istmo. Ciò nonostante l’idea finì nel nulla. E il Canal del Cura? Le informazioni raccolte da Caballero y Góngora erano in gran parte fasulle. Era vero che un chierico aveva fatto scavare un fossato per facilitare l’estrazione dell’oro, ed era anche vero che per vie tortuose esso creava una sorta di bretella (più virtuale che reale) fra l’Atrato e il San Juan, ma nella pratica si trattava per l’appunto di un fossato, lungo meno di 200 metri, largo due, alto uno e mezzo: ben poca cosa rispetto all’estensione dell’istmo, non inferiore a 4 chilometri! Si capisce, dunque, che se ne perdesse notizia. A differenza di Caballero y Góngora, che riconobbe d’immediato le limitazioni d’un simile canale, Humboldt giunse a convincersi che esso costituiva un passo importante verso il collegamento dei due bacini idrografici e la comunicazione interoceanica. Tuttavia, dovette ricredersi. Nella

22 23 24

Ibid. Ibid. Ibid.


stretta è la soglia

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157. Carta Corografica della Provincia di Popayán, XVIII sec.

seconda edizione in spagnolo dell’Essai – Ensayo Político sobre Nueva España, 1827 –, il barone apportò rilevanti correzioni a quanto scritto in precedenza.25 Nel 1825 aveva ricevuto da Joaquín Acosta, un giovane ufficiale neogranadino conoscitore del Chocó, informazioni di prima mano che smentivano o modificavano le sue idee riguardo all’apertura dell’istmo. Acosta gli disse che «il piccolo canale fra il fiume San Juan e il torrente della Raspadura, che si poteva attraversare in canoa nella stagione delle grandi piogge, era stato ostruito molto tempo addietro dalle frane».26 Lo informò altresì che «dell’Arrastradero di San Pablo non rimaneva altro che un piccolo fosso», utilizzato a suo tempo da un religioso per far transitare pesci (“pescados”) fra il torrente e i fiumi Atrato e San Juan... a che scopo non si sa.27 L’incongruenza di quest’ultimo dato nasconde forse un malinteso lessicale: una cosa infatti sono i “pescados” (i pesci che grazie al buon sacerdote potevano guizzare da un fiume all’altro) e un’altra il “pescado” (il pesce pescato che veniva trasportato in canoa di villaggio in villaggio). Orbene, qualora Acosta avesse voluto riferirsi al commercio del pesce, ciò avrebbe implicato l’esistenza di due diversi canali, entrambi scavati più o meno in simultanea per volere di due diversi preti, il primo ormai scomparso, il secondo reperibile a stento. Fu

questo che Humboldt capì, tant’è che annotò: «L’esistenza di un antico fossato da cui è passato il pesce (“pescado”) dalla Quebrada della Raspadura al San Juan è prova sufficiente che l’istmo del Chocó non presenta difficoltà alla canalizzazione».28 Ma cosa voleva dire, in realtà, l’ufficiale? Vediamo. In rapporto all’economia della regione – che Humboldt reputa poverissima nonostante le acque aurifere – l’Arrastradero costituiva da tempo immemorabile un importante corridoio commerciale. Vi transitavano mercanzie “a lomo de indio” (a spalla) e canoe, queste ultime “arrastradas” (trascinate) per l’intero tragitto o per lunghi tratti, a seconda della stagione. Il passo delle «pirocche» sul terreno cedevole provocava dei solchi acquitrinosi simili a fossati. Quando Acosta lo percorse, il passaggio era in questo stato, e fu negli stessi termini che egli cercò, senza riuscirvi, di descriverlo al naturalista tedesco. Analoghe condizioni furono osservate dal capitano John Illingworth, che passò dall’Arrastradero nello stesso periodo:

25 La prima traduzione allo spagnolo dell’Essai apparve a parigi nel 1822 con il titolo Ensayo Político sobre el Reino de la Nueva-España, Paris, 1822. La seconda edizione, pubblicata nel 1827, ossia, dopo l’indipendenza del Messico, aveva per titolo Ensayo Político sobre Nueva-España. 26 Joaquín Acosta, 1800-1852, militare, geografo, naturalista

e storiografo neogranadino. Fu lui, nel 1849, a convincere il governo neogranadino ad invitare Codazzi nella Nueva Granada. Nel 1820 attraversò il Chocó diretto all’isola della Vieja Providencia per ordine del colonnello patriota José Maria Cancino. 27 A. von Humboldt, Ensayo político (1827), op.cit. p. 47. 28 Ibid.

The Indians, as well as merchants, drag their canoes from one river to the other with great case, and indeed a sort of canal is formed by this constant operation, which is called “el Canal de la Raspadura [Al pari dei mercanti, anche gli indigeni trascinano faticosamente le loro canoe da una riva all’altra, e a


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l’orizzonte in fuga

158. John Trautwine, Veduta del Darién, 1851, litogr.

seguito di questa reiterata operazione si è formata una sorta di solco chiamato Canale della Raspadura].29

Sappiamo dalla sua biografia che Joaquín Acosta attraversò l’istmo due volte, la seconda nel giugno del 1820: Il 17 giugno Acosta [lasciata Citará] prese a risalire il fiume Atrato e giunto alla bocca del fiume Quito s’immise in quest’ultimo, lo seguì per tre giorni, attraversò l’istmo detto di San Pablo, que sólo mide poco más de cinco miriámetros, e s’imbarcó nel fiume San Juan, corrente di grande portata che sfocia nell’oceano Pacifico attraverso sette bracci.30

Il nostro eroe percorse l’Arrastradero non più di tre mesi dopo, ma non vide né affossamenti né canali, solo tronchi uniti l’uno all’altro: L’istmo è composto di piccole colline non molto alte, e la strada è formata di grossi alberi serrati l’un contro l’altro, giacché per le grandi piogge sarebbe impossibile in causa del fango mantenervi il passaggio.

Acosta e Codazzi ebbero una diversa percezione della viabilità del luogo; tuttavia, navigando lungo i fiumi del Chocó, dovettero fare i conti con le stesse condizioni viatorie, a cominciare dalla medesima scarsità di vettovaglie. I pochi abitanti delle rive, generalmente indigeni famelici, non avevano 29 “Proceedings of the Royal Geographical Society of London”, 1855-1857, I-XI, p. 87. Comunicazione di R. Stephenson in data 9 giugno 1856. 30 Soledad Acosta de Samper, Biografía del General Joaquín Acosta, Bogotá, 1901, p. 96.

eccedenze, per cui, finite le scorte di bordo, era fame assicurata. John Trautwine, ingegnere ed esploratore nordamericano che percorse la stessa rotta nel 1851, ricostruisce un tipico dialogo fra un viaggiatore in canoa e un indio sulla riva (con accompagnamento di latrati): Viagg.: Adiós, amigo! [salve, amico] Cani: Bow, wow, wow! Indio.: Adiós, señor [salve, signore] Viagg.: Hay platanos? [ci sono dei platani?] Indio: No hay [no, non ce ne sono] Viagg.: Una gallina? [una gallina?] Indio: Tampoco [neppure] Viagg.: Huevos? [delle uova?] Indio: Tampoco [neppure] Viagg.: Caña? [canna da zucchero?] Indio: Tampoco [nemmeno] Viagg.: No hay nada? [non c’è niente?] Indio: Nada de nada [niente di niente] Viagg.: Válgame Dios! Adiós amigo! [bontà divina - addio amico] Indio: Adiós señor, que esté contento! [addio signore, sia felice] Cani: Bow, wow, wow!

Le scorte di Codazzi, però, erano favolose, tant’è che poté corrompere il governatore spagnolo con un presente irrifiutabile, costituito da «una cassa di vin di Bordeaux, una di acquavite di ginevro, un barilotto di rhum, quattro prosciutti d’Olanda, due mezzi barili di biscotti bianchissimi ed uno di fior di farina»: tutti prodotti mai visti nel Chocó, che i possidenti locali avrebbero pagato letteralmente a peso d’oro. Scorrendo la lista, i lettori delle Memorie dovettero strabuzzare gli occhi: era troppo perfino per


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stretta è la soglia

159. Ritratto di Lord Cochrane, ca. 1820.

160. Ritratto di John Illingworth, ca. 1820.

i pasciuti abitanti della Romandiola! Ma... il dono altro non era che una trovata del nostro eroe. Quando egli giunse a Citará, gli spagnoli – los realistas – si erano ritirati da tempo, e sulla cittadina sventolava la bandiera bolivariana. Il comando militare della regione era in mano al colonnello José María Cancino, un rivoluzionario convinto di cui Codazzi fece quasi sicuramente la conoscenza.31 La corruzione non era cessata, ma la dominazione coloniale sí. Nel citato “Estado de Servicio del Oficial Superior Codazzi”, la missione del lughese nel Chocó viene riassunta con queste parole: “Spedido en mission secreta de mucha consequencia de [l’isola di] Providencia cerca el Exmo almirante Cocranne en el mar del Sur traversando toda tierra firma”. Secondo le Memorie l’incontro con lord Cochrane andò così: pervenuto a Nóvita, Codazzi prese alloggio presso una ricca vedova, che ebbe modo in men che non si dica di «esaminare e conoscere a fondo». Le confidenze di costei e di un di lei nipote gli permisero di farsi un quadro, invero promettente, della situazione politica e militare della Nuova Granada. Venne fra l’altro a sapere che la squadra dell’ammiraglio Cochrane incrociava lungo la costa del Chocó, nei pressi della baia di Buenaventura; per cui, lasciata la vedova al

suo destino, discese lungo il San Juan fino all’oceano Pacifico, dirigendosi in canoa verso la menzionata insenatura. Presto apparve all’orizzonte un vascello non identificato, il quale, avendo avvistato a sua volta la piccola imbarcazione, sparò una cannonata che per poco non la centrò. Ciò seminò il panico fra i sei rematori indigeni, di per sé piuttosto pavidi; tuttavia, Codazzi seppe rincuorarli, convincendoli a dirigersi verso «il legno da guerra che ci chiamava all’ubbidienza». Questo inalberava bandiera spagnola, ma al nostro bastò poco per capire che in realtà apparteneva alla marina dell’América Libre. Afferrata l’importanza della sua missione, il capitano lo condusse da lord Cochrane, che stazionava con la sua flotta davanti a Panamá. Presentate le proprie credenziali (astutamente cucite in un paio di scarpe), Codazzi espose all’ammiraglio il piano del commodoro Aury. L’inglese, però, si disse obbligato a respingerlo, giacché non poteva trattenersi oltre in quei mari. «Aveva fatto una corsa fino a Panamá» per raccogliere – ahimè inutilmente – informazioni sui movimenti di Bolívar, ma era giunto il momento di far vela verso il Perú, per dar man forte al generale San Martín. Il lughese, allora, gli fece un rapporto su quanto aveva saputo a Nóvita per bocca della vedova. Finalmente aggiornato, Cochrane decise seduta stante di far rotta per Guayaquil «onde vedere di poter sollevare quelle provincie molto a portata per le operazioni di S. Martino e di Bolívar». Riavuta la canoa e i rema-

31 Sul colonnello Cancino e i possibili rapporti con Codazzi, cfr. G. Antei, Los Héroes Errantes, op.cit.


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161. Bandiera da guerra della Nuova Granada, ca. 1819-1820.

tori, Codazzi si diresse alla foce del Río San Agustín, ne risalì un tratto, s’immise nel San Juan e proseguì instancabile verso la cordigliera delle Ande, conscio della “mucha consecuencia” della propria missione. Ma qualcosa non torna. Né nella seconda metà del 1819, anno in cui presumibilmente si svolse la missione di Codazzi, né nell’autunno del 1820, quando in realtà si verificò, a lord Cochrane passò per la mente di «fare un salto a Panamá». Di fatto, era troppo impegnato nell’assedio di Valdivia e nel blocco del Callao per spingersi in ricognizione in acque centroamericane. Ciò nondimeno un marinaio inglese fedele alla causa patriottica navigò veramente lungo la costa di Panamá e del Chocó in quel periodo. Si tratta del corsaro John Illingworth, che munito di patente degli Estados Unidos de Buenos Ayres y Chile (proprio come Louis Aury), non solo abbordò numerosi legni spagnoli, ma inferse colpi ai realisti perfino sulla terra ferma. Portò a compimento la sua impresa più celebre al comando della corvetta Rosa de los Andes, non lontano dalla baia di Buenaventura, qualche mese prima che vi giungesse Codazzi. Eccone il resoconto: Ai primi di gennaio del 1820, la fregata Rosa de los Andes era tranquillamente ancorata nella baia di Cupica – una delle tante insenature del golfo di Panamá – che, spingendosi profondamente nella costa del Darién, assottiglia la distanza fra l’oceano Pacifico e l’Atlantico. Illingworth era stato informato di ciò dagli indios del litorale. Quand’era passato dalla baia di Buenaventura, aveva inoltre saputo di una spedizione realista, forse già in corso, che partendo da Cartagena,

l’orizzonte in fuga

162. Combattente della battaglia di Boyacá, dopo 1820, acqu.

sull’Atlantico, doveva risalire l’Atrato per prendere alle spalle i patrioti [che avevano liberato il Chocó]. Tale spedizione era forte di duecento soldati a bordo di quattro cannoniere. Con l’impeto della gente del suo stampo, ammirevolmente assecondato dall’eroica disciplina dei marinai e dei soldati cileni, Illingworth si risolse a portare a termine – in luoghi selvaggi e solitari come pochi – una delle operazioni più audaci e singolari che si possano immaginare, la cui esecuzione innalza a vera gloria il suo nome e quello dei suoi compagni cileni. Il piano consisteva nell’attraversare l’istmo del Darién da un oceano all’altro con un distaccamento di cento uomini, recando a spalla un naviglio sul quale, una volta raggiunto il corso inferiore dell’Atrato, si sarebbero imbarcati, onde tagliare ai realisti la ritirata verso il Mar dei Caraibi. Portare a compimento una simile impresa richiese da parte dell’audace capitano sforzi giganteschi: dovette navigare contro corrente, strascinare la scialuppa fra le rocce, facendola scivolare a forza di braccia da alti dirupi. Infine, il 4 febbraio 1820, Illingworth e i suoi arrivarono a destinazione, e la pesante imbarcazione fu spinta nelle acque dell’Atrato.32

Questa ricostruzione si deve a Benjamín Vicuña Mackenna, uno dei maggiori storici sudamericani dell’Ottocento, che non sa trattenersi dall’enfatizzare l’eroismo delle armi cilene. L’anonimo redattore d’un articolo apparso nel 1834 su “Reverberación comercial del Atrato”, un foglio pubblicato a Quibdó (nota anche come Zitara o Citará), propone una ver-

32 Citato da C.Destruge, Biografía del G.ral Don Juan Illingworth, Santiago, 1914, pp. 43-44.


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stretta è la soglia

sione un po’ diversa.33 Afferma costui che l’ideatore ed esecutore dell’operazione fu il già menzionato colonnello José María Cancino. Imbarcatosi sulla Rosa de los Andes, alla fonda nella baia di Buenaventura, Cancino chiese a Illingworth di far rotta per Cupica, dove fu messa a terra la scialuppa a sei remi (six-oared launch). Indi la fece trascinare a mano fino al fiume Napipí, un tragitto che richiese 10 ore, ivi compreso il tempo necessario ad aprire un varco nella foresta. Raggiunte le rive del Napipí, gli uomini di Cancino si reimbarcarono sulla scialuppa, che fu spinta nella corrente. Il loro arrivo a Quibdó colse alla sprovvista i realisti, letteralmente incapaci di credere ai loro occhi. Nell’articolo si dice anche che il portentoso naviglio fu lasciato a Quibdó, dove con il tempo andò in pezzi. Al tentativo spagnolo di riconquistare il Chocó mediante una spedizione fluviale lungo l’Atrato si riferì altresì il generale Tomás Cipriano de Mosquera, più volte presidente della Nueva Granada nonché geografo dilettante, che a proposito dell’impresa in questione annota: Il colonnello Cancino, governatore [patriota] del Chocó, chiese aiuto a Illingworth, proponendogli di far passare due imbarcazioni dal Pacifico alle acque dell’Atrato affinché operassero contro le forze che risalivano il fiume. [Onde convincerlo] gli spiegò che dalla baia di Cupica al fiume Napipi esisteva un arrastradero che avrebbe consentito il passaggio. Cancino aveva fortificato l’elevazione di Murrí, sull’Atrato, località intermedia fra le bocche dei fiumi Murrí e Napipí; passarono due barche ed il nemico, essendone venuto a conoscenza, interruppe l’attacco contro il forte di Murrí, lasciò il Chocó e il 19 gennaio ripiegò su Cartagena. Le due imbarcazioni ripresero la via del Pacifico e la corvetta Santa Rosa continuò ad incrociare lungo la costa.

Da buon colombiano, anche Mosquera sottolinea l’abilità tattica del compatriota, facendone il vero protagonista dell’impresa.34 Come risulta da una comunicazione di Robert Stephenson (ingegnere minerario già residente nella Nuova Granada), alla Royal Geographical Society di Londra, sull’operazione non mancò di dire la sua lo stesso capitano Illingworth: All’inizio del 1820, durante la guerra d’indipendenza del Sud America, l’allora capitano e poi ammiraglio Illingsworth, al servizio della Colombia [cioè, agli ordini di Bolívar], attraversò l’istmo di Cupica alla testa di un manipolo di marinai e soldati appartenenti ad uno sloop da guerra al suo comando. Discese lungo il fiume Napipí fino all’Atrato, nel quale si immise, allo scopo di aiutare a catturare certe cannoniere spagnole che erano state spedite da Cartagena per appropriarsi dei centri abitati posti alla foce dell’Atrato.35

163. Guerriera Yurimagua, 1805, inc. col.

the eminence which rises some 200 feet behind the bay of Cupica” [dispose che una scialuppa a sei remi fosse portata fino ad una elevazione di circa 200 piedi che sorge dietro la baia di Cupica]: La lancia fu trascinata per sei ore lungo un sentiero indigeno che partendo dalla baia di Cupica arriva al Napipí... in un punto ove barche e canoe possono navigare perfino nella stagione asciutta. Illingworth a bordo della scialuppa e i suoi uomini a bordo di canoe seguirono il corso del Napipí, in quel tratto profondo e ventoso, dalle prime luci dell’alba a circa le dieci del mattino, quando sboccarono nell’Atrato.36

La missione esigeva celerità, segretezza e mezzi di trasporto adeguati, in particolare canoe per discendere il Napipí (da requisite ai nativi). A tal fine, Illingworth “caused a six-oared boat to be carried up

Compiuta l’operazione, Illingworth, su richiesta del governatore della provincia, lasciò la scialuppa nelle acque dell’Atrato “and as it was the first vessel known to have passed from one ocean to the other, it was preserved for many years under a shed, in the town of Citará, as a curiosity.” [e siccome era il primo naviglio conosciuto ad essere passato da un oceano all’altro, fu conservato a Citará per molti anni sotto una tettoia di frasche come una curiosità].37 Nonostante misurasse una dozzina di metri di lunghezza, Codazzi, che fece sosta a Citará dopo qualche mese,

33 Cfr. “On a communication between Atlantic and Pacific Oceans” in “West of England Journal of Sciences and Literature”, Bristol, 1835-1836, I-V, pp. 327-328. 34 Cfr. C. de Mosquera, Memoria sobre la vida del gene-

ral Simón Bolívar Libertador de Colombia, Perú y Bolivia, Bogotá, 1954, p. 346. 35 Proceedings..., op.cit., pp. 86-87. 36 Ibid.


l’orizzonte in fuga

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164. J. Trautwine, Veduta del Darién-Chocó, 1851, litogr.

non la vide (a quanto pare non la vide neppure Acosta). Una svista? Le Memorie sono indubbiamente lacunose, però un’omissione del genere sarebbe inconcepibile. La lancia costituiva la riprova di un viaggio ai limiti della fantasia, foriero di incalcolabili sviluppi economico-geografici, un monumento all’audacia e al progresso: come ignorarla? Forse perché la selva è un’ambiente allucinante, dove le cose – perfine grandi scialuppe a sei remi – appaiono e scompaiono senza che nessuno dei cinque sensi riesca a trattenerle... quasi si tratti di miraggi. Sebbene amasse le «favole combinate» e pertanto non si attenesse sempre al vero, il lughese era comunque un attento osservatore, un’attitudine che traspare anche dalla descrizione dell’istmo di San Pablo. Al riguardo è opportuna un’ultima considerazione. In calce alla pagina citata sopra, Mosquera si premurò di chiarire il significato di “arrastradero”: «Nel Chocó chiamano così il luogo attraverso il quale le canoe passano da un fiume all’altro o dal mare a un fiume trascinate su tronchi cilindrici [arrastrandose sobre maderos cilíndricos]».38 Questa delucidazione, se per un verso conferma quanto riferito dal nostro eroe, per l’altro sembra smentire le notizie fornite da Acosta e Illingworth. Tuttavia, non è così. Le differenze esistenti fra le tre testimonianze si devono con tutta probabilità a circostanze metereologiche: mentre Codazzi attraversò l’istmo di San Pablo in un periodo secco, gli altri due vi passarono in piena

37 38

39 40

Ibid. C. de Mosquera, Memoria..., p. 346. Proceedings..., p. 86. J.C. Trautwine, “Rough Notes of an Expedition for an

stagione delle piogge, vale a dire, quando i tronchi erano sommersi. Durante i primi sessant’anni del XIX secolo l’esplorazione dell’istmo di Cupica fu l’obiettivo di numerose spedizioni scientifiche. Fra i possibili tracciati d’un canale transoceanico, quello basato sulla comunicazione Napipí-Atrato parve fino al 1860 il più corto e praticabile. Illingworth era stato chiaro: per trascinare la lancia dalla baia ad un punto navigabile del Napipí – superando un dislivello di una settantina di metri – erano occorse sei ore, per discendere fino all’Atrato ancor meno. A sua volta il capitano Wood “who surveyed it [quella zona], stated that he landed from his ship in Cupica Bay after breakfast, walked from the coast across the ridge, bathed in the Napipi, and returned before 12 o’clock” [che perlustrò quella zona, affermò che sbarcò dalla sua nave, alla fonda nella baia di Cupica, dopo colazione, camminò dalla spiaggia verso la catena, la valicò, fece il bagno nel Napipi e ritornò prima di mezzogiorno], impiegando in tutto cinque-sei ore.39 L’istmo, dunque, era lungo circa sei chilometri. Ma trent’anni dopo, Trautwine, che risalì per una decina di chilometri il corso del Napipí, venne a sapere che il tragitto fra la sorgente di quest’ultimo e l’Atrato richiedeva tre giorni, a cui bisognava aggiungere mezza giornata di marcia per arrivare alla baia di Cupica... ovvero, novantasei ore contro dodici.40 Nulla di strano, dunque, che Trautwine concludesse la propria relazione

Inter-oceanic Canal Route by way of Rivers Atrato and San Juan in New Granada”, in “Journal of Franklin Institute”, XXVII, 3, Philadelphia, 1854, pp. 226. Le illustrazioni in alto e a destra (v. figg. 164 e 165) si devono a Trautwine.


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165. J. Trautwine, Veduta del fiume Atrato, 1851, litogr.

alla Royal Geographical Society dicendo che l’idea di un canale attraverso l’istmo di Cupica era “a perfectly Quixotic conception”. Se la gloria di Illingworth fu meritata è difficile dirlo. Si sa per certo che catturò svariati navigli, che ‘espugnò’ alcuni sperduti villaggi sul litorale pacifico neogranadino, che attaccò inutilmente l’isola di Taboga, vicino a Panamá, e che riforní di armi il colonnello Cancino, sbarcandole a Buenaventura.41 Nonostante ciò, la traversata dell’istmo con il cutter a spalla è in tutto o in parte leggendaria. Alcune versioni si spingono ad affermare che l’imbarcazione non era una lancia a sei remi bensì la medesima corvetta (o fregata) Rosa de los Andes, facendola transitare per l’istmo di San Pablo.42 Indubbiamente, se un arrastradero fra Cupica e il Napipí fosse esistito davvero, un gruppo di indios, avvalendosi del sentiero scorrevole, sarebbe stato in grado di effettuare il trasbordo in tempi brevi (comunque di molto superiori a quelli dichiarati). Ma a che pro uno sforzo simile? È vero che la scialuppa avrebbe potuto montare una piccola bocca da fuoco con cui abbordare le cannoniere realiste; tuttavia, non sembra questo il caso. Per contro, non si può scartare l’ipotesi che i soldati anglo-cileni, raggiunto a piedi il Napipí, s’imbarcassero poi su canoe indigene. In ogni caso, delle loro gesta lungo l’Atrato non si sa nulla di concreto, anche se, a giudicare dal silenzio di Acosta e dello stesso Codazzi, non dovettero essere rilevanti; anzi, è probabile che Illingworth raggiungesse il teatro delle operazioni a

Nel citato Ensayo político sobre Nueva España, Humboldt fece riferimento ad uno scritto di José Ignacio de Pombo apparso nel 1814, Noticias sobre las quinas oficinales. In esso l’autore insisteva «sulla facilità con cui si sarebbe potuto tracciare un canale navigabile lungo 2000 tese in un tratto di suolo pianeggiante fra il Quibdó e il San Juan, onde aprire rapporti commerciali fra il Perú e Cartagena de Indias». La rotta indicata da Pombo attraversava l’Arrastradero di San Pablo e a suo dire non presentava la minor difficoltà. Ciò, per lo meno, fu quanto espose in una memoria presentata nel 1807 al Real Consulado de Comercio di Cartagena. La sua idea non era nuova. Più di trent’anni prima, nel 1776, la Real Audiencia della Nuova Granada aveva incaricato José López García di esplorare l’“Ombligo de San Pablo” (altro nome dell’Arrastradero) onde valutare la possibilità di aprire un passaggio fluviale fra i due fiumi. L’Ombligo – riferì costui – era un “ysmo plano sin elevación ni montañuela ninguna, de una hora y media de camino y de sinco mill doscientas varas” [un istmo piatto senza alcuna elevazione o montagnola, percorribile in un’ora e mezza, lungo poche migliaia

41 Sulle gesta di Illingworth cfr. D. Barros Arana, Historia General de Chile, VIII, Santiago, 1884-1902, p. 437 e ss.

42 E. Sánchez, Gobierno y Geografía, Bogotá, 1998, p. 120 e nota 66.

cose fatte. Ciò, per altro, non sminuisce la figura d’un corsaro sinceramente votato alla causa patriottica, disposto, come Louis Aury, a mettere a repentaglio la propria vita per le repubbliche in gestazione... che, nella fattispecie, espressero la loro gratitudine rivestendolo di un’aura mitica.


l’orizzonte in fuga

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166. A. Codazzi, Mappa del Chocó (particolare).

di metri]. In quanto al canale, López García concluse che “la abertura y desmonte de tres o cuatro brazas de anchura y empalizadura de unos sanjones, cortadura de aguas para la duración desta compostura, durable según la experiencia de quinze a beinte años, se podrá conseguir con el costo de cuatro mil patacones, poco más o menos” [il disboscamento e l’apertura di un fosso di tre-quattro metri di larghezza, il consolidamento degli argini del medesimo con palizzate, la deviazione delle acque durante il cantiere, che avrà una durata compresa fra i 15 e i vent’anni, si potrà realizzare al costo di circa quattromila pesos].43 L’investimento era notevole e i tempi di esecuzione spropositati, per cui sul momento il progetto venne abbandonato. Qualche anno dopo fu riesumato da un certo Antonio Pérez (o Antonio Pesca), che a differenza di López García s’impegnò ad aprire la rotta in dodici mesi. Ma come si è detto sopra, il viceré Caballero y Góngora preferì che la gloria del taglio dell’istmo ricadesse sui suoi successori, ai quali sarebbe spettato di “ver conducir desde el centro de las provincias de Quito inmensos cargamentos, todo por agua hasta el golfo de Uraba!” [veder trasportare completamente via acqua immensi carichi dal centro delle province di Quito fino al golfo di Urabá!].44 Anche Codazzi caldeggiò il taglio dell’istmo di San Pablo, ritenendo che «con un piccol bastimento a vapore in otto giorni si potrebbe passare da un Oce-

43

Cfr. O. Jiménez, El Chocó, un paraíso del demonio, op.cit. Caballero y Góngora, op.cit. 45 La piccola carta del Chocó a corredo delle Memorie (v. figg. 166-167) fu ricalcata per esplicita ammissione di Codazzi su una mappa appartenente all’archivio cartografico del viceré Juan de Sámano. Il lughese avrebbe potuto copiarla assieme ad 44

ano all’altro». In un cartiglio apposto alla mappa del Chocó a corredo delle Memorie, il nostro annota: L’istmo che passa tra il fiume Quibdó e quello di S.Giovanni sarebbe il luogo propizio per aprire la comunicazione dei due mari mediante il fiume Atrato indi il Quibdó e poscia il S.Giovanni: questi essendo di un livello superiore al Quibdó si potrebbe una porzione delle sue acque farle cadere con una chiusa in questi per cui sarebbe anche l’istmo navigabile e si andrebbe in 6 giorni con un stimbot [sic] da un mare all’altro.45

Fra i viaggiatori che percorsero l’Ombligo, nessun altro rimarcò il dislivello fra i due fiumi e ancor meno suggerì il modo di superare l’ostacolo. Ciò sembra confermare la straordinaria capacità di osservazione e l’intuito ingegneristico del nostro eroe. Ma potrebbe significare altro. A villa Serraglio, Codazzi disponeva di una ‘biblioteca americana’ composta da opere di storia e geografia. Fra di esse figuravano sicuramente l’Essai sur le Royaume de la Nouvelle Espagne, il Voyage dans la République de Colombie, di G.T. Mollien, il Voyage dans l’Amérique Meridionale di Jullien Mellet e altre. Molte delle informazioni contenute nelle Memorie furono desunte da tali fonti. Come si ricorderá, Humboldt, nell’Essai, aveva riportato la notizia secondo cui un “moine très actif” aveva fatto scavare un canale “dans le ravin de la Raspadura”.46 Letta in un certo modo la frase, francamente ambigua, poteva significare che il canale (il

altre durante la permanenza a Bogotá fra il settembre e l’ottobre del 1820. Pérez Rancel la attribuisce erroneamente al lughese, forse per non aver letto uno dei due cartigli apposti alla mappa. È probabile che l’unica carta originale allegata alle Memorie sia quella dell’isola della Vieja Providencia. 46 A. von Humboldt, Essai politique, op.cit.


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167. A. Codazzi, Mappa del Chocó (particolare).

“Canal del monje”) mettesse in comunicazione corsi d’acqua separati da un dislivello o dirupo (ovvero, da un “ravin”). È appunto questo, crediamo, il senso che Codazzi diede alle parole del Barone, ed è questa la ragione per cui suggerì di far cadere le acque del San Juan in una chiusa. Non lo fece a partire da una perlustrazione diretta e ‘mirata’, bensì sulla scorta di notizie e idee ricavate dalla lettura di una auctoritas. La sua percezione dei luoghi, nell’autunno del 1820, era ben diversa da quella di un esploratore consacrato all’indagine del mondo fisico. Si trovò ad attraversare il Chocó in qualità di maggiore di artiglieria, nell’espletamento di una missione militare, una veste e delle funzioni che comprensibilmente non gli consentirono di dilungarsi più di tanto a osservare e ad analizzare. Vide, distinse, rimarcò, ma rimandò a tempi più propizi il vaglio delle proprie impressioni di viaggio. Giunto il momento, anzichè contentarsi dei propri ricordi, presumibilmente vaghi e incompleti, mise mano a quante più informazioni potè, attingendo appunto a relazioni di viaggiatori coevi. Poiché lo scopo delle Memorie era quel che era, se ne appropriò a cuor leggero, senza citare le fonti e ancor meno approfondendone lo studio. In lui lo spirito critico era ancora latente, il rigore scientifico di là da venire, le conoscenze geografiche approssimative: come avrebbe potuto ideare un canale transoceanico? Tuttavia, il riferimento alla chiusa contiene un’intuizione ed una promessa. Ormai sul limitare dell’interludio romagnolo, Codazzi rettificò o vide cambiare il proprio rapporto con lo spazio. L’immaginazione continuò ad agire fino alla conclusione delle Memorie, ma già da tempo era subentrato un nuovo approccio, ben più realistico e razionale: una comprensione del territorio formatasi (forse) sui banchi della Scuola Teorico Pratica di Artiglieria di Pavia e rafforzatasi disegnando la mappa

di Santa Catalina. L’intuizione racchiusa nel cartiglio non è originale, nondimeno rivela che il nostro eroe, già nel 1825, concepiva la geografia da ingegnere e progettista, in termini di comunicazioni, migliorie e produttività. Rivela altresì che l’esperienza del Serraglio, sebbene infelice, non era stata sterile. Invero, la messa a frutto della tenuta aveva implicato lo studio delle teorie agricole e delle tecniche di coltivazione, ivi compresi i metodi di irrigazione e bonifica – fossati e chiuse –, un sapere che risulterà fondamentale sia per la vita della Colonia Tovar che per la determinazione della fattibilità di un canale transoceanico. Il cartiglio, insomma, prefigura una vocazione corografica di nuovo tipo, volta non solo alla rappresentazione cartografica di parti della terra, bensì alla progettazione d’un oikoumene migliore. Racconta John Trautwine che un eminente ecclesiastico gli assicurò “positively” che in un determinato punto lo spartiacque fra gli affluenti dell’Atrato e quelli del San Juan si trovava a sei metri di altezza rispetto alle acque del primo. L’esploratore americano risalì la corrente indicata per varie miglia, misurando l’altitudine con la livella a spirito finchè oltrepassò i 150 metri, dopo di che “I put away my level in despair, and climbed over the remainder in unspeakeable disgust” [riposi disperato la livella e continuai ad arrampicarmi in preda ad un indicibile disappunto].47 Trautwine scoprì pure che il Canale della Raspadura non era affatto un canale, bensì una collina “across which canoes were dragged” [attraverso il quale venivano trascinate le canoe]. Di fatto, in parecchie zone del Chocó “the traveler carries the canoe, instead of the canoe carrying the traveler” [il viaggiatore traspor47 J.C.Trautwine, op. cit., p. 229. Il rapporto di Trautwine è ricco di spunti umoristici.


l’orizzonte in fuga

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168. A. Codazzi, Schizzo del bacino fluviale Atrato-Quito, 1853.

ta la canoa piuttosto che la canoa il viaggiatore].48 La perlustrazione dei passaggi fra i due oceani dissipò rapidamente le immagini illusorie con cui Trautwine li aveva ammantati, ingannato dalla distanza e da “false representations”: nel Chocó – dovette concludere – non esisteva la benché minima possibilità di tagliare un canale navigabile fra l’Atlantico e il Pacifico: “I cannot entertain the slightest hope that a ship-canal will ever be found practicable across any part of it [il Chocó].” [Non mi sento di nutrire la benché minima

speranza che un canale navigabile possa mai essere costruito in qualche punto del Chocó].49 Secondo il tenente Nathaniel Michler, ingegnere autore di studi topografici e geologici sul Chocó,

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Ibid. Qualche anno dopo Michler riferì: “The height of the ridge between the headwaters of these two rivers [Atrato e San Juan] above the mean level of the sea has not been published, but diffe49


stretta è la soglia

169. A. Berg, Scena fluviale (RĂ­o Magdalena), 1853, litogr.

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l’orizzonte in fuga

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170. A. Codazzi, Carta preparatoria regione Darién-Chocó, 1853.


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l’assenza di informazioni attendibili circa la morfologia di tale regione si protrasse per diversi anni. Nel determinare le altitudini, gli esploratori susseguitisi a Trautwine – osserva Michler – si lasciarono ingannare «dalla foltissima vegetazione arborea che occulta il profilo delle colline». A causa della loro lieve elevazione sul livello dell’oceano, “and no marked profile being visible”, le colline si presentavano all’osservatore sotto l’apparenza di un’estensione pianeggiante. Una volta raggiunte, la risalita era così graduale che i sensi non riuscivano a percepire la pendenza.50 I problemi connessi alle difficoltà di rilevamento erano aggravati dall’atteggiamento di taluni esploratori: Some of these... either by the visual organs having proved somewhat blinded, or their mental ones being greatly biased, have been so presumptuous as to endeavor to overshadow the true state of the case by offering to the public their own guessed estimates of the heights of mountains, thereby giving them a preference to those determined by exact instrumental surveys. Such persons have not only an illusive eye, but a delusive imagination [Alcuni di costoro... sia a causa dei loro organi visuali difettosi che di un atteggiamento mentale del tutto parziale, sono stati così presuntuosi da sforzarsi di occultare la reale entità dei problemi offrendo al pubblico le loro stime immaginarie circa l’altezza delle montagne, sovrapponendole a quelle stabilite con esattezza attraverso l’osservazione strumentale. Persone del genere hanno non solo un occhio illusorio ma altresì un’immaginazione deludente].51

Fra l’altro, la presunzione e la mala fede portarono gli esploratori nordamericani a ignorare la perlustrazione dell’istmo di San Pablo portata a termine da Codazzi nel 1853 (noncuranza che rimanda indirettamente allo sprezzo di Washington nei confronti del governo e della sovranità territoriale della Nuova Granada).52 Il lughese la intraprese per proprio conto, al margine degli impegni assunti quale capo della Comisión Corográfica. Annotò in merito il suo assistente Santiago Pérez:

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lavora per amor di patria e colui che in primo luogo persegue l’utile personale.53

I risultati dell’esplorazione non furono positivi. Anche Codazzi considerò impraticabile la canalizzazione dell’istmo; tuttavia, diversamente da Trautwine, ne spiegò la ragione. Le difficoltà non erano insormontabili, ma lo sforzo sarebbe stato sproporzionato; fra l’altro – precisò – si sarebbe resa necessaria la costruzione di un sistema di chiuse: L’istmo si attraversa a lomo de indio [sul dorso di indigeni]; la maggior parte del cammino, che misura in tutto una lega e mille tese granadine, è dapprima pianeggiante e attraversa e riattraversa il torrente San Pablo... poi scende verso il torrente Santa Helena. Poiché quest’ultimo è povero d’acqua (tant’è che le canoe, per piccole che siano, devono essere trascinate a braccia), per metterlo in comunicazione con il fiume San Juan e unire in quel punto i due oceani, sarebbe necessario convogliare parte del corso del San Juan stesso nell’istmo di San Pablo, per mezzo di bacini e chiuse.54

Nel 1853 Codazzi perlustrò altresì l’istmo di Cupica. Seguì le orme (vere o presunte) di Illingworth risalendo il Napipí fino ad Antadó, l’imbarcadero usato dall’inglese, ma non trovò il passaggio che questi aveva decantato. Riassunse le osservazioni eseguite nel corso del sopralluogo in una relazione che non lasciava adito a speranze. Con una visione dello spazio realistica e sapiente – quasi ‘sovrumana’, si è detto –, tracciò un quadro d’insieme in anticipo d’un decennio sulle conclusioni finali degli esploratori statunitensi: Se si volesse impiegare il corso del Napipí per stabilire una comunicazione fluviale adatta a navigli d’una certa stazza sarebbe necessario tagliare o perforare altitudini notevoli. La costruzione di un canale di oltre sette leghe di lunghezza non sarebbe possibile senza penetrare nelle viscere della cordigliera. Inoltre si richiederebbero varie chiuse ed una flottiglia di rimorchiatori a vapore in servizio non solo nel canale ma lungo l’intero tragitto da Urabá alla baia di Cupica, il cui porto protetto è per altro piuttosto piccolo.55

Il Capo della Comisión Corográfica verificò il percorso [seguito da Trautwine nel 1852] a sue spese. Nell’insieme degli importanti e mai retribuiti lavori da lui eseguiti [a favore della Nuova Granada], in questo caso è più evidente che mai l’enorme differenza fra un ingegnere come Trautwine, abituato a disporre di tutti i mezzi possibili e immaginabili, e un ingegnere come Codazzi, che conta unicamente sulla propria abilità, la propria tenacia e l’abitudine ad affrontare qualsivoglia carenza e difficoltà; l’enorme differenza fra colui che

Pur conducendo al medesimo punto, l’analisi di Codazzi differisce significativamente da quella di Trautwine. Essendosi limitato a risalire il Napipí per poche miglia, per poi tornare sconfortato a Quibdó, quest’ultimo si era puntellato su premesse geologi-

different engineers who have surveyed the route pronounce it impracticable for a ship canal, even for one of very small dimensions”, in “Report to 36th Congress of the Secretary of War, communicating, in compliance with a resolution of the Senate, Lieutenant Michler’s report of his survey for an interoceanic ship canal near the Isthmus of Darien”, 15 febbr. 1861. 50 Ivi. Il tenente Michler sottolinea “the absence of correct information in reference to this interesting section of the world”. Tale imprecisione condusse a conclusioni ottimistiche circa la fattibilità del canale. 51 Ibid. 52 Il governo neogranadino venne tenuto al margine delle iniziative esploratorie internazionali. Gli interessi economici

e politici connessi al taglio del canale transaoceanico erano tali che le grandi potenze non ritennero opportuno informare e tanto meno consultare il paese territorialmente coinvolto. 53 Santiago Pérez, Apuntes de viaje, in “El Neogranadino”, 1 dic. 1853. Cfr. E. Sánchez, op. cit., p. 332. 54 Si vedano le mappe autografe di Codazzi riprodotte nelle pagine precedenti. Il primo schizzo si riferisce all’esplorazione del bacino idrografico dei fiumi Atrato-Quito, fino al punto in cui questo si avvicina al San Juan (v. fig. 168). La carta preparatoria successiva evidenzia il corso dell’Atrato e del Napipí fino al golfo di Cupica (v. fig. 170). 55 H.A. Schumacher, Codazzi, un forjador de la cultura, Bogotá 1988, p. 177.


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che, vale a dire, sulla difficoltà pratica di aprire e mantenere un canale in un terreno fangoso. Tuttavia, se avesse proseguito l’ascesa e valicato il crinale, se avesse osservato e misurato la zona a dovere, avrebbe avuto modo di poggiare le proprie conclusioni su argomenti orografici e idrografici (in effetti le considerazioni di Trautwine non convinsero Frederick Kelley, il finanziatore dell’esplorazione, che posteriormente inviò nel Chocó altre quattro spedizioni). L’americano peccò di superficialità e arroganza, difetti che lo portarono ad affermare che una via di comunicazione transoceanica sarebbe stata “unpractica-

l’orizzonte in fuga

ble” anche attraverso l’istmo di Panamá. Codazzi, per contro, esaminò la situazione con serietà scientifica e genuino interesse: in gioco, per lui, non vi erano le manovre delle grandi potenze e le speculazioni di un gruppo di investitori, bensì il progresso e la felicità di una giovane repubblica, prospettive che non ammettevano né illusioni né facili liquidazioni. La corografia rivestiva un’importante funzione sociale, per cui esigeva da chi la praticava responsabilità etica oltre che, naturalmente, rigore e spirito critico. Codazzi ne era consapevole, per questo la intese e la professò alla stregua di una missione.


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stretta è la soglia

171. Scena fluviale con viaggiatore, 1745.


172. Personificazione della Castiglia dell’Oro, inc., XVII sec.


lunga è la via

Le pagine che seguono contengono una breve ricognizione storica dell’istmo di Panamá, intesa ad ambientare una spedizione di Codazzi in quella regione, nonché le sue idee in merito ad un possibile canale transoceanico. Svoltasi nell’arco di poche settimane e conclusasi con un buco nell’acqua, l’impresa del lughese non ha nulla di straordinario. Eppure, costituisce un episodio importante nell’ambito del suo percorso umano e scientifico. Per la prima (e unica) volta non si trattò di un’esplorazione in solitario o da lui diretta, bensì di un’iniziativa internazionale capitanata da ufficiali anglo-americani. Prendendovi parte, Codazzi si convinse della fatuità della geografia, se concepita in termini di dottrina colonialista, ovvero, come teoria e prassi dell’espansionismo politico ed economico delle grandi potenze. La storia di Panamá è tragica e sconfortante come tutte le storie di conquista, non solo perché in gran parte fu scritta con il sangue delle popolazioni native, ma anche perché rivela la persistenza della più inumana delle leggi, quella del più forte. Codazzi ne prese atto in via definitiva esplorando l’istmo. Cristoforo Colombo era convinto che la circonferenza terrestre fosse di parecchio inferiore a quella reale («Il mondo è poco: quello che è sutto, cioè la terra, è sei parti: la settima solamente è coperta di acqua», Giamaica, 7 luglio 1503)1, un malinteso che, se da una parte dette luogo alla scoperta dell’America, dall’altra lo spinse ai limiti della follia. L’ammiraglio infatti non poteva rassegnarsi all’esistenza di una massa continentale là dove non era prevista, per cui si ostinò nella ricerca d’un varco verso il “país indiano de las especias”. Gli indios della provincia di Ciguare conoscevano il pepe e ne facevano commercio («tutta questa gente lo conobbero»): come stupirsene se «di lì a giorni dieci vi è il fiume Gange appellato»?

La provincia di Ciguare, che costeggiava il mare («il mare bolle nella ditta provincia di Ciguare»), distava «nove giornate di cammino per terra verso Ponente» rispetto a Veragua.2 Ciò voleva dire che a poche leghe da quest’ultima si apriva un altro mare, o meglio, un braccio di mare, al di là del quale sorgeva l’India. Il 20 gennaio 1513, Vasco Nuñez de Balboa ragguagliò sua maestà Ferdinando il Cattolico sulle favolose ricchezze della provincia di Veragua e sul passaggio che, a detta degli indigeni, portava ad un misterioso mare australe: Yo Señor he estado bien cerca de aquellas sierras hasta una jornada, no he llegado a ellas porque no he podido a causa de la gente, porque llega hombre hasta donde puede y no hasta donde quiere, por el canto de aquellas sierras van unas tierras muy llanas, van la vía de hacia la parte de medio día, dicen los indios que está la otra mar de allí tres jornadas: dícenme todos los caciques y los indios de aquella provincia ... que hay tanto oro cogido en piezas en casa de los caciques de la otra mar que nos hacen estar a todos fuera de sentido; dicen que hay por todos los ríos de la otra costa oro en mucha cantidad y en granos muy gordos ... dícenme que la otra mar es muy buena para navegar en canoas porque está muy mansa a la continua, que nunca nada brava como la mar de esta banda según los indios dicen: yo creo que en aquella mar hay muchas islas, dicen que hay muchas perlas en mucha cantidad muy gordas...” [Signore, mi sono avvicinato ad una sola giornata di cammino da quelle montagne, mi è stato impossibile raggiungerle a causa della truppa, perché l’uomo giunge fin dove può e non dove vuole; lungo detta catena si estendono terre pianeggianti verso mezzogiorno; gli indios dicono che a tre giorni di marcia si trova l’altro mare; tutti i cacicchi e gli indios della regione mi dicono... che nelle case dei cacicchi dell’altro mare c’è tanto di quell’oro in pezzi

1 Cristoforo Colombo, Lettera Rarissima, ed. Morelli, Bassano, 1810, p. 12. 2 Ibid.


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l’orizzonte in fuga

Traían la madera a cuestas desde el monte al astillero donde se hacían las naves para seguir esta empresa, pero [Balboa] mató quinientos indios haciéndoles acarrear cables y áncoras y jarcias y otros materiales y aparejos de una Mar a otra, por sierras y montes y asperecícimos caminos, y pasando muchos ríos para efectuar la obra de los navíos. [Portavano il legname a spalla dalla foresta al cantiere dove si costruivano le navi per proseguire la spedizione, ma Balboa fece morire 500 indigeni obbligandoli a trasportare cordami, ancore e altri materiali e attrezzature da un mare all’altro, per picchi e catene montuose e sentieri intransitabili e attraversando molti corsi d’acqua, tutto questo per costruire le navi].5

La spedizione al mare australe era iniziata a Santa María la Antigua del Darién, da dove Balboa e i suoi uomini avevano veleggiato verso nord-est, toccando terra ad Acla; da lì, avvalendosi di guide indigene, si erano incamminati verso occidente, fino a raggiungere la sponda pacifica in corrispondenza di un golfo che venne consacrato a San Miguel.6 Dalle foreste attorno ad Acla proveniva il legname destinato alla costruzione della flottiglia suddetta, e sempre da Acla – luogo fatidico – iniziava la via crucis dei portatori indigeni diretti all’altra sponda. Infine, ad Acla, nel 1519, venne eseguita la condanna a morte di Balboa.7 A costui non sfuggì l’importanza che il collegamento fra i due oceani avrebbe avuto per la Spagna, e dovette quindi prevedere che molte altre spedizioni, nei secoli a venire, si sarebbero avvicendate lungo il percorso da lui marcato; ma di certo non giunse a immaginare che di quel medesimo tragitto si sarebbero serviti i nemici dell’impero spagnolo. Invero, così come la conquista dell’istmo venne intrapresa con l’aiuto di guide locali lungo rotte tracciate dagli indigeni, tali rotte vennero successivamente percorse – sempre con l’aiuto di guide indigene – dai corsari e dai pirati a caccia di prede spagnole. La rilevanza dell’impresa di Balboa fu percepita appieno da Pietro Martire d’Anghiera, le cui notevoli conoscenze geografiche gli permisero, fra l’altro, di metterla in rapporto con le idee di Colombo. Umanista e cronista delle Indie, Pietro Martire (1447-1526), autore delle note De Orbe Novo Decades, diede un contributo fondamentale alla ‘scoperta’ delle cose del Nuovo Mondo da parte del pubblico europeo. Fino alla seconda metà del Cinquecento, la diffusione di ragguagli sulle terre ‘nuovamente ritrovate’ fu assai limitata. Le informazioni erano racchiuse in corrispondenze, relazioni e memoriali che, in quanto documenti ufficiali e confidenziali, non circolavano liberamente (in certi casi la loro divulgazione poteva comportare l’accusa di tradimento e perfino la condanna a morte). Il De Orbe Novo – una sorta di summa dello scibile americano – apparvero a stampa nel 1530, un lustro in anticipo sull’Historia general y natural de las Indias di Fernández de Oviedo, per cui furono accolte come una vera primizia. In quanto membro de la Junta de Indias e Cronista Reale, Pietro Martire poteva attingere alle “Cartas de relación” dei conquistatori, una prerogativa che rendeva i suoi scritti particolarmente attendibili.

3 Lettera di Vasco Nuñez de Balboa al Re Ferdinando il Cattolico, 20 gennaio 1513, in M.F. De Navarrete, Colección de los viages y descubrimientos que hicieron por mar los españoles desde fines del siglo XV, Madrid, 1829, III, p. 367. 4 Ivi, p. 361. 5 G. Fernández de Oviedo, Historia general y natural de las Indias, Madrid. 1857, III, p. 254. 6 Si veda l’interessanta mappa nella pagina a destra (fig. 173). Risale al 1610 e mostra località scomparse e toponimi dimenticati, a cominciare da Acla, Urabaibe, Dabaybe e Santa

María del Darién (quest’ultima segnalata con una “M” e una croce, segno d’un abitato estinto). Oltre a ciò, rappresenta uno dei percorsi della ricerca dell’oro, o per meglio dire, dell’Eldorado, ivi compreso il mitico fiume Oromira, tributario dell’Atrato (non per niente la regione del Darién venne battezzata “Castilla del Oro”). Cfr. S-E. Isacsson, “Gentilicios y desplazamientos de la población aborigen en el noroeste colombiano, 1500-1700”, PDF, in “Indiana”, 2006, Berlin. 7 Balboa venne decapitato ad Acla per ordine di Pedrarias Dávila nel gennaio 1519.

che stiamo impazzendo all’idea; affermano che l’oro abbonda in tutti i fiumi che scendono verso l’altra costa, in grosse pepite... dicono che l’altro mare è ottimo per la navigazione perché è sempre calmo, mai così agitato come da questa parte; penso che nell’altro mare ci siano molte isole, si dice che ci siano molte perle e molto grosse...]3

L’esistenza dell’istmo fu accertata quello stesso anno. Partiti il 6 settembre dal litorale del Darién, gli spagnoli giunsero in vista dell’oceano Pacifico il giorno 25, raggiungendolo il 29. Al coronamento dell’impresa si frapposero enormi difficoltà, ma Balboa fu sempre alla testa dei suoi, pronto ad affrontarle per primo. Al di là dell’intonazione retorica, le parole del conquistatore trasmettono la dismisura dello sforzo compiuto per raggiungere l’altra sponda: Nunca hasta hoy [he] dejado andar la gente fuera de aquí sin yo ir delante, ora fuese de noche o de día, andando por ríos y ciénagas de esta tierra... porque muchas veces no acaece ir una legua y dos y tres por ciénagas y agua desnudos y la ropa cogida puesta en la tablachina encima de la cabeza, y salidos de unas ciénagas entramos en otras y andar de esta manera dos y tres y diez días. [Fino ad oggi non ho mai permesso ai miei uomini di avanzare senza che io fossi alla testa, di giorno e di notte, attraversando fiumi e paludi... perché succede spesso di non poter percorrere nemmeno una lega senza doversi denudare, e immergersi con i vestiti tenuti sullo scudo sopra la testa, e uscendo da una palude si entra in un’altra e si procede così per due, tre, dieci giorni].4

La scoperta del ‘Mar del Sur’ si produsse a costo di sforzi eroici ma anche di crimini abominevoli. Di fatto, dal 1513 in poi, la storia dell’istmo fu contrassegnata da tragedie senza fine, prima fra tutte quella che si abbatté sulle popolazioni aborigene. Fra le vittime iniziali figurano quei malcapitati che Nuñez de Balboa, nel 1517, obbligò a trasportare a spalla, da un lato all’altro dello stretto, il legname necessario alla costruzione di una flottiglia con cui esplorare la costa del Pacifico:


lunga ĂŠ la via

173. Porto di Acla sull’Atlantico e Golfo di San Miguel sul Pacifico, mappa spagnola, XVII sec.

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l’orizzonte in fuga

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174. De Bry, Balboa castiga gli indios sodomiti, 1592.

Venne a sapere dello scoprimento del mare australe attraverso lettere inviategli dallo stesso Nuñez de Balboa e, avendone avvertito la portata, ne seguì con attenzione gli sviluppi. L’Ammiraglio aveva dunque visto giusto? Esisteva realmente un varco nella misteriosa barriera di terra che separava i due oceani? A detta degli indios, l’istmo si restringeva a tal punto che con la vista si potevano abbracciare entrambi i mari. Certe voci parlavano di una comunicazione fluviale, altre di una stretta apertura naturale. Gli spagnoli s’impegnarono a scovarla, ma... “llega hombre hasta donde puede y no hasta donde quiere”. A questa massima cristiana, che Balboa fece sua nella citata lettera a Ferdinando il Cattolico, rispose Pietro Martire riassumendo così il risultato di una perlustrazione durata anni: «Per dirla in poche parole, non s’incontrò alcuno stretto».8 Il De Orbe Novo ebbe un’immediata risonanza in tutto il Vecchio Mondo, contribuendo alla disseminazione di notizie sulle truci modalità della conquista. Il caso degli indios Esquaragua (Quaregua) è esemplare. Nella lettera al re testè citata, Balboa ricalcò la propria sottommissione al volere dei Re Cattolici, specificando che “...principalmente he procurado, por doquiera que he andado que los indios de esta tierra sean muy bien tratados no consintiendo hacerles mal ninguno, tratándoles mucha verdad, dándoles muchas

cosas de las de Castilla por atraerlos a nuestra amistad” [ovunque mi sia spinto, mi sono adoperato soprattutto affinché gli indigeni di questa regione fossero trattati molto bene, non consentendo che venissero bistrattati, essendo leali con essi, regalando loro molti oggetti di Castiglia per farceli amici].9 Questo il 20 gennaio 1513. Quattro mesi dopo, durante l’attraversamento dell’istmo, gli uomini di Balboa presero ad archibugiate gli indios Quaregua, che si opponevano al loro passaggio. A partire da informazioni di prima mano (avute, come si diceva, dallo stesso conquistatore) Pietro Martire riferisce:

8 Le otto Decades furono scritte nell’arco di cinque lustri (1501-1525). La prima edizione completa apparve ad Alcalá de Henares nel 1530. 9 Balboa, lettera citata. Nella missiva, il “cuidado de los indios” antecede ogni altra considerazione. Le Leggi di Burgos

vennero pubblicate il 27 dicembre 1512, a meno di un mese dalla data della lettera, per cui è impossibile che Balboa ne fosse a conoscenza. Ma certamente non ignorava che il problema della ‘salute’ delle popolazioni indigene era molto sentito dal monarca cattolico.

Il strepito e rumor delli quali [archibugi] uditi dagl’Indiani, pensorono che le fussero saette che venissero dal cielo, e si misseno in tanta fuga e paura che molti di loro caddero in terra. Altri restorono attoniti, di modo che non sapevano fuggire. Dove giunti [raggiunti] dalli nostri con le spade ne furono tra morti e feriti più di seicento, e tra gli altri fu morto il cacique Esquaragua. Fatto questo, Vasco s’avviò con gli altri verso la casa del detto, dove trovorono assai da mangiare. E viddero il fratello del detto cacique, insieme con molti altri, ch’erano vestiti a modo di femine. Del che si maravigliò forte, e massimamente che non s’era fuggito. E dimandata la causa, gli fu detto da tutti li vicini, li quali dapoi la morte del cacique corsero a vedere li cristiani come uomini venuti dal cielo, che ‘l detto cacique con tutti li suoi cortegiani erano imbrattati di quel nefando vizio contra natura. E che per questo il detto fratello con gli altri ch’erano in casa andavano vestiti da femine, né potevano toccar archi né saette, ma attendevano a far


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lunga é la via

175. De Bry, Balboa riceve oro dagli indios, 1592.

servizi di casa, come fanno le femine. Vasco, udito il parlar di costoro, molto piú si maravigliò che fra quelli monti asperrimi e fra tante selve, dove vivon solamente di pan di maiz con bere acqua, né hanno frutti o uccelli né salvaticine come in altri luoghi dell’Indie, in queste genti prive di delizie vi fusse entrato simil abominevol peccato. E subito gli [li] fece pigliare, che potevan esser circa quaranta, e legati gli fece stracciare e sbranare da alcuni cani grandi ch’aveva menato seco, e gli adoperava a seguire gl’Indiani quando fuggivano.10

Un altro rilevante apporto alla diffusione di notizie sulle Indie Occidentali, ed in particolare sulla regione dell’istmo del Darién, è costituito dall’ Historia del Mondo Nuovo, del milanese Girolamo Benzoni, apparsa a Venezia nel 1565 e presto tradotta al francese e all’inglese. Commerciante, viaggiatore ed acuto osservatore, forse non sempre rigoroso ma originale e soprattutto munito di spirito critico, Benzoni inquadrò la realtà americana da un punto di vista personale, tutt’altro che compiacente nei confronti degli spagnoli. Rifacendosi agli scritti di Bartolomé de las Casas, in particolare alla Brevísima relación de la destrucción de las Indias, denunciò le atrocità commesse dai conquistatori (e appunto per questo viene considerato uno degli ispiratori della Leyenda Negra).11 A proposito di questi ultimi, il milanese osserva che la malvagità, in loro, si mescolava così bene con la millanteria che era difficile dire quale delle due prevalesse. Infierivano senza sosta sui nativi ed allo stesso tempo non si stancavano di magnificarsi,

10 Pietro Martire d’Anghiera, Decade III, Libro 1, in Giovanni Battista Ramusio, Delle navigationi et viaggi, 1550-1606. 11 Bartolomé de las Casas, Brevísima relación de la destruc-

soprattutto quelli di loro che avevano fatto le campagne d’Italia: tutti avevano espugnato fortezze, tutti avevano catturato città e siccome uno spagnolo valeva per quattro tedeschi, due francesi e due italiani, 500 di loro sarebbero bastati a conquistare Venezia... Tutti, poi, si atteggiavano a signori, dicendosi discendenti della stirpe dei goti, ma «all’ora della verità si scopre che in Spagna essi erano porcari o pastori di pecore».12 Benzoni risiedette per qualche tempo nel «crudelissimo paese di Veragua» e percorse il tragitto fra Nome di Dio (Nombre de Dios), porto sul litorale atlantico, e Panamá. Per quel che riguarda Nome di Dio, si legge nell’Historia del Mondo Nuovo: Questa città sta fondata alla marina, da Levante al Ponente, in mezo d’un gran bosco; questo luogo si è malsano, specialmente d’inverno per lo gran calore e umidità della terra e ancora per una palude che la cinge da una banda di Ponente; pertanto vi muoiono gente assai (…) Quando io resideva in questa Governazione ci abitavano da quindici o venti mercatanti che vendevano in grosso, essendo tutte l’altre case e botteghe abitate da merciari e speziali, marinari e tavernieri, e d’acun’altre arti necessarie (…) Alla banda verso Tramontana sta il Porto, il quale è capace per molte navi; in quanto alle cose di Spagna che questo pestifero terreno produce, sono alcuni limoni, naranci e ravanelli, di grossezza come la coda d’un sorgio, verze, lattughe, ma piccole, poche e non troppo buone. Tutto il resto va dell’Isola spagnuola di Cuba e della provincia di Nicaracqua, cioè maiz, carne salata, porci, battate; e di Panamá si menano le vacche, se vogliono mangiar carne fresca, e di Spagna vi conducono tutto il resto.

ción de las Indias, Sevilla, 1552. 12 Girolamo Benzoni, La historia del Mondo Nuovo di M. Girolamo Benzoni milanese, Venezia, 1572 (Milano 1965).


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Subito dopo, Benzoni si riferisce all’esistenza di palenques (insediamenti di schiavi negri fuggitivi): Fra quei boschi alla banda di Levante, non troppo lontano da Nome di Dio, vi sono alcuni popoli de’ Mori fuor’usciti e hanno ammazzato molti Spagnoli mandati da’ Governatori della provincia per distruggerli. E tra quei boschi in certi fiumi hanno trovato alcune case abitate da Indiani, e così si son fatti loro amici. Hanno saette avvelenate e spesse volte molti di loro vanno al cammino di Panamá e quanti Spagnoli gli capitano alle mani, tutti crudelmente gli tagliano a pezzi.

Per quel che concerne il percorso fra le due bande, il milanese riferisce quanto segue: Di Panamá per terra a Nome di Dio vi sono cinquanta miglia. La prima giornata si trova assai buon camino; ma poi che si passa avanti s’entra in bosco e dura insino a Nome di Dio; e a meza via si trova un fiume, che per le molte volte che fa, si tarda più di tre ore in passarlo; e si è intervenuto ad alcuni Spagnuoli in tempo d’inverno trovarsi in mezo a questo fiume e cominciare a piovere tanto spietatamente e a crescere in tal maniera, e non avendo luogo alcuno dove mettersi, si sono annegati.13

Verso il 1570, Francis Drake stabilì la propria base di operazioni appunto nei pressi di Acla, in una insenatura segreta da lui chiamata Port Pheasant (Zapzurro?). Il corsaro attraversò l’istmo calcando i passi di Balboa e fu il primo inglese ad avvistare il Mar del Sur, anzi, fu il primo europeo a vedere allo stesso tempo i due oceani da una sommità situata a metà strada fra di essi. “There was a great Tree about the midway, from which, we might at once discern the 176. Ritratto di Francir Drake, inc.

l’orizzonte in fuga

North Sea from whence we came, and the South Sea whither we were going” [all’incirca a metà strada c’era un grande albero dalla cui cima si poteva vedere sia il Mare del Nord dal quale venivamo che il Mare del Sud verso cui eravamo diretti], riferisce Philip Nichols nel resoconto del terzo viaggio di Drake alle Indie Occidentali, indi prosegue: Here was that goodly and great high Tree, in which they [i Cimarrones] had cut and made divers steps, to ascend up near unto the top... and from thence we might, without any difficulty, plainly see the Atlantic Ocean whence now we came, and the South Sea, so much desired. The fourth day following, 11th February [1573] we came to the height of the desired hill, a very high hill, lying East and West, like a ridge between the two seas, about ten of the clock: where the chiefest of these Cimaroons took our Captain by the hand, and prayed him to follow him, if he was desirous to see at once the two seas, which he had so long longed for. [Ed ecco quel bell’albero robusto e alto, nel cui tronco i Cimarrones avevano ricavato vari scalini per poter salire fino alla sommità... e dalla quale si era in grado di vedere facilmente l’oceano Atlantico, dal quale provenivamo, e il Mare del Sud, che tanto anelavamo. Quattro giorni dopo, l’11 febbraio, raggiungemmo la vetta della collina desiderata, molto alta, disposta da Est a Ovest, come una catena fra i due mari, circa a ore 10; colà il gran capo dei Cimarrones prese il nostro capitano per mano e lo invitò a seguirlo, qualora fosse stato interessato a vedere i due mari in una volta, cosa che aveva atteso così a lungo].14

Alla vista del Mar del Sur, il corsaro, a detta del reverendo Nichols, esclamò: “Besought Almightie God of his goodnesse to give me life and leave to sayle once in an English ship on that sea’’. [Voglia l’Onnipotente nella sua bontà concedermi vita e permettermi una volta di navigare in quel mare su una nave inglese]. Come si sa, Drake fu accontentato: tuttavia, non fu il primo suddito di Elisabetta I a navigare nel Pacifico, giacché lo precedette John Oxenham, uno dei suoi fidi capitani. Nel racconto di Nichols la selvaggia natura dell’istmo si addolcisce fino a sfumare in un paesaggio quasi-edenico: All the way was through woods very cool and pleasant, by reason of those goodly and high trees, that grow there so thick, that it is cooler travelling there under them in that hot region, than it is in the most parts of England in the summer time. [L’intero cammino si sviluppava attraverso boschi freschi e piacevoli, in virtù di quei begli alberi, che colà crescono a dismisura, nonostante il clima torrido della regione, è più fresco viaggiare sotto di essi che in piena estate nella maggior parte dell’Inghilterra].

13 G. Benzoni, op.cit. Può essere interessante confrontare quanto scritto da Benzoni circa le fiumare con il racconto di Lionel Wafer in A New Voyage and Description of the Isthmus of America. Cfr. infra, nota 23. 14 P. Nichols, Sir Francis Drake Revived, London 1626, in Voyages and Travels: Ancient and Modern, New York, 1909–14, Vol. XXXIII, p. 100 e ss. Intitolata originalmente Relation of the Third Voyage of Sir Francis Drake, l’opera di Philip Nichols, scritta prima del 1592, fu preparata alla stampa dallo stesso Francis Drake, che vi accluse una dedica ad Elisabetta I. Fu pubblicata per la prima volta nel 1626. Le citazioni successive provengono dalla medesima edizione.


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177. Veduta immaginaria di Nombre de Dios, XVII sec., inc.

Di fatto, la marcia procedette senza intoppi o particolari disagi lungo un percorso ben dissimile da quello paventato alla partenza (“twenty leagues of death and misery”). Data la profusione di frutta, non venne mai a mancare il cibo:

arn the ‘Lord’s Prayer’, and to be instructed in some measure concerning God’s true worship. [Non hanno sacerdoti di sorta sebbene venerino la croce; ma persuasi dal nostro Capitano lasciarono le loro croci e ascoltarono la Parola del Signore e appresero qualcosa riguardo alla vera adorazione di Dio].

They [i Cimarrones] have no kind of priests, only they held the Cross in great reputation; but at our Captain’s persuasion, they were contented to leave their crosses, and to le-

Fu la chiaroveggenza del buon cristiano a consentire al corsaro di abbracciare i due oceani da un punto “distant thirty-five leagues from Nombre de Dios and forty-five from Panama” o fu piuttosto la lungimiranza di un profeta della religione elisabettiana delle cose? Fosse la fede in Dio o nel nascente credo imperialista britannico, Drake vide uno spettacolo escluso ai comuni mortali. Lionel Wafer, cerusico e bucaniere, che un secolo dopo percorse l’istmo in lungo e in largo lasciandone una descrizione molto vivida e accurata, dovette prendere atto che non esisteva alcun punto del crinale dal quale fossero visibili simultaneamente i due oceani: ciò non a causa della distanza fra le opposte sponde dello stretto bensì per gli impedimenti naturali esistenti sul versante del Pacifico, consistenti in “considerable hills... so cloath’d with tall woods that they much hinder the prospect there would otherwise be” [alture considerevoli... così fitte di foreste svettanti che nascondono molto il panorama che altrimenti si vedrebbe].15 Codazzi, che esplorò l’istmo 175 anni dopo Wafer, pervenne alla stessa conclusione (come si vedrà più avanti, il ‘miraggio del Pacifico’ fu condiviso anche dagli esploratori ottocenteschi, tratti in inganno dai ‘mari’ di nuvole).

15 Lionel Wafer, A New Voyage and Description of the Isthmus of America, London, 1699 (ed. G.P. Winship, Cleveland, 1903, pp. 71-72). Scrive Wafer: “Not that the distance of it [il crinale] from there we saw South Sea is so great, as that the eye could

not reach so far, especially from such an eminence... [tanto più che] there are here and there plains and valleys of a considerable extent, and some open places, yet do they lie intermix’d with considerable hills, and those too so cloath’d with tall woods, that they etc.etc.”

Near many of the rivers where we stayed or lodged, we found sundry sorts of fruits, which we might use with great pleasure and safety temperately: Mammeas, Guayavas, Palmitos, Pinos, Oranges, Lemons, and divers other. [Nei pressi dei fiumi dove sostavamo o accampavamo si trovava una varietà di tipi di frutta, che potevamo consumare con gran piacere e sicurezza].

Inoltre, i Cimarrones erano esperti nel cacciare i porci selvatici di cui abbondava la foresta: In journeying, as oft as by chance they [i Cimarrones] found any wild swine, of which those hills and valleys have store, they would ordinarily, six at a time, deliver their burdens to the rest of their fellows, pursue, kill and bring away after us, as much as they could carry, and time permitted. [Durante il viaggio, ogniqualvolta i Cimarrones s’imbattevano in un maiale selvatico, abbondanti in quelle contrade, 6 uomini passavano il carico ai compagni, perseguivano e uccidevano la preda e ne riportavano indietro quel tanto che potevano e che il tempo permetteva].

Drake ebbe perfino il tempo di indottrinarli:


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178. Mappa spagnola del porto di Nombre de Dios, XVI sec.

Comunque sia, giunti felicemente a una giornata di cammino da Panamá, Drake e i suoi uomini, vennero a sapere che la “recua del Oro” (il convoglio di muli che trasportava l’oro peruviano da Panamá all’Atlantico) sarebbe partita di lì a poco per Nombre de Dios. Senza perdere tempo, si rimisero in marcia verso Venta de las Cruces, a metà strada fra i due oceani, intenzionati a catturarla. L’imboscata si risolse in un fiasco ed il viaggio di ritorno, a differenza dell’andata, richiese “long and weary marches”; tuttavia, l’impresa di Drake dimostrò che il controllo dello stretto era fondamentale tanto agli interessi spagnoli quanto alle mire delle altre potenze. Consapevole di ciò, Filippo II, dapprima interessato all’apertura di un canale attraverso l’istmo, abbandonò l’idea e proibì che se ne tornasse a parlare. Talune fra le più interessanti descrizioni tardo cinquecentesche dell’istmo si devono ad un viaggiatore e mercante fiorentino, Francesco Carletti (15731636), autore di una relazione intitolata Ragionamenti del mio viaggio intorno al mondo (pubblicata nel 1701, ad un secolo dalla stesura). Fra il 1594 e il 1606, Carletti portò a termine uno straordinario viaggio attorno al mondo, il primo mai realizzato da un ‘privato’. Partito da San Lucar di Barrameda, fece rotta dapprima per le isole di Capo Verde, dove comprò una partita di 75 schiavi, e successivamente per Cartagena de Indias, dove li vendette (sottocosto). Con il magro ricavato acquistò mercanzie varie con l’idea di smerciarle in Perù. Si diresse dunque a Nombre

de Dios e da lì, dopo una permanenza d’un paio di settimane, proseguì per la foce del fiume Chagres, pronto ad affrontare la traversata dell’istmo. Abitata da poche decine di persone, Nombre de Dios era, paradossalmente, un luogo abbandonato da Dio: [Nombre de Dios] era fatta tutta di case di legname poste in un luogo tanto malsano e infermo quanto immaginar si possa, e scommodo e privo d’ogni sorte di commodità di vivere, che tutto bisogna che venga di fuora e per mare, non vi essendo all’intorno altro che serratissimi boschi e deserti infelici e inabitabili.16

Alle privazioni e alla scomodità si aggiungevano altri disagi: Quello che era peggio, che la notte non ci potevamo diffendere dalle zanzare, che ci molestavano grandemente, le quali in quel luogo, oltre alla grande quantità che ve ne sono, hanno anche più dell’importuno e le loro ponture sono molto più velenose che quelle delle nostre.

Come se ciò non bastasse, dal cielo cadevano altre piaghe quasi bibliche: Vi sono ancora in detta città del Nombre de Dios quantità innumerabile di botte e rospi molto spaventevoli per la loro grandezza... ed è opinione che piovino dal cielo, o vero che naschino mentre che l’acqua cade e tocca quella terra arida o più tosto abbruciata...Vi sono ancora di molti pipistrelli

16 F. Carletti, Ragionamenti di Francesco Carletti Fiorentino sopra le cose da lui vedute ne’ suoi viaggi, Firenze, 1701.


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179. Carta geografica spagnola dell’istmo del Darién-Panamá, XVIII sec.

di una natura molto strana li quali la notte entrano facilmente per le stanze e camere (...) e mentre si dorme vi vengono a trovare... che senza sentirli vi mordono nell’estremità delle punte delle dita delle mani o de’ piedi, o della fronte, o degli orecchi, e così si pascono con il sangue che appresso succiano, e non v’è rimedio alcuno a liberarsene.

Dopo aver costeggiato il basso litorale caraibico per una sessantina di miglia, la piroga sulla quale Carletti viaggiava imboccò «una fiumara d’acqua dolce detta Rio di Ciagre». Risalire il fiume controcorrente era oltremodo faticoso e pericoloso, in particolare «per essere in molti luoghi di poco fondo, e dandosi in secco bisogna aspettare che piova, la qual cosa in quel tempo [agosto] segue infallantemente ogni giorno nell’ora di mezzo dì in giù, con incredibile strepito e spavento di baleni e tuoni e rumori celesti». Al nubifragio giornaliero faceva seguito l’immancabile «venuta della piena», contro la quale occorreva lottare a colpi di remo. Se la piroga si fosse rotta o rovesciata «sarebbe impossibile il salvarsi le persone, non vi essendo sbarco da uscire del fiume, la proda del quale è a torno a torno serrata e chiusa dalle boscaglie tanto spesse e fitte di alberi molto grandi che non vi si può né aprodare né mettere i piedi in terra». Avendo risalito la corrente del Chagres per diciannove giorni, Carletti giunse a Casa di Cruzes (Venta de Cruces), punto di trasbordo ed imbocco della parte finale del tragitto: [A Venta de Cruces] S. Maestà tiene certi magazzini per ricetto delle mercanzie, che poi de quivi a poco a poco

per schiena di muli si trasportano alla città di Panamà, lontana... quindici miglia e dal predetto Nombre de Dios sessanta, traversandosi quella terra che tiene che il mare di tramontana con quello di mezzogiorno non si congiunghino.

Nella stagione delle piogge, il cammino da Venta de Cruces a Panamá era pressochè impraticabile, talché i muli stentavano a percorrerlo in 14 o 15 ore «e per tutto vanno sempre le bestie fitte nel fango insino alla pancia». Inoltre era così stretto che «se due [muli] s’incontrano insieme, a gran pena possono scansarsi e passare, sendo da una parte e dall’altra del camino tutto bosco selvatico e serrato senza nessuna via altra che questa, che è stata fatta a mano per potervi passare». Della conduzione delle recuas s’incaricavano schiavi negri, gli unici in grado di reggere ad uno sforzo del genere: Ed è proprio [un lavoro] di loro, essendo questa una fatica e travaglio che da uomini bianchi non potria mai essere tollerata, né farsi, nel modo che quelli fanno, a piè; nella quale non durano ancor loro molto tempo, che presto muoiono ratratti e pieni di piaghe.

Per quel che concerne Panamá, Carletti riferisce che era «scala nobilissima di tutto quello che va e viene alle parti del Perú». Un porto ricchissimo oltre che nobilissimo: Quivi si scarica tutto l’argento e l’oro che si ritrae da quel paese, il quale suole ascendere ogn’anno a tre o quattro milioni di scudi d’oro, che per schiena di muli si conduce a porto Bello, nella costa dell’altro mare.


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Oggi [1606] le flotte vanno più a basso, pure nella medesima costa di terra ferma, in un luogo il quale chiamano Porto Bello, posto in nove gradi e tre quarti, lontano dal Nombre de Dios circa a venticinque miglia: il qual porto, a punto quando io vi passai, si cominciava a dar ordine di popolare et a edificare la sua città, et all’incontro disfare quella del Nombre de Dios.

In effetti, quantunque il porto di Nombre de Dios fosse grande e capace, era insicuro e tendeva a insabbiarsi (per non parlare del clima malsano, che ogni anno mieteva centinaia di vittime fra i marinai della Flota de Indias). Al trasferimento del porto accennò anche Vargas Machuca verso il 1597: Nombre de Dios está en diez grados de latitud septentrional; el puerto no era bueno y el pueblo mal sano, por cuya causa y otros respetos se muda a Puerto Velo [Porto Bello], en el cual para su defensa, se hace un hermoso fuerte. En este puerto descargan las flotas y armadas que van para el Perú, habiendo tocado primero en Cartagena. [Nombre de Dios rimane a 10 gradi lat. Nord; il porto non era buono e il paese insalubre, ragione per cui si trasferisce a Porto Bello, dove a difesa del nuovo porto si sta costruendo un bel forte. A Porto Bello scaricano i convogli e le flotte dirette in Perú, avendo toccato dapprima Cartagena].17

López de Velasco, che aveva percorso la provincia di Veragua vent’anni prima (1575) al fine di raccogliere informazioni sullo stato degli insediamenti e dei porti, aveva scritto:

180. B. Antonelli, Fortificazioni di Portobello, ca. 1590.

Le case erano tutte di legno, ma «li uomini che le abitano sono tutti mercanti Spagnoli facoltosissimi, spezialmente de bestiame vaccino, sendovene di quelli che non le possono, per la gran quantità che ne hanno, annoverare». Ciò che più impressionò il viaggiatore fiorentino furono le maree: Questo porto di Panamá è meraviglioso per il grandissimo flusso e riflusso di quel mare, che spiaggia con il suo scemare tre o quattro miglia di quella costa, e poi ritorna l’acqua nuova con tanta furia ogni dodece ore, durando sei ore a crescere e sei scemando, che a gran pena potrebbe un uomo correndo sopra un cavallo scampare dall’onde nel cominciamento del fiume.

A diez y ocho leguas de la ciudad de Panamá está la del Nombre de Dios, puerto de la mar del Norte donde todas las flotas y navíos que vienen de España se recogen. Es el puerto poco seguro y muy peligroso cuando corren vientos nortes, con que se han perdido muchos navíos y una flota entera, como sucedió el año de sesenta y cinco [1565] siendo general de la flota Aguayo y de un año a esta parte, tres galeones y dos navíos. [Nombre de Dios, porto del Mar del Nord dove si riuniscono tutti i convogli e le navi procedenti dalla Spagna, si trova a 18 leghe da Panamá. È un porto poco sicuro e molto pericoloso quando soffia vento da Nord, per cui in passato andarono perduti parecchi navigli e nel 1565 un’intera flotta comandata dal generale Aguayo, e nell’ultimo anno tre galeoni e due navi].18

A Panamá Carletti rimase per più d’un mese. Forse memore, da buon fiorentino, di Calandrino e del Mugnone, potè satollarsi «con la carne di vitella, della quale in abbondanza e a vilissimo prezzo mangiavamo ancora nel giorno del sabbato, e di quaresima tre giorni alla settimana...». Di ritorno in Italia, il nostro viaggiatore venne a sapere che il trasferimento del porto di Nombre de Dios ad una nuova località, già avviato nel 1574, era stato ultimato:

L’affermazione di Carletti secondo cui già nel 1574 si stava procedendo «a popolare et edificare» la città di Portobello è a dir poco sorprendente, non tanto perché López de Velasco non ne faccia cenno, ma soprattutto perché, a quanto se ne sa, la posizione del nuovo porto venne decisa a seguito di una perlustrazione effettuata dall’ingegnere romagnolo Battista Antonelli nel 1586. Dal commento di Vargas Machuca si evince che nel 1597 il trasferimento era ancora in corso: è possibile che per portarlo a termine ci volessero più di vent’anni? Difficile dirlo con sicurezza. Ciò di cui si può essere certi è che tanto la localizzazione del nuovo porto – destinato a svolgere un ruolo preminente nell’ambito delle drammatiche vicende dell’America spagnola fra il 1600 e il 1800

17 B. de Vargas Machuca, Descripción breve de las Indias Occidentales con la hidrografía y geografía de las costas de mar, reinos y particulares provincias in Milicia y Descripción de las Indias,

ed. Suarez, Madrid, 1892, pp. 171-183. 18 Juan López de Velasco, Geografía y descripción general de las Indias (ms. 1580), Madrid, 1894.


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– quanto le sue difese si devono all’opera di un italiano. Accanto a Colombo, Pietro Martire d’Anghiera, Benzoni e Carletti, Antonelli, di fatto, contribuì a modo suo a forgiare l’immagine e il profilo storico dell’istmo. Battista (Bautista) Antonelli, fratello minore di Giambattista (Juan Bautista), anch’egli stimato ingegnere militare, venne incaricato da Filippo II di “examinar las costas y puntos de América, donde convenga levantar fuertes y castillos” mediante decreto reale del 15 febbraio 1586. Il monarca, preoccupato per le notizie sulle incursioni dei corsari inglesi nel mar dei Caraibi e sui due versanti dell’istmo, intendeva adottare misure adeguate al pericolo: Por cuanto conviniendo á mi servicio y buena guarda y seguridad de las costas de las Indias y bien comun y general de mis súbditos y naturales, asi dellas, como destos mis reinos, y del trato y comercio y seguridad de las flotas que van á las dichas Indias y vienen dellas, he acordado que se hagan y fabriquen los fuertes, torres y atalayas necesarias en las partes y lugares mas cómodos y a propósito. [Poiché conviene alla corona e alla buona guardia e protezione delle coste delle Indie, nonché al bene comune e generale dei miei sudditi e dei nativi, tanto delle Indie come della Spagna, ed anche agli scambi commerciali e alla sicurezza dei convogli che vanno e vengono dalle Indie, ho stabilito che si costruiscano fortificazioni e torri di scolta nelle località ove sia più opportuno].19

A tale scopo, era necessario “ver y visitar las dichas costas y reconocer y tomar relación de las dichas partes en que se deben hacer y edificar, y disposiciones de ellas y de lo demas para su edificio y fortificacion se deba hacer y prevenir” [perlustrare dette coste, individuare ed esaminare i luoghi dove verranno costruite, ed elaborare i relativi progetti]. D’una simile incombenza non poteva essere incaricata se non un ingegnere particolarmente competente: Porque mejor se haga mi servicio y lo que conviniere cerca de los dichos sitios y partes donde se hayan de hacer los dichos fuertes y torres é atalayas, trazas é modelo dellas, conviene vaya... una persona, que sea ingeniero y de práctica y experiencia en semejante ministerio. [Affinché i miei ordini riguardo ai siti dove eduficare le fortezze e le torri sudette, nonché i relativi progetti, siano eseguiti nel migliore dei modi è opportuno che si rechi sul posto... un ingegnere pratico ed esperto in questa materia].

La scelta del monarca ricadde sull’ingegnere romagnolo a ragion veduta: Teniendo satisfacción de vos Baptista Antonelli, y de la mucha que teneis de cosas de fortificaciones, y acatando lo que he habeis servido en otras muchas, os he querido nombrar, como por la presente os nombro por mi ingeniero para el dicho defecto.[Poiché sono contento di voi e della vostra esperienza nel campo delle fortificazioni, ed essendo consapevole dei risultati da voi ottenuti in molti casi, ho voluto nominarvi, come di fatto vi nomino per mezzo della presente, mio ingegnere preposto].

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E. Llaguno y Amirola, Noticias de los arquitectos y arquitectura de España, Madrid, 1829, III, pp. 244-245. Cfr. anche G. Gasparini, Los Antonelli, arquitectos militares italianos al servicio de la corona española, 1559-1649, Caracas, 2007, passim.

181. B. Antonelli, Disegni di fortificazioni, ca. 1600.

Fra i compiti assolti da Antonelli, va ricordato il posizionamento e la fortificazione del nuovo porto del Darién, Portobello. Dopo aver effettuato un accurato sopralluogo, l’ingegnere informò il re: El maese de campo [Juan de Tejada] y yo fuimos á ver á Portobelo, y es un grande y capaz para muchas armadas, y abrigado de todos los vientos, que en esta costa suelen ofender, sino es de poniente; y este viento dicen todos los marineros que reina muy poco en estas partes, y levanta poca mar y dura poco. Tiene este puerto cuatro cosas que son las que requiere un buen puerto. La primera tiene mucho fondo el puerto limpio, y piedra para lastre y agua para hacer aguada, y mucha madera asi para el servicio de la poblacion, como para fabricar navíos; y de todas estas cosas carecen mucho los puertos, y particularmente los de esta costa. Y si S. M. mandase se pasase la poblacion de Nombre de Dios á aqui, la primera cosa que se hubiera de hacer seria abrir el camino desde puerto, que fuese á dar en el camino viejo de Panamá, y me paresce que no será muy dificultoso hacerse camino que viniese á la falda de la sierra de Capira, y de allí á la venta de la Quebrada, y se dejaria el camino de los Ríos; y mandar pasar la iglesia y la casa de la Contratacion de Nombre de Dios á este puerto; y luego mandar S. M, que las naos fuesen á descargar la carga en el dicho puerto, y luego acudirían los factores de los mercaderes de Castilla, que estan en Panamá y Nombre de Dios, á hacer casas para rescibir las mercaderías, y desta manera en poco tiempo se vendria á poblar este puerto, y las flotas no pasarian tantos trabajos como pasan en Nombre de Dios, ni moriría tanta gente como muere cada año; y esto lo causa que la gente de mar, por descargar las mercaderías estando todo el día en el agua, gasta los pechos para llevar los fardos y otras cosas á tierra, porque la resaca que hay no da lugar que


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182. Presa della città di Panamá, incisione secentesca.

los esquifes puedan llegar á la playa; y con esto y con los grandes soles causan las grandes enfermedades y calenturas. [Il maestro di campo ed io abbiamo preso visione di Porto Bello. Si tratta di un porto grande, in grado di accogliere intere flotte, protetto da quei venti che investono la costa, esposto solo a quello di ponente, che a detta di tutti i marinai da queste parti non è molto forte, dura poco e non gonfia il mare più di tanto. Questo porto possiede le quattro caratteristiche che fanno un buon porto. La prima è che ha fondali profondi e netti, dispone di pietre da zavorra, acqua di cui rifornirsi e molto legname, sia per l’uso della popolazione che per la fabbricazione di navi; tutte cose di difficile reperibilità nei porti di questo litorale. Se V.M ordinasse il trasferimento della popolazione da Nombre de Dios a qui, la prima cosa da fare sarebbe aprire una strada che partendo dal porto si congiungesse con il vecchio cammino per Panamá, e credo che un tracciato che dalle pendici della Sierra di Cupira arrivasse al villaggio della Quebrada, senza toccare il cammino di Los Ríos, sarebbe di facile costruzione; poi bisogna spostare la chiesa e gli uffici doganali da Nombre de Dios a questo porto; e poi ordinare alle navi di sbarcare il carico nel nuovo porto, per cui si sposterebbero a Porto Bello le rappresentanze commerciali di Castiglia ora presenti a Panamá e a Nombre de Dios; indi costruire magazzini per le merci. In tal modo, in poco tempo il porto prenderebbe vita, e i convogli non avrebbero più tutti quei problemi che hanno a Nobre de Dios, e non ci sarebbero più tanti morti ogni anno, cosa provocata dal fatto che gli scaricatori stanno immersi nell’acqua tutto il giorno per portare a terra le mercanzie e così si ammalano di petto, e ciò perché la maretta non permette alle scialuppe di raggiungere la battigia e lo sforzo e il sole ardente causano febbri e malattie].

Dal 1513 in poi, la morte non cessò di aggirarsi per lo stretto... a volte in compagnia dell’amore. John Oxenham sbarcò a Port Pheasant nel 1575 e, dopo aver tirato in secco e nascosto la propria nave nella fitta boscaglia che contornava la baia, s’incamminò con una settantina di uomini verso il golfo di San Mi-

guel. Pervenuto ad un fiume che correva verso mezzogiorno, fece costruire delle imbarcazioni con le quali discese fino alla meta. Indi, fece rotta per l’arcipelago delle Perle, iniziando da lì la caccia di navi spagnole (caccia resa agevole dalla novità: infatti era la prima volta che un pirata incrociava nel Pacifico). In breve, Oxenham catturò due ricche prede, ma non capì che frammista al bottino era celata la sua perdizione. Invero, fra le altre cose di valore figuravano “two peeces of speciall estimation: the one a table of massie gold, with emralds, sent for a present to the King; the other a lady of singular beautie, married, and a mother of children” [due pezzi d’inestimabile valore: l’uno un tavolo d’oro massiccio tempestato di smeraldi inviato in regalo al re; l’altro una dama di straordinaria bellezza, sposata e madre di bambini].20 Il corsaro “was taken with love of this lady”, e per guadagnarsene il “good will” non solo s’inimicò i Cimarrones – dal cui aiuto dipendeva – ma, pur sapendo che gli spagnoli lo inseguivano, non fece perdere le proprie tracce. Ciò, alla fine, costò la vita sia ad Oxenham che alla totalità dei suoi compagni. Henry Morgan, per contro, era immune dai rischi della tenerezza. Deciso a catturare Panamá, dopo aver espugnato il castello di San Lorenzo, alla foce del fiume Chagres, il 18 gennaio 1671 s’inoltrò verso il Pacifico al comando di 1200 uomini. Per sveltire la marcia, costoro non si munirono di vettovaglie, sicuri 20 The Observations of Sir Richard Hawkins in his Voyage into the South Sea, A.D. 1593, in C.R. Markham, Hawkins Voyages ecc., London, 1970, p. 323 e ss.


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che ne avrebbero fatto incetta a spese dei nativi o dei coloni lungo il cammino. Dopo quattro giorni di digiuno, pervennero speranzosi a Torna Caballos, un presidio spagnolo, ma scoprirono che era stato appena abbandonato. La fame era tale che, rinvenuti dei bauli di cuoio, ne fecero banchetto: and fell to eating the leathern bags, to allay the ferment of their stomachs, which was now so sharp as to gnaw their very bowels. Thus they made a huge banquet upon these bags of leather, divers quarrels arising concerning the greatest shares [si abbassarono fino al punto di mangiarsi le sacche di pelle, pur di alleviare il fermento di stomaco, ormai così intenso da rodere le viscere. Dunque fecero banchetto del cuoiame, e sorsero non poche contese riguardo alle porzioni].21

Prima che potessero rifocillarsi passarono altri sei giorni, di modo che giunsero in vista di Panamá mezzo morti d’inanizione. Ciò nonostante, conquistarono la città. Le atrocità commesse dai pirati durante l’occupazione (che si protrasse per tre settimane) sono inenarrabili. Gli abitanti vennero imprigionati in massa e, in mancanza di riscatto, massacrati o ridotti in schiavitù. Ad un certo punto, parve che le grazie nonché i lamenti di una giovane e bella sposa (che “would have caused compassion in the hardest heart”), avrebbero fatto breccia nel cuore di Morgan, ma non fu così. La presa di Panamá venne a confermare l’assioma che l’importanza dell’istmo richiedeva attenzione, lungimiranza e mezzi di difesa adeguati. L’economia della Spagna dipendeva dalle ricchezze delle colonie americane e queste transitavano in gran parte per lo stretto. Controllarlo, dunque, era un imperativo strategico; tuttavia i monarchi spagnoli non giunsero mai a capirlo del tutto e le continue scorrerie dei bucanieri inglesi, francesi e olandesi lungo le coste e nell’entroterra dell’istmo ne sono la riprova. Scriveva José Manuel Groot nel 1869: El [istmo del] Darién es una linda doncella que tuvo una madre que no supo cuidarla, y los libertinos la pusieron en un estado deplorable. La codicia de los extranjeros (los bucaneros, filibusteros, etc.) y las malas pasiones de los naturales, incitada por aquéllos, hicieron la desgracia de esa Provincia llamada á ser la más rica y feliz de la Nueva Granada. [Il Darién è una graziosa fanciulla trascurata dalla propria madre e traviata dai libertini. L’avidità degli stranieri (bucanieri, filibustieri, ecc.) e le insane passioni dei nativi, frutto della cupidigia dei primi, hanno portato alla rovina una provincia altrimenti destinata ad essere la più ricca e felice della Nuova Granada].22

Uomini di mare, i pirati non amavano la terraferma e ancor meno percorrerla a piedi, aprendosi il cammino a colpi di machete. Disorientati e insofferenti – oltre che famelici, riarsi e spossati –, spesso obbedivano al loro intuito di marinai piuttosto che alle

21

A.O. Exquemelin, The history of the bucaniers of America, London, 1784, I, p. 181 e ss. (De Americaensche Zee-Roovers, Amsterdam, 1678). 22 J.M. Groot, Historia eclesiástica y civil de Nueva Grana-

183. Il capitano Henry Morgan, XVIII sec., inc.

indicazioni delle guide indigene, e altrettanto spesso si perdevano. A volte giravano in tondo, incapaci di avanzare in una natura ostile e indistinta, fra fiumi tortuosi, boschi impenetrabili, in un caldo soffocante, immersi nell’acqua fino alle ginocchia, assaliti da sciami d’insetti, rimpiangendo ad ogni passo il mare. William Dampier, che attraversò l’istmo nel 1679 lungo il tragitto Golfo di San Miguel-Acla, impiegó 23 giorni per coprire una distanza che, a cose normali, ne avrebbe richiesti tre, e che gli indios coprivano in un giorno e mezzo. L’inglese esagerava, ma è vero che percorse 110 miglia anzichè 50 e che gli capitò di guadare lo stesso fiume anche venti volte, e altrettante di sbagliare strada. Gli indios conoscevano la selva e soprattutto i fiumi, ed è appunto seguendone la corrente che riuscivano a orientarsi (“the indians having no paths to travel from one part of the country to another... and therefore guided themselves by the rivers”).23 Dampier e compagni non concepivano che un corso d’acqua potesse avvilupparsi e quindi

da, Bogotá, 1869 (1890), II. 23 W. Dampier, A New Voyage round the World, London 1697, p. 14. Oltre che navigatore e pirata, Dampier fu esploratore e naturalista.


l’orizzonte in fuga

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184. Indigeni del Darién , 1736, inc.

ne perdevano continuamente il bandolo. E mentre i giorni passavano le provviste scemavano e i pericoli aumentavano. Come si è visto, gli spagnoli aprirono un “camino real” fra Nombre de Dios e Panamá, un tragitto percorribile in parte in canoa e in parte a piedi o a dorso di mulo (da lì transitavano sia le carovane mercantili che la menzionata “recua del Oro”). Non si curarono invece di altre possibili rotte, lasciandole agli indios e ai Cimarrones, che ne divennero i feroci custodi. Sia i nativi che le comunità di schiavi fuggitivi reagirono alle angherie dei conquistatori prima e alle prepotenze dei coloni poi alleandosi con i loro avversari, fossero corsari con regolare patente, filibustieri o pirati. Ciò che ce li rendeva amici, si legge nel Journal du Voyage di Raveneau de Lussan, “s’étoit le ressentiment qu’ils avoient receus des Espagnols, dont ils étoient si outrez qu’ils imploroient nôtre secours pour le venger” [era il risentimento che nutrivano nei confronti degli spagnoli, verso i quali erano così indignati che imploravano il nostro aiuto per vendicarsi]. 24 Fra coloro che attraversarono l’istmo del Darién grazie all’aiuto degli indigeni, vanno annoverati per l’appunto Raveneau de Lussan e i suoi 264 compagni. Sbarcati nei pressi di Port Pheasant, essi si mi24 Jacques Raveneau de Lussan, Journal du voyage fait a la mer du Sud, avec les filibustiers de l’Amerique, Paris, 1690, pp. 23 e ss.

sero in cammino verso il Mar del Sur il primo marzo 1685 “aprés avoir recommandé nôtre voyage à Dieu”, scortati da una quarantina di indigeni. Il tragitto si rivelò da subito lento e disagevole a causa d’una geografia “fort affreuse”, irta di montagne “d’une prodigieuse hauteur” e ricoperta da foreste impenetrabili. Ciò per non parlare della “grosse pluye” che cadeva per molte ore al giorno e della “pesanteur des munitions, armes & ferrements que nous portions”. Dopo sei giorni di marcia “fatigante et penible au delà de tout ce qu’on peut s’imaginer”, scrive Raveneau de Lussan, i filibustieri giunsero a un fiume che, a detta delle guide, si gettava nel Pacifico. Da lí il viaggio proseguì a bordo di canoe fabbricate dagli indios a cambio di “bagatelles”; ciò, tuttavia, non comportò la fine degli stenti che infatti si prolungarono per i 33 giorni che durò la traversata (manifestandosi in più modi, fra gli altri sotto forma di una poderosa controcorrente, provocata dai flussi dell’oceano Pacifico che, risalendo il corso del fiume ricacciava indietro le canoe). I patimenti, racconta de Raveneau Lussan, vennero ripagati con un breve ristoro in un’isola paradisiaca nota come “Jardins de Panamá”, l’amore di una bella vedova, la presa di Queaquilla e un ricchissimo bottino. Se per Carletti la rotta dell’istmo finiva in un provvidenziale paese di Cuccagna, per Raveneau de Lussan conduceva ad un favoloso ‘giardino delle delizie’. Si sa: le gratificazioni dei viaggiatori sono pari alla risolutezza del loro desiderio nei confronti di una meta che, in molti casi, equivale a una preda (simbo-


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lica o materiale). Più acuto il desiderio, più dure le prove che ne ostacolano il coronamento e più ricca la ricompensa. La storia dell’istmo si basa appunto su questo schema favoloso di matrice medievale, lo stesso schema che determinò le allucinazioni dei conquistatori e degli evangelizzatori spagnoli. Per inciso, tale meccanismo riguarda pure – mutatis mutandis – il nostro eroe: per aver superato la tragica esperienza del naufragio, fu premiato con le carezze di stuzzicanti giovinette Mosquitos; poi, per aver affrontato e vinto i travagli del Chocó, finì nella braccia di una ricca vedova (uno stato, quello vedovile, che a giudicare dalla letteratura di viaggio ai Tropici abbondava). Comunque sia, fra i corsari e i pirati che nel corso di due secoli e mezzo percorsero l’istmo del Darién (così venne chiamato fino a metà Ottocento), uno solo si dedicò a osservarlo con la curiosità, la cura e la precisione dell’esploratore: Lionel Wafer. Compagno di William Dampier, Wafer trascorse quattro mesi fra gli indios dello stretto, in un villaggio non lontano dal golfo di San Miguel. I numerosi spostamenti da una sponda all’altra gli consentirono di accumulare conoscenze topografiche e antropologiche importanti, che poi riversò in A New Voyage and Description of the Isthmus of America. Le sue descrizioni, frutto dello spirito di osservazione del naturalista e della visione d’insieme del geografo, rivestono ancora oggi un notevole interesse. Invero, il quadro che se ne ricava è impareggiabile (non da ultimo per la misura e la vivacità della prosa). Per far sì che l’oro e l’argento provenienti dal Perú pervenissero in Spagna più celermente e con minori rischi, venne riconsiderata a più riprese l’idea d’un canale navigabile attraverso l’istmo: ciò, in barba al menzionato veto di Filippo II. Oltre a temere che un canale avrebbe scatenato le astiose mire dell’Inghilterra, il cattolicissimo monarca era convinto che l’opera dell’uomo non dovesse modificare ciò che esisteva per volontà di Dio. A spingerlo verso tale credenza fu con tutta probabilità il gesuita José de Acosta, autore della nota Historia natural y moral de las Indias, apparsa a stampa nel 1590. A proposito dell’idea di aprire un canale fra le due sponde dello stretto, Acosta aveva osservato: Han platicado algunos de romper este camino de siete leguas [l’istmo] y juntar el un mar con el otro, para hacer cómodo el pasaje al Perú, en el cual dan más costa y trabajo dieciocho leguas de tierra, que hay entre Nombre de Dios y Panamá, que dos mil y trescientas que hay de mar. A esta plática no falta quien diga que sería anegar la tierra, porque quieren decir que el un mar está mas bajo que el otro, como en tiempos pasados se halla por las historias haberse dejado de continuar por la misma consideración el mar Rojo con el Nilo, en tiempo del Rey Sesostris, y después del Imperio Otomano. Mas para mí tengo por cosa vana tal pretensión, aunque no hubiese el inconveniente que dice, el cual yo no tengo por cierto: pero eslo para mí, que ningún poder humano bastará a derribar el monte fortísimo e impenetrable que Dios puso entre los dos mares, de montes y peñas durísimas, que bastan a sustentar la furia de ambos mares. Y cuando fuese a hombres posible, sería, a mi parecer, muy justo temer del castigo del cielo querer enmendar las obras que

185. J. de Acosta, Historia Natural y Moral de las Indias, 1590.

el Hacedor, con sumo acuerdo y providencia, ordenó en la fábrica de este universo. [Certuni hanno proposto di scavare questo cammino di sette leghe onde unire un mare all’altro, rendendo più agevole la rotta del Perú, un percorso ove le diciotto leghe di terra che separano Nombre de Dios da Panamá generano più costi e travagli che duemilatrecento leghe di navigazione. A tali idee è stato risposto da altri che la terra verrebbe sommersa, volendo dire che un mare è situato più in basso dell’altro, un argomento già sfoderato in passato per spiegare la mancata apertura del passaggio fra il Nilo e il Mar Rosso, ai tempi del re Sesostri e poi durante l’Impero Ottomano. In quanto a me, riterrei vana una pretesa simile quand’anche non esistesse detto inconveniente, per me inverosimile. Credo che nessun potere umano riuscirà ad abbattere la selva possente e impenetrabile che Dio ha posto fra i due mari, le montagne e le saldissime rocce che reggono la furia di ambedue i mari. Qualora l’uomo fosse in grado di realizzare questa impresa, ritengo che dovremmo temere il castigo del cielo per voler correggere ciò che il Creatore, con somma comprensione e provvidenza, ordinò nel fabbricare l’universo].25

25

J. de Acosta, Historia Natural y Moral de las Indias, Madrid, 1608, p. 148. Il bisticcio fra “siete leguas” e “dieciocho leguas” è solo apparente. Acosta spiega: “Se estrecha la tierra lo sumo, y los dos mares se allegan tanto uno al otro, que no distan más de siete leguas, porque, aunque se andan dieciocho de Nombre de Dios a Panamá, es rodeando y buscando la comodidad del camino; mas tirando por recta línea no dista más de lo dicho un mar del otro”.


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l’orizzonte in fuga

186. Mappa spagnola della Provincia del Darién, 1782.

Altri, tuttavia, pensavano che l’istmo rappresentasse un errore della natura e che, in quanto tale, l’uomo dovesse correggerlo. Il dominio dell’umanità sul mondo naturale era un proposito espresso, e portato a compimento, fin dall’antichità, cioè, fin da quando l’uomo si era elevato a misura di tutte le cose. Ma la ‘correzione’ dello stretto era un’impresa spropositata. O meglio, sarebbe parsa tale agli occhi di quei pochi che – come Lionel Wafer – conoscevano il Darién. L’entità della sfida era cifrata nella tortuosità del camino real Nombre de Dios-Panamá, un tracciato talmente intricato che sette leghe si trasformavano in diciotto. Ciò senza contare “las crueles asechanzas de los cobardes indios”.26 In ogni caso, il proposito di tagliare lo stretto non ebbe seguito ed il Darién – “aquella rica comarca conquistada sobre la barbarie” – cadde nell’abbandono, giacché “sus riquezas atrajeron sobre sí su decadencia y desgracia”.27 L’intenzione di scavare un canale venne riposta, ma in cambio prese campo l’idea di aprire una comunicazione transoceanica mediante collegamento fluviale. Ciò avvenne nell’ambito del risveglio scientifico prodottosi in Spagna durante il regno di Carlo III (1759-1788), un monarca non indifferente ai richiami illuministici e cautamente aperto alle innovazioni.

La sua passione per la geografia e la storia naturale si sviluppò parallelamente, se non conseguentemente, all’interesse per l’economia. Di fatto, l’inedita attenzione della corte borbonica nei confronti dei domini d’Oltremare si spiega innanzi tutto con il proposito di migliorare l’amministrazione coloniale ed elevare il gettito fiscale. A tale scopo, oltre che per ragioni scentifiche, vennero organizzate spedizioni di esplorazione incaricate di inventariare le risorse ‘indiane’ e indicare modalità di sfruttamento più consone sia ai dettami della Ragione che dell’Erario. Ma il divario fra l’impulso progressista sotteso ai piani della corona e l’arretratezza delle colonie (a cominciare dagli apparati di governo), finì per imbrigliare molti dei progetti sottoposti a Madrid. Da quanto esposto nel saggio anteriore, sappiamo che, fra le altre proposte, fu suggerita l’apertura di una connessione fra il fiume Atrato, che sfocia nell’Atlantico, e il San Juan, che si getta nel Pacifico. Agli ingegneri militari spagnoli che la formularono 26 V. Restrepo (ed.), Viajes de Lionel Wafer al Istmo del Darién, Bogotá 1888. 27 Ibid.


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187. Carta settecentesca dell’Istmo di Panamá.

parve fattibile in virtù dell’esistenza dell’Arrastradero de San Pablo, un cammino lungo il quale venivano trascinate (arrastradas) le canoe, permettendo loro di passare da un corso d’acqua ad un altro. L’ Arrastradero attraversava il così detto “Ombligo de San Pablo”, cioè, la lingua di terra interposta fra il fiume San Juan e il fiume Quito (o Quibdó), quest’ultimo un affluente dell’Atrato. La conformazione dell’istmo e la vicinanza dei due bacini idrografici fecero sì che nel 1788 venisse scavato un canale di collegamento – “el primer canal interóceanico en tierra firme” – noto come “Canal de Raspadura” o “Canal del Cura”.28 Di questo fantomatico passaggio venne a conoscenza Alexander von Humboldt, il quale, durante la sua permanenza nella Nuova Granada, s’interessò alla possibilità di aprire una via transoceanica in qualche punto dell’America Centrale. Ne scrisse brevemente nelle Considerations generales sur la possibilité de joindre la mer du Sud à l’océan Atlantique29 e per esteso in un saggio pubblicato nel VI tomo della Prima parte del Voyage aux Régions Équinoxiales du Nouveau Continent (1805-1825).30 A Humboldt si deve la disamina di gran lunga più lucida e approfondita delle questioni relative all’apertura di un canale nell’America Centrale. Con le sue 75 pagine fitte di informazioni, analisi e suggerimenti, il saggio suddetto divenne, in effetti, l’imprescindibile vademecum di tutti coloro che,

nel corso dell’Ottocento, s’interessarono alla comunicazione fra i due oceani. Fra le diverse alternative esaminate da Humboldt, due concernevano la regione del Chocó (che comprende il golfo del Darién, ove sfocia l’Atrato). Infatti, oltre alla rotta attraverso l’istmo di San Pablo, il barone s’interessò al tracciato Baia di Cupica-Golfo del Darién, seguendo il corso dei fiumi Napipí e Atrato.31 Una gazzetta cilena ne dette notizia nel 1810:

28 Come sappiamo, lo scavo venne realizzato per favorire l’estrazione dell’oro, non per altro, e non misurava che 200 metri di lunghezza. V. supra. 29 Humboldt, Essai politique, op.cit. 30 Tradotto all’inglese, apparve con il titolo “The Practica-

bility of a Water Communication between the Atlantic and Pacific Oceans discussed”, 1826; o anche “Essay on the Possibility of effecting a Navigable Communication between the Atlantic and the Pacific Ocean”, 1830. 31 V. supra.

El Golfo de Panamá, tantas veces recomendado para abrir un canal entre los dos mares, no ha sido aún bien examinado con este objeto. La posición relativa de Panamá y Portobelo no está exactamente determinada... pero es evidentemente imposible hacer un canal en este punto, capaz de admitir navíos del buque necesario para atravesar el Atlántico y Pacífico. Mr. Humboldt indica otro más cómodo para la comunicación de los dos mares, en la bahía de Cupica. Esta bahía, que ni aún está señalada en ninguna de las cartas de la América del Sud, está entre el Cabo de San Miguel y Cabo Corrientes. Entre Cupica y el río Naipi donde empieza a ser navegable, hay una distancia de cinco a seis leguas, por un terreno bajo y llano, muy a propósito para un canal. El río Naipi termina en el río Atrato, o río Darién... Entre la bahía de Cupica y el río Atrato, está el solo punto de la América meridional en que se interrumpe la cadena de los Andes. Cupica es una pequeña bahía y puerto, y el país que la rodea abunda en excelente madera de construcción. [Il Golfo di Panamá, più volte raccomandato per aprire un canale fra i due mari, non è stato ancora esaminato attentamente a questo fine. La posizione relativa di Panamá e Porto Bello non è stata determinata con esattezza... tuttavia è chiaramente impossibi-


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governatore della regione, avviasse l’esame delle alternative: El Libertador... se ha servido previamente diga a Ud que haga trazar el canal por la parte del Istmo que separa los dos ríos y solo tiene tres millas, en un terreno de cascajo y greda deleznable. Que haga usted abrir picas y ponerle corriente hacia los demás puntos en donde pueda también abrirse el canal o se haya reputado fácilmente para apertura. Que encargue Ud a Jamaica los instrumentos necesarios para esta operación, los que se pagarán por cuenta del Gobierno, pues su S.E. estará para este mes de octubre en el Chocó y está resuelto a ejecutar la útil empresa de unir los dos mares. [Il Libertador mi ha incaricato di dirle che faccia tracciare il canale in quel punto dell’istmo che separa i due fiumi e ha solo tre miglia, in un terreno di ghiaia e argilla sottile. Faccia scavare fossati e scorrere acqua verso gli altri punti ove sembri che si possano aprire facilmente canali alternativi. Ordini a Giamaica gli strumenti necessari all’operazione, che saranno pagati per conto del governo. Il Libertador si recherà nel Chocó in ottobre ed è deciso a metter mano a quest’utile impresa di unire i due mari].33

Poco tempo dopo, il Libertador volle interpellare il colonnello Kirkland, che si premurò di rassicurarlo circa la validità della rotta chocoana. Benjamin Morrell, che s’imbattè in Kirkland a Panamá, non ne rimase del tutto convinto:

188. Ritratto di Simón Bolívar.

le costruire un canale in questo punto che consenta il transito di navi di stazza sufficiente alla traversata Atlantico-Pacifico. Humboldt segnala un altro punto più adatto alla comunicazione dei due mari nella baia di Cupica. Questa insenatura, che fino ad ora non appare in nessuna carta dell’America del Sud, rimane fra il Cabo San Miguel e il Cabo Corrientes. Fra Cupica e il fiume Naipi [o Napipí] dove comincia a essere navigabile c’è una distanza di cinque o sei leghe, attravero un terreno basso e pianeggiante, molto appropriato ad un canale. Il fiume Naipi sfocia nel fiume Atrato, detto Darién... fra la baia di Cupica e l’Atrato si trova l’unico punto dell’America meridionale in cui la catena delle Ande s’interrompe. Cupica è una piccola baia ed un porto e l’entroterra è ricco di ottimo legname da costruzione].32

Ammiratore di Humboldt, consapevole dei vantaggi derivanti dall’apertura di un canale navigabile nel Chocó, Simón Bolívar ne affidò gli studi di fattibilità a ingegneri neogranadini e stranieri. Nel 1820 dettò precise istruzioni affinchè José María Cancino,

32 Exámen de la obra intitulada Essai Politique sue le Royaume de la Nouvelle Espagne, par Alexandre de Humboldt, Paris 1808-1809 in “El Español”, IV, 1810, pp. 293-294. 33 Cfr. D.F. O’Leary, Memorias del General O’Leary. Cartas del Libertador, 1981, XIX, p. 170. Il testo completo della missiva di Bolívar a Cancino dice: “He tenido el honor de recibir el oficio de usted, del 25 de enero oeltimo, del San Pablo, y dar cuenta de el a S.E. El Libertador, quien se ha servido previamente diga a Ud que haga trazar el canal por la parte del Istmo que separa los dos ríos y solo tiene tres millas, en un terreno de cascajo y greda

I am quartered with the somewhat celebrated Colonel Kirkland, projector of the canal to unite the two oceans. He is a very intelligent man, but does not appear to entertain correct views relative to the arrangement of the project. He discards in toto the idea of a canal across this section of the Isthmus [Panamá-Portobelo]. His location is easterly, commencing at the Atrato, on the Caribbean, or Atlantic side, and connecting it with St. Juan, which empties into the Pacific (...) Humboldt says that at extraordinary season both rivers have been conjoined, and thus the Atlantic and the Pacific have been often united (...) Kirkland does not agree with me in my views, although he offers nothing decidedly in confutation. [Sono accampato assieme al colonnello Kirkland, piuttosto famoso per aver progettato il canale per unire i due mari. È un uomo molto intelligente, ma non sembra avere idee esatte circa la messa a punto del progetto. Scarta del tutto la possibilità di un canale attraverso questa sezione dell’istmo. La sua rotta è più a Est, iniziando dall’Atrato, lato Caraibi o Atlantico che dir si voglia, e congiungendolo con il San Juan, che si getta nel Pacifico... Humboldt dice che in certi momenti dell’anno i due fiumi sono stati posti in comunicazione, e con essi l’Atlantico e il Pacifico... Kirkland non condivide le mie opinioni, ma non offre alcunché per confutarle].

Morrell non poteva capire perché mai il colonnello fosse così reciso nello scartare la rotta di Panamá a favore di un canale fluviale nel Darién.

deleznable. Que haga usted abrir picas y ponerle corriente hacia los demás puntos en donde pueda también abrirse el canal o se haya reputado fácilmente para apertura. Que encargue Ud a Jamaica los instrumentos necesarios para esta operación, los que se pagarán por cuenta del Gobierno, pues S.E. estará para este mes de octubre en el Chocó y está resuelto a ejecutar la útil empresa de unir los dos mares. Y espera para cuando llegue ya Ud habrá hecho cuanto le proviene arriba, habrá tomado noticias ciertas, informes exactos y prolijos y circunstanciados de cuanto es necesario para esta importante obra, consultando a los prácticos de los lugares”.


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Eppure avrebbe dovuto capirlo... visto che non ignorava che Kirkland aveva richiesto al Congresso della Nuova Granada una licenza esclusiva di sfruttamento a proprio nome riguardante appunto il collegamento fra i fiumi Atrato e San Juan.34 Anche Wolfgang Goethe manifestò curiosità e interesse nei confronti d’una comunicazione marittima fra l’Atlantico e il Pacifico. Amico di Humboldt, ne riconosceva la statura scientifica e ne apprezzava i propositi, in particolare, gli sforzi tesi a convincere le potenze europee circa la necessità e la fattibilità del canale. Riferendosi alla preferenza del barone per la rotta Cupica-Napipí-Atrato, Goethe ebbe a dire: «Dando prova di grande sapere, Humboldt ha indicato luoghi dove, sfruttando il corso di certi fiumi che sfociano nell’Atlantico, forse si raggiungerebbe l’obbiettivo [il canale] ancor più facilmente che [attraverso lo stretto di] Panamá». Il poeta era sicuro che «se un giorno si fosse scavato un canale adeguato al transito fra i due oceani di navi di qualsiasi stazza e pescaggio, da un’opera siffatta sarebbero derivati benefici per l’umanità intera...». Goethe pronunciò queste frasi il 21 febbraio 1827, nel corso di una delle tante conversazioni con Johann Peter Eckermann. L’autore del Faust riprese il filo del discorso con una riflessione che offre una prova della sua lungimiranza e che, alla fin fine, apre il penultimo capitolo della storia del canale: Mi sorprenderebbe se gli Stati Uniti si lasciassero sfuggire l’opportunità di metter mano a un’impresa del genere. È prevedibile che una nazione così giovane e proclive all’Occidente, nel giro d’una trentina d’anni avrà occupato e popolato le vaste regioni al di là delle Montagne Rocciose. Vi è anche da prevedere che lungo il litorale del Pacifico, dove la Natura ha creato porti grandi e sicuri, si stabiliranno poco a poco importantissimi empori mercantili, onde servire da intermediari ai traffici a grande scala fra la Cina, le Indie Orientali e gli Stati Uniti. Ma in tal caso sarebbe non solo opportuno, ma perfino necessario che tanto le navi da carico come quelle militari disponessero fra la costa orientale e occidentale del Nordamerica di una comunicazione più spedita di quella che ora è affidata ad una navigazione lunga, tediosa, scomoda e costosa, attorno a Capo Horn. Ebbene, ripeto che per gli Stati Uniti è indispensabile aprire un passaggio fra il golfo del Messico e l’oceano Pacifico, e non ho dubbi che vi riusciranno. Vorrei che Dio mi desse vita per vederlo, ma non lo vedrò... quantunque, con la prospettiva d’un evento simile, varrebbe la pena resistere una cinquantina d’anni in più.35

34

L’interesse dimostrato da Bolívar nei confronti del canale transoceanico (forse acceso dalle ottimistiche conclusioni di Humboldt) si affievolì notevolmente quando si rese conto che l’impresa richiedeva capitali di cui la Nuova Granada non disponeva. Vi erano investitori anglo-americani disposti a finanziare l’opera, ma per ragioni venali, non certo per il bene della fiammante repubblica. Costoro cercarono di ottenere l’appoggio sia del vicepresidente Santander che dello stesso Bolívar. Quest’ultimo, con una fermezza ed un’onestà più uniche che rare, si rifiutò di venire a patti con speculatori. Scrisse in proposito a Santander: “Después de haber meditado mucho cuanto Ud. me dice, me ha parecido conveniente no sólo no tomar parte en el asunto, sino

189. Ritratto di Wolfgang Goethe.

La predizione di Goethe era destinata ad avverarsi, non solo per l’importanza economica e strategica rivestita dal canale, ma anche per una questione di principio, questione che fu formulata esemplarmente da Herman Melville: And we Americans are the peculiar, chosen people, the Israel of our time... God has predestinated, mankind expects, great things from our race; and great things we feel in our souls. The rest of the nations must soon be in our rear. We are the pioneers of the world; the advance-guard, sent on through the wilderness of untried things, to break a new path in the New World that is ours. In our youth is our strength; in our inexperience, our wisdom. And let us always remember that with ourselves, almost for the first time in the history of earth, national selfishness is unbounded philanthropy; for we can not do a good to America but we give alms to the world [Noi americani siamo il popolo eletto, l’Israele dei nostri tempi... Dio ci ha predestinati, l’umanità attende grandi cose dalla nostra razza; e

que me adelanto a aconsejarle que no intervenga Ud. en él. Yo estoy cierto que nadie verá con gusto que Ud. y yo, que hemos estado y estamos a la cabeza del gobierno, nos mezclemos en proyectos puramente especulativos, y nuestros enemigos, particularmente los de Ud. que está más inmediato, darían una mala interpretación a lo que no encierra más que el bien y la prosperidad del país. Esta es mi opinión con respecto a lo que Ud. debe hacer y, por mi parte, estoy bien resuelto a no mezclarme en este negocio, ni en ninguno otro que tenga un carácter comercial”. Cfr. V. Lecuna, Cartas del Libertador, Caracas, 1947, XI, p. 314. 35 J.P. Eckermann, Gespräche mit Goethe, Leipzig, 1836 -1848. Conversazione in data 2 febbraio 1827.


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190. Allegoria del Destino Manifesto, 1872.

noi sentiamo grandi cose gonfiarci il petto. Il resto delle nazioni sarà presto alle nostre spalle. Noi siamo i pionieri del mondo, l’avanguardia inviata nella landa selvaggia delle cose intoccate ad aprire un nuovo cammino verso il Nuovo Mondo, che è il nostro. Nella nostra gioventù risiede la nostra forza; nella nostra inesperienza, la nostra saggezza. Non dimentichiamoci mai che grazie a noi, quasi per la prima volta nella storia della terra, l’interesse nazionale equivale a sconfinata filantropia: perché noi non ci limitiamo a fare il bene dell’America ma offriamo sollievo al mondo].36

Nell’Ottocento gli americani del Nord si riferivano al canale come al ‘sogno dei tempi’ (“the dream of the ages”). Per fare in modo che si materializzasse, era imprescindibile che gli Stati Uniti capeggiassero l’impresa, scegliendo il luogo, elaborando il progetto, presiedendo all’esecuzione e – una volta completato il canale – amministrandolo e controllandolo. Nell’esporre questo punto di vista, il presidente Hayes proclamò: It is the right and duty of the United States to assert and maintain such a supervision and authority over any inter-oceanic canal across the Isthmus that connects North and South America as will protect our National interests. [È un diritto e un dovere degli Stati Uniti stabilire e mantenere detto controllo e autorità su qualsiasi canale transoceanico attraverso l’istmo che colleghi il Nord e il Sud America e protegga i nostri interessi nazionali].37

36

Herman Melville, White-Jacket or the World in a Manof-War, London, 1850, I, pp. 238-239. 37 Messaggio del presidente R.B. Hayes al Congresso, 8

In rapporto agli interessi nazionali degli Stati Uniti, il fatto che l’istmo appartenesse alla Nuova Granada, una repubblica indipendente e sovrana, era trascurabile. Hayes era certo che il giovamento, o se si vuole, il buon diritto del suo paese avrebbe finito per prevalere, e ciò perché era inseparabile dal progresso dell’umanità: “I am quite sure will be found not only compatible with, but promotive of, the widest and most permanent advantage to commerce and civilization”. Per il bene del commercio e della civiltà, il canale avrebbe dovuto essere neutrale, anche a costo della sospensione della sovranità della nazione a cui fosse appartenuto l’istmo che avrebbe attraversato. A difesa della neutralità, “the canal should be fortified by the United States”, non solo ma “United States should use the canal for itself in time of war, while closing it impartially to the war vessels of other belligerants”.38 Gli Stati Uniti avevano una missione: portare a compimento il loro “Manifest Destiny”, cioè l’espansione su scala continentale dei loro confini e dei loro valori. Il canale costituiva una tappa significativa in tale direzione, sempre e quando se ne fosse garantita in via preliminare la neutralità. Era pur vero che essa avrebbe beneficiato la ‘confederazione del Nord’, ma non era meno vero che l’America era degli americani... ovvero, di quella repubblica il cui destino, similmente a quello del popolo d’Israele, era stato deciso marzo 1880, cfr. A compilation of the messages and papers of the Presidents, VII, 2, pp. 4537 e ss. 38 Ibid.


205

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191. A. Codazzi, Carta corografica della regione Darién-Panamá (estado de Panamá).

dall’Onnipotente. Nel “Manifest Destiny” si fondevano gli interessi di tutti gli americani: la convenienza nazionale, il tornaconto dei singoli us citizens e non da ultimo il giovamento delle popolazioni a sud del Río Grande... che si sarebbero avvantaggiate delle virtù del Nord. Un esempio delle conseguenze di una simile concezione è costituito dalle vicende che portarono alla scelta del tracciato del canale. Fra coloro che esaminarono la questione al di fuori dell’ottica delle grandi potenze, con indipendenza di giudizio e rigore scientifico, figura il nostro eroe. Nel capitolo precedente l’abbiamo seguito lungo l’Atrato fino all’imboccatura del fiume Quito, indi l’abbiamo visto attraversare l’Ombligo di San Pablo ed imboccare il fiume San Juan. Da ultimo, l’abbiamo accompagnato nel Chocó, quando vi tornò per verificare la fattibilità d’un canale lungo le rotte suggerite da Humboldt. La posizione di Codazzi rispetto a quest’ultimo si basa su due presupposti: una straordinaria capacità di osservazione ed un senso pratico altrettanto sviluppato. Ad essi va aggiunta la lealtà verso le sue repubbliche. Italiano di nascita ma americano per scelta, Codazzi fu fedele ad oltranza ai paesi che gli offrirono asilo, ne adottò la lingua e, quando fu chiamato a farlo, si eresse a difesa della loro sovranità. Non rinunciò mai alle prerogative d’un «cittadino decente»: un cittadino partecipe, idealista ed allo stesso tempo estraneo alla retorica patriottica e al populismo; un cittadino al di là dei confini e delle passioni nazionalistiche: insomma, un ‘americano’ nel senso di uomo ‘libero’ e ‘nuovo’. Benché riconoscesse negli Stati Uniti un impareggiabile modello di progresso civile ed economico, ne detestava l’atteg-

giamento arrogante nei confronti delle repubbliche del Sud. In quanto uomo di scienza, propendeva a Nord, ma la sua bussola intima volgeva al Tropico... e ciò benché temesse di ‘tropicalizzarsi’. Aveva per la conoscenza un apprezzamento sconfinato – ed era conscio che la conoscenza poteva dirsi fondata se critica, valida se comprovata empiricamente – ma in più “amaba a estas repúblicas como a su patria”. Le virtù umane e scientifiche del lughese emergono esemplarmente dalla sua partecipazione alla famigerata spedizione nel Darién del 1854. Organizzata da americani, inglesi e francesi con il consenso obbligato del governo neogranadino, la spedizione aveva lo scopo di confermare quanto affermato da Edward Cullen, viaggiatore irlandese, circa la possibilità di aprire una comunicazione transoceanica fra la baia di Caledonia (in prossimità dell’antica Acla) e il golfo di San Miguel. Negli anni precedenti, Cullen, viaggiando per proprio conto, aveva attraversato agevolmente lo stretto più d’una volta: Not satisfied with crossing the isthmus once only in 1849, I returned again from the Atlantic to the Pacific, having cut a picadura, or track, for myself through the bush, from Port Escoces to the river Savana, which I navigated always, except on one occasion, alone, paddling myself in a little canoe. In 1850 I again crossed and recrossed this part of the isthmus, and again in August and September, 1851. I several times, and in different lines, crossed from the Savana River to the sea beach on the Atlantic, notching the barks of the trees as I went along with a machete or cutlass. [Non contento di aver attraversato l’istmo una prima volta nel 1849, vi tornai di nuovo passando dall’Atlantico al Pacifico, aprendo all’uopo un sentiero nella foresta, da Puerto Escocés al fiume Sabana, corso d’acqua nel quale, tranne in un caso, navigai sempre da solo su una piccola


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l’orizzonte in fuga

In ragione del promettente risultato di questi viaggi, a Londra sorse The Atlantic and Pacific Junction Company, con la finalità statutaria di tradurre in realtà “the navigation through the Istmus of Darien without locks”. Nel 1852, su incarico della Compagnia, l’ingegner Lionel Gisborne si recò nel Darién sia per verificare le informazioni di Cullen che per studiare in proprio la fattibilità d’un canale. Le risultanze di Gisborne vennero inserite in un libro che Cullen pubblicò l’anno dopo per conto della Junction Company.40 La rotta prescelta per il canale avrebbe dovuto tagliare lo stretto in un punto “which is believed not to have been traversed by any European for two centuries”. Gisborne l’aveva percorsa passo passo accertando “beyond doubt, that between the

Bay of Caledonia on the Atlantic, and the Gulf of San Miguel on the Pacific, there is a distance of only thirty miles between deep water on either side, consisting of land generally level, which in no case is of considerable elevation...” [al di là d’ogni dubbio, che fra la Baia di Caledonia sull’Atlantico e il Golfo di San Miguel sul Pacifico, la distanza è di sole 30 miglia fra mare e mare, costituite generalmente da terra pianeggiante, in nessun caso molto elevata]. Esistevano varie alternative costruttive, “the most costly, but most effectual of which was, to construct an open channel between the two oceans... which can be executed in five years from the date of commencement, at a cost not exceeding Twelve Million [sterline]” [la più costosa nonché la più effettiva delle quali era costruire un canale aperto fra i due oceani... costruzione realizzabile in cinque anni dall’inizio lavori ad un costo non superiore a 12 milioni di sterline].41 Oltre alla Gran Bretagna, erano interessati al progetto gli Stati Uniti e la Francia. Per verificarne una volta per tutte i presupposti, le tre potenze approntarono un’ispezione internazionale a carico di Cullen, Gisborne e un gruppo di ingegneri civili e militari statunitensi. Era previsto che i membri della spedizione percorressero la rotta Baia di Caledonia-Golfo di San Miguel nei due sensi, gli uni partendo dal litorale atlantico, gli altri dal pacifico. Codazzi prese parte all’operazione in qualità di geografo e rappresentante del governo neogranadino. Raggiunse la Baia di Caledonia il 22 gennaio 1854 a bordo di una goletta britannica e in men che non si dica si rese conto che i capi della spedizione, gli anzidetti Cullen e Gisborne, erano non solo incompetenti ma anche degli impostori. “El ingeniero inglés Gisborne se peló completamente – scrisse il cartografo alla moglie – y el doctor Cullen es un solemne embustero.”42 Prima di partire da Bogotá, l’italiano si era premurato di vagliare l’archivio cartografico coloniale, facendosi dell’orografia del Darién un’idea ben diversa dalla loro. Giunto nello stretto poté verificarla : “Todo lo que yo decía en Bogotá ha salido al pie de la letra. Hay una cordillera que pasar que no es tan baja, y luego de atravesar el río Chucunaque, luego una llanura para llegar al río Sabana” [Ciò che andavo dicendo a Bogotá si è verificato punto per punto. Per arrivare al fiume Sabana bisogna attraversare una catena montuosa neanche tanto bassa e poi attraversare il fiume Chucunaque ed infine una pianura].43 A quel punto, non v’era altra speranza “que de encontrar un

39 R. Fitzroy, On the Great Isthmus of Central America, in “Journal of the Royal Geographical Society”, XX, 2, pp. 171-190. Cfr. supra. Humboldt rimase dell’idea che la rotta migliore per l’apertura di un canale transoceanico fosse quella Cupica-Napipí-Atrato, una convinzione alla quale si afferrò quantunque non avesse esplorato personalmente la regione. La lettera qui riportata, datata 12 agosto 1851, è particolarmente significativa: “Malgré mon áge antédiluvien, j’ai conservé le courage de mes opinions. Je désirerois bien que vous puissiez faire parvenir l’hommage de ma vive reconnaissance à M. Le Capitaine Robert Fitzroy, pour la bienveillance qu’il m’a marquée dans son intéressant Memoire [“On the Great Isthmus...”] à l’égard de mes plus anciennes inspirations

sur le port de Cupica et le Rio Napipi. Il croit que j’ai deviné juste (...) Il est triste de voir qu’on hasarde de grandes sommes d’argent, et commence à couper des canaux, avant d’avoir examiné et soumis à des mesures astronomiques et hypsométriques les autres points dont la localité a été désignée par moi dès l’année 1810. La vérité se fait jour avec lenteur”. Citato da Fitzroy, op.cit. 40 Edward Cullen, Isthmus of Darien Ship Canal, London, 1852. 41 Citato da Cullen, op.cit. 42 Lettera del 10 febbraio 1854, citata da A. Soriano Lleras, Itinerario dela Comisión Corográfica, Bogotá 1968, p. 72. 43 Ivi, p. 73.

192. Mappa della baia di Caledonia (o Nuova Caledonia), 1699.

canoa. Nel 1850 attraversai e riattraversai nuovamente questa parte dell’istmo, e ancora una volta fra agosto e settembre 1851. In più occasioni percorsi il tragitto dal Sabana fino al litorale dell’Atlantico, incidendo la corteccia degli alberi lungo il percorso con il machete].39


5

lunga é la via

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193. La spedizione del Darién s’incammina, 1854.

punto bajo en la cordillera”, speranza che venne svanendo rapidamente: “Temo mucho que [no] sea realizable la empresa y te aseguro que no quisiera estar en el pellejo de Gisborne y menos de Cullen, si esta gente tiene vergüenza”. [Temo proprio che l’impresa non sia realizzabile e ti assicuro che non vorrei trovarmi nei panni di Gisborne e ancor meno di Cullen, sempre che questa gente abbia il senso del pudore].44 Fino a che punto potessero arrivare l’incoscienza e la presunzione degli esploratori europei incaricati d’una missione fra le più importanti dell’Ottocento, risulta da un’altra lettera del lughese: Una partida de 23 hombres entre marineros y oficiales [agli ordini del capitano John O. Prevost] de un vapor Inglés que estaba en el Pacífico entraron por el río Sabana (...) gastaron 13 días para hacer (a mi modo de ver) solamente 7 leguas. Dejaron 4 hombres solos en la orilla del Chucunaque con algunos víveres y al regreso los encontraron asesinados por los indios (...) Esta partida se ha pelado también creyendo que de un cerro en donde subieron habían visto el mar Atlántico. En el punto en que estaban no podían verlo y una niebla de las que cubren orizontalmenre nuestras selvas les pareció el mar... para eso [vederlo] necesitaban ellos caminar todavía abriendo pica 6 días cuando menos”. [Un plotone di 23 uomini fra marinai e ufficiali di un piroscafo inglese ancorato sul versante del Pacifico risalirono il fiume Sabana... impiegarono 13 giorni per percorrere, secondo me, non più di 7 leghe. Lasciarono

44

Ivi, p. 76. Ivi, p. 74. 46 Il Trattato Clayton-Bulwer fu stipulato fra l’Inghilterra e gli Stati Uniti nel 1850, allo scopo di stabilire un accordo riguardo alle reciproche mire sull’America Centrale; ciò in vista 45

quattro uomini da soli sulle sponde del Chucunaque con alcuni viveri e al ritorno li ritrovarono uccisi dagli indios... Sbagliarono anche nel credere che da un’altura che avevano scalato avevano visto l’oceano Atlantico. Da quel punto non potevano vederlo, ciò che parve loro il mare era una di quelle nebbie che spesso ricoprono orizzontalmente le nostre foreste... per poterlo vedere avrebbero dovuto marciare aprendosi un cammino per almeno altri sei giorni].45

L’immodestia causò altre sciagure. Contravvenendo all’ordine di marcia, gli americani si erano addentrati nell’istmo senza aspettare gli altri, intenzionati a raggiungere per primi la sponda pacifica. Erano 27 al comando del giovane capitano Isaac Strain. Audace e ambizioso, Strain credeva nella ‘dottrina Monroe’, cioè nella supremazia degli Stati Uniti riguardo alle cose americane. L’istmo rientrava negli interessi del suo paese, quindi era importante riaffermarne il dominio (ad onta del trattato BulwerClayton che ne sanciva la neutralità).46 Ma i membri della spedizione si persero e vagarono per due mesi nella selva, stremati e sofferenti. Alcuni morirono di stenti, altri di affezioni varie. “Su jefe [il capo-spedizione Strain] – annota Codazzi – infortunadamente no estaba familiarizado con la geografía del istmo, pese a ser hombre bien informado, fuerte y valiente”. Il governo americano l’aveva messo a capo della missione dell’apertura di un canale transoceanico. Da un lato esistevano le colonie britanniche, dall’altro gli interessi statunitensi. La sovranità e le rivendicazioni territoriali delle repubbliche centroamericane non vennero prese in considerazione. Comunque, il trattato scontentò tutti.


l’orizzonte in fuga

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194. Veduta di Panamá, fine Ottocento. litogr.

perché già in precedenza aveva attraversato foreste popolate da tribù selvagge, tuttavia... “tales selvas eran norteamericanas”, ben diverse da quelle equinoziali. Strain, prosegue il lughese, non conosceva la giungla, “sus intricadas y enmarañadas sendas y sus habitantes”. Il capitano dell’ US Navy – conclude – «era convinto che passare da un mare all’altro fosse facile, e ciò perché nulla di quanto credeva corrispondeva al vero».47 Strain ne era convinto perché nemmeno il Darien Gap – secondo lui – avrebbe potuto deviare destino del suo paese. Codazzi informò il governo neogranadino che un canale lungo la rotta CullenGisborne era pressoché irrealizzabile: La obra requeriría excavar, a lo largo de muchas leguas, angostos desfiladeros en la montaña. En la mitad del trayecto corre el torrentoso Chucunaque, que inevitablemente ha de desembocar en el canal, lo que constituye un gran obstáculo, ya que este río, que tan solo atraviesa selvas vírgenes, arrastra en sus aguas grandes masas de tierra y troncos de árboles que arranca de las orillas, lo que representa graves peligros. Claro que no sería imposible realizar aqui tan gigantesca obra, pero causaría gastos enormes, que no acabarían con las dificultades presentes. [L’opera richiederebbe scavare lungo molte leghe stretti passaggi fra le montagne. A metà strada scorre il Chucunaque, un corso d’acqua a regime torrentizio che deve per forza di cose sfociare nel canale e che rappresenta un notevole ostacolo, dal momento che nell’attraversare foreste ancora vergini, trascina con sé grandi volumi di terra e trochi d’albero che strappa dalle

47

Lettera citata in H. Schumacher, Codazzi, un forjador de la cultura, Bogotá, 1988, p. 198. 48 Citato da Schumacher, ivi p. 199.

sponde, cosa molto pericolosa. Realizzare un’opera così gigantesca non sarebbe impossibile, ma provocherebbe spese enormi, che non metterebbero fine alle attuali difficoltà].48

Ad onta del parere avverso di Trautwine, Porter e Lane, concordi nell’affermare che “no ship canal could be constructed from the head-waters of the Atrato to the Pacific”, fino al 1874 gli americani continuarono ad insistere che il miglior tracciato della “longdesired junction of the Atlantic and Pacific” passava attraverso il Chocó. Un susseguirsi di esplorazioni e misurazioni sfociarono in un progetto che prevedeva il collegamento dei fiumi Truando e Napipí mediante un sistema di chiuse e un tunnel di almeno cinque chilometri di lunghezza e quaranta metri di altezza scavato nella roccia viva. Alla fine, la commissione incaricata dell’esame ufficiale delle rotte rivali raccomandò “as the most favorable of the two” quella che avrebbe attraversato il Nicaragua. In quanto a Panamá, l’opinione era che l’istmo avesse «caratteri fisici tali da non ammettere la costruzione di un canale entro i limiti della convenienza commerciale». Il giudizio di Edward W. Serrell, ingegnere-topografo militare esperto in canalizzazioni,49 fu drastico: La notevolissima lunghezza attraverso la base dello spartiacque di questa regione [Panamá], unitamente al fatto che non esistono risorse adeguate ad un livellamento della som-

49

Edward Serrell fece parte della Panamá Survey del 1848 e a lui si deve l’individuazione del tracciato della ferrovia Panamá-Aspinwall.


lunga é la via

195. A. Codazzi, Carta preparatoria della regione di Panamá (Chiriquí), 1854.

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l’orizzonte in fuga

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mità e ad un sistema di chiuse, qualora venissero contemplate, porta necessariamente ad escludere per sempre la possibilità di collegare i due oceani attraverso un canale di comunicazione artificiale in questo punto, ad onta della sua grande importanza commerciale e nonostante le attrezzature esistenti per il mantenimento della ferrovia [Panamá-Aspinwall].

La commissione esaminatrice si attenne a questo parere e non prese nemmeno in considerazione la rotta panamense. Fallita la spedizione nel Darién, fra marzo e luglio del 1854 Codazzi esplorò l’istmo di Panamá, compresa la zona settentrionale di Chiriquí (v. fig. 195). La costruzione della ferrovia era molto avanzata (anche se in ritardo di due anni sulla tabella di marcia), per cui potè percorrere in treno parte dello stretto. Questo viaggio gli consentì di osservare la geografia panamense da una prospettiva del tutto nuova e, per così dire, moderna. La ferrovia stava a dimostrare che l’ingegneria era capace di dominare la natura, ma a condizione che l’uomo stabilisse con essa una sorta di accordo previo. E tale accordo non poteva basarsi se non sulla conoscenza, e questa sull’umiltà. La lucidità di Codazzi derivava da una concezione non superba del progresso umano, os-

50

Citato da Schumacher, op.cit., p. 203.

sia, non indifferente ai condizionamenti naturali. Al pari dell’ingegneria, l’economia esigeva che l’uomo avanzasse guidato dalla ragione, dall’esperienza e dal senso critico. L’italiano non esitò a concludere che la rotta del canale transoceanico avrebbe dovuto seguire quella della linea ferroviaria, dal momento che “es aquella que más se presta para la comunicación como la requiere el comercio, por ser más estrecho el Istmo y su mayor elevación de sólo 150 pies”.50 Il teorema di Codazzi era facilmente dimostrabile: malgrado ciò le mire delle grandi potenze (in particolare gli interessi degli investitori nordamericani) puntavano in un’altra direzione. Il lughese concluse il rapporto sui risultati delle proprie esplorazioni esprimendo la certezza che se un giorno un canale avesse congiunto i due oceani, avrebbe attraversato lo stretto all’altezza di Panamá. Ma, a costo di deludere le attese del governo neogranadino, ci tenne a precisare: ”No creo que sea una obra que pueda ver realizada ni esta generación ni la que sigue”. Una chiusa realistica, coerente con i principi di un uomo che non smise mai di seguire il cammino marcato dalla scienza e dal senso del dovere.51

51

Ivi.


lunga ĂŠ la via

196. Costruzione del Canale di PanamĂĄ, stampa tardo ottocentesca.

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197. Coloni europei nell’America tropicale, stampa ottocentesca.


un posto al sole

Oltre che conoscenza ed impegno, alla base del lavoro scientifico e dell’azione sociale di Codazzi è ravvisabile un forte senso critico. Soprattutto dopo il suo trasferimento forzato nella Nuova Granada, avvenuto nel 1849, il pessimismo della ragione lo portò su posizioni discordanti sia da quelle dell’élite politica locale che da quelle dei viaggiatori stranieri. Mutò in particolare il suo modo di valutare i problemi legati all’immigrazione europea nei paesi tropicali, da molti dipinta, a volte in mala fede, come una panacea. Il pensiero economico-politico di Codazzi traspare da una lettera indirizzata a Victoriano Paredes nel dicembre del 1850, apparsa a stampa sulla bogotana “Gaceta Oficial” sotto il titolo Apuntamientos sobre inmigración y colonización.1 In essa si fa riferimento al pauperismo, all’ingiusta distribuzione della ricchezza, ai tumulti sociali scatenati da quest’ultima («ogni volta più gravi e profondi»), alla gravità dei problemi posti dalla miseria e alle soluzioni additate

1

Victoriano Paredes, allora ministro degli esteri della Nuova Granada, si era rivolto a Codazzi per averne lumi circa la possibilità di convogliare un flusso emigratorio europeo verso il suo paese. Codazzi, che era giunto a Bogotá nella primavera del 1849 in fuga dal Venezuela, era stato nominato direttore del Collegio Militare (Escuela de Ingenieros) e capo della Comisión Corográfica nazionale. Nella capitale neogranadina fece la conoscenza di Manuel Ancízar, poi divenuto membro de la Comisión. Ancízar aveva fatto parte del governo del presidente Cipriano Mosquera in qualità di ministro degli esteri. In tale qualità nel 1847 aveva disegnato una legge intesa a favorire l’immigrazione europea (legge del 2 giugno 1847 “sobre inmigración de extranjeros”), rivelatasi presto velleitaria. Cfr. F. Martínez, “Apogeo y decadencia del ideal de la inmigración europea en Colombia, siglo XIX”, in “Boletín Cultural y Bibliográfico”, BLAA, 44, Bogotá, 1997.

dagli economisti socialisti. Codazzi non si addentra in tali questioni né, ancor meno, si schiera ideologicamente; tuttavia, formula giudizi e avvia progetti che ne mettono in luce, se non una decisa tendenza socialista, il progressismo di fondo. Sul piano pratico la sua posizione è inequivocabile, ma non vi sono prove di una coscienza equivalente a livello teorico e politico, a meno che non se ne colga la manifestazione nel suggerimento al governo neogranadino di distribuire gratuitamente fra i contadini locali terre in abbandono (baldíos) al fine d’incrementare la produttività agricola e favorire l’espansione demografica.2 Le speculazioni terriere degli dei ricchi possidenti creoli, favorite dal laissez-faire della classe politica, avevano permesso loro di appropriarsi, a fini meramente lucrativi, di grandi estensioni di territorio nazionale. Sulla scia dell’esempio nordamericano, il guadagno consisteva nel rivendere via via tali terreni ad agenti immigratori, che a loro volta li parcellizzavano consegnandoli ai coloni stranieri ad un prezzo

2

La concessione di terre ai coloni stranieri fu sancita per legge dal Congresso di Cúcuta nel 1823 (legge 13, 11 giugno 1823). Vennero messe a disposizione di costoro 3 milioni di fanegadas (6400 mq) frazionabili in appezzamenti di 200 fanegadas per ogni ceppo famigliare (Ancízar ridusse le dimensioni dei lotti a 10 fanegadas a persona). La novità della proposta di Codazzi consisteva nel trasferimento di tale beneficio dagli immigrati europei ai contadini neogranadini, appartenenti nella loro totalità alla popolazione nativa, composta da indigeni, meticci ed altri mezzo-sangue. Qualora fosse stata messa in pratica, un’iniziativa del genere avrebbe comportato una sorta di rivoluzione etnica e sociale, rivoluzione che nessun governo criollo sarebbe stato disposto ad accettare. La questione della riforma agraria, ancora irrisolta in diversi paesi latinoamericani, è a tutt’oggi fonte di sperequazioni e sottosviluppo.


l’orizzonte in fuga

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198. Imbarco di emigranti nel porto di Le Havre, stampa ottocentesca.

attraente. Questo meccanismo aveva un doppio effetto negativo: da un lato creava attese illusorie nei nuovi arrivati, dall’altro, ancor più grave, escludeva dallo sfruttamento della terra il contadinato povero del paese. La critica del lughese a detto schema non è frutto di convinzioni radicali. Dall’esperimento della Colonia Tovar, anteriore di qualche anno all’apparizione degli Apuntamientos, si deduce che egli non credeva in utopie collettivistiche bensì in soluzioni che potremmo definire ‘cooperativistiche’, a suo giudizio le più rispondenti sia alle attese degli emigranti che ai piani di sviluppo delle nuove repubbliche. Le ‘cooperative’ o ‘colonie’ garantivano l’autonomia dei singoli membri, a patto però che le iniziative individuali rientrassero nei piani tracciati dall’entrepreneur, d’accordo con i propositi del governo. Se pro-

gettate con lungimiranza e dirette con fermezza, esse sarebbero state in grado di soddisfare tre obiettivi: la prosperità dei coloni, il profitto dell’impresario e il progresso della nazione. Nell’abbozzare i lineamenti di un insediamento straniero nella regione montuosa di Aragua, in Venezuela, il lughese si figurò una comunità evoluta e razionalmente organizzata, dedita allo sfruttamento agricolo, a fine remunerativo, di terre selvatiche. Radunò emigranti tedeschi provenienti da Endingen, nel Baden, appunto perché parevano incarnare un gruppo civilmente costituito, cioè, solidale, disciplinato e laborioso.3 Purtroppo, all’atto pratico la pretesa civiltà europea si sciolse come neve al sole, mettendo a nudo caratteri individuali e collettivi ben diversi da quelli pronosticati.4 Di fatto, il clima esercitò sugli

3 Un gruppo, non da ultimo, bianco. Benché Codazzi non lo chiami in causa, il fattore razziale era legato a doppio filo alle politiche immigratorie dei paesi sudamericani. La finalità di “blanquear” la popolazione, ovvero, d’incrementare il numero dei bianchi, era intrinseca a tutti i progetti e non era meno importante degli obiettivi economici. Si veda F. Martínez, op. cit. 4 Sulla filosofia e le vicissitudini della Colonia Tovar si veda in particolare G.Antei, La Tierra Prometida, in “Senderos”, V, 25-26, Bogotá, 1993. Da colonnello in servizio attivo qual’era, Codazzi impose nella colonia una disciplina di stampo militare. Per tenere a bada i più scalmanati e impedire le diserzioni creò perfino un corpo di polizia, decisione che dette adito a polemiche e rimostranze. Il lughese riversò nella colonia ogni sua energia, assumendo nel contempo le funzioni di direttore, costruttore, educatore, consulente agricolo, veterinario, farmacista

e altro. Non sorprende, dunque, che agli occhi della maggioranza degli emigranti apparisse come un padre burbero, saggio e benevolo. Egli credeva che la Colonia Tovar, al pari di qualsiasi altro insediamento, abbisognasse d’un capo dinamico, solerte, volenteroso, umano ed equanime: “Se necesita... que esta colonia sea conducida con tino y orden, siendo su jefe no un especulador interesado en enriquecerse con el trabajo de los colonos, sino un padre cuidadoso que desee hacer la felicidad de cada uno de los individuos que compongan aquella sociedad (...) Actividad, celo, constancia, humanidad y justicia, son, entre otras, dotes necesaria al que emprenda el establecimiento de una colonia”. Ma i coloni non ripagarono il suo impegno. A pochi mesi dalla fondazione dell’insediamento, il lughese scrisse: “Cada día pierdo mi valor y cada día veo aproximarse la destrucción de la Colonia... como consecuencia de la pesima conducta de los Colonos”.


un posto al sole

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199. A. Codazzi, Mappa della valle del fiume Tuy, 1841.

emigranti un effetto demoralizzante, ostacolando il processo di adattamento e rendendo ancor piĂš gravoso lo sforzo fisico richiesto loro nei primi mesi di vita della colonia. Codazzi, per esempio, non previde (e come?) che la rinuncia alle abitudini alimentari potesse tramutarsi in scontento e opposizione nei confronti della gestione della colonia; nĂŠ fu in grado di intuire che i patimenti del lunghissimo viaggio di trasferimento avrebbero corroso le loro speranze. Essi erano dei contadini tedeschi in cerca di un pezzo di terra e di

modeste sicurezze materiali, non degli avventurieri o dei viaggiatori nati: per questo il pentimento e il rimpianto ebbero su di loro facile presa. D’altronde, come non lamentarsi di una marcia di oltre due settimane da Endingen a Le Havre, di una travagliata navigazione transatlantica, un’epidemia di vaiolo, una quarantena in acque agitate, uno sbarco accidentato su un litorale deserto e una scarpinata di giorni fino alla valle del Tuy? Quattro mesi infernali che aprirono la strada allo scoraggiamento e, per cosÏ dire, alla sfiducia


l’orizzonte in fuga

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200. Mappa del paese di Cuccagna, 1606, inc. col.

nel paradiso.5 Quali che fossero le ragioni del fiasco, Codazzi dovette arrendersi all’evidenza che gli emigranti europei, oltre ad essere incapaci di misurarsi con la natura tropicale, erano inadeguati al progetto cooperativo da lui concepito.6 Mancava in essi quella coscienza associativa che Albert Brisbane, riformatore sociale statunitense (1809-1890), aveva collocato alla base del progresso dell’umanità. Infatti intendevano l’agricoltura come un’attività famigliare, isolata, non già come un’impresa economica collettiva basata su una pianificazione razionale. «Se consideriamo l’agricoltura, le cui attuali condizioni reclamano a gran voce associazione e organizzazione – aveva osservato Brisbane nel 1840 – scopriamo che viene praticata da famiglie isolate, prive quasi sempre del necessario capitale o di credito o di attrezzature adeguate, che fanno a gara fra di loro a chi sfrutta il suolo nel modo più primitivo e scriteriato».7 Il lughese era altrettanto se non più consapevole di Brisbane riguardo all’arretratezza del mondo contadino europeo. L’aveva toccata con mano in Romagna, sforzandosi personalmente di porvi rimedio. Benché concepita secondo schemi razionali e moderni, l’azienda agricola del Serraglio era

5 Gli emigranti, 392 alla partenza da Le Havre e 374 all’arrivo nella valle del Tuy, s’imbarcarono sulla Clemence, un legno di 400 tonnellate di stazza e venti metri di lunghezza, inadeguato ad alloggiare tanti passeggeri durante una navigazione transatlantica (il viaggio si protrasse dal 19 gennaio al 4 marzo). Un’epidemia di vaiolo scoppiata a bordo fece numerose vittime.

fallita, ma ciò non significa che egli avesse smesso di credere nella bontà della terra. Nel 1843, nel momento di salpare da Le Havre, era più che mai convinto che lo sfruttamento agrario costituisse il vero propulsore del benessere sociale. Fu proprio questa fede a far sì che la Colonia Tovar non si estinguesse sul nascere. Avendone concepito l’idea e avendola messa al mondo, Codazzi continuò a battersi a suo favore come un padre fondatore. D’altro canto, i coloni più resistenti si mantennero uniti e puri, nel rispetto della lingua e dei costumi del loro paese natale: ai loro occhi, infatti, l’America costituiva una mera superficie geografica, incognita ed estranea, ove piantare la bandiera del Baden e fare quadrato.8 Nella prima metà dell’Ottocento l’emigrazione europea verso l’America tropicale causò tragedie a non finire, a volte per fatalità, più spesso per gli errori o la malafede di chi ideò e organizzò le imprese migratorie. Abbiamo accennato nelle pagine anteriori al principato di Poyais, il paese fatato sorto dall’immaginazione e dalla cupidigia di Gregor MacGregor. Potremmo citare il tentativo di Carlo Maria Luigi

6

Cfr. G. Antei, La Tierra Prometida, op.cit. Cfr. A. Brisbane, The Social Destiny of Man, Philadelphia, 1840, p. 5. 8 Secondo disposizioni in atto fino a poche decine d’anni fà, i matrimoni misti erano proibiti. Chi si sposava al di fuori della colonia ne veniva espulso, previa confisca dei beni immobili. 7


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un posto al sole

201. A. Codazzi, Carta geografica degli Estados Unidos de Colombia,1864. 1606, inc.

Castelli di trasferire in Venezuela un folto gruppo di emigranti sardo-piemontesi (esattamente nello stesso periodo in cui Codazzi stava progettando la Colonia Tovar), tentativo finito sul nascere con il naufragio fra Livorno e Civitavecchia del bastimento che li trasportava.9 O quello di un altro impresario peninsulare, che si offrì furbescamente di convogliare verso la Nuova Granada una nutrita comitiva di malviventi napoletani.10 Alcune volte l’esito sfortunato di un’impresa era preannunciato dalla dismisura delle mete desiderate, altre era preconizzato dall’irresponsabilità degli impresari, altre ancora dall’ingenuità degli emigranti; per non parlare poi di disinformazione, impreparazione e avventatezza. La letteratura utopica, le relazioni di viaggio e i libri di divulgazione geografica, oltre ai libelli propagandistici stampati a spese degli entrepreneurs, trasmettevano dati inatten-

dibili, che alimentavano nei futuri coloni aspettattive illusorie: scenari edenici che, smentiti drammaticamente dalla realtà, provocavano in essi reazioni altrettanto drammatiche. Messo a capo della Comisión Corográfica della Nuova Granada, Codazzi si prefisse di tracciarne – e ne tracciò – un’immagine quanto più fedele possibile, veridica ancorché occasionalmente spiacevole e perfino brutale, elaborata ad uso non dei viaggiatori o degli emigranti stranieri bensì del popolo neogranadino. Ma a differenza di ciò che era accaduto in Venezuela, nella Nuova Granada la sua franchezza urtò la suscettibilità dell’élite politica, costituita da discendenti di spagnoli e intrisa di sciovinismo. Mentre in Venezuela aveva goduto dell’appoggio di governanti della statura di José Antonio Páez e Carlos Soublette, ambedue estimatori del suo valore scienti-

9 Codazzi si ritrovò agli ordini di Castelli durante la permanenza a Maracaibo. In proposito, si veda il capitolo seguente. Per ragguagli su Castelli cfr. Dizionario Biografico degli Italiani (scheda di S.Candido); G. Libert, L’emigrazione piemontese nel mondo, Torino, 2009; M.M. Alemán, Un soldado de Bolívar: Carlos Luis Castelli, Caracas, 1991. 10 Tale proposta fu presentata a Hilario López, presidente uscente della Nuova Granada, durante un viaggio in Italia nel

1857, ma benché questi fosse uno strenuo sostenitore dei vantaggi dell’immigrazione europea, non la prese in considerazione: “Algunas personas con quienes hablé de esto [di immigrazione] me indicaron que no sería difícil organizar colonias de emigrados entre esa clase de gente [i lazzaroni], mas yo les contesté que no quería ni abrigar semejante idea, pues no era tan indolente que me atreviera a llevar a mi país una semilla tan perniciosa.” Cfr. J.H. López, Memorias, II, XLI, Paris, 1857.


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fico e della sua dedizione repubblicana, nella Nuova Granada non mancarono le riserve. Agli occhi del potentato criollo, Codazzi rimase sempre uno straniero, una condizione che, a ben vedere, nel suo caso equivaleva piuttosto a quella di apolide. Le prove di lealtà offerte al paese adottivo – ivi compreso il concorso militare a salvaguardia delle istituzioni repubblicane – non furono sufficienti a farne un cittadino a pieno titolo. Né l’impegno civile né i meriti scientifici lo resero immune dalla diffidenza di coloro che, memori del passato coloniale, continuavano a sentirsi minacciati dall’ingerenza europea. Un paradosso reso ancor più doloroso dal fatto che l’identità della Nuova Granada, ancora incerta al suo arrivo, si andò forgiando grazie ai suoi sforzi di ‘cittadino decente’ oltre che di geografo. Sorta nel 1831 dalle spoglie della Gran Colombia, la repubblica della Nuova Granada adottò fin dalla nascita un ordinamento costituzionale e democratico. Esso prevedeva un governo popolare, rappresentativo e rinnovabile, la divisione dei poteri, un ampio decentramento amministrativo e solide garanzie individuali. Al Congresso, bicamerale, era affidata la responsabilità legislativa, ma il presidente della re202. M.M. Paz, Donna indigena del Caquetá, 1856.

pubblica – in quanto Primer Magistrado – esercitava la facoltà di veto. Al presidente, inoltre, era affidato sia il potere esecutivo che la rappresentanza della sovranità nazionale. L’amministrazione della giustizia faceva capo alla Corte suprema, da cui dipendevano le diverse istanze giudicanti. La religione ufficiale era quella cattolica, apostolica, romana, «ma senza escludere qualsiasi altro culto». In quanto alla politica estera, la Nuova Granada, che fu presto ricono­ sciuta dal consesso internazionale, stabilì rapporti amichevoli con «tutte le nazioni del Nuovo Mondo, e con l’Inghilterra, la Francia, l’Olanda, la Sardegna e gli Stati Pontifici in Europa, mantenendo aperti i propri porti al commercio e agli scambi con i popoli dell’orbe intero».11 Antonio Cuervo, che, appena ventenne, nel 1852, pubblicò un manuale di geografia ad uso scolastico, descrive i suoi connazionali nel modo seguente: La popolazione civilizzata della Nuova Granada è composta dai discendenti degli europei e degli stranieri in essa domiciliati, dai figli dei negri provenienti dall’Africa, e dagli indigeni o aborigeni che dir si voglia. La mescolanza di queste tre razze – caucasiana, africana y americana –, i cui tratti non si discostano molto dal tipo mongolico, ha dato origine ai meticci o cholos, ossia, i figli di bianchi e indigene e viceversa, ai mulatti, figli di bianchi e negre e viceversa, e ai sambos, figli di indigeni e negre e viceversa.12

Ad altre varietà razziali, come i tercerones, cuarterones, i salta atrás, i salta en el aire e via di seguito (tutte relative alla maggiore o minore purezza del sangue, ossia, alla maggiore o minore presenza di sangue nero o indigeno) nel 1852 ci si riferiva di rado. «Oggigiorno tali denominazioni sono in disuso – precisa Cuervo –, giacché la sola distinzione accettabile è quella costituita dal talento, dal valore e dalla virtù. Al cospetto della legge, infatti, non v’è differenza alcuna fra i neogranadini».13 Nelle parole del giovane divulgatore riverbera l’entusiasmo dei liberali per l’abolizione della schiavitù, sancita il 21 luglio 1851 mediante la “Ley de Manumisión”. Seppure in ritardo di quarant’anni sulle prime dichiarazioni antischiaviste, la parità dei diritti sembrava finalmente assicurata, e con essa, si sperava, anche l’uguaglianza razziale. Alla “democracia de la sangre” imperante nella Nuova Granada si richiamò José Maria Samper – il già menzionato estimatore di Codazzi – in uno scritto del 1861. Secondo Samper, il livellamento etnico era il “punto de partida de la democracia de las ideas y del derecho”.14 La Nuova Granada era sulla buona strada: abolita la schiavitù e cancellate le differenze razziali, il progresso sociale era a portata

11

A.B. Cuervo, Jeografía histórica, política, estadística i descritiva de la Nueva Granada, Bogotá, 1852, p. 42 e ss. 12 Ivi. 13 Ivi. 14 J.M. Samper, Ensayo sobre las revoluciones políticas, Paris, 1861, p. 316 e ss. Samper (1828-1888) fu un rinomato letterato, giornalista e uomo politico neogranadino.


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di mano. Una prospettiva lusinghiera, basata però sul debole presupposto che la legge, al di là delle petizioni di principio, fosse davvero uguale per tutti e che la disparità etnica non determinasse più i rapporti fra i suoi connazionali. Nel descrivere la massa della popolazione andina, “puramente indígena”, Samper ne sottolinea il carattere paziente e laborioso, la religiosità superstiziosa, la mancanza di talento artistico, il sedentarismo e l’indolenza, il servilismo, la timidezza, la malizia, l’indifferenza, la stupidità, lo scarso senso dell’ospitalità, l’incapacità di stare al passo con il progresso, ecc. Per finire, gli indios della cordigliera erano inservibili in guerra, e ciò perché la loro forza, sviluppata trasportando a spalla carichi pesantissimi, risiedeva solo nella nuca, il dorso e le gambe. Queste manchevolezze, peraltro, non escludevano l’esistenza di taluni aspetti positivi: per esempio, come si è testè detto, i nativi potevano caricare a lomo de indio pesi di oltre 150 chili, marciando per giorni lungo cammini a dir poco impervi. Ma il bilancio era a loro sfavore, e ciò perché la diffidenza nella società civile li confinava in uno stato di abiezione vecchio di 350 anni. (In questo senso non sorprende che durante un dibattito parlamentare, svoltosi a Bogotá il 6 marzo 1851, un relatore affermasse che la situazione degli indios era peggiore di quella degli schiavi). Orbene, si poteva costruire una democrazia “de las ideas y del derecho” a partire da una maggioranza del genere? Ciò che sul piano delle realizzazioni concrete costituiva una meta chimerica, in una prospettiva teorica appariva un risultato acquisito o, quanto meno, a portata di mano. Per tornare alla “democracia de la sangre”, essa, sempre secondo Samper, coronava l’evoluzione di un fenomeno tipicamente americano, vale a dire, l’amalgama delle razze apparentemente più discordanti: Esa fusión, todavia muy incompleta, se hace más y más evidente a medida que las costumbres democràticas se consolidan y que la civilización europea, salvando todas las barreras y penetrando basta el corazón de las inmensas regiones colombianas, obliga a las poblaciones a acercarse unas a otras, a conocerse, ponerse en contacto y enlazarse, reunidas sobre el terreno comùn del derecho, de los intereses nuevos y del progreso. [Questa fusione, a tutt’oggi molto incompleta, diviene vieppiù evidente nella misura in cui le abitudini democratiche si rafforzano e la civiltà europea, superando tutti gli ostacoli e penetrando nel cuore delle sconfinate regioni colombiane, obbliga le popolazioni ad avvicinarsi, a conoscersi, a stabilire contatti e ad allacciarsi, riunite sul terreno comune del diritto, dei nuovi interessi e del progresso].15

203. M.M. Paz, Indigeno del Caquetá, 1856.

necessità insieme naturale e storica. Nell’ambito del rinnovamento avviato dalle guerre d’indipendenza, di recente rinfocolato dalle forze politiche progessiste, sviluppo e democrazia costituivano un binomio inscindibile (che a sua volta poggiava dichiaratamente sulla triade rivoluzionaria: liberté, egalité, fraternité). Alimentato dalla linfa della civiltà occidentale e dalla volontà di miglioramento di un popolo alacre e ostinato, tale binomio non poteva che sfociare in un “gran porvenir”:

Nella Nuova Granada, dunque, l’intesa fra le razze scaturiva, o sarebbe scaturita in seguito, da una

Esta sociedad es muy nueva: es pobre bajo el punto de vista de la civilización, y su vida ha sido hasta ahora un continuo movimiento a tientas en el sentido del progreso y de su organización. Pero es también un pueblo valeroso, atrevido, hospitalario, generoso, lleno de sentimiento de honor y de la conciencia de su misión... un pueblo que, por sus nobles y bellas instituciones, por su gran porvenir... merece el estudio de

15 Ivi, p. 338. Samper credeva che la fusione delle razze sarebbe stata favorita provvidenzialmente dalla geografia neogranadina: “Es, pues, la naturaleza la que impone por sí sola la necesidad de la fusión de las razas, y se puede decir sin exageración que las montañas de los Andes, que representan por su asombrosa grandeza y majestad sublime la bondad infinita de Dios, son en el mundo colombiano los mejores agentes de la civilización demo-

crática”. Codazzi non avrebbe mai sottoscritto una conclusione del genere. Dal suo punto di vista di ingegnere e corografo la triplice cordigliera andina costituiva un ostacolo alle comunicazioni umane, allo scambio commerciale e al progresso. Bisogna anche dire che le considerazioni di Samper si basavano su conoscenze geografiche ed etnografiche in gran parte debitrici dei dati raccolti dalla Comisión Corográfica.


l’orizzonte in fuga

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204. Stemma della Confederación Grenadina,1858.

los que trabajan, con ese cosmopolitismo cristiano propio de la ciencia moderna, por buscar donde queda la solución de los mas grandes problemas sociales, descuajando pacientemente las tierras del errar para sembrar en ellas la verdad y cosechar el progreso. [Questa è una società nuova: è povera dal punto di vista della civiltà e la sua vita, nel senso del progresso e dell’organizzazione, è stata fino ad oggi un continuo movimento a tentoni. Ma è altresì un popolo valoroso, audace, ospitale, generoso, colmo di sentimento d’onore e cosciente della propria missione... un popolo che per le sue belle e nobili istituzioni, per il suo grande avvenire... merita lo studio di coloro che, con quel cosmopolitismo cristiano caratteristico della scienza moderna, vanno in cerca di soluzioni ai più grandi problemi sociali, estirpando pazientemente gli errori onde seminare verità e raccogliere progresso].

Dal punto di vista di Samper il nuovo tende al buono, una convergenza coerente con l’ideologia liberale; tuttavia, affinché tale coincidenza si verifichi concretamente è necessario che le società in via di formazione si aprano all’influsso emancipatore della modernità, quest’ultima essendo costituita dalle nuove conquiste delle società avanzate. Con l’aiuto delle conoscenze scientifiche acquisite dalla civiltà occidentale, la repubblica neogranadina, nuova dunque potenzialmente buona, s’incamminerà decisa verso il progresso. L’ottimismo di Samper risente del clima fiducioso creato dalle riforme del presidente José Hilario López (1849-1853), esponente del novello partito liberale, riforme che andavano dal liberismo economico al suffragio universale, dalla separazione dei poteri alla soppressione della pena di morte, dall’esproprio dei beni ecclesiastici alla libertà di

stampa (l’abolizione della schiavitù costituì un’altra delle conquiste, non certo minori, della medesima ‘rivoluzione’). Non si trattava di misure isolate ma di interventi strutturali, nella cornice d’un progetto di modernizzazione generale del paese. Fra gli impegni assunti da López vi era l’osservanza della costituzione, il rispetto della volontà popolare e la difesa dei principi di libertà, uguaglianza e tolleranza; vi era il rafforzamento dell’istruzione pubblica e la tutela della libertà d’insegnamento (a condizione che i contenuti didattici si facessero interpreti delle nuove esigenze sociali); ed inoltre il riassetto della giustizia, la riduzione dell’esercito (da rimpiazzarsi al più presto con una guardia nazionale), l’esecuzione di ingenti opere pubbliche, il rispetto dei trattati e del debito estero, ecc. ecc. Obbligandosi a trasformare la Nuova Granada in una società democratica, rispettosa del diritto, fiduciosa nel proprio avvenire di repubblica prospera e indipendente, López sembrava intenzionato a trarre dal nuovo tutto il buono possibile. Il traguardo non era solo il benessere dei suoi connazionali ma anche la collocazione della Nuova Granada su un piano di parità politica ed economica internazionale. Orbene, se per un verso l’attuazione di un programma così ambizioso richiedeva lungimiranza, volontà politica e consenso popolare, dall’altro esigeva conoscenze approfondite circa lo stato del paese: un quadro corografico nazionale. Oltre a favorire le riforme in via di attuazione, tale quadro avrebbe consentito l’agnizione del paese, cioè la rivelazione della sua vera


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205. Martin, Tallis, Carta della Nuova Granada, Venezuela, Ecuador e Guaiane, 1851.

identità. In altre parole, l’esplorazione geografica, se condotta con criteri sociali e identitari coerenti con il programma liberale, avrebbe adempiuto un fondamentale compito storico. Nel maggio del 1866, mentre era in procinto di assurgere per la terza volta alla presidenza della Nuova Granada (ribattezzata tre anni prima ‘Estados Unidos de Colombia’)16, il generale Tomás Cipriano de Mosquera diede alle stampe a Londra un suo personale Compendio de geografía general.17 Nelle pagine introduttive Mosquera confessa: Mentre ero presidente costituzionale della Nuova Granada [1848] feci venire dal Venezuela il Colonnello del Genio Agustín Codazzi, che aveva pubblicato una geografia di detta Repubblica unitamente ad un atlante completo e ad una carta generale. Lo convinsi a trasferirsi a Bogotà affinché s’incaricasse della Comisión Corográfica, creata per legge da non molto, e tracciasse la carta geografica della Nuova Granada e delle corrispondenti province.

fu appunto Mosquera. A costui non spettò, però, il merito di mettere in pratica il progetto, giacché il suo periodo presidenziale – il primo di tre – si concluse nel marzo del 1849, con qualche mese di anticipo sull’avvio della prima spedizione. Scrive Mosquera: L’organizzazione della spedizione corografica prevista dalla legge ricadde sull’amministrazione del Generale José H. López. A dirigerla fu chiamato il Colonnello Codazzi, al quale furono affiancati il signor Manuel Ancízar, con il compito di svilupparne l’aspetto storico e descrittivo, il signor José Triana, responsabile della parte botanica, e alcuni giovani incaricati del disegno.

In realtà, sulla necessità del rilevamento cartografico del paese, il Congresso della Nuova Granada aveva iniziato a legiferare fin dal 1839. Ma a “sacar del olvido tanto la idea como la ley sobre el asunto”

Per più d’un motivo, i lavori della Comisión si protrassero oltre i sei anni stabiliti dal contratto che Codazzi, nell’ottobre del 1849, sottoscrisse con il governo neogranadino. Nel febbraio del 1859, quando fu stroncato dalla malaria, il lughese era impegnato nella tappa finale dell’impresa. «Per disgrazia – prosegue Mosquera – il Colonnello Codazzi morì nel corso dell’ultima spedizione, per cui non fu in grado di portare a termine il lavoro». Non solo rimase incompleta la descrizione corografica della zona più settentrionale del paese (corrispondente al litorale

16 Nel 1858, la República de la Nueva Granada venne ribattezzata ‘Confederación Granadina’, successivamente ‘Estados Unidos de Colombia’ (1863) ed infine ‘República de Colombia’ (1886). 17 T.C. de Mosquera, Compendio de geografía general, po-

lítica, física y espacial de los Estados Unidos de Colombia, London, 1866, passim. Figura di spicco della vita politica neogranadina, Mosquera (1798-1878) si occupò assiduamente di geografia e scienze fisiche. Fu grazie a lui che Codazzi, in fuga dal Venezuela, poté passare nella Nuova Granada.


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del lavoro della Comisión andava al di là di questa o quella imprecisione: Si se tiene en cuenta la inmensa extensión de los Estados Unidos de Colombia, sus desiertos, la mala dotación de la Comisión Corográfica en cuanto a personal i material, la falta de antecedentes cientificos que consultar, etc. etc. se hará a los trabajos del señor Codazzi la justicia debida en cuanto a su exactitud relativa; pues esos trabajos son lo mejor que se puede poseer hoi en la República, ora como el resumen de lo que ya había, ora como lo recojido en más de diez años de una labor escrupulosa i constante. [Se si considera l’immensa superficie degli Estados Unidos de Colombia, le zone disabitate, l’inadeguata dotazione della Comisión Corográfica in quanto a persone e a mezzi, la mancanza di riscontri scientifici, ecc. ecc. bisogna rendere giustizia al lavoro del signor Codazzi pur nella sua esattezza relativa; infatti, le sue rilevazioni sono a tutt’oggi quanto di meglio possiede la Repubblica, sia come riassunto di dati preesistenti sia come risultato di una più che decennale, rigorosa e indefessa attività].19

All’opposto di Pérez, Mosquera riteneva che un decennio di attività scrupolosa e costante, per quanto lodevole, non bastasse a garantire la validità dei dati raccolti dalla Comisión. Dunque, non poteva non dubitare dell’attendibilità della Jeografía di Pérez, edificata su quegli stessi dati. Mosquera espresse pubblicamente il proprio scetticismo:

206. F. Pérez, Jeografía Física y Política..., 1862.

atlantico) ma anche il disegno di alcune carte geografiche regionali; per non parlare poi delle tavole sinottiche e dei testi, che, alla morte del colonnello, «in certi casi si limitavano ad appunti superficiali, tutti da vagliare, che esigevano rettifiche e precisazioni». L’incarico di concludere i lavori della Comisión venne affidato a Manuel Ponce e a Manuel María Paz, quest’ultimo ex-aiutante del cartografo e disegnatore. Basandosi quasi esclusivamente sulle misurazioni e le osservazioni del defunto, costoro si dedicarono a elaborare l’atlante e la carta generale della Confederación Granadina. Il compito di redigere la geografia generale e regionale fu assegnato invece a Felipe Pérez, a cui venne fatta consegna all’uopo dei corrispondenti appunti di Codazzi. Pérez rimarcò il debito nei confronti di quest’ultimo nell’“Advertencia” anteposta alla Jeografía física i política del Estado de Cundinamarca en la Nueva Granada, confessando di aver ricalcato le sue note («in molti capitoli ho copiato integralmente le minute della Comisión Corográfica»).18 Alle fonti codazziane dovevano attribuirsi altresì le possibili deficienze dell’opera, benché a tale proposito bisognasse considerare che l’importanza

18

F. Pérez, Jeografía física i política del Estado de Cundinamarca en la Nueva Granada, Bogotá, 1861; inoltre F. Pérez, Jeografía física y política de los Estados Unidos de Colombia, I, Bogotá, 1862. Pérez (1836-1891), uomo politico, militare e let-

Sfortunatamente i materiali [i dati in questione] consegnati al signor Pérez erano zeppi di errori, e ciò perché il signor Codazzi aveva raccolto senza vagliarle tutte le informazioni che la gente gli forniva al passaggio della Comisión Corográfica, per cui il generoso sforzo del signor Pérez è risultato vano.20

Mosquera reputava lo sforzo di Pérez talmente vano che ostacolò in tutti i modi la circolazione della Jeografía, giungendo a ordinarne l’incenerimento. Indubbiamente, con la scomparsa di Codazzi, il lavoro della Comisión era rimasto incompiuto, una deficienza ben presente a Felipe Pérez, che all’inizio dell’opera censurata non esitò a riconoscere: Questo immane colpo [la morte di A.C.] ha fatto sì che il lavoro della Comisión venisse troncato in un punto nevralgico, privandoci della conoscenza esatta della Sierra Nevada di Santa Marta, una delle cime più importanti del nostro sistema montuoso, nonché della penisola della Guajira e della Ciénaga [foce del fiume Magdalena].

Il danno non si circoscriveva ad una lacuna nei rilevamenti: «La scomparsa del capo della Comisión Corográfica è irrimediabile – confessò Pérez – perché trovare un uomo più esperto di lui in campo geografico è difficile se non impossibile... dove reperire un individuo altrettanto operoso e infaticabile, sereno nel pericolo, conoscitore della selva?». In ogni caso, essendo consapevole della “exactitud relativa”

terato, non possedeva specifiche conoscenze geografiche e non prese parte ai lavori della Comisión Corográfica. 19 F. Pérez, op. cit. (1861). 20 T.C. de Mosquera, op. cit., pp. 3-4


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di quanto esposto nella Jeografía, Pérez mise prudentemente le mani avanti: Non crediamo affatto che si tratti di un lavoro perfetto, però lo consideriamo migliore e più accurato di quelli apparsi in precedenza, sia perché ci siamo avvalsi di tutta la bibliografia preesistente, sia perché [questo lavoro] emana dall’esplorazione diretta del territorio nazionale, una circostanza importantissima, mai verificatasi prima d’ora.

Il primo passo, il più difficile e dispendioso era stato fatto: da quel momento in poi sarebbe stato sufficiente correggere e perfezionare... fino a raggiungere una “exactitud absoluta”. «Il mondo scientifico ha sempre funzionato così – prosegue Pérez – e non è certo il caso di pretendere che il nostro paese, arretrato e assillato dall’ignoranza, costituisca un’eccezione alla regola». D’altronde «le cartografie delle diverse nazioni europee non sono sorte dal lavoro d’una decina d’anni e ancor meno dallo sforzo d’un uomo solo». Per portarle a termine erano intervenuti stuoli di ingegneri militari, impiegando cinquanta, sessanta e anche ottant’anni anni, avendo a disposizione mezzi in quantità e strumenti della massima precisione; tutto ciò, per giunta, «percorrendo terre e paesi noti fin dall’epoca di Cesare». I mezzi con cui si era ritrovata ad operare la Comisión Corográfica erano ben poca cosa. Conscio a metà dell’importanza epocale del progetto, il governo della Nuova Granada aveva costretto Codazzi a lavorare in condizioni deplorevoli, scaricando sulle sue spalle ogni responsabilità. Prosegue Pérez in tono di biasimo: Nel nostro paese l’impresa corografica venne affidata a un solo individuo: non la misurazione di questa o quella regione ma il rilevamento topografico dell’intera nazione, un territorio immenso, spopolato e malsano, solcato da migliaia di fiumi impetuosi, irto di montagne che non hanno uguali in nessuna parte del globo.

Considerando la mole disumana del lavoro svolto, conclude Pérez, l’apprezzamento avrebbe dovuto essere incondizionato: Anziché lagnarci delle manche­volezze, dovremmo stupirci di ciò che si è riusciti a fare, senza soffermarci troppo sulle omissioni rimarcate da questo o quel pastore a proposito dell’avvallamento ove sorge la sua capanna o del ruscello in cui fa abbeverare il gregge.21

Pérez espose le proprie ragioni nei confronti delle critiche mossegli da Mosquera in una Réplica jeográfica apparsa a Bogotá nel 1865, a sei anni dalla morte di Codazzi.22 Scorrerne le 48 pagine consente fra l’altro di far luce sull’equivocità dell’atteggiamento dell’élite criolla di parte conservatrice rispetto a quest’ultimo. Uno dei maggiori crucci del lughese fu, 21

F. Pérez, op. cit. (1862). F. Pérez, El Gran Jeneral Mosquera, Bogotá, 1865. Fu a seguito dell’apparizione di questa replica che Mosquera, rieletto alla presidenza della Nuova Granada, proibì la circolazione della Jeografía e pubblicò il proprio Compendio. 22

207. T.C. de Mosquera, Memoria sobre la Geografía..., 1852.

come s’è detto, la sua mancata ‘adozione’ da parte della repubblica neogranadina. Nonostante gli sforzi compiuti a vari livelli per integrarsi alla sua nuova patria, non venne mai accettato come civis optimo iure (o non lo fu più dalla fine del mandato di Hilario López in poi); non solo, ma il suo lavoro scientifico venne sottovalutato o addirittura svilito, quasi che a realizzarlo fosse stato uno straniero superbo ed esoso. Stranamente, Mosquera fu uno dei suoi più accaniti detrattori: stranamente, perché fu proprio Mosquera ad invitarlo nella Nuova Granada, nel 1849, e a nominarlo Capo di Stato Maggiore dell’Esercito del Sud durante la guerra civile del 1854. L’accusa mossa a Codazzi riguardava niente meno che la sua dubbia serietà professionale, ancor più dubbia se commisurata alle «somme immense» versategli dal governo. Pérez scrisse il citato libello per difendere se stesso, scaricando nuovamente la responsabilità degli errori della Jeografía sulla Comisión Corográfica; ma en passant prese le difese del lughese, in particolare rispetto alla sua presunta avidità. Non solo le somme ricevute da questi “no fueron inmensas” ma era altresì doveroso riconoscere che: el desgraciado jeógrafo las ganó con el más constante y penoso de los trabajos de que haya memoria entre nosotros muriendo en su afanosa labor lejos de su familia i de su patria en los desiertos malsanos de Valledupar” [lo sciagurato geografo se


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208. Ch. Empson, Veduta della Nuova Granada, 1836.

le guadagnò con il lavoro più instancabile e ingrato di cui si abbia memoria nel nostro paese, morendo in questo penoso intento lontano dalla famiglia e dalla patria nelle malsane solitudini di Valledupar].

Lontano dalla patria, dice Pérez facendo riferimento all’Italia. Ma Codazzi, che per patria intendeva la Nuova Granada, la credeva vicina: un malinteso che amareggiò gli ultimi anni della sua vita, non tanto per la disistima e le critiche concernenti il lavoro della sua Comisión, quanto per il rigetto delle sue ‘profferte’ da parte della patria neogranadina. “Sus trabajos no servían de nada”, dichiarò Mosquera dopo la morte del nostro eroe, un’accusa crudele alla quale Pérez ribattè a metà: Es de suponerse que los datos recojidos por el desgraciado señor Codazzi no tengan toda la exactitud requerida, mas para correjir esos datos (que son los mejores que posee el pais) no basta hablar i ridiculizar: es preciso montar en una mula, cojer camino, llevar los instrumentos del caso, trasladarse a los puntos a que él se trasladó durante ocho o diez años... i rectificar allí, una a una, todas las operaciones geodésicas que él ejecutó. [È possibile che i dati raccolti dallo sventurato signor Codazzi non siano del tutto precisi (sebbene siano i migliori disponibili), ma per correggerli non basta blaterare e schernire: bisogna montare su un mulo, imboccare il cammino, portare con sé gli strumenti del caso, raggiungere i punti da lui esplorati nell’arco di otto o dieci anni... e rettificare sul posto, una ad una, le operazioni geodesiche da lui realizzate].

23 T.C. de Mosquera, op. cit., p. 301: “Con puertos a los mares Atlántico y Pacífico, dueña de los Istmos de Panamá y Darién para unir los mares en una edad no muy lejana, y facilitar el comercio del mundo”.

Si facessero avanti, se esistevano, coloro che avevano verificato l’inesattezza delle misurazioni del geografo scomparso: Ha habido entre los que lo critican con tanta crueldad, uno solo siquiera que haya hecho esto? que lo quiera hacer? que lo pueda hacer? Yo no tengo noticia sino de vanas y vanidosas vocinglerías. [C’è stato fra coloro che lo criticano con simile crudeltà, uno solo che l’abbia fatto? che sia disposto a farlo? che sia in grado di farlo? Per quel che mi risulta non sono altro che vocerie vuote e presuntuose].

Ma com’era, nell’insieme, quel vastissimo paese che Codazzi, da solo, aveva misurato e descritto? Per tracciarne un quadro, il generale Mosquera esordisce con una domanda retorica: «Vi è forse al mondo una posizione migliore o paragonabile a quella occupata dalla Colombia? Nessuna, ne siamo certi». Dal punto di vista strategico, la Colombia (o Estados Unidos de Colombia) era a dir poco fortunata: disponeva di porti sia sull’oceano Atlantico che sul Pacifico e, ancor più importante, possedeva gli istmi di Panamá e del Darién, attraverso i quali, in un futuro ormai alle porte, sarebbe stato costruito un canale per unire i due oceani, a tutto beneficio del commercio mondiale.23 Non era nemmeno trascurabile che si trattasse d’un paese agricolo ricco nel contempo di miniere, nelle cui vallate, pianure, altopiani e cordigliere si davano i climi e le colture più svariate. E che dire dei costumi dei neogranadini? La moralidad del pueblo colombiano, después de 14 anos de lucha constante en la guerra de la Independencia, y de frecuentes conmociones políticas en los últimos cuarenta y dos años, es tal, que se viaja por todo el pais sin armas, y condu-


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209. Ch. Empson, Veduta della Nuova Granada: i tre ghiacciai, 1836.

ciendo oro e intereses sin que haya robos ni asaltos contra la propiedad. Los correos conducen los caudales sin escolta, y de tres millones de habitantes jamás se ha levantado una partida de malhechores a robar en los caminos públicos. [Il senso morale del popolo colombiano, dopo 14 anni di lotte continue durante la guerra d’Indipendenza e i disordini politici susseguitisi dalla fine della guerra ad oggi, è tale che si può percorrere l’intero paese disarmati, portando con sé oro e preziosi, senza che si debbano temere rapine o delitti contro la proprietà. I mezzi postali trasportano i valori senza scorta, e fra i tre milioni di abitanti non è mai emersa una banda di briganti assaltatori di strade].

Mosquera, ricordiamolo, scriveva nel 1866. In un libro pubblicato a Parigi sei anni prima, intitolato Canal interocéanique par l’isthme du Darien, Athanase Airiau, utopista e commerciante francese, si era mostrato altrettanto fiducioso: Il n’est pas au monde, on peut le dire, des positions plus belle et plus avantageuse que celle de la Nouvelle-Grenade; elle a des ports sur l’Atlantique et le Pacifique; elle est maîtresse des isthmes de Panama et du Darien, qui doivent bientòt réunir les deux Océanes au moyen de canaux. [Si può ben dire che non esista al mondo una posizione più bella e privilegiata di quella della Colombia: possiede porti sia sull’Atlantico che sul Pacifico; possiede gli istmi di Panamá e del Darien, destinati in breve a unire i due oceani per mezzo di canali].24

Le parole del francese, si noti, anticipano alla lettera quelle di Mosquera, una coincidenza che, a giudicare dalla frase che segue, non sembra casuale: “Elle est un pays agricole, varié dans ses climats et ses productìons, à cause de ses vallées, de ses plateaux et de ses montagnes”. [È un paese agricolo, dispone di una varietà di climi e di coltivazioni a causa delle sue

valli, degli altopiani e delle montagne]. I due autori procedono appaiati anche per quel che riguarda la moralità della popolazione: “Quant à la moralité du peuple grenadin, elle est telle qu’on peut voyager sans armes dans tout le pays; qu’on peut transporter de l’or et des valeurs quelconques sans crainte d’être dévalìsé. Les courriers marchent sans escorte”. [Per quel che concerne la moralità del popolo neogranadino, essa è tale che si può viaggiare disarmati per tutto il paese trasportando oro e preziosi senza timore d’essere svaligiati. I corrieri non abbisognano di scorta]. In un altro punto il francese osserva che “aucun peuple ne paye moins contributions que le peuple grenadin”, e Mosquera gli fa eco dicendo: “Ningún pueblo paga menos contribuciones que el colombiano”. Airiau profetizza: “Quand ce peuple pourra et voudra employer son activité à ouvrir des voies de communication et à donner l’essor à la navigation des rivières, il sera le plus prospère et le plus hereux de l’univers”. [Quando questo popolo potrà e vorrà dedicarsi ad aprire vie di comunicazione e a sviluppare la navigazione fluviale, sarà il più florido e felice dell’universo]. Mosquera, a sua volta, vaticina che “si nuestros conciudadanos, olvidando las pasiones politicas que destruyen a las repùblicas Hispano-americanas, consagran sus esfuerzos y nos ayudan a dar impulso a la apertura de caminos y navegación interior de los rios, ese pais sera de los mas felices del universo” [se i nostri concittadini, 24 Athanase Airiau, Canal interocéanique par l’isthme du Darien Nouvelle-Grenade (Amérique du Sud.). Canalisation par la colonisation, Paris, 1860.


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scordando quelle passioni politiche che distruggono le repubbliche ispanoamericane, consacrassero i loro sforzi e ci aiutassero ad aprire strade e la navigazione interna lungo i fiumi, questo paese sarebbe uno dei più felici dell’universo]. Potremmo proseguire, ma ciò non farebbe altro che rafforzarci nella convinzione che Mosquera non si peritò di copiare parola per parola le osservazioni con cui Airiau, sei anni prima, aveva cercato di attirare verso la Nuova Granada, e in special modo verso il proprio progetto di canalizzazione e colonizzazione, l’attenzione dell’Europa e degli Stati Uniti. Orbene, quali furono i motivi che spinsero Mosquera a plagiare le parole del francese? Nel 1866 la Nuova Granada – ma d’ora in poi sarà meglio dire Colombia – era ancora alla ricerca della propria fisionomia sociale, politica e amministrativa, una ricerca problematica e turbolenta, della quale si può ravvisare la portata nel cambio frequente di denominazione. Semplificando, potremmo dire che, sebbene Codazzi ne avesse fissato i contorni fisici ed elaborato la descrizione corografica, la Colombia non aveva ancora introiettato né gli uni né l’altra, per cui mancava ancora d’identità; non possedeva ancora un’immagine di sé che la qualificasse e la distinguesse nel consesso delle nazioni. Dubbiosa circa il proprio futuro politico e organizzativo, essa era altrettanto o più indefinita dal punto di vista etnico e sociale. Per quanto tutti i colombiani condividessero l’amore per l’indipendenza e i valori repubblicani, l’élite criolla era profondamente divisa rispetto all’assetto politico e istituzionale del paese. Ciò che univa i colombiani era il passato, non il futuro – non un ‘destino manifesto’ –, per questo la ricerca di un’identità comune non poteva risultare che infruttuosa, ancor più in assenza di contorni cartografici precisi e di serie conoscenze geografiche (nel 1866, ricordiamolo, l’opera scientifica di Codazzi era ancora pressoché sconosciuta). Nell’impossibilità di attingere ad un’immagine di sé modellata in proprio, i colombiani si videro costretti in certi casi ad appellare alle raffigurazioni elaborate dall’esterno, cioè, dai viaggiatori che nel corso del primo Ottocento visitarono le regioni andine. Costoro, pertanto, divennero artefici e agenti – a volte inconsapevolmente, altre opportunisticamente – dell’identità del paese. Con la pubblicazione del Compendio de geografía general, Mosquera si era proposto di ritoccare l’immagine della Colombia, affinché in patria e all’estero se ne avesse una nozione positiva. Il prestito da Airiau, crediamo, gli servì appunto a questo scopo: copiando le parole del francese intese imprimere maggior credibilità al Compendio, come se questo, scritto 25 Nel carteggio con Codazzi, Mosquera accenna più di una volta al proprio dilettantismo in campo geografico. 26 C.S. Cochrane, Journal of a residence and travels in Colombia during the years 1823 and 1824, London, 1825, I-II, passim. Fine osservatore e inventore genialoide, Cochrane percorse la Colombia attratto da possibilità di sfruttamento minerario rivelatesi infruttuose.

l’orizzonte in fuga

con l’approssimazione del geografo dilettante, avesse avuto bisogno della conferma di un viaggiatore europeo, dell’avallo di una auctoritas internazionale.25 La scelta di smorzare i toni esaltati di Airiau va nella medesima direzione: l’iperbolicità dell’uno, infatti, contrastava con la pretesa obiettività dell’altro. Ciò che crea perplessità è la sua lettura della frase “quand ce peuple pourra et voudra employer son activité...”. Dipanandola (“si nuestros conciudadanos, olvidando las pasiones politicas que destruyen a las repúblicas Hispano-americanas, consagran sus esfuerzos...”), Mosquera non la travisò, ma ne mise in luce una valenza che il francese si era curato, non a torto, di ammantare di vaghezza. Invero, poiché il canale proposto richiedeva enormi investimenti internazionali, spifferare che la Colombia era un paese politicamente violento e insicuro sarebbe stato a dir poco controproducente. Ai fini della canalisation, era necessario avviare quanto prima la colonization dell’istmo, la qual cosa significava convogliare verso di esso un flusso migratorio di grandi proporzioni. Va da sé che ogni accenno alle lotte intestine che continuavano a dilaniare l’ex-colonia avrebbe spento sul nascere l’interesse dei potenziali emigranti. Fu appunto per questo che Airiau, il cui libro era destinato a captare l’attenzione di una fascia particolare di lettori europei, ricorse ad una formula generica ed elusiva. Mosquera, il cui Compendio era rivolto tanto alla comunità internazionale quanto ai lettori colombiani, rivelò il senso riposto delle parole del francese, forse spinto da un dovere patriottico: il progresso della Colombia, ci tenne a precisare, non era frenato da fattori imponderabili, ma da dinamiche politiche sbagliate, correggibili con uno sforzo di volontà. Non si trattava di un problema di fondo, concernente l’indole di un’intera società, ma di una congiuntura transitoria, provocata dalla confusione seguita all’indipendenza dalla Spagna. Fra il 1823 e il 1824, aveva visitato la Colombia – allora chiamata ‘Gran Colombia’ – Charles Stuart Cochrane, capitano della marina britannica. A proposito di “pasiones politicas”, si legge nel Journal che redasse durante una permanenza di due anni nel paese andino: It is true... that there are, in Spanish America, conflicting interests, and various parties holding different, and some-times opposite political opinions; but it has also been proved, that these parties are ready to suspend their difference, for the sake of securing the great object of Independence. [È pur vero che nell’America spagnola esistono interessi contrastanti e vari partiti che sostengono opinioni politiche non solo diverse ma a volte opposte; ma è comprovato che detti partiti sono pronti a sospendere le loro controversie, al fine di assicurare il grande obiettivo dell’Indipendenza].26

Dunque, per accanite che fossero, le diverse fazioni politiche avevano acconsentito a subordinare i propri dissidi alle superiori esigenze della lotta per l’e­mancipazione dalla Spagna. Se ciò era accaduto in passato non vi era motivo di pensare che non si sa-


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210. A. Berg, Veduta del vulcano del Tolima, 1853, litogr..

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rebbe ripresentato in futuro: un’evenienza a dir poco auspicabile, vista la posta in gioco.27 Ammettendo che le passioni politiche non costituissero una difficoltà insormontabile e che un obiettivo di portata storica – condiviso dall’intero corpo sociale o quanto meno dall’élite criolla – avesse placato fino al suo conseguimento i particolarismi e i conflitti ideologici, allora l’avvenire della Colombia e di tutta l’América Libre sarebbe stato assicurato. Prima, però, occorreva saldare i conti con il passato coloniale, mettere in pratica il programma rivoluzionario e trovare un compromesso fra i diversi interessi. Ciò senza contare che armonizzare il nuovo assetto repubblicano con i sentimenti, i costumi e i pregiudizi di una popolazione etnicamente composita avrebbe richiesto uno sforzo gigantesco.28 Difficoltà rese ancor più gravi dal fatto che la libertà, in Colom­bia, era “a newly-arrived stranger, with whom it requires a considerable time to be on a footing of easy intimacy” [un’estranea appena arrivata, con la quale non si può entrare in confidenza se non con il passo del tempo].29 Credere che un popolo potesse raggiungere la libertà per mezzo della volontà era il peggiore degli errori: sarebbe riuscito ad abbattere una tirannide oppressiva, questo sì, ma avrebbe corso il rischio di sostituire il dispotismo con qualcosa di analogo. Oltre a precludere ai sudditi delle colonie l’esercizio della libertà – argomenta Cochrane –, la Spagna aveva impedito loro di elaborarne il concetto, di maturarne l’idea. Non era strano, allora, che essi fossero pervenuti alla libertà mentalmente impreparati. Urgeva scuotere la loro coscienza individuale, intorpidita da una tirannide secolare: «Bisogna studiare e attivare meccanismi intellettuali capaci di scuotere mentalmente la popolazione, in modo da consentirle di mettere in pratica e sfruttare i vantaggi di una costituzione liberale». Se tale risveglio non si fosse verificato, della libertà avrebbe goduto solo una piccola parte della popolazione, mentre per la maggioranza “will be a mere name”. Per la Colombia il cammino del progresso non sarebbe stato agevole, e ciò perché, pur essendo un paese ricco oltre ogni dire, offriva un costante e stridente contrasto con la povertà di spirito dei suoi abitanti:

l’orizzonte in fuga

A difesa del proprio potere coloniale, la Spagna aveva mante­nuto gli americani in uno stato di oppressione così esecrabile che risvegliarne le energie spirituali avrebbe richiesto uno sforzo immane: “A strenuous effort must be made by the government to change the habits of the people; to muse them from mental and bodily inactivity, to reflection and industry”. [Per cambiare il modo di essere della popolazione, per sottrarla all’apatia fisica e mentale e spingerla verso la responsabilità e l’operosità, il governo deve armarsi di tenacia].31 Se il governo avesse vacillato, se non avesse perse­verato nell’impegno di riscattare il popolo dall’avvilimento, sarebbe continuato lo spettacolo dilagante della “human misery and wretchedness”. Fra miseria e apatia, poi, esisteva una dolorosa reciprocità: Ho notato che uno dei peggiori aspetti del carattere dei nativi, la classe più bassa e numerosa, è che sembrano contenti dell’abominevole miseria nella quale vivono... Mortificati dalle privazioni e dagli abusi patiti sotto il governo coloniale, inclini ad un’arrendevolezza ereditata dai loro antenati, essi non hanno affatto quell’aria indipendente... che in altri paesi denota la consapevolezza di essere liberi.32

Porre rimedio ad un male che minava i tratti caratteriali di un’intera etnia, per giunta numericamente prevalente, richiedeva un intervento di fondo, i cui tempi – inutile illudersi – avrebbero abbracciato un intero ciclo generazionale. Invero, mentre dagli adulti non vi era molto da sperare, le nuove leve mostravano confortanti segni di riscatto. Chi poteva dubitare che i figli, adeguatamente educati, non avrebbero fatto propri quei valori dei quali difettavano i padri? Dal punto di vista di Cochrane, la miseria dilagante e i conflitti derivanti apparivano meno gravi dell’impreparazione mentale alla gestione della libertà: ciò in primo luogo a causa del carattere supino dei colombiani; secondariamente perché, in virtù delle nuove condizioni di mercato garantite dal sistema repubblicano, la concentrazione della ricchezza nelle mani di un’esigua upper class avrebbe finito, paradossalmente, per beneficiare anche gli strati più poveri:

Ecco un paese privilegiato in quanto a ricchezze naturali, clima e posizione geografica, colmo di paesaggi d’indescrivibile bellezza, tutte cose rese ancor più attraenti dalla libertà e dall’indipendenza. Ma questi rari e preziosi doni vengono spesso sprecati da una popolazione priva di ogni energia morale, carente di quella lodevole ambizione che spinge l’uomo alla ricerca di migliori condizioni di vita.30

As they [i ricchi] have more capital to lay out, money will flow in multiplied channels; and the lower classes will obtain gradual and permanent employment: every day will improve their state, and Colombia will be a most rich and flourishing country. [Siccome i ricchi hanno maggiori capitali da investire, il denaro circolerà attraverso molteplici canali, e le classi inferiori otterranno impieghi stabili o temporanei: le loro condizioni miglioreranno giorno dopo giorno e la Colombia diventerà un paese fra i più ricchi e fiorenti].33

27 Cochrane, II, p. 49. Annota il capitano: “The cry for universal suffrage and political equality, which has been so vehemently vociferated in Europe, has never reached Colombia, where the sole, the unanimous desire is independence, united with that reasonable and practicable liberty which the situation of the republic can allow”. 28 Ivi, I, p. 245. “To harmonize the constitutions and governments with the feelings, the habits, and the prejudices of the

mixed and different races of the population, will indeed be a task of no ordinary difficulty”. 29 Ibid. 30 Ivi, II, p. 483. 31 Ivi, II, p. 484. 32 Ivi, II, p. 486. 33 Ivi, II, p. 496. Da buon scozzese, Cochrane credeva fermamente nei vantaggi del libero mercato.


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211. Viaggiatore europeo sulle Ande della Nuova Granada, 1825.

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Per assicurare alla Colombia un avvenire di benessere spirituale e prosperità materiale era necessario promuovere un’altra iniziativa, non meno importante dell’educazione dei giovani: l’immigrazione di coloni europei. «Circa i vantaggi derivanti dalla venuta di emigranti europei, il governo sembra abbastanza persuaso», scrive il capitano, e vi erano motivi perché lo fossero anche gli stessi emigranti. Le caratteristiche climatiche e geologiche della repubblica erano più che favorevoli, per cui, con l’apporto dei coloni, le zone coltivate avrebbero potuto espandersi a dismisura. Il suolo era incredibilmente fertile, per cui, per migliorarne lo sfruttatamento, si richiedevano soltanto delle tecniche agricole adeguate. Con l’uso di macchinari e sotto una direzione europea, anche le miniere si sarebbero rivelate assai redditizie. Sotto certi aspetti, Cochrane anticipa Airiau. Sebbene percorressero la Colombia a distanza di circa quarant’anni l’uno dall’altro, ambedue ne parlano come d’un paese del futuro, le cui invidiabili potenzialità si sarebbero sviluppate previo il superamento di impedimenti inerenti al costume, ai pregiudizi e alla mentalità di gran parte della popolazione. A differenza dell’inglese, Airiau non si dilunga a specificarli, ma nella sua brevità la frase citata sopra – “quand ce peuple pourra et voudra” – è particolarmente rivelatrice: se ne desume che le difficoltà additate dallo scozzese persistevano. Cochrane aveva vaticinato che 212. Vegetazione tropicale, litogr. ottocentesca.

l’orizzonte in fuga

il processo di adeguamento del popolo colombiano avrebbe richiesto un ciclo generazionale, sennonché il tempo trascorso era il doppio di quello additato e le cose non accennavano ancora a evolvere. Parlando di ‘possibilità’ e ‘volontà’ Airiau sembra sottintendere che ad intralciare il progresso della Colombia fossero due ordini di intoppi, naturali e storici. Da un lato esistevano carenze congiunturali, dall’altro difetti endemici, legati a fattori razziali, che neppure l’educazione – checché ne dicesse Cochrane – poteva correggere. Per superare questo secondo scoglio, si richiedeva un intervento esterno, di tipo eugenico: il miglioramento della razza, vale a dire l’ingrossamento della componente bianca. Anche Cochrane aveva sottolineato l’importanza dell’immigrazione europea, ma Airiau andò oltre. Il tempo perso dimostrava che la possibilità e la volontà di cambiamento dei colombiani erano ancora lontane dal concretarsi, ragione per cui non rimaneva che rivolgersi alla ‘filantropia’ straniera. Sicuro di ciò, e non meno convinto dei benefici che ne sarebbero derivati al mondo civilizzato e alla propria scarsella, il francese elaborò un progetto a tutto tondo, incentrato sulla colonizzazione dell’istmo del Darién da parte di 100 mila coloni europei. Distribuiti in 150 aziende agricole su un’estensione di 400 mila ettari, i coloni si sarebbero dedicati alla coltivazione del caffé, del cacao e del tabacco avvalendosi dell’aiuto di peones indigeni. Le ricchezze del Tropico erano enormi, ma siccome i nativi non potevano o non volevano trarne profitto, era giusto appropriarsene... a patto di farlo altruisticamente. Sulla straordinaria feracità della natura tropicale s’imperniano altresì i piani migratori di John Adolphus Etzler, autore di un opuscolo eloquentemente intitolato Emigration to the Tropical World for the Melioration of all classes of People in all Nations, apparso a Londra nel 1844.34 Una decina d’anni prima Etzler si era posto una domanda fondamentale, ossia, per quale ragione gli abitanti del Vecchio Continente avrebbero dovuto sentirsi invogliati ad emigrare? La risposta che egli si diede fu questa: «La densità della popolazione europea, il diffusissimo scontento delle masse, le tensioni sociali e l’oppressione politica che affliggono la gente nonché la prospettiva di una vita molto più felice... cospireranno facendo sì che inauditi torrenti migratori si dirigano verso altri lidi», in particolare verso i paesi tropicali.35 Per Etzler non si trattava di sollevare dall’abiezione e avviare al progresso le ex-colonie spagnole, bensì di edificare entro i loro confini un mondo felice per le tribolate popolazioni europee. La soluzione era a portata 34 J.A. Etzler, Emigration to the Tropical World for the Melioration of all classes of People in all Nations, Surrey, 1844. Utopista e inventore, Etzler è noto soprattutto per il libro The Paradise Within the Reach of All Men, without Labor, by Powers of Nature and Machinery, Pittsburgh, 1833. 35 J.A. Etzler, The Paradise, op. cit., p. 3.


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di mano, per l’umanità stava per cominciare un periodo fra i più propizi e innovatori! «Migrazioni di milioni di individui dal Nord verso il Sud sono alle porte – annunciò Etzler nel 1844 –, essi fonderanno nuove nazioni, nuovi imperi superiori in tutto e per tutto a quelli conosciuti».36 Il suo ragionamento era semplice: poiché l’estensione delle aree tropicali era di circa 100 milioni di miglia quadrate, delle quali una quinta parte costituita da ottime terre coltivabili, messe a frutto queste sarebbero state in grado di sfamare popolazioni ben più numerose di quelle esistenti. Partendo dall’assioma che “accurate conceptions require arithmetic”, Etzler avvalorò la propria trovata mediante un’equazione matematica: data una superficie coltivabile superiore ai dodici miliardi di acri (com’era quella ricavabile ai Tropici), calcolando che ogni acro, se messo opportunamente a frutto, sarebbe bastato per il sostentamento di 1 o 2 persone, e considerando infine che la popolazione mondiale non superava il miliardo di individui, ne risultava che nelle regioni tropicali avrebbe trovato posto e cibo una popolazione da 12 a 25 volte più numerosa di quella esistente. Le buone notizie non erano terminate: «Se, come afferma Humboldt, è vero che un acro di suolo tropicale fertile produce 50 volte di più di un acro di terra in Europa, allora la proiezione diventa smisurata: i tropici potrebbero ospitare fino a 1280 volte l’attuale popolazione mondiale». In conclusione, “the 200 millions inhabitants of Europe might be lodged in some scarcely discoverable small corner in America”.37 Etzler scelse il Venezuela, più esattamente una zona nei pressi di Valencia. Vi si recò assieme ad un gruppo di emigranti inglesi subito dopo la pubblicazione dell’aureo libretto, proprio nel periodo in cui Codazzi si dannava per salvare la Colonia Tovar, distante poche decine di chilometri dall’insediamento di Etzler, da morte prematura. Non occorre dire come finì il paradisiaco esperimento. Riguardo agli effetti deleteri del giogo spagnolo e al lungo tempo necessario a cancellarne le tracce, sono interessanti le annotazioni di un altro osservatore inglese, il colonnello John Potter Hamilton, ministro plenipotenziario di Sua Maestà Britannica in Colombia. Hamilton, che risiedette nella novella repubblica nel 1825, subito dopo il passaggio di Cochrane, scrive: It will probably take some time before the country is exactly suited to the present constitution [adottata nel 1821]... It is not easy to eradicate immediately from the minds of the people their former prejudìces and bad habits, which had been encouraged and fostered by the cunning and artifice for which the Spanish priesthood have always been notorious. [Ci vorrà probabilmente qualche tempo prima che il paese si adatti alla perfezione alla presente costituzione... Non è per niente facile

36

J.A. Etzler, Emigration..., op. cit., pp. 3 e ss. Ibid. 38 J.P. Hamilton, Travels through the interior provinces of Columbia, London, 1827, I, p. 251 e ss. 37

213. ‘A lomo de indio’, portatori neogranadini, 1827.

sradicare d’immediato dalla mente delle persone quei pregiudizi e quei costumi incoraggiati e promossi dalla malizia e i sotterfugi notoriamente caratteristici del clero spagnolo].38

Per fortuna, il governo, consapevole della gravità del problema, si era impegnato a «mettere in pratica i decreti del Congresso relativi all’educazione dell’intera popolazione della repubblica, senza distinzione di classe». Inoltre, la gente era sveglia («fra i variopinti abitanti della Colombia non vi è affatto scarsità d’intelletto»), per cui, tutto considerato, il suolo appariva fertile: una volta ripulito dai rovi, il raccolto non si sarebbe fatto aspettare. Non c’era ragione di dubitarne, visto che “the generality of the people have clear heads and quick perceptions, and under a wholesome and just government they will become useful citizens” [in generale le persone sono sveglie e hanno riflessi pronti, per cui sotto un governo ampio e giusto diventeranno dei buoni cittadini]. Per quel che concerne l’immigrazione, osserva Hamilton, «in questo paese vi sono estensioni di ottima terra, in abbandono per mancanza di braccia». A ben vedere, la Colombia era «un posto per emigranti». Prescindendo dai benefici che ne avrebbero ricavato i coloni europei, l’immigrazione sarebbe convenuta, e molto, all’ex-colonia. Di conseguenza, il Congresso e il Governo della repubblica dovrebbero fare di tutto per convincere gli stranieri a stabilirsi nel paese ed


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214. G. Osculati, Risalendo il fiume Napo, 1854.

ingrossare la popolazione; infatti la vera ricchezza di una nazione come questa, costituita da immense aree non coltivate e quasi disabitate, è proprio la popolazione attiva.

Subito dopo, un po’ a sorpresa, Hamilton conclude: “No country ever required a longer peace than Colombia”. Quantunque, a differenza di Cochrane, Hamilton non s’impegoli nella difesa della concentrazione della ricchezza, per il resto il suo discorso non si discosta da quello del connazionale... salvo il diverso taglio. Cochrane osserva la realtà colombiana con gli occhi di un cittadino britannico, con l’intenzione di riferire ciò che ha visto a degli inglesi. Sono costoro i suoi destinatari, ed essi soli. Lo sguardo di Hamilton è più flessibile, giacché, da buon diplomatico, si rivolge non solo ai propri connazionali ma anche ai colombiani. Onde adeguarsi ai modelli di lettura e alla capacità di comprensione del pubblico britannico, Cochrane impiega una tipologia discorsiva e degli argomenti di facile digestione, basati sul common sense. Hamilton procede diversamente: primo, scarta sia l’argomento razziale che quello morale, vale a dire i topoi più frusti dell’approccio europeo alle realtà diverse; secondo, accenna alle soluzioni in corso (come l’impegno del governo nei confronti dell’educazione); terzo, addita i vantaggi dell’immigrazione, collocandoli però in una prospettiva colombiana; quarto, non accusa la Spagna – altro luogo comune – bensì l’oscurantismo clericale. Cochrane e Hamilton non dicono cose sostanzialmente dissimili, ma le organizzano secondo logiche diverse, schematica l’una, possibilista l’altra. Volente o nolente, Co-

chrane tende a proiettare il proprio discorso su uno scenario ontologico, ove il bene si oppone al male, la libertà alla schiavitù, la civiltà alla barbarie. Hamilton, in cambio, storicizza, relativizza. Delle due posizioni, quella più consona ai lettori inglesi era la prima, più aderente della seconda al mito sempre caro e confortante del ‘buon selvaggio’. Fra gli scritti che prendono in esame le prospettive e i problemi connessi all’emigrazione europea verso la Colombia, riveste particolare interesse la relazione del colonnello irlandese Francis Hall, apparsa a Londra nel 1825.39 L’autore, dapprima legionario bolivariano poi giornalista e idrografo al servizio del governo grancolombiano, esordisce sottolineando la responsabilità di quei viaggiatori che, con descrizioni non sempre accurate, spingono i coloni verso questo o quel paese: Il tema dell’emigrazione esige più d’ogni altro il senso di responsabilità dello scrittore: il benessere o la rovina di migliaia di persone possono dipendere dalla fedeltà delle sue descrizioni. Scoprire di aver causato lo sfacelo anche d’una singola famiglia o di un solo individuo per il piacere di dipingere un Paradiso Transatlantico renderebbe inestinguibile il suo rimorso.

39 F. Hall, Colombia: its present state in respect of climate, soil, population, government, commerce, revenue, manufactures, arts, literature, manners, education, and inducements to emigration, London, 1825, passim; cfr. C. Sandoval, Francis Hall: un combattente per la libertà in Gran Colombia (1820-1833), Firenze, 2007.


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215. G. Osculati, Villaggio lungo il fiume Napo, 1854.

Le chimere potevano essere scansate facendo leva sul buonsenso, inquadrando i possibili scenari con sguardo vigile. I vantaggi e gli svantaggi dell’emigrazione – una svolta il più delle volte senza ritorno – dovevano essere soppesati in base a due criteri: era necessario valutare sia il contesto naturale dell’insediamento (estensione e caratteristiche delle terre disponibili, entità del lavoro richiesto per metterle a frutto, ecc.) che le condizioni politiche e culturali del paese ospitante (propensione dei governi locali, indole degli abitanti e livello di civiltà).40 Dal punto di vista naturale, i benefici offerti dalla Colombia erano perfino superiori a quelli proverbiali degli Stati Uniti. Per menzionare soltanto i prodotti agricoli, la qualità di quelli colombiani era così elevata da essere considerati da molti “the most valuable of the world”. L’ex-colonia disponeva di terre colti-

vabili in misura uguale o maggiore alla repubblica del Nord, oltretutto più fertili e accessibili, e quindi sfruttabili con minor sforzo; inoltre, i generi di sussistenza, compreso il cibo, l’alloggio e l’abbigliamento, erano ottenibili più facilmente. Dal punto di vista politico, la volontà del governo colombiano di agevolare l’immigrazione era manifesta. Per averne conferma, bastava scorrere gli articoli della legge dell’11 ottobre 1821 nonché il testo del decreto del 18 giugno 1823. In quanto all’atteggiamento della popolazione verso i coloni europei, i discendenti degli spagnoli (cioè i criollos) li vedevano indubbiamente di buon occhio, anzi, ne auspicavano la venuta.41 La minoranza creola, convinta com’era che la maggioranza della popolazione – composta da indigeni e meticci – fosse endemicamente incapace di trarre profitto dagli immensi vantaggi del suolo,

40 F. Hall potrebbe essere l’autore di un altro ‘rapporto colombiano’: Anonimo [An Officer Late in the Colombian Service], The Present State of Colombia; containing an account of the principal events of its revolutionary war; the expeditions fitted out in England to assist in its emancipation; its constitution; financial and commercial laws; revenue expenditure and public debt; agriculture; mines; mining and other associations; with a map exhibiting its mountains, rivers, departments and provinces, London, 1827. Nonostante la somiglianza dei titoli, l’attribuzione rimane incerta. L’autore di The present state of Colombia, serio e bene informato, esamina le iniziative governative volte ad incrementare l’immigrazione, soffermandosi in particolare sulla legge del 1821. Questa, a suo giudizio, era velleitaria e carente. Non era facile che gli emigranti europei si lasciassero attrarre da un paese come la Colombia, e ciò per due

ragioni principali: la diffidenza della popolazione nei confronti degli stranieri e l’intolleranza religiosa. Rispetto alla diffidenza, essa era condivisa per motivi diversi da tutti i ceti, ivi compresa la minoranza creola (un’eredità ispanica). In quanto all’intolleranza, sebbene fedi diverse dalla cattolica fossero ammesse per legge, non era però permesso il loro culto pubblico. Gli emigranti protestanti non avrebbero accettato una simile restrizione. 41 F. Hall, op. cit. “One of the facts which most agreably presents itself to the mind oj the European traveller in almost every part of Colombia, is the opinion which seems universally felt, and is universally avowed,of the necessity of a large influx of foreign settlers. Every where he hears an outcry for foreigners, every where lamentations over the ignorance and indolence of the present inhabitants”.


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216. Modo di superare i precipizi andini, 1827.

non poteva non convenire che il progresso del paese dipendeva dall’iniziativa e dalla mano d’opera straniere. In proposito, aggiunge Hall, era opportuno ricordare che foreigners have won its independence [della Colombia], foreigners have created its commerce, its marine has been furnished, armed, manned, and commanded by foreigners, its soldiers have been disciplined, and are still armed, clothed, and, in great mesure, fed by foreign capital [gli stranieri hanno conseguito l’indipendenza della Colombia, gli stranieri ne hanno creato il commercio, la sua marina è stata allestita, armata, equipaggiata e comandata da stranieri, il suo esercito è stato addestrato ed è tuttora armato, vestito e in gran misura nutrito da capitali stranieri].

Memori di ciò, i colombiani non potevano provare nei confronti degli stranieri se non gratitudine e simpatia... e così sarebbe stato se una miscela di indolenza e cupidigia, ahimè tipica, non li avesse resi permalosi. Comunque, osserva Hall, dal momento che la stessa commistione caratterizzava altresì l’insieme delle donne europee, non era il caso che il lettore – e potenziale emigrante – se ne preoccupasse. La stessa mancanza di risolutezza e di saldi parametri di condotta così comune nel gentil sesso (una limitatezza che l’educazione non era in grado di sanare), poteva essere ravvisata anche nei colombiani. Risalire alle origini di siffatto fenomeno non era difficile: Una secolare tradizione di schiavitù e oppressione, solo in parte bilanciata da un febbrile intervallo di libertà mal capito e mal goduto; la quasi completa mancanza di educazione e l’assenza di quello stimolo morale che, sotto il nome di senso dell’onore, spinge ogni individuo della società europea ad assumere una condotta coerente con il proprio stato; tut-

te queste circostanze hanno provocato [nei colombiani] una negatività o debolezza di pensiero e di azione che li rende inaffidabili e problematici.

Ad onta di ciò, “the most pleasing trait in the character of the Colombian Creoles is good nature”; quindi, purché non si pretendesse educazione, senso dell’onore e spirito di collaborazione (“active benevolence”), convivere con la popolazione era fattibile. Insomma, mentre le stupefacenti risorse naturali facevano della Colombia una sorta di “transatlantic paradise”, le pecche morali la rendevano in certo qual modo repulsiva. Pur senza scalzare la loro “good nature”, gli aspetti negativi del carattere dei colombiani erano tali e tanti che avrebbero potuto mettere a repentaglio i piani dei coloni europei. Nella prospettiva dell’emigrante poco importava che tali difetti scaturissero da secoli di oppressione: ciò che contava e preoccupava erano i decenni necessari a porvi rimedio... sempre che ciò, alla fine, fosse possibile. Al pari del progresso materiale, anche il risveglio spirituale dipendeva dall’intervento europeo; tuttavia, questo sarebbe stato impossibile senza la “active benevolence” della popolazione locale, nativa e criolla. La decisione di emigrare verso un paese che diffidava degli stranieri nella stessa misura in cui dipendeva da essi, che nel contempo li attirava e li respingeva, richiedeva realismo e ponderatezza. Non se ne avesse a male il lettore, conclude Hall, ma “above all, as far as respects foreign settlers, it is desirable they should come prepared in all things for the worst”. Anche per Francis Hall la Colombia era un paese del futuro, però un futuro non necessariamente vicino. Il ritardo storico rispetto alle nazioni civili era


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un posto al sole

notevole e il consolidamento della repubblica, al pari del progresso sociale, ne esigevano il superamento. Tuttavia, la possibilità che i colombiani – che di tale ritardo erano gli sfortunati portatori nonché gli inconsapevoli favoreggiatori – ci riuscissero da soli era illusorio. Oltre a svilupparne la produttività, i coloni del Vecchio Continente avrebbero propiziato il rinnovamento morale del paese, contribuendo a risollevare la popolazione dal secolare avvilimento. La speditezza della crescita degli Stati Uniti stava a dimostrare che gli immigranti europei costituivano una sorta di avanguardia del progresso, una forza anticipatrice del futuro. Perché, allora, i colombiani vedevano gli stranieri con diffidenza? Per le ragioni di sempre: pigrizia mentale e un malinteso senso della libertà. Il colonnello evita ogni allusione diretta all’inferiorità razziale, ma non può evitare di riferirvisi di rimando. L’indole ‘selvaggia’ della popolazione indigena (e in qualche misura meticcia) era un’eredità genetica ed etnica che non sempre poteva essere giudicata con illuministica benevolenza. Come sarebbe stato possibile, per esempio, sorvolare sulla bestiale ferocia dei llaneros – i gauchos venezuelani – quando “there is not, perhaps, in the world, a race of people who shed human blood with more indifference or with slighter temptation” ? Da certe pagine di Hall affiora, per così dire, lo spregio per gli schiamazzi delle guacamayas. Dalle allodole cantate da Shelley cadeva una “rain of melody”, una “music sweet as love”; dai pappagalli americani, invece, solo disarmoniche strida. Per questo Hegel scelse le prime ad esempio della superiorità della natura del Vecchio Mondo rispetto al Nuovo. Gli animali transatlantici erano «più piccoli, più deboli e più imbelli», esattamente come gli uomini. «Osservando gli animali, annota il filosofo, si percepisce un’inferiorità pari a quella della popolazione».42 A differenza di Hegel, Hall non accenna esplicitamente alla degenerazione fisica e spirituale delle Indie Occidentali: si limita a sfoggiare la superiorità del suddito di Sua Maestà Britannica. Credendosi incapaci di precisare la propria identità dall’interno, i colombiani, come già s’è detto, lasciarono che se ne occupassero i viaggiatori stranieri. In quanto portatori d’una visione del mondo etnocentrica, costoro assimilarono l’alterità all’inferiorità. Se non insistettero su tale equazione, fu perché erano consapevoli dell’urgenza di trasferire in America parte della miseria del Vecchio Mondo (a detta di Hegel verso l’America si rovesciò l’eccedenza e lo scarto dell’Europa), una priorità che imponeva loro di dipingere quadri d’insieme positivi se non allettanti. Le strategie migratorie predisposte dalle grandi nazioni europee perseguivano un duplice obiettivo: l’alleviamento delle tensioni socio-economiche in42 Cfr. G.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, 18281830, IV-V (Firenze, 1973); A. Gerbi, La disputa del Nuovo Mondo. Storia di una polemica (1750-1900), Milano-Napoli, 1955.

217. Allegoria dell’America, fine XVI sec., inc.

terne e l’espansionismo coloniale. In quanto agenti diretti o indiretti di quelle stesse strategie, i viaggiatori dovettero (o si sentirono spinti a) adattare le loro descrizioni agli schemi mentali e alle attese non di lettori qualsiasi ma di potenziali emigranti, e l’immagine delle repubbliche sudamericane non poteva non risentirne. Ciò, peraltro, non vuol dire affatto che a Charles Cochrane o a Francis Hall non stesse a cuore il futuro della Colombia o che fossero incapaci di percepirne la complessità; vuol dire piuttosto che nella loro scala di valori l’Europa sopravanzava l’America, mentre l’Inghilterra primeggiava sul mondo intero. Fra i fenomeni che marcarono con maggior forza la storia europea della prima metà dell’Ottocento, configurandosi come un incontenibile fattore di trasformazione del panorama sociale ed economico, si staglia l’incremento demografico. Di fatto, mancò poco che fra il 1750 e il 1850 il numero degli abitanti del Vecchio Continente raddoppiasse, passando da 140 a 266 milioni. Nell’arco di dodici secoli la popolazione europea aveva raggiunto lentamente i 180 milioni, poi, nel giro di cent’anni, superò i quattrocento. Nessun ordine sociale e politico avrebbe potuto rimanere intatto dopo un simile balzo. L’origine delle tensioni e dei conflitti sociali che caratterizzarono il XIX secolo facendone un’epoca fra le più inquiete ed esplosive, è da ricercarsi appunto negli squilibri cagionati da un incremento della popolazione di molto superiore alla crescita dei mezzi economici. Com’è


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s

218. F. Bellermann, Colonia Tovar, 1843, olio (sketch).

risaputo, l’aumento della produzione e degli scambi commerciali correlato alla rivoluzione industriale, se da un lato comportò un’espansione inusitata del mercato del lavoro, dall’altro dette luogo a nuove forme di sfruttamento e d’ingiustizia sociale. Lungi dal profilarsi come un impulso socialmente fecondo, lo sviluppo demografico, unito ad una distribuzione iniqua della ricchezza, contribuì ad un ulteriore impoverimento degli strati popolari, dando origine al fenomeno dell’emigrazione di massa. Questa, tuttavia, si rivelò ben presto una soluzione inadeguata, giacché, invece di arginare gli scompensi collegati all’aumento della popolazione europea, finì spesso per irradiarli al resto del mondo (per avere un’idea della rilevanza dell’ondata migratoria e dei rivolgimenti su scala mondiale da essa causati, si pensi che fra il 1815 e il 1914 oltre un quinto della popolazione europea si trasferì in altri continenti... recando con sé i propri problemi). Codazzi si ritrovò implicato in questa problematica per propria scelta, anzi, si può dire che dopo il 1840 essa rappresentò il suo maggior cimento nonché una fonte di delusioni e ripensamenti. Tornando agli Apuntamientos citati all’inizio del capitolo, scrive il lughese: Es sabido que los hombres pensadores de Europa ven en el pauperismo producido por el exceso de población, o por la mala distribución de la riqueza, la causa permanente de las convulsiones que ajitan alli la sociedad, cada vez mas graves y profundas. Ellos han juzgado que las emigraciones el unico arbitrio de restablecer el equilibrio entre las necesidades y los medios de existencia, pues la miseria de las multitudes no da espera para resolver las cuestiones que se debaten entre los modernos economistas socialistas. [È risaputo che i pensatori europei vedono nel pau-

perismo provocato dall’eccesso di popolazione o da un’errata distribuzione della ricchezza, la causa permanente dei disordini che sconvolgono la società, ogni volta più gravi e profondi. Quegli stessi pensatori sono persuasi che l’emigrazione è l’unico

sistema per ristabilire l’equilibrio fra i bisogni e i mezzi di sussistenza, e ciò perché la miseria delle masse non concede ritardi nella soluzione dei problemi con cui si misurano gli economisti socialisti].43

Il collegamento fra le “convulsiones” e le vampate rivoluzionarie che meno di due anni prima avevano arroventato gran parte del Vecchio Continente è palese. Tralasciando altre conseguenze, ai fatti del ‘48 fece seguito una considerevole accelerazione del movimento migratorio, un fenomeno che in certi casi (esemplare quello dell’Irlanda) giunse a provocare lo spopolamento di intere regioni. Proprio nel febbraio del 1848, ottantotto operai francesi salparono da Le Havre in cerca d’un “transatlantic paradise”, poi concretatosi nella celebre Icarian Community. Ideatore e promotore di quest’ultima fu Etienne Cabet, autore dei Voyages et aventures de lord William Carisdall en Icarie. La seconda edizione di quest’opera apparve a Parigi nel 1840, mentre era in corso la stampa dell’Atlas del Venezuela, e non sarebbe strano se Codazzi ne fosse venuto a conoscenza. Sebbene negli Apuntamientos non vi sia traccia delle idee di Cabet, il suo interesse per le correnti di pensiero socialiste era vivissimo, e i Voyages rappresentavano le dernier cri dell’utopismo. Peraltro, anche supponendo che avesse letto Cabet, questo non significherebbe che se ne fosse lasciato influenzare. Nel tracciare lo schema della Colonia Tovar, il lughese non si ispirò né al comunismo libertario dell’Icarian Community né al socialismo di Robert Owen. Le responsabilità, i problemi pratici e gli ostacoli connessi ad un’impresa

43

A. Codazzi, “Apuntamientos sobre emigración y colonización” in “Gaceta Oficial”, XII, Bogotá, 1850.


un posto al sole

219. F. Bellermann, Studio di vegetazione tropicale, ca. 1840, dis.

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l’orizzonte in fuga

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220. F. Bellermann, Studio di vegetazione (valle del Tuy), ca. 1843, dis.


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migratoria erano tali che gli aspetti teorico-filosofici non potevano se non passare in second’ordine; per non dire che il suo pragmatismo di fondo mal si accordava all’idea che il benessere sociale potesse raggiungersi mediante utopie. Sempre nel 1840, Sabin Berthelot, segretario generale della parigina Societé de Géographie, si era riferito ai benefici naturali ed economico-politici offerti dal Venezuela in termini così lusinghieri, che gli emigranti diretti negli Stati Uniti non avrebbero potuto non pentirsi della loro scelta: Le concessioni di terre fatte fino ad ora agli emigranti europei non erano mai state così vantaggiose. Nelle colonie inglesi dell’America del Nord, negli Stati Uniti, nel Capo di Buona Speranza, in Australia e in Nuova Zelanda le grandi estensioni acquistate dalle società di emigrazione vengono suddivise in appezzamenti e rivendute ai coloni, e benché il prezzo sia modico e si concedano ai compratori agevolazioni, dette società esigono comunque degli anticipi. Qui [in Venezuela] succede il contrario: il Governo si sobbarca le prime spese; le terre non vengono vendute bensì cedute, e tutto ciò in un paese che offre ai coloni abbondanza di risorse e dove i buoni risultati sono garantiti dalla facilità di sfruttamento, dalla straordinaria fertilità del suolo, dalla ricchezza e la varietà dei prodotti e dalla certezza del loro smercio.44

Per tracciare tale quadro Berthelot si servì delle informazioni geografiche e statistiche raccolte da Codazzi durante i lavori della Comisión Corográfica del Venezuela (Berthelot lesse il manoscritto del Resúmen de la Geografía de Venezuela prima che fosse dato alle stampe). Quantunque nel 1840 il lughese avesse condiviso e perfino alimentato l’ottimismo del naturalista francese, dieci anni dopo il suo punto di vista era profondamente mutato. A motivarne la svolta furono le vicende socio-politiche internazionali del decennio 1840-1850, a loro volta espressione di una crisi economica di vaste proporzioni e di contrasti ideologici sempre più insanabili. Tuttavia, la causa efficiente va ricercata nelle esperienze maturate dallo stesso Codazzi, in particolare nell’esito non proprio lusinghiero dell’esperimento della Colonia Tovar. Si legge negli Apuntamientos: No debemos alucinarnos con el espectàculo de la incesante i copiosa inmigración que de todas partes reciben los Estados Unidos del Norte-América, fuente i causa del rápido engradecimiento de aquella singular nación. El emigrante busca libertad, seguridad, trabajo, salud y riquezas, i todos estos bienes los encontraba en la tierra de Washington, fincados en la índole de los nacionales, en la libertad racional afianzada bajo todos respectos por las instituciones políticas i civiles, i en la naturaleza física que les ofrecía clima, estaciones i producciones análogas a las de Europa. Los Estados Unidos promovieron al principio 44

S. Berthelot, Rapport sur les travaux géographiques et statistiques executés dans toute l’entendu du territoire de Venezuela par M. le Colonel Codazzi, in “Bulletin de la Société de géographie de Paris”, s. 2, XIV (1840), pp. 161-178. Berthelot (1794-1880), viaggiatore e naturalista vicino ad Alexander von Humboldt, fu amico ed estimatore del lughese, il quale a sua volta si servì dei suoi studi botanici e zoologici per il Resúmen de la Geografía de Venezuela.

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las colonìzaciones invirtiendo gruesas cantidades de dinero en pagar el transporte de inmigrados, a los cuales daban tierra de valde i les suministraban auxilios para los desmontes i primeros gastos de establecimiento. Los inmigrados encontraron amplia libertad relijiosa i civil, perfecta seguridad en personas i bienes, i para colmo de ventura, una tranquilidad pública jamás interrumpida por esas convulsiones sociales que paralizan el progreso nacional, i espantan al hombre industrioso para quien es la paz el mas preciado de los bienes. A las empresas felices del Gobierno se siguieron las de varias compañias especuladoras en este ramo, i aun las de simples negociantes, que buscaron sus colonos en el seno de Alemania convidándolos a trocar la miseria, las vejaciones y la opresión por todos los beneficios de la República mejor realizada sobre un suelo vasto i fecundo. Los recién venidos... hallaban pan i hogar seguros, se apresuraban a escribir a sus deudos i amigos sobre esta dichosa transformación de suerte, i muchedumbres tras muchedumbres se levantaron i corrieron hacia la nueva tierra de promisión, estableciéndose una corriente de inmigrados que desde entonces no han cesado de aumentar. Ellos, al pisar las playas de su nueva patria, encontraban poblaciones enteras que profesaban su misma relijión, hablaban su mismo idioma, se cubrían con vestidos semejantes, usaban los mismos alimentos que en Europa, vivían bajo idénticas estaciones i practicaban el mismo sistema de trabajos agrícolas que habían aprendido en la tierra nativa... ¿Cómo ha de haber paralelo exacto entre las colonizaciones del Norte i del Sur de la América? [Non dobbiamo lasciarci incantare dallo spettacolo del nutrito e costante flusso migratorio che si dirige da ogni dove verso gli Stati Uniti, fonte e causa del veloce sviluppo di quel paese. L’emigrante cerca libertà, sicurezza, lavoro, salute e ricchezza, e trova tutto ciò nella terra di Washington, insito nel carattere degli abitanti, nella libertà razionale promossa dalle istituzioni politiche e civili, e in una natura fisica che offre un clima, stagioni e produzioni analoghe a quelle europee. Gli Stati Uniti promossero la colonizzazione investendo grosse somme di denaro per pagare il trasporto degli immigranti, ai quali regalavano terre, fornendo loro altresì aiuti per il dissodamento e le prime spese d’insediamento. Gli immigranti trovarono negli Stati Uniti libertà religiosa e civile, totale sicurezza di persone e beni e, ancor più importante, una quiete pubblica mai interrotta da quegli scompigli sociali che paralizzano il progresso nazionale e intimoriscono gli individui laboriosi, per i quali la pace è il bene più ambito. Alle iniziative riuscite del governo, ne seguirono altre a carico sia di società specializzate che di singoli impresari, che cercarono i futuri coloni in Germania, offrendo loro di scambiare la miseria, le vessazioni e l’oppressione con i benefici della repubblica meglio organizzata del mondo, su un suolo fecondo. I nuovi arrivati... trovarono pane e alloggio sicuro, si affrettarono a informare parenti e amici del colpo di fortuna capitatogli, e moltitudini corsero verso la nuova terra promessa, creandosi così una corrente migratoria che non ha smesso di crescere. Sbarcando nella loro nuova patria, trovavano intere popolazioni che professavano la stessa religione, parlavano la stessa lingua, vestivano abiti simili, si cibavano degli stessi alimenti in uso in Europa, vivevano in un clima a regime stagionale e praticavano le stesse tecniche agricole apprese nella terra natale... Che paragone può mai esistere fra le colonizzazioni del Nord e del Sud dell’America?].

Dieci anni bastarono a far sì che Codazzi, insoddisfatto dei risultati della Colonia Tovar, si sbarazzasse tanto dei miraggi d’un Berthelot quanto delle proprie illusioni, e si accingesse a metter mano al progetto immigratorio neogranadino con il ‘pessimismo della ragione’. L’emigrazione verso l’America del Nord non costituiva un termine di paragone valido: dall’osservatorio tropicale di Codazzi, gli Stati Uni-


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ti rappresentavano la “República mejor realizada del mundo”, una terra felice ove, grazie al buon governo, allignavano la libertà e la pace; un paese vasto e fertile, verso il quale gli emigranti europei accorrevano a frotte in cerca d’una vita migliore, sia in termini economici che sociali, attirati per giunta da condizioni ambientali e culturali del tutto simili a quelle appena abbandonate. L’America tropicale non era la terra promessa: i diseredati del Vecchio Continente – ossia, quegli ‘avanzi’ dei quali aveva parlato Hegel – non dovevano credere che in Colombia avrebbero trovato l’Eldorado. Non era vero che essa fosse una terra arrendevole e prodiga, da occupare e sfruttare a piacimento: era invece una regione selvaggia e inospitale, che per essere domata richiedeva da parte dei nuovi arrivati coraggio, pertinacia e, soprattutto, apertura verso il nuovo e l’inaspettato. I sogni degli emigranti tedeschi giunti in Venezuela per dar vita alla Colonia Tovar naufragarono fin dal momento dello sbarco perché tutto era diverso da come se lo erano figurato, anzi, irriconoscibile. Il loro sconcerto si tramutò dapprima in scontento, poi in amarezza, infine in proteste e ribellione. Il quadro abbozzato da Codazzi è impietoso: Consideremos ahora el estado moral del colono recién llegado, juzguemos si estará en disposición de acometer las reales tareas de esta conquista sobre una naturaleza pujante a la par que agreste. Ellos vienen de paises abiertos i sanos, donde el mayor calor del estío, de poca duración, jamás llega a calentar el suelo como el sol de nuestras rejiones; llegan ajitados por los aprestos i sobresaltos del viaje, irritados por las comidas saladas i el hacinamiento en los buques de transporte, sofocados por el calor de los trópicos desde que se aproximan a nuestro continente, i empezando a sufrir los efectos de un clima desconocìdo: pisan las playas anheladas, que se figuran de mil modos, pero nunca segùn son en realidad, imajinándose que van a conseguir una fortuna rápida sin mucho trabajo, soñando en quimeras que les exaltan los ánimos, i contando con una protección desmesurada que exijen para las menores cosas; al desembarcar se admiran de la diversidad de colores que presenta la población de nuestras costas, i de los usos i costumbres tan diversos de los suyos: se arrojan con avidez sobre todo linaje de frutas, i hallando baratos los licores fuertes hacen de ellos un uso inmoderado i funesto: orgullosos i despreciadores de los criollos mestizos se juzgan superiores a ellos, menosprecian sus consejos, se burlan de los rayos solares, i el calor que los ahoga no basta para hacerles cambiar sus cachuchas i malos sombreros por los de palma, ni sus gruesos vestidos por otros mas apropiados al nuevo clima; i de imprudencia en imprudencia caminan a su pérdida con la tenacidad de hombres ignorantes i presuntuosos. En esta situación es menester hacerlos marchar a pie al lugar de su destino, pues apenas para los bagajes podrdn conseguir bestias; y desde aqui empieza la reacción de la realidad sobre las ilusiones que los exaltan. Por lo pronto las niguas, que parecen preferir la sangre del europeo, se encargan de ponerles los pies en disposición de no poderse calzar, i ellos no saben marchar sin zapatos. Posadas para tanto nùmero de jente no la hai, habiendo de acampar al descubierto. Ya no encuentran pan de trigo, papas, cebada ni cerveza, que eran su alimento acostumbrado, sino plátanos, yuca, frisoles, carne i aguardiente de caña; los alimentos extranos, las aguas nuevas, los humedales, el calor i las incomodidades de los acampamentos comienzan a enfermarlos i abatirlos. Llégase por fin al asiento de la colonia, i unos pocos ranchos de paja entre las ruinas de la selva i en la mitad de un solitario desierto es el espectàculo que se les

l’orizzonte in fuga

ofrece corno en contraste de lo que en su fantasia imajinaron. Si por desgracia, como es mui probable, se determinan las enfermedades frecuentes de la aclimatación, se aumenta el descontento, creen que se les ha engahado, i que los han conducido a morir, se entristecen i abaten, mueren algunos i las quejas estallan dejenerando en rebelión. [Consideriamo ora il morale del colono appena arrivato, chiediamoci se sarà in grado di affrontare le reali sfide connesse alla conquista di una natura rigogliosa e selvaggia. I coloni provengono da paesi temperati e salubri, dove il maggior calore estivo, di breve durata, non giunge mai a scaldare il suolo come qui da noi; arrivano alterati dai preparativi e dai travagli del viaggio, irritati dai cibi salati e dalla ressa delle navi da trasporto, soffocati dal calore dei Tropici fin dal primo approssimarsi al nostro continente, iniziando a patire gli effetti di un clima nuovo; poi sbarcano sugli anelati lidi, che s’erano immaginati in mille modi, mai in quello giusto, convinti che faranno fortuna in quattro e quattr’otto e senza sforzo, sognando eccitanti chimere, contando su, anzi, pretendendo aiuti d’ogni tipo; messo piede a terra, si stupiscono della diversità di colorito che presenta la pelle delle nostre popolazioni delle regioni costiere, degli usi e dei costumi così lontani dai loro; si gettano avidamente su qualsiasi frutto, e trovando liquori forti a buon prezzo ne consumano smodatamente con effetti funesti; orgogliosi e sprezzanti verso i meticci, si reputano superiori, non ascoltano i loro consigli, si beffano dei raggi solari, e il calore che divampa non basta a convincerli di cambiare i loro berretti e cappelli pesanti con copricapo di palma, i loro vestiti di panno con altri più appropriati al nuovo clima; e d’imprudenza in imprudenza si dirigono verso la perdizione con la caparbietà di uomini ignoranti e presuntuosi. A questo punto bisogna farli marciare a piedi fino al luogo di destinazione, visto che i muli bastano solo per i bagagli. Ed è qui che la realtà comincia ad avere il sopravvento sull’immaginazione. I vermi, che sembrano preferire il sangue europeo, fanno in modo che non possano calzare scarpe, e i coloni non sanno camminare scalzi. Non c’è riparo per tante persone, bisogna accamparsi allo scoperto. Il pane di frumento non si trova, non si trovano patate né avena né birra, cioè, i loro cibi abituali; non c’è altro che platani, manioca, fagioli, carne e acquavite di canna; gli alimenti strani, l’acqua d’altro tipo, le paludi, il calore e la scomodità degli accampamenti cominciano a deprimerli e a farli ammalare. Alla fine, pervengono al luogo della colonia e ai loro occhi si presentano alcune capanne di paglia fra i resti della foresta appena abbattuta, in mezzo alla solitudine e al nulla, ed è questo lo spettacolo che si oppone ai loro sogni, Se disgraziatamente, come spesso succede, a questo si aggiungono le malattie da acclimatazione, lo scontento aumenta, sospettano di essere stati ingannati, di essere avviati alla morte, si rattristano, si deprimono, alcuni muoiono, le lamentele crescono fino a degenerare in ribellione].

A differenza di Hall e degli altri viaggiatori fin qui esaminati, Codazzi conduce la propria analisi induttivamente, avvalendosi di conoscenze empiriche ed esperienze dirette accumulate nell’arco di trent’anni. La sua padronanza della geografia era impareggiabile: aveva attraversato il territorio venezuelano e neogranadino passo a passo, misurandolo metro per metro, studiandolo, descrivendolo, proponendone un utilizzo razionale. Non era un osservatore freddo e distaccato: vivisezionare la realtà delle due repubbliche, constatarne l’arretratezza, figurarsene il progresso, presagirne i problemi... tutto ciò lo appassionava e lo addolorava in prima persona. Sentimenti inadatti ad un uomo di scienza, si dirà, ma per Codazzi, come per Humboldt, scienza e coscienza, oggettività e sog-


un posto al sole

221. F. Bellermann, Valle del Tuy, ca. 1843, studio ad olio.

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gettività, si amalgamavano in un composto etico. Per lui, ancor più che per Humboldt, l’impegno etico era inseparabile dallo spirito critico. Il barone guardava all’America da lontano, con la ponderatezza e il calore di un savant mai indifferente, ma comunque europeo. Il lughese, per contro, aveva fatto dell’America il proprio habitat, la propria patria, e ne godeva o se ne doleva come un buon cittadino. Si è detto che “amaba a estas repúblicas como a su patria” – e si è visto come si sforzasse di esserne ‘adottato’ – ma va anche detto che non perse la testa. Negli Apuntamientos (la stessa considerazione potrebbe estendersi alla sua opera nell’insieme) l’obiettività dell’uomo di scienza si fonde con la responsabilità del “ciudadano de bien”, dando luogo ad un altro composto, che potremmo definire ‘politico’. Nella sua prospettiva, infatti, la conoscenza, improntata com’era al miglioramento della società, aveva una palese valenza politica. Ed è appunto per questo che, nel formulare i suoi giudizi rifuggiva dalla condiscendenza... scontentando e inimicandosi in tal modo la classe politica.

l’orizzonte in fuga

Si è parlato della sua concezione ‘utilitaristica’ della geografia, ed è fuor di dubbio che l’aggettivo calzi, per lo meno in quei casi in cui Codazzi si lasciò trascinare dall’ottimismo positivistico (se non dalle «immense quantità di denaro» pagategli dal governo neogranadino!). Ma cedimenti a parte, ciò che sempre prevalse nel suo approccio al reale fu un atteggiamento inquisitivo e dubbioso, lontano da ogni credenza, fosse pure la fede nel progresso. Persona solitaria e un po’ scontrosa, il lughese, però, era un buon conoscitore del prossimo e di se stesso, una comprensione acquisita a contatto con il mondo fisico, attraverso un confronto intimo con esso: un’immersione trentennale, che fece di lui un individuo sui generis, sia dal punto di vista scientifico che personale. Mentre le potenze coloniali intensificavano lo sfruttamento della terra e degli uomini con gli occhi fissi al profitto, Codazzi – cittadino di una ex-colonia e intenditore delle cose della natura –, andò convincendosi che “the pursuit of Happiness” non poteva, non avrebbe dovuto, svilupparsi in quella direzione.


un posto al sole

222. Emigranti verso l’America, prima metà XIX sec., stampa popolare.

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223. Ritratto di Agostino Codazzi.


ritratto parlato

Quante vite ha un gatto? sette o nove? Neruda, che ai gatti dedicò un’ode memorabile, non lo dice; dal canto suo Pirandello parla di sette anime. Quante vite o anime ebbe Codazzi? Nel corso delle pagine anteriori abbiamo creduto d’individuarne diverse, articolate attorno ad uno snodo esistenziale verificatosi fra il 1825 e il 1827: l’adolescenza a Lugo, gli anni napoleonici, il lungo periplo che da Livorno, attraverso Itaca, lo portò da Istambul ad Amsterdam, l’epopea caraibica, il ritorno in Romagna, il lungo periodo venezuelano e il decennio neogranadino... sette momenti, sette scenari, sette strappi. Esiste, in questa varietà di situazioni, scelte e svolte, un fil rouge? Abbiamo visto come in gioventù dominasse in lui lo spirito panglossiano, poi come, con l’avanzare degli anni, prendesse il sopravvento un atteggiamento quasi opposto. Forse il punto è questo, questa frattura fra due diverse concezioni della vita e del mondo. I ritratti possono aiutarci a capire, infatti, paradossalmente, consentono di percepire allo stesso tempo ciò che è visibile e ciò che non lo è. Il libro più godibile su Codazzi si deve alla penna di Beatriz Caballero, sceneggiatrice e scrittrice di libri per bambini. Le esperienze realizzate in campo televisivo e in seno alla letteratura infantile, domini solo apparentemente lontani fra loro, l’hanno portata ad elaborare un ritratto forse non del tutto esatto ma certamente attraente e icastico. Concepito dapprima come un manualetto didattico di poche cartelle, il testo, ingrossatosi cammin facendo, si estende per oltre 200 pagine. Il titolo, Las siete vidas de Agustín Codazzi, è una parafrasi faceta dell’idea (niente affatto peregrina) dell’autrice secondo cui la vita del lughese potrebbe dividersi in sette periodi ben distinti sia dal punto di vista storico-biografico che geografico. «Della vita di Codazzi... si può dire che fu un viaggio

– scrive la Caballero –, o meglio, sette viaggi, ciascuno di essi corrispondente ad un’età, a un luogo, a uno dei suoi aspetti». Per capire come mai un anonimo soldato italiano divenne combattente per la libertà dell’America Meridionale e poi geografo e cartografo del Venezuela e della Nuova Granada, bisogna ripercorrere l’intero periplo, una tappa dopo l’altra. Una volta percorso, si giungerà alla conclusione che «fu lui il vero scopritore del continente sudamericano, ancor più di Humboldt e dello stesso Colombo, il quale non si spinse mai oltre le sponde e non si rese nemmeno conto dell’esistenza dell’America».1 Nell’ottica della scrittrice colombiana, Codazzi appare come “un señor italiano de bigote espeso, ojo redondo, seño fruncido y pelo indómito que parece una caricatura de sí mismo” [un signore italiano dai fol-

ti mustacchi, gli occhi rotondi, la fronte aggrottata, la capigliatura ribelle che sembra una caricatura di se stesso]. Dal

momento che il lughese ha (o sembra avere) l’aspetto accigliato in uno solo dei ritratti noti, la Caballero non può riferirsi che a quello. Lo dipinse un pittore anonimo dopo il 1854, quando Codazzi, passata la sessantina, venne promosso generale. In verità, gli occhi non sono tondi e i capelli non propriamente indomiti; tuttavia, se non fosse per l’assenza totale di connotazioni caricaturesche, la descrizione della scrittrice colombiana sarebbe accettabile. Ma forse l’immagine a cui essa si riferisce è un’altra, vale a dire, un piccolo ritratto ad olio eseguito a Parigi verso il 1840 (quando il nostro eroe non aveva ancora cinquant’anni), poi adottato come modello dal ritrattista successivo. Si deve a Pierre-Roch Vigneron 1 B. Caballero, Las siete vidas de Agustín Codazzi, Bogotá, 1994, passim.


l’orizzonte in fuga

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224. Le soldat laboureur, 1822.

(1789-1872), pittore e incisore abbastanza affermato, allievo di Jean-Antoine Gros. Nel 1843, dal dipinto di Vigneron trasse una litografia Carmelo Fernández, artista venezuelano già autore dell’unico ritratto di Codazzi in piedi. Nel quadro di Vigneron il lughese ha gli occhi tondi (si fa per dire) e la folta capigliatura scomposta. Ma la fronte appare distesa e lo sguardo per nulla corrucciato; inoltre, non ha l’aria di un “señor italiano” bensì, volendo qualificarla ad ogni costo, di un caudillo messicano. Il frontespizio delle Siete vidas è illustrato da un altro ritratto, al di sotto del quale si legge: «Codazzi commissionò a Vigneron un proprio ritratto ad olio, in uniforme, serio, con fusciacca e tutte le decorazioni. Ed anche un disegno bellissimo che dovette essere un’idea del pittore...». La Caballero ha ragione nell’affermare che Codazzi, insignito della Legion d’Onore per meriti scientifici nel 1842, si fece ritrarre in divisa (era colonnello di artiglieria in servizio effettivo dell’esercito venezuelano), il petto fregiato dalla medaglia testè ricevuta. Invece, sbaglia nel ritenere che il disegno e l’olio siano più o meno coevi. A convincerci del contrario basta un’occhiata: l’olio ritrae un cinquantenne, il disegno un trentenne. L’eventualità che Vigneron decidesse per proprio diletto di effigiare il nostro eroe più giovane di vent’anni è

225. Les Moissonneurs de la Beauce, 1821.

inverosimile, la possibilità che l’idea fosse venuta a Codazzi non meno assurda... dunque? Codazzi giunse a Parigi nel 1822. In alcuni quartieri, soprattutto colà dove si affollavano i reduci di guerra, era ancora avvertibile la nostalgia napoleonica. Accanto allo struggimento per l’Impero svanito, ferveva ormai da tempo un rinnovato sentimento patriottico, fatto di fierezza per le glorie passate e di affidamento nel futuro. Era giunto il momento di misurare la grandeur della Francia con un metro diverso da quello ideologico e militare. Scesa dalle barricate, Marianna incitava i francesi ad essere degni della patria anche ad armi abbassate, ad essere operosi com’erano stati intrepidi. Per l’avvenire, le sorti della nazione non si sarebbero decise sul campo dell’onore bensì su quei campi dove, spentosi l’eco delle battaglie, sarebbe tornato a crescere il grano. Spinti da questa certezza, i più volenterosi fra i reduci dell’Armée s’impegnarono a dimostrare che alla patria, oltre che il sangue, si poteva donare il sudore della fronte. Esempi illustri d’epoca romana additavano come, terminata la guerra, i combattenti fossero tenuti non solo a riporre le armi ma a contribuire altresì con la loro operosità alla pace e alla felicità della terra natale. A distanza di secoli, tale lezione era ancora valida: volendo riaffermare il loro amore


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ritratto parlato

verso la Francia, i grognards della Vecchia Guardia avrebbero dovuto trasformarsi in “soldats laboureurs”. Non tutti conoscevano la storia di Cincinnato, ciò nondimeno la figura del ‘guerriero contadino’ era nota ai più grazie al teatro di vaudeville. Consolidatosi in epoca rivoluzionaria, il personaggio di Chauvin – il più celebre dei “soldats laboureurs” – ebbe una nuova fioritura nel periodo in cui Codazzi visitò la capitale francese. In quei giorni, per esempio, furoreggiava sulla scena del Thèatre des Variétés una “comédie villageoise” imperniata su Francoeur, personaggio che già dal nome rivelava l’intenzione di spodestare Chauvin (Les Moissonneurs de la Beauce ou le Soldat Laboureur). Afferma il lughese nelle Memorie che il suo ritorno in Europa fu motivato dagli affari intrapresi subito dopo aver abbandonato il servizio militare. «Preso porto [a St. Thomas] ed informati dei prezzi che le nostre merci facevano in Europa – ricorda – ci decidemmo di colà recarci, ma ritornar poscia per proseguire nel commercio». Tuttavia, nel corso del viaggio la prospettiva dei due amici mutò radicalmente, tant’è che decisero di rimanere in Italia e ritirarsi in campagna («la campagna del Serraglio nella comune di Massa Lombarda»), ove «addetti alla coltivazione delle terre, viviamo... una vita meno pericolosa di quella che si conduceva sui campi della gloria o sopra fragili legni nell’instabile elemento». In queste parole, inutile sottolinearlo, sembra riecheggiare l’insegnamento di Cincinnato: quale miglior coronamento d’una vita spericolata e gloriosa che la laboriosa semplicità della campagna avita? Orbene, quando e perché i due amici si trasformarono in laboureurs? Fino a che punto influì sulla loro decisione – se mai influì – il mito del ‘guerriero contadino’? Sbarcati a Den Helder il 9 ottobre 1822, Codazzi e Ferrari raggiunsero subito Amsterdam, dove si trattennero per circa un mese «a fine di vendere le mercanzie nostre con nostro pro’». Realizzato un buon guadagno (che permise loro di comprare una carrozza), si recarono a Parigi, dove sostarono per una decina di giorni. Indi proseguirono per l’Italia, raggiungendo Reggio il 7 dicembre. «Lungo il viaggio – ricorda Ferrari non senza amarezza – io e l’amico non parlavamo d’altro che del luogo e del modo di stanziare e fare una famiglia sola da finirvi insieme i nostri giorni». Dunque, a quanto pare, l’abbandono della carriera mercantile – abbracciata soltanto qualche mese prima – a favore d’un progetto di sviluppo agricolo venne deciso fra Amsterdam e Parigi. Nell’arco di due mesi, Codazzi e Ferrari si persuasero che la stanzialità della vita rurale era preferibile all’andirivieni del commercio internazionale. Non solo, ma giunsero a credere – ahimè sventatamente – che i proventi d’un investimento in terre e colture sarebbero stati all’altezza dei guadagni dell’attività commerciale. Oltre e ancor più che su un calcolo economico, questa convinzione scaturì, crediamo, da una visione utopica alimentata da tempo ma perfezionatasi nelle ultime settimane: la prefigurazione

226. Soldato contadino, prima metà XIX sec, stampa popolare.

di una prospera comune agricola diretta con previdente fermezza da antichi guerrieri divenuti signori di campagna (con tanto di servitori neri, Francisco e Mamelucco).2 Codazzi non era ancora trentenne, nondimeno l’esperienza accumulata negli ultimi dieci anni, invero straordinaria, ne aveva fatto – a suo dire – un uomo assennato. Di questa pretesa, prematura ponderatezza fece sfoggio in una lettera al colonnello Pier Damiano Armandi stilata subito dopo il ritorno in Romagna: Non so se ci stabiliremo in Lugo, ma certamente nella Romagna, giacché cercar si deve l’interesse in quel luogo ove meglio si trova. Troppo conosco le vicende umane, ed ho ancora alla mente i pericoli, a cui mi sono esposto, e sento bene pesarmi gli stenti e le fatiche sofferte, acciò non ponga in opera, ed in pratica i buoni ed ottimi consigli, che mi suggerite, dettati dalla vera amicizia e dalla saggezza.3

Codazzi nutriva nei confronti di Armandi, che l’aveva avviato alla carriera militare e ai cui ordini aveva combattuto a Lutzen, un affetto quasi filiale. Dal colonnello lo separavano quindici anni, ma nella lettera tale divario – quasi un salto generazio-

2

Cfr. G. Antei, Los Héroes Errantes, op.cit., p. 336. Cfr. D. Magnani, Agostino Codazzi e Bartolomeo Ricci. Biografie, Lugo, 1898, pp. 9-10. 3


l’orizzonte in fuga

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227. Quinzio Cincinnato obbedisce al richiamo della Patria, prima metà XIX sec, inc.

nale – risulta compensato dalla qualità e quantità di esperienza maturata dallo scrivente negli ultimi otto anni. In altri termini, la maggiore età dell’uno appare controbilanciata dalla tempra dimostrata dall’altro nell’affrontare i pericoli e nel tollerare gli stenti. Ad Armandi la precocità di Codazzi constava fin dal 1810 (?), quando ne aveva accolto la domanda di arruolamento; e una riprova l’aveva avuta tre anni più tardi, nel corso della campagna di Germania. Ma il colonnello ignorava se le lezioni apprese dal lughese nel Nuovo Mondo, delle quali sapeva poco o niente, avessero realmente accelerato il suo transito verso la maturità. A prima vista, dalla lettera emerge il criterio d’un uomo fatto, assennato e volitivo, attento all’insegnamento dei superiori (soprattutto se ricevuto a conferma di convinzioni già sedimentate, come nel caso dei «buoni ed ottimi consigli» dell’antico comandante). Dopo Waterloo, Armandi aveva abbandonato del tutto la carriera militare, trasferendosi a Roma in veste di istitutore, incurante come Cincinnato degli onori mietuti in guerra. Per il lughese, il suo esempio era stimolante, ma solo nella misura in cui evocava vicende più nobili ed istruttive, come per l’appunto quella del condottiero romano. La storia di Cincinnato poteva essere suddivisa in due episodi indipendenti ed ugualmente emblematici: il caso dell’umile contadino che accorre eroicamente all’appello della patria e quello dell’eroico soldato che ripone le armi per tornarsene umilmente al campicello. Nel congedo di Armandi, segno di una non abiurata fede bonapartista, era ravvisabile la medesima nobile coerenza. La storia di Codazzi era alquanto diversa: dapprima aveva insistito per arruolarsi, convinto che

i migliori frutti si raccogliessero sul campo dell’onore, poi, arricchito – a suo dire – dalla conoscenza delle umane vicende, si era avviato verso altri campi. Ma, mutatis mutandis, nella rinuncia ad un’avventurosa vita sui mari a favore di un’operosa vita campestre si percepisce come in filigrana un’accortezza all’antica... forse più superficiale che profonda. Orbene, valeva il richiamo a Cincinnato quando non si aveva una repubblica per cui lottare e una patria della quale essere fiero? Per Codazzi, ‘patria’ equivaleva a quel luogo ancora indefinito, comunque entro i confini della Romagna, dove la convenienza si prospettasse maggiore. Era il benessere materiale, infatti, ciò che andava cercando assieme al compagno, non l’appagamento di astratti furori. La comune a cui i due avevano lavorato di fantasia durante il viaggio di ritorno sarebbe stata la loro terra patrum (anche in senso letterale, visto che vi avrebbero dimorato i rispettivi genitori). L’avrebbero edificata badando all’interesse ma anche al decoro, attenendosi alla massima oculatezza pur senza trascurare quegli ammenicoli che, nella stima del prossimo, fanno la differenza: insomma, vivere in campagna dediti agli affari agricoli non avrebbe comportato, per loro, la rinuncia ad un livello di vita all’altezza di persone di rango. La fiducia in questo schema (chi avrebbe osato dubitare che «cercar si deve l’interesse in quel luogo ove meglio si trova»?) trova riscontro nel tenore apparentemente pratico e competente della lettera ad Armandi. Ma in realtà la padronanza del lughese, o piuttosto la sua prosopopea, scaturiva dall’inosservanza di due proverbiali ammonimenti scaturiti dal senno contadino, ossia: primo, non s’ha da attaccare


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ritratto parlato

228. Veterani della Grande Armée costruiscono il Champ d’asile, ca. 1819, inc.

il carro avanti ai buoi; secondo, non si deve fare il passo più lungo della gamba. Esortazioni rudimentali, riflesso di un’avvedutezza primitiva, di cui Codazzi, forse troppo pago di sé, non tenne alcun conto. Le lezioni ricevute nell’adolescenza, basate sul medesimo buon senso terragnolo, si erano perse nella memoria, sopraffatte da un vortice di esperienze totalmente avulse dalla meschinità del mondo contadino. La legge di Pangloss era applicabile a tutti i mondi possibili eccettuato il mondo reale, più specificamente il contesto rurale, dove non tutto e non sempre andava per il meglio. Codazzi se ne rese conto a proprie spese nel giro di due, forse tre anni, e ciò implicò una tardiva apostasia dal credo panglossiano, e con essa una riconsiderazione pessimistica, o quanto meno critica, del rapporto uomo-natura. Giunto a Parigi, Codazzi fece la conoscenza di numerosi ex-combattenti e simpatizzanti bonapartisti. Fra costoro figurava anche Vigneron, autore di quadri ‘eroici’ inneggianti a Napoleone. Nel 1822, Vi-

gneron stava lavorando ad una tela di grandi dimensioni intitolata, guarda caso, “Le soldat laboureur”, opera destinata ad un considerevole successo (anche se non sufficiente a competere con quello riscosso dall’omonimo quadro di Horace Vernet).4 Con tutta probabilità Codazzi ebbe l’agio di ammirarla nello studio dell’autore, seduto su una sedia impagliata, mentre costui lo ritraeva; e non si può escludere che accompagnasse l’artista al Thèatre des Variétés alla reprise dei Moissonneurs de la Beauce. Comunque sia, il rapporto fra i due divenne così stretto che il lughese, tornato a Parigi dopo vent’anni, si rivolse proprio a Vigneron per il ritratto che sappiamo.5 Fosse tramite la pittura o il teatro, la popolarità raggiunta dal mito del ‘soldato contadino’ nella capitale francese fu sicuramente notata dai due italiani. Dal punto di vista dei veterani di guerra, la pace costituiva una condizione problematica, in certi casi più temuta che sospirata. Il prestigio e i benefici dello status di soldato, più precisamente di ufficiale,

4 Horace Vernet dipinse “Le soldat laboureur” nel 1821, esponendolo nel proprio studio l’anno successivo nell’ambito della mostra personale Salon d’Horace Vernet. Cfr. Jouy et Jay, Salon d’Horace Vernet, Parigi, 1822, pp. 96-100. 5 La scelta di Vigneron lascia interdetti. Per Codazzi sarebbe stato più pratico commissionare il proprio ritratto a Paulin Guerin, pittore di maggiore statura incaricato da Codazzi stesso, per conto del governo venezuelano, dell’esecuzione di tre diver-

si ritratti del defunto Libertador. Paulin Guerin (1783-1855) fu ottimo ritrattista. Curiosamente, dal punto di vista stilistico, il Codazzi effigiato da Vigneron nel 1842 appare molto vicino alla maniera di Guerin, tanto che, se esistessero dubbi circa l’attribuzione del quadro, propenderemmo per quest’ultimo pittore. Va detto però che la ritrattistica, nella Francia dei primi decenni dell’Ottocento, rispondeva a criteri formali e tecnici condivisi dalla maggioranza degli artisti, a cominciare da Ingres.


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229. Horace Vernet, Le soldat laboureur, 1820, olio.

cessavano con il reinserimento nella vita civile... a meno che questa non venisse riorganizzata con criteri castrensi, come per esempio il Champ d’Asile.6 Le virtù e le abitudini militari potevano essere trasferite anche ad un contesto colonico, sempre e quando, però, il tenore bucolico non prevalesse su quello epico. Prescindendo da Cincinnato, la quiete dei campi non si addiceva al morale dei guerrieri: guai a chi dalla Laconia si spostava in Arcadia! Poteva la mano avvezza alla vanga brandire la spada? era possibile il contrario? In ultima analisi, i soldats laboureurs erano soldati confinati in campagna, divenuti contadini contro voglia, o meglio, contra naturam. In questo senso, può dirsi eloquente il personaggio dipinto da

6 Sul Champ d’Asile v. supra. La ‘comune’ costituita dai due amici a Massa Lombarda era una «giurata eterna amichevole unione d’interesse, e personale, di due famiglie... sotto l’indipendente regime dell’esperto e leale Codazzi». Quest’ultimo amministrò il Serraglio con un piglio quasi militaresco: s’impose in tutto, perfino nella scelta della moglie dell’amico. Questi, che gli era affezionatissimo, «nulla mai seppe negargli»; ma la sua remissività non fu ben ripagata. La gestione di Codazzi non fu proprio oculata: nel giro di tre anni furono sperperati 11 mila 900 scudi, un danno irreparabile per lo sviluppo della tenuta. Cfr. D. Zaffagnini, Cenno Biografico sul Cavaliere Costante Ferrari, Ms, 1825, Bibl. Com. di Imola, Arch. Storico; Innocenza Testa Ferrari, “Memoriale”, Ms, ca. 1838, Bibl. Com. di Imola, Arch. Storico.

l’orizzonte in fuga

Horace Vernet (v. fig. 229): dal portamento alla feluca, tutto rimanda ad un veterano di guerra, un grognard imbronciato, a disagio nei panni del bifolco. Nell’autunno del 1822 i nostri eroi non potevano immaginarlo, ma del medesimo disadattamento sarebbero caduti vittime anch’essi. È sufficiente riandare agli affreschi del Serraglio per capire fino a che punto si spingesse la loro nostalgia delle armi e quanto fosse impari il loro sforzo di adeguamento alla pace campestre. Ipotizzare che avessero deciso di diventare agricoltori sulla scorta del mito del soldat-laboureur sarebbe a dir poco azzardato, ma non lo sarebbe affatto supporre che i richiami letterari e pittorici operanti a Parigi avessero agito da esca. In ogni caso fu una scelta più emotiva che meditata, foriera di sviluppi imprevedibili (compiendola i nostri eroi non solo interruppero una promettente carriera mercantile, non solo abbandonarono nelle mani di un apoderado gli affari in corso nelle Antille, ma infrinsero altresì i termini del congedo provvisorio dall’esercito colombiano, mettendo a repentaglio il loro futuro militare). I giorni trascorsi a Parigi permisero ai due amici di aggiornarsi, ovvero, di rifocalizzare la loro visione delle cose, mettendo fine a quell’isolamento (o alienazione) che aveva caratterizzato gli anni americani. Nella capitale francese si misero in pari con pensieri e teorie di attualità, ivi compresa, per l’appunto, l’opinione che per i reduci di guerra di buona volontà esistesse un ruolo nella società civile. In altre parole, sulle rive della Senna radunarono molti di quegli elementi che determinarono la loro trasformazione da corsari in laboureurs. Il ritratto eseguito da Vigneron in quei giorni racchiude l’avvenuto ‘incivilimento’, l’avvenuto reinserimento di Codazzi nella vita (ma non nella mentalità) civile: un disegno rivelatore raffigurante un giovinotto sicuro di sé ma non tracotante, più raccolto che disinvolto, un bel volto d’epoca, lo sguardo appena velato di malinconia, la postura composta da ex-militare più che da giovin signore, belle mani affusolate, l’abito curato da viaggiatore. Una persona equilibrata e riflessiva, avviata ad una vita laboriosa e quieta dopo anni di avventure e rischi mortali; ma nel contempo un giovane orgoglioso delle proprie qualità e dei propri meriti... qualità e meriti che ben valevano un ritratto. Ciò che sembra trapelare dal disegno di Vigneron è l’indole stessa del personaggio, quasi che il pittore, non eccelso ma dotato di arti magiche, fosse riuscito a carpirne l’anima. Codazzi non era destinato a diventare un laboureur: l’artista, che ne stava dipingendo uno, dovette intuirlo d’immediato. Ma nei suoi occhi non c’era nemmeno la durezza del militare di carriera, e ancor meno la compiacenza del mercante: c’era piuttosto la lungimiranza di un precoce conoscitore delle vicende umane. Questo, quanto meno, fu ciò che il pittore credette di vedere. Per contro, ciò che noi vediamo è un volto in sospeso fra la gioventù e la maturità, fra l’ottimismo e il disincanto, consapevole di sé ma ancora lonta-


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ritratto parlato

230. P.R. Vigneron, Ritratto di Agostino Codazzi, 1822, dis.


l’orizzonte in fuga

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231. Carta geografica dell’isola di Cuba e Mar dei Caraibi, XVII sec.

no dalla comprensione del mondo. «L’adolescente, scrive Octavio Paz, si stupisce di essere, e alla sorpresa segue la riflessione». Inclinato sul fiume della sua coscienza, si chiede se quel volto che affiora lentamente dal fondo, deformato dall’acqua, è veramente il suo. Benché il viso tratteggiato da Vigneron non sia quello di un adolescente, ne trapela un’analoga esitazione: per quanto tempo ancora, sembra chiedersi l’effigiato, quel volto – il proprio volto – sarà suo? Man mano che la soggettività si approfondisce, diviene problematica e inquisitiva nei confronti dell’io e delle cose: ‘coscienza interrogante’ la definisce lo scrittore messicano. Forse ciò che vela lo sguardo di Codazzi è appunto l’intimo sforzo di contrastare i dubbi, il tentativo di tacitare la propria indiscreta consapevolezza di sé e del mondo. A ben vedere, la citata lettera ad Armandi dissimula qualcosa di simile: un convincimento di superficie ad ammantare gli inconfessati tentennamenti della coscienza.7 Ma l’espressione tenuemente velata del nostro eroe potrebbe spiegarsi in tutt’altro modo, cioè, con il rimpianto causato da una rinuncia consumatasi qualche mese addietro. Il fatto era accaduto a Cuba, dove il lughese aveva fatto scalo mentre navigava verso St. Thomas, ed è tale da meritare una digressione. Dalle Memorie sappiamo che l’approdo nell’isola fu imprevisto e accidentato: il capitano del naviglio, un 7 Octavio Paz, El laberinto de la soledad, México DF, 1950, p. 9 e passim. La superficialità di Codazzi in quel periodo non è estranea a ciò che sarà il fallimento della ‘comune’.

ubriacone, scambiò incredibilmente l’arcipelago dei Jardines de la Reina (Cuba) per gli scogli di Las Platas (Santo Domingo), distanti centinaia di miglia a Sud Est; non solo, ma fece arenare l’imbarcazione su quelle secche fuori rotta e poco ci mancò che la medesima andasse persa. Codazzi approfittò della permanenza forzata nell’arcipelago per sbarcare: Mi decisi allora di scendere a terra coi nostri due negri in una piccola pirocca, coi quali dopo fatte 15 miglia di mare approdammo in una spiaggia e costeggiandola incontrai un largo fiume ripieno di caimani che per più ore rimontammo contro corrente con somma fatica senza scoprire nessuna abitazione.

Per fortuna, fra le mangrovie abbondavano le ostriche, un vero ben di Dio. «Già stavamo per retrocedere onde piuttosto seguitare la costa – prosegue il nostro eroe – quando il negro Francisco scoprì un uomo che in un canotto discendeva pel fiume». Interrogato sulla posizione del luogo, questi rispose che si trovavano a Cuba, sulla costa prospiciente i Jardines de la Reina. Codazzi, allora, catturò il malcapitato allo scopo di condurlo a bordo e sevirsene come pilota. La piroga intraprese il tragitto di ritorno ma, ridaguadagnato il mare a notte inoltrata, incappò in un temporale con pioggia, tuoni e fulmini che rese impossibile riconoscere «i segnali a fuoco che Ferrari da bordo secondo il concertato mi avrebbe fatto onde in quel mare pericoloso potessi avere una giusta mira». Il frangente fu superato grazie al provvidenziale negro Francisco, che «al chiaror dei lampi scopriva il bastimento, e dopo mezzanotte da lui diretti


ritratto parlato

232. Ritratto di Joanna, dal dis. orig. di J.G. Stedman.

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l’orizzonte in fuga

In ogni caso, fino a che punto Codazzi ci tenesse a sfoggiare «molta risoluzione, destrezza e presenza di spirito» traspare dalle Memorie, in particolare dalle pagine dedicate alle vicende occorse dopo la morte di Louis Aury e l’abbandono dell’isola della Vecchia Provvidenza (che dal nostro viene anticipata ad arte al 29 maggio 1821, data in cui il commodoro non era ancora deceduto). A detta di Ferrari, la partenza dall’isola avvenne dopo il 29 maggio 1822. Uno di quei giorni, scrive il reggino, «montai adunque sulla goletta con l’amico Codazzi e con 10 passeggieri con le loro sostanze (...) Con noi erano i due nostri Mori, Mammalucco e Francesco, e navigammo su quel piccolo legno varii giorni senza sinistro». Ma non furono rose e fiori: Demmo sventuratamente in uno di quegli scogli chiamati i Giardini della Regina, tal che la goletta piegò tutta da un lato, e l’acqua v’entrava a dirotta, e se non era per un pescatore, che accorse al nostro bordo, e che ci aiutò a scalzare il nostro legno, e con funi a trarlo dove egli ben conosceva esser piò profonda l’acqua, eravamo in procinto di perdere la vita e ogni nostra fortuna.

potemmo giungervi». All’indomani, il legno venne rimesso a galla e guidato fuori dalle secche (per l’aiuto prestato, il prigioniero venne ben ricompensato). Il viaggio a St. Thomas fu irto di pericoli per via dei pirati e dei navigli militari spagnoli che incrociavano nelle acque dei Caraibi, ma alla fine i due amici vi arrivarono sani e salvi. Dal suo sguardo franco e quasi disarmante non si direbbe, eppure – come ben sappiamo – il nostro eroe, all’epoca del ritratto, amava favoleggiare e abbellirsi. Osservando attentamente, nella sua postura un cenno di affettazione non manca, ma ciò potrebbe rientrare nella maniera di Vigneron piuttosto che in una posa assunta volutamente o meno dal modello.

Erano capitati colà – conferma Ferrari – «per difetto di perizia del capitano, che per lo più era ubbriaco cotto»; nonostante tutto, aggiunge, dopo una non facile, lunga navigazione, il 22 agosto 1822 arrivarono in vista di St. Thomas. In questo caso, come d’altronde in molti altri, i ricordi del reggino discrepano da quelli del nostro eroe, ed è quest’ultimo, di norma, a sbagliare. Ciò non significa che nelle Memorie postume la precisione sia una regola fissa: a volte i dati forniti da Ferrari sono incompleti o in contraddizione con informazioni contenute in suoi scritti precedenti, specificamente nel Cenno Biografico sul Cavaliere Costante Ferrari, manoscritto inedito risalente al 1825.8 Nel riordinare i propri ricordi, compito a cui si dedicò negli ultimi anni della sua vita, il reggino, oltre ad affidarsi alla memoria e ai documenti personali, si avvalse appunto del Cenno Biografico. La redazione di questo si produsse subito dopo il matrimonio con Innocenza Testa, forse sulla base di uno scritto più breve letto in occasione delle nozze allo scopo di intrattenere i convitati con un racconto autobiografico (sappiamo che Codazzi lesse a sua volta una versione succinta delle Memorie, poi scomparsa).9 I cinque

8 Il manoscritto, composto da 107 pagine numerate, fu vergato e firmato da Domenico Zaffagnini nel 1825. È probabile che l’autore si limitasse a trascrivere ciò che Ferrari andava raccontandogli. L’ipotesi sembra trovare conferma nel raffronto stilistico fra il manoscritto e le Memorie postume. Comunque sia, le reiterate espressioni di affetto nei confronti di Codazzi sono senz’altro imbeccate del reggino. Fra il 1823 e il 1824 l’amicizia fra i due si affievolì alquanto, rinsaldandosi solo dopo il frustrato intento di Ferrari di unirsi a Lord Byron. 9 Il matrimonio di Ferrari con la bolognese Innocenza Testa venne deciso su suggerimento di Codazzi allo scopo di rimpinguare le casse del Serraglio con la dote della sposa. All’origine del Cenno biografico potrebbe esservi una circostanza ben più seria di quella suggerita: l’urgenza, da parte dei due amici, di

diffondere un ragguaglio ‘autorizzato’ dei rispettivi trascorsi, allo scopo di tacitare le frequenti dicerie concernenti la provenienza del loro peculio e l’autenticità dei loro meriti militari. Small town big hell: nel 1824 la maldicenza aveva assunto le proporzioni d’una «calunniosa e vile persecuzione», condotta o secondata da «uomini dall’apparenza civile e amica». Si legge nel Cenno Biografico: «Osarono coloro o per malizia o per inscienza, sempre però maldicenti, dannosi e spregievoli sfacciatamente porre in dubbio l’onesto acquisto delle modiche sue dovizie, e de militari onorevoli avvanzamenti... osarono infine deturpare la bella fama di un uomo onorato, filantropico e generoso». Ma la menzogna, prosegue il testo, ha breve durata, «la calunnia cedendo svergognata a fronte d’indubitate prove». Cfr. Cenno Biografico, p. 105. A Codazzi dovette essere riservato un trattamento analogo.

233. Cenno biografico sul cavaliere Costante Ferrari, ms, 1825.


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ritratto parlato

lustri intercorsi fra il Cenno Biografico e le Memorie Postume (nonché le diverse motivazioni e circostanze) spiegano le occasionali discordanze. Fra queste, una merita particolare attenzione. «Concambiati ad ogni ora i giuramenti di indivisibile eterna amicizia, di una sola volontà e peculio – si legge nel Cenno Biografico – sovra goletta inglese col Codazzi... [Ferrari] imprese la navigazione [verso le isole Vergini]». Fu un «lungo, disastroso tragitto, ora evitando i rapaci pirati, i corsari predatori, ed i nemici stessi di quelle Repubbliche... ed ora urtando ne’ scogli delli giardini della regina presso l’isola di Cuba». Per quel che riguarda la navigazione in sé, i due testi collimano pienamente; non coincidono, invece, rispetto ai passeggeri della goletta. Dal manoscritto apprendiamo una notizia non riportata nelle Memorie Postume, cioè, che fra gli imbarcati figuravano non solo due «affezionati Mori» ma altresì... «la moglie precaria» di Codazzi! L’estemporanea apparizione della donna – e non qualsiasi donna – ci obbliga a riesaminare un aspetto sempre trascurato della vita del nostro eroe, come sono per l’appunto i suoi rapporti con il gentil sesso. Che le donne non gli fossero indifferenti consta sia dalla chiusa della “Lettera al padre” che, per esempio, da quanto egli racconta a proposito del soggiorno fra gli indios Mosquitos. Ma il dato riportato da Ferrari apre uno scenario inaspettato e dà adito a nuovi interrogativi.10 Sappiamo che la donna era cubana e che, lungo il viaggio, venne «arrimandata alla casa paterna». Sappiamo pure che per Codazzi non era persona di poco conto, tant’è che nel separarsi da lei – ricorda alquanto seccato il reggino – la gratificò di «scudi 500 ed altri preziosi oggetti prelevati dal comune peculio». Inoltre, sebbene non sia possibile averne conferma, sospettiamo che la deviazione verso i Jardines de la Reina, apparentemente causata da una svista del capitano, fosse stata in realtà voluta dallo stesso lughese, allo scopo di scortare la donna a destinazione (eventualità che renderebbe meno inverosimili certi dettagli del racconto citato sopra). È anche lecito supporre che si trattasse di una giovinetta, forse rapita dai pirati che infestavano detto arcipelago o forse sottratta dai corsari dell’América Libre ad una nave negriera diretta alle colonie spagnole. Nelle Memorie postume, Ferrari si riferisce per l’appunto alla cattura di un legno nemico carico di schiavi: Gli demmo la caccia e con un vivo fuoco di cannonate a palla e a mitraglia l’obbligammo ad abbassare la bandiera, e a riceverci al suo bordo. Il capitano era francese, e aveva seco un 300 schiavi mori tra maschi e femmine, e quasi tutti giovanissimi.

Ad arrembaggio concluso, il commodoro Aury, sempre generoso, volle premiare i suoi fidi: 10 Se si eccettua il saluto alle «donne mie belle», le allusioni alle procaci indigene centroamericane e alle vedovelle del Chocó, Codazzi schiva ogni riferimento al gentil sesso. Tuttavia, sappiamo che la vita dei corsari non era per niente morigerata.

234. Anon., The Iniquity of the Slave Trade, 1830.

Il generale chiamò intorno a sé tutti gli uffiziali superiori e subalterni e ci disse: ‘Signori, li voglio ricompensare delle loro fatiche. Vadano a bordo del [naviglio catturato] e scelgano a loro talento per domestico un Moro, o una ragazzetta di quella nazione.

Ferrari scelse un moretto di circa 12 anni al fine di allevarselo a piacer suo. Taluni preferirono invece ragazzine, «di cui due si tolse il generale per cameriere della sua consorte». Fu così che Codazzi avvinse la sua futura concubina? È assai probabile, com’è pure probabile che, provenendo da Cuba, la donna fosse mulatta piuttosto che nera africana. Ciò, per altro, non interferirebbe con la sua condizione di schiava. I negrieri, infatti, razziavano volentieri lungo i litorali caraibici, particolarmente lungo la costa meridionale di Cuba (ancora saldamente in mano alla Spagna). La riprova che si trattasse di una schiava è racchiusa nell’aggettivo ‘precaria’, termine che ancora all’inizio dell’Ottocento definiva uno specifico rapporto di servitù. Basato su una donazione o un beneficio, il possesso di uno schiavo a precario implicava non la piena proprietà bensì solo l’usufrutto. Al riguardo le Pandette (Articolo V, “Del Precario”) stabiliscono che «la condizione di Precario appartiene piuttosto alle donazioni e alla causa di beneficio, che ad un contratto di affare». L’articolo prosegue così:


l’orizzonte in fuga

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Quando è data qualche cosa a precario, se fu convenuto che quel tale posseda in quel tal tempo, questa convenzione non ha forza di far sì che sia lecito di possedere la cosa altrui contro voglia del proprietario.11

Dunque, il rapporto a precario chiamava in causa due figure, il proprietario e l’usufruttuario. Ebbene, applicando il codice giustinianeo al caso in questione, chi era il proprietario? Chi il comodatario? Codazzi aveva ottenuto la schiava senza che mediasse alcun «contratto di affare», ossia, senza averla comprata. Ne era entrato in possesso a seguito di una donazione, e tale circostanza faceva sì che il suo legame con lei fosse a precario. Il riscatto della donna dalla nave negriera non ne aveva comportato la manomissione. Lungi dal dirle “vade quo vis” – formula che consacrava la liberazione d’uno schiavo – Aury l’aveva rimessa tale quale nelle mani del romagnolo. Essa recuperò la piena disponibilità di sé alcuni anni dopo, nel momento in cui il lughese la manomise di fatto (“e manu misit eam”), riportandola alla casa paterna. Codazzi – ci sembra di capire – non si limitò a rimetterla fisicamente in libertà. Onde legalizzarne la liberazione, la comprò e, ottenutane la proprietà, sciolse la donna sia dallo stato precario che dalla schiavitù: una transazione simbolica per la quale sborsò alla moglie liberta 500 scudi, ossia il prezzo di mercato di una schiava giovane, vitale e bella. In altre parole, Codazzi ricevette la donna in dono, ne usufruì, la comprò, la liberò, le consegnò innumerevoli pegni 235. Ritratto di John Gabriel Stedman, 1818.

ed infine la abbandonò... Forse non è tutto. Senz’animo di «deturpare la bella fama di un uomo onorato», viene da chiedersi: è mai possibile che da un’unione more uxorio, prolungata e surriscaldata dal sole dei Caraibi, non scaturissero frutti? Ferrari tace, ma non sarebbe strano se, di ritorno alla casa paterna, la donna avesse portato con sé ben più che «scudi 500 ed altri preziosi oggetti». A tredici anni dalla manomissione della moglie precaria, Codazzi si sposò formalmente con Araceli Fernández de Hoz, giovane e avvenente donzella venezuelana. Non la cercò, ella fece la sua apparizione quasi magicamente. Il lughese si spostava senza sosta da un punto all’altro della repubblica, rilevando e misurando, concentrato in un lavoro esigente e non meno gratificante. Non era il momento di cercare moglie, ma accadde che nei pressi di Valencia, nel 1834, fu morsicato da un serpente velenoso, e mentre si agitava fra la vita e la morte fu assistito da una fanciulla sconosciuta, che gli apparve inaspettatamente quando uscì dal deliquio. La sposò per riconoscenza, poi la riconoscenza «pasò in amore, e questo depositò su flecias nel altar sacrado [sic]». Conclusione: Araceli partorì un maschio dopo nove mesi.12 L’inopinata apparizione della (prima) moglie del lughese richiama alla memoria un personaggio femminile che sotto certi aspetti non può non somigliarle: Joanna, la schiava mora resa famosa da John Gabriel Stedman. Nato in Olanda nel 1744 da padre scozzese, il capitano Stedman passò ventottenne in Surinam al comando di un corpo di spedizione incaricato di sedare la ribellione dei maroons (cimarrones, schiavi fuggitivi). Di ritorno in Europa, il capitano convertì i cinque anni trascorsi ai tropici in un libro di successo, Narrative of a Five Years Expedition against the Revolted Negroes of Surinam, apparso nel 1796.13 Stedaman fece la conoscenza di Joanna, una giovanissima schiava mulatta, poco dopo il suo arrivo nella colonia olandese, rimanendone da subito ammaliato. La storia della fanciulla fece molta impressione sui lettori della Narrative, impressione accresciuta dal bel ritratto a corredo del libro (abboz-

11

R.G. Pothier (a cura di), Le Pandette di Giustiniano, Prato 1833, VII, p. 643. 12 Questa curiosa circostanza fu riferita dallo stesso Codazzi a Ferrari in una lettera, datata 12 febbraio 1835, scrittagli mentre questi lo aspettava a Valencia. Innocenza Testa, moglie del Ferrari, riporta integralmente la lettera nel “Memoriale” citato. 13 J.G. Stedman, Narrative of a Five Years Expedition against the Revolted Negroes of Surinam, London, 1796. Il libro fu presto tradotto in sei lingue e le edizioni si moltiplicarono. La storia di Joanna attrasse tanto la curiosità dei lettori che venne estrapolata dalla Narrative e stampata a parte. Le illustrazioni furono tratte da disegni e acquerelli dell’autore ad opera di William Blake e Francesco Bartolozzi. Il ritratto di Joanna riprodotto supra è una versione ritoccata dell’incisione di Blake da schizzo di Stedman (v. fig. 232). Il ritratto di John Gabriel Stedman in questa pagina è di Bartolozzi (da autoritratto dell’autore). L’edizione italiana qui impiegata è: Stedman, Viaggio al Surinam e nell’interno della Guiana, versione dal francese del Cav. Borghi, Milano, 1818.


ritratto parlato

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236. Joanna e il capitano Stedman nella loro casetta, 1838.

zato dal vero dallo stesso capitano, poi rielaborato da William Blake). Uno sguardo all’effigie consente di capacitarsi del perché Joanna divenisse l’emblema della beltà mora in anticipo sulla celebre Négresse di M.-G. Benoist. Come si presentasse la nostra ‘moglie precaria’ non si sa, ma la citata descrizione delle indigene Mosquito ci da una misura della sensibilità di Codazzi nei confronti delle beltà native; ricettività che lo avvicina a Stedman, suo precursore quale estimatore di femmineità americana. Poiché conosciamo Joanna attraverso gli occhi di un osservatore affine per gusti e inclinazioni al lughese, può giovare l’esercizio di immaginarci la schiava cubana attraverso le fattezze della surinamese. Scrive il capitano: Ella [Joanna] non poteva avere più di 15 anni. Di una statura piuttosto alta che media, i suoi tratti avevano tutta l’eleganza e la perfezione possibile. La naturalezza de’ suoi movimenti offriva una grazia poco comune. Il suo volto spirava modestia e dolcezza. I suoi grandi occhi, neri al pari dell’ebano, e pieni d’espressione, annunciavano la bontà del suo cuore. A malgrado del color oscuro della sua carnagione, un amabile rossore copriva le sue gote quando si fissava; il di lei naso perfettamente regolare era alquanto piccolo; le sue labbra, insensibilmente sporgenti scoprivano, allorchè ella parlava, due ordini di denti più candidi della neve dei monti. I suoi capegli di un bruno pressochè nero formavano un numero infinito di ricci naturali, ornati di spille d’oro e di fiori. Essa portava al collo, alle mani, al malleolo degli anelli pure d’oro, con ciondoli dello stesso metallo. Uno scialle di mussola delle Indie negligentemente gettato sugli omeri copriva con garbo una parte del suo bel seno; finalmente una sola gonnella di una finissima tela e dipinta a colori vivacissimi compiva il suo abbigliamento (...) L’esteriore, il portamento,

i modi di questa avvenente giovane non potevano non fissare la mia attenzione...

Vederla, desiderarla e proporle di comprarla per Stedman fu tutt’uno, ma Joanna, sorprendentemente, si schernì: L’amabile donzella rigettò con una singolare delicatezza ogni proposizione da me fattale di appartenermi sotto qualsiasi titolo. Ella mi obiettava, che se fossi stato nel caso di restituirmi in Europa, sarebbe stato necessario, che si fosse separata per sempre da me, ovvero che mi accompagnasse in una parte del mondo, ove la inferiorità della sua condizione esporrebbe sì lei come il suo benefattore ad infiniti dispiaceri.

Ciò nonostante, non molto tempo dopo, quando Stedman cadde gravemente ammalato, Joanna corse al suo capezzale... senza per altro cedere alle sue rinnovate proposte. Bisogna convenire che le parole di risposta rivolte dalla schiava al capitano avrebbero potuto essere proferite dalla fanciulla cubana nel sottomettersi alla tutela, forse non sgradita, di Codazzi: lo sono destinata a vivere in schiavitù. Se voi mi trattaste con troppa attenzione, scapitereste nella opinione de’ vostri amici. Altronde l’acquisto della mia libertà vi sarà dispendioso, difficile, e fors’anco impossibile. Sebbene schiava, ho però un’anima che non credo inferiore a quella degli europei. Quindi non arrossisco di confessarvi, che provo verace tenerezza per voi, che mi avete distinta fra tutte le altre della mia trista condizione. Voi, signore, avete avuto pietà di me, ed io ora ripongo tutto il mio orgoglio nel pregarvi genuflessa di rimanere presso di voi, fino a che la sorte ci divida, ovvero, che la mia condotta vi dia motivo di allontanarmi dalla vostra presenza.


l’orizzonte in fuga

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237. Il capitano Stedman abbandona Joanna, 1838.

Gabriel e Joanna vissero momenti felici – felicità coronata dalla nascita di Johnny – in uno scenario tropicale simile a quello della Vieja Providencia, l’isola dove, come si è detto, si svolse la vita coniugale della nostra coppia. Se questa riuscisse a godere della medesima beatitudine non si sa, ma il finale delle due storie, ahimè, è senz’altro somigliante. Dopo neanche tre anni di convivenza in una capanna battezzata “Hope”, al capitano fu ordinato di rientrare in Olanda, ed egli obbedì. Riuscì a manomettere il figlio ma non la madre, per cui alla fine se ne partì da solo. Tornato in Europa si sposò e mise mano alla Narrative. Joanna morì ventiduenne, nel 1782. Johnny raggiunse il padre in Olanda, dove la matrigna – ça va sans dire – non gli risparmiò umiliazioni e angherie. Morì diciassettenne mentre navigava nel mar dei Caraibi come midshipman della Royal Navy. Gabriel si spense nel 1797. I veri pittori, si sà, vedono al di là del visibile: ecco la ragione per cui riescono a cogliere emozioni occulte, segreti dolori. Osservando il volto di Codazzi, Vigneron avvertì tracce di struggimento, un barlume di rimorso; ciò nonostante gli sfuggirono i segni lasciati dalle labbra d’una mulatta cubana. Per distinguerli sarebbe stato necessario riconoscere in via preliminare la determinazione d’un uomo disposto a dimenticare pur di avanzare, l’imperturbabilità d’un individuo pronto a soffrire e a infliggere sofferenza pur di affermarsi. Vigneron non arrivò a tanto: la maschera di Codazzi glielo impedì. A differenza

di Joanna, che Stedman resuscitò nelle pagine della Narrative, la schiava caraibica si perse per sempre nei Jardines de la Reina. Ferrari la menzionò di sfuggita, forse per dispetto. Non ignorava che il concubinato dell’amico, in quel di Massa Lombarda, sarebbe stato duramente riprovato. Provò ad ammantarlo con una formula elusiva, ma tale ripiego non dovette convincere nessuno, men che meno Codazzi. A differenza dell’amico, questi sapeva che «ciò di cui non si può parlare si deve tacere». Del ritratto in questione esiste una replica fotografica ottocentesca che, sebbene inferiore all’originale, ne evidenzia, però, un aspetto altrimenti poco avvertibile. Ciò non risulta tanto dalla riproduzione tecnica dell’immagine, quanto da una sua reinterpretazione. Attenendosi ai canoni stilistici della ritrattistica fotografica dell’epoca, il fotografo ricavò dal disegno di Vigneron un duplicato rielaborato in chiave convenzionalmente romantica. Il nuovo aspetto è quello d’un giovinotto dall’aria un po’ trasognata, come illanguidita, ben diversa dall’espressione captata dal pittore. Benché Codazzi, nella prima metà della sua vita, condividesse almeno in parte i gusti e gli atteggiamenti propri della temperie romantica, ciò non significa che incarnasse un personaggio romantico. Il fotografo, però, ce lo presenta in questa veste, sicuramente la più richiesta dagli effigiati. Nell’Italia della prima metà dell’Ottocento, il carattere romantico – inteso come passione e ribellione – riconduceva in


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ritratto parlato

238. Ritratto di Agostino Codazzi, replica fotografica.


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l’orizzonte in fuga

corresse il ritratto originale fino a farlo coincidere con l’immagine stereotipata del patriota, è altrettanto vero che così facendo mise in luce un aspetto autentico della figura di Codazzi, com’era appunto il patriottismo. In altre parole, i ritocchi arrecati al ritratto di Vigneron, benché decisi per esigenze stilistiche (o causati da fatalità tecnica), sfociano in un’immagine del tutto verosimile, che apporta elementi d’interesse alla conoscenza del nostro eroe.

239. C. Fernández, Ritratto di Agostino Codazzi, 1832.

un modo o nell’altro alla militanza patriottica, e l’immagine fotografica non poteva non farsi interprete di tale convergenza. Anche Codazzi era un combattente e un patriota, ma al di fuori dell’ambito risorgimentale. La sua quête de liberté – lo sappiamo bene – si sviluppò lontano dalla penisola, sotto l’impulso di aspirazioni giacobine e repubblicane che con l’Italia avevano poco a che vedere. Tuttavia, il fotografo, che poco sapeva delle guerre d’indipendenza americane ma che non ignorava quali sentimebti agitassero gli uomini come Codazzi, ne rimarcò il sembiante romantico, considerando forse che lo spirito libertario percepibile nel disegno faceva di lui un paladino del Risorgimento in potentia. Non sbagliò. Se è vero che

Quando il lughese si avvicinava alla quarantina, nel 1832, il venezuelano Carmelo Fernández ne abbozzò un ritratto con pochi tratti espressivi. Lo si potrebbe definire uno schizzo ‘reggimentale’ (l’autore era un giovane ufficiale di fanteria): il nostro eroe è raffigurato in divisa da tenente colonnello di artiglieria, il chepì sotto il braccio sinistro, la canna d’ordinanza impugnata con la mano destra. Il portamento è quello d’un ufficiale immedesimato nel proprio rango. Indossata con disinvoltura, l’uniforme, completa di fusciacca, non fa una piega. Sul margine destro del foglio appare un secondo minuscolo bozzetto raffigurante un pezzo di artiglieria da campagna ed un fante (aggiunto posteriormente). Nonostante il contesto soldatesco, osservando meglio notiamo un dettaglio ben poco marziale: Codazzi sembra calzare non stivali o scarpe di cuoio bensì alpargatas, delle particolari pianelle di cotone o altre fibre vegetali in uso nelle campagne dell’America tropicale. Il suo aplomb di ufficiale superiore non ne soffre, ma il ritratto assume – al nostro sguardo – un’imprevedibile connotazione esotica e popolaresca, quasi che Fernández avesse inteso smorzarne la solennità. Non è così. Nel 1832, il nostro eroe, da due anni a capo della Comisión Corográfica venezuelana, stava esplorando la regione di Caracas, in gran parte riarsa e spopolata, e le alpargatas erano d’obbligo sia per ragioni pratiche che igieniche... d’obligo anche per un tenente colonnello educato fin dai tempi di Pavia ad un riguardo reverenziale per l’uniforme? Indubbiamente sì, perché Codazzi le calzava consapevolmente, nel rispetto non solo del codice militare ma anche degli usi locali e della natura tropicale.14 Nella loro apparente umiltà, le alpargatas esemplificano la volontà di americanizzarsi del nostro eroe. Dopo la parentesi di Massa Lombarda, la sua percezione del mondo era cambiata. Alla visione utopistica degli anni precedenti – materializzatasi effimeramente nel progetto del Serraglio – era su-

14 Non si può escludere che le alpargatas, molto meno protettive degli stivali nei confronti dei rettili, fossero responsabili del morso del serpente che indusse Codazzi a sposarsi. Gli stranieri andavano spesso scalzi, con conseguenze terribili a causa delle niguas (tunga penetrans), piccoli vermi che attaccano i piedi. Dal ritratto riprodotto supra sappiamo che il capitano Stedman camminava scalzo (v. fig. 235). Quando tornava dalle sue battute contro gli schiavi tibelli, Joanna gli estraeva dai piedi decine di questi insetti. Se non dai serpenti, le alpargatas proteggevano in parte dalle niguas.


ritratto parlato

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240. A. Codazzi, Mappa topografica del golfo di Maracaibo, ca. 1828.

bentrato un approccio al reale più fattivo e realistico. L’utilitarismo, di cui Codazzi aveva già dato prova in passato cimentandosi a più riprese con attività lucrative (da Istambul a St. Thomas), riemerse sotto forme inedite, tese al vantaggio sociale (o ‘patriottico’, come si diceva allora) più che a quello personale. Questa svolta etica (‘filantropica’) si concretò in una inesausta attività di topografo e ingegnere militare, attività intrapresa per ordine del governo grancolombiano (poi venezuelano) subito dopo il suo l’arrivo a Maracaibo nel 1827. Le nuove mansioni, esercitate con peculiare dedizione, lo portarono a covogliare i sogni d’un tempo nell’alveo dell’interesse scientifico e dell’impegno professionale, interesse e impegno a loro volta alimentati da un inedito senso di responsabilità. Non si trattò d’un passaggio agevole. Lungo il cammino, Codazzi si scontrò con ostacoli di tutti i tipi, ivi compreso un gravissimo incidente da lui cagionato (sebbene involontariamente o comunque

non per sua iniziativa), che ne provocò l’incriminazione e l’arresto. Prim’ancora che la giustizia militare lo prosciogliesse dalle accuse, lo liberarono dal carcere la perizia e la serietà dimostrate nello svolgimento degli incarichi assegnatigli. Ma l’episodio non poté non scuoterlo in profondità. Quattro vite erano state stroncate ad un suo comando: quattro indigeni guajiros fucilati por escarmiento, ossia, a titolo d’esempio.15 Ordinata dal piemontese Luigi Carlo Castelli, diretto superiore del lughese, la condanna era stata eseguita dal suo plotone, e quattro indios erano morti senza un perché.16 Un fatto atroce che sembra riflettersi negli occhi cerchiati e mesti dell’ufficiale tratteggiato da Carmelo Fernández. La svolta si concluse nel 1830, quando il governo del presidente Páez mise Codazzi a capo della Comisión Corográfica. Ora egli aveva un compito da portare a termine: il rilevamento topografico e il disegno cartografico, regione per regione, provincia

15 Gli indigeni della Guajira non furono mai del tutto domati. Un rapporto risalente agli ultimi anni dell’epoca coloniale (1799) rileva que, ad onta di numerose spedizioni punitive spagnole, “jamás han estado bien reducidos.” L’informatore spiega che ormai da tempo “[i guajiros] han quedado en entera independencia, comerciando con los extranjeros que los proveen de armas y municiones con que nos hacen la guerra” (cfr. Archivo General de Simancas, SGU, LEG, 7247, 22). I guajiros non salutarono con favore la nascita della Gran Colombia perché temevano, non a torto, che uno stato criollo, cioè, in mano all’élite bianca, non avrebbe garantito loro nemmeno quell’autonomia che avevano strappato alla Spagna nel corso di tre secoli. Tale diffidenza insospettì le autorità venezuelane, che li accusarono a più riprese di collusione con i corsari spagnoli (che continuarono a infestare le

coste del golfo di Maracaibo anche dopo l’Indipendenza). L’incidente in questione si colloca in questo contesto conflittuale. Gli atti del processo istruito contro Codazzi sono conservati nell’“Archivo Agustín Codazzi” della Biblioteca Nacional di Caracas (archivio scoperto dallo scrivente nel 1993 e acquisito subito dopo dalla BN). Cfr. anche M. Briceño Perozo, Vida y papeles de Justo Briceño, Caracas, 1970. Riferimenti in Pérez Rancel, op.cit. 16 Carlo Maria Luigi Castelli da San Sebastiano Po (17901860), fu capitano dell’Armée. In Venezuela raggiunse il grado di generale di divisione. Nel 1841 tornò per qualche tempo in Italia, mettendo mano ad un progetto di colonizzazione non dissimile da quello di Codazzi, basato sul trasferimento in Venezuela di emigranti sardi. Ne imbarcò alcune centinaia a Livorno ma il piroscafo fece naufragio nei pressi di Civitavecchia, v. supra.


l’orizzonte in fuga

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per provincia, dell’intero Venezuela; un compito immane, il cui assolvimento richiedeva interminabili, penosissimi viaggi a piedi, a dorso di mulo o in canoa. Ai nostri occhi, le alpargatas simboleggiano gli aspetti antieroici e sacrificali di questa peregrinazione. Quantunque comportasse l’attraversamento di paesaggi di straordinaria varietà e bellezza, l’esplorazione geografica dell’antica Capitanía offriva poche occasioni di contemplazione. Le misurazioni si susseguivano de sol a sol, dall’alba al tramonto, e il tempo restante era dedicato al disegno dei tracciati e alla trascrizione delle osservazioni. La natura osteggiava gli intrusi in mille modi, fiaccandone il fisico e il morale, sottoponendoli a sofferenze inaudite. A loro volta, gli intrusi rispondevano fendendola a colpi di machete, decisi a carpirne i contorni ad ogni costo. Per vincere una sfida simile non bastavano né il valore del soldat né l’operosità del laboureur, motivo per cui Codazzi si vide costretto a reiventarsi, facendo appello a quella stessa peculiare capacità di adattamento e trasformazione di cui aveva dato svariate prove negli anni precedenti, ma innalzandola ad un livello impensabile. Lo schizzo di Fernández, infatti, rappresenta un uomo nuovo: del veterano di Lutzen rimane la forma cava, del legionario dell’América Libre poche tracce, dell’imprenditore agricolo nemmeno l’ombra... Per cogliere il mutamento basta confrontare il ritratto in esame con quello di Vigneron. Osservandoli uno accanto all’altro si percepisce un cambiamento che dall’aspetto fisico si estende ad una dimensione meno 241. Ritratto del generale José Antonio Páez.

apparente. In ambedue i ritratti il soggetto è in posa, ma mentre in un caso questa è palesemente studiata, nell’altro corrisponde ad una postura regolamentare. La differenza non è solo circostanziale: passando da un ritratto all’altro – un transito decennale – sembra diminuire il grado di autocompiacimento dell’effigiato. Gli occhi del tenente colonnello Codazzi non guardano verso se stesso bensì verso l’orizzonte; non vedono le proprie belle speranze ma i lineamenti e le prospettive di una repubblica. La visione del mondo del personaggio di Fernández non è più la stessa del personaggio di Vigneron, e non solo in virtù dell’intervallo fra i due disegni: nel frattempo, in Codazzi si è verificato un cambiamento qualitativo, come se l’accumulo delle esperienze vissute, positive o negative, avesse dato luogo ad un salto dialettico. Pur profondo e rinnovatore questo mutamento non significò affatto un addio alle armi. L’importanza dell’incarico affidatogli dal governo venezuelano – niente meno che la descrizione corografica dell’intero paese – non impedì che Codazzi venisse chiamato a svolgere altresì missioni di tipo bellico. Ciò comportò ripetute sospensioni del lavoro scientifico, ritardandone la conclusione e sottoponendo il lughese a insopportabili pressioni. Fra il 1830 e il 1831 prese parte a tre diverse campagne militari, meritandosi la riconoscenza del Congresso, che lo proclamò enfaticamente “salvador de la patria”.17 Senza gloriarsene – altro risultato dell’avvenuta metamorfosi –, tornò alle sue misurazioni come un Cincinnato, o meglio, come un diligente “soldat arpenteur”, per poi correre nuovamente alle armi e così di seguito. Il 27 marzo 1836, il presidente Páez gli rilasciò un attestato di merito in questi termini: Essendo giunta l’ora di rassegnare il comando dell’Esercito, ho il grato dovere di complimentarmi con Lei per il ristabilimento della pace, a cui Lei tanto ha contribuito... Quando il Venezuela non presentava altro che minacce, quando non offriva se non pericoli, Lei ebbe il valore di correrli tutti... pur di restituire la tranquillità al paese. Lei fu il primo ad accorrere al mio richiamo e da quel momento in poi, passando di rischio in rischio e di vittoria in vittoria, rimase indefessamente al mio fianco... Questo onorevole comportamento la rende meritevole della gratitudine della Nazione.18

Nella nostra prospettiva, le parole di Páez – seppure formulate con posteriorità – arricchiscono il ritratto di Fernández d’un ulteriore livello di significato, importante per capire il rinnovamento avvenuto nel personaggio. Per l’uomo raffigurato, non casualmente disarmato, il dovere militare costituisce una responsabilità civile. Egli non incarna un guerriero pronto a battersi bensì un geografo militare, disposto a impugnare la spada solo in difesa delle istituzioni repubblicane. Per uno stato stremato dalle guerre d’indipendenza, ancora non fornito d’una precisa

17

H.A. Schumacher, Biografía del General Agustín Codazzi, San Fernando de Apure, 1916, p. 59 e ss. 18 Citato in Schumacher, ivi.


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ritratto parlato

242. C. Fernández, Ritratto di Agostino Codazzi, 1842, litogr.

fisionomia fisica, socialmente instabile e politicamente diviso, la salvaguardia dei principi costituzionali non poteva essere affidata se non ai cittadini in divisa, come per l’appunto il tenente colonnello Codazzi. Insomma, pur nella sua schematicità, il ritratto di Fernández mette in luce aspetti significativi del nuovo percorso mentale ed esistenziale imboccato dal nostro eroe; non solo, ma ne preannuncia l’evoluzione verso una concezione del mondo basata sulla conoscenza come ardua, incessante, spesso infelice, “pursuit of Happiness”.19 Nel 1840, al termine dei lavori della Comisión Corográfica (1828-1838), il lughese si recò a Parigi per seguire la stampa dell’Atlas e del Resúmen de

la Geografía del Venezuela.20 Vi tornò brevemente nel 1842, mentre era impegnato nell’organizzazione del risaputo progetto immigratorio. Nel corso del secondo viaggio, Vigneron ne eseguì un piccolo ritratto ovale ad olio, divenuto l’effigie ufficiale del geografo grazie ad una litografia di Carmelo Fernández eseguita sempre nel 1842. Forse inintenzionalmente, quest’ultimo introdusse nel volto del lughese un’espressione ironica – un ‘sorriso sotto i baffi’ – assente nel dipinto (proviene da qui la piega caricaturale avvertita dalla Caballero?). Di tale espressione non vi è traccia neppure nel dagherrotipo realizzato in contemporanea da autore ignoto, un’immagine, per altro, pervenutaci attraverso posteriori riproduzioni fotografiche. Putroppo, questi passaggi hanno

19 Carmelo Fernández (1809-1887), militare e pittore venezuelano, venne aggregato da Codazzi alla Comisión Corográfica del Venezuela nel 1833. Disegnò fra l’altro il bel frontespizio dell’Atlas de Venezuela (Parigi, 1841). Fu un abile litografo. Nel 1850 si unì alla Comisión Corográfica della Nuova Granada in qualità di pittore-illustratore. A lui si devono gli acquarelli più

riusciti dell’intera raccolta di vedute e costumi realizzata dai vari pittori che presero parte ai lavori di detta Comisión. 20 A. Codazzi, Atlas físico y político de la República de Venezuela, Paris, 1840; A. Codazzi, Resúmen de la geografía de Venezuela, Paris, 1841. Le due opere apparvero nel 1841, la data dell’Atlas venne modificata per ragioni amministrative.


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l’orizzonte in fuga

provocato un appiattimento sostanziale della fisionomia, per cui Codazzi ne esce ingrassato e ringiovanito, pressoché irriconoscibile. Tornando all’ovale di Vigneron, esso raffigura un colonnello del genio in alta uniforme, con spalline a frangia, alamari dorati e fusciacca arancione. Sul petto fa bella figura di sè la stella a cinque punte doppie della Legion d’Onore. Ciglia e baffi folti, chioma spessa e irta, occhiaie, la fronte distesa, le guance infiacchite, Codazzi dimostra i suoi cinquant’anni. Come nei ritratti anteriori, lo sguardo rivela consapevolezza e tenacia, caratteri, in questo caso, resi più evidenti dalla solenne eleganza della divisa; divisa, comunque, dalla quale non dobbiamo lasciarci ingannare: ad indossarla non è un ufficiale qualsiasi ma un ingegnere militare impegnato in compiti civili, un uomo che nel corso di un decennio ha portato a termine da solo e con una strumentazione limitata un’opera antesignana nella storia della geografia americana. A Parigi il lughese andò ad abitare in Rue Helder. Benché non fosse particolarmente socievole, apprezzava le visite dei colleghi studiosi. Fra costoro primeggiava Alexander von Humboldt, l’illustre savant che quarant’anni prima aveva ‘scoperto’ l’America tropicale. I punti astronomici determinati da Codazzi collimavano con quelli a suo tempo rilevati dal barone, una concordanza che impressionò gratamente quest’ultimo.21 «Mi rallegro di essere vissuto abbastanza da conoscere i risultati di un’impresa di tanta importanza – scrisse Humboldt al suo epigono nel 1841–, è un’opera che rende onore al nome di Codazzi e al governo che l’ha sostenuto». La disamina dell’Atlas e del Resúmen da parte della comunità scientifica parigina fece sì che i riconoscimenti si moltiplicassero, e non solo in Francia. Codazzi dovette compiacersene assai, ma dai suoi occhi ciò non traspare. I pennelli di Vigneron colgono uno sguardo malinconico, inappagato se non rincresciuto, forse velato dalla consapevolezza dei propri limiti. Vent’anni prima il lughese s’era vantato a sproposito di «troppo conoscere le vicende umane». All’epoca già possedeva doti di discernimento e buon senso, ma della vita sapeva ancora poco, di se stesso non molto di più. La presa di coscienza si produsse nel periodo successivo, quando, deluso dalla realtà italiana – così diversa da quella sognata al momento di rimpatriare – intraprese per la seconda volta la rotta americana. Ma nemmeno il mondo che l’accolse oltreoceano rassomigliava a quello dei suoi sogni – quelli consegnati alle Memorie –, per cui riannodare il filo del tempo e delle cose fu impossibile. Dovette ricominciare daccapo, umilmente, misurandosi con ostacoli e insidie smisurate. Uscì dall’intento vittorio-

so ma irriconoscibile: un uomo riflessivo, paziente, tenace e... intimamente scontento. Come si è detto, scienza e coscienza si svilupparono in lui di pari passo, sospingendolo in una direzione insperata e gratificante, ma cancellando nel contempo ogni traccia di quello stato d’animo fiducioso e spensierato che aveva caratterizzato i suoi anni giovanili. Lo sguardo fissato da Vigneron esprime sapientemente l’avvenuto distacco dal passato: Codazzi è un uomo solo che ha pagato il proprio rinnovamento troncando i vecchi legami affettivi e rimuovendo una parte non trascurabile di sé; una rottura drammatica e impietosa, esemplificata dal ripudio del compagno Ferrari, il suo antico alter ego. Ora egli ha una famiglia, una missione, una patria, un futuro: perché tornare ai tempi andati? Non casualmente, il manoscritto delle Memorie è rimasto al Serraglio, sepolto in una casa amorevolmente costruita e poi abbandonata. Attrazione e rigetto istituiscono uno schema psicologico di fondo, attivo in ognuno di noi; tuttavia, nel caso di Codazzi, imprimono moto e significato alla sua vita. La storia del nostro eroe è scandita, sostanziata da successivi distacchi, volontari e involontari. Ciò che la rende interessante è proprio questo sottofondo rapsodico, un ritmo che Beatriz Caballero ha interpretato in termini evolutivi, come un crescendo armonico, intitolandolo Le sette vite di Codazzi. Dal canto nostro, non crediamo ad una dinamica progressiva (non dal punto di vista esistenziale) bensì ad un’alternanza di continuità e rotture, di stasi, accelerazioni e salti dialettici. Non più data alla perlustrazione interiore, la sua “conciencia interrogante” si era volta all’indagine scientifica. «Cercar si deve l’interesse in quel luogo ove meglio si trova», aveva proclamato velleitariamente nel 1823. A distanza di vent’anni l’adagio aveva acquisito uno spessore imprevisto, assumendo significati di portata non più solo individuale: l’interesse in gioco era collettivo, lo spazio ove localizzarlo sconfinato, il modo di rinvenirlo matematicamente esatto. Ora quella frase sintetizzava la filosofia del lavoro di Codazzi, mettendo in risalto il collegamento di fondo fra esplorazione geografica e progettualità sociale. Il giovamento personale era ancora presente, ma non più, come in gioventù, sotto forma di venale o egocentrica priorità. Negli ultimi vent’anni, l’attività scentifica aveva favorito in lui un atteggiamento meno compiaciuto e più autocritico. L’insoddisfazione e la solitudine risultanti da questa conversione, da questa nuova coscienza inquisitiva, si leggono nello sguardo captato da Vigneron. Mentre si addentrava nelle sterminate praterie venezuelane, osserva Schumacher, il lughese, sensi-

21 La concordanza delle rispettive misurazioni rallegrò entrambi. Il rigore e la precisione erano doti condivise, com’era condivisa la visione di un’America libera e progredita. L’impegno scientifico e civile di Codazzi trasse linfa dall’esempio di Humboldt: fu questi, invero, l’ispiratore, il maestro e la guida spirituale del nostro (che non mancò di riconoscerlo). Fra il 1840

e il 1842, il barone frequentò assiduamente la casa parigina di Codazzi. I rapporti fra i due si protrassero fino alla morte del lughese, avvenuta tre mesi prima di quella del savant. La lettera di Humboldt qui citata, datata 20 giugno 1841, fu pubblicata inizialmente in A. Codazzi, Geografia statistica di Venezuela di Agostino Codazzi, Firenze, 1864.


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ritratto parlato

243. P.R. Vigneron, Ritratto di Agostino Codazzi, 1842, olio.


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sfondo isolate vette montagnose. Quante volte, non si sarà ritrovato in una posizione simile, lo sguardo volto alle cime delle Ande o all’immensità vuota degli llanos? All’inizio del 1857, giunto sul limitare della selva del Caquetá, Codazzi annotò: Siamo circondati da un’immensa massa vegetale. La natura si fa beffe di chi sostiene che l’uomo è padrone e signore del creato. Essa non perdona né gli individui né le genti. Da un’altura avvistiamo l’orizzonte: non si percepisce altro che un immenso mare verde scuro, dal quale emergono, a mo’ di isole, alcune elevazioni più chiare, ma invariabilmente verdi. La gigantesca densità del fogliame non consente di vedere né il suolo che lo nutre né l’acqua che lo abbevera...23

Come si diceva, la natura disdegna gli intrusi, per questo li atterrisce con visioni esorbitanti. L’immagine di Codazzi affacciato su un mare di nubi è ripresa dal quadro più celebre di Friedrich, “Der Wanderer über dem Nebelmeer” (v. fig. 244).24 Rovesciando la situazione, potremmo collocare il personaggio del pittore tedesco su un’altura circondata dalla selva del Caquetá e chiederci che cosa vedrebbe. La risposta è semplice: l’infinito. L’immenso mare verde, solitario e muto, genererebbe in lui un sentimento d’insuperabile pochezza analogo a quello tante volte cantato da Giacomo Leopardi:

244. C.D. Friedrich, Viaggiatore su un mare di nubi, 1818.

bile e ricettivo, rimase come contaminato dalla malinconia di quei luoghi. «D’indole introversa, chiuso in se stesso a seguito dei suoi lunghi viaggi per mare – aggiunge il biografo tedesco – [Codazzi] divenne sempre più riservato e scostante».22 Pur suggestiva, la spiegazione della sua riservatezza in chiave romantica, facendo appello all’effetto delle vaste solitudini della natura su un animo impressionabile, non rende conto né del carattere scientifico del suo rapporto con il mondo fisico né della crisi di coscienza testè menzionata. L’impronta romantica ravvisabile nel disegno del 1822 (e ancor più, come s’è detto, nella relativa replica fotografica) svanisce nell’olio del 1842, e non solo come effetto della mutata temperie culturale. Lo stile di Vigneron risente senz’altro del passo del tempo, ma i suoi occhi sanno vedere e rappresentare. Codazzi è innegabilmente un uomo solitario, non però a guisa d’un “pastore errante dell’Asia” bensì alla maniera dei naviganti e degli esploratori, categorie che hanno una comune dimestichezza con il vuoto (il vuoto del mare, il vuoto delle terre intoccate). Immaginiamo il lughese di spalle, in giacca e pantaloni scuri, eretto su una roccia, il bastone nella mano destra, ai suoi piedi un mare di nubi, sullo

22

Schumacher, Biografía, op.cit. Ivi. 24 C.D.Friedrich, Der Wanderer über dem Nebelmeer, 1818, olio su tela, Hamburger Kunsthalle. 23

E quando miro in cielo arder le stelle, dico fra me pensando: a che tante facelle? che fa l’aria infinita, e quel profondo infinito seren? che vuol dir questa solitudine immensa? ed io che sono?

La differenza fra Codazzi e il “Wanderer” di Friedrich consiste in una diversa percezione del mondo naturale. Per il lughese la natura era misurabile, perciò stesso finita, ostile ma non invincibile. L’immensità non gli incuteva terrore, generava in lui un senso d’impotenza dal quale, però, lo riscattava la fiducia nella scienza, la fede nell’uomo come metro di tutte le cose. Una visione positiva, che a sua volta si scontrava con un dubbio di fondo: quale la reale capacità dell’umanità di misurarsi con la natura? E quale, in particolare, la capacità delle nuove repubbliche? Quanta l’efficacia del proprio lavoro? Codazzi non poteva far altro che avanzare, osservare e indicare; il resto gli sfuggiva e nessuno era in grado o disposto ad occuparsene. Il timore che gli si legge negli occhi è che la sua impresa potesse finire nel nulla. Diversamente da Leopardi, Codazzi non si chiedeva: “Ed io che sono?” bensì: “Ed io che faccio?”. Provenendo da una persona che aveva appena concluso un lavoro scientifico colossale, si direbbe un interrogativo incoerente; tuttavia, se rapportato al futuro appare lecito, o meglio, doveroso. Le sfide poste al Venezuela da una natura indomita si potevano vincere, non così quelle derivanti dai mali che ne intaccavano il tessuto sociale, primi fra tutti l’ineguaglianza e la prevaricazione. In questo senso, l’inanità di Codazzi era sconfortante, tale da mettere in forse le sue stesse conquiste scientifiche. Per un fervente repubblicano


ritratto parlato

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245. Frontespizio allegorico dell’Atlas de Venezuela, 1841.

votato al miglioramento della patria adottiva, lo spettacolo dell’ingiustizia era più amaro d’un tradimento. La sua desolazione s’ingigantiva allorchè si ritrovava a constatare le penose condizioni dei nativi, non di rado peggiori di quelle patite in epoca coloniale. Ciò era più evidente nei cantoni periferici, che, per la noncuranza del governo centrale, venivano amministrati con metodi inumani: Il cantone di Rio Negro [Guayana] puè essere considerato una repubblica diversa dal Venezuela: non vi impera la legge, bensì solo il capriccio del Capo Politico e dei suoi subalterni, che son detti “razionali”, creature del suo stesso stampo, quasi dei satelliti che ne eseguono fedelmente gli ordini, strampalati e sempre ingiusti verso la comunità indigena, emanati al solo scopo di favorire tre persone che si credono in diritto di comandare su tutto e tutti, convinte che il cantone sia un loro dominio privato, e gli indios loro schiavi...25

Dagli occhi dell’effigiato, però, non trapelano unicamente solitudine e dubbi. Nonostante tutto, nel suo sguardo si ravvisano bagliori di speranza. Invero, la gravità dei problemi non impedì a Codazzi di confidare nell’avvenire del Venezuela, un paese le cui ricchezze naturali attendevano solo che mani umane le mettessero a frutto. Era sperabile che il tempo, lo spirito repubblicano e lo sviluppo economico avessero curato anche l’iniquità. Ciò che si richiedeva era studio e lavoro: il tracciato esatto del suolo, l’inventario delle risorse, piani di sfruttamento agricolo e commerciale, vie di comunicazione e soprattutto gente tenace e laboriosa disposta ad adoperarsi per il bene della nazione. A lungo termine, l’impresa corografica testè portata a compimento avrebbe si-

curamente contribuito al progresso; tuttavia, esso dipendeva, oltre che da programmi di sviluppo disegnati a partire da una conoscenza esatta del paese, da scelte politiche e iniziative concrete a breve, anzi, brevissimo termine. La situazione demografica, per esempio, era tale da rendere impensabile, in un lasso di tempo ragionevole, qualsiasi possibilità di crescita. Ai fini dell’incremento della popolazione, l’unica soluzione praticabile – la “salvadora idea”, come la definì il presidente Páez – era l’immigrazione straniera. Questa, a sua volta, richiedeva una serie di interventi preliminari, fra cui, in primis, l’individuazione delle località propizie agli insediamenti. La scelta del luogo era un compito non facile, da cui dipendeva il successo o l’insuccesso d’una colonia. In gioco non vi erano soltanto le possibilità di sfruttamento del suolo ma anche il benessere, se non addirittura la sopravvivenza, dei coloni (per un immigrato europeo il clima e la salubrità erano termini a quo). Tale incombenza ricadde su Codazzi, di gran lunga il miglior conoscitore del territorio venezuelano e, allo stesso tempo, il miglior giudice delle esigenze da soddisfare. Rientrato in Venezuela verso la metà del 1841, il nostro eroe si mise in cerca del luogo giusto, esplorando le valli esistenti sul versante interno del siste25 Citato da E. Sánchez, op.cit. L’illustrazione in alto (v. fig. 245) è una creazione di Carmelo Fernández. Vi riappare l’America in veste di indigena, dotata degli attributi canonici. Accanto alla donna, appaiono anche i simboli della nazione venezuelana. La fusione del mondo indigeno con quello criollo non era però destinata a prodursi.


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ma montuoso costiero, a sud di Caracas. «Mi sono dedicato in particolare a questa zona – spiegò nel rapporto al governo – perché mi pare che il successo del progetto di colonizzazione dipenda dalla posizione più o meno favorevole del primo insediamento, che costituirà un punto di riferimento per quelli a venire». Oltre ad un clima pari o superiore a quello europeo, oltre alla fertilità della terra e all’abbondanza d’acqua, l’area perlustrata presentava il vantaggio della vicinanza al mare e ai centri più popolosi della repubblica, prerogativa importante ai fini dell’esportazione e del commercio interno delle future derrate. Le sue conclusioni furono approvate ed egli, come richiesto, fu posto a capo dell’intero progetto, un’impresa privata ma d’interesse nazionale.26 Come sappiamo, sulla scelta dei coloni pesò l’esempio degli Stati Uniti che, a suo tempo, avevano favorito l’immigrazione di tedeschi. Nel 1842 Codazzi s’imbarcò nuovamente per l’Europa, allo scopo, per l’appunto, di radunare il primo contingente di emigranti. Giunse a Parigi all’inizio dell’estate e di lì a poco gli venne conferita la Legion d’Onore. Vigneron ne dipinse il ritratto quando tale onorificenza già faceva bella mostra di sé sul suo petto. Ciò che s’intravede negli occhi di Codazzi, oltre a quanto osservato fino ad ora, è un cauto, motivato ottimismo. Nel progetto immigratorio affidatogli dal governo venezuelano confluivano e si fondevano aspirazioni astratte e aneliti personali: in esso era racchiusa la visione d’una società modello, industriosa, prospera e libera; in esso era cifrato il futuro d’un paese che era anche il suo; in esso, infine, riverberavano i propositi e le delusioni legate all’esperienza del Serraglio. Forse parlare di ottimismo è eccessivo. I drammi personali e il decennale contatto con la selvaggia natura tropicale avevano dissipato le certezze percepibili nel disegno del 1822. Tuttavia, la fiducia nell’uomo come metro di tutte le cose persisteva, e Vigneron la riconobbe. Il pittore che dipinse il ritratto conservato nel Museo Nacional di Bogotà vide qualcosa di diverso.27 Lo sguardo di Codazzi si è ulteriormente immalinconito, fino al punto da sembrare sconfortato (o contrariato o ambedue le cose), una sensazione accresciuta dalle occhiaie e dalle rughe che solcano verticalmente la fronte. I lineamenti si sono fatti più scarni: gli zigomi sporgenti, le guance scavate, il naso pronunciato. Tale indurimento, crediamo, dipende solo in parte dalla rozzezza del dipinto, comunque privo di sfumature. Il pittore, infatti, riesce ad infondere negli

26 Cfr. G. Antei, Mal de América. Las obras y los días de Agustín Codazzi, Bogotá, 1993 (catalogo della mostra omonima); “La Tierra Prometida”, in “Senderos”, op. cit. Cfr. inoltre Pérez Rancel, op.cit. e Sánchez, op.cit. 27 R. Torres Méndez (attr.), olio su tela, Museo Nacional, Bogotá, inv. 224. Donato al Museo Nacional dagli eredi venezuelani di Codazzi nel 1924. 28 Pérez Rancel, op.cit.

l’orizzonte in fuga

occhi del lughese una intensa espressività: se osservati da vicino, in essi si può leggere uno dei capitoli più sofferti della sua storia. Mentre fra il 1830 e il 1842 Codazzi aveva vissuto un momento di eccezionale espansione personale e professionale, caratterizzato dal raggiungimento di ammirevoli risultati scientifici e dall’avvio del progetto di colonizzazione che sappiamo, negli anni immediatamente successivi vide tentennare, se non crollare, tutto ciò in cui aveva creduto e a cui aveva posto mano. La Colonia Tovar non crebbe come previsto, il Venezuela entrò in un’epoca di rovinosa conflittualità interna (destinata a bloccarne il progresso per decenni), la sua carriera politica finì malamente e, da ultimo, fu obbligato a viva forza ad espatriare da quella repubblica che aveva esplorato, misurato e amato, divenendone addirittura il “salvador.” Passiamo al 1843. Mentre gli emigranti tedeschi si andavano vieppiù convincendo dell’inesistenza del paese di Bengodi – per altro mai fatto baluginare ai loro occhi o non in termini fraudolenti – e annegavano nella birra la loro frustrazione, il Venezuela veniva scosso da violente proteste contro il governo del presidente Páez, fomentate dalla Sociedad Liberal Caraqueña (poi ribattezzata ‘Partido Liberal de Venezuela’) e dal giornale “El Venezuelano”. Nel 1844, dopo l’uscita di Páez, la situazione si aggravò a causa dei problemi economici interni e internazionali (il Venezuela doveva ancora il 60 per cento dell’ingente debito estero contratto durante le guerre d’indipendenza), sui quali si accanì opportunisticamente “la insistente prédica demagógica” dell’opposizione. Scrive al riguardo Pérez Rancel: El proyecto de Nación y de Gobierno iniciado por Páez en 1830 con el apoyo de la que ahora conocemos de manera simplista como ‘oligarquía conservadora comienza a colapsar por estos empujes y con él también la obra de Codazzi, quien luego de casi veinte años de trabajo científico y militar al servicio de Venezuela, se enorgullece al llamarla ‘mi Patria adoptiva’. Él había empleado veinte años en construir esa ‘Libertad’ y ‘Unidad’ que no se habían alcanzado durante el Reino Itálico. [Il progetto di nazione e di governo avviato da Páez nel 1830 con l’appoggio di quella che oggi viene definita semplicisticamente ‘oligarchia conservatrice’, comincia a crollare sotto queste spinte e unitamente ad esso anche il lavoro di Codazzi, che al termine di quasi vent’anni di attività scientifica e militare al servizio del Venezuela, è orgoglioso di chiamarla ‘la mia patria adottiva’. Aveva impiegato vent’anni per costruire quella Libertà e quell’Unità che non erano state raggiunte durante il Regno Italico]. 28

L’indebolimento dello schieramento di governo, ora presieduto da Carlos Soublette, comportò conseguenze negative per la Colonia Tovar ed in particolare per il lughese. L’insediamento era sorto grazie a ingenti prestiti statali e privati restituibili mediante i proventi del lavoro dei coloni, cioè, attraverso la commercializzazione delle produzioni agricole. Parte del lavoro veniva prestato a mo’ di corvée a favore del direttore e responsabile della colonia, vale a dire il lughese. Questi, a sua volta, era il debitore principale verso il governo e gli altri creditori, ragione per cui se


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ritratto parlato

246. R. Torres MĂŠndez (attr.), Ritratto del generale Codazzi, ca. 1855.


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247. A. Codazzi, Esposición a la Diputación Provincial, 1847.

i coloni disertavano – fra il 1843 e il 1846 ne scomparvero la metà –, i loro debiti inevasi ricadevano su di lui e sui garanti dei prestiti. Le diserzioni, dunque, dovevano essere evitate ad ogni costo, perfino mettendo mano a misure poliziesche. Di fatto, alcuni dei fuggiaschi si riferirono all’esistenza di una “Codazzi Polizei”; altri denunciarono le condizioni di schiavitù della colonia (accusa smentita, a detta di Pérez Rancel, dai rapporti di produzione in atto, caratterizzati “por elementos de tipo semifeudal pero con presencia determinante de relacione económicas de tipo capitalista”).29 In breve, il quasi-fiasco della Colonia Tovar fu provocato – oltre che dall’indolenza del governo e da fattori imponderabili – da errori di valutazione imputabili in gran parte all’eccessiva fiducia del nostro negli uomini, nelle istituzioni e nella natura stessa: un atteggiamento speranzoso e irrazionale non dissimile

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Ibid. Cfr. Antei, La Tierra Prometida, op.cit. Ibid. Pérez Rancel, op.cit.

da quello che vent’anni prima aveva causato il dissesto del Serraglio. Nel 1845, poco prima di essere designato governatore di Barinas, il lughese si rivolse al presidente Soublette dicendogli: “Parece que mi destino no cesa de perseguirme, y mi purgatorio debe seguir todavía más tiempo”.30 La frase potrebbe essere apposta a maniera di filatterio al ritratto di cui ci stiamo occupando. Nello sguardo di Codazzi, infatti, si percepiscono segnali provenienti dal ‘secondo regno’, quel luogo ove si espiano le illusioni. Il nostro meritò di finirvi – si fa per dire – anche a seguito dell’idealismo dimostrato come governatore dello stato di Barinas. A un anno dall’insediamento, nel novembre 1846, fece pervenire ai notabili del partito d’opposizione una “invitación franca y repúblicana” nella quale si diceva ansioso di «vedere ristabilita l’unione fra tutti i cittadini [di Barinas], quell’unione compatibile con la natura umana... che nasce dalla convinzione e dalla convenienza, espressione degli interessi pubblici e privati».31 Bisognava superare il divisionismo di partito, dimenticare il passato, liberarsi dai settarismi e ritrovare l’armonia, di modo che nel patriottismo si fondessero gli interessi superiori della repubblica con quelli privati... se bene intesi. Nell’esercizio di governatore, osserva Pérez Rancel, Codazzi pose in atto il suo bagaglio scientifico e politico, avendo modo di applicare molti dei concetti assimilati in precedenza, “conceptos encuadrados en el liberalismo, ligados al pensamiento laico, fundados sobre (...) los principios de la ideología masónica e inspirados en las experiencias europeas”.32 Ma peccò d’ingenuità e il destino, implacabile e persecutorio, si scagliò contro di lui una volta ancora. Dal quadro, comunque, non emergono soltanto le delusioni provocate dalla Colonia Tovar e dal governatorato di Barinas. Giunto nella Nuova Granada nel gennaio 1849, il lughese venne accolto con rispetto e simpatia. Venne subito inquadrato nel corpo del Genio con i galloni di tenente colonnello (grado non certo entusiasmante se si considera che in Venezuela aveva raggiunto quello di colonnello effettivo) e messo a capo del Colegio Militar di Bogotá. Pochi mesi dopo fu nominato direttore della Comisión Corográfica neogranadina, incarico che mantenne fino alla morte. Il decennio compreso fra il 1850 e il 1859 fu fra i più attivi e scientificamente fecondi della sua vita. Ciò, tuttavia, non vuol dire che potesse dedicarsi in santa pace al lavoro. Le ‘convulsioni’ che in quegli anni contrassegnarono la storia neogranadina lo obbligarono più di una volta, come già era accaduto in Venezuela, a lasciare il teodolite per la spada. Non fu questo, hélas, il più serio dei problemi: ancor più gravi furono gli intralci derivanti dalla sottovalutazione dei risultati della Comisión Corográfica da parte dei governanti che si succedettero a Hilario López. Detta incomprensione minò il suo assegnamento nelle possibilità di riuscita dell’intero progetto, mettendo fine, di conserva, all’idillio con la patria neogranadina. Sebbene in Venezuela le interruzioni fossero state


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ritratto parlato

248. M.M. Paz (attr.), Ritratto del generale Codazzi, litogr.


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l’orizzonte in fuga

249. R.T. Méndez, Ejército del Norte, litogr.

altrettanto numerose, l’appoggio ricevuto dai governi di turno era stato unanime, l’apprezzamento per il suo lavoro, idem, la comprensione dell’importanza economica e sociale dell’impresa, totale. Per contro, nella Nuova Granada il sostegno anche morale e intellettuale fu relativo e incostante (a partire dall’uscita di scena del presidente liberale Hilario López, nel 1853). Mano a mano che le spedizioni si susseguivano alle spedizioni, le misurazioni alle misurazioni, il traguardo appariva vieppiù irraggiungibile. Tale slittamento accrebbe lo scetticismo di Codazzi (peraltro in lui sempre latente). I suoi dubbi riguardavano non solo la reale importanza dell’impresa corografica per lo sviluppo del paese, bensì pure l’effettiva validità del proprio lavoro scientifico. Poiché il vaglio dell’operato della Comisión dipendeva dagli studiosi europei, il ritardo nella pubblicazione dei risultati scientifici avrebbe vanificato uno sforzo di anni, con danni anche per la nazione... ma nessuno sembrava preoccuparsene, nessuno sembrava capire per quale ragione il denaro pubblico dovesse essere impiegato nell’esplorazione di province marginali e spopolate, di scarsissimo interesse politico ed economico. Oltretutto il lughese, in passato accanito difensore

dell’immigrazione europea, ormai da tempo non lo era più, e ciò non poteva non dispiacere al governo neogranadino (che persisteva nel concepire la materia sull’esempio degli Stati Uniti). In effetti, l’esperienza della Colonia Tovar aveva convinto il geografo che la crescita di un paese tropicale era legata non agli insediamenti stranieri ma alla colonizzazione interna: Pensamos en ofrecer al europeo tierras y protección para fundar colonias agrícolas que nunca podrán situarse en selvas calurosas que inutilizan comarcas enteras donde casi de golpe del hacha brotarían los cafetos, los éarboles de cacao, la caña de azucar, el añil, frutos apetecidos por el extranjero que los paga con largueza. ¿Por qué no pensamos también en el agricultor criollo que ya se encuentra estrecho en las tierras altas de las provincias del Norte, y bendeciría la mano que lo hiciese propietario en otros lugares? A estos hombres endurecidos en el trabajo y acostumbrados a nuestros climas, deberían ofrecérseles también tierras regaladas y medios de transportarse a ellas, descuajarlas y labrarlas. [Ci proponiamo di offrire agli immigrati europei terre e aiuti affinché fondino colonie agricole che non potranno in nessun caso sorgere nelle foreste calde che rendono inappropriate intere province, dove per contro crescerebbe senza sforzo il caffé, il cacao, la canna da zucchero e l’indaco, prodotti ambiti dagli stranieri che li pagano ad alto prezzo. Perché non pensiamo piuttosto nel contadino locale che ormai sta stretto nelle province del Nord e bene-


ritratto parlato

250. A. Codazzi, Carta corografica della Provincia di Socorro.

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l’orizzonte in fuga

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mio lavoro... qui non conto su alcuna collaborazione critica. Devo riunirmi con uomini come Boussingault, Schomburgk e Humboldt. Devo frequentare società scientifiche e accademie. Devo ricominciare da capo. Se non lo facessi, tanti sforzi e tanta dedizione finirebbero nel nulla. Oggi come oggi, coloro che lavorano isolati e solitari non sono utili al mondo].34

251. Agostino Codazzi, dagherrotipo, ca. 1857.

direbbe la mano di chi gli donasse terre in altri luoghi? È a gente come questa, indurita dal lavoro e abituata al nostro clima, che bisognerebbe offrire terre in regalo e mezzi per raggiungerle, dissodarle e coltivarle].33

La crisi di coscienza finale si verificò nel 1857. Dal suo arrivo nella Nuova Granada, il lughese non aveva più avuto modo di sottoporre il propri risultati scientifici al vaglio degli studiosi europei. Aveva contatti sporadici con questo o quel geografo, questo o quel naturalista, ma non era aggiornato. Aveva trascorso la maggior parte del tempo in solitudine, percorrendo un territorio sterminato, ed ora si rendeva conto dei danni derivanti dell’isolamento. Il riscontro non poteva essere differito ulteriormente: Aunque me halle en los días de mi vejez, debo viajar a París a fin de poder concluir mis trabajos... ya que aquí no cuento con la ayuda crítica de nadie. He de hablar con hombres como Boussingault, Schomburgk y Humboldt. Tengo que visitar asociaciones científicas y académicas. Tengo que empezar desde el principio. Si así no lo hago, todas mis fatigas y dedicación habrán sido en vano. En nuestros días, quien trabaja aislado y solitario no podrá ser útil al mundo. [Quantunque sia ormai vecchio, devo recarmi a Parigi per poter concludere il

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A. Codazzi, “Apuntamientos”. Citato in Schumacher, Biografía, op. cit. 35 Manuel María Paz (1820-1902), militare e pittore colombiano, prese parte come illustratore a numerose spedizioni della Comisión Corográfica. Disegnò altresì (su appunti e mappe pre34

Ma il destino aveva disposto diversamente. Codazzi l’aveva intuito da tempo, e l’autore del ritratto ne ebbe sentore. Il quadro viene datato attorno al 1848, ma è probabilmente posteriore. Nella scheda museale si parla di «filiazione da Vigneron», tuttavia le discrepanze fra i due ritratti sono considerevoli. Anche se sostanzialmente simili, le uniformi divergono nel colore e in altri dettagli. Sulle spalline di una di esse appare un’insegna mancante nell’altra, rassomigliante ad un ‘sole’, un distintivo ancora in uso fra gli alti ufficiali nell’esercito colombiano. Se così fosse, il ritratto raffigurerebbe un generale, grado che Codazzi raggiunse il 4 dicembre 1854, per cui l’esecuzione del medesimo dovrebbe essere spostata ad una data posteriore. Sappiamo però che il quadro fu ritoccato nel 1879 dal pittore venezuelano Juan Antonio Michelena (1832-1918), e non è impossibile che il ‘sole’ venisse aggiunto allora. Dal ritratto fu ricavata una litografia, probabilmente ad opera di Manuel María Paz (1820-1902), poi riprodotta nell’Atlas Geográfico e Histórico de la República de Colombia, apparso nel 1890 (v. fig. 248).35 In essa il ‘sole’ è perfettamente distinguibile. Curiosamente alla «filiazione da Vigneron» si è giunti mediante il confronto con una variante rovesciata di questa stessa litografia, erroneamente attribuita a Carmelo Fernández (che ne realizzò una ben diversa, v. fig. 242). Taluni hanno voluto riconoscere nel dipinto la mano di Ramón Torres Méndez, ma questa attribuzione è stata scartata a partire dalla considerazione che “de haberlo realizado [Torres Méndez] también él habría asumido la restauración”. Prescindendo dalla vera identità del pittore, tale argomento non tiene. La vedova di Codazzi, Araceli, abbandonò Bogotá assieme ai due figli maggiori nel 1861, facendo ritorno in Venezuela. Va da sé che qualora il ritratto fosse già esistito – com’è probabile – avrebbe immancabilmente fatto parte del suo bagaglio. A favore di Torres Méndez gioca, se non altro, la straordinaria somiglianza esistente fra il ritratto in questione e un suo disegno, litografato dallo stesso pittore nel 1855, raffigurante Codazzi a cavallo in veste di capo di Stato maggiore dell’Esercito del Nord (v. fig. 249).36 I lineamenti sono i medesimi: stessa fronte aggrottata, stessi occhi cerchiati, stesse guance scavate e soprattutto lo stesso sguardo triste. In questa immagine il lughese è un colonnello del Genio di 62 anni non

paratorie di Codazzi) le carte geografiche dell’Atlas Geográfico e Histórico de la República de Colombia, Parigi, 1890. 36 Ramón Torres Méndez (1809-1885), pittore, incisore, miniaturista e caricaturista colombiano, particolarmente noto per le scene di costume.


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ritratto parlato

252. Agostino Codazzi, ritratto fotografico.


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l’orizzonte in fuga

compiuti: il portamento eretto, l’agilità e la snellezza indicano un ottimo stato fisico. Il suo piglio giovanile, tuttavia, non trova riscontro nell’espressione del volto, improntata ad una contrastante senescenza. Esiste la possibilità che tanto l’ovale del Museo Nacional come il ritratto apparso più tardi sull’Atlas Geográfico e Histórico (v. fig, 248) rimandino ad una comune fonte fotografica, un dagherrotipo che ritrae il nostro in borghese (v. fig. 251). Sia il pittore che il litografo avrebbero potuto basarsi su quest’ultimo, sostituendo i banali indumenti civili con l’elegante uniforme militare. Le differenze fra il dipinto e la foto, però, interessano tanto l’abbigliamento come i lineamenti del volto, ragione per cui un prestito sembra improbabile. Per contro, gli influssi esercitati sulla litografia (attribuibile, come s’è detto, a M.M. Paz) sia dall’ovale che dal dagherrotipo sono innegabili. Fra i tratti comuni risalta la fronte corrugata, un particolare significativo che in apparenza avvalora la derivazione della litografia dall’olio. D’altro canto, il viso pieno, comune al dagherrotipo e alla stampa, potrebbe indicare questa seconda filiazione. Comunque sia, dal dagherrotipo trasse spunto sicuramente Celestino Martínez, autore di un ritratto ad olio di povera fattura, ritratto che, fra l’altro, non riesce a riprodurre l’espressione fissata sulla lastra (v. fig. 253).37 Martínez modifica leggermente l’angolazione della testa, spostando di conserva l’asse degli occhi: ciò basta a far perdere loro quella malinconica intensità a cui siamo abituati. Ma la più vistosa reinterpretazione del dagherrotipo è costituita, paradossalmente, da una riproduzione fotografica del medesimo. Le correzioni vanno dallo sguardo, alla capigliatura, al taglio dell’abito: ne risulta un personaggio simpatico e, forse proprio per questo, poco verosimile (v. fig. 252). Osserviamo il dagherrotipo. Codazzi ha passato la sessantina da un pezzo, forse ha 65 anni. Bogotá, nel 1858, era una città fredda. Giannetta Codazzi, la sorella, se ne lagnava nelle lettere all’arciprete di Bagnara: «Qui non v’ha che una sola stagione, sempre fredda, ma non gela, né si vede neve che in distanza. Io vado vestita di lana».38 Anche il nostro eroe vestiva pesanti capi di lana, giacca e pastrano. I capelli erano ingrigiti, i mustacchi pure, ma lo sguardo era sempre

quello, scettico e malinconico. Aveva difficoltà a parlare correttamente l’italiano: «Tanto tempo che non escribo né parlo el italiano che mi vedo imbrogliado cuando lo devo fare».39 Non meno difficile gli risultava parlare in spagnolo: “De su dialecto piamontés había hecho él una lengua especial y muy crespa que costaba trabajo entenderle; pero así y todo su conversación era agradable, porque él hablaba siempre con animación y franqueza”. [Dal suo dialetto piemontese – si legga italiano – aveva ricavato una lingua speciale, aspra, di non facile comprensione; ma ciò non impediva che la sua conversazione fosse gradevole, perché parlava sempre con vivacità e franchezza].40 Era un uomo parco, perfino stoico: “Su régimen de vida era tan sobrio como frugal y en sus viajes casi se conformaba con tomar café negro sin dulce y agua de panela”.41 Aveva una bella famiglia. Isaac Holton, che la frequentò nel 1853, annota:

37 Celestino Martínez, pittore, fotografo e litografo venezuelano. Nel 1847 si trasferí a Bogotá, dove aprì una stamperia (‘Martínez Hermanos’). È possibile che il dagherrotipo, v. fig. 251, sia opera sua. 38 La storia dei ritratti di Codazzi racchiude momenti misteriosi: attribuzioni incerte, datazioni difficili, ritocchi, repliche, ecc. Il ritratto conservato presso la Biblioteca “A. Saffi” di Forlì, Fondo Piancastelli, costituisce un enigma (v. fig. 223). A detta di Longhena si tratterebbe della copia fotografica di un dipinto ad olio un tempo di proprietà della biblioteca Trisi di Lugo, poi scomparso. Codazzi vi appare in divisa venezuelana, esattamente come nella litografia di Carmelo Fernández, con la differenza che ha sulle spalline un ‘sole’ da generale: un dettaglio del tut-

to inesplicabile, che induce a pensare ad un rimaneggiamento dell’immagine. Potrebbe trattarsi di un dagherrotipo eseguito a Parigi nel 1842 oppure, più probabilmente, di una copia fotografica ritoccata del medesimo. Ma non si può scartare che abbia ragione Longhena. 38 Lettera di Giannetta Codazzi all’arciprete di Bagnara, settembre 1849, Biblioteca Comunale Trisi, Lugo. 39 Lettera di Agostino Codazzi a Costante Ferrari, Parigi 22 agosto 1840, Biblioteca Trisi, Lugo. 40 J.M. Samper, Historia de un alma, op.cit. 41 Ibid. 42 I.F. Holton, Twenty months in the Andes, New York, 1857. Cfr. G. Antei, Los Héroes Errantes, p. 336.

On no family in Bogotá did I call with more pleasure than that of colonel Codazzi, who lives three streets above the Cathedral. The colonel is Italian, and his lady a Venezolana, but the younger of their numerous and intelligent children are Bogotanos. In their parlors I saw them sewing, and at their table there was so little of pretense, that when I have happened in after my own dinner and before the close of theirs, I have never been able to resist their invitations to sit down with them. [Non vi era famiglia a Bogotá che visitassi più volentieri di quella del colonnello Codazzi, che abita tre strade a nord della cattedrale. Il colonnello è italiano, la sua signora venezuelana, ma i più giovani dei suoi numerosi e intelligenti figli sono bogotani. Durante le visite lavoravano a cucito, e a tavola erano così schietti e amichevoli che quando andavo a trovarli nel dopo cena ma prima che avessero terminato il loro pasto, non rifiutavo mai l’invito a sedermi con loro].42

Fra le meraviglie bogotane descritte da Giannetta Codazzi vi era un bellissimo camposanto che pareva un giardino, «ma io – confessò la donna all’arciprete – non tengo volontà d’andarlo ad abitarlo [sic]». Non vi andò neppure il fratello. Morì per strada come si addice a un viaggiatore, e la sua salma – seppellita, disseppellita, caricata a dorso di mulo, trasportata a Bogotá, smarrita, ritrovata, spostata a Valencia e infine a Caracas – continuò a itinerare a lungo ai bordi del purgatorio.


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ritratto parlato

253. C. MartĂ­nez, Ritratto di Agostino Codazzi.



profilo biografico

1793. Giovanni Battista Agostino Codazzi nacque a Lugo, Legazione di Ferrara, negli Stati Pontifici, il 12 luglio 1793. Vide la luce in un momento in cui, a causa degli strascichi della Rivoluzione francese, per la sua famiglia, Lugo e la Romagna, si profilava un’epoca alquanto agitata. Se fosse venuto al mondo solo pochi anni prima, osserva Manuel Ancízar, «con tutta probabilità avrebbe ricevuto un’educazione monacale e sarebbe diventato prelato di uno dei tanti ordini religiosi che affliggevano l’Italia». Invece nacque in un periodo in cui le papaline venivano soppiantate ovunque dai berretti frigi... ovunque meno che nelle Legazioni ed in particolare nella Romandiola. Con i suoi ottomila abitanti ed un’economia agricola e manifatturiera fiorente, Lugo, che non per niente apparteneva felicemente allo Stato della Chiesa dal 1598, costituiva un bastione papista. Non si trattava di un caso isolato. Incastonati nella pianura romagnola, esistevano altri piccoli centri produttivi e commerciali simili a Lugo, del pari laboriosi, prosperi e sanfedisti, più dediti al culto del santo patrono che al fermento delle idee ed alle trasformazioni avviate dal «soffio burrascoso e purificatore della Rivoluzione». Lugo, tuttavia, svettava sugli altri agglomerati della Bassa in virtù del secolare mercato del mercoledì e della fiera annuale, nonché per l’intensa vita religiosa e culturale. Fra quei lughesi che si chiusero a difesa dello stato pontificio, va enumerato indubbiamente Domenico Codazzi, il padre di Agostino. Sia le Memorie del cartografo, dove i suoi genitori sono detti «onesti e virtuosi», sia altre testimonianze lasciano intendere come Domenico fosse «un uomo... di costumi assai devoti», avvezzo ad improntare ogni sua azione all’insegnamento del Vangelo. Manuel Ancízar, che entrò in confidenza con il cartografo, seppe da questi che suo padre, oltre ad essere una persona

semplice e proba, ricavava il massimo appagamento dal fatto di appartenere ad una delle confraternite religiose di Lugo. 1796. Nell’aprile del 1796, quando Napoleone Bonaparte intraprese la Campagna d’Italia, Agostino Codazzi non aveva ancora compiuto tre anni, un’età troppo tenera perché potesse rimanere impressionato dalle gesta del francese. Nonostante la sua inconsapevolezza, la ragione per la quale non ricevette un’educazione religiosa emana proprio dal successo di detta Campagna. In effetti, come osserva Ancizar, le vittorie napoleoniche «fecero crollare ovunque gli antichi seminari, e sorgere al loro posto scuole militari». Nello stesso senso, ancor più decisivo fu il sacco di Lugo, un feroce oltraggio mediante il quale, sempre nel 1796, le truppe napoleoniche intesero punire la sollevazione antifrancese della città. Al pari di molti altri lughesi, anche Domenico Codazzi risultò gravemente danneggiato da questo avvenimento. La furia delle schiere di Augereau non risparmiò la casa di via Brozzi («che era molto grande ed era riccamente ammobiliata»), già appartenuta al padre di Domenico, «un uomo ricco... che commerciava in seta». Gli effetti del sacco non si limitarono alla «tremenda razzia» e all’incendio della casa, ma causarono anche la rovina dell’azienda di famiglia. Nel 1796, per Agostino Codazzi sfumó di colpo la possibiltà di diventare vuoi un prelato vuoi un avvocato, e questo perché, se da un lato le misure anti-ecclesiastiche imposte da Napoleone fecero sì che i seminari si convertissero in scuole militari, dall’altro il tracollo economico di Domenico, collegato in qualche modo a quelle stesse misure, impedì ad Agostino di frequentare l’università. Eppure l’arrivo dei francesi ebbe per lui e per la sua generazione conseguenze sostanzialmente positive.


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Con l’Armée, infatti, giunsero in Italia idee e stimoli che provocarono nei giovani il distacco dal sistema di valori tradizionali. In Romagna, così come nel resto della Repubblica Cisalpina e poi del Regno d’Italia, la mentalità confessionale e reazionaria di buona parte della popolazione fu soppiantata gradualmente, e non senza resistenze, da un atteggiamento più aperto e, per così dire, ‘illuminato’. 1799-1810. Fra il 1799 e il 1810, Agostino Codazzi occupò uno degli spazi in cui detto rinnovamento venne maturando e dibattendosi, cioè, la scuola pubblica. In quell’arco di tempo, in ambito educativo, le attese create dall’ideologia giacobina e liberale dovettero misurarsi con la realtà della politica sociale francese, spesso incapace o restia a mettere in pratica il programma rivoluzionario. Fin dall’inizio del Settecento, Lugo disponeva di un cospicuo apparato pedagogico, costituito da scuole pubbliche e religiose. Fra le prime, capeggiava il Collegio Trisi, dove, nel corso di alcuni decenni, alle cattedre di Grammatica e Retorica si era andato affiancando l’insegnamento del Diritto civile e canonico e, da ultimo, un corso di Filosofia. Agostino dovette accedervi verso il 1800, nel momento in cui a Lugo, con il ritorno dei francesi, venivano riattivate le misure anticlericali. Sempre nel 1800 si riprese a lavorare alla riforma dell’istruzione pubblica, un processo che a fasi alterne si protrasse fino al 1805. Il nuovo ordinamento, che con tutta probabilità regolò parte dell’iter scolastico del nostro, comprendeva due cicli di studi elementari, entrambi di due anni, seguiti da quattro anni d’insegnamento secondario. Poi, per chi volesse iscriversi all’università, era previsto un biennio di studi superiori in licei, scuole speciali o accademie. Nel corso dei primi due anni di elementari, lo scolaro, oltre a studiare il catechismo, imparava a leggere, scrivere e far di conto. Le materie del ciclo seguente comprendevano fonetica, ortografia e calligrafia, calcolo, dottrina ed educazione civica. Il latino e il francese rientravano invece nei programmi delle ginnasiali. Gli studi di Agostino Codazzi seguirono con ogni probabilità lo schema testè descritto. Quindi, supponendo che avesse iniziato le elementari a sette anni, ovvero nel 1800, avrebbe dovuto finire le ginnasiali nel 1809. In ogni caso, la sua carriera scolastica terminò lì, e ciò perché le ristrettezze famigliari gli impedirono di andare oltre. A prescindere dal livello raggiunto, i risultati scolastici furono senz’altro buoni: un avviso giudiziario da lui redatto e firmato in data 5 marzo 1810 sta a dimostrare che, a diciassette anni non compiuti, svolgeva mansioni di segretario del tribunale di pace di Lugo. Come si legge nelle Memorie, Codazzi seppe mettere a frutto gli anni trascorsi sui banchi di scuola: «Potei avere quella educazione che conviensi ad un giovane da cui il padre sperava un forte sostegno e lo destinava alla carriera legale». Forse ciò che lo spinse ad arruolarsi fu proprio la convinzione che con la paga da soldato avrebbe

l’orizzonte in fuga

fornito al genitore un «forte sostegno»: persuasione non così ingenua, se si considera che le Memorie furono redatte per refutare coloro che affermavano «che non si possa per mezzo delle armi procurarsi una qualunque tenue fortuna». Oppure, ciò che lo spronò fu l’innato spirito d’avventura: ...ma non terminati gli studi di filosofia vieppiù si sviluppò in me quella inclinazione irresistibile che mi strascinava fin dalla più tenera età a viaggiare e battere la carriera delle armi, in cui sembravami di poter solcare i più lontani mari, vedere le più remote regioni, e le molteplici e grandi opere della natura da un’estremità all’altra di questa terra. Non giovarono a distrarmi da tal pensiero le circostanze domestiche, i consigli paterni, l’inseparabile dolore di abbandonare una famiglia a me cara, nè i pericoli della guerra che ardeva in tutta Europa.

1810-1813. Appena compiuti i diciassette anni, Codazzi fece domanda di arruolamento nell’artiglieria a cavallo del Regno Italico. Quantunque il regolamento dell’esercito prevedesse per i volontari un’età minima di diciotto anni, il nostro, probabilmente su raccomandazione del capo dell’ufficio reclutamento del distretto militare di Bologna, Pier Damiano Armandi, non solo fu arruolato, ma fu anche ammesso alla scuola Teoretico-Pratica di Artiglieria di Pavia. A Pavia, Codazzi trascorse poco meno di tre anni, un periodo formativo di cruciale importanza per la sua successiva attività di geografo e cartografo. In sintesi, grazie alla citata scuola, Codazzi giunse a dominare quegli elementi (calcolo, disegno, sistemi di misurazione e rilevamento di superfici, ecc. ecc.) che poi gli furono indispensabili in Sud America per portare a termine la sua grande opera scientifica. «In quest’ottica – osserva Fabio Zucca – noi comprendiamo come non sortirono dal nulla quelle capacità cartografiche che gli furono universalmente riconosciute, ma furono frutto di studi attenti, anche se non al piu alto livello di specializzazione teorica, che il Codazzi potè compiere grazie all’organizzazione militare napoleonica». 1813. Nel corso della Campagna di Germania del 1813, Bonaparte si valse ancora una volta dell’aiuto dell’esercito italiano. In questo caso il contributo dell’Italia, che alla Campagna di Russia aveva apportato un contingente di più di 27 mila effettivi, un gran numero di cavalli e una notevole quantità di approvvigionamenti, fu di 28.444 uomini, 8.908 cavalli e 46 pezzi di artiglieria, forze distribuite in una divisione al comando del generale Peyri e in una brigata agli ordini del colonnello Zucchi. Della divisione Peyri, costituita fra febbraio e marzo del 1813, faceva parte la 4ª Compagnia del Reggimento di Artiglieria a Cavallo comandata dal maggiore Armandi, reparto al quale apparteneva l’allora maresciallo Agostino Codazzi. Il 2 maggio, a Lutzen (località a 19 chilometri da Lipsia) si scatenò la prima battaglia della campagna. Fulcro dei combattimenti fu il villaggio di Kaja, sul quale si concentrò l’attacco alleato. Riconquistato dal III corpo d’armata del maresciallo Ney, perduto nuovamente e ripreso per la terza volta grazie all’in-


profilo biografico

254. L’Italia dopo il Congresso di Vienna, prima metà XIX sec.

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tervento dello stesso Buonaparte, nel far della notte, Kaja e i paesi contigui caddero definitivamente in mano francese; allo stesso tempo, tornavano sotto controllo napoleonico le città di Dresda e Lipsia. Per l’artigliere Codazzi, fresco di studi trigonometrici e balistici, si trattò con tutta probabilità del battesimo del fuoco. L’8 maggio Napoleone entrò a Dresda, dove stabilì il suo principale deposito avanzato. Nei giorni successivi, avendo ricevuto rinforzi dalla Francia, riorganizzò i suoi due eserciti, lasciandone uno al comando del maresciallo Ney e tenendo l’altro per sé. Il piano dell’Imperatore consisteva nel lanciarsi simultaneamente su Berlino e Bautzen, situate entrambe sulla Spree. L’offensiva contro Bautzen fu fissata per il 20 maggio, però il giorno 19 un corpo d’armata nemico agli ordini di Barclay si scontrò per caso con la divisione Peyri, spiegata sull’estremità sinistra delle linee francesi, a Königswarta. L’urto, violentissimo e impari, scompigliò le truppe italiane, le quali poterono evitare a malapena una disfatta. A questo combattimento prese parte sicuramente il nostro maresciallo, poichè è comprovato che il maggior Armandi e la sua batteria riuscirono a bloccare l’avanzata di preponderanti forze nemiche. Nei giorni seguenti, la divisione italiana, allora comandata dal generale Santandrea, prese parte alla battaglia di Bautzen. La 4ª Compagnia svolse anche in questo caso un ruolo di rilievo, tant’è vero che il suo comandante, il citato maggiore Armandi, si guadagnò sul campo i galloni di colonnello. Seppure tecnicamente vittoriose, tanto la battaglia di Lutzen come quella di Bautzen non presentarono un saldo molto positivo. Invero, ventimila fra morti e feriti (da parte francese) non bastarono né a scongiurare la minaccia militare alleata né a far desistere l’Austria dal proposito di unirsi alla Coalizione. Per cui, dopo la seconda vittoria di Pirro, Napoleone si decise a siglare un armistizio. Le ostilità ripresero il 16 agosto, ora con la partecipazione in campo nemico dell’Austria e della Svezia. Nel frattempo, la divisione Fontanelli (ex-Peyri), sempre aggregata al IV corpo d’armata di Bertrand, era andata ad ingrossare l’Esercito del Nord, al comando del maresciallo Audinot. Fra il 19 e il 23 agosto, costui tentò di portare a termine una manovra su Berlino, ma il suo tentativo, a causa del deciso intervento dei prussiani di Bulow, terminò malamente. Allora le truppe di Audinot ripiegarono su Wittenberg, protette, nel corso della ritirata, dal contingente italiano. All’inizio di settembre, la divisione Fontanelli prese parte ad un’altra operazione contro Berlino, che si concluse con l’infausta rotta di Ney a Dennewitz, sempre ad opera delle truppe di Bulow; successivamente partecipò ad una serie di scontri vittoriosi con truppe svedesi e il giorno 28 settembre raggiunse il campo fortificato di Torgau, dove le soldatesche italiane sfilarono al cospetto di Napoleone. Il fatto che Codazzi partecipasse alle operazioni dell’Esercito del Nord, permette di escludere, a dispetto di ciò che

l’orizzonte in fuga

affermano Magnani, Ancizar y Perazzo, che potesse trovarsi a Dresda e Kulm. Comunque sia, è probabile che per il nostro eroe l’emozione suscitata dalla vista dell’Imperatore a Torgau fosse ben più intensa di quella provocata dalla promozione a maresciallo d’alloggio in capo. Sebbene l’aureola di Napoleone conservasse il suo splendore (per lo meno agli occhi dei soldati più giovani), le sue fortune militari, nell’autunno del 1813, erano giunte agli sgoccioli. Prova ne fu la battaglia di Lipsia. I combattimenti iniziarono il 15 ottobre con un violento scontro fra reparti di cavalleria e s’intensificarono all’indomani, quando cominciò a profilarsi l’inferiorità dell’Armée. Il giorno 17, anzichè ordinare la ritirata, l’Imperatore si trattenne a Lipsia, in attesa degli ulteriori sviluppi della battaglia. La mattina del 18, ormai consapevole dell’urgenza del ripiegamento, spedì le truppe di Bertrand ad assicurare i ponti sul Saale, ma la manovra di disimpegno venne impedita dall’assalto nemico, che si prolungò fino all’alba del 19, quando le terribili dimensioni della disfatta francese si fecero patenti (a Lipsia l’Armée lasciò, oltre a settantamila fra morti, feriti e prigionieri, 325 cannoni, 900 carri di munizioni e 40 mila fucili). In quattro giorni l’artiglieria napoleonica sparò più di 200 mila cannonate, delle quali parecchie furono esplose dalle batterie italiane. In effetti, tutte le unità del Regno Italico presenti in Germania si erano concentrate a Lipsia fin dal 15 ottobre; il giorno 16 l’artiglieria italiana prese posizione alla destra dell’Elster, in un settore particolarmente esposto: di conseguenza, Codazzi assistette alla Battaglia delle Nazioni da uno dei punti nevralgici. Il 30 ottobre i quarantamila superstiti dell’Armée, ivi compresi i resti del contingente italiano, sostennero l’ultima battaglia della campagna. Quel giorno le truppe alleate, nel tentativo di tagliare ogni via di fuga alle ultime forze di Napoleone, attaccarono i francesi nei pressi di Hanau, ben sapendo che da lì passava il cammino per Magonza, il Reno e la Francia. Ma il preponderante esercito austro-bavarese nulla poté contro l’artiglieria di Drouot e l’impeto disperato dei soldati di Marmont e Bertrand. Ad Hanau si concluse la partecipazione italiana alla Campagna di Germania. Non appena i resti dell’Ar mée furono al sicuro al di là del Reno, Fontanelli ed i suoi, ivi compreso Codazzi, fecero ritorno in Italia. Degli oltre 28 mila effettivi e 9 mila cavalli che avevano varcato le Alpi in aprile, riuscirono a salvarsi tre mila uomini e 500 animali. 1814. Il ventennio iniziale della vita di Codazzi è compreso fra due episodi dell’epopea napoleonica. Nato nel momento meno opportuno per diventare un prelato a causa dell’arrivo di Buonaparte in Romagna, non potè nemmeno progredire nel campo dell’onore a causa della disfatta dell’Imperatore: mentre la Campagna d’Italia del 1796 lo aveva avvicinato, anche se per vie tortuose, alla carriera delle armi, la sfortunata conclusione della Campagna di Germania, con i relativi contraccolpi, lo allontanò da


profilo biografico

essa, costringendolo di lì a poco a convertirsi in un giramondo. Parigi cadde il 30 marzo 1814, Napoleone abdicò l’11 aprile e otto giorni dopo partì per l’isola d’Elba. Il viceré d’Italia, Eugenio di Beauharnais, che all’inizio di aprile si era postulato come sovrano di un regno italiano indipendente, il 22 aprile stipulò con gli alleati un accordo in base al quale il Regno Italico in toto passava sotto il dominio austriaco. [L’indignazione e l’amarezza che invasero le truppe italiane al cospetto della vacillante e subdola condotta del figlio di Giuseppina vengono esaminate nel capitolo “Bell’italo regno”]. Quando gli effettivi del reggimento di artiglieria a cavallo, fra i quali figurava Codazzi, rientrarono nel deposito di Pavia, l’Italia – l’Italia napoleonica – non esisteva più. Al suo posto si ergeva nuovamente l’impero austriaco (della cui precedente dominazione, terminata nel 1796, non potevano ricordarsi i giovani della classe 1793), che non tardò a restaurare l’antico apparato amministrativo e di governo, improntandolo al medesimo autoritarismo d’un tempo. Il nuovo comando militare decretò l’immediata dissoluzione dell’esercito italiano, incorporandone una parte. Ma i soldati e gli ufficiali che preferirono essere esonerati dal servizio piuttosto che giurare fedeltà all’aquila bicefala furono la maggior parte. 1814-1815. Nell’estate del 1814 Codazzi si arruolò «nelle truppe italo-brittaniche sotto i comandi di Lord Bentinck al 3º Regg. della leva ital. come cadetto». Lord William Bentinck fu ministro plenipotenziario della corona britannica presso la corte borbonica fra il 1811 e il 1814. Durante la permanenza in Sicilia, si adoprò attivamente, per certo contro la volontà dei regnanti, affinchè nell’isola venisse adottata una costituzione sul modello inglese. Non soddisfatto, all’inizio del 1814 sbarcò a Livorno a capo d’una legione anglo-siciliana allo scopo di liberare il nord della penisola dalla dominazione francese. Il proclama che subito indirizzò ai combattenti dell’esercito del Regno Italico per convincerli ad unirsi all’Italian Levy rinfocolò le aspirazioni patriottiche di molti. Infatti, nell’editto si parlava di liberare l’Italia dal giogo straniero, onde farne una nazione unita e indipendente. Non appena sbarcato, Bentinck avanzò verso le Alpi Apuane, s’impadronì di La Spezia e proseguì verso Genova, che cadde in suo potere il 18 aprile. Fu attorno a questa data che Codazzi, che non doveva essere rimasto indifferente all’appello di Livorno, decise di arruolarsi nelle truppe ‘di liberazione’ di Lord Bentinck. [In proposito si veda il capitolo “Fumo di repubblica”]. 1815. Dopo lo scioglimento dell’Italian Levy, Codazzi si recò a Roma, dove tentò inutilmente di arruolarsi nell’esercito pontificio. Deluso dall’impossibilità di proseguire nella carriera delle armi, si rassegnò... ma non a tornare all’ovile. Decise invece di andare in cerca di fortuna, ovunque si trovasse:

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Partii per Livorno per passare nelle Indie o in America, ma ivi giunto fui consigliato ad impiegare il mio denaro in generi da vendere in Costantinopoli, e passare poscia col ricavato in Odessa a caricare grani e portarli a Livorno ove la carestia facevasi oltre modo sentire. Da qui nascono le cagioni dei miei ultimi viaggi...

1816-1817. Fra l’inverno del 1815 e la primavera del 1817,il nostro eroe portò a termine un lungo e travagliato periplo che da Livorno, attraverso la Grecia, la Turchia, i Balcani ed il mar Baltico lo condusse ad Amsterdam. Da qui spedì una lettera al padre Domenico raccontandogli le proprie avventure: Amato padre, prima di abbandonare totalmente l’Europa mi vedo in dovere di aggiornarvi del luogo del mio stabilimento per molti anni. Siccome ignoro se l’amico Ricci sia ritornato dalla Turchia in Italia, e vi abbia personalmente, o per mezzo della posta, recapitato le mie lettere, così credo bene di farvi con questa un riepilogo dei miei viaggi, dall’epoca che partii da Livorno fino al dì d’oggi. Dalla lettera scrittavi in febbraio 1815 avrete inteso il mio piano per passare nelle Indie Orientali, ma stimolato da vari amici cambiai d’opinione, e dallo stato militare passai a quello di commerciante. Comprai diversi generi col piccol capital che tenevo, e con questi e con Ricci mi affidai al mare, drizzando il nostro corpo alla volta della Turchia, onde colà piazzarli, e col ricavato passare nel Mar Nero di Odessa al fine di caricare del grano, e trasportarlo in Italia. Lasciato già avevamo alle nostre spalle il faro di Messina, quando una fiera procella si gettò nel mar Ionio, e disgraziatamente nella notte del 19 marzo investissimo col bastimento contro ad uno scoglio vicino alla Cefalonia, ed in un momento perdei i sudori di qualche anno, e sol salvai per fortuna le mie carte, e col compagno la vita. L’isola d’Itaca, antica patria del grande Ulisse, fu il mio tristo soggiorno per quasi un mese, durante il quale più volte dovetti nutrirmi con erbe selvaggie. Finalmente mi riuscì di partire da quello per me luogo funesto sopra di un bastimento che se ne giva a Costantìnopoli, coll’intenzione di non più commerciare, ma di seguire l’interrotta mia carriera militare nelle soldatesche turche. Dopo traversato l’arcipelago, passati i Dardanelli dividenti l’Asia dall’Europa, e scorso il piccol mar Marmara mi trovai in quella gran metropoli, che per me era un vasto laberinto ove mi fu persa totalmente la speranza d’alcun impiego militare, o civile, e quel che era il peggio di non aver abiti per cambiarmi, e né soldi per prendere una camera per cui per tre giorni si mangiò col compagno sol pane, ed in un campo de’ morti sopra alle tombe si dormì. Pure non mi avvilii, e colla mia fermezza, e prontezza di spirito seppi bene a tutto rimediare ed in poco tempo mi procurai un decente impiego che mi profittava tanto da poter vivere col compagno onoratamente, e con decoro senza si può dir far nulla. Ma la terribil peste che in quei paesi continuamente flagella mi prese il mio Principale, e ricominciai a ricadere. Allora feci ogni sforzo possibile per passare in Persia, nella China, in Egitto o al Gran Cajiro, e fin avevo proposto di stabilire dalle parti della Natolia con vari amici di formarvi una colonia: e per riuscire in qualcheduno di questi progetti non risparmiai certamente passi, e reiterate volte mi viddero bene gli Ambasciatori di quelle nazioni, i Bajà e fin il Gran Visir. Vedendo di non poter riuscire in alcun piano cercai di abbandonare la Turchia. L’amico Ricci dopo tre mesi e più che eravamo in Costantinopoli si mise in una casa di un signore per governargli i cavalli ma per colmo di sua sventura gli sopragiunse il mal degl’ occhi. Nell’istesso tempo una grande, e seria questione con Grechi accadutami, mi forzò di partire per mia sicurezza a vista, per cui Ricci incomodato non potè seguirmi. Gli lasciai una lettera acciò ritornando in Italia ve la


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recasse, oppure se era intenzionato di là stabilirsi di mettervela per la posta. Andiedi a bordo (in compagnia di un certo Ferrari di Reggio già capitano nelle truppe Italiane, e che era anch’esso nella disputa) d’una saccolea turca colla quale fossimo in procinto di perdersi nel mar Nero, e non saper qual fortuna sbarcassimo sani e salvi a Varna città e porto di mare in Bulgaria, dove soggiornassimo cinque giorni, e poscia traversassimo questa, e tutta la Moldavia pervenendo a Jassi di lei capitale. Volevamo passare le frontiere della Russia, ma era d’uopo attendere un Passaporto da Petersburgo per cui risolvessimo di andare per quelle dell’Austria. Si giunse nella Bucovina, e là fecesi dieci giorni di quarantena. Si venne a Cernoviz ove si passò qualche giorno, indi entrassimo in Galizia, e tenendo la via di Stanislavo pervenimmo a Lamberg. Si restò cinque giorni fermi ed avendo inteso la notizia che l’Imperatore Alessandro veniva alla capitale della Polonia per organizzare le truppe di quella nazione, ci parve utilità di là recarci onde aver servizio in quelle milizie, o nelle Russe, lasciandoci scappar di mano qualche impiego che potevamo avere presso da negozianti. Si entrò in Polonia, e prendendo la direzione di Zamosco, e Lublin si arrivò un giorno avanti dell’Imperatore a Varsavia. Avessimo l’onore di essere ammessi all’udienza del Gran Duca Costantino che dopo avergli seco lui parlato per un quarto d’ora ci disse di fare una supplica ad Alessandro che egli stesso l’avrebbe presentata. Si fece, e la risposta fu che nell’armata Polacca eravi dell’Ufficialità di più del necessario, e che nella Russia presentemente non ne abbisognava. Restassimo otto giorni in questa bella città, e ci sembrò più conveniente per tutti i rapporti di trovarsi in un porto di mare, e di allontanarsi dai deserti della Russia in cui il freddo si fa assai ben sentire. Prima di partire scrissi una lettera a Ricci dirigendola a Costantinopoli, acciò ve la facesse in unione all’altra in qualche modo pervenire, ed ecco la cagione per cui vi ho posto in succinto tutti i viaggi, temendo non le abbiate ricevute. Volevo rimanere in una Baronia con un buon onorario dando in francese lezioni di scherma, e cavallerizza ma io amante troppo di trovarmi fra il rumor delle armi, piuttosto che in un pacifico dobbato Palazzo, non accettai l’impiego, e col compagno partii sopra d’una barca lungo il fiume Vistola in quindici giorni ci condusse a Danzica in Prussia fortezza rispettabile e porto di mare, ove pure rifiutai di stare per ajo in una ricca Casa (giacché s’era inteso sui giornali che l’Olanda mandava una spedizione nelle Colonie delle Indie) e quindi cercassimo di recarsi colà onde partire se era possibile colla medesima, e difatti trovassimo un bastimento. Si aspettò più di venti giorni avanti di partire, e si ponessimo alla vela nel colmo del rìgido verno. Passassimo felicemente il mare Baltico, ma nello stretto che separa la Svezia dalla Danimarca, dovessimo approdare per i contrari venti a Copenhagen capitale di quest’ultima e ad Elsìnore. Giunti nel pericoloso mare Stuttegat (ripieno di banchi di sabbia) fossimo per ben otto volte in procinto di naufragare od arenarsi, e di 20 bastimenti che navigavano assieme tre soli se ne salvarono. Si dovette per le incessanti burasche prender porto a Gatenburg in Svezia, e a Cristiansant in Norvegia nel cui porto entrassimo con un albero rotto, due antenne scavezzate, e molte vele, e cordazzi rovinati. Si navigò pure con egual pericolo nel mar Germanico, e basta dire che impiegassimo 105 giorni in questo viaggio che è costume di farsi in 15 giorni tutt’al più. Ponessimo piede in Olanda all’isola Terel di là venissimo ad Heldcr, indi ad Alkmaar, e il 25 marzo di quest’anno entrassimo ad Amsterdam che l’ho trovata la più bella città dopo che viaggio il mondo. Dieci giorni prima del nostro arrivo la spedizione delle Indie era già partita; ciò nondimeno andassimo dal Prìncipe Governatore che ci fece vedere l’impossibilità di passare al servìzio olandese per esserci moti ufficiali nazionali a mezza paga i quali sarebbero impiegati in prevenzione dei stranieri. Avevamo pensato di passare in Spagna, o Portogallo, ma siamo stati consigliati a desistere

l’orizzonte in fuga

dalla nostra opinione. Ora in qual parte devo volgere i miei passi se dopo un anno, e più di continuo viaggio non ho trovato impiego presso tutte le Nazioni Europee, ed una porzione delle Asiatiche, ed Africane? La sol’America mi si è presentata a mici occhi, e là vado. Sono già colà passati più di diecimila uffiziali Francesi, alla di cui testa evvi Giuseppe Bonapartc, i quali stanno fabbricando una nuova città chiamata Persinpopolis. Qua vi sono 6 bastimenti americani venuti espresumente per prendere famiglie, e già più di quattromila tra Svizzeri, e Tedeschi d’ogni sesso, età, e condizione a giorni partono pagando per nolo, e cibario 340 franchi per cadauno, e quelli che non hanno mezzi vengono presi gratis, ma arrivando poi alla destinazione son venduti per tre anni durante il qual tempo devono travagliare per i loro padroni, e terminati che sia sono liberi e possono utilizzarsi per loro stessi. Noi ci siamo sì bene saputi maneggiare, e per mezzo di buone raccomandazioni, che paghiamo soli 400 franchi fra tutti e due, mangiando col Capitano. Più a buon patto non lo potevamo avere, e pensiamo di cambiare in questo Nuovo Mondo la nostra sorte, giacche qui è pubblico, che ogni ufficiale è accettato non solo con un buon soldo, ma ancora il Governo gli passa una certa quantità di terreno con tanti schiavi neri quanti sono bastanti per coltivarlo, ed il prodotto è dì vantaggio dell’ufficiale, a cui restagli il peso del mantenimento dei nuovi travagliatori, e di prender le armi ad ogni cenno per la difesa dello Stato. Io non vedo il momento di partire essendo munito di buone commendatizie, e spero di riuscire nelle mie brame, e quante volte ancora fossero favole ciò che da tutti qui dicesi, mi resta per ultimo la risorsa di andare sotto Cristoforo Capo dei Negri di Santo Domingo, o veramente unirmi alle bande dei ribelli Americani Spagnoli, e così mi sarà facile il vedere la Castiglia d’Oro, il Brusii, il Perú ed i1 Paraguai. Credo che dopo letta questa lettera crederete tutto ciò che è scritto una favola combinata, giacche riflettendo che se un anno addietro perderei tutto, come mai possibile abbi potuto fare lunghi viaggi, trattenermi nelle più Gran Capitali, e poi ora riuscire nel viaggio d’America. Ciò è nulla, in paragone, che questi viaggi gli ho fatti da Costantinopoli fin qui sempre in vettura, o per mare; che giornalmente ho sempre mangiato bene; che il vestiario è stato di continuo decente; che la malinconia non s’è mai impadronita del mio cuore; e che quando sbarcherò in America avrò ancora qualche soldo in saccoccia: questo certamente è qualche cosa, e molto mi ci vorrebbe per dettagliarvi il tutto, e soltanto mi contenterò di dirvi: che non ho in alcun punto disonorato la famiglia, né mi sono reso indegno della Patria, né mi sono avvilito, né ho degradato il mio rango. Tengo un giornale in cui scrìvo tutto ciò che mi accade, e tante strane vicende mi sono avvenute che sono già al terzo tomo. Se un giorno (come spero) avrò la sorte di restituirmi alla Patria lo leggerete al domestico focolare, e conoscerete allora la verità dei miei detti. Parto col compagno per Baltimore porto non lungi da Filadelfia nei Stati Uniti d’America, ed ai 30 del presente mese si fa vela. Addio Europa. Italia addio. Patria mia ti saluto, concittadini, ed amici vi lascio, donne mie belle vi abbandono, parenti, e congiunti vi do un amplesso, e voi mio caro Padre, madre, fratello, e sorella vi abbraccio, e baciandovi e ribaciandovi vi auguro salute, tranquillità, e sorte, e col desiderio di poter un giorno stringervi tutti al mio seno, e divider con voi il frutto dei miei travagli vi saluto. Addio, addio, e parto glorioso e trionfante per non mai più morire.

1817-1818. Giunti a Baltimora, Codazzi e Ferrari si aggregarono a una nutrita schiera di ex-ufficiali napoleonici in cerca d’ingaggio. [Su quel che seguì si vedano i capitoli “Sapore di repubblica” e “América Libre”]. La prospettiva di lottare per «i sacri diritti dell’indipendenza» e, nel contempo, la possibilità


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255. A. Codazzi, Mappa dell’isola della Vieja Provvidencia e Santa Catalina, 1825.

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di «passare dal disagio, dall’incertezza a uno stabile e comodo stato di vita», spinsero Codazzi e Ferrari ad arruolarsi nell’esercito del Venezuela. Indossata la divisa bolivariana, s’imbarcarono su un brigantino che, contrariamente ai piani annunciati dal contrammiraglio Villaret (che li aveva ingaggiati), fece vela per l’isola Amelia, nella Florida settentrionale. Colà entrarono al servizio di un corsaro francese, Louis Aury, un fervido sognatore di repubbliche. Sloggiato dalla Florida (marzo 1818), Aury e i suoi uomini, ivi compresi Codazzi e Ferrari, si dedicarono alla guerra corsara nel mar dei Caraibi [si veda il capitolo “Il ratto di Amelia”]. Scomparse le vestigia della repubblica del Messico, il commodoro passò sotto la bandiera delle Provincias Confederadas de Buenos Ayres y Chile (altrimenti dette Estados Unidos de Buenos Ayres y Chile). Il passaggio si produsse grazie all’intervento del canonico Cortés de Madariaga, un controverso patriota cileno, che nominò Aury, non si sa bene con quale autorità, «capo delle forze navali della Repubblica di Buenos Aires nel mar dei Caraibi». In cerca d’un approdo per la flotta e di una base operativa per un possibile attacco contro Portobello, Aury pervenne all’isola di Santa Catalina e Vieja Providencia (luglio 1818), che occupò e fortificò. A quest’isola – resa mitica dal pirata Henry Morgan – Codazzi dedicò una descrizione particolareggiata, accompagnata da una mappa topografica di eccellente fattura (v. f. 235), forse basata, come generalmente succede con le sue prime prove cartografiche, su mappe originali appartenenti all’archivio bogotano del viceré Sámano. 1819-1820. Avendo dovuto rinunciare alla spedizione contro Portobello, Aury si diresse più a nord, verso il golfo dell’Honduras (maggio 1819). Giunto sotto costa, con un audace colpo di mano catturò il porto di San Felipe, sul lago di Izabal, impossessandosi di un ricco bottino. In questa occasione, Codazzi, assieme all’inseparabile Ferrari, giocò un ruolo di prim’ordine, guadagnandosi una promozione ed un premio. Meno fortunata fu l’azione che Aury, fra l’aprile e il maggio del 1820, intraprese contro le piazzaforti di Trujillo e Omoa, sempre nel golfo dell’Honduras. Ad onta degli sforzi, i patrioti non riuscirono ad espugnarle, anzi, subirono non lievi perdite. Tuttavia, mentre perdurava l’assedio di Omoa, ad Aury pervenne la notizia che la sua squadra sarebbe stata incorporata alla flotta della Nuova Granada: novità che veniva a colmare il più ardente dei suoi desideri. Dacchè il commodoro s’era opposto – per spirito rivoluzionario – al comando unificato di Bolívar (Haiti, febbraio 1816), quest’ultimo covava nei suoi confronti un incontenibile rancore, per cui, contro ogni logica bellica, gli aveva impedito di far parte della flotta neogranadina. Pareva dunque che Aury fosse stato perdonato. Racconta il futuro cartografo che per qualche tempo, dopo la presa di San Felipe, la squadra incrociò nel golfo del Messico a caccia di prede. Poi, prima di far ritorno a Santa Catalina, si

l’orizzonte in fuga

diresse a Giamaica. Giunti colà, Aury decise d’inviare un emissario nella Nuova Granada, affinchè raccogliesse informazioni di prima mano sugli sviluppi della guerra libertadora. La missione venne affidata al nostro eroe [al riguardo su veda il capitolo “Stretta è la soglia”]. Dopo essersi incontrato con l’ammiraglio Cochrane, Codazzi valicò le Ande e raggiunse la valle del fiume Cauca, da dove, senza concedersi soste, iniziò l’ascesa dell’Alto del Quindío. Superatolo, si diresse a Santa Fe de Bogotá. Nella capitale della Nuova Granada (appena liberata) fu ricevuto dal generale Santander, che gli ordinò di far tosto ritorno a Santa Catalina con un dispaccio per Aury. «Tali istruzioni avute partii rapidamente per l’istesso cammino – si legge nelle Memorie – ...giunsi in Providenza dove il generale [Aury] cominciava a dubitare di me per la troppa tardanza essendo quasi già trascorsi 4 mesi da quando ero partito». Nell’isola, prosegue il lughese, si stava allestendo una spedizione contro le città costiere della Nuova Granada, ancora in mano agli spagnoli. Le operazioni presero il via di lì a poche settimane (marzo 1820?), agevolate dalle conoscenze acquisite da Codazzi nel corso del suo recentissimo viaggio. In effetti, il primo obbiettivo della spedizione fu il Chocó, regione ancora in mano ai realisti. Battuti ripetutamente, gli spagnoli ripiegarono verso la valle del Cauca, inseguiti dai legionari di Aury e dalle truppe regolari di Valdés e Cancino. «Appena arrivati in Honda [città fluviale] – ricorda il nostro – eravi un ordine per Aury onde spedire un ufficiale a Santa Fe a prendere delle istruzioni e partire per Provvidenza...». Anche questa missione, apprendiamo dalle Memorie, ricadde su Codazzi. Giunto a Bogotá (agosto 1820?), gli fu ordinato di ripartire subito per la Vieja Providencia, dove, in previsione d’un attacco contro Tolú, avrebbero dovuto riunirsi tutte le truppe disponibili. [Circa le incongruenze che affiorano di tanto in tanto dalle Memorie, si vedano le considerazioni sparse in tutto il libro]. 1821. Rivelatasi falsa la notizia del ‘perdono’ di Bolívar, Aury decise di recarsi a Bogotá per perorare la propria causa al cospetto del Libertador (gennaio 1821). Lo accompagnò il fido Codazzi. Senza per altro aver ottenuto giustizia, il commodoro fece ritorno alla Vieja Providencia nell’estate del 1821. Narra Ferrari che dopo poco, Aury e il suo stato maggiore si recarono ad ispezionare il forte della “Libertad”, comandato dallo stesso Ferrari. Nel corso del sopralluogo – si duole il reggino – Aury «disgraziatamente cadde da cavallo, e nel cadere l’elsa della sciabola ruppegli una costola a modo che, dopo la rivista... fu obbligato a letto. E quella caduta alterò la sua salute sì fattamente che dopo cinquanta giorni, che non potè più abbandonare il letto, dovè soccombere.» (30 agosto 1821). «Morto Aury che tanto amavamo – scrive a sua volta Codazzi – si pensò [assieme a Ferrari] di chiedere la dimissione». Nonostante le date fornite dal nostro eroe (decisamente erronee), i due amici lasciarono il servizio dopo qualche mese.


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profilo biografico

256. A. Codazzi, Mappa del golfo Dolce e baia dell’Honduras. 1825.


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1822-1825. Abbandonata l’isola, i due amici, a detta del nostro eroe, navigarono per qualche tempo nelle Antille, dediti al commercio. Poi tornarono in Italia. [A questo proposito si veda il capitolo “Ritratto parlato”]. «Cercai fortuna nel nuovo mondo, perchè in questo m’era ingrata, ed invero mi fu propizia», confidò Codazzi al colonnello Pier Damiano Armandi nel febbraio del 1823. In effetti, all’atto d’imbarcarsi per l’Europa, annota Manuel Ancízar, il futuro cartografo portava seco «la discreta somma di quarantamila pesos». In Italia, ovvero, nella Bassa romagnola, costituiva a quei tempi un capitale notevole. Aggiunge il suddetto biografo: «Codazzi l’investì in una fattoria, e si dedicò ad offrire allegra ospitalità ad ogni amico che spuntasse all’intorno; amministrando i propri affari con tale rigore e lungimiranza, che nel giro di tre anni dovette cedere la metà della proprietà, mentre i suoi amici intimi facevano di tutto per sottrargli l’altra metà...». L’idea di Codazzi e Ferrari – che a Costantinopoli avevano giurato di «fare una sola volontà e una sola borsa» – era d’impiegare la «tenue fortuna procuratasi col mezzo delle armi» nell’acquisto di un podere nei pressi di Lugo, dei cui frutti potessero vivere entrambi assieme alle rispettive famiglie riunite. La scelta ricadde sulla tenuta del Serraglio, in quel di Massa Lombarda, acquistata nella primavera del 1823. I problemi cominciarono con la costruzione della casa, giacchè – a detta di Ferrari – Codazzi volle strafare, sottraendo fondi all’impiego produttivo. Un anno dopo, Ferrari, stremato dai dissapori e dalla quiete dei campi, volle recarsi in Grecia, per unirsi ai legionari di lord Byron. Vi giunse subito dopo la morte del poeta, per cui, amareggiato, decise di tornare in Italia. Appena arrivato, si lasciò convincere da Codazzi a fare un matrimonio d’interesse, allo scopo di raddrizzare la disastrosa contabilità della fattoria con la dote della sposa. Il rimedio, però, si rivelò peggiore del male, in particolare perché la suocera contribuì ad inasprire il clima di progressiva incomprensione che si era creato fra i due amici. 1826-1840. All’inizio del 1826, Codazzi ripartì per l’America. A spingerlo, spiegò a parenti ed amici, era l’urgenza di riprendere le fila degli affari avviati nelle Indie Occidentali quattro anni prima. Sbarcò a Cartagena il 24 maggio 1826, poco prima di compiere trentatrè anni. Alcune settimane dopo, Ferrari ricevette due lettere: «Con una [Codazzi] mi significava d’aver fatto buon viaggio, e di godere buona salute; coll’altra poi mi dava l’infausta notizia che ogni nostro capitale per quelle parti era ito in sinistro». Fu questo tracollo ad indurre Codazzi a rispolverare il brevetto di tenente colonnello? O fu invece un non sopito spirito d’avventura? In ogni caso, il 15 giugno si mise in viaggio alla volta di Bogotà, con la speranza di essere riammesso in servizio (gli ufficiali di Louis Aury erano stati incorporati all’esercito della Nuova Granada nel 1821). Di fatto, ricevette dal vice-presidente Santander in persona la nomina a Primo Comandante di

l’orizzonte in fuga

Artiglieria di una brigata distaccata nel dipartimento dello Zulia (11 gennaio 1827). Arrivato a destinazione, il governatore militare del dipartimento gli affidò l’incarico di ispezionare le fortificazioni e di tracciare una mappa del golfo di Maracaibo, zona minacciata dalla flotta corsara di Angel Laborde (al soldo della Spagna). Eseguito coscienziosamente detto compito, ricevette l’ordine di «determinare quei luoghi della penisola Guajira ove potesse effettuarsi uno sbarco nemico». [La mappa risultante è riprodotta sopra, fig. 240]. Iniziata per scopi puramente militari, l’attività topografica si trasformò ben presto in una vera e propria impresa esploratoria. Fra il 1828 e il 1829, sulla scorta di misurazioni e osservazioni sempre più accurate, Codazzi mise a punto la carta geografica dell’intero dipartimento dello Zulia. In seguito, quando si ritrovò a parlare di quella prima esperienza scientifica, si limitò a dire: Nel 1828 mi trovavo a Maracaibo, quando il generale José Maria Carreño, capo superiore militare del dipartimento dello Zulia, mi assegnò il compito di tracciare l’itinerario delle strade di quella vasta provincia, al fine di presentarlo al governo centrale, che ne aveva fatto richiesta. Allora pensai che mentre lavoravo all’itinerario, avrei potuto disegnare la carta del dipartimento. Mi misi all’opera con strumenti miei e con gli aiuti che il generale fece mettere a mia dispozione. Il lavoro si protrasse per tutto il 1828 e il 1829.

Mentre a bordo di piroghe ed altri precari mezzi di trasporto, il lughese passava di rilevamento in rilevamento, il panorama politico del Venezuela andava mutando radicalmente, ovvero, andava crescendo e approfondendosi l’opposizione al potere personale di Bolívar. Poco prima della morte del Libertador, la Gran Colombia – creata per suo volere unendo il Venezuela, la Nuova Granada e l’Ecuador – si dissolse, e alla presidenza della novella repubblica del Venezuela assurse José Maria Páez, uno dei massimi fautori dell’Indipendenza. Codazzi consegnò le matrici della carta appena conclusa direttamente a Páez. Questi, consapevole del pregevole livello del lavoro, propose al Congresso di affidare all’italiano una missione d’importanza storica, com’era la descrizione corografica di tutto il suolo nazionale. «Per il Venezuela – dichiarò il Congresso nell’approvare la proposta del presidente (14 ottobre 1830) – il rilevamento topografico e la rappresentazione cartografica, la determinazione dei percorsi militari e l’elaborazione di informazioni statistiche è un’impresa di prima necessità, i cui risultati avranno effetti benefici, oltre che in campo strategico, sulla delimitazione dei confini provinciali, su una più equa distribuzione delle imposte e sullo sviluppo dell’agricultura; per non parlare dell’apertura e la costruzione di nuove vie di comunicazione, della bonifica delle paludi e della navigazione fluviale». In poche parole, la conoscenza geografica costituiva un requisito sine qua non per la sicurezza e il progresso della repubblica. Non solo: rappresentava l’unico modo per far sì che il Venezuela, un paese vastissimo, poco esplorato e poco popolato, si dotasse di lineamenti fisici, di profilo sociale


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257. A. Codazzi, Carta fisica del Venezuela, 1840.


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e d’identità simbolica. In sintesi, la descrizione corografica avrebbe trasformato un territorio informe in ‘patria’. Per portare a termine un compito siffatto, a Codazzi furono concessi tre anni di tempo, il doppio della paga da ufficiale ed il contributo di 100 pesos una tantum per l’acquisto degli strumenti. Dunque, non fu certo per calcolo che il lughese, da sempre maldestro negli affari, divenne il cartografo del Venezuela; e non fu nemmeno per usufruire dell’isolamento e della quiete dell’uomo di scienza. Lungi dal potersi dedicare al proprio lavoro in santa pace, annota Schumacher, «gli toccò svolgere allo stesso tempo altri incarichi, come missioni di guerra e spedizioni militari qua e là». [Al riguardo si veda il capitolo “Ritratto parlato”]. I privilegi accordati a suo tempo da Bolívar alla casta militare, mal si confacevano agli interessi e alle aspirazioni della nuova repubblica (sorta precisamente dal rifiuto dello schema bolivariano), ragione per cui il presidente Páez s’impegnò ad annullarli. «Ma questa misura – osserva Ancízar – non potè concretarsi se non a costo dello scontento di tutti quei militari che videro le loro prospettive, in termini di prestigio personale e di posizione di classe, drasticamente ridimensionate». A sedare i tumulti che ne seguirono venne ripetutamente chiamato il tenente colonnello Codazzi, che, fedele ai poteri costituiti e leale alla persona di Páez, nel giro di sette anni (18301837) dovette spesso alternare il teodolito e la squadra con la sciabola e la pistola. Il lughese stabilì la propria base operativa a Caracas, procedendo alacremente al rilevamento della provincia omonima. All’inizio del 1833 si trasferì a Valencia, da dove intraprese la misurazione delle province di Carabobo e Barquisimeto, cui seguirono quelle di Barinas e Cumaná. Il 29 aprile 1834, a Valencia, si sposò con Araceli Fernández de Hoz, una «bellissima e zelante» donzella di 26 anni. [Sul precedente ‘matrimonio’ del nostro eroe, si veda “Ritratto parlato”]. Sempre nel 1834, in considerazione delle interruzioni causate dagli impegni militari, il governo acconsentì a prorogare i termini di consegna delle carte, accordati inizialmente. Dopo aver esplorato il delta dell’Orinoco, un’impresa immane, fece ritorno a Valencia, in tempo per assistere alla nascita del suo primogenito (21 marzo 1835). Di lì a poco, scoppiò la rivoluzione militare detta “de las reformas”. L’8 luglio 1835, gli insorti deposero il presidente legittimo (Vargas, che era succeduto a Páez sei mesi prima) ed insediarono uno dei loro capi. Codazzi offrì i propri servigi a Páez, che lo nominò capo di stato maggiore dell’esercito costituzionale. Ripreso il potere, il presidente Vargas, «onde premiare la lealtà, i meriti di servizio e le ragguardevoli doti del Comandante Codazzi», ne siglò la promozione a colonnello effettivo del Genio (22 aprile 1836). Di ritorno al lavoro, il lughese esplorò le foreste della Guyana e risalì in canoa gli impetuosi corsi d’acqua che le solcano, inoltrandosi fino alle sorgenti

l’orizzonte in fuga

dell’Orinoco e al corso superiore del Río Negro. In questa occasione, il rapporto che egli stabiilì con le tribù indigene – improntato sempre ad un interesse umano non inferiore alla curiosità etnografica – fu particolarmente intenso e sensibile. Al cospetto del trattamento inumano che i venezuelani riservavano agli aborigeni, il cartografo redasse un resoconto che è allo stesso tempo un atto d’accusa: Los indios no son más que esclavos, y no tienen seguridad ni en sus campos ni en sus habitaciones. Sorpresivamente les llega una orden del corregidor, de presentarse sin tardanza en San Fernando. El viaje lleva de diez a quince días, y una vez llegados, se les obliga a trabajar forzosamente para los monopolios, por un jornal insuficiente. Si no obedecen a esta exigencia del poder oficial, se les recluta para el servicio militar obligatorio. (...) Aquel que no quiere someterse, tiene que abandonar los escasos campos de cultivo y huir al interior de la manigua. (...) Allí [en San Fernando] no existe ni mercado ni comunicaciones, y si de cuando en cuando llegan los indígenas con un cargamento de alimentos, inmediatamente lo confisca alguno de los poderosos, so pretexto de que el dueño de la canoa le debe algo, o bajo cualquier otra acusación. (...) Cuando muere un hombre, el corregidor exige que los hijos le sean entregados, so pretexto que la madre no era la esposa legítima del difunto, o de que ésta no sería capaz de alimentarlos. Y si quien muere es la madre, los hijos son reclamados porque el padre era borracho y sinvergüenza. Y si faltan ambos padres, no obstante que haya hermanos mayores u otros parientes, los huérfanos menores de edad pertenecen al correegidor, quien los reparte. Así pues, unos dos mil seres humanos están condenados a trabajar forzosamente, sin pausa ni fin, para unos quince egoístas. [Gli indios non sono nient’altro che schiavi, indifesi nelle loro terre e perfino nelle loro case. All’improvviso giunge un ordine dell’intendente di presentarsi d’immediato a San Fernando. Per arrivarci ci vogliono dai dieci ai quindici giorni, e una volta giunti colà [gli indios] vengono obbligati a viva forza a lavorare, pagati miseramente, per i monopoli. Se non obbediscono a questa imposizione del potere ufficiale, vengono reclutati forzatamente nell’esercito... Colui che osasse rifiutarsi, dovrebbe abbandonare il proprio campicello e nascondersi nella foresta... A San Fernando non esiste un mercato e tanto meno comunicazioni; quando arrivano gli indigeni a smerciare i loro prodotti alimentari, subito questi vengono confiscati dal signorotto di turno con la scusa che il padrone della canoa gli deve dei soldi o qualche altra accusa del genere. Quando un indigeno muore, l’intendente esige che i figli del defunto gli vengano consegnati, adducendo che la madre non era la sposa legittima del morto o che non sarebbe in grado di mantenerli. Se muore la madre, i figli devono comunque essere consegnati, questa volta con la scusa che il padre è uno svergognato ubriacone. Se vengono a mancare entrambi i genitori, quantunque esistano fratelli maggiori o altri parenti, gli orfani minorenni appartengono all’intendente, che li spartisce a piacimento. In conclusione, duemila esseri umani sono condannati a lavorare forzatamente, senza sosta e a perpetuo, per una quindicina di egoisti].

Nonostante gli intoppi, l’attività della Comisión Corográfica (così si chiamava la sparuta équipe di esploratori-misuratori capeggiata da Codazzi) avanzò con tale alacrità che nel 1838 il lughese, rientrato a Valencia, poté dedicarsi a elaborare le tredici carte provinciali a grande scala, con il solo aiuto del calligrafo Luis Aliaga. Una volta completate, esse furono consegnate al generale Páez, reinsediatosi da poco alla presidenza del Venezuela. Fu lo stesso promo-


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258. Santiago Matamoros castiga gli indios, 1728, inc.


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tore dell’impresa corografica, dunque, colui che ricevette dalle mani dell’italiano il risultato di otto anni di sforzi. 1840-1841. Codazzi festeggiò il quarantasettesimo compleanno in alto mare, diretto in Francia, più precisamente a Parigi, ove avrebbe sovrinteso alla stampa dell’ Atlas físico y político de la República de Venezuela nonché del Resúmen de la Geografía de Venezuela. L’accoglienza che la comunità scientifica parigina riservò ai lavori del lughese fu lusinghiera. Alexander von Humboldt, il geografo più insigne del tempo, espresse la propria ammirazione in una lettera che dovette emozionare grandemente il destinatario: Monsieur le Colonel, je ne puis vous voir pour ce beau pays qui m’à layssé de souvenirs si chers, sans vous renouveller l’expression de ma haute et affectuese consideration. Vos travaux géographiques embrassant une si immense étendue de pays, offrant à la fois de detail topographique le plus exacte et des mesures des hauteurs si importantes pour la distribution de climats, feront epoque dans l’histoire de la science. Il m’est doux d’avoir veçu assez longtemps pour voir en termine une vaste enterprise qu’en illustrant le nom du Colonel Codazzi, contribue a la gloire du governement qui a eu la sagesse de le proteger. Ce que j’ai tenté de faire dans un voyage rapide, en jettant un reseau de positions astronomiques et hypsometriques sur le Venezuela et la Nouvelle-Grenade, à trouvé par vos nobles investigations, Monsieur, une confirmation et un agrandissement qui depassent mes ésperances. Membre de l’Academie des Sciences, j’aurai signé avec plaisir, si j’eusse eté en France, l’excellent rapport que deux de mes plus intimes amis, Mr. Arago et Boussingault on fait sur votre Carte et sur les ouvrages historiques e geographiques destinez a l’illustrer... Agréez, je vous supplie, Monsieur, l’expression renouvelée de ma vive reconnaissance et de mes sentiments le plus affectueux.

Cos’altro poteva desiderare l’ex-artigliere della 4ª Compagnia del Reggimento di Artiglieria a Cavallo? La Legion d’Onore, perbacco! E di fatto gli venne conferita «a riprova della particolare benevolenza del Re [Luigi Filippo] nei confronti d’un antico ufficiale di Stato Maggiore dell’Esercito del Regno Italico agli ordini del Principe Eugenio». 1841-1845. Fra il 1841 e il 1845 il lughese concentrò tutti i suoi sforzi in un progetto volto a favorire sia lo sviluppo demografico e agricolo del Venezuela che le prospettive di vita di un gruppo di emigranti europei. [Al riguardo, si veda il capitolo “Un posto al sole”]. A prescindere dal suo maggiore o minore successo, la Colonia Tovar costituisce una delle iniziative più appassionanti, audaci e controverse del nostro eroe. Nel riferirsi ad essa, i giornali italiani dell’epoca sottolinearono che «non si trattava di una di quelle speculazioni nelle quali, com’è accaduto troppe volte, sono attratti centinaia di infelici, raccolti a caso ed invitati a spartire le delizie d’un immaginario Eldorado». No, questa era un’impresa di tutt’altro genere, che offriva le migliori garanzie, giacchè a dirigerla vi era un uomo d’indole generosa, ed il governo la incoraggiava, addossandosi le prime spese (che si trattasse d’una iniziativa sui generis può dedursi dal fatto

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che Codazzi, in una lettera al generale Soublette, affermasse che in essa aveva impegnato il suo onore). Tralasciando gli aspetti etici del progetto, si vedano i fatti che portarono alla sua realizzazione. Quando il ministro Quintero gli chiese quale sarebbe stato il luogo più adatto all’insediamento di coloni europei, il cartografo, onde poter rispondere a ragion veduta, decise di rientrare in Venezuela. Appena arrivato si dedicò all’esplorazione di una zona compresa fra Caracas e la valle di Aragua, alla ricerca di una località che offrisse condizioni ambientali appropriate a persone abituate a climi temperati. La individuò nel corso della quinta escursione, per l’esattezza il 14 ottobre 1841, e subito la battezzò “Palmar del Tuy”. Era una vallata dai dolci pendii, disposta ad oriente, ricca d’acqua sorgiva: Un valle circular de casi legua y media de diametro, abierto por una estrecha y elevada abra hacia el Naciente, circundado por una cerranía casi toda de una misma altura y cuyas cumbres están elevadas 2.300 varas sobre el nivel del mar, da origen al rio Tuy. Las faldas de los cerros forman planos inclinados que por escalones descienden suavemente por todas partes hacia el centro de la hondura del valle que está 500 varas más abajo que las cimas. Allí tres grandes quebradas compuestas de las aguas de 17 otras perennes, se reunen y forman ya el rio, que serpenteando entonces en medio de las paredes escarpadas de las faldas de los cerros, se precipitan entre peñas, al través de una selva hasta ahora desconocida, y va a reunirse a una legua y media de distancia al riachuelo llamado Maya, cerca del cual se encuentran las habitaciones que hasta ahora se han acercado más a las cabeceras del Tuy, ocultas hasta hoy entre elevados cerros y tupidos bosques. [Una valle circolare di circa una lega e mezza di diametro, aperta da una stretta e alta fenditura verso Levante, circondata da una catena montuosa d’altitudine uniforme, le cui vette più elevate non superano i 2000 metri sul livello del mare, [detta valle] da origine al fiume Tuy. Le pendici delle montagne formano dei piani inclinati che scendono da ogni parte dolcemente degradanti verso il centro o fondo della valle, che rimane 400 metri al di sotto delle cime. Il fondovalle è attraversato da tre grandi torrenti, alimentati dalle acque di 17 torrentelli perenni, che sfociano in un fiume; questo, snodandosi fra le ripide pareti delle pendici montuose, scende precipitosamente fra i dirupi, attraverso una selva fino ad ora inesplorata, per poi riunirsi a una lega e mezza di distanza, con il piccolo fiume Maya, nei pressi del quale si trovano le case più vicine alla sorgente del Tuy, fino ad oggi nascoste fra le alte rupi e le folte foreste].

Individuato il posto ed elaborato il progetto, il lughese, ormai divenuto ‘impresario d’immigrazione’, si mise in cerca di famiglie di specchiata moralità e di comprovata industriosità («bisognava dar la preferenza agli artigiani – osserva Schumacher –, visto che, oltre al lavoro dei campi, potevano svolgere altre attività utili alla comunità»). Dato il carattere misto del progetto, il nostro s’impegnò ad informare semestralmente le autorità sull’andamento della colonia. Dal canto suo, il governo convenne di esonerare i coloni da ogni tassa, obbligo (ivi compreso il servizio militare) od imposta per un lasso di 15 anni. Gli emigranti che s’imbarcarono per il Venezuela – tutti provenienti da Endingen nel Baden – furono 389 (239 uomini e 150 donne), dei quali solo 216 erano maggiorenni. Fra di essi figuravano muratori, falegnami,


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259. A. Codazzi, Provincia di Caracas, 1840.

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fabbri, tagliatori, sterratori, stradini, sarti, tessitori, bottai, cappellai, bardellai, mugnai, maestri e stampatori. Il bastimento, La Clemence, salpò da Le Havre il 19 gennaio 1843. La costa americana venezuelana venne avvistata ai primi di marzo, ciò nonostante, a causa della quarantena dichiarata in quei giorni dalle autorità sanitarie, ai coloni non fu consentito di sbarcare. Poterono farlo soltanto tre settimane dopo, non nel porto della Guaira bensì nella sperduta insenatura di Choroní. Infine, l’8 aprile, dopo un viaggio di 112 giorni, ai borghigiani tedeschi apparve lo spettacolo del Palmar del Tuy. Scrive Leopoldo Jahn: La visión que tenían los colonos era la de una tierra reseca y ennegrecida por las quemas. Sólo se divisaban unas veinte chozas con techos de paja, donde deberían alojarse. Según la tradición oral transmitida desde los primeros colonos, se cuenta que muchas de las mujeres riompieron a llorar mientras, sentadas en el suelo, contemplaban desconsoladas el panorama. El agotamiento fisico contribuía a acentuar el estado de depresión colectiva que afectó al grupo. [Lo spettacolo che si presentò ai coloni era quello d’una terra riarsa, annerita dalla combustione dei boschi. Qua e là si scorgevano delle capanne dal tetto di paglia, una ventina in tutto, dove avrebbero preso alloggio. Secondo una tradizione orale trasmessa dai primi arrivati, le donne, alla vista di quel panorama, si accasciarono al suolo e ruppero in un pianto sconsolato. La spossatezza fisica contribuiva ad accrescere la depressione del gruppo].

Che il Palmar del Tuy non fosse la terra promessa fu ancor più chiaro nei mesi successivi, durante i quali i coloni dovettero fronteggiare sacrifici indicibili. Tuttavia, alla fine del 1844 Codazzi fu in grado di scrivere al presidente Soublette: «Il più è fatto. A dispetto dei tumulti, dei contrattempi e dei malanni, che più rovinosi non avrebbero potuto essere, la Colonia si presenta ogni giorno più forte e vigorosa, e cresce con forza e vigore». In verità, le condizioni avverse non impedirono che l’insediamento continuasse a svilupparsi (o che, quanto meno, sopravvivesse). In una precedente lettera allo stesso Soublette (31 luglio 1843), Codazzi aveva scritto: Permitame General que le haga una comparación para que forme una idea de lo que es hoy en día la Colonia Tovar. Tomaré por paralelo el pueblo de San Pedro habitado por los indios en tiempos de la conquista, por los criollos hace más de 200 años, cuenta más de 50 de parroquia y su iglesia tiene 43 años. Una población de más de 1000 almas está en un pequeño valle, cerca de otros pueblos como Macarao y Teques y sobre todo en el camino más frecuentado de la Republica, en las puertas casi de la capital, y en una posición en que los que van o salen de ella deben precisamente dormir, comer, almorzar o refrescarse. He bien, pregunto ahora: ¿tiene escuela, herrería, carpintería, albañiles, cortadores de piedra, hojaladeros, torneros, sastres, zapateros, fabricantes de gorras, tejedores de lienzo, curtiembre, matanza, fabricantes de jabón y velas, de tinas, barriles, carretas, maquinas de aserrar, molinos, maquinistas, imprenta, reloj de campana, medico, botica y barbero? No, nada de eso tiene. Pues la Colonia lo posee todo y todo está en acción y sólo cuenta 4 meses de existencia con 2 de enfermedades, alborotos y bochinches. Tiene año y medio y nueve meses que fue pisado por primera vez por planta humana el terreno y solo 18 meses de trabajos, en donde no había senda para pasar y solo precipicios horribles para entrar en una selva virgen, desconocida, asilo de las fieras y cubierta de enormes arboles. [Generale, mi permetta di fare

l’orizzonte in fuga

un paragone per aiutarla a capire che cos’è oggigiorno la Colonia Tovar. Prenderò come termine di confronto il paese di San Pedro, abitato dagli indios all’epoca della Conquista e dai creoli orsono due secoli, costituito in parrocchia 50 anni fà e dotato di chiesa sette anni dopo. La popolazione, composta da oltre mille anime, abita in una piccola vallata a contatto con altri paesi come Maracao e Teques, nelle vicinanze della strada più battuta della Repubblica, a un passo dalla capitale, in una posizione tale che tutti coloro che si dirigono a Caracas o ne provengono, devono per forza fare sosta [a San Pedro] per mangiare, dormire, ecc.ecc. Orbene, chiedo: [detto paese] ha scuole? Ha fabbri, muratori, scalpellini, lattonieri e tornitori? ha sarti, calzolai, cappellai, tessitori e conciatori? Ha fabbricanti di sapone, di candele, di botti e barili, di carri?Ha una segheria, delle macine, una tipografia, un orologio a campanile? Ha un medico, una farmacia e un barbiere? No, non ha niente di tutto ciò. Per contro, la Colonia Tovar ha tutto e tutto funziona, sebbene non superi quattro mesi di vita, due dei quali trascorsi fra malattie, proteste e disordini. Il terreno dove essa sorge fu scoperto poco più di due anni fà e il disboscamento fu iniziato 18 mesi orsono: prima non esisteva nemmeno un sentiero d’accesso, solo burroni e una foresta vergine e ignota, popolata da fiere, fitta di alberi enormi].

Sebbene le orgogliose riflessioni del cartografo non mancassero di peso, il suo entusiasmo era fittizio. Serviva più che altro a convincere la commissione di controllo governativa che il futuro dell’insediamento era assicurato. In verità, lo sviluppo della Colonia Tovar, nel corso dei primi anni di vita, fu estremamente travagliato. [In proposito si rimanda nuovamente al capitolo “Un posto al sole”]. 1846-1847. «L’antica provincia di Barinas, situata nell’estremità occidentale del Venezuela, fra la regione montuosa e agricola di Mérida e le vaste pianure dell’Apure (ove abbondano da tempo immemorabile gli allevamenti di bestiame), era lacerata da lotte politiche che, oltre a impedirne lo sviluppo, minacciavano la sicurezza degli abitanti. Inoltre, l’intero territorio era infestato da bande di delinquenti, un pericolo che si univa alle vivacissime discordie testè citate. Per porre rimedio a tale clima di violenza, il Consiglio provinciale decise di designare governatore il colonnello Agostino Codazzi». Si era nel 1846, e il Venezuela era diviso fra conservatori e liberali, ovvero, come si diceva popolarmente, fra “oligarcas” e “descamisados”. «Nei paesi poco o nulla istruiti – continua Schumacher – i partiti politici, anzichè professare l’una o l’altra dottrina, coltivavano gli odi personali, e convertono in ingiurie e offese ciò che da altre parti si risolve mediante discussioni e scambi di idee». A Barinas accadeva appunto questo, e Codazzi, da fervente repubblicano qual’era, s’impegnò a promuovere un nuovo spirito civico, super partes. Così facendo, si guadagnò la rabbiosa opposizione del partito liberale. Il “Barinés”, organo dei “descamisados”, non si peritò di affermare: Codazzi es un extranjero que pocos sacrificios ha hecho por la Patria, está condecorado con los Cordones de la Legión de Honor [un’odioso riconoscimento monarchico], ha sacrificado a muchos venezolanos, a veces por el placer de acabar con esta raza de valientes, ha atropellado a los pueblos en los días de


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260. A. Codazzi, Mappa della regione di Barinas, 1847.

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ostentar éstos su soberanía en las elecciones; es un energúmeno, un frenético para despotizar con la autoridad en la mano... [Codazzi è uno straniero che poco ha fatto per la Patria, gli è stata conferita la Legion d’Onore, ha trucidato molti venezuelani, a volte per il gusto di sopprimere questa razza valorosa, ha travolto la gente quando ha manifestato la propria sovranità nelle elezioni, è un energumeno, un tiranno delirante quando dispone di autorità...].

Nonostante tutto, l’onestà e l’impegno di cui il nostro eroe dette prova finirono per procacciargli molte simpatie, per cui, nel giro di qualche mese, riuscì ad attenuare i rancori politici e a sedare gli odi personali. Ma, ahimé, questo nuovo clima di concordia non era destinato a durare. 1848. All’inizio del 1848, per ordine del presidente Mónagas, il Congresso fu decimato e disperso a fucilate da un’orda di forsennati. A seguito di quest’atto di barbarie, Codazzi si dimise dalla carica di governatore e abbandonò Barinas. Preoccupato per l’incolumità dei propri familiari si diresse a Nord e, una volta raggiunta Maracaibo, si affrettò a spedirli nelle Antille olandesi. Mesi prima aveva ricevuto l’invito a trasferirsi nella Nuova Granada, onde occuparsi di un progetto geografico governativo. A formularlo era stato il presidente della repubblica in persona, Tomás Cipriano de Mosquera, su consiglio di Joaquín Acosta, un geografo di notevole statura che Codazzi aveva conosciunto nel 1820. Era giunto il momento di accettare. Oltre ad implicare immediati rischi personali – il lughese era ferocemente inviso a Mónagas –, la piega presa dal Venezuela non lasciava sperare niente di buono per il futuro. Dunque, il lughese decise a malincuore di abbandonare la patria adottiva e passare nella repubblica neogranadina. Pervenne a Bogotá privo di tutto, «povero come quando, 29 anni prima, vi era giunto per la prima volta per ordine di Aury, per parlamentare con il Vicepresidente della Colombia». 1849. A poco meno d’un mese dal suo arrivo, Codazzi, nominato ispettore del Collegio Militare, presentò un rapporto consigliando che l’istituto venisse trasformato in un centro di formazione per ingegneri militari e civili (come «esempio di profitto», gli allievi del Collegio disegnarono una mappa topografica di Bogotà e dintorni «sotto la guida dell’Ispettore»). Il 22 febbraio, il Congresso neogranadino riconobbe al cartografo il grado di tenente colonnello «distaccato presso il corpo del Genio» (cioè, lo stesso grado assegnatogli da Santander nel 1827), «affinchè si occupasse di quelle opere civili di cui l’avrebbe incaricato il Potere esecutivo». Dette opere, annota Ancízar, consistevano nel rilevamento topografico e la descrizione corografica del territorio nazionale. Il nuovo presidente della repubblica, José Hilario Lopez, di filiazione liberale, fece propria l’iniziativa geografica del suo predecessore, Mosquera, appartenente al partito conservatore. Il 29 maggio 1849, il progetto fu trasformato in legge, e qualche mese più tardi venne

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stipulato un contratto con Codazzi. Il piano dell’opera comprendeva due testi descrittivo-esplicativi (geografia fisica e geografia politica), una carta generale della Nuova Granada («suddivisa in Stati e distretti, ivi specificate le catene montuose e il corso dei fiumi, comprendente in margine una tavola sinottica delle distanze; una panoramica comparativa delle principali vette, ghiacciai e vulcani; un’altra con il corso dei fiumi navigabili; un’altra con le altitudini assolute e relative di città e paesi; ed inoltre diagrammi della popolazione, sua distribuzione e sviluppo, statistiche economiche e altre ancora») e per finire un atlante fisico e politico composto da 52 carte geografiche e storiche. Per portare a termine l’incarico, al lughese vennero concessi sei anni di tempo (a partire dal primo gennaio 1850) e una paga annuale di circa 3 mila pesos, con spese di viaggio a suo carico. A far parte della Comisión Corográfica fu chiamato anche il già menzionato Manuel Ancízar, con l’incarico di redigere rapporti dettagliati sulla «diffusione dell’istruzione e la distribuzione del commercio e dell’industria», nonché «sulle forme e i modi della proprietà terriera, sulla popolazione ed il crimine». Ancízar doveva elaborare altresì una descrizione ragionata «dei costumi e delle razze in cui è suddivisa la popolazione, dei monumenti antichi, delle curiosità naturali, includendo qualsiasi dato d’interesse». Al pittore Carmelo Fernández, che aveva già lavorato con Codazzi in Venezuela, fu assegnato il compito di rappresentare artisticamente le regioni via via visitate, mentre lo studio dell’«impiego medicinale e industriale delle piante» fu affidato a José Jerónimo Triana, un botanico ventiduenne. Nel corso della sua decennale esistenza, della Comisión fecero parte anche Santiago Pérez, al posto di Ancízar, Henry Price e Manuel María Paz, che si avvicendarono a Carmelo Fernández, e poi Ramón Guerra Anzola, Manuel Ponce de León, Indalecio Liévano, Domingo y Lorenzo Codazzi (figli maggiori del cartografo) e non da ultimo José del Carmen Carrasquel, fido domestico dell’esploratore, il cui ruolo fu così importante che «egli meriterebbe di figurare accanto ai membri più prestigiosi della spedizione, se fosse lecito inserire fra di loro un umile servo». 1850. La Comisión si mise in marcia il 3 gennaio 1850, dirigendosi verso nord. Fece ritorno a Bogotá sette mesi più tardi, al termine di un periplo che attraverso Chiquinquirá, Vélez, Cimitarra, Socorro, Bucaramanga, Ocaña, Puerto Nacional e Tamalameque la condusse a Cúcuta e a Pamplona. Durante il tragitto si addentrò nella zona selvatica confinante con il Venezuela, tracciò il profilo cartografico della provincia del Socorro e studiò il sistema fluviale tributario dell’Orinoco. Mentre si dedicava alla stesura della geografia delle province appena visitate, Codazzi trovò il tempo di redigere i citati Apuntamientos sulla possibilità di sviluppare insediamenti immigratori nella Nuova Granada (a suo dire, la Sierra Nevada, prospiciente l’oceano Atlantico, era


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261. A. Codazzi, Carta corografica della regione di Velez, 1851.

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la regione che meglio si prestava alla colonizzazione europea). 1851. La seconda spedizione prese il via il 3 gennaio 1851. L’obiettivo era l’esplorazione di quella «vasta catena montuosa che si stacca dalla cordigliera Orientale, a sud delle province di Tunja e Tundama, estendendosi fino alla valle del fiume Magdalena». La Comisión toccò dapprima il lago di Suesca, le località di Chocontá e Ramiquirí e la laguna di Tota. Indi si diresse a Sogamoso e Gámeza, luoghi di grande interesse archeologico, sui quali Codazzi scrisse pagine di stimolanti osservazioni. La marcia continuò poi fino alla sorgente del fiume Chicamocha, da dove proseguì per Soatá. Da quest’ultima località la Comisión iniziò l’ascesa del massiccio del Cocuy, che si concluse con la scalata del ghiacciaio che lo sovrasta. Dopo aver misurato l’altitudine della cordigliera dalla più alta delle sue vette, il gruppo ritornò a Soatá. Transitò poi per Santa Rosa de Viterbo e Paipa, passò di nuovo da Sogamoso e fece tappa a Tunja e a Villa de Leiva. Visitò anche Ráquira, il deserto della Candelaria ed il sito della battaglia di Boyacá (decisiva per l’indipendenza della Nuova Granada). Esplorata la regione di Guateque e Somondoco, si diresse a Muzo, onde raccogliere informazioni di prima mano sui rinomati filoni smeraldiferi ed il loro sfruttamento. Seguendo il corso del Río Negro, giunse poi a Honda e subito dopo a Bogotá. Il 5 settembre 1851, il cartografo completò il tratteggio corografico preliminare delle otto province esplorate. Il 27 marzo 1852, il Congresso ne approvò la promozione a colonnello, come prova dell’apprezzamento con il quale erano stati accolti i primi risultati geografici. Pochi giorni dopo, la sua paga venne elevata a 4800 pesos. Oltre ad offrirgli un’ulteriore attestato di stima, con l’aumento il governo intendeva far rientrare la sua imminente rinuncia. Scriveva Codazzi in quei giorni: «Senza un aumento, mi vedrò obbligato ad abbandonare un’impresa che avrei voluto portare a termine con tutte le mie forze, e ciò perché la mancanza di denaro non mi consente di proseguire». Non si trattava certo di avidità. Di lì a poco, Araceli, la moglie dell’esploratore, ricevette una lettera da Río Negro, nella quale il marito le diceva: «Ho letto sulla Gazzetta Ufficiale il decreto varato dal Congresso sugli aiuti alla Comisión Corográfica, senza un aumento sarebbe stato impossibile andare avanti, basti pensare che quest’anno ci rimetterò di tasca mia a dir poco 800 pesos». 1852. Anche la terza spedizione si mise in marcia all’inizio di gennaio, questa volta diretta a Ibagué. La meta del viaggio, scrive Schumacher, era il cuore stesso della Nuova Granada, vale a dire, quella vasta regione montuosa che comprendeva le province di Antioquia, Cauca, Córdoba, Mariquita e Medellín. La scalata del Nevado del Ruiz e la misurazione della cordigliera richiese un mese di tempo, al termine del quale Codazzi e i suoi collaboratori passarono a

l’orizzonte in fuga

Manizales. La Comisión s’incamminò poi alla volta di Nechi, alle fonti del fiume omonimo, e successivamente raggiunse Medellín. «A Medellín, il punto principale di questo imponente sistema montuoso – riferisce ancora Schumacher –, i rilevamenti geo-cartografici di Codazzi suscitarono fra la gente vivissimo interesse, non solo fra i funzionari pubblici ma anche fra i privati cittadini, ragione per cui in questa intelligente città la Comisión ricevette aiuti sostanziosi». A Medellín, inoltre, il cartografo s’imbattè in Tyrrel Moore, un ingegnere inglese ivi stabilitosi da oltre vent’anni, il quale «con una pazienza degna del maggior encomio, a forza di triangolazioni aveva stabilito la posizione geografica di più di 50 località». Moore «aveva una gran voglia di conoscere i miei risultati, onde metterli a confronto con i suoi – raccontò Codazzi alla moglie –, d’altro canto, io pure desideravo ardentemente paragonare i miei rilevamenti con quelli d’un uomo esperto in materia, una possibilità che non mi si era mai presentata da quando lavoro in America». I calcoli dei due coincidevano alla perfezione, la qual cosa riempì l’inglese d’una gioia tale che «pareva che avesse vinto un terno al lotto». Lasciata Medellín, la Comisión, seguendo il fiume Cauca, avanzò verso Dabeiba, da dove, risalendo il medesimo fiume, raggiunse Santa Fé de Antioquia. Dopo aver toccato Titiribí e attraversato la regione aurifera omonima, tornò a Ibagué, per poi rientrare a Bogotá. Il 20 dicembre, Codazzi consegnò alla Secretaría de Relaciones Exteriores i lavori corografici conclusi nei mesi anteriori, cioè, «tre carte delle province di Antioquia, Córdoba e Medellín con le relative descrizioni geografiche». 1853. La quarta spedizione, intrapresa all’inizio del 1853, fu una delle più lunghe ed estenuanti. Negli ultimi tempi, si era ripreso a parlare della possibilità di aprire un canale transoceanico nella regione del Darién, idea già ventilata in epoca coloniale. Onde approfondire la questione ed eventualmente addivenire ad una proposta concreta, il governo aveva accordato una concessione a Edward Cullen, ingegnere ed esploratore inglese, rappresentante della Società del Canale del Darién. Il progetto avanzato da Cullen si rivelò irrealizzabile, tuttavia venne prospettata una soluzione alternativa, consistente nell’ampliare una presunta via di comunicazione fluviale fra il Río Atrato e il Río San Juan. [In proposito si vedano i capitoli “Stretta è la soglia” e “Lunga è la via”]. Appunto allo scopo di verificare l’esistenza e la possibilità di adeguamento di tale collegamento, Codazzi discese il fiume Magdalena fino a Barranquilla e da lì raggiunse Turbo, nel golfo di Urabá (1 febbraio 1853). Nel corso delle settimane seguenti, si addentrò nel Chocó, portando a termine uno studio particolareggiato dell’idrografia della regione. Come risultato, dovette ammettere l’impossibilità pratica di aprire un canale navigabile servendosi dei sudetti fiumi. Toccando Nóvita e Baudó, Codazzi si diresse allora a Buenaventura, per poi spingersi a sud, fino a Tumaco


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e Barbacoas. Subito dopo, piegò ad oriente verso l’altopiano di Túquerres, che Humboldt aveva definito «il Tibet dell’America del Sud». Dopo una sosta a Pasto, si recò a Popayan, dove effettuò la misurazione del vulcano del Puracé. All’inizio di luglio, la Comisión, seguendo la sponda sinistra del Río Cauca, visitò Pitayó, Silvia, La Balsa e Cali; poi, spostandosi sulla sponda destra del medesimo fiume, toccò Buga e Cartago. Infine fece ritorno a Bogotá... non senza aver scalato prima l’Alto del Quindío. 1854. Nei primi mesi del 1853 erano pervenute a Bogotà notizie su un’imminente spedizione internazionale nella regione panamense, facente capo a Stati Uniti, Francia e Inghilterra, allo scopo di verificare la possibilità d’un varco transoceanico nell’istmo del Darién (su proposta dall’ingegnere inglese Lionel Gisborne). Poiché era stata predisposta senza l’autorizzazione della Nuova Granada, a cui detta regione apparteneva, la spedizione si configurava come una violazione territoriale ai danni d’uno stato sovrano. Per questa ragione – ed anche per non essere estromesso da un’iniziativa del massimo interesse nazionale –, il governo neogranadino decise di inviare nella Baia di Caledonia, dove nel frattempo si era riunita la flotta internazionale, il colonnello Codazzi. [Al riguardo si rimanda ai capitoli “Stretta è la soglia” e “Lunga è la via”]. Giunto sul posto nel gennaio del 1854, questi scrisse ad Araceli mettendola al corrente degli eventi: Sono sbarcato il giorno 24 in compagnia degli ingegneri [Cullen e Gisborne] e di 50 marinai armati, fra inglesi e francesi, portando ciascuno viveri per sei giorni... Per quattro giorni abbiamo esplorato fiumi e montagne, immersi nell’acqua ora fino alle ginocchia, ora fino ai fianchi. Gli stivali servivano da poco, perché si riempivano d’acqua, facendosi pesantisimi... È inutile che stia a descrivere lo sforzo e la sofferenza, basti dire che, fra tutti, solo otto, me compreso, ce l’hanno fatta a mantenersi in piedi.

La spedizione si risolse in un fallimento. Gli inglesi, che sbarcarono dalla parte del Pacifico (un drappello di 23 individui fra marinai e ufficiali), caddero in un agguato teso dai nativi, lasciando sul terreno quattro uomini. Un’analoga tragedia ricadde sugli americani, 21 dei quali si smarrirono per settimane, alcuni sparendo per sempre. Ad aggravare le cose, si scoprì che la possibilità di aprire un canale in quella zona – possibilità difesa a spada tratta da Gisborne ed oppugnata altrettanto energicamente da Codazzi – era del tutto illusoria. Il lughese riferisce: Gisborne ha fatto un bel po’ di errori. Credeva che ci trovassimo sulla cordigliera, ed invece ci trovavamo altrove, scoprì un corso d’acqua che andava più o meno nella direzione desiderata, e credette che sfociava direttamente nel Pacifico; si lagnava che non gli confermassi che andavamo bene, quando io, al contrario, sapevo che andavamo male, perché ero sicuro che non avevamo valicato alcuna cordigliera, così com’ero certo che il fiumiciattolo in questione sfociava nell’Atlantico. Dopo due giorni, quando tornammo ad avvistare le nostre navi, dovette pur convincersi...

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Nel luglio del 1854, quando fece ritorno a Cartagena, ad attendere il lughese vi era la notizia della sollevazione in armi del generale José María Melo. Per sedarla, erano stati predisposti tre eserciti ‘costituzionali’. Comandava quello ‘del Nord’ l’ex-presidente Mosquera, il quale nominò Codazzi capo di stato maggiore. Questo inatteso ritorno alle armi si protrasse fino a dicembre. 1855-1856. Nel 1855, la Comisión si limitò ad effettuare misurazioni nella zona del fiume Bogotá, al di sotto della cascata del Tequendama. Esplorò pure il sistema idrografico del fiume Sumapaz, poi, passando da Pandi, riemerse nella Sabana di Bogotá. Dopo aver misurato il massiccio di Chingaza, la settima spedizione si spinse negli Llanos Orientales, facendo tappa a Villavicencio, Cumaral e San Martín. Visitò poi le lagune di Monacacías e Uva e discese per alcune miglia il fiume Meta. A questo punto, le violente febbri malariche che attaccarono sia Codazzi che altri membri della Comisión, imposero un ripiegamento su Moreno. Non appena sfebbrato, il cartografo lasciò quest’ultima località e percorse a cavallo un lungo tratto di pianura, poi, sempre a cavallo, seguì il corso del fiume Casanare fino al villaggio di Arauca. Sulla via del ritorno, passò di nuovo da San Martín, da dove proseguì per Gachalá e Gachetá. Arrivò a Bogotá il 12 marzo 1856. 1857. Il primo gennaio 1857, dopo avere eseguito misurazioni nei pressi di Neiva, Codazzi, in compagnia di un bizzarro esploratore negro, Miguel Mosquera, si inoltrò nel Caquetà, una regione selvatica e quasi completamente sconosciuta. Il viaggio proseguì verso Mocoa, indi verso l’alveo superiore del fiume Putumayo. Nel corso di questa esplorazione, gli interessi di Codazzi si concentrarono sugli aspetti antropologici ancor più che geografici. «Sono entrato in contatto con diverse tribù appartenenti alla popolazione autoctona della Nuova Granada – si legge fra le sue note di viaggio – e sono venuto a sapere molte cose sui loro costumi e sulle loro attività, e mi sono fatto un’opinione: non ho scoperto alcunchè che possa far pensare che, dall’epoca della Conquista in poi, la condizione spirituale e sociale degli indios sia migliorata». Dopo aver attraversato il paramo (altopiano) de las Papas – avendo sempre negli occhi l’abbagliante cima innevata del Puracé –, l’esploratore ridiscese verso la valle del Río Magdalena e il 4 aprile 1857 pervenne a Timaná. Nei pressi di quest’ultima località, visitò ed esaminò attentamente il sito archeologico di San Agustín, riguardo al quale redasse on’interessante memoria corredata da diversi disegni. Dopo avere effettuato misurazioni nelle province del Tolima e del Huila, il 18 giugno rientrò a Bogotá. 1858. Un anno più tardi, l’11 giugno 1858, il geografo fece consegna delle carte definitive di sei degli otto stati in cui era stata da poco risuddivisa la Con-


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federación Granadina (che rimpiazzò la República de la Nuova Granada). Nel corso degli ultimi mesi, le cose, per lui, erano cambiate in peggio, in particolare a causa della scarsissima ‘sensibilità geografica’ del presidente Mariano Ospina. Irritato per il modo ottuso ed insolente in cui il governo rigettò la sua proposta di terminare quanto prima il rilevamento della regione atlantica, Codazzi sbottò: Ero convinto che il carattere dell’impresa da me iniziata non si riducesse ad una mera questione contrattuale, e che meritasse invece certa considerazione e certo rispetto... ma mi sbagliavo. [Mi rendo conto solo ora che] non stavo lavorando per arricchire la Repubblica con un’opera scientifica, un’opera per la cui esecuzione il denaro, se pure inevitabilmente frammisto, non era da intendersi come compenso di servizi, bensì come un mezzo per garantirne il buon fine. Mi rendo conto ora che non si trattava di uno sforzo in onore e beneficio del Paese, ma che veniva inteso come una di quelle tante cose che si comprano e si vendono. Una delusione di questo genere è una crudeltà per un uomo che si gloriava di far conoscere alla comunità scientifica queste terre ancora inesplorate.

1859. Alla fine del 1858, senza far conto su anticipi o aiuti economici governativi, Codazzi intraprese l’ultima spedizione, accompagnato unicamente da Manuel María Paz e dal fedele Carrasquel. Da Honda si diresse a Badillo, esplorò la zona paludosa di Simití e successivamente la Ciénaga di Zapatoca. Da Chimichagua avanzò faticosamente verso la catena dei Motilones e il 20 gennaio giunse a Espiritu Santo. Da quest’ultima località il cammino verso Valledupar e la tanto sospirata Sierra Nevada si presentava spedito. Ma non era scritto che il nostro eroe la raggiungesse. Il viaggiatore francese Louis Striffler, che attraversò quella contrada nel 1876, riferisce:

l’orizzonte in fuga

Appena pronunciai il nome di Codazzi, don Oscar Trespalacios esclamò: “Codazzi arrivò con la sua gente, ivi compresi sei soldati, alla mia fattoria di Las Cabezas. Era già in preda ad un attacco di febbri terzane, per cui gli consigliai che prima di proseguire si rimettesse in forze. Da me vi era qualche comodità, e avrei potuto garantirgli cure e un’assistenza permanente, ma lui si disse impaziente di concludere quanto prima il suo atlante, al quale mancavano solo le carte delle province del Magdalena e del Bolivar. Stando nella mia fattoria misurò una linea da sud a nord, e poi decise di spostarsi al pueblecito, che è il nome che qui danno a Espiritu Santo, dove lo accompagnai: giunti colà si aggravò. Corsi fino a Valledupar a chiamare il signor Pavajeau, che s’intende di medicina, ma quando tornai Codazzi era già stremato.” Tre giorni dopo la Colombia aveva perduto il suo misuratore...

Era il sette febbraio 1859. Di Codazzi possediamo diversi ritratti, alcuni eseguiti da artisti di pregio. Pochi di essi, tuttavia, sono così eloquenti come questa miniatura di Manuel Ancízar: Le lusinghiere parole con cui il Segretario [de Relaciones Exteriores], nel rapporto presentato al Congresso, si è espresso nei confronti del signor Codazzi, sono penetrate fino al cuore di quest’uomo così modesto e allo stesso tempo così savio, e lo hanno vieppiù convinto a dotare il nostro paese di un’opera che sia una testimonianza del suo sapere... Non abbastanza apprezzato, ed anzi perseguitato, in Venezuela, vedo con orgoglio che la Nuova Granada lo onora e lo rispetta come si merita un veterano delle scienze positive. Quando ricevetti [copia de] il rapporto, lo chiamai, e cominciai senz’altro a leggere la sezione ‘Comisión Corográfica’, osservando di sottecchi l’impressione che gli faceva la lettura. Il degno Colonnello ascoltava a testa bassa, accarezzandosi i baffi; la sua emozione aumentava gradualmente, e quando finii si alzò silenziosamente e se ne andò nella sua stanza. Il suo silenzio diceva molto, ed il fatto che si fosse ritirato diceva ancor di più. Dopo un po’ si udì la sua voce ringiovanita intonare canzoni apprese nell’esercito di Napoleone, la qual cosa, per il signor Codazzi, è la più alta manifestazione di gioia...


profilo biografico

262. A. Simons, Mappa della Sierra Nevadaz, 1881.

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postfazione

«Al Nome di Dio e così sia. L’anno della di Lui Nascita milleottocentodiecisette 1817, correndo l’Indizione V. sotto il Pontificato di S. Santità Papa Pio VII. P.O.M., il giorno Venerdì trenta del mese di Maggio essendovi tre lumi accesi perché passate le ore nove 9: pomeridiane all’uso oltramontano...»: è con questo preambolo che il notaio Marc’Antonio del fu Andrea Locatelli diede inizio alla stesura dell’atto di Donazione Propria a favore di Domenico Maria Codazzi da parte del figlio Agostino. La donazione riguardava le spettanze di legge di quest’ultimo sulla dote della defunta madre, Costanza Bartolotti, equivalenti a scudi 350. Era tutto ciò che Agostino – allora ventitreenne – possedeva, per cui la decisione di trasferire i propri diritti al padre (e di conserva alla matrigna e al fratello di secondo letto) era senz’altro generosa... oltre che doverosa. Anni prima, quando a suo dire era diciassettene, Agostino si era sottratto alla volontà paterna e alle proprie responsabilità. Benché Domenico avesse disposto che il figlio intraprendesse una carriera stabile e remunerata (cancelliere, scrivano o simili), questi aveva abbandonato la famiglia, privandola del proprio sostegno. Vi era un solo modo per rimediare alle promesse infrante e all’aiuto non prestato, ed era quello anzidetto. La donazione risale al maggio 1817. Tre anni prima – per l’esattezza il 17 giugno 1814 – il nostro eroe, mentre era ancora in forza al Reggimento di Artiglieria a Cavallo, aveva ottenuto dal proprio comandante, il maggiore Ferrari Grosio, un regolare permesso per recarsi a Lugo. Quivi giunto, aveva nominato procuratore legale il sacerdote Camillo Berardi, amico di famiglia, incaricandolo di amministrare in sua assenza tutto ciò che concerneva la sua porzione di dote. Agostino si accingeva a contravvenire per la seconda volta ai piani paterni, mettendo a repentaglio nuova-

mente le precarie economie domestiche. Nominare un procuratore era un modo di riassicurare il genitore circa le proprie intenzioni: se ne sarebbe andato alla ventura, è vero, ma nel cuore avrebbe serbato il proposito di tornare un dì in seno alla famiglia, e non a mani vuote. Tale procura era stata registrata dal medesimo notaio Locatelli in data 8 luglio 1814; dopo di che Codazzi era partito senza lasciare tracce: «Non fu appena stipulata la collegata Procura, che il Militare Sig. Agostino Codazzi si allontanò di nuovo dalla Patria sempre coll’animo di continuare la Carriera da lui intrapresa». Il padre non seppe più nulla di lui per molto tempo: «Malgrado che lo stesso [Agostino] assicurasse il Sig. Domenico Codazzi, di lui Genitore, non solamente di ragguagliarlo sullo stato suo di tempo in tempo, ma ancora di partecipargli, e dividere seco lui li frutti de’ suoi sudori, rimase infelice l’afflitto Genitore». Dall’atto notarile risulta che il silenzio di Agostino si protrasse fino al 22 maggio 1817, quando Domenico «recatosi a quest’uffizio Postale [di Lugo] potè riscuotere una lettera del figlio scritta in data d’Amsterdam delli ventiotto 28: Aprile prossimo passato». Attraverso la lettera il padre venne a sapere delle «disavventure e gli accidenti» avvenuti al figlio «in tutto il tempo di sua assenza»; non solo, ma allegato alla missiva, «ritrovò anco compiegato un viglietto del medesimo [Agostino] diretto al deputato suo Mandatario Sig. D. Camillo Berardi», contenente la disposizione di trasferire in donazione al genitore la sua quota di dote. Fin qui niente di nuovo, nondimeno una sorpresa ci attende. Dopo il preambolo citato, l’atto di donazione prosegue così: «Anelando il Sig. Agostino Codazzi di questa Comune di Lugo di seguire la Carriera Militare, e di spargere li suoi sudori per la difesa non


meno della Patria che dello Stato, sino dalli 28: Novembre 1812, abbandonò il paterno retaggio, e benché minorenne, pur per causa del volontario arruolamento divenne sui jurij giusta le disposizioni del cessato Codice Civile, in quell’epoca vigenti». ‘Retaggio’, in questo contesto, sta per ‘patria potestà’, ‘autorità morale’: come dire che Agostino, ancora minorenne, si sottrasse all’ubbidienza in virtù del diritto acquisito arruolandosi. Niente di strano neppure in questo... se non fosse per la data, data che diverge nettamente da quella stabilita non solo dai biografi bensì pure dallo stesso Codazzi nelle Memorie. Sebbene il nostro eroe ometta ogni riferimento al proprio addestramento militare, vale a dire, agli anni presumibilmente trascorsi nella Scuola Teoretico Pratica di Artiglieria di Pavia, da Mario Longhena in poi si è venuto affermando che il suo iter preparatorio ebbe una durata di tre anni (dal 1810 all’inizio del 1813, quando il reggimento di artiglieria a cavallo venne spedito in Germania). Fabio Zucca, in particolare, ha sostenuto convincentemente che detta fase propedeutica, fatta di corsi teorici di buon livello, costituisce un presupposto sine qua non della sua futura carriera scientifica. Nei tre anni trascorsi a Pavia, osserva lo studioso, Codazzi assimilò nozioni di calcolo, geometria, trigonometria ecc., che spiegano come in seguito potesse diventare topografo, cartografo e ingegnere. Tale congettura prende avvio da un noto brano delle Memorie: Entrai di 17 anni nell’artiglieria a cavallo e dovetti la mia ammissione in quel Reale corpo italiano all’in allora maggiore Armandi, giacché per la mia statura e giovinezza non sarei giammai entrato in un corpo scelto come quello.

La precisione è l’unica virtù richiesta ai notai, tuttavia, a quanto pare, a Locatelli venne a mancare. Infatti, la data in questione – 28 novembre 1812 – sembra erronea. Un lapsus calami? Al tremolante chiarore dei lumi, il segretario avrebbe potuto scrivere un numero al posto d’un altro. O un lapsus freudiano? Al dichiarante, l’emozionatissimo Domenico Codazzi, potrebbe essere venuta meno la memoria. O che cos’altro? La sorpresa consiste nel fatto che la data anzidetta – quantunque inammissibile – trova conferma in un altro punto dell’atto di donazione, lì dove si legge: «Dopo il lasso di anni 1 e mesi 8: e segnatamente sui primi giorni del mese di Luglio dell’anno milleottocentoquattordici 1814: fece rimpatrio lo stesso Sig. Agostino Codazzi qualificato Ajutante Sottotenente del Reggimento d’Artiglieria a Cavallo

Italiana attaccato allo Stato Maggiore della medesima». Orbene, se al novembre del 1812 aggiungiamo un anno e otto mesi otteniamo appunto il luglio del 1814: nessuna svista, dunque. Ciò che ne consegue è sconcertante: in primo luogo vorrebbe dire che il nostro eroe, nell’affermare di essersi arruolato diciassettenne, si ‘ringiovanì’ di due anni (il 28 novembre 1812 aveva diciannove anni suonati). Vorrebbe dire altresì che non seguì corsi pluriannuali a Pavia o altro centro di formazione lontano dalla ‘patria’. E per finire vorrebbe dire che alcune delle cose date per scontate in questo libro sono invece campate in aria (così come sarebbero infondate parecchie delle affermazioni o supposizioni dei biografi e degli studiosi di Codazzi, da Longhena a Zucca). Come si è visto ripetutamente nelle pagine anteriori, le Memorie non sono sempre attendibili: gli abbellimenti e le «favole combinate» sono anzi frequenti. Ma perché mai Codazzi avrebbe falsato la data di arruolamento? Per evidenziare la precocità dei propri bollori? Per elevarsi da comparsa ad attore? Comunque sia, se la data registrata nell’atto notarile fosse autentica, la carriera scientifica del nostro dovrebbe essere sottoposta a revisione: non le opere, ovviamente, che si ergono monumentali, solitarie e intoccabili, bensì le circostanze, i modi e i tempi che lo condussero sulla cima della geografia dell’Ottocento. Ci siamo convinti che fra i diciassette e i diciannove anni seguì studi preparatori seri e approfonditi, di livello quasi universitario, tali da spiegarne gli ammirevoli esiti a venire. Escludendo tale processo, saremmo obbligati a rimettere in gioco le nostre certezze e a ripensare il suo intero percorso formativo. Tuttavia, non è detto che non esista la forma di appianare le divergenze fra le date, o piuttosto, non è detto che la nostra angoscia – perché di questo si tratta – non sia l’effetto d’uno scherzo del caso. Come dicevo all’inizio, mi unisce a Codazzi una frequentazione ventennale. Anziché rendermi più indulgente, l’intimità ha inasprito il mio giudizio: nella misura in cui approfondivo la sua conoscenza e di pari passo cresceva la mia ammirazione, si faceva più critica la percezione della sua vicenda umana e più nitida la sensazione di inafferrabilità. Paradossalmente, le cose apprese nel corso di vent’anni hanno attenuato il mio iniziale livello di comprensione: ora sono meno certo di ciò che so di Codazzi di quanto non fosssi, diciamo, nel 1992. Per questo motivo, sarà meglio posare la penna e volgere lo sguardo all’orizzonte in fuga.


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Raccolte Documentarie a Stampa

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elenco delle illustrazioni

1. Lelio da Novellara (Lelio Orsi), Allegoria della Geografia, XVI sec., disegno, coll. priv. 2. Veduta della Sierra Nevada, litogr. da Anton Göring, in W. Sievers, Reise in der Sierra Nevada de Santa Marta, Berlin, 1887. 3. Anon., Ritratto di Costante Ferrari, ca. 1825, ripr. fotogr., Archivio Storico, Biblioteca Comunale di Imola. Orig. non local. 4. A. Appiani, Napoleone vittorioso, ca. 1796, acquerello, coll. Orsini Arte e Libri, Milano. 5. Pierre Moullart-Sanson, Emisfero Occidentale, 1702. 6. A. Appiani, Allegoria della Repubblica Cisalpina, ca. 1800, inc. 7. N. de Courteille, La Verité amène la République et l’Abondance,1793, olio su tela, Musée de la Revolution française, Vizille. 8. Pinelli-Pomares, Presa di Tarragona, 1816, inc. 9. Ufficiale dei granatieri dell’Esercito del Regno Italico, ca. 1820, inc. col. (rielaborazione digit.). 10. L. Beyer, Scena di bivacco, ca. 1815, inc., in Kriegscenen aus den Jahren 1813 bis 1815... 12 herrliche Skizzen von Leopold Beyer, coll. priv. 11. Anon., Assedio di Tarragona, ca. 1812, inc. col. 12. William Heath (da), Battaglia di Barrosa, 1813, acquatinta. 13. Honoré de Balzac, Les Marana, 1838. 14. Francisco Goya, “¿Qué hay que hacer más?”, Desastres de la guerra, 1810-1815, inc. 15. Francisco Goya, “Grande hazaña con muertos”, Desastres de la guerra, 1810-1815, inc. 16. Michele Sangiorgi, Orazio Coclite, ca. 1808, inchiostro e acquerello, coll. Opere Pie Raggruppate, Faenza. 17. Uccelli acquatici, litogr. da schizzo di Martius in C.F.P. von Martius, J.B. von Spix, Reise in Brasilien in den Jahren 1817 bis 1820 (“Atlas”), München, 1831. 18. Allegoria dei viaggi di esplorazione, inc., in Gemelli Careri, Voyages du tour du Monde, Paris, 1727. 19. Napoléon Bonaparte 1er Empereur des Francais, á Lyon chez Thibaudier, 1805, inc. col. 20. Proclama del maresciallo Bellegarde, 12 giugno 1814. 21. E.R. Moreau (da), Ritratto del generale Carlo Zucchi, litogr. 22. Bandiera della Repubblica Italiana, 1802-1805. 23. J.B. Bosio (da), Il Principe Eugenio Napoleone, ca. 1808, inc. 24. P.A. Hennequin (da), Allegoria della libertà dell’Italia, 1797, inc., Bibliothèque Nationale de France. 25. Codice Napoleonico, 1804. 26. Pio VII benedice Napoleone I, ca. 1805, inc. 27. R. Focosi, Milizie italiche in parata davanti a Napoleone, Milano 1797, inc. col., Tavole storico-pittoresche dell’opera del barone Alessandro Zanoli sulla milizia cisalpino-italiana 1796-1814, Milano, 1845. 28. F.-X. Fabre, Ritratto di Ugo Foscolo, 1813, dis., coll. priv. 29. L’eccidio del ministro Prina, stampa popolare ottocentesca. 30. A. Appiani, Ritratto di Amalia Augusta di Baviera, 1806-1807, olio, coll. priv. 31. Commiato di Napoleone I, Fontainebleau 31 marzo 1814, inc. coeva. 32. Ritratto del maresciallo von Bellegarde, ca. 1815, inc. 33. Le truppe alleate entrano a Parigi, marzo 1814, inc. coeva. 34. Ch. e C. Suhr, Tamburino dell’esercito italico, 1806-1815, ca.

1820, acquat. (© Markus Stein). 35. Ch. e C. Suhr, Uniformi dell’esercito italico, 1806-1815, ca. 1820, acquat. (© Markus Stein). 36. Ritratto di Giuseppe Compagnoni, inc. 37. Napoleone I imperatore di Francia e re d’Italia, inc. 38. R. Focosi, Rassegna delle truppe italiane, 1807, inc. col., Tavole storico-pittoresche dell’opera del barone Alessandro Zanoli sulla milizia cisalpino-italiana 1796-1814, Milano, 1845. 39. R. Focosi, Rassegna delle truppe italiane, 1812, inc. col., Tavole storico-pittoresche dell’opera del barone Alessandro Zanoli sulla milizia cisalpino-italiana 1796-1814, Milano, 1845. 40. Artiglieria a cavallo, esercito di Sassonia, 1813, inc. 41. Artiglieria a cavallo, esercito austriaco, ca. 1813, acquat. 42. Panoramica della battaglia di Lutzen, ca. 1814, acquat. 43. Panoramica della battaglia di Bautzen, ca. 1814, acquat. 44. L. Beyer, Soldati allo sbando, Kriegscenen aus den Jahren 1813 bis 1815... 12 herrliche Skizzen von Leopold Beyer, coll. priv. 45. Anon., Allegoria della fine della Republica Cisalpina (particolare), 1797, inc. col. (rielaborazione digit.). 46. L. Beyer, Soldati in marcia, Kriegscenen aus den Jahren 1813 bis 1815... 12 herrliche Skizzen von Leopold Beyer, coll. priv. 47. Veduta di Lugo e chiesa del Carmine nei primi anni dell’Ottocento, inc. 48. F. Guascone, Allegoria della Libertà, ca. 1797, olio. Cortesia Istituto Mazziniano - Museo del Risorgimento di Genova. 49. Repubblica di Genova, in Atlas Geographicus portabilis. 17601762. Inc. T.C. Lotter. 50. Proclama di Rimini, 30 marzo 1815, I. 51. Proclama di Rimini, 30 marzo 1815, II. 52. H. Goltzius, Orazio Coclite, 1586, inc. 53. H. Goltzius, Marco Valerio Corvo, 1586, inc. 54. Napoleone sbarca ad Antibes, 1 marzo 1815, litogr. col. da gouache di Ph.F. Reinhold. 55. Red Coat (Redcoat), seconda metà XVIII sec., inc. col. 56. T. Lawrence, Ritratto di Lord Castlereagh, 1809-1811, olio. 57. T. Lawrence (da), Ritratto di Richard Wellesley, inc. 58. Liberty, la Liberté: personificazione allegorica della Libertà, fine XVIII sec., inc. 59. Allegoria della Libertà, fine XVIII sec., inc. 60. L’Italia, carta geografica inglese, ca.1820. 61. Il Regno di Napoli, carta geografica inglese, ca.1820. 62. J.-A.-D. Ingres, Ritratto di Carlo Catinelli, Roma, 1816, dis., Museo Civico-Gorizia. 63. J.-A.-D. Ingres, Ritratto di Lord e Lady Bentinck, Roma, 1816, dis., coll. priv. 64. Ritratto di L. Caulaincourt, duca di Vicenza, inc. 65. Ritratto di Giocchino Murat, re di Napoli, inc. 66. Ritratto Klemens von Metternich, litogr. 67. F. Guascone, Allegoria della Repubblica Ligure tradita da Lord Bentinck, ca. 1815, olio. Cortesia Istituto Mazziniano - Museo del Risorgimento di Genova. 68. Il Congresso di Vienna, 1815, stampa coeva. 69. C.L. Desrais, La Paix de l’Europe, allegoria della restaurazione borbonica, 1814, stampa. 70. F. Valentin, La Francia addita al mondo i diritti dell’uomo, fine


XVIII sec., disegno. Fotogr. RMN. 71. Narrative of a voyage to the Spanish Main, London, 1819. 72. Illusrazione dal Candide di Voltaire, ed. 1778. 73. Monticelli-Gallina, Allegoria dell’America, 1820, inc. col., in G. Ferrario, Il costume antico e moderno, Milano, 1815-1824. 74. Toussaint Louverture a cavallo, 1802, inc. 75. L’addio agli esuli, prima metà XIX sec., stampa popolare. 76. L’infelicità dell’esule, inc., F.M. Trevisani, Le avventure di un esule volontario dalla patria, Napoli, 1823. 77. La partenza degli emigranti, inc. col., in Dr. Dietrich, Wohlgemuth’s Voyage to California, metà XIX sec. 78. Duplessis Berteaux, Indépendance des États-Unis, allegoria dell’indipendenza degli Stati Uniti, 1786, inc. col. 79. Ritratto del poeta P.-J. de Beranger, ca. 1820, litogr. 80. P.-P. Prud’hon, Allegoria della Repubblica, ca. 1793, dis., Musée de la Revolution Française de Vizille. 81. A. Borel (da), L’Amérique Indépendante (al centro ritratto di Benjamin Franklin), 1778, stampa. 82. P. Mortier, L’Oceano Atlantico o Mar del Nord, 1700. 83. Emigranti in attesa d’imbarco, metà XIX sec., stampa. 84. Emigranti sottocoperta, metà XIX sec., stampa. 85. A. Codazzi (attr.), Scena navale, affresco, Villa Serraglio, Massa Lombarda. 86. Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti, 4 luglio 1776. 87. Le Champ-d’Asile ou carte des establissements fondes dans l’Amerique Septentrionale par les Refugies Francais d’abord au Texas, et actuellemt au Tombechbe, 1819, inc. di Jean B. Tardieu. 88. J.F. Garneray (Yerenrag), Veduta del Champ-d’Asile, ca. 1820, acquatinta. 89. J.F. Garneray (Yerenrag), Veduta di Aigleville, ca. 1820, acquatinta. 90. Ritratto di A.M. du Plessis de Richelieu. 91. Ritratto di Thomas Jefferson. 92. La Dea della Saggezza dona la Costituzione agli Stati Uniti, 1815-1820, inc. di B. Tanner da J.J. Barralet. 93. Miss Liberty, allegoria, 1776, acquerello, coll. priv. 94. The Female Combatants, lotta per l’indipendenza americana, allegoria, dopo 1776, inc. col. 95. Ritratto di John Quincy Adams. 96. Ritratto di Henry Clay. 96 a. Omaggio del Nile’s Weekly Register ai patrioti sudamericani, Baltimora, 1817. 97. Anon., Personificazione di Cartagena de Indias o allegoria dell’ América Libre, olio su tavola, 1819. 98. G. Sanders (W.L. Leitch da), Ritratto di Lord Byron, acqu. 99. L. Beyer, Reduci di guerra, Kriegscenen aus den Jahren 1813 bis 1815... 12 herrliche Skizzen von Leopold Beyer, coll. priv. 100. P.J. Figueroa, Bolívar y la América niña, ca. 1820, olio, coll. Museo Finca de Bolívar, Bogotá. 101. La jura de Bolívar, ca. 1821, inc. col., coll. Museo Nacional, Bogotá. 102. Ritratto di Giuseppe Garibaldi corsaro, stampa. 103. H. Moll, Carta geografica della Virginia e Maryland, 1729. 104. Mappa topografica del porto di Baltimora, XVIII sec. 105. Stato di servizio del tenente colonnello Codazzi, 1822, Archivio Storico, Biblioteca Comunale di Imola. 106. Brigantino ottocentesco, stampa. 107. Varo della nave Demologos, stampa. 108. Allegoria dell’indipendenza messicana, litogr. 109. Francisco Xavier Mina, acquat. 110. W.D. Robinson, Memoirs of the Mexican Revolution, ecc., London, 1821. 111. A. Codazzi, Carta del Golfo del Messico e Mar dei Caraibi, in Memorie, Fondo Piancastelli, Biblioteca A. Saffi, Forlì. 112. C.N. Cochin (da), Marina et autres femmes donnés a Cortez, ca. 1745, inc., in A.F. Prévost, Histoire General des Voyages, Paris, 1746-1759. 113. L.F. Aubry (da), Sagesse et Confiance o Hernán Cortés libera una schiava azteca, ca. 1820, stampa. 114. Capanna degli indios Puris, in G. Ferrario, Il costume antico

e moderno, Milano, 1815-1824. 115. G. Henderson, An Account of the British Settlement ecc., London, 1811. 116. Veduta del Principato di Poyais, in T. Strangeways, Sketch of the Mosquito Shore, London, 1822. 117. T. Strangeways, Sketch of the Mosquito Shore, London, 1822. 118. Ritratto di Gregor MacGregor, principe di Poyais, inc. 119. La Liberté ou la Mort, Dichiarazione d’indipendenza di Haiti indigena, 1804. 120. Soldato indigeno, acquatinta, in G.H. Robinson, Journal of an expedition 1400 miles up the Orinoco ecc., London, 1822. 121. A.E.F. Mayer (da), Affondamento del vascello Vengeur du Peuple, litogr. 122. Fregata della US Navy, stampa ottocentesca. 123. B. Romans, Carta della Florida, Georgia e North Carolina, 1776. 124. Mappa della foce del fiume St. Marys, isola Amelia e porto di Fernandina, 1857. 125. Mappa dell’abitato di Fernandina, ca. 1810. 126. Frontespizio della Costituzione di Cadice, 1812. 127. Mappa spagnola della Florida, XVII sec., Archivo General de Indias, Sevilla, Archivos Estatales, Ministerio de Cultura. 128. Milizia coloniale spagnola (Florida), XVIII sec., AGI, Sevilla, AE, MC. 129. Ritratto di Pedro Gual. 130. Ritratto di William Thornton. 131. Milizie coloniali spagnole (granatiere e fuciliere bianco), fine XVIII sec., AGI, Sevilla, AE, MC. 132. Milizie coloniali spagnole (mulatto e nero), fine XVIII sec., AGI, Sevilla, AE, MC. 133. Mappa della Georgia e Florida settentr., inizio XIX sec. 134. Veduta del molo di Fernandina (Isola Amelia), inizio XIX sec., litogr. 135. Ritratto di Louis-Michel Aury, schizzo, in Aury’s Papers, Austin University. 136. Patente corsara emessa dal governo della Colombia, ca. 1821, Museo Nacional, Bogotá. 137. Schiavo ribelle (maroon o cimarrón), in J.G. Stedman, Narrative, of a Five Years’ Expedition, Against the Revolted Negroes of Surinam, in Guiana, London, 1792. 138. Leonard Parkinson, capitano dei Maroons, in The Proceedings of the Governor and Assembly of Jamaica, in regard to the Maroon Negroes, 1837. 139. Proclama di Louis Aury con l’annuncio dei risultati elettorali, 27 nov. 1817, Archivo General de la Nación, Bogotá. 140. Mappa spagnola dell’Isola Amelia (Amalia), ca. 1810, AGI, Sevilla, AE, MC. 141. J.M. Vien, Trionfo della Repubblica, 1793, dis., Musée du Louvre, Dep. des Arts Graphiques. 142. Barbi-Marbois (da), Ercole incarna l’Unione, 1784, inc. 143. “Non siamo sudditi di nessun re”, stampa popolare ottocentesca. 144. Bandiera di Louis Aury (Marina delle Provincias Unidas de Buenoa Ayres y Chile), 1818, AGI, Sevilla, AE, MC. 145. Bando elettorale stampato a Fernandina, isola Amelia, 1817. 146. Riviere d’or avec des esclaves, inc., in Anon. (Duret), Voyage de Marseille a Lima, ecc., Paris, 1720. 147. Frontespizio della Geografia di Tolomeo, 1597. 148. M. Ayres de Casal, Corografia Brazilica ou relaçao historicogeografica do Reino do Brazil, Rio de Janeiro, 1817. 149. Theodorus de Bry, Americae Pars IV, 1594. 150. Lallemand, Roemhild, Tavola comparativa delle montagne e dei fiumi, acquat., 1826. 151. Esploratore europeo in Amazzonia, litogr., in Spix-Martius, Reise in Brasilien in den Jahren 1817 bis 1820, 1829. 152. Schiava nera incatenata, 1825, illustrazione di una poesia antischiavista di William Cowper (“I would not have a slave”). 153. Mappa del basso corso dell’Atrato e regione del Darién, XVIII sec., AGI, Sevilla, AE, MC.


154. O. Roth von Holzstich, Humboldt e Bonpland nella foresta vergine dell’Orinoco, 1870, Bildarchiv Preussischer Kulturbesitz, Berlin. 155. Mappa del Golfo del Darién e regione del Chocó, XVIII sec. AGI, Sevilla, AE, MC. 156. Mappa del corso del fiume Atrato, XVII sec., AGI, Sevilla, AE, MC. 157. Carta Corografica della Provincia di Popayán, XVIII sec., AGI, Sevilla, AE, MC. 158. John Trautwine, Veduta del Darién, in Rough notes, Exploration for an Inter-Oceanic canal route ecc., Philadelphia, 1854. 159. Ritratto di Lord Cochrane, ca. 1820. 160. Ritratto di John Illingworth, ca. 1820. 161. Bandiera da guerra della Nuova Granada, ca. 1819-1820, AGI, Sevilla, AE, MC. 162. Combattente della battaglia di Boyacá, dopo 1820, acquerello, Museo Nacional, Bogotá. 163. Guerriera Yurimagua, inc. col., in J. Skinner, Present state of Perú, London, 1805. 164. J. Trautwine, Veduta del Darién-Chocó, 1851, in Rough notes, Exploration for an Inter-Oceanic canal route ecc., Philadelphia, 1854. 165. J. Trautwine, Veduta del fiume Atrato, 1851, in Rough notes, Exploration for an Inter-Oceanic canal route ecc., Philadelphia, 1854. 166. A. Codazzi, Mappa del Chocó (particolare), in Memorie, Fondo Piancastelli, Biblioteca Comunale A. Saffi, Forlì. 167. A. Codazzi, Mappa del Chocó (particolare), in Memorie, Fondo Piancastelli, Biblioteca Comunale A. Saffi, Forlì. 168. A. Codazzi, Schizzo del bacino fluviale Atrato-Quito, 1853, Fondo Cora, Biblioteca Nazionale Universitaria, Torino. 169. A. Berg, Scena fluviale (Río Magdalena), litogr., in A. Berg, Physiognomie der tropischen Vegetation Süd-Amerika, Berlin, 1853. 170. A. Codazzi, Carta preparatoria regione Darién-Chocó, 1853, Fondo Cora, Biblioteca Nazionale Universitaria, Torino. 171. Scena fluviale con viaggiatore o le gole delle Amazzoni, in Histoire de l’Académie de Sciences, Paris, 1745. 172. Personificazione della Castiglia dell’Oro, inc., XVII sec. 173. Porto di Acla sull’Atlantico e Golfo di San Miguel sul Pacifico, mappa spagnola, XVII sec, AGI, Sevilla, AE, MC. 174. T. de Bry, Balboa castiga gli indios sodomiti, Americae Pars IV, 1594. 175. T. de Bry, Balboa riceve oro dagli indios, Americae Pars IV, 1594. 176. Ritratto di Francis Drake, inc. 177. Veduta immaginaria di Nombre de Dios, XVII sec., inc. 178. Mappa spagnola del porto di Nombre de Dios, XVI sec., AGI, Sevilla, AE, MC. 179. Carta geografica spagnola dell’istmo del Darién-Panamá, XVIII sec., AGI, Sevilla, AE, MC. 180. B. Antonelli, Fortificazioni di Portobello, ca. 1590, AGI, Sevilla, AE, MC. 181. B. Antonelli, Disegni di fortificazioni, ca. 1600, AGI, Sevilla, AE, MC. 182. Presa della città di Panamá, incisione secentesca. 183. Henry Morgan, inc., in C. Johnson, A history of the lives and exploits of the most remarkable pirates ecc., Birmingham, 1724. 184. Indigeni del Darién, inc., in T. Salmon, The present state of all nations, XVIII, London, 1736. 185. J. de Acosta, Historia Natural y Moral de las Indias, 1590. 186. Mappa spagnola della Provincia del Darién, 1782, AGI, Sevilla, AE, MC. 187. T. Jefferys, Carta dell’Istmo di Panamá, 1762. 188. Ritratto di Simón Bolívar. 189. Ritratto di Wolfgang Goethe. 190. J. Gast, Allegoria del Destino Manifesto, ca. 1872, Library of Congress. 191. A. Codazzi, Carta corografica della regione Darién-Panamá

(Estado de Panamá), in M.M. Paz, Atlas Geográfico e Histórico de la República de Colombia, 1890. 192. Mappa della baia di Caledonia (o Nuova Caledonia), 1699, ad uso dei coloni scozzesi che si stabilirono sulla costa del Darién. 193. La spedizione del Darién s’incammina, 1854, litogr. 194. Veduta di Panamá, fine XIX sec., litogr. 195. A. Codazzi, Carta preparatoria della regione di Panamá (Chiriquí), Fondo Cora, Biblioteca Nazionale Universitaria, Torino. 196. Costruzione del canale di Panamá, stampa, fine XIX sec. 197. Coloni europei nell’America tropicale, stampa ottocentesca. 198. Imbarco di emigranti nel porto di Le Havre, stampa ottocentesca. 199. A. Codazzi, Mappa della valle del fiume Tuy, 1841, inc. a stampa allegata al rapporto sul sito della Colonia Tovar. 200. Mappa del paese di Cuccagna, 1606, inc. col. 201. A. Codazzi, Carta geografica degli Estados Unidos de Colombia (postuma),1864, Biblioteca Comunale “Trisi”, Lugo. 202. M.M. Paz, Donna indigena del Caquetá, 1856, acquerello, Fondo Cora, Biblioteca Nazionale Universitaria, Torino. 203. M.M. Paz, Indigeno del Caquetá, 1856, acquerello, Fondo Cora, Biblioteca Nazionale Universitaria, Torino. 204. Stemma della Confederación Grenadina,1858, in A. Airiau, Carte Géographique pour servir a l’étude du canal Interocéanique ecc., Paris, 1859. 205. M. Tallis, Carta della Nuova Granada, Venezuela, Ecuador e Guaiane, 1851. 206. F. Pérez, Jeografía Física y Política ecc., 1862. 207. T.C. de Mosquera, Memoria sobre la Geografía ecc., 1852. 208. C. Empson, Veduta della Nuova Granada, in C. Empson, Narratives of South America, London, 1836. 209. C. Empson, Veduta della Nuova Granada: i tre ghiacciai, in C. Empson, Narratives of South America, London, 1836. 210. A. Berg, Veduta del vulcano del Tolima, 1853, litogr., in A. Berg, Physiognomie der tropischen Vegetation Süd-Amerika, Berlin, 1853. 211. Viaggiatore europeo sulle Ande della Nuova Granada, in C.S. Cochrane, Journal of a residence and travels in Colombia ecc., London, 1825. 212. Vegetazione tropicale, in M. von Thielmann, Vier Wege durch Amerika, Leipzig, 1879. Disegno orig. di A. Berg. 213. ‘A lomo de indio’, portatore andino, in J.P. Hamilton, Travels through the interior provinces of Colombia, London, 1827. 214. Navigazione del fiume Napo, in G. Osculati, Esplorazione delle regioni equatoriali lungo il Napo ecc., Milano, 1854. 215. Villaggio sulla sponda del fiume Napo, in G. Osculati, Esplorazione delle regioni equatoriali lungo il Napo ecc., Milano, 1854. 216. Modo di superare i precipizi andini, in J.P. Hamilton, Travels through the interior provinces of Colombia, London, 1827. 217. Allegoria dell’America, fine XVI sec., inc. inglese. 218. F. Bellermann, Colonia Tovar, 1843, studio ad olio, Kupferstichkabinett, Berlin. 219. F. Bellermann, Studio di vegetazione tropicale, ca. 1840, dis., Kupferstichkabinett, Berlin. 220. F. Bellermann, Studio di vegetazione (valle del Tuy), ca. 1843, dis., Kupferstichkabinett, Berlin. 221. F. Bellermann, Valle del Tuy, ca. 1843, studio ad olio, Kupferstichkabinett, Berlin. 222. Emigranti verso l’America, prima metà XIX sec., stampa popolare. 223. Ritratto di Agostino Codazzi. Dagherrotipo (?), ca. 1842, Fondo Piancastelli, Biblioteca A. Saffi, Forlì. Ritenuto da M. Longhena copia di un ritratto ad olio della Bibl. Trisi di Lugo, oggi scomparso. 224. Le soldat laboureur, 1822. 225. Les Moissonneurs de la Beauce, 1821. 226. Soldato contadino, prima metà XIX sec, stampa popolare. 227. Quinzio Cincinnato obbedisce al richiamo della Patria, prima metà XIX sec, inc. 228. Veterani della Grande Armée costruiscono il Champ d’asile, ca. 1820, acquatinta, J.F. Garneray (Yerenrag). 229. Horace Vernet, Le soldat laboureur, 1820, olio.


230. P.R. Vigneron, Ritratto di Agostino Codazzi, 1822, dis. Orig. non localizzato. 231. Carta geografica di Cuba e Mar dei Caraibi, XVII sec. 232. Ritratto di Joanna, inc. di C. Dall’Acqua da schizzo di J.G. Stedman in The Narrative of a Five Years Expedition against the Revolted Negroes of Surinam, London, 1792. Ed. italiana 1818. 233. Cenno biografico sul cavaliere Costante Ferrari, ms, 1825, Archivio Storico, Biblioteca Comunale di Imola. 234. Anon., The Iniquity of the Slave Trade, panfletto a stampa, 1830. 235. F. Bartolozzi, Ritratto di John Gabriel Stedman, 1818, in The Narrative of a Five Years Expedition against the Revolted Negroes of Surinam. 236. Joanna e il capitano Stedman nella loro casetta, in Narrative of Joanna, an Emancipated Slave of Surinam, Boston, 1838. 237. Il capitano Stedman abbandona Joanna, in Narrative of Joanna, an Emancipated Slave of Surinam, Boston, 1838. 238. Ritratto di Agostino Codazzi, replica fotografica. 239. C. Fernández, Ritratto di Agostino Codazzi, 1832. 240. A. Codazzi, Mappa topografica del golfo di Maracaibo, ca. 1828, Academia Nacional de la Historia, Caracas. 241. Ritratto del generale José Antonio Páez. 242. C. Férnánez, Ritratto di Agostino Codazzi, 1842, litogr. 243. P.R. Vigneron, Ritratto di Agostino Codazzi, 1842, olio, Instituto Geográfico Agustín Codazzi, Bogotá. 244. C.D. Friedrich, Viaggiatore su un mare di nubi, 1818, Hamburger Kunsthalle. 245. C. Fernández, Frontespizio allegorico dell’Atlas de Venezuela, 1841. 246. R. Torres Méndez (attr.), Ritratto del generale Codazzi, ca.

1855, Museo Nacional, Bogotá. 247. A. Codazzi, Esposición a la Diputación Provincial ecc., 1847. 248. M.M. Paz (attr.), Ritratto del generale Codazzi, litogr., in Atlas Histórico e Geográfico de la República de Colombia, 1890. 249. R.Torres Méndez, Ejército del Norte, litogr., Museo Nacional, Bogotá. 250. A. Codazzi, Carta corografica della Provincia di Socorro, Archivo General de la Nación, Bogotá. 251. Agostino Codazzi, dagherrotipo, ca. 1857. 252. Agostino Codazzi, ritratto fotografico ritoccato. 253. C. Martínez, Ritratto di Agostino Codazzi. Originale non localizzato. 254. L’Italia dopo il Congresso di Vienna, prima metà XIX sec. 255. A. Codazzi, Mappa dell’isola della Vecchia Provvidenza, Fondo Piancastelli, Biblioteca Comunale “A. Saffi”, Forlì. 256. A. Codazzi, Mappa del golfo Dolce e baia dell’Honduras, 1825, in Memorie, Fondo Piancastelli, Biblioteca Comunale “A. Saffi”, Forlì. 257. A. Codazzi, Carta fisica del Venezuela, in Atlas físico y político de la República de Venezuela, Caracas, 1840. 258. Santiago Matamoros castiga gli indios, inc. a stampa, in Antonio de Herrera, Historia general de las Indias Ocidentales, III, Madrid, 1728. 259. A. Codazzi, Provincia di Caracas, in Atlas físico y político de la República de Venezuela, Caracas, 1840. 260. A. Codazzi, Mappa della regione di Barinas, 1847, coll. A. Parra Dávila, Mérida. 261. A. Codazzi, Carta corografica della regione di Velez, 1851, Archivo General de la Nación, Bogotá. 262. A. Simons, Mappa della Sierra Nevada, 1881.

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indice dei nomi

Acosta, Joaquín, 163, 169, 170, 174, 175. Acosta, José de, 199. Airiau, Athanase, 225, 226, 230. Albufera, duca di (Suchet), 16. Alessandro I di Russia, 37, 98, 284. Aliaga, Luis, 290. Amalia Augusta di Baviera, 29, 40, 41. Ancízar, Manuel, 12, 78, 157, 213, 221, 279, 282, 290, 296, 301. Antonelli, Bautista e Juan Bautista, 194, 195. Arismendi, Juan Bautista, 146. Aristotele, 108. Armandi, Pier Damiano, 50, 52, 53, 57, 247, 248, 252, 280, 282, 288. Arratachagui, Gabriel, 167. Augereau, Charles Pierre François, 279. Aury, Louis Michel, 92, 107, 108, 116, 117, 118, 130, 131, 132, 137, 138, 142, 143, 144, 145, 146, 147, 148, 149, 150, 151, 152, 153, 154, 164, 171, 172, 175, 254, 255, 256, 286, 288, 296. Bachelard, Gaston, 161. Balathier, Eloi Charles, 51. Balboa, Vasco Nuñez de, 185, 186, 188, 190. Balzac, Honoré de, 16, 20, 21, 22, 23. Baracca, Francesco, 9. Barclay de Tolly, Michael Andreas, 53, 282. De las Casas, Bartolomé, 189. Bathurst, Lord Henry, 72, 73. Beauharnais, principe Eugenio, 29, 30, 31, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 47, 283, 292. Beauharnais, Giuseppina, 37, 283. Beauharnais, Teodolinda, 40. Bellegarde, Heinrrich Johann von, 29, 31, 38, 41, 42, 43, 58. 73, 74. Benoist, M.-G., 257. Bentinck, Lord William, 11, 46, 57, 60, 61, 62, 63, 64, 65, 66, 69, 70, 71, 72, 73, 74, 75, 283. Benzoni, Girolamo, 189, 190, 195. Béranger, Jean de, 86, 89. Bernard, capitano, 114, 129, 130, 131, 132. Berthelot, Sabin, 239. Bertrand, Henri, 50. Bignami, Maddalena, 40. Bianchi, capitano, 21, 22, 23. Bianchini, Domenico, 12, 16, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 67 Bidasio, Ruggero, 52, 53. Blake, William, 257. Boarel, locandiere, 94, 95, 97. Bolivar, Simón, Libertador, 9, 11, 92,93, 104, 108, 109, 110, 113, 119, 124, 131, 132, 144, 165,171, 173, 202, 203, 249, 285, 286, 288, 290. Boussingault, Jean-Baptiste, 274. Brecht, Bertolt, 10, 164. Brisbane, Albert, 216. Bulow, Friedrich Wilhelm Freiherr von, 282. Buonaparte, Giuseppe, 80, 81, 95, 96, 111, 285. Buonaparte, Napoleone, 9, 11, 14, 29, 32, 35, 36, 38, 41, 43, 45,

47, 48, 50, 54, 58, 64, 65, 66, 68, 69, 70, 71, 72, 73, 77, 79, 83, 94, 86, 96, 117, 137, 143, 249, 279, 282, 283, 301. Byron, Lord George, 11, 66, 106, 254, 288. Caballero, Beatriz, 245, 246, 264. Caballero y Góngora, Antonio, 163, 164, 168, 176. Cabet, Etienne, 236. Camões, Luis de, 121. Cancino, José María, 171, 173, 175, 202, 286. Candido (personaggio), 79. Carlyle, Thomas, 10. Caraffolli, tenente, 53. Caravegna, Giambattista, 57. Carletti, Francesco, 192, 193, 194, 195, 198. Carlo III di Borbone, 200. Carlo IV di Borbone, 117. Carrasquel, José del Carmen, 296, 301. Carrera, José Miguel, 95. Casal, Manuel Aires de, 159. Castelli, Carlo Maria Luigi, 93, 217, 261. Castlereagh, Robert Stuart visconte di, 65, 66, 72, 73, 74. Catinelli, Carlo, 69, 70. Caulaincourt, Armand de, duca di Vicenza, 68, 69, 70. Cerezo, Rafael Antonio de, 167. Chauvin, Nicholas, 247. Christophe, Henri, 81. Cincinnato, 247, 248, 250, 262. Clay, Henry, 100, 101, 102. Clarke, Jorge, 133. Claudio Tolomeo, 108, 158, 159. Cochrane, Charles Stuart, 226, 228, 230, 231, 232, 235. Cochrane, Lord Thomas, 119, 171, 172, 286. Codazzi, Constanza, 54. Codazzi, Domenico, 81, 94, 279, 283, 303. Codazzi, Domingo, 296. Codazzi, Giannetta, 276. Codazzi, Lorenzo, 296. Colleoni, sergente capopezzo, 52. Colletta, Pietro, 60. Compagnoni, Giuseppe, 45, 46, 49. Confalonieri, Federico, 39. Consalvi, card. Ercole, 54. Coppinger, José, 133. Coraccini, Federico, 32, 35, 36, 37, 40. Costantino, Gran Duca, 284. Crawford, William, 143. Cristoforo, capo dei Negri, 81, 284. Cristoforo Colombo, 108, 141, 185, 186, 195, 245. Cuervo, Antonio, 218. Cullen, Edward, 205, 206, 207, 208, 298, 299. Dampier, William, 197, 199. Darnay, Antoine, 37, 43. De Clemente, Lino, 113, 135, 136. Delfini, sergente capopezzo, 52. De Laugier, Cesare, 46, 49, 67. Drake, Francis, 190, 191, 192.


Dumas, Alexandre, 111. Duperré, Guy-Victor, 129. Du Plessis de Richelieu, Armand, 98, 99, 106. Eckermann, Johann Peter, 203. Écouchard-Lebrun, P.D., 129. Edwards, Bryan, 125, 126. Ekhardt, Ludwig Freiherr, 59. Elisabetta I d’Inghilterra, 190. Elton, John, 130, 131. Etzler, John Adolphus, 230, 231. Farini, Domenico Antonio, 63, 64. Fauriel, Claude, 39. Ferdinando VII di Spagna, 98, 117, 135. Ferdinando il Cattolico, 185, 186, 188. Fernández, Carmelo, 246, 260, 261, 263, 267, 274, 276, 296. Fernández de Hoz, Araceli, 256, 274, 290, 298, 299. Fernández de Oviedo, 186. Ferrari, Augusto, 23. Ferrari, caposquadrone, 53, 58. Ferrari Grosio, maggiore, 303. Fidalgo, Joaquín Francisco, 168. Filippo II di Spagna, 192, 195, 199. Fontanelli, Achille, 47, 52, 282. Foscolo, Ugo, 38, 39, 40, 42, 49, 82. Francesco d’Austria Este, 71, 72. Francisco, Francesco, servitore, 247, 252, 254. Friedrich, Caspar David, 266. Fulton, Robert, 115. Galilei, Galileo, 10, 164. Garibaldi, Giuseppe, 86, 111, 113, 118. Gemelli Careri, Giovanni Francesco, 5. George Frederic Augustus, 123, 124, 126. Giorgio, re dei Mosquitos, 122, 123. Giorgio IV d’Inghilterra, 71. Gisborne, Lionel, 206, 207, 208, 299. Goethe, Wolfgang, 203. Grenier, Paul, 29, 43. Gros, Jean Antoine, 246. Groot, José Manuel, 197. Gual, Pedro, 113, 114, 115, 130, 131, 137, 150, 151. Guerra Anzola, Ramón, 296. Guicciardi, Diego, 37. Hall, Francis, 232, 234, 235, 240. Hamilton, John Potter, 231, 232. Hayes, Rutherford, 204. Hegel, Georg Frederick, 10, 235, 240. Henderson, George, 122, 123. Henri, 90. Hirvin, Irvine, cap., 132,133, 146, 149, 150. Holton, Isaac, 276. Homans, Benjamin, 142. Hubbard, Ruggles, 142, 143, 146. Hügel, Clemens von, 42. Humboldt, Alexander von, 117, 159, 165, 166, 167, 168, 169, 175, 176, 201, 202, 203, 205, 206, 231, 239, 245, 264, 274, 299. Hyde de Neville, Jean Guillaume, 98, 99, 106. Illingworth, John, 169, 172, 173, 174, 175, 181. Jefferson, Thomas, 85, 86, 99, 100, 138. Joanna, schiava mora, 256, 257, 258, 260. Kellermann, François Etienne, 50. Kelley, Frederick, 182. Kirkland, colonnello, 202, 203. Laborde, Angel, 288. Lallemand, Charles, 81, 84, 95, 96, 97. Lallemand, Henri Dominique, 95, 97. Lamartine, Alphonse de, 68. Lane, esploratore, 208. Laval-Montmorency, 98. Leonida, eroe greco, 24. Leopardi, Giacomo, 9, 45, 266.

Liévano, Indalecio, 296. Locatelli, Marc’Antonio, 303. López, José Hilario, 217, 220, 221, 223, 270, 271, 272. López de Velasco, 194. López García, José, 175, 176. Llorente, Tomás, 133, 134. MacGregor, Gregor, 105, 108, 122, 124, 126, 132, 133, 134, 135, 136, 137, 138, 139, 140, 141, 142, 146, 216. Machado, Antonio, 157. Madison, James, 99, 138, 139, 141. Magnani, Domenico, 282. Mamelucco, Mammalucco, servitore, 247, 254. Manzoni, Alessandro, 32, 39. Marco Valerio Corvo, 63. Marianna, simbolo, 67, 80, 86, 246. Marshall, 133. Martel, Philip-André, 51. Martínez, Celestino, 276. Massimiliano I di Baviera, 41, 43. Mathews, George, 141. Mazzini, Giuseppe, 111. Méjan, Etienne, 37. Mellet, Jullien, 166, 176. Melville, Herman, 203. Melzi d’Eril, Francesco, 38. Metternick, Klemens principe di, 65, 68, 73, 74, 75. Micca, Pietro, 20. Michelena, Juan Antonio, 274. Michler, Nathaniel, 178, 181. Millo, Gaetano, 29, 47, 53. Mina, Francisco Xavier, 92, 116, 117, 118, 132. Mollien, Theodore, 163, 165, 176. Mónagas, José Tadeo, 296. Monroe, James, 100, 101, 138, 140, 141, 151, 152, 153, 207. Moore, Tyrrel, 298. Morales, Francisco, 139, 140. Morgan, Henry, 196, 197, 286. Morrell, Benjamin, 202. Mosquera, Miguel, 299. Mosquera, Tomás Cipriano de, 173, 174, 213, 221, 222, 223, 224, 225, 226, 296, 299. Murat, Gioacchino, 30, 46, 54, 57, 58, 61, 62, 63, 64, 70, 75. Murden, John, 151. Neri, caposquadrone, Ney, Michel, 50, 282. Nichols, Philip, 190. Nugent, Laval Graf, 59. 61. Onís, Pedro de, 153. Orazio Coclite, eroe romano, 24, 63. Orsatelli, Eugenio, 16. Ospina, Mariano, 301. Owen, Robert, 236. Oxenham, John, 190, 196. Páez, José Antonio, 217, 261, 262, 267, 268, 288, 290. Pangloss, 50, 79, 80, 126, 249. Paredes, Victoriano, 213. Pavajeau, 301. Paz, Manuel María, 222, 274, 276, 296, 301. Paz, Octavio, 252. Pazos, Vicente, 146, 151. Pedrotti, Luigi, 21. Perazzo, Nicolás, 282. Pérez o Pesca, Antonio, 176. Pérez, Felipe, 222, 223, 224. Pérez, Santiago, 181, 296. Persat, commandant Maurice, 114, 129, 130, 131, 132, 142, 143, 144, 146, 147, 153. Peyri, Luigi, 47, 50, 51, 52, 280, 282 Picault, 129. Pietro Martire d’Anghiera, 186, 188, 195.


Pino, Domenico, 31, 44. Pombo, José Ignacio de, 175. Ponce, Manuel, 222, 296. Porter, esploratore, 208. Poussin, Nicolas, 158. Prevost, John O., 207. Prina, Giuseppe, 38, 39. Publilio Siro, 83. Quincy Adams, John, 100, 101, 102, 144, 153. Quintero, Ángel, 292. Rafter, Michael, 107. Rattenbury, J.F., 106, 144, 146. Raveneau de Lussan, 198. Rilke, Rainer Maria, 91, 160. Rolando, paladino di Francia, 20. Rondizzoni, Giuseppe, 93, 95. Rossi, Valentino, 49. Rowley, Josias, 69. Rush, Richard, 139. Saint-Cyr, Laurent de, 16. Samper, José María, 77, 86, 318, 219, 220, 276. San Martin, José de, 171. Sant’Andrea, Giuseppe Thaon di Revel, 50, 51, 52, 282. Schomburgk, Robert Hermann, 274 Schumacher, Hermann A., 164 Serrell, Edward W., 208. Skinner, John Stuart, 138. Soublette, Carlos, 217, 268, 270, 292, 294. Stedman, John Gabriel, 256, 257, 258, 260. Stedman, Johnny, 258, Stephenson, Robert, 173. Strain, Isaac, 207, 208.

Strangeways, Thomas, 124, 125, 126. Striffler, Louis, 301. Studer, 90. Suchet, Louis Gabriel, 16. Tascher de la Pagerie, conte, 29, 48. Testa, Innocenza, 254. Thompson, Martin, 113, 135. Thornton, William, 139, 151. Thornton Posey, 139. Torres Méndez, Ramón, 274. Trautwine, John, 170, 174, 177, 178, 181, 182, 208. Trespalacios, Oscar, 301. Ulisse, eroe omerico, 283. Valdés, Miguel, 286. Vargas Machuca, 194. Vasco de Gama, 121. Verna, capitano, 52, 53. Vernet, Horace, 249, 250. Vicuña Mackenna, Benjamín, 172. Villaret, Gustave, 105, 107, 110, 113, 114, 129, 130, 131, 286. Vigneron, Pierre-Roch, 245, 246, 249, 250, 252, 254, 258, 260, 262, 263, 264, 266, 268, 274. Voltaire, 79. Vowell, Richard, 144. Wafer, Lionel, 191, 199, 200. Washington, George, 101, 102. Wayne, Thomas, 142. Weatherhead, W.D., 106, 107. Wellesley, Richard, 66, 68, 71, 72, 73. Wood, capitano, 174. Yribarren, José de, 139, 140. Zucchi, Carlo, 31, 280.


indice generale

prefazione

p.

5

(Anteprima)

9

bell’italo regno

29

fumo di patria

57

sapore di repubblica

77

america libre

105

il ratto di amelia

129

stretta è la soglia

157

lunga è la via

185

un posto al sole

213

ritratto parlato

245

profilo biografico

279

postfazione

303

bibliografia

305

elenco delle illustrazioni

310

indice dei nomi

314

la molla occulta





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