Ecco l’elenco delle librerie dove si può trovare il bianco e il rosso GUTEMBERG - Via Caniggia - Alessandria FELTRINELLI - C.so Garibaldi, 35 - Ancona FELTRINELLI - Via Dante, 91 - Bari FELTRINELLI c/o DADAUMPA - Via Milazzo - Bologna FELTRINELLI - P.za Ravegnana, 1 - Bologna MURRU - Via S. Benedetto, 12/C - Cagliari LA CULTURA - P.za V. Emanuele - Catania ASS. CULTURALE - P.za Roma, 50 - Como FELTRINELLI - Via Garibaldi, 30/A - Ferrara FELTRINELLI - Via dei Cerretani, 30 - Firenze EDISON GIUBBE ROSSE - P.za della Repubblica - Firenze FELTRINELLI - Via P.E. Bensa, 32 - Genova FELTRINELLI - Via XX Settembre, 233 - Genova ADEL - C.so Cavour, 44 - La Spezia LIBRERIA DELL’ARCO - Via Ridola, 36 - Matera HOBELIX - Via dei Verdi, 21 - Messina FELTRINELLI - P.za XXVII Ottobre - Mestre FELTRINELLI - Via Manzoni, 12 - Milano FELTRINELLI - Via Santa Tecla,5 - Milano FELTRINELLI - Via Paolo Sarpi, 15 - Milano UNICOPLI - Via R. Carriera, 11 - Milano FELTRINELLI - Via C. Battisti,17 - Modena FELTRINELLI - Via S. T. D’Aquino, 70 - Napoli GUIDA PORTALBA - Via Port’Alba - Napoli GIORDANO BRUNO - Corso Vitale - Nola LIBRERIA DEI SETTE - C.so Cavour, 85 - Orvieto FELTRINELLI - Via Maqueda, 395 - Palermo FELTRINELLI - Via della Repubblica, 2 - Parma FELTRINELLI - Via S. Francesco, 7 - Padova FELTRINELLI - C.so Umberto,5 - Pescara SIMONELLI - C.so Vannucci, 82 - Perugia L’AIRONE - Via Oberdan, 52 - Perugia L’ALTRA - Via Rocchi, 3 - Perugia FELTRINELLI - C.so Italia, 50 - Pisa LA RIVISTERIA - P.za XX Settembre, 23 - Pordenone RINASCITA - Via IV Novembre, 7 - Ravenna MOBY DICK - Via XX Settembre, 5 - Faenza VECCHIA REGGIO - Via E. S. Stefano, 2/ F - Reggio Emilia LIBRERIA DEL TEATRO - Via Crispi, 6 - Reggio Emilia FELTRINELLI - Via V. E. Orlando, 78 - Roma FELTRINELLI - L.go di Torre Argentina, 5 - Roma INTERNAZIONALE - Via Tomacelli, 144 - Roma RINASCITA - Via delle Botteghe Oscure, 1 - Roma GALILEO GALILEI - Via C. Segre, 15 - Roma MONTECITORIO LIBRI - Via della Guglia - Roma BIBLI - Via dei Fienaroli, 28 - Roma FELTRINELLI - P.za Barracano, 3 - Salerno LA MIA LIBRERIA - Via Landinelli, 34 - Sarzana 100 FIORI - Via Ghiglieri, 1 - Finale Ligure FELTRINELLI - Via Banchi Di Sopra, 64 -Siena DICKENS - Via Medaglie D’Oro, 29 - Taranto COMUNALE - Via Bogino, 2 - Torino LA RIVISTERIA - Via S. Virgilio, 23 - Trento TARANTOLA - Via V. Veneto, 20 - Udine RINASCITA - C.so Porta Borsari, 32Verona GALILEO - Via Poerio, 11 - Mestre
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Ricordiamo che se qualcuno fosse a conoscenza di librai interessati a vendere la rivista bisogna che ci comunichi nominativo e numero di telefono: saremo noi poi a contattarli per concordare modalità e tempi per la distribuzione. Grazie.
S O M M A R I O ADESSO
Caro Ulivo, ma in Europa da che parte stai? • Giorgio Tonini Nella storia oscura d’Italia la vera questione giustizia • Paolo Cabras
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DIARIO Il miracolo di Sant’Euro. Quando l’Italia divenne una nazione • Vittorino Ferla
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DIALOGO ILBIANCOEILROSSO • RIVISTA DI POLITICA E CULTURA Supplemento a CRISTIANO SOCIALI NEWS n. 21 n. 2 Giugno 1998 Sede Nazionale del Movimento: Piazza Adriana, 5 Tel. 06/68300537-38 Fax 06/68300539 Redazione: Via di Pietra, 70 - 00186 Roma Tel. 06/6780417 Fax 06/6780412 Direttore Responsabile: Giorgio Tonini In redazione: Vittorio Sammarco (coordinatore), Vittorino Ferla, Oliviero Dottorini Responsabile Marketing: Maurizio Manente Segreteria: Laura Horn
Riforme necessarie, bicamerale difficile Forum della redazione con Leopoldo Elia e Augusto Barbera a cura di Stefano Ceccanti
COSCIENZA
Siamo chiamati a dividere i nostri beni con il povero • Gustavo Gutierrez
ROVESCIARE LA PIRAMIDE, LA FATICOSA IMPRESA DEL FEDERALISMO
Editrice ilbiancoeilrosso srl Sede legale: Piazza Adriana, 5 - 00193 Roma Aut. Trib. di Roma, n. 00424-97 del 4/7/97
Costituzione federale: non è ancora cosa fatta • Salvatore Vassallo
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Federalismo: passaggio a nord-est • Intervista a Massimo Cacciari a cura di Giovanni Benzoni Regioni: tutti i mali del Tatarellum • Giulia Rodano Il ruolo della città nel nuovo Stato sociale • Amedeo Piva Sicilia ’98: sindaci ok, abbasso la regione • Vittorino Ferla Regno Unito: dove ilprimo cittadino è uguale all’ultimo • Nadia Spaccarotella Il modello catalano? Una complicità fra cittadini e amministratori • a cura di S. C. La formula regionale: capacità di azione e sussidiarietà • Edmund Stoiber - Fernando Gomes Belle, ricche e complesse città d’Europa • documento
TESTIMONIANZE Montini e Maritain nell’età del Concilio • Giancarlo Zizola
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APPUNTI
Obiettivo Ulivo per agire politicamente • Intervista ad Alberto Monticone a cura di Marco Damilano Quel deficit di cui i parametri non parlano • Rosario Sapienza
DIDASCALIE Il fiume carsico della sinistra cristiana • Salvatore Vento RECENSIONI: Libri, Il Classico
LA PAROLA CHIAVE Potere • Anna Vinci
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Ulivo, ma in Europa da che parte stai?
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Non sempre le vittorie garantiscono lunga vita ai vincitori. Mentre assicurano un posto nella storia passata, non sempre ne conquistano uno in quella futura, rispetto alla quale esse anzi giocano spesso il ruolo sottilmente ironico di un attestato di conseguita ragione sociale, in forza del quale si determina lo scioglimento del patto consensuale. La grande vittoria dell’Ulivo si chiama Ume, unione monateria europea. Grazie ad essa, l’Ulivo si è conquistato un posto nella storia patria. Ma non per questo si è garantito anche un grande futuro politico. Al contrario, la sindrome di Churchill (o del vincitore licenziato), è ben visibile, lì in agguato. E infatti, nell’Ulivo si vanno moltiplicando i segnali di inquietudine, incertezza e nervosismo. È come se fosse venuta meno la tensione verso un obiettivo unificante, che faceva passare in secondo piano differenze e divergenze che ora stanno minacciosamente riaffiorando. Il raggiungimento dell’obiettivo europeo priva l’Ulivo di quella tensione e di quell’attivismo che, sin dal suo nascere, quasi quattro anni fa, gli hanno sempre impedito di guardarsi davvero allo specchio e di chiedersi chi è. Come le coppie che non hanno più da stare insieme per allevare i figli ormai diventati grandi, i partner dell’Ulivo si trovano oggi nella condizione di porsi la domanda radicale: perché stiamo insieme? c’è qualcosa di più profondo e di più duraturo che ci unisce, al di là degli obiettivi, storici quanto si vuole, ma pur sempre contingenti, che abbiamo fin qui perseguito, ossia battere la destra e portare l’Italia nella moneta europea? Solo se si dimostrerà capace di affrontare queste domande a viso aperto e saprà trovare ad esse risposte convincenti, l’Ulivo si sarà conquistato un posto nel futuro, oltre che nel passato. Altrimenti, ha i mesi contati, è già diretto verso il museo, la galleria dei ritratti nobili della storia patria. Per dimostrare di essere qualcosa di più di una santa alleanza contro il ritorno di Berlusconi al governo e di una flotta di Lepanto della moneta unica, l’Ulivo deve domandarsi (e rispondersi) che rapporto vuole avere con la sinistra europea. E ancora più precisamente con il Partito del socialismo europeo. Fino ad oggi, la dimensione europea della politica italiana è stata snobbata e rimossa. Ma da oggi in avanti, gli espedienti per aggirare la domanda imbarazzante (“ma in Europa, voi dell’Ulivo, con chi state politicamente?”) non funzioneranno più. La primavera del 1999 è vicina. A quella data si terranno le elezioni per il Parlamento di Strasburgo e per la prima volta, con la moneta unica che le cresce in grembo, l’Europa non potrà non fare di quell’appuntamento un evento politico. Gli elettori dovranno scegliere - più o meno direttamente - se affidare la Commissione europea a un presidente espressione della sinistra (il Pse) o della destra (il Ppe e i suoi alleati gollisti e conservatori). Può darsi che ciò non avvenga da subito con la nettezza del modello Westminster: ma la tendenza sarà necessariamente quella di una crescente politicizzazione del livello europeo di governo e, quindi, di converso, di una crescente polarizzazione della politica europea. Di più: non solo questo esito è necessario, è cioè nelle cose, ma è anche auspicabile, se non si vuole che al gigantismo della Banca centrale corrisponda il nanismo di una politica affidata solo ai precari accordi tra governi nazionali; e che i destini dell’Europa siano quindi affidati per intero alle mani dei tecnocrati della finanza, in un pauroso deficit di politica e di democrazia.
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Giorgio Tonini
In uno scenario come questo, se l’Ulivo pensasse di garantirsi il futuro puntando tutte le sue carte sulla presunta “anomalia” italiana, magari con la speranza perfino di ritardare in tal modo i processi
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di politicizzazione, democratizzazione e polarizzazione europei, sbaglierebbe tutti i suoi calcoli. Si comporterebbe proprio come il gruppo dirigente democristiano, che all’indomani dei “fatti dell’89” si mise a girare l’Italia festeggiando, bolsamente inconsapevole che proprio quella vittoria stava in realtà avvicinando l’ora della resa dei conti. La diga contro il comunismo non avrebbe più potuto surrogare la mancanza di un disegno di evoluzione del sistema politico italiano. Sappiamo come andò a finire: gli Andreotti e i Forlani puntarono tutte le loro carte sull’anomalia italiana, proprio nel momento nel quale le ragioni di quella anomalia venivano meno. In pochi mesi, un partito che era considerato intramontabile fu spazzato via dalla faccia della politica italiana. Farebbe bene l’Ulivo a non ripetere l’errore, a non puntare le sue carte sull’anomalia italiana. Farebbe bene invece a chiudersi in un convento o in un castello per prendere una decisione sulla vera questione che si trova davanti: ma in Europa, da che parte stiamo? Porsi questa domanda è un tutt’uno col fare i conti con la questione del socialismo. Che cos’è il socialismo, oggi? È ancora una parola spendibile, sulla scena politica, o è solo un residuato semiotico di un’epoca tramontata? Il timido e reticente dibattito che in Italia si è aperto su questa questione appare piuttosto malposto. A parte qualche chiara indicazione di D’Alema, nel nostro paese ci si divide, perlopiù, tra nostalgici del socialismo e tifosi dell’anomalia italica al punto da saltare a pie’ pari l’Europa, per planare direttamente negli States, vituperati in tutto, tranne che per il mitico Partito democratico. Impostare in modo corretto e produttivo la discussione, vorrebbe dire capovolgerne i termini attuali. La verità è che il socialismo è morto, ma il nostro andare oltre il socialismo deve essere costruito insieme ai socialisti europei. Tutto il resto è vanità. Il socialismo è morto, perché è morta l’idea principale che stava alla base di esso, almeno nella sua versione marxista, quella che è stata egemone almeno per tutto il Novecento. È morta quella che Anthony Giddens chiama la concezione “cibernetica” della politica, la concezione per la quale la politica può guidare dall’alto il cambiamento sociale. È morta, in altri termini, la concezione della politica che si fonda sull’idea illuminista per la quale la ragione può dominare la storia, attraverso gli strumenti della pianificazione, della programmazione, del dirigismo. Questa idea è finita, non solo nella sua versione totalitaria (il socialismo “reale”), ma anche in quella democratica e occidentale (la socialdemocrazia). Il che non significa - si badi bene - accomunare entrambe nel medesimo giudizio storico: l’arcipelago Gulag non ha niente a che fare con il Welfare State, come Caino non ha niente a che fare con Abele, se non... i medesimi genitori, ormai morti di vecchiaia, affranti per il mostro che si è rivelato Caino e invece consolati per le virtù di Abele. Ma sia nella versione di Caino, che in quella di Abele, il socialismo è morto, reso obsoleto dai radicali mutamenti dinanzi ai quali ci ha posti la modernizzazione complessa di questa fine secolo. Nell’era della globalizzazione, della fine della natura come entità indipendente dall’intervento umano, della scomparsa della tradizione come fattore stabile di coesione sociale, dell’abbandono dei
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canoni produttivi del taylorismo-fordismo, la sinistra deve andare oltre il socialismo, contaminando il nocciolo etico (e non più ideologico) del socialismo stesso (ovvero il principio di uguaglianza) ad un tempo con il liberalismo e il personalismo cristiano, per dar vita ad una inedita sintesi di simpatia per la modernità, lotta per l’uguaglianza e responsabilità nei riguardi del futuro. In Europa, questo è ciò che stanno cercando di fare i partiti socialisti, laburisti e socialdemocratici . In Europa, andare oltre il socialismo (beninteso, passando da sinistra), vuol dire quindi andarci insieme ai socialisti. Questo è il dato di fatto dal quale deve partire l’auspicabile riflessione dell’Ulivo su se stesso, la sua natura e il suo futuro.
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L’Ulivo ha davanti a sé tre strade. La prima, la strada maestra, è quella di compiere un salto di qualità, per diventare l’equivalente italiano dei partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti europei: col medesimo orizzonte politico, con un piccolo problema in meno (il nome, che non è socialista) e un grande problema in più (l’area cattolico-democratica-popolare, Prodi compreso, incerta come l’asino di Buridano tra Kohl e Delors). La prima strada è quella più in salita, ma anche l’unica che sembra possa portare l’Ulivo da qualche parte. La seconda, assai più in discesa, è quella indicata da Cossiga: una coalizione “emergenziale”, che al contatto con l’Europa dovrà necessariamente, prima o poi, rompersi per riarticolarsi nel bipolarispo europeo, che vede di norma (ovvero esclusi i casi di grandi coalizioni) i socialisti in competizione con i popolari. Imboccare questa strada è un tutt’uno con l’accettare l’Ulivo come esperienza “a termine”. La terza è quella (coltivata dal cosiddetto, carsico, “partito dei sindaci”, non si sa quanto sostenuto e sponsorizzato da Palazzo Chigi) di trasformare l’Ulivo in una grande “lista civica”, a sua volta embrione di un partito “all’americana”. Una strada che puzza troppo di espediente per eludere la domanda sulla collocazione europea, per poter essere una via affidabile. Una decisione sulla strada da prendere non potrà comunque farsi attendere più di tanto. E un po’ di maggiore chiarezza, anche da parte dei Democratici di sinistra, non potrebbe che far bene alla salute: della sinistra, dell’Ulivo e dell’Italia.
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Italia giustizia
Nella storia oscura d’ la vera questione
Le annose e spesso pretestuose polemiche che intercorrono fra il mondo politico e la magistratura si fondano su presupposti astratti e su schemi riduttivi che non giovano a penetrare lo spessore dei temi affrontati. La reazione di taluni validi rappresentanti del potere giudiziario per replicare a mistificazioni del fronte opposto tendono ad ampliare l’orizzonte del confronto con analisi e giudizi sugli universali e con la rivisitazione della storia italiana, come la famosa intervista di Gherardo Colombo che affonda spunti critici condivisibili, denunce legittime e opinioni degne di considerazione nel grande mare di un cupo giudizio sommario sull’intero arco di vita della democrazia repubblicana. Per riflettere in merito è necessario evitare di ridurre il grande tema della corruzione pubblica e delle sue manifestazioni dentro la vita politica e istituzionale alla questione pur rilevante dell’illecito finanziamento della politica. Questo, che è un aspetto della questione morale, comporta certamente una collusione fra interessi e ruoli diversi e favorisce la subordinazione dell’interesse generale alla pressione di gruppi e interessi particolari, ma è una e non la maggiore delle perversioni che comportamenti illeciti determinano nel tessuto sociale. Il fenomeno della corruzione diventa un grande tema istituzionale quando la rete delle relazioni e degli interessi evocati fra soggetti pubblici e potentati privati altera le regole della democrazia, influenza, ignorando o eludendo la legge, le decisioni del governo e dell’amministrazione, realizza un clima torbido di destini incrociati fra l’arroganza del potere economico e delle corporazioni forti e le scelte del potere politico. La questione morale viene soffocata dalla polemica su tangentopoli e dintorni e dalla lamentazione, talora fondata, sulle disinvolture procedurali e comportamentali di Procure o di singoli magistrati: vorremmo riflettere invece sulla grande collusione fra rappresentanti delle istituzioni e poteri forti di altra natura, sull’uso spregiudicato delle istituzioni per favorire interessi inconfessabili, vorremmo ricordare l’occultamento di azioni illecite per compiacere una parte politica, o l’aperta connivenza fra uomini delle istituzioni e la criminalità organizzata, a Palermo come a Roma.
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Paolo Cabras
Le lacerazioni nel tessuto della legalità Nessuno può nascondersi che nella stagione della guerra ideologica, fra Occidente e sistema comunista, vi sono state gravissime violazioni di legalità non al fine di assicurare la sicurezza e l’indipendenza del paese, ma per esclusivi scopi di potere, per influire nella contesa fra partiti e gruppi politici interni ai partiti di governo; usando la ragione ideologica come copertura dell’intervento deviante. Alcuni esempi: l’ancora oscura vicenda delle stragi, i comportamenti di taluni apparati delle forze dell’ordine, le omissioni e l’affossamento di indagini da parte di magistrati o la deviazione delle indagini attraverso la creazione di prove false da parte di dirigenti dei servizi di sicurezza: è un elenco incompleto che non autorizza a criminalizzare le istituzioni preposte all’ordine democratico, ma nemmeno ad ignorare le lacerazioni e le contraddizioni nel tessuto della legalità. Quando denunciamo un deficit nella trasparenza dell’agire e nel senso del dovere che è il senso dello Stato, e identifichiamo responsabilità
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precise a livello istituzionale nel connubio fra politica e affari, riflettiamo sulla vicenda di Michele Sindona, sulla nascita e sulla dinamica di un fenomeno degenerativo come la loggia segreta massonica P2, sul porto delle nebbie della Procura di Roma ed altre sparse nel bel paese e non sui singoli episodi di corruzione personale; quando pensiamo alla carenza di eticità nella vita democratica ci riferiamo alla complicità evidente fra potere politico, settori delle istituzioni e criminalità organizzata che ha consentito e consolidato l’insediamento della mafia e della camorra nella vita pubblica, nell’economia e nella finanza e nei palazzi di giustizia. Lo scenario dell’inquinamento della vita collettiva è ampio, complesso e variegato: se alcune pesanti deviazioni sono state possibili in un clima alterato dallo scontro politico e dal confronto fra sistemi antagonisti, altre ugualmente gravi sono da riferirsi alla degenerazione della politica; al suo ingiustificato dominio su tutta la vita sociale, al suo degrado nella pratica di scambio e nella gestione del potere: non a caso questa degenerazione si è rivelata prepotentemente quando la democrazia incompiuta si è fatta sempre più incapace di mantenere coesione sociale ed efficacia di governo e ha sopravvissuto nelle mediocri intese e nei compromessi, quando durare era una benemerenza politica. Un potere politico sempre più invadente arrivava ad incarcerare Mario Sarcinelli, a criminalizzare il Governatore della banca d’Italia Banfi mentre si adoperava a salvare un personaggio come Michele Sindona che aveva un ruolo nelle operazioni finanziarie vaticane e veniva sponsorizzato dalla mafia e da logge massoniche deviate: un balletto di presidenti del Consiglio, di sottosegretari e di ministri si agitava freneticamente attraverso gli strumenti di governo per evitare la bancarotta di un avventuriero che aveva saputo influire sulla politica e coinvolto in una rete di interessi e di ricatti l’establishment . Nella vicenda della P2 un’alleanza per gli affari e per il potere, aveva mietuto proseliti nel Gotha politico e finanziario: e soprattutto si era adoperata ad occupare posizioni di comando nella Magistratura, nell’arma dei Carabinieri, nei Servizi di Sicurezza, nel sistema televisivo e nella stampa, fino ad ostentare sul maggior quotidiano italiano la presentazione di un programma di azione politica, senza che i templari del garantismo annidati fra gli intellettuali più o meno liberaldemocratici, e gli opinion makers in generale, muovessero un dito per denunciare un inquinamento e un’alterazione degli equilibri democratici così sfrontati. Nei casi che ricordiamo non è rilevante soltanto l’obiettivo di potere, lo scambio di favori illeciti, l’avidità di guadagno ma il tentativo di assalto al meccanismo della democrazia rappresentativa, alle regole del buon governo, all’indipendenza della Magistratura, alla distinzione fra potere politico e potere economico e finanziario, alla neutralità di scelte che devono essere ispirate alla legge e non subordinate all’etero direzione di poteri occulti. Un’associazione che mira ad occupare con i propri aderenti sedi istituzionali essenziali, ha una carica eversiva non sottovalutabile. Gli intrecci perversi nella lotta per il potere Queste vicende sono a conoscenza di ogni cittadino e reclamano attenzione anche oggi perché non appartengono ad un passato sepolto fra le macerie della cosiddetta prima Repubblica: taluni intrecci
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proseguono ai giorni nostri e non è casuale che alcuni personaggi ricorrano nelle vicende di questi mesi come all’epoca del Caf trionfante. La vera continuità con un passato a parole deprecato è rappresentata dalla collusione fra i ruoli istituzionali e interessi particolari: vi sono agenti di collegamento fra il mondo degli affari, la magistratura, la finanza, gli apparati dello Stato e l’area della politica, che riempiono le cronache di ogni scorribanda degli ultimi decenni, sempre gli stessi, influenti in virtù dell’amicizia giusta, con il ministro, con i presidenti di enti pubblici, con il magistrato inquirente o con il giudice compiacente. Lo scenario tragico della violenza e dell’illecito riferibili al dominio malavitoso in Sicilia, in Campania, in Calabria è ancora più preoccupante: lì si è conosciuto nel recente passato un intrigo che ha unificato i destini e i successi del personale politico locale e nazionale con i successi e gli interessi mafiosi e camorristici; quando il Presidente di una regione come quella siciliana si erigeva, nel recente passato, a mediatore fra le esigenze di finanziamento dei partiti e dei singoli esponenti politici e gli interessi mafiosi, e apriva un tavolo permanente di contrattazione con le grandi imprese nazionali, le società finanziarie e i tecnocrati al servizio della mafia (esperti in appalti, legali, finanzieri) si arriva alla dissoluzione delle istituzioni, alla loro deriva in balia di obiettivi di rapina, di cointeressenza negli affari, di rafforzamento dell’influenza criminale nella vita pubblica. Vi sono testimonianze e documenti raccolti dal 1987 al 1994 dalla Commissione antimafia che non si possono ignorare e che ancor oggi dovrebbero suscitare reazioni politiche adeguate. Nella stagione del terrorismo questa collusione perversa, dopo la strage di via Fani e la morte di Aldo Moro, riuscì ad aprire un fronte di trattativa fra le istituzioni, un nucleo brigatista e la camorra durante il sequestro dell’assessore regionale Ciro Cirillo, fedele seguace di un esponente della Democrazia Cristiana che sarebbe successivamente diventato Ministro degli Interni. L’interesse di un gruppo politico ignorò ogni norma di comportamento che lo Stato si era dato con il rifiuto della trattativa con i terroristi, mentre mobilitava i servizi di sicurezza per aprire un’interlocuzione con i camorristi in carcere, avallando l’inusitato connubio fra la strategia di espansione al Sud del nucleo brigatista e la riaffermazione del dominio della camorra sul territorio: in quella circostanza furono violate non soltanto le regole della vita istituzionale di fronte al crimine organizzato, ma le istituzioni si prestarono a rafforzare l’insediamento e l’autorità dei loro nemici. Un potere corrotto e corruttibile non è pericoloso per la vita collettiva, soltanto perché persegue fini illeciti, ma perché determina il corto circuito interno ai vari livelli istituzionali e nel rapporto con il tessuto sociale: noi abbiamo pagato con lacrime e caduti il rapporto della politica con la malavita al Sud. “Giustizia dove sei?” Ed è a rischio la democrazia Il cittadino viene invitato a farsi giustizia da sé, ad evadere le leggi, ad infrangere tutte le regole, è indotto a perdere fiducia negli istituti della democrazia rappresentativa, nei riti democratici della scelta e del controllo: tanto populismo e tanto leghismo diffusi nel paese al Sud come al Nord sono la prova di una profonda demotivazione civile, di una sfiducia in una tutela ispirata a principi di diritto e di eguaglianza di fronte alla legge. La degenerazione della vita pubblica ha delegittimato la politica e indebolito le istituzioni, ha disperso
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il senso di appartenenza ad una comunità nazionale tenuta insieme da valori di fondo e da principi comuni ai cittadini di diverse condizioni sociali ed esistenziali. Questo è il retaggio terribile degli anni della dissipazione partitocratica e dell’allentamento della difesa collettiva nei confronti di interessi illegittimi e di poteri criminali. Da qui deve partire il risanamento del paese, dalla volontà di ristabilire il dominio delle regole, il principio di responsabilità di governanti e amministratori, la trasparenza degli atti amministrativi, garantendo l’indipendenza e l’efficienza della Magistratura, l’esercizio dei controlli imparziali, la lealtà e l’efficienza degli organismi preposti alla sicurezza e all’ordine pubblico. Oggi la fondata preoccupazione garantista contro gli eccessi di talune procure e di singoli magistrati, la sacrosanta rivendicazione della dignità del cittadino sottoposto ad indagine, l’invocata parità fra accusa e difesa, la giusta richiesta di uno svolgimento sollecito dei processi, tendono a porre in secondo piano il problema dell’origine della corruzione, attuando talora inconsapevolmente una rimozione di quel passato che non è fatto solo delle tangenti ai politici, ma di collusione fra potere politico, criminalità, malaffare, circuiti finanziari, imprese. Il Partito popolare italiano, almeno in una sua componente, sembra avere adottato la teoria del complotto dei giudici pregiudizialmente ostili a questa o quella formazione politica e le scelte di politica giudiziaria rischiano di replicare le argomentazioni che taluni reduci del naufragio del ‘93-‘94 adducono per giustificare la propria eclissi politica. Se il nuovo scenario politico dopo la vittoria dell’Ulivo replicasse la incapacità di ripristinare nella vita pubblica l’osservanza dei diritti e dei doveri e del ritiro dei partiti dai territori indebitamente occupati, saremmo veramente di fronte ad un corto circuito nei rapporti fra istituzioni e cittadini. In un clima di grande tensione civile per il tema della trasparenza della vita collettiva, sarebbe possibile individuare meglio le disfunzioni e le contraddizioni del pianeta giudiziario, sarebbe più agibile isolare e colpire i comportamenti esorbitanti di magistrati e di amministratori. Se continueremo ad alzare bandiere ad ogni caso Previti o ad ogni eccesso di pubblici ministeri o ad ogni intervento di Borrelli contenente giudizi non condivisibili, continueremo a discutere e a seminare delusione e disincanto. Non possiamo lasciare il grande tema della credibilità delle istituzioni, che è il motore dei comportamenti dei cittadini verso la politica, alle esercitazioni della demagogia populista di chi vuole partecipare allo spettacolo della ghigliottina, ma nemmeno alla disinvoltura di chi facendo leva su taluni errori vuole aumentare il potere di condizionamento della politica sui magistrati, limitando l’esercizio indipendente della loro funzione.
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La politica di centro sinistra gioca su questo terreno gran parte della credibilità La riforma del sistema giudiziario è una priorità per una politica di sinistra: non si tratta soltanto delle dispute che attraversano la Bicamerale, ma della vasta area di giustizia denegata che affligge un paese dove le cause civili hanno ritmi decennali tali da scoraggiare il ricorrente; dove tempi biblici riguardano anche la conclusione dei processi penali e permangono tre gradi di giudizio, modello anomalo nel panorama occidentale. Vi è un problema di tempi della giustizia da rendere ragionevolmente concisi, riflettendo sul fatto che le tante possibilità di rinvio, l’infinito ricorso ad espedienti procedurali per allungare i processi, non aiutano certamente il cittadino Bianchi o il cittadino Rossi, ma avvantaggiano “lor signori”, ossia quanti si possono permettere di arruolare squadre di prestigiosi avvocati e di corrispondere parcelle miliardarie. Vi è una discriminazione sociale che attraversa il pianeta giustizia, e che non è più tollerabile. Interessi corporativi che toccano i magistrati, ma anche gli avvocati o gli istituti di assicurazione e tante altre nicchie di privilegio, hanno ostacolato finora una vera riforma che non può che disturbare le pigrizia e le cattive abitudini radicate. Questo si dovrà fare mantenendo la magistratura sempre indipendente da altri poteri, a cominciare da quello politico con riguardo all’attività processuale e al controllo e alle sanzioni disciplinari: l’idea di un Kennet Starr, il procuratore speciale che sta inquisendo Clinton testimoniando più la sua fede repubblicana che la devozione alla giustizia, è aberrante in un paese ove ideologismi e localismi esasperati hanno provocato più conflitti e pregiudizi che regole condivise. La Bicamerale dovrà affrontare i principi generali e le leggi ordinarie dovranno garantire una compiuta riforma del sistema giudiziario: lavorando per un paese più civile, per la vittoria delle regole sulla sopraffazione e sulla confusione, un paese normale dove la terzietà del giudice non sia nominalistica, ma una condizione naturale garantita dalla legge e dal costume e dove sulle sentenze non si debba esercitare il pregiudizio e il parere non disinteressato dei guelfi e dei ghibellini.
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Il Miracolo di Sant’Euro Quando l’Italia divenne una Nazione Bisogna vincere: e vinceremo. Caro diario, oggi, 2 maggio 1998, il mio paese è entrato in Europa. Il girone eliminatorio era duro, ma ce l’abbiamo fatta: siamo fra gli undici. E adesso, chi ci libererà da Prodi e Veltroni, da Marini e D’Alema? Già i sondaggi annunciano che, se si votasse adesso, la coalizione di centrosinistra stravincerebbe. Caro diario, sembrano i mondiali di Spagna dell’82. Avevamo cominciato con governicchi tremebondi, accumulando pareggi a reti inviolate. E tasse, tante tasse. Piccoli passi da Amato a Dini. Pareggi risicati, come con Polonia, Perù e Camerun. Quel golletto di Graziani, quel ribaltone del governo Dini. Poi, l’esplosione. Romano (Pablito Rossi) Prodi: poche reti brucianti, nella decisiva volata finale. Un ritorno storico, dopo qualche successo nel torneo domestico delle Partecipazioni statali. Nella foto di gruppo in Campidoglio è quello che sorride pacioso in mezzo a bimbo-Walter e ai vecchi falchi di partito. E l’uomo chiave? Ha la faccia da quadro antico di nonnino risorgimentale. Ha due lauree, una in lettere e l’altra in giurisprudenza: due glorie nazionali del culturame italiota. Uno dei
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Storia di pochi compatrioti che A COLPI schiaffi, capisce di economia. D’IMPOSTE pistole e Nome: Carlo Azeglio; stangate cognome: Ciampi. Caro diario, ti ricordi? Tutto Il superministro - che in comincia il 16 settembre Europa riceve premi e del 1996, in occasione del complimenti a ogni ora vertice dei governi italiano - ha svolto nella squadra e spagnolo. In quel di governativa un duplice Valencia, si incontrano Prodi ruolo. Come Claudio Gentile, e Aznar, Ciampi e Riato, Dini ha fatto il terzino rognoso, e Matutes. Come racconterà quello che lavora sulle tempo dopo Aznar, caviglie degli avversari, intimorendoli, costringendoli monsignor Prodi arriva in Spagna con ecclesiastica a reazioni da espulsione, sicumera in cerca di un quello che affonda il tackle onorevole compromesso: e rilancia l’azione, giocando sopire e troncare, troncare d’anticipo, quello che e sopire. E, soprattutto, domina senza sbavature creare un asse mediterraneo l’area del rigore economico. per mitigare i parametri di Come Bruno Conti, ha Maastricht. Ma la riunione si dribblato sulle fasce tutti gli trasforma all’improvviso in ostacoli (interni ed esterni): una sfida in stile spaghettiuno slalom tra Bundesbank, western. Sotto i baffetti Fondo monetario, Istituto iberici, Aznar è ruvido come monetario europeo, Banca i pistoleri chicani dei film d’Italia, e “grilli parlanti” di Sergio Leone: la Spagna vari. Uno slalom contro prepara una manovra per tutti: “la solitudine dell’ala portare il deficit al 3% già destra”, per dirla con il nel ‘97. In altri termini: se titolo di un libro pubblicato c’è da “sparare” lo farò per di recente. Ma è proprio primo. L’Italia - che secondo lui che, alla fine di tante il Dpef approvato in giugno scorribande per l’Europa e avrebbe raggiunto di una rincorsa durate due quell’obiettivo solo anni, porge alla testolina nel ‘98, attivando di Romano (Pablito Rossi) una manovra di 32 miliardi Prodi, con un cross secondo - resti al palo. Anche parametri, il pallone così perché, nella seconda storicamente fregiato: metà dell’anno, “basta spingere”. arrivano il no di Caro diario, sono tanto Bertinotti al taglio orgoglioso del mio paese delle pensioni che, quasi quasi, mi e la proposta sento italiano (ma senza francese al esagerare).
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vertice europeo di Dublino di imporre misure drastiche ai paesi europei che resteranno fuori dall’Euro. È il 18 novembre quando il Parlamento approva una finanziaria da 62.500 miliardi, frutto dell’accordo con Rifondazione. Per far digerire l’Eurotassa (che da sola ammonta a 12.500 miliardi), la compagine governativa schiera un “vampiro” d’eccezione. È il ministro Vincenzo Visco che, nella fisionomia e nei comportamenti, rivela - molti giornali lo sottolineano, rappresentandolo come un pipistrello - ascendenze “transilvane”: occhi vacui cerchiati di grigio, voce bassa, lenta e sibilante, canini avidi e sanguinolenti. Un ministro cult. E un po’ pulp. Ma per sua fortuna, caro diario, gli italiani hanno la carne tenera e, soprattutto, sono davvero innamorati dell’idea di entrare in Europa. Il 25 novembre arrivano buone notizie: la lira rientra nello Sme dopo 4 anni di purgatorio e
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una svalutazione del 7%. La parità con il marco è di 990 lire. Al summit di Amsterdam del giugno ‘97, il Consiglio europeo predispone il quadro giuridico per l’Euro. Gli Stati membri adottano il patto di stabilità destinato a garantire il rigore budgettario e la messa a punto di un nuovo sistema monetario europeo.
EUROSCETTICI E INTOSSICATI Rimmel sui conti e macchie di pizza. Caro diario, da due anni c’è sempre qualcuno che la butta. A settembre ‘97 il governo vara la Finanziaria ‘98 da 25 mila miliardi, la più bassa da 10 anni. Il 9 ottobre Prodi si dimette dopo 11 giorni di trattativa con Rifondazione. Il 14 lo scontro si ricompone. La mascotte Bertinotti avalla l’euroscetticismo dei partners europei sul successo finale italiano. Da Helmut Kohl, cancelliere tedesco, al suo ministro dell’Economia, Theo Waigel, al ministro dell’Economia francese, Strauss-Kahn, al capo della Bundesbank, Hans Tietmayer, al numero uno dell’Ime, Wim Duisenberg: è una staffetta di bacchettate iniziata molti mesi fa. Ma la compagnia dei menagrami è composta anche da sinceri patrioti. Quasi ogni sera Emilio Fede sguinzaglia Antonio
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Marzano, l’economista ufficiale di Forza Italia, che dalla veranda del suo Tg4 abbaia contro la “politica delle toppe” governativa. A intervalli regolari, interviene Giorgio Fossa, presidente di Confindustria, per spiegare che così non va. Ogni tanto Cesare Romiti fa capolino per dire che se l’Italia non entra da subito nel clan dell’Euro è meglio; e, appena l’Italia entra, in uno slancio di entusiasmo, la paragona a un “pugile suonato”. Ultimo, ma non ultimo, Il Giornale di Berlusconi, che monta una campagna stampa contro i trucchi contabili del governo, le operazioni oscure, e quant’altro. Si scoprirà più avanti che un po’ di cosmesi sui conti l’hanno fatta tutti i paesi europei. Negli editoriali della migliore stampa borghese italiana i massimi opinion leader del liberalismo alla vaccinara avevano dapprima previsto a chiare lettere che l’Italia non ce l’avrebbe fatta. Caro diario, bastasse un po’ di rimmel sui conti… La verità è che in Europa lo sanno benissimo che siamo un popolo con la pummarola in coppa. Il 5 dicembre, il Primo Ministro inglese, Tony Blair, presentando il semestre di presidenza britannica dell’Ue, espone i simboli dei vari paesi
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membri rappresentati dai disegni di bambini di tutta Europa. La bandiera Union Jack per il Regno Unito, le note di Mozart per l’Austria, le foreste verdi per la Germania, una nave vichinga per la Danimarca, sole e mare per Spagna e Portogallo. E per l’Italia? Forse un verso dantesco, un’opera di Michelangelo? No: per l’Italia, una pizza margherita.
EX-VOTO E TELEVOTO
Liturgie mediatiche per Sant’Euro. Il 5 gennaio Yves Thibault de Silguy, il portavoce della Commissione europea per gli affari monetari, elogia l’Italia per aver ridotto al 2,7% il rapporto deficit/pil. Il 10 gennaio scoppia e poi rientra il presunto attacco dell’Olanda all’Italia. Il 19 gennaio la Commissione europea dà l’ok alla finanziaria ‘98. Prima Chirac, poi Moody’s, e quindi l’Ecofin danno l’ok all’Italia. Il solito Tietmeyer non ci fa mancare i suoi siluri. Caro diario, è domenica 8 febbraio. Il popolo dei teleutenti della penisola è convocato davanti ai teleschermi. Si celebra il rito mediatico del televoto. Anche per aderire alla moneta unica c’è bisogno di esercizi spirituali. Carlo Azeglio Ciampi, il nonnino risorgimentale, indossa le vesti del cardinale-zio e,
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sullo sfondo del caminetto, ci invita a scegliere le facce della medaglia. Concelebra l’ex chierichetto Fabrizio Frizzi che, per l’occasione, è promosso sul campo diacono. Il Ministro-ministrante annuncia durante l’omelia che sulla moneta da un Euro sarà impressa la sagoma dell’uomo leonardiano: «il grande disegno di Leonardo da Vinci, l’immagine dell’uomo… un uomo in movimento, dà il senso di una dinamica… misura, armonia, proporzioni, l’uomo come unità di misura… deve significare che la moneta è al servizio dell’uomo». «Grazie, Ministro», risponde Frizzi, primo demiurgo della videodemocrazia, incarnando l’ossequio di tutta la “ggente”. “Grazie a lei e grazie a questa trasmissione - risponde Ciampi - che ha permesso agli italiani di votare le monete che ci saranno per tutta la nostra vita e rimarranno ai nostri figli”. Coro d’arcangeli cherubini: la nuova divinità monetaria ci attende. E noi eleviamo preci. Il 27 febbraio l’Istat conferma l’avvenuto risanamento. Il rapporto deficit/Pil del ‘97 è del 2,7%: di fatto, l’Italia è promossa. Il 3 marzo, su Il Corriere della Sera, Giorgio Napolitano ammonisce: «pensiamo
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anche al Sud non solo all’Euro». Ma per brindare si aspetta il 25 marzo, giorno in cui l’Ime, l’Istituto monetario europeo, produce il rapporto sulla convergenza dei Paesi membri sui parametri di Maastricht. Nasce un gigante economico pari agli Usa: 290 milioni di abitanti, 19,4% di incidenza sul Pil mondiale, 18,6% di incidenza sul commercio mondiale. L’ingresso all’Italia è spianato, ma «nonostante i sostanziali progressi fatti - spiega il rapporto - resta perdurante, per l’Italia, la preoccupazione sulla progressiva diminuzione del debito pubblico e sulla sostenibilità della posizione di bilancio raggiunta». I vertici delle banche centrali del Nord Europa nutrono ancora forti perplessità su di noi. Si chiedono: «quanto durerà?». Uno studio dell’associazione degli industriali europei per la moneta unica dice che l’Italia è un paese “a limitata sostenibilità”. «La riduzione del deficit - si legge nello studio - sembra dipendere soprattutto da misure temporanee, come
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l’eurotassa. Il disavanzo strutturale è ancora superiore al 3% del pil, malgrado un avanzo primario pari al 4,7%. Questo fatto fa crescere inoltre i dubbi sulla sostenibilità politica di ulteriori inasprimenti fiscali». Caro diario, l’oceano dei numeri mi confonde, ma ho capito soltanto che per ridurre l’enorme mole del debito pubblico saranno necessari ulteriori e impegnativi sforzi. Anche la Banca d’Italia fa sentire la sua voce. Dopo aver abbassato i tassi di sconto, Fazio ricorda che la pressione fiscale è troppo alta, che la spesa pensionistica rimane eccessiva, che il risanamento dei conti pubblici va perseguito attraverso riforme strutturali, che nelle manovre finanziarie bisogna mettere più attenzione ai tagli di spesa che agli aumenti di entrata. E il lavoro? Caro diario, forse il campionato è appena cominciato. E io non ho ancora ben capito con quali regole si gioca e chi detta la strategia.
IL CIELO SOPRA Evviva il BERLINO politichese. Nei primi di giorni di maggio, quando il parlamento approva l’Euro e i Capi di Stato firmano il nuovo patto, il conflitto tra
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Germania e Francia sulla presidenza della Banca centrale europea - mandato che dura otto anni - si risolve in un “patto della staffetta”. Secondo le vecchie logiche del Cencelli, comincia Wim Duisenberg, olandese, candidato dai tedeschi, e, nel 2002, il testimone passa a Jean-Claude Trichet, proposto dai francesi. Sembra un vertice fra De Mita e Craxi. Il cielo sopra Berlino si fa grigio, tendente al nero. Caro diario, a questo punto, quasi mi spiace che si maltrattino così i tedeschi. Dal ’45 ad oggi, avevano potuto conservare una sola gloria nazionale: il marco. Su quel soldo avevano coltivato l’esuberante amor patrio. E vi hanno rinunciato. Un nome per la Bce, nemmeno tedesco, che sarà mai? Solo un bisogno di garanzia. Il nostro paese, invece, riscopre un’identità nazionale. «L’invenzione della soprannazionalità coincide nel nostro caso con la possibile reinvenzione della nazione», aveva scritto Barbara Spinelli su La Stampa del 26 marzo. «La frase è un po’ strana in bocca a un settantenne - spiega lo stesso giorno Ciampi - ma ora mi sento più giovane. Combattere e realizzare, questa è la dignità umana. Se no siamo degli
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smidollati». A Monaco di Baviera, herr Trapattoni strapazza i calciatori tedeschi, suscitando stima imperitura: l’immagine nostrana all’estero stravince. E a maggio l’apoteosi italiota. Foraggiata dalle contorsioni dei nostri partners. «Ho spiegato al presidente del Consiglio - afferma Duisenberg - che la mia età mi costringe a non terminare il mio mandato. Ho deciso di restare per un tempo sufficientemente lungo che mi permetta di concludere gli accordi previsti nel corso del periodo di transizione… Si tratta di una decisione personale, presa interamente e totalmente di mia volontà, e senza pressione di nessuno, che mi ha portato a scegliere di non portare il mio mandato a termine. Allo stesso modo, in avvenire, la decisione di dimettermi sarà una decisione personale». Successivamente, Duisenberg dichiara: «non ho mai detto che sarei rimasto solo 4 o 5 anni. Ho solo detto che considero poco probabile, data la mia età, restare per 8 anni». Caro diario, si riascoltano parole e argomenti che sembravano dimenticati. È bellissimo: torneranno le “convergenze parallele”,
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necessarie Bicameraledifficile Forum della redazione con Leopoldo Elia e Augusto Barbera a cura di Stefano Ceccanti
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Il processo di rifoRma, i compromessi sulla giustizia, il modello federalista, la forma di governo e il semipresidenzialismo. E ora la provocazione del referendum per l’abolizione della quota proporzionale.
Mettere faccia a faccia il vicepresidente della Bicamerale e uno dei principali promotori del referendum per l’abolizione della quota proporzionale ha voluto significare soprattutto una cosa. Cercare di capire dove vanno a parare le diverse anime riformiste (diciamo, per semplicità, quella più istituzionale e quella movimentista), e se è possibile un terreno di confronto comune, una piattaforma che vada al di là della troppo comoda e improduttiva semplificazione che vive di reciproche accuse: “volete sfasciare tutto”, dicono i primi ai secondi; “avete accettato troppi compromessi e ora il progetto di riforma è divenuto qualcosa di indigeribile”, rispondono gli altri. Un dialogo che spesso avviene da lontano, per tesi, articoli, convegni contrapposti. Vorremmo cominciare facendo un po’ da avvocati del diavolo. Dopo l’ingresso in Europa ha ancora senso l’impegno per le riforme della Costituzione? In fondo può sembrare che le dinamiche del sistema politico siano in grado di risolvere per altra via i nodi della Bicamerale, basti pensare anche alle modifiche ai regolamenti parlamentari e ai decreti attuativi delle Leggi Bassanini. Elia- Sia per il federalismo che per la forma di governo i problemi restano tutti anche dopo l’ingresso in Europa. La sensazione che tutto si sia risolto o che si stia risolvendo senza modifiche costituzionali può essere uno stato d’animo, ma non si vive certo di stati d’animo. Le esigenze rimangono intatte e pertanto non ci si può permettere, dopo
quello della scorsa Bicamerale, un nuovo fallimento di questo lavoro di revisione. Barbera- Per certi versi è vero che le riforme sono già in atto, soprattutto a partire dai referendum elettorali del 1991 e del 1993. Si è avuta una sostanziale bipolarizzazione e deradicalizzazione: l’Msi è diventata An, Rifondazione Comunista ha fatto i conti col problema del governo, Prodi è stato praticamente scelto in modo diretto dai cittadini in alternativa a Berlusconi. Si tratta di razionalizzare queste spinte, adeguando le norme costituzionali a questi processi. Per questo le riforme sono necessarie, perché esistono comunque dei perfezionamenti da realizzare purché siano sulla medesima strada già intrapresa. C’è la questione del rapporto tra Governo e Parlamento, forse l’unico punto su cui il testo della Bicamerale dà risultati molto positivi. C’è poi il nodo della seconda Camera potenzialmente esplosivo col maggioritario perché espone al rischio di maggioranze diverse. C’è quindi la razionalizzazione della forma di Governo e c’è infine il nodo del federalismo. Il problema è che, tranne che sul primo punto ricordato, le soluzioni concrete sono andate in modo difforme. Ad esempio invece di perfezionare la scelta del Governo si è preferita l’elezione diretta del Capo dello Stato. Per il Senato le soluzioni sono fortemente inadeguate. Sul federalismo si è evocata una parola grossa, ma nella sostanza si sono solo rafforzati gli enti locali minori senza fare i conti con le domande federalistiche. Il metodo è stato giusto, la Costituente non avrebbe risolto nulla Ci sembra che sull’obiezione
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pregiudiziale siate quindi d’accordo e che, peraltro, vi siano forti ragioni di merito nel proseguire. C’è però un’attenzione indubbiamente calante dei cittadini che pone dei dubbi seri sul referendum approvativo. Ripensandoci bene, a posteriori, non era forse meglio lo strumento della Costituente? Non avrebbe coinvolto maggiormente i cittadini nel processo riformatore? Elia- Distinguiamo bene i contenuti dal metodo. Si può essere insoddisfatti dei contenuti, ma non va attribuita la responsabilità al metodo. La Costituente non avrebbe risolto meglio questi problemi. Se avessimo messo in campo la materia della Costituzione economica, gli articoli relativi ai principi fondamentali, i problemi sarebbero stati ancora maggiori. Né le diversità di rappresentanza sarebbero state minori. Barbera- Su questo condivido il giudizio. Era giusta la scelta della Bicamerale perché dopo varie iniziative esterne o parzialmente esterne, il movimento referendario, i giudici, la Lega e le picconate di Cossiga, i partiti dovevano prendere in mano la situazione perché questo richiede la normalità democratica. L’Assemblea Costituente avrebbe delegittimato la prima parte della Costituzione che è ancora valida o che comunque oggi non sarebbe riscrivibile in modo migliore e condiviso. Forse si poteva ricorrere all’art. 138, come aveva prospettato all’inizio dell’esperienza di governo lo stesso Prodi. Tuttavia ci sarebbero state altre difficoltà. Si sarebbe evitato il progetto organico che rischia di diventare un salsicciotto in cui ognuno vuole mettere pezzi diversi, ma ci sarebbe stata più frammentarietà nelle proposte per materia. Complessivamente i costi sarebbero stati superiori ai benefici. Elia- Vorrei aggiungere che condivido anch’io l’idea che la revisione dovrebbe assecondare evoluzioni già intervenute, dal referendum al governo Prodi. Rispetto a questo il progetto organico presenta vari inconvenienti. Tuttavia la discussione sulla sussidiarietà dimostra quali asperità tardo-ideologiche avremmo dovuto affron-
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tare cambiando la prima parte. Il metodo è stato saggio, anche se mi rendo conto che la partenza ha richiesto un compromesso con alcune decisioni discutibili quali l’inserimento della giustizia, il referendum unico che richiede forse altre atmosfere di entusiasmo popolare come in Francia nel 1958 e in Spagna all’uscita dal franchismo. Superare la varietà di temi e delle soluzioni non è semplice, tuttavia bisognava fare un accordo, è stata una concessione pattizia. La giustizia: un grave intralcio
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... Il metodo è stato saggio, anche se mi rendo conto che la partenza ha richiesto un compromesso con alcune decisioni discutibili quali l’inserimento della giustizia...
A proposito di compromessi, non è stata un’inutile e notevole complicazione l’inserimento della giustizia come materia di revisione costituzionale? Barbera- Per la giustizia il problema dopo Tangentopoli era la modifica della legislazione ordinaria per rendere più spediti i processi. Mettere invece in campo il cambiamento dei rapporti tra potere giudiziario e politico, peraltro mentre Tangentopoli non è ancora conclusa, è stato un atto di imprudenza. Voglio essere chiaro: alcune riforme possono essere anche in sé, in astratto, delle vere riforme liberali, come la separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici, che in Inghilterra non prendono neanche lo stesso ascensore, ma il giudizio deve essere storico e concreto. Possono essere proposte in modo illiberale, per le motivazioni che si adducono, per lo stesso momento che si
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Augusto Barbera (a sinistra) a colloquio
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sceglie, anche le riforme più liberali. Considerando che quelle inchieste sono ancora in corso, spingere per riforme di quel tipo su pressione di coloro che si ritengono danneggiati da Mani Pulite non è accettabile. Non solo per il fatto in sé, ma anche per le sue ricadute politiche: si rischia di veicolare l’immagine di un sistema politico che si autodifende e quindi indebolire il consenso all’insieme del progetto. Elia- Non c’è una ripugnanza in assoluto rispetto a norme che possano riguardare il contraddittorio, la terzietà del giudice e così via. Avere però fatto in questo modo un’incursione nel campo della giustizia non è stato opportuno. Ci sono certo delle motivazioni non del tutto errate, c’è la sensazione di un eccesso di protagonismo di singoli pubblici ministeri nell’esercizio dell’obbligatorietà dell’azione penale, c’è il dubbio che alcuni di essi abbiano valorizzato questioni marginali, abbiano peccato di narcisismo. Ma la reazione è stata confusa. Ci si è avvolti in posizioni più di opportunità politica, di messaggio simbolico da inviare più che di contenuto, come nell’ipotesi di separare il Csm in sezioni senza separare le carriere. Federalismo: le resistenze sottovalutate e le loro ragioni Le soluzioni in materia di federalismo sono fra le più deludenti, ma non sarà anche perché la domanda di federalismo nel Paese è debole, non uniforme territorialmente e contraddittoria per i soggetti che ne sono portatori?
... un Governo decentrato, un maggiore sviluppo delle autonomie è un effetto della globalizzazione che porta ad una competizione tra aree territoriali...
Barbera- La domanda federalista c’è solo in alcune zone del Paese e spesso nasconde solo rivolta fiscale, ad esempio nella richiesta generalizzata di statuti speciali. Comunque è vero che un Governo decentrato, un maggiore sviluppo delle autonomie è un effetto della globalizzazione che porta ad una competizione tra aree territoriali e a ridimensionare anche su questo versante lo Stato nazionale che però non scompare. È un’attenzione da non perdere. È rimasto però in secondo piano il nodo della dimensione di scala del federalismo. Le vecchie regioni erano in buona parte inventate, ma soprattutto ha pesato il fatto che l’attività delle regioni è stata deludente.
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Per questo è emersa la forza dei comuni, che è tale per radicamento storico e per la riforma elettorale del 1993. Si doveva ripartire dai comuni per ripensare la dimensione regionale, non però nel senso economicistico delle macroregioni inventate da Miglio e poi riprese dalla Fondazione Agnelli. Tenendo conto di un insieme di variabili, comprese quelle sociali e culturali, si sarebbe giunti in molti casi a regioni più grandi, ma in qualche caso anche a regioni più piccole. Comunque questo sforzo di ripensamento non c’è stato. La Bicamerale si è trovata a gestire questa parola grossa, il federalismo, evocata in modo un po’ affrettato e poi a tener conto dello scontro tra comuni e regioni. Lo schema finale rischia di bloccare quel poco di amministrazione efficiente dello Stato che c’era senza disporre di forti governi regionali e di forti amministrazioni regionali. Probabilmente bisognava partire più dal contenitore regionale, favorendo forme di aggregazione dei comuni, modificare la legge elettorale e la forma di governo regionale, prima di occuparsi del contenuto, dello spostamento di competenze che ha senso solo se il contenitore è in grado di assorbirla. Per quanto riguarda il Senato c’è l’incertezza della composizione legata alle scontate resistenze corporative dei senatori, che hanno per ora ceduto sul potere fiduciario, che lasciava sempre aperto il rischio delle maggioranze diverse e che era quindi uno dei nodi maggiori delle riforme. Elia- C’è un divario molto forte tra la domanda di federalismo che era stata frustrata più che dalla Costituzione dal centralismo dei partiti, delle organizzazioni sociali, e i risultati. Avevamo sottovalutato il rifiuto di aderire alle immagini di regione valorizzate da varie proposte che davano della regione un’immagine molto efficiente, come i Laender tedeschi. Questa contraddizione ha peraltro delle ragioni. Si è scontenti di quello che è accaduto, ma quello che è accaduto retroagisce sull’immagine delle regioni facendo diffidare delle loro potenzialità. Da qui è rinata una spinta municipalista che ha teso a impedire che si ripetesse lo schema della cessione del potere ordinamentale alle regioni sugli enti locali minori, la soluzione che con la legge costituzionale n. 2/1993 si era scelta per le regioni speciali. Si finisce però per cadere in un esito neo-centralistico perché l’alternativa a quella soluzione è un allocazione decisa dal legislatore nazionale riproducendo e non
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sciogliendo le ambiguità della legge Bassanini che nelle materie dell’art. 117 della Costituzione affida tale potere alle regioni e nelle altre lo dà allo Stato. Siccome viene estesa l’area delle competenze legislative regionali, una qualche forma di potere ordinamentale delle regioni ci sarà con notevoli problemi di incertezza rispetto alle competenze statali. Qui è mancata la soluzione ipotizzata da vari studiosi, ad esempio Paladin, che seguivano la strada tedesca, affidando l’amministrazione alle regioni anche per l’esecuzione delle leggi statali. Non avendo fatto quella scelta, ma neanche avendola preclusa, siamo indubbiamente in difficoltà. La formula sfuggente dell’articolo 56 non ci consente di dire se accanto ad un effettivo potere legislativo delle regioni si affianchi anche un vero potere amministrativo. Anche il federalismo fiscale resta piuttosto incerto, sostanzialmente rinviato alla legislazione ordinaria successiva, e così pure vanno precisate la composizione e le attribuzioni del Senato. Questa incertezza complessiva, unita al rischio di espansione degli Statuti speciali prevista dall’ultimo comma dell’art. 57 a regime e non per una fase transitoria, crea una confusione molto ampia e incide sul cuore dello Stato, aprendo rischi di esiti secessionistici. Se ad esempio la Toscana, che l’ha già detto, volesse i beni culturali insieme a tutte le altre regioni con la sola eccezione della Campania, dovremmo comunque tenere in piedi un’amministrazione statale in quell’ambito solo per la Campania. Per di più, al di là di tutti questi difetti e nodi irrisolti, tra la modifica della Costituzione e le modifiche statutarie conseguenti si rischia di essere sfalsati rispetto ai tempi delle domande. Meglio sarebbe concentrarsi sulla legislazione ordinaria sin da subito, anche per il federalismo fiscale. Anche se non si tratta di soluzioni compiute, sono comunque dei passi nella direzione giusta, passi immediatamente tangibili. Forma di governo: medesima analisi, terapie divergenti Sulla forma di governo siete entrambi critici del cosiddetto “semi-presidenzialismo temperato” adottato, ma è proprio un modello da respingere? Elia- Com’è noto sono convinto che per una
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forma di governo parlamentare la formula migliore per ciò che concerne il Capo dello Stato sia l’elezione parlamentare. Si poteva anche realizzare il consenso sul premierato, ma una volta fatta la scelta dell’elezione diretta del Capo dello Stato non ne consegue automaticamente la soluzione francese. La Francia soffre di uno squilibrio di fondo che ritorna continuamente, il paradosso di un Presidente che ha più poteri del Primo Ministro in situazioni normali (e non eccezionali di coabitazione) e che non è responsabile di fronte all’Assemblea rispetto alla quale è responsabile il Primo Ministro che ha meno potere. Per di più il caso francese soffre in questa fase di aritmia, di instabilità legata alla sfasatura tra maggioranze parlamentari e presidenziali. Ciò detto mi preme soprattutto confutare l’automatismo tra elezione diretta e maggiori poteri del Presidente. Siccome il Governo rimane parlamentare, e questa resta la scelta più decisiva, allora è preferibile una soluzione austriaca, portoghese, finlandese, polacca, perché fa venir meno questa sfasatura tra potere e responsabilità che si vorrebbe risolvere in Francia col quinquennato, con un ritorno più frequente di fronte al corpo elettorale. Per andare nella direzione giusta abbiamo bisogno di una scelta elettorale immediata del Premier, ciò ci darebbe il vantaggio di un Presidente autorevole, ma anche di un Governo e di un Primo Ministro che esercitano effettivamente il potere di indirizzo politico perché non derivano da trattative post-elettorali tra le forze politiche né da una scelta discrezionale del Capo dello Stato. C’è quindi un profondo significato democratico di questa scelta che non deve essere sminuito, per evitare che, come in Francia, il Capo dello stato eletto possa cambiare a suo piacimento i Primi Ministri. Mi rendo conto che trasferire su una dimensione di scala di quasi sessanta milioni di abitanti un modello di semipresidenzialismo attenuato che funziona bene in Paesi medio-piccoli non è agevole, ma è comunque la strada migliore. Il progetto è complessivamente equilibrato perché, pur con qualche incertezza, va in questa direzione. Barbera- Il progetto mi sembra contestabile soprattutto perché, come ho già accennato, l’impostazione che andava data era quella di assecondare i processi politici. Ci siamo mossi negli anni scorsi con due coordinate fondamentali, con la scelta dell’uninominale maggioritario e quella di fatto diretta del Primo Ministro. I sostenitori del Premierato non sono
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... Per andare nella direzione giusta abbiamo bisogno di una scelta elettorale immediata del Premier, ciò ci darebbe il vantaggio di un Presidente autorevole, ma anche di un Governo e di un Primo Ministro che esercitano effettivamente il potere di indirizzo politico...
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... l’accordo di casa Letta ha dimostrato che si stava andando indietro, che si era smarrita la strada maestra, che si stava regredendo ad un modello più tradizionale di proporzionale con premio di maggioranza...
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stati coerenti nel sottolineare questi aspetti, questa impostazione di fondo, rendendo debole ilmodello del Premierato e portando alla scelta semi-presidenziale che aveva un elemento oggettivo più chiaro, l’elezione diretta. I leghisti sono intervenuti su un terreno già arato. Peraltro c’erano anche ragioni non irrilevanti, in Italia dai dipartimenti all’organizzazione dei ministeri, al Consiglio di Stato, c’è sempre stata la tendenza ad imitare la Francia. Se invece si fossero seguiti i processi politici si sarebbe fatta l’altra strada. In fondo sarebbe bastato chiarire che il Premier aveva il potere di scioglimento, possedeva questo elemento dissuasivo sulla propria coalizione. Basti vedere come la minaccia di scioglimento di Prodi e di D’Alema sia stata decisiva a scongiurare l’ultima crisi. Elia- Sì, su questo concordo. Personalmente mi ero speso molto per la soluzione costituzionale svedese, per il potere di scioglimento affidato al Premier anche sfiduciato, ma ho trovato dure reazioni che alla fine hanno indebolito il modello del Premierato. Barbera- Non si è colta la profonda valenza democratica di un Premier che va in Parlamento, che sente anche fisicamente la pressione delle opposizioni, che è soggetto ad un controllo penetrante, mentre il Capo dello Stato è comunque distante, si limita a mandare messaggi e gli si deve ossequio. Tuttavia una volta fatta l’altra scelta, a quel punto è meglio seguire sino in fondo la strada francese, che non mi esalta perché vedo i difetti segnalati da Elia e perché la coabitazione è un problema effettivo. Non condivido però le sue conclusioni. È vero che non c’è automatismo in assoluto tra elezione diretta e poteri, ma quando l’elezione diretta è introdotta in un quadro in cui si ritiene che si debba rafforzare il Governo, come puntello ulteriore per la stabilità e l’efficienza dei Governi, un Presidente della Repubblica eletto direttamente vorrà comunque governare senza peraltro prendersene direttamente le responsabilità ed allora è meglio codificare i suoi poteri di governo per renderlo responsabile. Comunque spero che si possa ancora tornare indietro, chi sa chi può dire come si uscirà dalle difficoltà della Bicamerale? Ciò che oggi sembra impossibile politicamente non è detto che lo sia anche domani. Il referendum: stimolo per fare chiarezza o causa di maggiore confusione?
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Come si inserisce in questo quadro l’iniziativa referendaria? Non c’è il rischio che anziché migliorare i compromessi raggiunti finisca per far saltare un processo già così incerto? Barbera- Non ho deciso di dar vita assieme ad altri all’iniziativa referendaria a cuor leggero. Ritenevo giusto che con la Bicamerale i partiti riprendessero in mano il completamento della transizione. Ma ad un certo punto l’accordo di casa Letta ha dimostrato che si stava andando indietro, che si era smarrita la strada maestra, che si stava regredendo ad un modello più tradizionale di proporzionale con premio di maggioranza rispetto alla spinta per l’uninominale maggioritario. So bene che l’accordo di casa Letta conserva un 55 per cento di uninominale rispetto al 75 attuale, ma il cambiamento di rotta al ribasso era ormai tracciato e si poteva scendere sempre più in basso. Il semplice annuncio dell’iniziativa referendaria ha avuto il merito di scompaginare le carte. Per alcuni che avevano sottoscritto il patto di casa Letta quell’esito è stato degradato dallo status di “soluzione” a quello di “una delle possibili soluzioni”, non necessariamente la migliore. Si è ricominciato a parlare di una diversa linea di miglioramento dell’attuale sistema, quella che giudico la più adatta: il doppio turno di collegio, che consente di far evolvere il sistema dei partiti verso due poli ciascuno costituito da due forze principali, quello che i francesi chiamano la “quadriglia bipolare”. C’è chi dice che così facendo si mina la Bicamerale. Ma vorrei replicare che i casi sono due: o questo è un giudizio vero, ma allora esso deve basarsi sull’idea che il pessimo compromesso sulla legge elettorale è il collante dell’insieme e quindi è bene che la Bicamerale salti visto che porta a contenuti regressivi, oppure questo è falso e allora l’iniziativa porterà ad un compromesso migliore. Per di più la Bicamerale prevede un referendum finale sulle modifiche alla Costituzione. In questo modo il corpo elettorale potrà pronunciarsi nella prossima primavera anche sulla legge elettorale. Elia- Non vorrei che esagerassimo con le consultazioni referendarie ed inoltre i tempi potrebbero facilmente non coincidere visto che
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con i lavori parlamentari siamo indietro. Barbera- Vorrà dire che il corpo elettorale darà un indirizzo sulla legge elettorale e poi, tenendo conto di esso, si procederà al varo finale del testo della Bicamerale. Elia- Vedo però delle profonde controindicazioni di merito rispetto al quesito. Esso porta al rischio di un’elezione di tante monadi isolate, una volta che la competizione nei singoli collegi sia slegata da liste, da una competizione nazionale, mi sembra che contraddica profondamente la scelta per un’investitura diretta di un Premier e della relativa maggioranza. Ma l’approdo al doppio turno è proprio escluso? Elia- In realtà non c’è stata riflessione approfondita sul doppio turno. C’era un veto di Forza Italia e Alleanza Nazionale che temevano la concorrenza con la Lega al secondo turno così come secondo molti osservatori la frattura tra la destra moderata e il Fronte Nazionale che ha comportato la presenza dei candidati lepenisti in 70 collegi al secondo turno ha favorito in Francia la sinistra. Certo se si profila un’intesa Polo-Lega il doppio turno potrebbe ritornare di attualità. In ogni caso lì era il problema, non nell’avversione del Ppi che da sola non sarebbe bastata. L’opposizione del Ppi pone però un problema reale, il fatto che se ciascuna componente dell’Ulivo andasse da sola al primo turno il Pds arriverebbe in testa ovunque e poi sarebbe impossibile chiedere ai candidati del Pds di ritirarsi a favore di altri, del Ppi o comunque di forze dell’Ulivo, che avessero ottenuto meno suffragi. Barbera- Infatti qui c’è un limite della strategia del Pds che avrebbe dovuto simultaneamente rilanciare il doppio turno e la soggettività politica dell’Ulivo poiché è chiaro che dovrebbe essere l’Ulivo ad andare unito sin dal primo turno. Stanti i rapporti di forza non c’è altra scelta. Quando parlavo di “quadriglia bipolare”, infatti, per me intendevo Ulivo, Rifondazione, Forza Italia e An. Ma le attuali dirigenze del Ppi e del Pds non sono in sintonia con questa impostazione. Elia- Qualcosa si sta facendo come la costituzione del Comitato dell’Ulivo anche se si può fare di più. Comunque finché è solo il Pds a sostenere il doppio turno l’incentivo per ridiscutere tale posizione sul terreno politico e non meramente accademico non c’è. Ed inoltre se
le alleanze sono già in buona parte composte sin dal primo turno il secondo può apparire superfluo. Barbera- Per questo l’iniziativa referendaria rimettendo in discussione lo status quo può rilanciare anche l’esito del doppio turno, così come il referendum del 1993 cambiò del tutto lo scenario. Elia- Tuttavia eliminando del tutto il riferimento a liste di partito il quesito rischia di creare un meccanismo confuso, non necessariamente un bipolarismo nazionale. Barbera- L’eliminazione della doppia scheda può però condurre anche ad ipotizzare un equilibrio diverso, ad un buon sistema a doppio turno che coniuga diversamente le differenze e l’unità della coalizione. Oggi le medesime forze politiche dello stesso polo sono contemporaneamente alleate per i collegi uninominali e in competizione per la scheda proporzionale. Questo doppio status indebolisce la coesione delle coalizioni, spinge a polemiche artificiose e va quindi eliminato: questo è il significato fondamentale del referendum. Il bipolarismo è ancora fragile, si può difendere non stando fermi ma a patto di perfezionarlo. Rifondazione fa fatica ad interiorizzarlo, a diventare come il Pc francese, ma si sta comunque muovendo in tal senso. Ci sono problemi maggiori con la Lega che per di più è geograficamente concentrata e
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Oggi, in materia di povertà, siamo in una situazione simile a quella che ci descrive il testo evangelico del povero Lazzaro e del ricco senza nome. Dice il testo, semplicemente: c’era un uomo molto ricco e, seduto di fronte alla sua porta, un povero, Lazzaro. Oggi si presenta la stessa scena, ma con tre piccole differenze: una è che i poveri, oggi, cercano di entrare nei paesi ricchi, come, ad esempio nel Nord America. La seconda differenza è che, oggi, l’uomo ricco impone al povero un debito immenso, quello che noi chiamiamo il debito estero. La terza differenza è che nella parabola il povero ha un nome, mentre colui che non ha alcun nome è il ricco, totalmente al contrario di ció che accade oggi: i ricchi hanno sempre un nome, mentre i poveri sono anonimi.
Il secolo che viene - e che per qualcuno è già cominciato negli anni novanta - è un secolo che sarà affascinante per alcuni e crudele per altri. Per noi e per i credenti, il tempo si presenta difficile, infido e, contemporaneamente, pieno di possibilità. Mi sovviene un detto peruviano: “In un viale senza uscita, l’unica uscita si trova nel viale stesso”. Credo che sia così: possiamo avere l’impressione di trovarci in una grande difficoltà, ma l’unica soluzione sta dentro di questa.
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La globalizzazione: Babele o Pentecoste? Su un altro terreno: una delle cose che caratterizzano la ‘globalizzazione’ - parola, per ora, un poco barbara, però non ne abbiamo altre per esprimere questa complessa realtà - è l’idea di creare una coscienza universale, un certo ‘universalismo’. E anche un apparente paradosso: promuovere il particolare, il locale - nei termini utilizzati dai filosofi postmoderni - significa sottolineare i cosiddetti ‘piccoli racconti’ e così, nello stesso momento in cui si afferma l’universalità, si afferma il particolarismo. Mi piacerebbe citare l’esempio di Babele e Pentecoste per riflettere sopra questo punto. Siamo stati abituati a questa interpretazione classica per molto tempo: Babele, le differenti lingue, sono un castigo per la pretesa dell’essere umano - ci veniva detto - di voler avvicinarsi a
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chiamati a dividere
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“In un viale senza uscita, l’unica uscita si trova nel viale stesso”
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Dio, costruendo una torre molto alta. La diversità, dunque, linguistica e, di conseguenza, culturale appare come un castigo. La Pentecoste funziona, in questo schema, come un anti-Babele: ciò che fu diverso in Babele, nella Pentecoste si unifica. La visione biblica abbandona sempre più questa interpretazione, e se ci guardiamo indietro nella storia, ci rendiamo conto di come il dubbio di fronte a tale interpretazione di Babele sia antico. Lo incontriamo già, ad esempio, nel più illustre italiano della storia, Dante Alighieri, la cui posizione - la difesa del valore della lingua volgare che lui eleva a poesia, nonostante continuasse a parlare di castigo - potremmo definire con la celebre frase della notte di Pasqua e di
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Resurrezione: fu una felix culpa. Grazie a questo castigo possiamo parlare lingue differenti e possiamo esprimerci, diceva lui, poeticamente. Soprattutto negli ultimi decenni, comprendiamo meglio attraverso molti studi, fra cui quelli archeologici, che la famosa torre di Babele non fu altro che una torre militare e comprendiamo che l’aspirazione ad avere un’unica lingua è l’aspirazione di ogni Impero. Ogni Impero che volesse dominare cercava sempre di mantenere un unico idioma, mentre la diversità delle lingue risulta essere una protezione per i popoli più deboli. L’idea della diversità è un’idea di arretratezza, e mi sembra giusto quando usiamo l’esempio della Pentecoste, ma non è neanche del tutto corretto, in quanto proprio nell’episodio della Pentecoste si ripete per tre volte un concetto che a noi sfugge un po’. Quando Pietro si rivolge alla folla viene detto in tre occasioni: “Ciascuno comprendeva nella propria lingua”. Non è che ci fosse stata un’unica lingua che tutti capivano, semplicemente più che una lingua si trattava di comprensione tra le persone: ognuno comprendeva nella propria lingua. Io credo che oggi la rivendicazione del particolare, senz’altro dentro il contesto dell’universale, ha un valore molto grande. Nel nord del mio paese, il Perù, c’è una zona indigena, dove ci sono un paio di luoghi, come fossero una sacca, attorno ai quali si parla in castigliano. In un’occasione fui testimone di un fatto molto semplice: arrivò la polizia dalla città più grande per un problema di mercato di alcuni prodotti e i contadini del luogo parlavano fra di loro in dialetto per accordarsi su di un’unica opinione ed esporla alla polizia. Ma gli agenti, tanto indigeni quanto loro, parlavano solo castigliano, e si infastidirono molto: “parlate in castigliano!” ripetevano. Ma i contadini avevano un’altra lingua per potersi comprendere e, accordatisi su
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un’unica posizione, la presentarono alla polizia: la lingua protegge! Io credo che oggi, di fronte all’universalismo crescente, ma anche di fronte alla rivendicazione localistica, dobbiamo rivedere i modelli di Babele e Pentecoste, più come una grazia. Forse anche come castigo, ma è un castigo per coloro che vollero imporre un’unica lingua, per loro fu un castigo, per coloro che vollero e vogliono dominare attraverso un’unica maniera di vedere le cose. Parlare di lingua ci serve come metafora per parlare di tutti i tipi di comunicazione, per parlare di mentalità; quando ho parlato dell’imperialismo di una lingua, naturalmente mi riferivo anche all’imperialismo culturale, economico, sociale, etc. Verso il Giubileo del 2000 Come voi sapete, Giovanni Paolo II nella Lettera Tertium Millennium Adveniente ha proposto un Giubileo per l’anno 2000. Nella sua lettera, all’inizio, dice che noi cristiani, umilmente, dobbiamo aver preso coscienza della responsabilità che abbiamo nell’attuale ingiustizia sociale. Il Giubileo riporta all’esperienza fondamentale del popolo ebraico: la liberazione dall’Egitto, tema principale, d’altra parte, in tutta la Bibbia. Il giorno dell’espiazione è un giono di festa religiosa nel popolo ebraico, è una delle grandi feste del calendario religioso ebraico. Il corno, il Jobel, risuona per tutta la terra, si convoca tutto il popolo ad una celebrazione: dichiarare santo l’anno “50”, e proclamare, nella terra, la liberazione per tutti i suoi abitanti. Molti membri del popolo ebraico si trovarono indebitati nei primi cinquanta anni e lavorarono per altri cinquanta per pagare i debiti. Quando qui si parla della liberazione, si vuol dire che ogni cinquanta anni i debiti dovevano essere eliminati, cancellati, in modo che ogni persona potesse recuperare la propria condizione di libertà. “Sarà un Giubileo: ognuno recupererà la propria proprietà”. Questo significa tornare all’esperienza del popolo ebraico: quando arrivò alla terra promessa, la terra che per un contadino è vita - fu divisa fra le undici tribù di Israele. Ai sacerdoti - la dodicesima tribù - non viene data la terra perché devono vivere di elemosina. Tutti coloro che avevano ricevuto la terra o parte della terra di altri per varie ragioni (salute, morte di un membro della famiglia, o altro), ogni cinquanta anni dovevano tornare a zero, tutti liberi e tutti uguali nuovamente. Nella complessità della nostra società attuale ciò può sembrare estremamente ingenuo. Giubileo significa “perdono dei peccati; gior-
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no della purificazione”: è un anno dedicato a Dio. Tutti gli anni devono essere santi, ma in forma speciale ogni cinquanta. La cosa interessante è che la santità di questo anno viene espressa in uguaglianza e in libertà: saranno resi liberi tutti gli abitanti, ognuno recupererà le proprie terre, ognuno tornerà al calore della propria famiglia. La santità di questo anno implicherà necessariamente una trasformazione della vita sociale, anche dal punto di vista economico. È un ritorno, ogni cinquanta anni, alla situazione nella quale un popolo inizia: libero e uguale, legato a Dio.
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La destinazione universale dei beni della terra Il fondamento del Giubileo si trova quando Jahvé dice: “la terra è mia”. L’unico proprietario della terra è Dio. La conseguenza è immediata: “Voi siete per me come forestieri e ospiti, siete semplicemente amministratori di questa terra”. Questa è l’idea che diede luogo a una tesi dei Padri della Chiesa, che ogni giorno mi sembra più importante per l’insegnamento sociale della Chiesa: la destinazione universale dei beni della terra. Dopo il diluvio - dice il testo della Genesi - Dio stabilisce un’alleanza non solamente con le persone, ma anche con gli animali. La prima alleanza è fondamentalmente un’alleanza con tutto il creato. Più tardi verrà l’alleanza con il popolo, la nuova alleanza. Però
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la cornice in cui questo si sviluppa è un’alleanza con tutta la crezione. Ciò risulta particolarmente interessante in un’epoca in cui siamo molto più sensibili alla nostra relazione con il mondo della natura, alla dimensione ecologica. Tema molto forte nella Bibbia, dove si incontrano, direi, due interpretazioni. L’Occidente prese sul serio il dominare la terra, l’essere umano come re della creazione. Ma c’è un’altra linea biblica - rappresentata, per esempio, dal libro di Giobbe - che è una presa in giro permanente della linea secondo cui tutto ciò che è stato fatto è stato fatto per l’uomo. Ad esempio, i discorsi di Dio riportati nei capitoli 38 e 39 sembrano dire: “Io faccio le cose perché mi piacciono: faccio piovere nel deserto senza che ciò serva a nessuno, nessuno vive lì! Nonostante ciò faccio piovere”. Perché? “Perché mi piace vedere piovere”. Questa specie di spontaneità, di gratuità dimostra che la creazione non è sottomessa all’essere umano, come invece si evinceva dall’altra interpretazione. Credere nel futuro, liberare gli oppressi “Non ci deve essere nessun povero tra di voi”, si legge nel Deuteronomio. A questo mira il Giubileo: “non ci deve essere nessun povero tra di voi”. Oggi, con una formula più nostra, potremmo parlare di un diritto al futuro. Il povero ha un diritto al futuro. Un diritto a pensare a qualcosa di differente dalla situazione attuale, a un’utopia, nel miglior senso della parola. Nel mondo d’oggi assistiamo a un’espropriazione di questo sogno, di questa utopia dei poveri, per dir loro di essere realisti. Vorrei ricordare una frase di S. Agostino che, tra i padri della Chiesa, non è considerato esattamente il più sensibile ai temi che oggi chiamiamo sociali. In un commento alla prima lettera di Giovanni, S. Agostino dice: “È giusto che si dia da mangiare all’affamato, però è molto meglio che non ci siano affamati. È giusto che si dia da bere all’assetato, però è molto meglio che non ci siano assetati”. E continua: “...tu mi chiederai, dunque, come si potrà praticare la carità se non ci sono affamati, assetati, prigionieri, malati. Come si può praticare la carità?...”. Lo stesso Agostino risponde: “Ora ti voglio vedere, ora vai a praticare la carità, proprio adesso che non ti necessitano. In questo momento tu vieni chiamato ad amare con tutta la gratuità”. Qui ci sono temi biblici e cristiani molto importanti assunti da Gesù, secondo il Vangelo di Luca, in un testo chiamato “Dichiarazione Messianica”, “Programma Messianico”. In questo
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testo, che Luca pone praticamente all’inizio del suo Vangelo, all’inizio del mistero pubblico di Gesù, si ricorderà la scena in una sinagoga di Nazaret: a Gesù viene dato un testo che è Isaia 61, 1-2 e Gesù lo legge. Questo testo è una versione profetica del tema del Giubileo: “Lo spirito del Signore Dio è sopra di me, poiché mi ha eletto e mi ha mandato a proclamare la buona novella ai poveri....”. Questo è il proposito che porta Gesù a parlare per tre volte di libertà, a proclamare la libertà ai prigionieri e la vista ai ciechi. La vista ai ciechi è una metafora: i prigionieri in carceri oscure non vedono, in quanto la vista necessita di luce per poter funzionare; quando li liberano riacquistano la vista. Di questi ciechi si tratta: dare la vista ai ciechi per dare la libertà agli oppressi. Questa idea di libertà che già incontriamo nel Levitico, è ripresa, ora, da Isaia. E la seconda grande affermazione è proclamare un anno di Grazia al Signore. Anno di grazia vuol dire un anno gradito a Dio. È l’anno di cui parla il Levitico, l’anno gradito a Dio, in cui si liberano tutti i servi e nel quale vengono rese uguali tutte le persone. Il concetto decisivo si ha due versetti dopo. L’affermazione di Gesù - “questa scrittura si è compiuta oggi” - vuole dire che Gesù colloca la sua missione nella prospettiva del Giubileo. Noi, seguendo Gesù, non possiamo esimerci dal Giubileo, perché Gesù stesso lo assunse. Dare da mangiare, saper dividere Vorrei ricordare il testo che si incontra in tutti e quattro i vangeli: è l’unico miracolo che si ritrova in tutti i vangeli. Vorrei seguire la versione di Giovanni, sottolineando un aspetto del testo che, naturalmente, è molto ricco. Gesù, dopo aver predicato per alcune ore, si preoccupa della fame delle persone che lo stanno ascoltando. Sono coloro che la Bibbia chiama “i poveri del Paese”, e che Gesù chiama, in un’altra occasione: “pecore senza pastore”. Dice a uno dei suoi discepoli: “dagli da mangiare”. Filippo, per primo, risponde - ed è una risposta che i poveri di questo mondo conoscono molto bene - che non ci sono soldi. Tutti i poveri, oggi, sanno che quando chiedono qualcosa possono ricevere questa risposta: “non ci sono soldi”. Vi rendete conto quanto sia antica come risposta?! Andrea, timidamente dice: “C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che è questo per tanta gente?”. Gesù fece sedere tutti sull’erba. A noi sfugge un po’ il senso di questa richiesta
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Gustavo Gutiérrez, sacerdote e teologo, dirige il centro studi dell’Istituto Bartolomé de Las Casas di Lima ed è assistente ecclesiastico del Miic/Pax Romana del Perù. È uno dei padri della Teologia della liberazione. Tra le sue pubblicazioni in edizione italiana ricordiamo “Teologia della liberazione”, “La forza storica dei poveri”, “Bere al proprio pozzo. L’itinerario spirituale di un popolo”, “Parlare di Dio a partire dalla sofferenza dell’innocente”, “La verità vi farà liberi”, “Dio o l’oro. Il cammino di liberazione di Bartolomé de Las Casas”, “Il Dio della vita”. Il testo qui pubblicato è un estratto della relazione pronunciata al Congresso mondiale di Pax Romana, l’associazione che raccoglie gli intellettuali cattolici di tutto il mondo, svoltosi ad Assisi nel settembre del 1997.
25 in quanto era un costume dell’epoca: i servi, allora, mangiavano in piedi, in modo da mangiare veloce e rispondere agli ordini del padrone. Solo le persone libere, con una certa dignità, si sedevano per mangiare. Gesù chiedendo semplicemente che si sedessero per mangiare, li tratta da persone libere, con la loro dignità. Tutti rimangono soddisfatti e avanzano dodici ceste. Perché dodici e non quindici o quattro? Perché dodici è la cifra del Popolo di Dio: dodici tribù, dodici apostoli, dodici ceste abbandonate in mezzo all’erba sono un monito affinchè continuassimo a fare la stessa cosa. In nessun momento si utilizza il verbo “moltiplicare”. Ma siccome noi conosciamo l’aritmetica, diciamo che essendoci stati cinque pani e avendo mangiato in più di 5 mila, dovevano essersi moltiplicati: chiaro e corretto. Però il verbo ‘moltiplicare’ non appare nel testo, perché il grande miracolo consiste nel ‘dividere’, ‘compartire’. Compartire anche il poco. Cinque pani è quasi nulla, dalla nostra povertà bisogna saper dividere. E non solo il pane, che tra l’altro in greco significa ‘tutto’. E inoltre con tutti. Dire: “c’è poca amicizia per poter dividere” non ha alcun senso: chi può misurare il sentimento, l’amicizia? Il grande miracolo di questo testo è di sapere dividere. È ciò a cui siamo chiamati noi oggi.
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Rovesciare la la faticosa impresa Pare rifiorire in Italia lo spazio vitale dei comuni, sostenuti da sindaci sempre più attivi e protagonisti della vita pubblica dell’intero Paese. Confortato da felici scelte politico-istituzionali il nuovo
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Gli storici delle istituzioni faranno fatica a trovare tracce premonitrici della rapida impennata di interesse per il federalismo verificatasi in Italia a partire dai primi anni novanta. Se provassero invece a quantificare in qualche modo la disponibilità a investire sull’argomento mostrato dai politici negli ultimi sette anni noterebbero che l’evoluzione diacronica di tale intensità disegna curve altamente instabili, molto simili agli andamenti di breve termine della borsa o dei cambi in un regime monetario non coordinato. Come per le evoluzioni della borsa o dei cambi sarebbe poi facile spiegare alti e bassi affiancando a un tale ipotetico diagramma le date nelle quali si sono verificati singoli eventi (una vittoria elettorale della lega, una scalata in piazza San Marco) capaci di alterare le aspettative dei protagonisti del gioco politico ed indurli a puntare su un crescita (anche solo di breve periodo) dei rendimenti del “titolo” o della “divisa” federalista.
Costituzione federale: non è ancora cosa fatta Salvatore Vassallo
Dirigente dell’Ufficio Affari istituzionali della Regione Emilia-Romagna e professore a contratto di Analisi delle politiche pubbliche presso l’Università di Trento
Il federalismo e le élites italiane Tuttavia, per quanto questa evidenza empirica sia troppo ghiotta per non essere usata a fini polemici (io stesso l’ho fatto),
ruolo delle città sembra il vero terreno di sviluppo di un federalismo che avrebbe già scavalcato regioni e macro-regioni. Ma è davvero così, e gli intrecci di competenze, funzioni, poteri e risorse, dei diversi livelli
non credo che la si possa considerare (soltanto) una dimostrazione dello scarso senso dello stato e dell’opportunismo della classe politica nazionale. La stessa classe politica che si trova al governo delle città e delle regioni - tranne poche eccezioni - si è mobilitata per quell’obiettivo quando era stato già messo in agenda da altri e dopo aver colto che esso poteva aprire nuove opportunità per rafforzare il suo ruolo. Il “federalismo” ha rischiato - e rischia tuttora - di essere proprio vittima della rapidità con cui è entrato nell’agenda della riforma costituzionale. A causa di tale rapidità, e della oggettiva complessità dei problemi che l’articolazione territoriale dei poteri implica, il dibattito ha avuto inizialmente un carattere del tutto “sregolato”. Mentre sulla forma di governo i protagonisti della scena politica (anche quando non disponevano di una esatta conoscenza di tutti gli aspetti del problema) si erano formati una idea più o meno definita delle loro convenienze e dei “modelli” introno a cui era ragionevole confrontarsi, sulla forma di stato era mancato il seppur minimo affinamento e consolidamento di alcune categorie di riferimento condivise. Da qui sono emerse e hanno potuto arrivare fino a permeare gli stessi documenti della Bicamerale idee strampalate come il “Federalismo dei comuni” e il “Senato delle garanzie - con cameretta federale”. Il percorso che è stato compiuto fino
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del federalismo dello Stato consentono di pensare ad un Italia dei comuni? Eppure il documento della Commissione europea che pubblichiamo ha un’altra idea in proposito, avvalorata da studi e da ricerche. La domanda essenziale
a cui rispondere - ci si chiede - è: perché la gente non è più felice di vivere tutta la vita in città? In molte parti d’Europa la città non è più un luogo desiderabile dove far crescere i propri figli, dove passare il tempo libero
a questo momento indica, però, che il lavoro della Bicamerale non è stato inutile. Non solo per il fatto che ha portato in qualche modo alla redazione di una proposta compiuta, ma anche perché ha messo in moto un processo seppur tardivo di apprendimento tra le elites politiche (tanto di quelle che dominano la scena parlamentare che di quelle che governano le regioni e le principali città). Questo processo di apprendimento è stato stimolato dalla “opportunità da non perdere” della riforma costituzionale e dall’attivismo di alcuni “imprenditori politici”, tanto al centro quanto alla periferia. Esso ha consentito alle elites politiche di visualizzare più precisamente i termini del problema, di
o in generale dove vivere. Questa erosione del ruolo della città è forse la più grave minaccia al modello europeo di sviluppo e di società, e senz’altro una questione che richiede un ampio dibattito.
valutare meglio il loro stesso interesse particolare e ridefinire di conseguenza la loro strategia di alleanze, di acquisire maggiore familiarità con le alternative tecniche in gioco e, sotto la pressione dell’opinione pubblica qualificata, di riparare ai più plateali errori. La stessa classe politica che è al governo degli enti territoriali ha fatto grandi passi in avanti da quando, non più tardi di due anni fa, si divideva tra “regionalisti” e “municipalisti”. La definizione di una posizione unitaria tra Regioni e Comuni (20 gennaio 1998) con la presentazione di un articolato e coerente insieme di emendamenti al testo approvato dalla Bicamerale, posizione a cui ha successivamente aderito anche l’associazione delle Province, ha contribuito notevolmente a rafforzare il fronte “federalista” e, in concreto, a migliorare l’impianto della proposta. L‘approvazione da parte della Camera, seppure non in via definitiva e con l’esclusione delle norme di carattere finanziario (Art. 62), degli articoli che dovrebbero comporre il nuovo Titolo I (Comune, Provincia, Regione, Stato) della Parte II (Ordinamento Federale della Repubblica), fa emergere vari miglioramenti rispetto alle varie bozze formulate dal Comitato Forma di governo e al testo varato dalla Commissione il 4 di novembre. Naturalmente la “prospettiva federalista” è assai più complicata nei suoi aspetti
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operativi e assai più imprevedibile nei suoi esiti di quanto possa essere previsto in qualche centinaio di parole. Ma la Costituzione, per fortuna, non deve definire i dettagli né pretendere di pianificare il futuro, quanto piuttosto stabilire alcuni criteri generali sull’articolazione territoriale dei poteri e un sistema di procedure a garanzia del fatto che la pratica politica non si discosti troppo da quei criteri. La congerie di mutamenti della struttura politico-amministrativa che un consistente trasferimento di poteri verso la periferia comporta viene (deve essere) ridotto a un limitato numero di norme. Ed è quindi dalla formulazione di quelle norme, piuttosto che dalle enfatiche dichiarazioni dei protagonisti, che si deve misurare la bontà del “lavoro costituente”.
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Il federalismo costituzionale. Dal testo della Bicamerale a quello approvato dalla Camera Una costituzione che si voglia definire federale deve affrontare alcuni nodi essenziali. Deve stabilire una ripartizione delle competenze legislative tra stato e regioni tale per cui queste ultime abbiano la possibilità di riarticolare alcune politiche pubbliche (politiche sociali, di gestione del territorio, per la formazione e la promozione delle attività economiche), con un certo grado di autonomia; deve stabilire un qualche criterio di allocazione delle funzioni amministrative che garantisca in maniera tangibile (quanto meno nei settori appena citati) il rispetto della sussidiarietà; deve garantire agli enti territoriali l’accesso per via autonoma ad una quota sufficientemente estesa di entrate tributarie tale per cui essi non debbano dipendere dal centro per gestire le loro politiche e siano quindi responsabilizzati nei confronti dei loro elettori; deve infine prevedere meccanismi di rappresentanza (attraverso una camera costituita su base territoriale) e di tutela giurisdizionale (attraverso la possibilità di ricorrere alla Corte costituzionale) che consentano agli enti e agli elettorati dei territori di cui si compone la repubblica di garantire che l’equili-
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brio (federale) dei poteri non venga alterato. L’opera di riforma costituzionale in Italia, non poteva (non può) inoltre non considerare due ulteriori questioni. In primo luogo la possibilità che le diverse regioni, per le note differenze storiche, economiche e sociali che le caratterizzano, accedano con gradi e velocità diverse al “processo di federalizzazione”. In secondo luogo la necessità di dare un sostegno istituzionale al rafforzamento dei governi regionali, su cui inevitabilmente peserebbe un carico non esile di pressioni se il processo di federalizzazione fosse messo in moto e che sono dotate ancora oggi di sistemi partitici troppo fragili anche a causa di una legge elettorale inadeguata. Il testo approvato dalla bicamerale il 30 giugno e poi parzialmente corretto dalla versione approvata il 4 novembre presentava però, sotto questi aspetti, limiti di non poco conto1. La ripartizione delle competenze legislative, delle funzioni amministrative e delle risorse finanziarie tra stato e regioni risultava, a dispetto delle enunciazioni di principio, sostanzialmente indeterminata. L’elenco delle competenze legislative riservate allo stato era via via cresciuto nel corso del dibattito in bicamerale fino a ricomprendere praticamente tutti i settori dell’intervento pubblico. Quanto alla allocazione delle funzioni amministrative, nonostante la sonora affermazione in base alla quale veniva «attribuita ai comuni la generalità delle funzioni regolamentari ed amministrative», si rinviava poi di fatto alla legislazione statale ordinaria il compito di definire ruoli e funzioni degli
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enti territoriali. Un discorso simile si può fare per il cosiddetto federalismo fiscale. Il relativo articolo non prevedeva infatti una specifica identificazione, per esempio, dei tributi propri delle regioni o degli enti locali, ma semplicemente alcuni criteri generali per l’allocazione delle risorse con il rinvio ancora una volta a decisioni da prendere al livello statale. Al tempo stesso, come è noto, non era stato messo in pratica l’impegno - preso durante le elezioni da entrambi i due maggiori schieramenti - di dar vita ad un Senato rappresentativo delle regioni e degli enti locali. In questo modo, l’equilibrio dei poteri tra centro e periferia, non definito da precise norme costituzionali, rimaneva tutto nelle mani di un legislatore statale totalmente privo di contrappesi “federali”. Era stato negato inoltre il principio dell’elezione diretta dei Presidenti di Regione ed anche il cavallo di battaglia del relatore D’Onofrio, la via “catalana” al federalismo, si era ritratta a tal punto da lasciare spazio soltanto a forme di autonomia differenziata per le regioni a statuto ordinario concesse con legge costituzionale. Uno degli obiettivi “minori” che la riforma avrebbe potuto perseguire era quello di razionalizzare la geografia amministrativa italiana: rendere più flessibile il ruolo delle province (al limite farne un ente di secondo grado) e promuovere una riduzione della frammentazione tra piccoli comuni. Si è rinunciato però anche su questo terreno a compiere scelte coraggiose. É stata enfatizzata la scelta - retorica e concettualmente discutibile - di mettere sullo stesso piano tutti i livelli di governo lasciando tuttavia inalterata, ed anzi proprio per questo accentuando il carattere frammentato dei poteri locali. L’impianto della proposta si è attirato quindi a ragione le critiche di molti esperti oltre che dei rappresentanti delle regioni e
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dei comuni, i quali sono riusciti, come si è detto, a formulare un pacchetto organico e ben congegnato di emendamenti. Questo ed altri fattori, non ultima la necessità percepita da tutti i protagonisti della Bicamerale di dare un segnale di ripresa del dialogo e di una qualche sua concretizzazione, hanno favorito l’adozione di una serie di miglioramenti degli articoli sulla “forma di stato” durante l’esame in aula alla Camera. Accanto a questi miglioramenti, già effettivamente introdotti in fase di prima approvazione, è stato poi annunciato il raggiungimento di un accordo nell’ambito del Comitato ristretto della Bicamerale secondo il quale si farà del Senato la sede di rappresentanza degli elettorati regionali. Inoltre, pur rinunciando ad acquisirlo come principio costituzionale, è stata accolta la richiesta del documento AnciRegioni di garantire che nelle elezioni regionali del 2000 l’attuale meccanismo di investitura “implicita” dei Presidenti si trasformi in una elezione diretta a tutti gli effetti. A questo punto, secondo le voci più ottimistiche che vengono dall’interno della bicamerale, il “federalismo” sarebbe cosa fatta. In attesa che vengano al pettine i nodi più duri da sciogliere della forma di governo e della giustizia, sembrerebbe sia stato messo a segno almeno il primo risultato. Ma è proprio così?
É cosa fatta? Le norme del Titolo I approvate dalla Camera stabiliscono, in particolare: quali sono gli enti territoriali a cui la costituzione garantisce una piena autonomia (Art. 55); i criteri in base ai quali dovranno essere allocate le funzioni amministrative tra tali enti (Art. 56); le procedure con cui singole regioni potranno ottenere condizioni particolari di autonomia (Art. 57); le materie per le quali lo stato dovrebbe conservare un potere legislativo esclusivo, quelle in cui lo condividerà con le regioni e, in via residuale, quelle che potranno essere disciplinate in maniera del tutto autonoma dalle regioni (Art. 58); le modalità di
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La sussidiarietà? È figlia del cattolicesimo democratico paolo corsini DEPUTATO DS, COMITATO EDITORIALE DE “IL BIANCO E IL ROSSO” Il testo che qui pubblichiamo rappresenta un estratto dell’intervento pronunciato alla Camera dei Deputati, nella seduta del 19 marzo scorso.
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Mi pare di poter concordare con il professor Colletti, quando sostiene, correttamente, che la Repubblica riconosce i diritti e non conferisce i diritti. Infatti, la persona precede lo Stato, la comunità precede la società. Tuttavia, non ritengo di concordare con le osservazioni del professor Colletti quando inserisce la categoria della sussidiarietà dentro il grande pensiero liberale moderno. Anzi, credo che il tema della sussidiarietà, in realtà, appartenga integralmente alla tradizione cattolica. La cultura politica dei cattolici è estremamente articolata e va dal cattolicesimo intransigente a quello liberale, a quello reazionario, a quello democratico. La cultura che tematizza il problema della solidarietà nasce quando il pensiero cattolico tematizza la modernità. E lo fa contro le esperienze del socialismo, che appare alla fine del secolo in contrapposizione al pensiero liberale e che poi sfocia nelle esperienze del totalitarismo. Allo stesso tempo, la cultura della sussidiarietà, al di là del giudizio di valore o di merito che ne possiamo dare, è critica nei confronti della cultura del pensiero
liberale. E non soltanto la cultura della sussidiarietà, così come corre da Sturzo a Dossetti a Moro… Quella di Dossetti, per esempio, è la cultura di un laburista cristiano, non certo statalista, ma, allo stesso tempo, nemmeno liberale né tanto meno liberista. Insomma, la cultura della sussidiarietà è critica sia nei confronti del pensiero liberale che del pensiero socialista, sia per le sue radici marxiste sia perché evolve in direzione totalitaria. Ma c’è un punto che mi preme richiamare. Oggi, la cultura della sussidiarietà assume un altro valore. Diventa cultura della libertà contro un’esorbitanza pervasiva ed illimitata della dimensione dell’interesse. Diventa, insieme, una cultura che ha un valore e una funzione ‘congiuntiva’ perché tende a congiungere il ruolo del pubblico, che non necessariamente deve essere statale, e la funzione, l’iniziativa e la valorizzazione della dimensione privata. È, questo, il punto di congiunzione che mi pare non emerga dalla riflessione del professor Colletti, il quale invece consegna all’orizzonte liberale e liberista una categoria fin dalle sue origini critica nei confronti di questa dimensione. Pertanto, le posizioni assunte dalla maggioranza vanno nel segno di una lunga fedeltà, non di una tradimento, non di una deprivazione delle potenzialità positive che
soluzione degli eventuali conflitti di attribuzione tra stato, regioni, enti locali (Art. 59); i criteri per la redazione degli statuti regionali e quindi i principi della forma di governo regionale (Art. 60); i casi in cui le Regioni potranno stipulare accordi con enti territoriali di altri stati (Art. 61); i criteri e le procedure da adottare per modificare
i “confini” dei comuni, delle province o delle regioni (Art. 63). Con la nuova formulazione dell’articolo 55 non è stata fatta alcuna scelta innovativa a proposito della funzione e del ruolo delle province ma in compenso si è data piena dignità costituzionale alle città metropolitane. L’articolo 56 riproduce, pur asciugandone alcune ridondanze lessicali, esattamente il medesimo criterio di allocazione dal basso in alto (anziché dall’alto in basso) delle competenze amministrative di cui si è già detto. La versione emendata dell’art. 57 conferma la possibilità di regimi particolari di autonomia anche per le regioni a statuto ordinario ma rende la procedura più equilibrata rispetto a quella aggravata ordinariamente prevista per le leggi costituzionali. Le “condizioni particolari di autonomia” nella nuova versione sarebbero richieste dalle regioni, approvate a maggioranza assoluta dalle due camere (non sarebbe quindi necessaria la doppia approvazione) e confermate in un referendum dai cittadini di quelle stesse regioni. L’articolo 58 presenta a prima vista molti cambiamenti. Si tratta però, a ben vedere, di un misto di aggiustamenti “stilistici” e correzioni di sostanza. Uno di questi aggiustamenti stilistici provoca una certa irritazione. All’evidente scopo di ridurre il numero di lettere in cui si articola il primo comma - quello che enumera le competenze riservate in maniera piena ed esclusiva allo stato - sono state accorpate materie che prima risultavano opportunamente distinte. Cosicché si può dire (barando) che sono state esattamente dimezzate: da dieci a venti. Ma sono state dimezzate le lettere, ovviamente, non le competenze statali. Ciò detto, è pur vero che, anche per effetto di alcune modifiche di sostanza, quel primo comma risulta ora abbastanza equilibrato. Se non fosse per la riserva assoluta allo stato della legislazione sulla «tutela dei beni culturali e ambientali», che conferma una inclinazione accentratrice già mostrata dalle burocra-
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L’autore di questo articolo ha discusso più in dettaglio il testo approvato il 30 giugno in Il federalismo sedicente, in «Il mulino», n. 4, 1997, di cui questo articolo costituisce una sorta di aggiornamento. Un esame accurato della versione approvata il
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zie e dagli attuali componenti del governo competenti in quelle materie nell’attuazione della riforma “Bassanini”. I problemi maggiori vengono dalla formulazione del secondo comma, quello nel quale sono elencate le materie a competenza concorrente statale e regionale. Di fatto queste coprono la gran parte, se non tutti, i residui campi dell’intervento pubblico. In tali materie lo stato dovrebbe stabilire la «disciplina generale», laddove è evidente la consapevole intenzione di riservare allo stato una possibilità di intervento assai più penetrante di quella attualmente prevista nelle materie indicate dall’art. 117. Nelle materie a competenza concorrente attualmente indicate dalla Costituzione lo stato determina (avrebbe dovuto determinare) i «principi fondamentali». É noto peraltro che questa definizione non è stata sufficiente a limitare un intervento legislativo ampiamente invasivo dell’autonomia regionale. É plausibile supporre dunque che, a maggior ragione, nelle materie elencate al secondo comma del nuovo articolo 55 sarà la legge statale a stabilire il margine, che potrebbe rivelarsi anche esilissimo fino a risultare inesistente, dell’autonomia regionale. Inoltre nel testo sono state riformulate o introdotte ex novo tre materie dal significato incerto o troppo esteso. La «disciplina generale» statale verrebbe applicata, tra l’altro, alle materie «territorio» (che nella precedente versione era omessa), «alimentazione» (al posto della più comprensibile «controllo delle sostanze alimentari»), disciplina della comunicazione (che sembra sostituire «poste e telecomunicazioni»). Sulla forma di governo regionale si è in parte già detto. Le regioni dovrebbero poter contare, a partire dal 2000, su un sistema di elezione identico (o simile) a quello attuale ma che contempli una vera investitura diretta dei Presidenti. Non si è voluto però che questa assumesse la veste di principio costituzionale. Così come non si è accolta la proposta di istituire in ogni regione una Camera di rappresentanza delle autonomie locali che avrebbe limi-
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tato i rischi da più parti ventilati di un neocentralismo regionale. Se questa proposta fosse stata accolta, la “Camera delle autonomie” avrebbe potuto svolgere oltre che una funzione di raccordo sempre più necessaria tra regioni ed enti locali, avrebbe potuto utilmente agire da filtro sui ricorsi da parte degli enti locali alla Corte costituzionale. La Consulta, invece, dato che secondo l’art. 59 ogni singolo ente locale potrà farvi ricorso, rischia di essere sopraffatta da una molteplicità disparata di iniziative. Il giudizio dunque non può essere univoco. Non c’è dubbio che siano stati fatti alcuni passi in avanti. Tuttavia l’impianto rimane sostanzialmente inalterato e, va detto, da questo punto di vista difficilmente poteva andare in un modo diverso. Sui nodi rilevanti (ripeto: competenze legislative, funzioni amministrative, autonomia tributaria) sono state scelte e mantenute formule sufficientemente flessibili, tali da non predeterminare una specifica dislocazione dei poteri. Fatte salve alcune sbavature evitabili ritengo che questa impostazione sia, nella situazione italiana, assolutamente saggia. In ogni caso non credo esistessero le condizioni tecniche per formulazioni più analitiche del tipo di quelle contenute nella costituzione tedesca. Se non che questa impostazione implica come suo naturale contrappeso una solida garanzia “federale” sul piano della struttura della rappresentanza parlamentare.
Resta un nodo irrisolto: composizione e ruolo del Senato Il nodo principale - e quello da cui potrà dipendere la valutazione complessiva - continua quindi ad essere rappresentato dalla composizione e dal ruolo del Senato. Anche su questo aspetto sono stati dati segnali incoraggianti ma non conclusivi. Sappiamo per certo, sulla base degli accordi raggiunti nel comitato ristretto e dei testi votati alla Camera, che (per ora) si pensa ad un organo composto da senatori eletti contestualmente ai consigli regio-
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nali di cui possano far parte anche componenti di quegli stessi consigli (l’art. 60, 6° comma, ammette implicitamente questa eventualità). Seguendo una delle ipotesi inizialmente minoritarie indicata anche nel documento Anci-Regioni, si prefigura un Senato su basi elettive la cui formazione è “materialmente” collegata alla formazione della rappresentanza politica regionale. Il giudizio deve rimanere tuttavia sospeso fino a quando non saranno chiariti in particolare quattro “dettagli” tra loro in parte connessi: quanti saranno in totale i seggi senatoriali; come saranno distribuiti tra le regioni; quale sistema elettorale si adotterà all’interno delle regioni; a quali altre funzioni il senato verrà preposto accanto a quelle per così dire di “garanzia federale”. Non a caso quanti hanno proposto fino ad oggi la soluzione di un senato “federale” interamente elettivo hanno puntualmente precisato che i senatori debbano essere pochi, che la differenza di seggi tra regione e regione non debba essere eccessivamente ampia e che i senatori debbano essere eletti con metodo non proporzionale, in modo da garantire la formazione di rappresentanze regionali sufficientemente “compatte” e programmaticamente qualificate. Se infatti si mantenesse il proposito di utilizzare un sistema elettorale proporzionale, e i seggi senatoriali
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fossero nel complesso in numero elevato, e fossero poi distribuiti tra le regioni proporzionalmente al numero dei residenti, allora l’intero meccanismo non solo non favorirebbe affatto la formazione di una rappresentanza territoriale (degli enti o/o degli elettorati regionali) ma finirebbe per avere effetti devastanti sulla stessa struttura del sistema partitico. Poniamo, ottimisticamente, che si stabilisse che i seggi siano in tutto 200 (il numero minimo su cui mi pare plausibile il senato sia disposto ad attestarsi) e che si adotti il criterio per cui ogni regione ha diritto ad almeno due seggi mentre gli altri sono attribuiti su basi proporzionali. In Puglia, Emilia-Romagna, Piemonte, Veneto, Sicilia, Lazio e Campania si eleggerebbero dai 14 ai 20 senatori e in Lombardia se ne eleggerebbero 31. Lascio intuire quale sarebbe l’effetto, in regime proporzionale, sulla struttura della competizione partitica e sulla “organicità” dei legami tra gli eletti e tra di essi e gli enti territoriali della regione. Ora si noti con attenzione che i problemi non verrebbero soltanto da una eccessiva “partiticizzazione” del mandato, e cioè per così dire da “un troppo poco” di localismo, ma anche (se non in misura maggiore) dal fatto che si creerebbero opportunità competitive attraentissime per minoranze “iperlocaliste” destinate a loro volta ad alimentare fenomeni culturalmente devianti. Si rifletta su questo: quale migliore oc-
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Venezia, giovedì 30 aprile 1998. Massimo Cacciari è tornato da Bruxelles: ha guidato una delegazione veneziana per ottenere dalla Comunità il mantenimento degli sgravi fiscali per le imprese che operano nel Centro storico, senza aver raccolto i risultati sperati. La partita non è ancora chiusa. Il tempo a disposizione non è molto perché poi inizia la Giunta. La conversazione avviene nello studio del Sindaco, una stanza di ca’ Farsetti che affaccia sul Canal Grande. Tavoli e sedie, ancorché dorate, non hanno più un ruolo di rappresentanza come con i Sindaci precedenti; sono invase da pile di libri e carte.
L’insostenibile leggerezza dell’amministrare Quali atti e decisioni della tua Amministrazione sono improntati allo spirito federalista di cui ti fai paladino? Com’è possibile che una Amministrazione prenda decisioni federaliste? Il federalismo è un riassetto istituzionale. Le Amministrazioni locali non hanno nessun potere, possono essere soltanto soggetto di una politica federalista. Dal punto di vista della cultura federalista, invece, direi tutte le politiche sociali, perché il federalismo che ho in mente è un federalismo solidale e competitivo. Alle prospettive federalistiche, poi, rispondono tutte le Consulte create: per l’handicap, per gli anziani, per la scuola.
Federalismo: passaggio a nord-est Dopo il documentoappello dell’inizio dell’anno con cui ha lanciato ufficialmente il Movimento del Nord-est - e di cui pubblichiamo nelle pagine che seguono alcuni brani MASSIMO CACCIARI, sindaco di Venezia, interviene sulla sua responsabilità ed esperienza amministrativa, sui problemi teorici del federalismo, sulla
intervista a Massimo Cacciari a cura di Giovanni Benzoni
I Consigli di quartiere - una conquista del decentramento amministrativo - potrebbero essere usati per realizzare un processo federalista dentro l’attuale Amministrazione? Sembra invece che non siano stati potenziati: il personale è sempre quello, anzi è diminuito, almeno se ripenso a quindici anni fa... No, sono stati ridotti di numero e sono stati potenziati. Non si poteva fare la città metropolitana, ma ogni quartiere ora ha
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un ottavo livello: prima non c’erano. Certo, il personale è diminuito perché rispetto al tempo cui fai riferimento il Comune ha perso mille persone su quattromila, quindi tutti i settori hanno perduto personale. Ma l’accorpamento dei Quartieri, le deleghe ai Quartieri sono molto diverse da quando c’eri tu. Che cosa ha realizzato la tua Amministrazione? Tutta la manutenzione degli impianti sportivi, i servizi sociali, i vigili. Adesso c’è un vigile che è alle dipendenze del Presidente del Consiglio di Quartiere. Quello che si poteva fare, in base alle risorse scarsissime, personale compreso. Nella pratica politica dell’Amministrazione, dopo il ‘93, è cambiato qualcosa nel rapporto tra Consigli di Quartiere, Consiglio comunale, Giunta e Sindaco? Direi di sì. Anche soltanto l’istituzione di un ufficio come l’URP (Ufficio Relazioni con il Pubblico) a Venezia e a Mestre cambia i rapporti di informazione e di comunicazione. Se federalismo è maggiore trasparenza, se federalismo è un’interfaccia più stretta tra cittadinanza e apparati amministrativi, non c’è alcun dubbio che non c’è il più lontano paragone rispetto una decina d’anni fa, almeno nelle potenzialità. Poi, sai, bisogna vedere anche se la gente le usa. Gli strumenti di informazione che abbiamo realizzato sono abbastanza sofisticati; il 90% della popolazione avrebbe bisogno, di una persona in carne ed ossa che risponda alle sue domande in modo piano e chiaro, magari in dialetto. Questo bisogno è impossibile soddisfarlo. C’è stato un accorpamento - essenziale - e la creazione di una serie di consulte con poteri consultivi che funzionano in modo più o meno adeguato in settori chiave per l’Amministrazione. Non hai parlato dell’altra scelta operata dalla tua Amministrazione, quella della “esternalizzazione” delle aziende... È una cosa che - federalismo o non federalismo - bisogna fare comunque. È una esigenza di maggiore efficienza che sta fuori
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di ogni discussione possibile, altrimenti tutto ha rapporto con il federalismo. Anche se fossi il più scatenato centralista dovrei cercare di organizzare il sistema delle aziende. Perché questo fa parte di una maggiore produttività per l’Amministrazione pubblica. Vale per il Comune, per l’Enel, per la Telecom.
deve venir meno? Sta già venendo meno: è una constatazione fattuale... Lo stato moderno, così come lo abbiamo concepito, ha finito la sua storia. Non so che cosa ci sarà, ma la possibilità di una sovranità territorialmente determinata sta scomparendo.
Nell’erogazione dei servizi ci possono essere attenzioni diverse? Certo, per esempio l’ASPIV (Azienda Servizi Pubblici Idraulici e Vari Venezia) ha fatto un bilancio sociale che dovrebbe essere leggibile dall’utente non solo in riferimento ai conti, ma anche alla qualità dei servizi erogati.
Per lasciar posto a che cosa? Probabilmente a forme di potere e di dominio soltanto economico, tecnologico, finanziario e culturale oppure a poteri “invisibili” nel senso che tendono ad essere sottratti ad ogni forma di controllo e di legittimazione democratica.
Chi può incidere, al di là del Consiglio di amministrazione, sulla qualità dei servizi erogati? In nessun sistema federale un Consiglio di amministrazione si può trasformare in un’Assemblea. La politica - la buona amministrazione politica - ha degli aspetti aziendali: deve averli a meno di non vivere sulla luna. Bisogna perseguire l’efficienza, l’efficacia, la produttività, soprattutto in un sistema come quello italiano. Federalismo è anche un sistema che permette una maggiore efficienza nella Pubblica amministrazione.
Il federalista. Chi è costui? Una tesi del tuo documento mi stupisce. La riassumo con uno slogan: “l’uomo, la persona, o è federalista o non è”. Mi stupisce perché sono abituato a considerare il federalismo non un fine, come tu scrivi, ma un mezzo. Ma l’uomo si accorda e convive se ha determinati valori, fini. Nel mio linguaggio, il federalismo è uno strumento, non un fine, per raggiungere determinati scopi. Alla radice della teoria del federalismo viene meno la distinzione tra pubblico e privato: tutto ciò che può fare il privato - non come individuo isolato, ma come individuo che è capace di accordarsi, di vivere politicamente - lo fa senza delegarlo a strutture pubbliche. Questo porta a dire che lo stato moderno
Rispetto a questo scenario la risposta quindi o è federalista o non è. È la guerra di tutti contro tutti, barbarie comunque? Non barbarie: c’è uno spaventoso deficit di legittimità democratica, già ora. Pensa alla Comunità europea, e poi, per converso, una politica, chiamiamola così, di... “Arrangiamento” Un “arrangiamento” e una tenuta delle frontiere rispetto ad un assalto anarchico di appetititi, di domande... Non è la fine del mondo, perché l’assalto si dà in forma talmente dispersiva, talmente anarchica e totalmente priva di punti di riferimento e di strutture organizzative che lascia praticamente intatti i centri di potere. Questo è il sistema che si sta delineando. A livello locale, una politica che sia priva ancora dei poteri, dell’autorità e della responsabilità necessarie, arranca per tenere la frontiera delle domande - la cosiddetta società delle spettanze - mentre i poteri decisivi in materia economica, tecnologica e culturale gestiscono effettivamente tutto, al riparo da sorprese sociali. L’unica prospettiva per reagire a questa realtà che avanza è quella federalista, all’interno di ogni Stato e a livello continentale. La prospettiva federalista comporta più modelli corrispondenti al grado di consapevolezza dei singoli gruppi, delle singole comunità civili?
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è un prodotto tipico dello Stato nazionale centralisticamente organizzato che inventa un mito nazionale di Stato: laddove c’erano centomila Nazioni all’interno di quel Territorio se ne fa Una, si impone che le diverse nazioni scompaiano e che ci sia una sola nazione. Questo processo tuttavia nella storia italiana ha dato esiti di un certo rilievo. Il grembo dell’idea statale territorialmente determinata, a sovranità assoluta - storia di tre secoli - ha portato tanti fatterelli tra cui il fascismo e il nazismo. Fatterelli che l’Europa non aveva mai conosciuto nella sua storia... Certamente, non può esservi un federalismo unico. Il federalismo deve essere a velocità variabile: realtà regionali, locali che sono mature per assumere determinate responsabilità, altre che devono essere in qualche modo sostenute per un certo periodo per giungere al livello di responsabilità. Il federalismo è chiaramente un processo sperimentale, non un modello idealtipico che ti esce dalla testa e che cerchi di incarnare. Nella natura concettuale del federalismo hai la ricerca di una adeguatezza a tradizioni, storie, prospettive, interessi locali. Un federalismo omologante, totalizzante, è una contraddizione in termini. Questa prospettiva che comporta anche il recupero del tradizionale non può diventare alimento di forme nazionaliste, di incentivo ai particolarismi degli uni contro gli altri armati? Il nazionalismo è la malattia della Nazione: è stato il prodotto tipico dello Stato unitario centralizzato moderno, non è stato il prodotto della regione tradizionale, della città. Il nazionalismo come degenerazione dell’idea di Nazione è tipico dello stato moderno. Non c’è pericolo di nazionalismo se il federalismo viene pensato coerentemente, coerentemente praticato. Non c’è nessun nazionalismo in Svizzera. é sbagliato parlare di nazionalismo negli Stati Uniti. Gli Stati Uniti hanno un ethos comune molto forte, che - piaccia o non piaccia - non c’entra con il nazionalismo: hanno una religione americana, una religione civile. Il nazionalismo
Evitare di ripeterle che vuol dire? Vuol dire federalismo: un sistema in cui la sovranità si divide, non è concepibile come assoluto. Il concetto fondamentale del federalismo è che la sovranità può essere divisa, senza annullarsi anarchicamente. Si suddivide in poteri tutti originali, nessuno derivato, e ognuno ha le sue competenze.
La cultura politica come ri-costituente In Italia c’è la bicamerale... Come sai ero per eleggere una Assemblea costituente perché gli Italiani sapessero che sceglievano delle persone per fare la Costituzione. Questa prospettiva non è stata accettata e quindi, come sempre in Italia, si è presa una via di mezzo che rischia di sommare i vizi degli estremi. Nella lettura del tuo documento ho trovato tante espressioni tipiche della tradizione dei cattolici democratici, dalle suggestioni personalistico-comunitarie alle teorizzazioni delle comunità intermedie, quasi che il tuo discorso fosse dettato da una non tanto nascosta captatio benevolentiae... Fare davvero una Assemblea costituente sarebbe stata una grande occasione perché avrebbe obbligato tutte le forze politiche a fare un po’ di cultura politica: qualunque Costituzione nasce da un grande dibattito tra le forze culturali fondamentali del Paese.
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Per un nuovo federalismo / 1 Di seguito proponiamo i paragrafi 3 e 4 del documento-appello del movimento del Nord-Est
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«Il nostro federalismo è perciò l’esatto opposto di una forma di reazione nostalgica nei confronti della globalizzazione. La straordinaria complessità di questo processo implica, invece, responsabilità diffuse, forme sempre più ampie di auto-governo, il superamento radicale di ogni logica centralistico-burocratica. Se non si alimenterà di una tale cultura politica, il processo di globalizzazione finirà col generare il suo opposto: il risorgere di nazionalismi, e magari micro-nazionalismi, l’un contro l’altro armati. Per gli stessi motivi il nostro
federalismo è l’esatto opposto di ogni forma di autarchica chiusura localistico-municipalistica o anche nazionalistica. Il nostro federalismo implica la costituzione di una pluralità di poteri autonomi e non derivati. Non ha nulla a che fare con la logica del decentramento e della “delega”. Ma l’autonomia piena dei poteri regionali e locali non viene affermata per isolarli. Ogni affermazione di autosufficienza è semplicemente puerile in quest’epoca. Autonomia significa anzitutto capacità di relazione, capacità di sviluppare le proprie risorse, di mettere a frutto le proprie risorse, di mettere a frutto le proprie forze, in contesti internazionali sempre più difficili, competitivi, dinamici.
Dopo la fine dell’epoca delle ideologie, delle contrapposizioni, dei totalitarismi, c’è una straordinaria occasione in questo Paese che temo sarà difficile recuperare. Non dico che sia stata perduta: siamo ancora in tempo in quest’anno che rimane prima dell’approvazione del testo. Si tratta davvero di rimescolare le carte tra cultura laica, di tradizione socialista e cultura cattolica su questioni di fondo come quelle che tu hai citato. Quelle questioni, a differenza anche soltanto di pochi anni fa, sono acquisite. Se i problemi della riforma costituzionale fossero stati affrontati a partire da questo background culturale anziché dai compromessi sulla giustizia con Berlusconi, si poteva arrivare ad un compromesso costituzionale di alto livello: c’erano tutti i presupposti a differenza anche di pochissimi anni fa. Le presenze che tu evidenzi nel documento sono vere, sono volute. E invece i conti con la tradizione marxista, comunista non li vedo... Andrei piano. Intanto “liberare è federare” è uno slogan di Silvio Trentin che sapeva di queste cose. C’è una tradizione laica federalista, altrettanto forte di quella
cattolica e anche liberale: Einaudi, Sturzo... Quindi c’era la possibilità davvero di fare un discorso sul federalismo; ecco la grande occasione che temo sia stata in parte mancata. A partire dal sistema istituzionale, dal funzionamento dell’amministrazione, si potevano davvero rimescolare le carte su tutti gli aspetti fondamentali che avevano trovato un compromesso instabile e al ribasso all’interno della prima Costituzione. Allora fondi un Movimento assieme a Carraro, industriale veneto. E’ una conseguenza di questa situazione? Nord-est significa anche tentare di incarnare queste idee nella società in cui vivi, nella quale lo scontro è molto duro e le esigenze di una presenza federalista sono quanto mai urgenti ed evidenti. Se non si crea un punto di riferimento di questo tipo non rischi la conservazione, ma una deriva spaventosa in senso demagogico, plebiscitario, secessionistico. In altre regioni se non c’è la riforma federalista c’è la conservazione. Ma qui non c’è la conservazione, c’è la reazione. Un movimento politico con ambizioni elettorali che si rivolge a tutti senza chiedere una scelta previa di uno schieramento, perché, in una prospettiva radicalmente federalista, destra e sinistra non hanno una specifica ragion d’essere. Ma destra e sinistra non esistono per te, in un processo che non è solo istituzionale? Che vuol essere solidale in un riassetto federalista dello stato? Nella Costituzione ci sono dei problemi redistributivi importanti: occorre salvaguardare i diritti di cittadinanza che devono essere comuni in tutto il Paese. Andare oltre la storia secolare dello Stato nazionale, centralisticamente organizzato, per te cosa è, di destra, di sinistra? Una prospettiva fortemente innovativa soprattutto nella storia italiana, fortemente progressiva, al limite rivoluzionaria. Perché se c’è un Paese che ha nel suo dna gli elementi assolutamente centralistici - organizzazione per organizzazione, corporazione per corporazione - questo è il nostro. Che cosa è allora: destra, sinistra? Non lo so.
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Hai parlato di diritti di cittadinanza. A volte ti ho sentito parlare in modo critico della pretesa di universalità dei diritti dell’uomo. Devi concedere, però, che i diritti dell’uomo sono almeno una enunciazione regolativa e orientatrice rispetto alle situazioni date. Se attuati, rappresenterebbero un salto incredibile della vita di quelle comunità. Il discorso generale sulla genesi del concetto dei diritti dell’uomo e sulla sua traduzione pratica nel corso degli ultimi due secoli nel confronto tra Europa e altri continenti è cosa del tutto diversa dallo stabilire alcuni diritti di cittadinanza all’interno di un Paese che ha storia, tradizioni e prospettive certamente affini: per affermare che, al di sotto di determinati livelli di servizi, al di sotto di determinati livelli di godimento di beni, non puoi scendere. È assurdo individuare, immediatamente e meccanicamente, la traduzione pratica di un discorso filosofico generale in un’area determinata.
Il Nord-est: nel ventre del mutamento Il cambio d’epoca si fa sentire anche nel Nord-est. In nome del rispetto delle regole del mercato sta passando di tutto: nel tuo documento mi pare che il tema del lavoro e della organizzazione produttiva sia collocato tra i “dati di fatto” che poi in Carraro sono alla base della sua condivisione della tua proposta federalista. Forte risulta la via aziendalista al federalismo. Funzionale, aziendale, economica... Ho ancora nell’orecchio la conversazione con un’impreditrice padroncina di un laboratorio tessile che lavora per conto terzi. Si sente oppressa dalla Triplice (chiama così la CGIL-CISL-UIL) e della committenza dice che non hanno “cultura del lavoro”, che fanno una politica dei prezzi che le impone il lavoro nero, o i falsi fallimenti. Lei ha risolto il problema applicando “un contratto di mercato”. Cosa vuol dire?
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Voleva dire che ha applicato un contratto collettivo nazionale sottoscritto dalla Cisal e promosso da Associazioni che mi sembrano abbastanza di comodo, che le consente una grande flessibilità, come organizzare turni di 13 ore. L’idea di poter continuare con una politica sindacale a contratti collettivi unici nazionali, a orari di lavoro di lavoro fissati per legge, eccetera, è pura reazione: non si può reggere la competizione contemporanea con strutture rigide nel campo dell’organizzazione del lavoro e dei fattori produttivi. È come inventarsi di poter andare avanti con le candele invece che con le lampadine. Non esiste. Però, pensare che il mercato è tutto è altrettanto stupido: il mercato fine a se stesso non c’è mai stato. Il laissez faire non è mai stato pensato, nemmeno dagli economisti classici, senza norme, senza regole, senza Stato. Dov’è la contraddizione? Gli elementi normativi che abbiamo sono tutti coerenti con una situazione produttiva e sociale superata, mentre i fatti produttivi e sociali non sono normati o lo sono in modo insufficiente. Questo è il gap. Non chiudi il gap riportando i fatti alle norme antiche come vorrebbe Bertinotti, ma devi adeguare le norme ai fatti. E quindi devono essere norme che prevedono meccanismi di elasticità, che premiano fino in fondo strumenti come i contratti d’area, gli accordi di programmi d’area, ecc..., che rendono elastico il sistema. O vai in quella direzione oppure il sistema va per conto suo, anarchicamente, producendo un moltiplicarsi di diseguaglianze non normate: ingiustizie, quindi. E la cultura sindacale? Ci sono forze sindacali che ragionano. Non sarei molto tenero nei confronti del Sindacato. Ma la cultura sindacale italiana ha fatto passi da gigante rispetto alla cultura rappresentata da Bertinotti. Bertinotti è in malafede spesso e volentieri perché è una persona intelligente e non può non capire questi discorsi. Lui sta difendendo l’azienda. L’azienda la si difende se si fanno determinate battaglie di bandiera, se si fa il
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conservatore ad oltranza. C’è poco da fare.
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Tornerei al Nord-est. La maggioranza in Regione ha votato una risoluzione intitolata “I popoli di ieri e di oggi ed il diritto all’autodeterminazione” in cui si rivendica il diritto del popolo veneto all’autodeterminazione, quasi il tempo si fosse fermato al plebiscito del 1866. Che fare? Il primo luogo, la logica di quella risoluzione non risponde a una logica federalista, ma a quella della costituzione di una nuova sovranità autonoma ed isolata: questa nasce dall’esigenza - chiara come il sole - del primum vivere e dal conseguente inseguimento nei confronti della Lega da parte di coloro che devono anzitutto sopravvivere. In secondo luogo, poi, manca qualsiasi elemento solidaristico che è proprio degli argomenti federalisti, anche negli aspetti funzionalistici. L’autodeterminazione come riferimento general-generico non vuol dire niente, come sa chiunque segua i problemi costituzionalistici. La rivendicazione dell’autodeterminazione è sempre stata fatta dai popoli che rivendicavano la creazione di una nuova sovranità territorialmente determinata: non è un discorso federalista, ma risorgimentale, ottocentesco. Altra cosa è lo Statuto speciale, già previsto dagli “attuali costituenti” per ogni Regione, con legge ordinaria. Però c’è la maggioranza... La stragrande maggioranza di questa Regione non vuole assolutamente questo discorso qui. Le forze che l’hanno proposto e votato giocano sull’equivoco; figurati se gli imprenditori, gli artigiani, i commercianti di questa Regione - con i problemi che hanno - vogliono farsi la “Padania”, il Veneto sovrano e autonomo come la Cecenia.
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Ma questo discorso fa presa... È una logica politica elementare. Questa protesta non ha trovato alcun riferimento culturale né politico-pratico. E allora protestano, gridano: chi a livello politico - senza fare alcun discorso di rappresentanza e quindi venendo meno alle sue responsabilità - corrisponde a questo grido di protesta, prende voti. Le ragioni della protesta, se interpretate correttamente, vanno al 90% in senso autonomistico e federalista, non in senso secessionistico. Fintanto che le forze politiche responsabili non si rendono conto di questo, è chiaro che la rappresentanza, fuorché nelle aree urbane, andrà a chi fa il demagogo. Ma chi contrasta questo spirito che aleggia nel Veneto? Se l’Ulivo e altre forze fossero state in grado di contrastarlo, non avrei fatto alcunché, ma mi sembrava che ci fosse bisogno di una forte spinta per convincere anche le forze democratiche della Regione che è giunto il momento, finalmente... E qualche effetto c’è stato. Senza la mia iniziativa, senza il Movimento del Nord-est, i deputati dell’Ulivo (Bressa, De Piccoli, ...) non avrebbero presentato quegli emendamenti - e addirittura votato contro i loro segretari o capi - e non sarebbe passato quell’importantissimo emendamento che riguarda la possibilità, da parte delle Regioni, di votarsi gli Statuti speciali da convalidare con legge ordinaria. In tutto questo processo - che coinvolge la Camera, la Bicamerale e il Presidente della Bicamerale che erano partiti da posizioni molto diverse - è lampante lo zampino del movimento del Nord-est e di certi sindaci.
Amministrare: infinito futuro Una persona attenta alla questione meridionale mi ha segnalato che, al punto 5 del documento, per definire il meridionalismo della proposta federalista usi le stesse parole a suo tempo usate da Marco Minghetti per “far emergere potenzialità e risorse soffocate dalla burocrazia”: la coincidenza ti preoccupa? E perché? L’industrializzazione portata avanti nella Prima Repubblica, tutta per via
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Per un nuovo federalismo / 2 «Il nostro federalismo è perciò certamente anche un mezzo per realizzare quell’efficienza, quella funzionalità, quella riforma della Pubblica Amministrazione, quell’avvicinamento del meccanismo decisionale alla domanda sociale, alle istanze dei cittadini, senza di cui sarà impossibile non solo competere sul mercato globale, ma anche governare politicamente i problemi sociali di straordinaria complessità che la globalizzazione va necessariamente producendo. Ma, oltre a tutto ciò, il nostro federalismo va proposto, va fatto vivere anche ed essenzialmente come un fine. Al di là della battaglia sacrosanta per un riassetto costituzionale che sancisca i poteri originari di Regioni e comuni, al di là di una riforma della Pubblica Amministrazione e del sistema impositivo, che rifletta tale principio, il nostro federalismo si fonda sulla fiducia che possa aprirsi un’epoca in cui forme di autogoverno da parte di comunità, gruppi, organismi possono trovare uno sviluppo fino ad oggi impensabile. Ben oltre la piena autonomia di Regioni ed Enti locali,
il nostro federalismo ha questa autonomia diffusa come proprio fine. Il crollo di ogni omogeneità di tipo organicistico o ideologico nel mondo contemporaneo (e ciò rende patetici i tentativi di inventarsi “miti d’appertenenza”) non significa necessariamente anarchia individualistica. Esso anzi può contenere un’istanza forte di libertà responsabile. È questa istanza che il nostro federalismo deve saper esprimere. Esso si fonda sulla capacità della persona di valutare, organizzarsi, decidere e comprendere che la propria stessa “ricchezza” in quanto persona consiste nella “ricchezza” delle sue relazioni, dai suoi “accordi” con gli altri e il diverso da sé. Ognuno ha diritti inalienalibili di autonomia, ma questi significano doveri e responsabilità. Il nostro federalismo coniuga il pieno risarcimento della personalità di ciascuno, individuo o gruppo che sia, ad una concezione per la quale ciascuno non è se non in relazione, e tanto più è veramente autonomo quanto più sa rispondere alle istanze, ai bisogni, alle domande di ciò che è distinto, e magari lontano, da sé.
statale, pubblica, burocratica, con tutti quei flussi di finanziamento a pioggia di tipo assistenzialistico - pur senza guardare ai fattori criminali che ha alimentato e anche se si fosse svolta nei modi più puliti e trasparenti di questo mondo - è frutto di una logica distorta, a rovescio di quanto il federalismo prospetta nel campo dell’intervento economico. Ma non è la logica con cui si chiedono gli interventi per Venezia, in nome della sua eccezionalità? Vuoi scherzare? Qui ci sono degli imprenditori che dimostrano di avere sovraccosti reali per operare in questa città. Ci sono imprenditori che devono ristrutturarsi, adeguarsi, potenziarsi e consorziarsi: che per questo chiedono finanziamenti. È una
logica completamente diversa. Qui si sono creati interventi, negli altri si sono dati soldi a pioggia, senza alcuna programmazione che partisse dal basso. Appunto: nel secondo dopoguerra a Portomarghera spesso si è operato nello stesso modo. Certo, alcuni interventi a Portomarghera sono stati fatti con la stessa logica politica. Adesso cerchiamo di parare i contraccolpi di questi interventi. Sono interventi che possono durare dieci, venti anni, poi chiudono per forza e distruggono risorse che più adeguatamente potevi utilizzare. Nel caso del Petrolchimico tutto il sindacato dei chimici è schierato a difendere l’indifendibile... Ma è giusto e inevitabile; anche a Caserta negli anni sessanta è stato fatto un polo elettronico che ora si sta disperatamente cercando di difendere: è occupazione, sono posti di lavoro. C’è un tempo per difendere le cose e un tempo per rinnovare. Se hai il polo elettronico lo difendi fin che puoi, perché ci sono famiglie, posti di lavoro. E quando la realtà è indifendibile? Bisogna superarla, la si può superare decentemente soltanto con una logica federalista. Parti da accordi di area, parti da impegni di programma, dall’individuazione di risorse concrete e di capitali di rischio. Per tenere questa logica evitando il rischio di ulteriori disgregazioni, sempre in agguato, quali sono le risorse e le forze esistenti nel campo e quali quelle che si possono rigenerare e/o creare? Tutte le volte in cui ti ho sentito sull’argomento, mi è parso di notare un eccesso di autoreferenzialità... I punti di riferimento sono il movimento dei Sindaci (perché gli amministratori vivono sulla pelle determinati problemi e reagiscono positivamente), molti imprenditori, e i giovani, sia cattolici, che provenienti da mondi “imprevisti”, come i giovani dei Centri sociali. C’è attenzione, c’è voglia di sperimentare,
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In queste settimane molti consigli regionali sono stati impegnati nell’approvazione dei bilanci preventivi. Alcune regioni non sono riuscite a completarne l’esame entro i limiti di tempo previsti dalle leggi e dai diversi statuti regionali. Si è trattato di un ulteriore segnale di difficoltà manifestato dalle assemblee regionali. Altri si erano manifestati nei mesi scorsi. Alcune regioni hanno vissuto vere e proprie crisi di giunta, con relative dimissioni del
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Regioni: tutti i mali del Tatarellum
A causa del sistema elettorale vigente per l’elezione dei consigli regionali non si è riusciti a dar vita ad une vero maggioritario che si sta dimostrando efficace nei comuni. Egli effetti si vedono: ogni atto di governo diviene oggetto di estenuanti trattative, si indebolisce l’autonomia e la forza politica del presidente espresso dagli elettori, si rafforzano i poteri di veto delle singole forze politiche e dei consiglieri, si finisce per far prevalere l’interesse di partito su quello della
Giulia Rodano
Consigliere regionale Ds del Lazio
presidente eletto direttamente dagli elettori, altre hanno attraversato fasi di tensione politica nelle maggioranze politiche e hanno sperimentato le verifiche programmatiche, modalità politica della prima repubblica che credevamo scomparsa con l’avvento del maggioritario. A queste difficoltà sono andate incontro tutte le maggioranze politiche, sia di centrodestra che di centrosinistra, a dimostrazione ulteriore che il problema della governabilità delle regioni non è solo di natura politica, ma investe la natura stessa dell’istituzione e delle sue regole fondamentali. Eppure, i consigli regionali, come i comuni e le provincie, sono il frutto di una legge elettorale recentissima. Si tratta, come è a tutti noto, di una forma di elezione diretta del presidente della giunta. Il presidente vincente e tutta la giunta debbono però anche ricevere la fiducia dal consiglio regionale eletto su liste di partito plurinominali collegate al Presidente. I consiglieri inoltre sono eletti attraverso l’espressione del voto di preferenza. Insomma si tratta di una legge elettorale fondata su un principio, quello del maggioritario di coalizione,
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che viene spesso invocato, nel dibattito in corso sulle riforme costituzionali, come una possibile soluzione al problema della riforma della legge elettorale. È certamente utile dunque andare a vedere da vicino come il maggioritario di coalizione ha funzionato.
Il vecchio proporzionale camuffato; e male A sostegno della scelta del maggioritario di coalizione, rispetto a quella della elezione diretta del premier o a quella del maggioritario di collegio a uno o due turni, si argomenta infatti, che il primo sistema garantirebbe stabilità e alternanza, senza semplificare in modo forzoso la caratteristica pluripartitica del sistema politico italiano. L’esperienza di molti consigli regionali depone però esattamente in senso contrario. Un maggioritario di coalizione, con vertici dell’esecutivo a legittimazione debole, con assemblee composta attraverso una legittimazione forte dei consiglieri, caratterizzata dall’appartenenza prioritaria al partito, rischia infatti di non garantire né l’una né l’altra. La forma di selezione della rappresentanza e di organizzazione del sistema politico che viene indotto dal sistema elettorale in vigore nelle regioni, infatti, non induce forze politiche e singoli eletti verso la costruzione complessiva dell’identità della coalizione. Sollecita al contrario singoli eletti e, quel che è peggio, le singole forze politiche a ricercare e a rafforzare la propria visibilità e il proprio radicamento elettorale - rispettivamente personale o di lista - anche a spese dell’efficacia dell’azione di governo e dell’identità complessiva dell’alleanza. È sintomatico che, a differenza di quanto accade nelle elezioni dei consigli comunali, il presidente perdente non venga eletto nel consiglio regionale a rappresentare l’opposizione, la quale, benché perdente, rappresenta pur sempre quasi la metà del corpo elettorale. Quello che conta veramente e costituisce veramente la rappresentanza effettiva del corpo elet-
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torale e l’oggetto prioritario della scelta degli elettori non sono il Presidente e i dodici candidati che con lui dovrebbero impersonare sulla scheda elettorale la proposta di governo avanzata agli elettori. Per il modo in cui funzionano le regioni chi conta veramente sono gli eletti nelle liste plurinominali. Basti guardare a come sono composte le attuali giunte regionali: quasi nessuna regione ha composto la giunta a partire da coloro che erano candidati nel listino eletto direttamente insieme al presidente.
Chi comanda davvero in questa situazione Le conseguenze di un simile sistema politico sono molteplici. Nell’esperienza della Regione Lazio, allontanandosi nel tempo il voto, tende sempre più a sbiadirsi l’impronta maggioritaria della elezione del presidente e tendono al contrario a farsi più forti le modalità di comportamento proprie del proporzionale. Ogni atto di governo diviene oggetto di estenuanti trattative e mediazioni, si indebolisce progressivamente l’autonomia e la forza politica del presi-
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dente espresso dagli elettori, si rafforzano tutti i poteri di veto delle singole forze politiche e persino dei singoli consiglieri, si incentivano le tendenze di ogni forza politica alla ricerca della propria visibilità, si finisce per far prevalere l’interesse di partito su quello della coalizione, fino allo stravolgimento delle stesse regole istituzionali. Nella Regione Lazio, ad esempio, non si è riusciti a modificare il regolamento di funzionamento del Consiglio regionale. Eppure era espressione di una stagione ormai - per dichiarazione unanime delle forze di maggioranza come di quelle dell’opposizione - finita: quella del proporzionale e della gestione consociativa del rapporto tra maggioranza e opposizione. Non si è riusciti neppure a introdurre le norme - come la possibilità di apporre il voto di fiducia - per poter regolare il ricorso all’ostruzionismo. E non sono state soltanto le forze del polo ad opporsi. Sono state anche le forze di maggioranza. Si finisce insomma, persino da parte di che governa, per guardare con sospetto ogni misura che conduca a rafforzare il ruolo dell’alleanza e della giunta. E infatti, il lavoro del consiglio regionale è continuamente sottoposto al ricatto dell’ostruzionismo, non solo dell’opposizione, ma persino di pezzi e settori della maggioranza.
Uno stato di calma apparente Il rischio - assai realistico, almeno per quanto riguarda l’esperienza del Lazio - è che le giunte regionali siano magari anche formalmente stabili, non incorrano cioè in vere e proprie crisi, ma vivano però in un permanente stato di fibrillazione e verifica politica e, alla fine, non riescano a svolgere la profonda azione di modernizzazione e innovazione che oggi la situazione del Paese richiederebbe. I Consigli e le giunte maggiormente efficaci nella loro azione sembrano essere quelle il cui sistema politico appare per ragioni storiche più consolidato, dove una delle forze della coalizione di governo gode di una indiscussa leadership, dove la macchina burocratica e la dirigenza pubblica hanno acquisito maggiore esperienza e
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tradizione. In queste situazioni il pur debole elemento maggioritario e presidenziale della nuova legge elettorale è stato utilizzato per rafforzare una tradizione di governo e un sistema politico già esistenti. In realtà il “tatarellum” (cosi’ è stato chiamato il modello elettorale regionale), nato per far convivere il maggioritario e la molteplicità di partiti, paradossalmente sembra funzionare meglio nelle situazioni che potremmo definire già, per loro natura e storia più “bipartitiche”.
Altra storia, quella dei sindaci
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Non è utile, per riflettere sulla situazione delle regioni, il confronto con la buona riuscita della legge elettorale dei sindaci e dei consigli comunali. Innanzitutto, infatti, la normativa comunale è molto più esplicitamente maggioritaria e presidenziale: il sindaco non ha bisogno della fiducia del consiglio comunale; anzi, possiede la leva dello scioglimento dell’assemblea, praticamente automatico in caso di sfiducia del consiglio verso il suo operato. È necessario ricordare inoltre che il Consiglio regionale è una assemblea legislativa. Quasi tutti gli atti importanti hanno bisogno del voto del consiglio. Nel caso delle Regioni, non è sufficiente - come nel caso di assemblee fondamentalmente amministrative come i comuni e le province - il rafforzamento del potere dell’esecutivo e del suo vertice. Come per il Parlamento nazionale, divengono decisive le modalità di selezione della rappresentanza, la natura delle coalizioni elettorali, la capacità e la volontà di coesione che riescono ad esprimersi nelle assemblee.
Le qualità di un buon governo Ma gli esecutivi non debbono essere solo stabili e i sistemi non debbono essere solo bipolari. È necessario anche che i governi siano efficaci; siano capaci di operare delle scelte e non solo, come tante volte accaduto nel passato, di mediare, distribuendo risorse pubbliche, tra i diversi interessi in conflitto. Si tratta oggi di una qualità essenziale per ogni governo. Il Paese è impegnato nello sforzo per entrare in Europa e sarà ancor
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più impegnato, nei prossimi mesi e anni, nell’impegno per restarvi, adeguando le proprie infrastrutture, i propri servizi pubblici, la propria pubblica amministrazione agli standard europei. Di questo straordinario processo le Regioni e gli Enti Locali saranno tra i protagonisti fondamentali. Già ora, con la progressiva emanazione e recepimento dei decreti Bassanini, le Regioni e i Comuni si trovano ad affrontare nuove competenze, come quelle delle politiche del lavoro, mentre devono misurarsi con la necessità della modernizzazione di decisivi servizi pubblici, dalla sanità ai trasporti locali. Affrontare queste sfide sarà molto impegnativo. Significherà anche mettere in discussione interessi e posizioni consolidate, anche proprie dell’insediamento elettorale e del radicamento sociale tradizionale delle forze di centrosinistra. Le giunte e i consigli regionali saranno messi di fronte a scelte molto complesse e difficili, in cui sarà essenziale far prevalere gli interessi generali.
Il sistema incompiuto e la possibile compensazione della politica Oggi dunque sarebbe necessario avere in tutti i livelli istituzionali, ma in particolare in assemblee legislative quali le regioni, un sistema elettorale e politico che sottragga gli eletti e le compagini di governo al ricatto elettorale immediato degli interessi organizzati grandi e piccoli. Il sistema dovrebbe consentire il massimo di autonomia dei decisori dalle conseguenze a breve delle loro scelte. Il combinato disposto, proprio del “Tatarellum”, del voto su lista di partito, preferenza unica e legittimazione debole del premier costituisce al contrario un sistema in cui il peso delle lobby rischia di essere molto forte. Dall’esperienza dei governi e delle maggioranze delle regioni, tuttavia, nonostante il sistema elettorale e istituzionale sia pensato a questo scopo, non emerge neppure la crescita e il rafforzarsi del ruolo dei partiti. Un sistema incompiuto e ambiguo nelle
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Coordinamento e programmazione: il nuovo ruolo delle Province Emanuele pasquini consigliere provinciale di lucca Le Province sono da sempre, nel nostro ordinamento, una realtà amministrativa in crisi di identità. Anche le più recenti riflessioni sui nuovi assetti istituzionali per il governo delle autonomie hanno rinnovato l’annosa questione sul significato e sul ruolo delle Province nel nuovo processo di decentramento amministrativo al punto da spingere rappresentanti di Comuni e Regioni a proporne un declassamento, depennandole dalla Carta Costituzionale. Eppure – la breve esperienza maturata sui banchi del Consiglio Provinciale di Lucca mi spinge a tali considerazioni – nel governo delle comunità locali si sente un gran bisogno di un luogo politico capace di tessere, su un territorio capace di progettualità e di governabilità, le difficile tele del dialogo fra soggetti istituzionali, forze sociali, enti locali e regioni. L’attuale assetto di sviluppo e di progettualità delle amministrazioni locali vive infatti la duplice tensione tra l’ampio sguardo progettuale dei piani di sviluppo regionali e l’ottica di intervento particolare – spesso auto-referenziale - delle gestioni e delle amministrazioni comunali. Troppo spesso le problematiche politiche investono invece sezioni di territorio più vaste del “municipio” (senza considerare che spesso ci trovia-
mo di fronte a comuni poco più ampi di un paese). L’esperienza degli ultimi mesi che ha visto la nostra Provincia di fronte all’ormai “comune” problema del Piano di smaltimento dei rifiuti ci ha messo di fronte queste contraddizioni, imponendoci di spendere il ruolo di coordinamento e di progettualità proprio dell’Ente in tutta la sua dinamicità ed elasticità. Da un lato, per rispondere alle esigenze di una cittadinanza, di un territorio e di un’idea di sviluppo sostenibile che non potevano – per loro naturale configurazione – tollerare le soluzioni previste dalla Regione (due impianti di termodistruzione); dall’altra, l’esigenza di mettere in sinergia le competenze delle aziende municipalizzate, la disponibilità dei comuni e dei cittadini ed avviare un dialogo volto alla soluzione dei problemi (nel rispetto del principio dell’autosufficienza individuato dalla programmazione regionale). Il tutto inserito in un dialogo anche con le amministrazioni provinciali limitrofe che ci ha permesso di ricomprendere il problema in una prospettiva di sviluppo più ampia e quindi ricondurre il nodo dell’autonomia nello smaltimento in un contesto di area vasta. Il processo – per la cronaca - ha condotto alla localizzazione sul territorio di
finalità e nel funzionamento come il “Tatarellum” renderebbe in effetti essenziali la volontà e l’intenzione politica con la quale i partiti lo vivono. Se si supplisse alle mancanze dell’assetto istituzionale e della legge elettorale con un surplus di capacità di innovazione politica, allora anche i partiti potrebbero trovare una nuova funzione e il sistema potrebbe dare il meglio di sé. Esaltare la dimensione di legittimazione dal corpo elettorale delle giunte in luogo di quella di governi di espressione assembleare; dare vita a nuovi regolamenti, più adeguati ad
due impianti di compostaggio, all’avvio del procedimento per l’individuazione di un sito idoneo per una discarica di frazione trattata e la contestuale attivazione di un progetto di raccolta differenziata e riciclaggio “spinti”, rendendo così sostenibile, solo alla fine del percorso, l’iniziale ipotesi di “autosufficienza” ipotizzata dal piano di sviluppo regionale, ma in una forma compatibile con le esigenze del territorio. Non è sicuramente questa la sede per una valutazione nel merito, quanto per ricavarne un suggerimento interessante sul piano del metodo e sul ruolo dei soggetti istituzionali. La potenzialità – in molte configurazioni del nostro territorio nazionale – del ruolo dell’Ente intermedio Provincia si esprime in tutta la sua chiarezza, proprio nel momento in cui è capace di farsi carico in pieno del ruolo di coordinamento e di programmazione, con l’elasticità che ne è propria, sapendo – se necessario, come in questo caso – allargare anche i propri orizzonti in termini di area vasta (basti pensare ai problemi infrastrutturali, alla promozione del turismo o di altri settori di sviluppo economico). Un ruolo e una specificità di cui il processo di decentramento ha un grande bisogno se non vogliamo che le sue potenzialità rimangano
un sistema bipolare; ridurre lo spazio della mediazione consociativa e dei poteri di veto: tutto questo permetterebbe alle regioni di funzionare.
I partiti incapaci di guardare avanti Ma non sembra che questa sia la strada intrapresa. I partiti vivono e agiscono con la testa voltata all’indietro, vagheggiando e perseguendo le modalità di comportamento e i rapporti reciproci propri del proporzionale. Tuttavia un simile atteggiamento
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non ha portato crescita, sviluppo del ruolo dei partiti, del loro radicamento, della loro presenza nella società, del loro rapporto con l’elettorato. Anzi, i partiti rischiano, dopo aver perso la vecchia funzione, di non riuscire perseguendo ancora i vecchi modi di essere, a costruire un nuovo ruolo, proprio dei tempi del maggioritario, delle alleanze, delle proposte di governo. Rischiano di ritagliarsi solo il ruolo della ricerca stizzosa della distinzione a tutti i costi, della difesa di interessi particolari, della affermazione della identità. Così ci troviamo ad assistere al fenomeno del tutto paradossale di governi che elaborano e propongono scelte innovatrici e riformatrici e assemblee, maggioranze parlamentari e consiliari preoccupate e titubanti, pronte a tornare indietro. Alla regione Lazio, si è assistito addirittura alle dimissioni di un assessore stanco dei freni frapposti alla sua azione dalla propria maggioranza, delle mediazioni continue a cui doveva sottoporre la propria azione. N o n
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riuscendo ad immaginare una nuova funzione, fatta della elaborazione delle proposte, della capacità di ascolto della società, di stimolo dell’azione di governo, di costruzione della nuova cultura e del nuovo senso comune necessari a far avanzare l’opera di innovazione e modernizzazione del Paese, della formazione del personale politico da mettere a disposizione del soggetto politico coalizione e degli elettori; rimanendo all’opposto legati a una funzione - di facitori e disfacitori di maggioranze e governi, di costruttori delle mediazioni fra gruppi dirigenti - sempre più estranea e lontana dal modo in cui i cittadini oggi interpretano la politica e la decisione, i partiti sembrano perseguire una sorta di lento suicidio. Costruire un sistema politico ritagliato sulla necessità di tenere in vita le tradizioni, pur gloriose e ricche di meriti, della prima repubblica e non sulla opportunità di offrire al Paese possibilità di scegliere direttamente chi lo debba rappresentare e governare e quindi sulla necessità di dare vita a nuovi partiti in grado di incarnare la nuova funzione, può condurci nello stesso tempo a non offrire futuro ai partiti e a mettere in discussione la modernizzazione del Paese e la sua permanenza in Europa.
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L’istanza di trasformazione dello stato sociale chiama in causa, direttamente, gli enti locali, le comunità locali. Vi è cioè, una connessione assai stretta tra la necessità di trasformare l’attuale assetto dello stato sociale e la necessità di dare corpo a nuove politiche sociali incentrate sul ruolo dei Comuni, delle città. Le ragioni sono molteplici. Lo stato sociale, nel suo complesso, è stato fino ad oggi imperniato sul lavoro dipendente, sul lavoro industriale. Ed ha avuto una connotazione fortemente di vertice, centralistica. Per quanto ci riguarda, in particolare, la spesa relativa all’assistenza sociale, il welfare state è fatto al 90 per cento di trasferimenti monetari e solo per il 10 di servizi. Questo assetto di welfare, da tempo, non solo non regge più in termini finanziari, ma non risponde alla trasformazione del lavoro e della vita sociale e, dunque, alle forme di disagio sociale e di esclusione che si vanno manifestando sempre più nettamente nella società. Risponde sempre meno ai bisogni reali delle persone. Alle loro specifiche e differenziate difficoltà. Non risponde all’ansia e alla fatica dei giovani a trovare un lavoro. Non risponde alla crescente precarietà dei lavori. Non risponde alla drammatica carenza di formazione e di qualificazione professionale dei giovani usciti dalla scuola e di tanti lavoratori adulti che si trovano da un momento all’altro fuori dal mercato del lavoro. Né ai difficili percorsi di inserimento lavorativi delle donne adulte, che vogliono o debbono uscire dalla condizione di casalinghe. Non risponde al numero sempre più alto di famiglie monoparentali. Al rischio di povertà che colpisce famiglie in cui l’insorgere di un problema di salute mette improvvisamente in crisi
Il ruolo della città nel nuovo Stato sociale oggi si pone con urgenza la questione del concreto ed effettivo passaggio dall’attuale assetto di “welfare state” ad un nuovo assetto di “welfare community”. Chi governa le città sperimenta questa necessità con sempre maggior evidenza quando è chiamato ad affrontare i problemi. “Welfare community”: cioè una rete di sicurezza sociale che sia costruita all’interno delle comunità locali,
Amedeo Piva
Assessore alle politiche sociali e ai servizi alla persona - Roma
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l’equilibrio della vita. Non risponde alle molte “nuove solitudini”, che riguardano le persone anziane in particolare; ma anche il vissuto di piccoli artigiani e di piccoli commercianti, costretti ad abbandonare i propri mestieri per le dinamiche del mercato e del costo del lavoro. Soprattutto, non risponde al venire meno dei legami sociali, alla caduta della dimensione di “relazionalità”. La crescente carenza di relazionalità corrode come un tarlo la vita sociale, a partire dalle grandi città; e può colpire, e colpisce, le persone al di là del loro appartenere a determinati segmenti o categorie sociali. Colpisce gli anziani come i giovani. Quelli che non trovano lavoro e quelli che lo perdono. Questo disagio “relazionale” colpisce (certo con ben diversa intensità e drammaticità) le persone che si vengono a trovare in condizioni di povertà di beni materiali, ma anche le persone che si sentono prive di un altro tipo di beni: appunto quelli “relazionali (spesso a causa di frustrazioni legate alla competizione consumistica e di “status sociale” che affatica tante persone). Oggi il disagio appare frammentato, sommerso. Non diventa protesta sociale forte, ma inquieta e angoscia, nascostamente, la vita di moltissime persone. Ecco allora, che la questione che oggi si pone con urgenza è quella del concreto ed effettivo passaggio dall’attuale assetto di welfare state ad un nuovo assetto di welfare community. Gli studiosi di politiche sociali lo dicono da molti anni. Chi governa le città lo sperimenta con sempre maggior evidenza quando è chiamato ad affrontare i problemi della vita quotidiana di decine di persone. Lo tocca con mano. Welfare community: cioè una rete di sicurezza sociale che sia costruita all’interno delle comunità locali, facendo perno, essenzialmente, sull’attivazione delle loro risorse. Solo in questa dimensione locale di welfare - se è attivata dai necessari input riformatori dallo stato centrale, che aprano la via a forme nuove di tutela delle persone in difficoltà e che decentrino funzioni e risorse di politica sociale - è
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possibile tentare di fare fronte all’attuale frammentazione del disagio sociale. Solo così è possibile attivare strumenti efficaci per prevenire o ridurre le situazioni di marginalità. È possibile ricostruire un tessuto di coesione sociale, un tessuto di relazioni tra le persone. È possibile “personalizzare” le risposte ai bisogni, così come si vengono a manifestare. Le risposte debbono poter nascere dal tessuto stesso delle comunità locali, dalle risorse presenti sul territorio: nella rete dei servizi pubblici, nel Terzo settore, e, più in generale, nelle famiglie stesse, nei cittadini, nei soggetti economici e culturali che ciascun territorio esprime. Soltanto un passaggio di competenze e di responsabilità dallo Stato ai Comuni, consente, tra l’altro, di porre al centro del nuovo stato sociale non più solo i “diritti” dei cittadini, ma anche i loro “doveri”. Lo ha osservato di recente Laura Pennacchi, sottosegretario al Tesoro, e credo sia importante sottolinearlo. Se si punta a forme di cittadinanza che poggiano soltanto sui diritti si rischia di favorire la passivizzazione delle persone e il loro ancor maggiore allontanamento dalla dimensione del sentire e dell’agire politico. Viceversa, fare leva sui doveri significa fare leva sulla partecipazione, sulla crescita di “dimensione pubblica” nella vita di ciascuno. Significa recuperare “relazionalità”. E, dunque, recuperare coesione sociale. Una politica che favorisca la coesione sociale credo debba essere la priorità vera di ogni Amministrazione comunale, e di ogni riforma del welfare state. Non una coesione sociale oppressiva, moralistica, in qualche modo limitatrice delle libertà personali. Ma una promozione di cittadinanza che consenta di coltivare, per ciascuno, il senso di appartenenza, la fiducia negli altri e nelle istituzioni, il gusto della reciprocità, la percezione del nesso indissolubile tra diritti e doveri, il sentimento della sicurezza, la percezione dell’insieme di opportunità che sono effettivamente disponibili, la fiducia di poter accogliere lo “sconosciuto”, lo “straniero”...
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Di recente, Giuseppe De Rita ha parlato della assenza, soprattutto a Roma, di coesione sociale. Ha parlato di un disagio molecolare. Di persone chiuse nella loro isola di disagio. Di sfaldamento progressivo dei “presìdi” di ciò che, in un modo o nell’altro, fa “comunità”: la famiglia, il senso di appartenenza ad una categoria professionale, il ritrovarsi in piazza... E don Luigi Di Liegro - nei suoi interventi - parlava di oscuramento del senso di solidarietà: la gente che oggi protesta non è quella che sta peggio, ma , al contrario, quella che sta bene e che teme di veder incrinato il suo benessere (e che perciò protesta contro i nomadi, contro gli immigrati, contro l’apertura di un servizio per disagiati psichici o per handicappati o per tossicodipendenti...). Un’Amministrazione comunale - che ovviamente rappresenta tutti i suoi cittadini, e che, in ultima analisi, è sempre e solo il frutto del consenso maggioritario che i cittadini esprimono con il voto - deve, certo, tener conto di ciascuna forma di protesta, e tanto più di quelle che hanno una base di consenso più ampia. Ma deve avere anche la capacità di produrre consenso su ciò che è essenziale nella vita di un organismo sociale, è cioè la non esclusione di nessuno. Aveva ragione don Luigi Di Liegro quando diceva che una città che non si rivolge in via prioritaria agli “ultimi” non è una società civile. Non è una vera città. È questo che ab-
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biamo sostenuto sia nel primo che nel secondo programma della giunta Rutelli a Roma, anche se non sempre siamo stati coerenti fino in fondo. Crediamo davvero che il benessere dei cittadini, di tutti i cittadini, ha un rapporto essenziale con la capacità di far fronte all’emarginazione dei soggetti più deboli. Non c’è serenità pubblica, felicità pubblica, in altro modo. Certo, ogni volta, in ogni circostanza, caso per caso, bisogna stabilire insieme, con un confronto pubblico, in che modo concreto questa coesione sociale va costruita. In che modo comporre insieme diritti e doveri. In che modo aprire un percorso autentico di promozione sociale. Non ci sono ricette preconfezionate. Non ci sono neppure scorciatoie. Ma la finalità deve essere chiara. L’esperienza di oltre quattro anni di amministrazione in molte città, e anche a Roma, ha confermato che soltanto facendo leva sulle risorse delle persone e delle comunità locali, intessendo continuamente una rete effettiva di promozione sociale tra i servizi pubblici e tra questi e l’azione delle associazioni, del volontariato, del
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privato sociale, delle famiglie, dei singoli cittadini, dei soggetti economici e culturali che ciascuna realtà territoriale esprime, è possibile “guidare” il cambiamento sociale e non lasciarsene sommergere. Ecco, allora, che c’è una seconda dimensione che deve caratterizzare il nuovo stato sociale, e in modo particolare il welfare urbano. Non basta il passaggio dal welfare state al welfare community. Serve anche il passaggio dal welfare state al welfare mix. Sottolineare che c’è bisogno di un “mix” di risorse pubbliche e risorse private è una scelta difficile. Implica che il servizio pubblico faccia un passo indietro, ma implica anche che esso sappia qualificarsi, diventi capace di guidare i processi di trasformazione della vita sociale, di regolare la vita collettiva. Che sappia interagire con i cittadini, gli utenti, le loro associazioni. Ciò significa modificarsi profondamente. Sburocratizzarsi. Passare da un ruolo prevalentemente di erogazione di servizi e prestazioni a un ruolo prevalente di promozione sociale. Avviare, o quanto meno, facilitare, le innovazioni. Diventare, per un certo verso, più “umile”, più “debole”, meno “necessario”. E però più vicino alla gente, più qualificato, meno sprecone, meno iniquo. Di questo modello di amministrazione comunale abbiamo nel settembre scorso, a Roma, attivato il primo “Forum cittadino del terzo settore”. Il titolo era “La comunità locale per contrastare l’emarginazione”. Ci siamo confrontati con il volontariato - quello organizzato e quello che chiamiamo “dei cittadini” -, con la cooperazione e l’impresa sociale. Abbiamo discusso delle luci, ma anche delle ombre dei rapporti fin qui stabiliti. Nella sessione conclusiva del forum - intitolata “Proposte per una piena attivazione delle comunità locali come soggetti di coesione sociale e di superamento dell’emarginazione” - è emerso che l’esperienza romana di volontariato e di cooperazione sociale è molto ricca e ha messo radici nelle comunità locali. E che le risorse attivabili sono enormi.
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Al di là delle apparenze, e nella misura in cui sappiamo fornire strumenti e opportunità, vi è una disponibilità reale di tanti cittadini ad affiancare l’amministrazione per far fronte al disagio sociale che vive nelle pieghe della città. Vi sono forme nuove di reciprocità, che sono già state sperimentate, come le cosiddette “banche del tempo”. C’è un volontariato che sa “leggere” il manifestarsi di nuovi bisogni e sa orientare il servizio sociale pubblico ad intervenire in modo nuovo. Vi sono potenzialità grandi, nella cooperazione sociale, di ampliare e diversificare i servizi alla persona. Qua e là sono stati individuati percorsi di formazione e di inserimento lavorativo per giovani e per adulti in difficoltà. Ma tutto questo - che già esiste, anche se in modo ancora debole e frammentato - può divenire un processo forte di costruzione della comunità locale e di sviluppo sociale soltanto a condizione che l’Amministrazione comunale sappia stabilire un effettivo rapporto di partnership con il Terzo Settore, che vuol dire: pari dignità, chiarezza sulla diversità dei rispettivi ruoli, progettazione comune degli interventi (e non solo affidamento della gestione dei servizi). E che sappia attivare, territorio per territorio, la rete dei servizi. Cominciando con i propri servizi (quelli comunali). Passando poi agli altri servizi pubblici: la sanità, la scuola, i centri di giustizia minorile, etc... E poi intessendo la rete delle associazioni locali, dei gruppi di vicinato, dei gruppi di autoaiuto, degli
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organismi di volontariato e delle imprese sociali. E, infine, attivando, via via, le altre risorse economiche e culturali presenti: le banche, le reti commerciali, le imprese. E, in modo particolare, le fondazioni. Perché prenda piede un sistema di welfare community molto dipende dall’introduzione (del resto già in atto) di politiche sociali, a livello centrale, che - nel quadro del decentramento amministrativo che si sta finalmente articolando - favoriscano il dinamismo delle comunità locali e la loro capacità di introdurre percorsi e reti di solidarietà, di partecipazione, di relazionalità. Abbiamo visto, ad esempio, con la legge 285 del ‘97 sull’infanzia e l’adolescenza, il ruolo importante che politiche sociali decise dal governo e dal parlamento possono giocare nella misura in cui offrono alcuni orientamenti generali innovativi e rendono disponibili un minimo di risorse finanziarie di partenza per i Comuni. In questo caso, si è trattato di un notevole input che sta favorendo, proprio in questi mesi, l’attivazione di una politica sociale locale innovativa nell’ambito dei servizi di sostegno alla genitorialità e di tutela e promozione dei diritti dei ragazzi e degli adolescenti. D’altro canto, è essenziale che si dia concretezza a quelle misure di politica sociale, ancora attualmente in discussione, che debbono costituire lo zoccolo del nuovo welfare state su cui poggiare il protagonismo degli Enti locali: l’introduzione del Fondo sociale, il minimo vitale, la legge quadro sull’assistenza sociale, la riforma delle leggi che regolano il sistema sanitario (oggi troppo separato dalle politiche di governo locale), le linee guida dell’integrazione dei servizi socio-sanitari, le politiche attive del lavoro e quelle del sostegno abitativo, etc. In particolare, ritengo che sia cruciale l’istituzione del minimo vitale per le persone senza lavoro e per le famiglie al di sotto del livello di povertà. Certamente, è un istituto che deve essere correlato, ovunque ciò sia possibile, a “lavori di cittadinanza” o a “progetti personalizzati di inserimento
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Negli anni passati, la Sicilia era l’emblema di un sistema politico in decadimento fra incapacità decisionale e amministrativa, distacco dalla società civile e invadenza della mafia. A cavallo tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ‘90 è stato il laboratorio della risposta della legalità alla mafia. Fino a diventare, grazie alla stagione dei sindaci, l’avamposto della buona amministrazione. Ma oggi l’isola rischia la paralisi politica ed economica per i ritardi e la sclerosi della Regione.
Vittorino Ferla
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Il coro dei sindaci è unanime: «l’Assemblea regionale, che esprime una classe politica di infima qualità, è un ostacolo allo sviluppo della Sicilia». La legge per l’elezione diretta del sindaco era stata un fatto positivo, e con le elezioni regionali del 1996 si aspettava un cambiamento sostanziale. Che non è arrivato.
I sindaci: un esempio di buona amministrazione «Il segreto della Legge 7 sull’elezione diretta del sindaco - afferma recisamente Graziella Ligresti, sindaco ulivista di Paternò, proveniente dal mondo del volontariato cattolico - è nel principio di responsabilità: il sindaco risponde direttamente, è un interlocutore al quale chiedere conto e ragione. I partiti devono ancora crescere nella cultura della responsabilità e nella risposta ai bisogni. Se restano il luogo delle lobbies, delle piccole ambizioni, delle logiche di appartenenza, sarà difficile la sintonia con i cittadini. È un substrato culturale necessario sia per la destra che per la sinistra. E spero che i sindaci possano essere un fermento vivo per la maturazione dei due poli». Una speranza che incontra qualche difficoltà. Come spiega Gigia Cannizzo, sindaco di Partinico, «l’ultima legge rivaluta la presenza dei partiti. Il sindaco con la sua autonomia garantisce la qualità. Nell’ultima tornata abbiamo dovuto accettare le proposte dei partiti, ma restiamo in sella. I sindaci danno un esempio di buona amministrazione, non sono un movimento politico. La buona amministrazione deve trovare supporti programmatici nei partiti. Ma diciamo no a speculazioni personalistiche». Il bilancio delle amministrazioni comunali resta dunque positivo. E Graziella Ligresti elenca i risultati raggiunti: «l’attenzione per la legalità, il risanamento finanziario (nonostante i trasferimenti nazionali e regionali diminuiscano), il miglioramento nell’eroga-
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Sicilia ’98: sindaci ok, abbasso la Regione zione dei servizi, la riqualificazione della vita cittadina, sia sul piano urbanistico che sociale e culturale».
La Regione Sicilia: la palude della politica irresponsabile A questo panorama la Regione oppone una vera e propria ‘depressione amministrativa’. “Nel 1991 fu dato l’incarico a Nomisma di elaborare uno schema per un piano regionale (che è obbligo di legge), ma questo non fu mai portato in aula”, racconta Paolo Castorina, sindaco retino di Acicastello, comune della fascia ionica a pochi chilometri da Catania. “Era uno schema interessante perché definiva alcune aree geografiche competitive, formulava la necessità di infrastrutture, proponeva la creazione di distretti territoriali. Uno dei problemi principali della Sicilia è proprio la mancanza di un progetto autonomo per il rilancio dell’isola. Finora solo parole in libertà su turismo e agricoltura. Si procede a tentoni, distribuendo risorse secondo criteri generici, clientelari e di collegamento politico”. D’altra parte, può assicurare lo sviluppo la geografia politica siciliana, dove perfino i seggi sono tramandati di padre in figlio, di capocorrente in capocorrente? A Messina, gli Stagno d’Alcontres, sono stati in questo secolo politici liberali, podestà fascisti, maggiorenti democristiani e, oggi, esponenti di Forza Italia. A Palermo, dominano i La Loggia: Enrico senior, dopo essere stato anticlericale e separatista moderato, lavorò per la realizzazione dello Statuto militando nella Dc; il figlio, democristiano, fu presidente regionale negli anni sessanta, anni
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dello sviluppo (finto) e del sacco (vero) dell’isola; il nipote, Enrico junior, oggi siede nel Parlamento nazionale per conto di Berlusconi. Sono soltanto alcuni degli innumerevoli casi di rigenerazione e perpetuazione di una classe dirigente. Oggi la scena di questa antica rappresentazione è ancora l’Assemblea regionale siciliana, dove un centrodestra con maggioranza schiacciante non riesce ad assicurare stabilità ai governi. Qui, 50 anni di potere hanno selezionato un ceto abile nel galleggiare fra gli interessi. È un fenomeno che, in misura assai minore, tocca anche il Pds. L’ampiezza dei bacini elettorali del vecchio sistema proporzionale non consente una selezione qualitativa e stimola la proliferazione delle liste individuali, permettendo a espressioni della vecchia classe politica, posti a capo di movimenti senza costrutto ideale e programmatico,
esperienza, al mandato. La soluzione? «La riforma elettorale - dice Castorina -. Vogliamo l’elezione diretta del Presidente della Regione. L’ultimo parlamento siciliano è stato eletto con il sistema proporzionale puro e ha prodotto una maggioranza schiacciante per la maggioranza di centrodestra: 54 deputati contro i 36 delle opposizioni. Ma il centrodestra non ha un progetto condiviso». Insomma, conferma la Ligresti, chiedendo una riforma dello Statuto e della legge elettorale, «l’autonomia regionale è diventata una palla al piede per lentezza, assenza e discontinuità. L’elezione diretta del Presidente della Regione assicurerebbe continuità e assunzione di responsabilità. In questi giorni la Regione utilizzerà i Pop (programmi operativi plurifondo) nell’inesistenza di un pro-
di raggranellare voti sufficienti per conquistare un seggio. Il livello della deputazione espressa dalle formazioni maggiori è di solito composta da personale di ultima generazione dei vecchi partiti - e quindi pragmatico, idealmente poco ricco e politicamente non formato - o da figli e parenti prossimi di ‘rifugiati’ dei settori democristiani e socialisti più chiacchierati che possono mettere a frutto il gruzzolo elettorale di cui disponevano, o ancora da espressioni modeste della società civile, talvolta inadeguate, per carenza di strumenti e di
gramma economico. Ma ci vuole programmazione più ampia, anche per l’utilizzo dei fondi europei». Anche per questi motivi nel gennaio ‘98 si è conclusa l’esperienza del governo di
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Combattere la mafia? Partiamo dalla buona amministrazione. V.F. Ricordate gli attentati ai sindaci progressisti di qualche anno fa? In Sicilia, il nemico giurato della mafia locale è stata la buona amministrazione, incarnata dal nuovo corso dei sindaci eletti direttamente dal popolo. «Il bilancio delle nuove amministrazioni comunali è ottimo, anche per l’indipendenza dai partiti politici», spiega Gigia Cannizzo, sindaco di Partinico e nemico numero uno del concittadino Vito Vitale, il boss sanguinario catturato di recente, che stava a un passo dalla successione a Totò Riina al vertice di Cosa nostra. E Paolo Castorina, sindaco di Acicastello, conferma: «la maggioranza dei sindaci eletti nel ‘93 sono legati alla rivoluzione morale siciliana in cui la legalità è stata al centro». «La legge 7 sull’elezione diretta del sindaco - gli fa eco Graziella Ligresti, sindaco di Paternò - è figlia delle stragi di Falcone e Borsellino. In occasioni delle elezioni del ‘93, il prefetto mi spiegò che non aveva sciolto l’amministrazione comunale per contiguità con la mafia solo per rispetto della cittadinanza e che aveva intimato a sindaco e assessori, alcuni legati al clan di Giuseppe Pulvirenti, il “Malpassotu”: ‘o ve ne andate voi o vi mando via io’. Non c’erano ancora state prese di posizione così forti. Quando nel ‘94 le forze di polizia condussero a termine l’operazione “Roccanormanna” per colpire una serie di atti di mafia perpetrati ai danni dei commercianti della città ci costituimmo parte civile: fummo il primo comune a farlo. poi è accaduto anche altrove». E oggi? «I sindaci sono ancora in prima linea e molti sono anco-
ra minacciati - continua Castorina - ma c’è un calo di tensione, anche perché la battaglia si è trasferita altrove con un grande impegno nelle scuole, i dibattiti antimafia e la creazione di associazioni anti-racket. La battaglia antimafia è prima di tutto culturale e formativa. Per questo abbiamo indetto un concorso per temi di alunni delle scuole su “Lavoro e legalità” e conferito la cittadinanza onoraria all’ex giudice Antonino Caponnetto. È assurda la posizione di chi attacca i giudici». E la Ligresti: «Certo, il pentitismo è servito, certo abbiamo assistito a un cambiamento. Ma la mafia è ancora radicata. Il pizzo è uno dei germogli della malapianta. Forse i cittadini hanno delegato troppo agli amministratori: invece bisogna dire no alla riduzione dell’impegno antimafioso, anche nella società civile. Tanto più che in Sicilia, a fronte del rinnovamento, stiamo vivendo gli anni più gravi sul piano della crescita economica e della disoccupazione. Le piccole e medie imprese chiudono. La gente non spende. Le banche non fanno credito se non per garanzie (spesso immobiliari) che le imprese non possono dare». Gli indicatori economici indicano un quadro allarmante nella Regione. Il tasso di disoccupazione introno al 25%. Il 59% dei giovani senza lavoro. Nella classifica del reddito stanno peggio della Sicilia soltanto Basilicata e Calabria. E la Sicilia rischia di diventare il Sud del Sud. Insomma, conclude la Ligresti, «il terreno è spianato per la ripresa dell’illegalità. Quando ho cominciato l’avventura di sindaco la gente mi veniva a trovare e mi supplicava:
centrodestra di Giuseppe Provenzano, docente universitario di materie finanziarie, eletto nelle liste di Forza Italia. Un’esperienza deficitaria che, insieme ad altre inadempienze, ha annoverato anche quella dei Pop. A causa del mancato rispetto delle procedure previste nella predisposizione del governo regionale, la Corte dei conti ha dovuto bloccare il provvedimento in cui venivano elencati i progetti da inviare a Bruxelles per essere ammessi al finanziamento. Un lapsus amministrativo che ha generato ritardi e bruciato miliardi. Nel complesso, una gestione disastrosa delle risorse regionali. Contro questo stato di cose i sindaci siciliani sono stati costretti a lavorare insieme. «La Regione ha abbandonato i comuni - spiega Gigia Cannizzo, che è anche membro del direttivo dell’Anci Sicilia - e le leggi regionali recenti hanno ridotto i contributi ai comuni: per questo, per esempio, la situazione dell’amministrazione scolastica e delle consulte giovanili è un disastro». E la Ligresti: «i Patti territoriali ci hanno visti affiancati per aree. Nel dicembre ‘96 abbiamo avanzato una vertenza nei confronti della Regione che voleva tagliare i trasferimenti ai comuni. Consultarsi e incontrarsi è lo stile di questa generazione di sindaci».
Burocrazie e consigli comunali: ostacoli o interlocutori? Ma la Regione non è l’unico nemico della buona amministrazione. «Le burocrazie comunali - sottolinea la Cannizzo - sono frutto dei vecchi rapporti clientelari e rallentano l’attività amministrativa. Incompetenza e inerzia rappresentano la loro cifra. Adesso che le Bassanini hanno trasferito molte funzioni sarà ancora più necessario un lavoro di formazione degli amministratori. Le attribuzioni del comune aumentano e l’autonomia finanziaria è quasi completa: l’ufficio tributi manca però di organico e di addestramento. Dobbiamo controllare ed esigere: è una lotta continua». Le fa eco Castorina: «In Sicilia la
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Bassanini non è ancora stata recepita. La semplificazione amministrativa richiesta alla Regione non è mai stata ottenuta, ma è una svolta essenziale, non solo nei rapporti con i cittadini ma anche all’interno dei singoli enti. La logica della burocrazia è semplice: più passaggi uguale maggiore clientelismo. Nella prima repubblica questa era un’operazione scientifica. Un esempio? Nel comune di Acicastello tutti i parrucchieri lavoravano senza licenza perché la Commissione che avrebbe dovuto attribuire la licenza non veniva mai nominata. Risultato: i parrucchieri erano ricattabili in qualsiasi momento». Altro tema caldo è quello del rapporto con i consigli comunali. «In molti comuni spiega Graziella Ligresti - persiste una non matura cultura maggioritaria. I consiglieri si sentono defraudati dei poteri. E la legge siciliana non definisce bene competenze e ambiti. La vecchia cultura chiedeva la partecipazione in tutto, invece oggi c’è bisogno di celerità di scelte. I partiti che dovrebbero realizzare la partecipazione su programmi e coordinare consiglieri ed esecutivo hanno gracilità di vitalità e i consiglieri accentuano il malessere. E così i cittadini che con tanta chiarezza si esprimono sull’esecutivo, si scontrano nei consigli con logiche proporzionali e clientelari». «Secondo la nuova legge - aggiunge Castorina - il 60% dei consiglieri può votare una mozione di sfiducia e mandare a casa il sindaco. È una stranezza per un sindaco eletto direttamente dal popolo. La soluzione precedentemente vigente del referen-
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dum era più seria. In ogni caso, la separazione dei ruoli fra sindaco e consiglio è un vantaggio. Prima i meccanismi di ricatto erano più facili, le rotazioni selvagge di fatto portavano all’immobilità. Oggi i consigli hanno soltanto un ruolo di programmazione e non competenze gestionali dirette». Regione Sicilia, anno 1998: i vassalli, i valvassini e i valvassori della politica, i vecchi viceré e le burocrazie borboniche non se ne vogliono andare. Altro che federalismo. Ma nell’esperienza delle giunte comunali è possibile leggere i primi segni di rinascita.
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Dietro la facciata ordinata delle inconfondibili villette a schiera che contraddistinguono il paesaggio urbano inglese, dietro gli autobus rossi a due piani, le bottiglie di latte sull’uscio e i postini super-efficienti e cordiali, sta una struttura del governo locale tradizionalmente attenta a costituire il primo, fondamentale, anello della plurisecolare vita democratica dell’Inghilterra. Para-
Regno Unito: dove il primo cittadino è uguale all’ultimo Nella culla della democrazia occidentale, dove già nel dodicesimo secolo esistevano delle Carte per l’auto-governo, amministrazione locale significa da sempre partecipazione, organizzazione, disciplina ma anche protesta misurata. Il governo locale è soprattutto capacità di ascoltare i suggerimenti e misurarsi sulla base dei risultati: così gli amministratori guardano con attenzione ai loro compiti e si
Nadia Spaccarotella
dossalmente, proprio in questo paese dalla democrazia antichissima si registra una partecipazione al voto tra le più basse in Europa, particolarmente nelle elezioni amministrative. La naturale sfiducia verso la politica e i politicanti è particolarmente forte nel più pragmatico dei popoli. Gli inglesi sanno però che esistono delle strutture di governo locale cui far riferimento e si rivolgono ad esse continuamente, senza esitazione, per ogni esigenza di vita quotidiana.
Sindaco e consiglieri: gli oneri senza onori Dal consigliere comunale di un minuscolo borgo di campagna al rappresentante plurititolato di un quartiere cosmopolita di Londra, l’Inghilterra schiera un esercito di 22.000 amministratori locali rigorosamente “volontari”, che mentre sono in carica restano sulla busta paga del loro datore di lavoro precedente (si tratta di un accordo volontario), oppure vivono di risparmi. Ogni consiglio deve avere un minimo di cinque membri, ma si può arrivare fino a 100 nei distretti metropolitani e nelle circoscrizioni di Londra. In media un consigliere riceve venti lettere al giorno, oltre alle telefonate e alle visite dei citta-
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dini nel suo ufficio. Le richieste di aiuto e chiarimenti si fanno naturalmente più pressanti quando si presentano problemi molto sentiti a livello locale, quali la chiusura di una scuola, oppure un nuovo progetto di sviluppo edilizio. Agli inizi della sua straordinaria carriera politica, che lo avrebbe portato dalla licenza di scuola superiore in un quartiere popolare di Londra al numero 10 di Downing Street, l’ex primo ministro John Major fu consigliere comunale nella circoscrizione di Lambeth, una zona di Londra con grandi problemi sociali ed economici. Sulla scorta di quell’esperienza poté formarsi un’idea precisa del ruolo dell’amministrazione locale nella vita democratica del suo paese. “Il governo locale è una parte fondamentale del nostro tessuto sociale. In Gran Bretagna molti servizi si prestano tradizionalmente a livello locale, più che nazionale. Il governo locale consiste in una gamma di autorità elette democraticamente che si occupano di fornire servizi alle loro comunità,” dichiarò l’allora premier qualche anno fa. Nel 1991 avvertita l’esigenza di adattare la struttura del governo locale alle mutate esigenze della società, fu istituita un’apposita Commissione, la Local Government Commission (LGC) al fine di predisporre un nuovo assetto istituzionale per le autorità locali. Il piano di ammodernamento stilato dalla Commissione prevede, nell’arco di due anni a partire dall’aprile 1996, la costituzione di 45 nuove autorità unitarie e la soppressione di alcune contee, allargando quindi la fascia di zone dove vige il sistema di direzione unica rispetto al duplice controllo di distretto/contea. La duplicazione è vissuta dagli inglesi come un’inutile burocratizzazione che complica la vita ai cittadini senza portare benefici concreti nella gestione della cosa pubblica. Pragmatici, ma anche molto attaccati alle tradizioni, gli inglesi hanno fatto del sindaco una figura onoraria con funzioni di rappresentanza, piuttosto che un
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amministratore in grado di guidare le politiche del governo locale. Nominato dal consiglio e - alla pari dei consiglieri stessi - non retribuito per la sua attività, il sindaco è normalmente una persona di mezza età che si è distinta per attività imprenditoriali o in altri settori della vita cittadina, e che viene chiamata a rappresentare il distretto o il comune nelle occasioni ufficiali. Indossa abiti cerimoniali e la catena con il medaglione simbolo della città, ma non ha alcun potere decisionale né tantomeno un rapporto diretto con la cittadinanza, dato che non viene eletto.
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Finanziare le numerose attività che è chiamato a svolgere rappresenta un compito molto arduo per il governo locale inglese, che da qualche anno deve anche fare i conti con un incremento preoccupante
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delle frodi a danno dell’amministrazione, soprattutto nel settore dei sussidi di disoccupazione e degli alloggi popolari. Per le spese correnti, le amministrazioni locali si finanziano tramite fondi statali, che costituiscono poco più della metà del loro bilancio, imposte sugli immobili commerciali e tasse locali calcolate sulla base del valore dell’immobile occupato. Ulteriori fonti di reddito per le amministrazioni locali sono gli affitti degli alloggi popolari e i parchimetri. Per le spese straordinarie (strade, palazzi, ecc.) le amministrazioni ricorrono invece al prestito, su autorizzazione del relativo ministero. In media in un anno il governo locale inglese spende complessivamente 200.000 miliardi di lire, di cui circa un terzo per l’istruzione. Le altre voci importanti del bilancio sono gli alloggi popolari, i servizi ambientali e sociali. L’amministrazione locale impiega complessivamente oltre due milioni di persone, il 45% delle quali operano nelle scuole. L’istruzione, infatti, è in larga parte sottoposta al controllo delle autorità locali. Il settore dei trasporti pubblici locali, tradizionalmente uno dei fiori all’occhiello del vivere civile inglese, sta attraversando da oltre un decennio una fase di difficile transizione. I caratteristici autobus rossi a due piani che compaiono sulle cartoline di Londra non sono più così onnipresenti come in passato. La gestione della rete è stata infatti spezzettata in tante zone diverse e affidata a società private, le quali hanno non solo facoltà di organizzare il servizio, ma anche di “decorare” gli autobus come meglio credono.
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Le 33 piccole Londra avranno un sindaco La capitale inglese è la città più estesa d’Europa, con quasi 50 km di raggio, e anche la più popolosa, con un numero di abitanti compreso fra gli otto milioni del vero nucleo cittadino e i dodici della Greater London. Dopo i risultati del referendum del 7 maggio scorso, l’enorme conglomerato londinese sarà di nuovo amministrato da un sindaco.. Nel 1986, in piena era thatcheriana, l’assemblea cittadina, il Greater London Council (Glc) venne abolito dalla lady di ferro, che lo riteneva un avversario troppo forte alle politiche del governo e ne denunciava apertamente lo stile di governo chiaramente “di sinistra”. Da allora si sono susseguiti inutilmente i tentativi di politici volenterosi di rimettere in moto la macchina del governo locale. In questi 12 anni Londra ha continuato a vivere come un agglomerato delle sue 33 circoscrizioni, ciascuna con la sua assemblea e la sua politica. I risultati negativi della mancanza di coordinamento sono ben visibili, soprattutto nel settore dei trasporti e dell’urbanistica, dicono i critici. Londra vive benissimo senza una guida centrale, anzi fiorisce proprio per via del liberismo sfrenato che da sempre la contraddistingue, sostiene chi è invece contrario a un governo unitario. Il governo di Tony Blair sembra comunque intenzionato a lasciare un segno forte della sua presenza anche sulla capitale. Per questo, ha presentato un libro bianco, alla fine di marzo, nel quale vengono tracciate le linee principali del progetto governativo di modernizzazione dell’amministrazione della città. La nuova assemblea avrebbe la
funzione di tracciare e coordinare gli interventi in settori fondamentali della vita metropolitana, quali i trasporti, l’urbanistica, l’ambiente, la cultura e lo sport. Le verrebbero inoltre affidate funzioni di controllo rispetto a servizi di fondamentale importanza quali la polizia, la sanità e l’ambiente. Il governo di Tony Blair non fa mistero dell’importanza che assegna alla costituzione di questo organismo. Nella premessa al libro bianco, il vice-premier John Prescott ha scritto: “Quando il nostro governo è stato eletto, circa un anno fa, abbiamo intrapreso un programma di rinnovamento democratico in Gran Bretagna. Una parte fondamentale di tale rinnovamento consiste nella modernizzazione del governo di Londra, per consentire alla nostra capitale di affrontare le sfide del prossimo millennio. Dobbiamo riempire lo spazio lasciato vuoto dal Glc nel 1986 con una funzione di guida forte e di controllo democratico. [...] I nostri progetti per Londra sono radicali e innovativi e ricostituiranno il senso civico e la guida strategica di cui Londra ha urgente bisogno. Questi progetti rispondono alle esigenze dei londinesi di poter intervenire direttamente sui problemi della loro città, sulla sua gestione e su chi ne è responsabile. “. Al contrario di Margaret Thatcher, il governo laburista di Tony Blair si aspetta naturalmente di trovare nell’assemblea londinese un alleato alle politiche del governo centrale piuttosto che un pericoloso avversario. Resta da vedere se questa previsione si rivelerà esatta. Difficile prevedere, inoltre, che tipo di rapporti si instaureranno tra la nuova amministrazione cittadina e le circoscrizioni, che negli ultimi
Ma se a Londra la differenza fra gestione pubblica e privata non ha modificato in misura sostanziale il servizio, vista la mole di passeggeri che gli autobus riescono comunque a trasportare, il discorso si fa completamente diverso per le zone rurali meno popolate. Qui la privatizzazione ha comportato un ridimensionamento notevole delle corse, che spesso costituivano per le persone anziane e sole l’unico modo di raggiungere il centro abitato. Per questo motivo le autorità locali sono dovute intervenire direttamente, in varie zone, e predisporre servizi pubblici di trasporto per sopperire alle carenze del privato.
L’ambiente L’intervento del governo locale sta assumendo un ruolo via via crescente, invece, nel vasto settore della protezione dell’ambiente. All’interno del Local Government Management Board, un organismo che ha il compito istituzionale di assistere le autorità locali nell’individuazione degli ambiti su cui concentrare la propria azione, esiste un’apposita agenzia, la Sustainable Development Unit, che si occupa di sostenibilità. A livello locale, il programma dell’Agenda 21, che si basa sul documento ONU concordato a Rio de Janeiro nel 1992, si propone di fornire indicazioni e promuovere iniziative per la diffusione fra i cittadini di una maggiore consapevolezza delle problematiche ambientali. Sono numerose le autorità locali che hanno aderito alle iniziative della Sustainable Development Unit e che stanno predisponendo programmi di informazione e di educazione alla sostenibilità. Un passo concreto verso la protezione dell’ambiente il governo locale stesso lo può compiere, infine, modificando la sua stessa gestione interna e adottando le linee-guida europee dell’Emas (EcoManagement and Audit Scheme), un sistema di gestione eco-compatibile - e di costante verifica dei risultati raggiunti - che va dall’organizzazione dell’orario di lavoro al trasporto degli impiegati, dall’utilizzo dei computer all’arredamento e
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d’ingresso gratuito per la prossima nuotata, oltre alle scuse del personale. Se non siete soddisfatti della risposta ricevuta, potrete rivolgervi al difensore civico, l’ombudsman, i cui dati sono chiaramente indicati anch’essi nell’ampia documentazione disponibile nella bacheca della piscina.
La partecipazione degli esclusi
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alla pulizia degli uffici. Il governo centrale ha messo a disposizione delle autorità locali un centro di informazioni che fornisce tutte le indicazioni utili su come aderire alle regole EMAS e su come promuovere la sostenibilità.
L’informazione L’informazione non è soltanto uno strumento di maggiore efficienza all’interno dell’amministrazione, ma per certi versi il vero e proprio cardine sul quale ruota il rapporto cittadini/amministrazione. Dall’assistenza ai disabili alla biblioteca per ragazzi, dalla nettezza urbana alla piscina comunale, non esiste servizio pubblico che non sia dotato di documentazione informativa completa (spesso anche nelle lingue straniere più diffuse nella comunità, oltre che in braille per i ciechi e in caratteri stampati molto grandi per gli anziani). Ovunque esistono meccanismi ben rodati e regolarmente monitorati per la raccolta e la gestione delle critiche mosse dagli utenti alla fornitura del servizio. Andate a fare una nuotata in piscina e vi sembra che l’acqua sia troppo fredda? All’uscita compilate un’apposita cartolina di protesta e riceverete entro pochi giorni una risposta esauriente della direzione. Se la vostra protesta era fondata (ad esempio, se l’acqua della piscina era al di sotto di una certa temperatura - definita come ideale dagli esperti e pubblicizzata per iscritto), riceverete addirittura un biglietto
Altro elemento fondante della dinamica utente/fornitore del servizio è quello che gli inglesi chiamano accountability, traducibile (male) come responsabilità, nel senso della necessità di rendere conto delle proprie azioni. Per gli inglesi è molto importante che l’operato dell’amministratore sia sempre sottoposto al controllo dei suoi elettori e che questi ultimi abbiano l’effettiva possibilità di intervenire con eventuali critiche o suggerimenti sulla sua azione. Questo aspetto di democrazia “vivente”, di contatto quotidiano tra elettore ed eletto sta molto a cuore agli inglesi. Sotto la guida della Local Government Information Unit, un’organizzazione che mira a incrementare la possibilità del singolo cittadino di partecipare alla vita pubblica, le autorità locali stanno studiando nuovi modi di raccogliere le opinioni dei cittadini, evitando nel contempo di farsi influenzare in maniera indebita dai propri elettori. La grande maggioranza delle autorità locali dispone di un sistema di monitoraggio delle opinioni espresse dai cittadini. Ma non basta ascoltare le critiche dei cittadini più attivi, più colti, maggiormente disposti a esporsi. Una vera democrazia deve riuscire a dar voce anche a quanti non sono attualmente in grado di farsi sentire: di qui iniziative specifiche volte a favorire la partecipazione democratica delle fasce sociali più deboli, degli emarginati, ma anche dei bambini, alle attività delle autorità locali. Molti di questi tentativi si scontrano naturalmente con la tendenza a isolarsi, già forte per natura nella patria della privacy e acutizzata dai ritmi di vita moderni, soprattutto nelle grandi città. Gli
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Dopo 15 anni passati a governare Barcellona (è stato sindaco della città catalana dal 1982 al 1997), Pasqual Maragall si è regalato un anno di riposo dalle fatiche amministrative. E ha deciso di trascorrerlo in Italia, tenendo un ciclo di lezioni nell’Università di Roma sul tema: “L’Europa prossima”. La nostra redazione lo ha incontrato nel suo studio in via Ostiense.” Vorremmo iniziare questo dialogo dalla sua esperienza di sindaco, dagli elementi che Lei considera più qualificanti.
Il modello catalano? Una complicità fra cittadini e amministratori Stimato ex sindaco della capitale catalana, il “socialista cristiano” Pasqual Maragall parla dei fasti di Barcellona, della rinascita della Spagna dopo la dittatura, del rapporto tra Stato
a cura di S. C.
Il termine riassuntivo più significativo che abbiamo utilizzato nei miei anni di sindaco, dal 1982 al 1997, è quello di “complicità” tra cittadini e amministrazione. È un elemento un po’ paradossale perché quel termine significava in origine essere complice, partecipe di un reato. Noi l’abbiamo utilizzato nel senso di coinvolgimento comune in un’avventura difficile per la città e i cittadini. Per capirne il significato bisogna risalire alla “pre-storia” del modello Barcellona, quella dei quarant’anni di dittaura che aveva veicolato una mentalità paternalistica e che è terminata nel 1978. Abbiamo allora cercato un consenso attivo e profondo dei cittadini. C’era finalmente la voglia di cambiare, c’erano i piani, c’erano i soldi, c’era la volontà di tecnici politici, letterati, moralisti di realizzare un nuovo protagonismo con interventi che andavano da una specie di raccordo anulare interno al recupero delle zone verdi, ad iniziative culturali prima bloccate tra cui un nuovo museo di arte contemporanea. E c’era an-
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che una sintonia forte col Governo del Paese senza il quale tutto questo non sarebbe stato realizzabile. Cio è avvenuto in modo spontaneistico o con meccanismi stabili di partecipazione? Il Comune ha fatto una paziente esperienza di decentramento, non senza problemi. Soprattutto siamo riusciti a suddividere la città in dieci unità amministrative, che noi chiamiamo distretti, con una dimensione di scala che consentiva una partecipazione incisiva. venivamo da un sistema troppo frammentato, con 36 quartieri e tutti si aspettavano che la sinistra li avrebbe ulteriormente moltiplicati anche per ragioni di parte, per non avere di fronte al Comune dei possibili contropoteri. Invece siamo stati consapevoli, dopo aver attentamente esaminato la questione, che la partecipazione è efficace non solo quando vi è una prossimità al potere, una piccola dimensione in cui è facile agire, ma anche quando ci sono delle questioni su cui si può realmente decidere. Quest’ultimo requisito richiedeva, nel nostro contesto, unità amministrative di almeno cento-centoventimila abitanti con una media di centocinquantamila. Dopo l’entusiasmo iniziale vi è stato certo un periodo di disincanto, anche perché nei primi anni i 15 consiglieri di ogni distretto non avevano neanche un gettone di presenza che è stato concesso solo in seguito, ma la scelta complessiva è stata giusta. Soprattutto rivendico la correttezza di un’altra scelta, quella relativa alla nomina del presidente-manager del distretto. Noi abbiamo scelto il criterio per cui le nomine venivano effettuate dal sindaco ma rispettando gli orientamenti di voto del singolo distretto: non c’è decentramento reale se un sindaco di sinistra impone ovunque presidenti di sinistra, o anche viceversa come ha erroneamente deciso a Madrid il Partito Popolare. Recentemente nella nuova regolamentazione di Barcellona, che deve essere approvata dal Parlamento regionale e da quello nazionale abbiamo anche previsto la partecipazione nei distretti dei giovani al
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di sotto dei 18 anni, che ci sembra di valore educativo rilevante. Su queste dimensioni si possono anche sperimentare modalità politiche innovative non riproducibili su dimensioni più ampie: l’occasione non deve andar persa.
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Come si è sviluppato il rapporto tra la sua maggioranza di sinistra e il Governo regionale di centro-destra del partito autonomista Convergencia i Uniò? Ho trovato molto simpatica l’idealizzazione del modello catalano proposta in Italia da Cacciari e dall’industriale veneto Carraro, i quali sostengono che in Catalogna socialisti e nazionalisti hanno sviluppato una solida intesa sulla base di un federalismo moderato che esclude la secessione. Anche la Lega aveva parlato di modello catalano, ma con minore legittimità, non solo perché la sua descrizione della nostra realtà è sbagliata, ma soprattutto perché quando Bossi viene da noi non viene ricevuto né dal sindaco né dal Presidente del Governo regionale. Comunque vorrei dire che la capacità di moderazione, di negozazione, la consapevolezza che in Europa abbiamo un’immagine comune, non esclude affatto che in vari momenti ci siano state tensioni tra governo nazionalista della Regione e municipalità socialista. L’immagine complessiva è giusta, ma l’idalizzazione non deve essere esagerata. Non c’è, più in generale, anche in Spagna e in Catalogna un problema di rapporti tra città e regioni? Vedo una notevole diversità. In Spagna, che è uno Stato nazionale antico, le città non hanno avuto un particolare ruolo. La Catalogna però fa eccezione perché essa dopo il 1914 non era più riconosciuta come entità; allora si faceva valere attraverso la sua città, attraverso Barcellona, la forza sociale, economica, demografica di un’area urbana dotata di sbocco sul mare e quindi di rapporti commerciali nel Mediterraneo. Questo fatto ha posto problemi in seguito, col ritorno della democrazia. Ci si è posti la domanda: se la Nazione catalana riappariva
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nella storia non doveva allora scomparire la città? Ma a ben vedere abbiamo capito che i momenti migliori della storia catalana sono stati quelli in cui la città di Barcellona e la Catalogna sono state entrambe forti. Questa è la specificità e l’interesse del modello catalano, la compresenza di identità nazionale catalana e di forza della città. Vedo qui una giusta spinta europea in questa direzione, ad esempio nella scelta di Blair di ridare un sindaco a Londra dopo che la Thatcher aveva anni fa soppresso il Consiglio della Grande Londra. Nella disputa che c’è nell’area europea di centro-sinistra Lei si sente più vicino a Blair, che ha appena citato, o a Jospin? Personalmente mi sento più vicino a Jospin, di cui sono molto amico. E’ una persona più forte, solida e capace rispetto alla sua immagine. Tuttavia non dobbiamo estremizzare le differenze e svalutare l’opera di Blair che è un grande intuitivo, che fiuta molto bene ciò che c’è nell’aria e che si è trovato a proporre in forma nuova i valori della sinistra dopo una lunga egemonia conservatrice che cer-
to né noi né lui condividiamo nella sua filosofia fondamentale e che però è stata un fatto sociale importante e proprio per questo non poteva semplicemente essere rigettata in tutto. Jospin ha una solida impostazione umanista, è un uomo di sinistra innovativo nel suo contesto, così come Blair è portatore di un altro tipo di innovazione di taglio più pragmatico, più adatta al contesto
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inglese. Nel complesso vorrei aggiungere che abbiamo bisogno di dar vita ad un partito euroeo del centro-sinistra, ma non il partito dell’Europa nazionale, un partito che metta più stabilmente in comunicazione le realtà locali e regionali. Voi Cristiano Sociali avete questa storia interessante in Italia, in Francia con Delors, anche in Spagna con alcuni filoni culturali rilevanti che hanno riflettuto sui limiti degli Stati nazionali sia verso il basso che verso l’alto, sulla sussidiarietà. Su questo potete e dovete giocare un certo ruolo. E per la Spagna di che tipo di sinistra c’è bisogno? Bisogna anzitutto fare una riflessione. Noi siamo stati molto stupiti dell’accordo di governo tra il Partito Popolare e i nazionalisti catalani. I Popolari, che sono un’evoluzione del vecchio partito franchista Alleanza Popolare che ha accetatto la democrazia, in continuità col passato regime erano sempre stati ultra-centralisti, per loro l’anti-separatismo aveva la stessa forza dell’anti-comunismo. Per questo la loro forza in Catalogna è sempre stata minima e il centro-destra catalano si è riconosciuto in Convergencia i Uniò, di orientamenti ugualmente moderati ma nazionalisti. In precedenza, dopo che il Partito Socialista aveva perso la maggioranza assoluta, era stato possibile per il Psoe fare accordi con Convergencia perché, nonostante le diversità politiche, c’era una comune impostazione federalista. Basti pensare che nello Statuto del Psoe non si parla di organi nazionali del partito, ma federali. Invece dopo che nelle elezioni politiche la maggioranza relativa era andata ai Popolari vi è stata la loro
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inaspettata conversione al federalismo perché altrimenti non avrebbero potuto dar vita al Governo Aznar. Per noi è stato uno choc, una sorpresa del tutto imprevista. È quello che era successo a noi nel 1994 quando Berlusconi era riuscito dopo il voto a perfezionare l’intesa con la Lega da una parte e Alleanza Nazionale dall’altra. Sì, con in più per noi il rischio di una reazione sbagliata in senso opposto. Visto che il centro-destra si coagulava sul federalismo c’era la spinta istintiva a diventare noi centralisti. Forse anche prima per alcuni il federalismo poteva essere un dato di facciata, usando il centralismo della destra come scusa per non procedere in tal senso, per non trasferire nelle istituzioni, in pubblico, ad esempio nella composizione del Senato, quel federalismo che praticavamo al nostro interno. Ma sono atteggiamenti da superare. La sinistra che potrà vincere in Spagna dovrà rispettare e valorizzare le libertà degli individui ma anche quelle dei gruppi, non solo quelle sociali, ma anche quelle culturali. E per l’Italia? Trovo straordinari gli sforzi del Governo dell’Ulivo, dall’incredibile capacità di centrare i parametri dell’Euro, su cui pochi credevano, fino a novità interessantissime come le leggi Bassanini, uno Stato che al tempo stesso diventa più essenziale, soprattutto nei suoi apparati centrali, ma proprio per questo potenzialmente più efficace. Ciò significa che Lei vede una possibile trasformazione dell’Ulivo in un soggetto politico unitario? Questa è già una questione diplomaticamente vietata. Quello che mi interessa affermare è che ci sono molte energie per realizzare anche in Italia una grande forza di progresso. Non sottovalutate le vostre risorse. E la sua risorsa personale sarà utilizzata nelle prossime elezioni regionali per battere
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L’Unione europea deve cercare costantemente un equilibrio tra la necessaria unità e la altrettanto necessaria molteplicità. Da un lato, gli Stati membri, le regioni e i comuni non possono più risolvere da soli e per sé numerosi problemi, dall’altro occorre evitare una centralizzazione delle funzioni fine a sé stessa. Occorre pertanto valutare attentamente nei singoli casi quali funzioni debbano essere svolte a livello europeo e quando ciò non sia né opportuno
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La formula regionale: capacità di azione e sussidiarietà Al vertice europeo delle regioni e delle città dello scorso anno i due RAPPRESENTANTI del Comitato delle regioni “(composto da 222 amministratori provenienti dai vari Paesi membri)” hanno presentato questa relazione che ha sintetizzato il lavori del Comitato e costituito la base per la riflessione al vertice di amsterdam. Ne riproduciamo ampi stralci.
Edmund Stoiber
Presidente del governo regionale della Baviera
Fernando Gomes Sindaco di Porto
né necessario. Ci si dovrebbe limitare ai soli casi in cui gli obiettivi non possano essere sufficientemente conseguiti a livello di Stati membri, regioni e comuni.
Cittadini, regioni e comuni I cittadini si attendono che la funzione pubblica venga esercitata ai vari livelli, in modo che possa essere svolta in maniera ottimale. Per i cittadini il significato di ottimale non può essere altro che “vicino ai cittadini”, “efficace” e “rispettoso dell’identità”. Per quanto riguarda l’Unione europea, essi constatano invece una distorsione: da un lato, lamentano la mancanza di un’azione comune, ad esempio nei settori della politica estera, di sicurezza, degli affari interni e della giustizia e considerano che l’impegno della Comunità sia ancora insufficiente nel campo della politica della ricerca, delle reti transeuropee, in particolare dei trasporti; dall’altro, constatano in molti campi una forte regolamentazione del contesto in cui vivono, che limita eccessivamente la molteplicità e lamentano che le regioni ed i comuni continuino a non poter esercitare le competenze che sono state loro tolte benché essi possano realizzarle in modo
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più efficace. I cittadini, vogliono dunque meno Europa in certi settori e più Europa in altri. Anche le regioni ed i comuni sono colpiti da questa distorsione: da un lato, essi vengono considerevolmente limitati, nell’elaborazione della loro politica, dalle direttive e dai regolamenti europei, ad esempio dal controllo degli aiuti pubblici nella politica economica regionale. D’altro canto, manca un’adeguata cornice europea per un’azione regionale efficace, ad esempio per quanto riguarda la lotta alla droga e al suo commercio, il terrorismo, la criminalità ed il razzismo.
La posizione del Comitato delle regioni Il Comitato è a favore di un’Unione europea dotata di capacità d’azione, ma vicina ai cittadini: più Europa e contemporaneamente più prossimità. Per le funzioni che possono essere svolte soltanto a livello europeo, l’Unione deve disporre di istituzioni e strumenti efficaci. Essa deve accrescere la propria capacità di rispondere in modo soddisfacente alle aspettative dei cittadini. È inoltre necessario procedere ad una decisa democratizzazione delle istituzioni europee. Ciò comprende il rafforzamento del ruolo legislativo del Parlamento europeo, ad esempio in sede di decisione delle basi giuridiche della politica strutturale, ma anche un maggiore coinvolgimento dei rappresentanti democraticamente eletti delle regioni e delle città. Per il Comitato le decisioni del potere pubblico vanno prese al livello più vicino possibile ai cittadini. Tra i livelli decisionali ‑ comune, regione, Stato, Europa ‑ quello più distante dai cittadini deve intervenire solo quando gli obiettivi di una determinata azione non possano essere sufficientemente realizzati dai livelli più prossimi ai cittadini. Con questo contenuto, il principio di sussidiarietà è stato incluso nel Trattato Ce attraverso il Trattato di Maastricht, su richiesta tra l’altro delle regioni e delle città.
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Il Comitato se ne è espressamente compiaciuto ed ha chiesto che le istituzioni dell’Unione, in particolare la Commissione, applichino la normativa comunitaria conformemente al principio di sussidiarietà e che la Corte europea di giustizia ne verifichi l’applicazione. L’applicazione di tale principio dovrebbe rendere le politiche dell’Ue più responsabili, avvicinandole maggiormente ai cittadini. A giudizio del Comitato, con la sussidiarietà vengono rafforzati i seguenti elementi: 1) la legittimità democratica, in quanto evita la creazione di un potere centrale europeo senza limiti ed avulso dai problemi dei cittadini, dato che uno degli elementi alla base di tale legittimità è l’avvicinamento dell’Unione al cittadino; 2) la trasparenza, in quanto favorisce una chiara ripartizione delle funzioni tra i diversi livelli di poteri pubblici, permettendo così al cittadino di identificare i compiti che incombono a ciascuno di essi; 3) l’efficacia, in quanto l’esercizio delle competenze viene attribuito al livello di go-
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verno più adeguato. Il Comitato ritiene che l’attuale applicazione del principio di sussidiarietà debba essere migliorata. Esso ha pertanto chiesto la revisione dell’articolo 3B del Trattato che istituisce la Comunità europea per definirne in maniera più chiara e più rigorosa i criteri di applicazione e, d’altro canto, riconoscere l’autonomia dei poteri locali e regionali. Il Comitato ha proposto la seguente formulazione: “La Comunità interviene, secondo il principio della sussidiarietà, soltanto nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possano essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri, dagli enti locali e regionali competenti in virtù del diritto nazionale degli Stati membri”. L’obiettivo del Comitato è garantire in particolare, che per giustificare un’azione europea, non basti più affermare semplicemente che è meglio realizzarla a livello comunitario. Occorre piuttosto dimostrare concretamente che gli obiettivi perseguiti non possono essere realizzati con l’intervento, anche se migliorato, di Stati membri, regioni o comuni. Il Comitato si considera uno dei guardiani della sussidiarietà e in quasi tutti i pareri sui documenti della Commissione e del Consiglio prende posizione su tale aspetto. Tuttavia constatando che non sempre il principio di sussidiarietà viene rispettato, ha proposto che gli venga concesso quantomeno il diritto di adire al riguardo la Corte europea di giustizia. Al fine di garantire il ruolo delle regioni e dei comuni, il Comitato chiede che venga riconosciuta l’autonomia delle regioni e l’autogoverno dei comuni. Le istituzioni regionali e locali costituiscono in Europa uno dei fondamenti della democrazia. I cittadini europei lo san-
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Lisbona: il volto umano di una capitale europea INCONTRO CON IL SINDACO João Barroso Soares a cura di Annalisa carloni
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“Lisbona è una città antica, dove ogni angolo evoca i drammi e le glorie del suo passato di città capitale, porto di partenza e di arrivo, le cui scoperte diedero un riferimento alla geografia del mondo”. Così descrive la sua città il Sindaco João Soares. Nel 1986 il Portogallo aderisce al Trattato Cee assieme alla Spagna: Lisbona diventa, improvvisamente, capitale nell’Europa della futura Unione. Probabilmente solo un ruolo di prestigio, dieci anni fa, un riscatto da oltre mezzo secolo di dittature, un sicuro invito a sedere accanto alle democrazie di quei Dodici che discutevano di unione politica, economica e monetaria; un ruolo di responsabilità oggi, quando l’Euro sta per diventare di uso corrente e quando non servono più passaporti né controlli per muoversi attraverso i confini interni dell’Unione. La posizione geografica di questo porto di pescatori e conquistadores, è sempre stata un grande ostacolo ad
un suo sviluppo “europeo” (per quanto oggi questo aggettivo richiami tristemente quello di “nord-americano”, sottolineano gli iberici), separata dai grandi movimenti europei dal massiccio blocco spagnolo e dal resto del mondo dalla vastità dell’Oceano Atlantico. Lisbona, ha vissuto chiusa nella propria stretta striscia di terra, in una posizione emarginata, tutti i suoi drammi, cambiamenti e sviluppi; con il vantaggio però, di aver conservato intatta la propria purezza di Paese europeo, non solo nella ricca storia e tradizione, ma anche nella lingua (non si sente ancora in Portogallo alcun americanismo) e nella quotidianità della vita. Oggi, questa stessa posizione le può dare il prestigioso ruolo di porta, quanto mai europea, dell’Unione sul resto del Mondo, e del Mondo sull’Unione. “Lisbona deve sottolineare l’importanza del suo ruolo proprio per la sua posizione e per il potenziale d’innovazione che rappresenta...” afferma João Soares, intervenuto, a Roma, nell’ambito del
no e lo esperimentano quotidianamente. La Carta dell’autonomia locale del Consiglio d’Europa definisce l’autonomia comunale come il diritto e l’effettiva facoltà delle amministrazioni comunali di regolamentare e definire, nel rispetto delle leggi, una parte essenziale dell’attività pubblica, sotto la propria responsabilità e nell’interesse dei propri amministrati. Il Consiglio dei comuni e delle regioni d’Europa ha proposto l’inserimento, nel Trattato Ce, dei principi fondamentali enunciati in detta Carta. Occorre inoltre considerare con la massima attenzione le richieste contenute nella Carta dell’autonomia regionale, attualmente in corso di elaborazione nell’ambito del Consiglio d’Europa. L’assemblea delle regioni d’Europa, nella Dichiarazione del 4 dicembre 1996 sul regionalismo in Europa, ha formulato dei principi che dovrebbero essere tenuti presenti nella Carta. “I poteri regionali e locali rappresentano una delle colonne del sistema
progetto didattico “Europa Prossima”, organizzato, tra gli altri, dal Comune di Roma e dall’Università di Studi di Roma III, sotto la direzione di Pasqual Maragall, ex-sindaco di Barcellona e artefice del suo miracolo urbanistico. “Sono un uomo pratico e realista...”, continua Soares, “e so di essere solo un apprendista nel seguire il modello di Barcellona, ma Lisbona non ha perso tempo, come altri Stati, nell’incentivare il suo sviluppo: eliminare il traffico privato attraverso la creazione di una nuova rete metropolitana; essere all’avanguardia nel campo delle telecomunicazioni e delle fibre ottiche; creare impiego, abitazioni e spazi per commercio e servizi. Sono solo alcuni degli obiettivi strategici che stiamo perseguendo”. È proprio l’Expo ‘98, che si è aperta a Lisbona il 22 maggio, a creare un enorme struttura su oltre 300 ettari ad est della città, nell’area del Dock de Olivais, in grado di ospitare, fino a
democratico europeo in quanto traggono legittimità dalla loro vicinanza ai cittadini. La democrazia locale e regionale costituisce infatti uno dei valori comuni degli Stati membri. L’esistenza di poteri regionali e locali dotati di organi decisionali democraticamente eletti e di mezzi di azione autonomi non può che contribuire al funzionamento democratico dell’Unione”. Per poter distinguere meglio, in futuro, le responsabilità e le competenze dell’Unione europea da quelle degli Stati membri, delle regioni e delle città, il Comitato si dichiara a favore di una migliore delimitazione delle competenze. La mancanza di precisione nel definire gli obiettivi attualmente enunciati nei Trattati, hanno ripetutamente causato confusione e disaccordo in merito alla portata delle competenze dell’Unione europea. È necessario chiarire la situazione.
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settembre, migliaia di visitatori, e dopo, come anticipa il Sindaco, gallerie d’arte, caffetterie, spazi di incontro e di servizi; ha già creato nuovo lavoro e una riqualificazione urbana della zona per poi estenderla all’intera città. “Speriamo, inoltre, in questa occasione, di poter sottolineare l’importanza del mare come legame tra i continenti (non a caso questa edizione dell’Esposizione Universale è intitolata “Gli oceani, un patrimonio per il futuro” ndr), e la posizione, dunque, strategica del Portogallo per l’Europa affacciata al Mondo”. Una finestra aperta per un Mondo sempre più piccolo che può osservare il Vecchio Continente nella sua nuova Unione. Un Vecchio Continente che, secondo Soares, oggi, può essere orgoglioso di quello che è riuscito a creare al suo interno, sottolineando il ruolo fondamentale acquisito dalle città in tale quadro: “Sono nodi attivi di una rete essenziale per la costruzione di una società più disinvolta e più solidale”.
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Rete, che tuttavia presenta ancora gravi problemi: “di funzionamento, di abitazione, di occupazione, di trasporti, di emarginazione sociale”, problemi che, hanno bisogno di una soluzione e l’unico modo per trovarla è agire assieme attraverso il dialogo, “un dialogo sociale e culturale, che abbia come fine ultimo il ritrovamento di equilibri persi, di un senso nuovo per vivere assieme in un quadro di speranza e di fraterna solidarietà, creando un’organizzazione di sistemi urbani più adeguati alle necessità delle popolazioni tanto adesso, come in futuro”. Ed è proprio la popolazione, le persone che la compongono, il volto umano della capitale europea il protagonista del programma politico di Soares: bisogna riqualificare lo spazio urbano, dove si vive e si lavora, “habitat umano per eccellenza. È questa dimensione umana delle città che noi dobbiamo creare”. Suonano come una rivelazione le parole di Soares. È proprio vero: la città è
“L’introduzione di elenchi di competenze dell’Unione e degli Stati membri faciliterà l’applicazione del principio della sussidiarietà Comitato sollecita pertanto le istituzioni dell’Unione, in occasione della revisione del Trattato, ad avviare negoziati per delimitare in modo chiaro le competenze dell’Unione e degli Stati. Invita inoltre gli Stati ad applicare sul loro territorio il principio della sussidiarietà nei confronti di regioni ed enti locali”.
Reazioni alle richieste del Comitato Nell’ambito della conferenza intergovernativa, solo pochi Stati si sono dichiarati a favore della revisione dell’articolo 3B del Trattato Ce. Tuttavia, se la revisione dell’articolo 3B (il cui disposto è in contraddizione con l’articolo A delle disposizioni comuni del Trattato sull’Ue secondo cui le decisioni vanno prese il più vicino
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l’habitat umano per eccellenza e come tale deve essere organizzato. Conosco Lisbona, i suoi abitanti e so che ancora trovano il tempo e la voglia di riunirsi ai Cais, moli e pontili lungo le rive del Tago, di passeggiare lungo le pittoresche stradine dell’Alfama o del Barrio Alto, di sorseggiare un clarete in un affascinante caffetteria colorata di azulejos, di discutere del presente e del passato, di confrontarsi con i cugini europei. Mi è difficile non pensare ad una splendida serata passata in una caffetteria dell’alta Castiglia, di fronte a un infusione fumante dopo un gita nel cuore della sua fredda provincia settentrionale, assieme ad amici spagnoli e portoghesi, non c’era televisione, né infernali giochi elettronici, né trilli di cellulari, solo musica, luce soffusa, tavolini di legno e persone, con cui parlare, confrontarsi, amici con esperienze differenti. Ricordo ancora che discutemmo delle dittature che accomunavano le storie dei nostri Paesi e di come le notizie trapelate in
possibile ai cittadini) si dovesse rivelare impossibile. L’auspicio del Comitato potrebbe venir soddisfatto grazie all’eventuale inserimento nel Trattato Ce di un protocollo sulla sussidiarietà. In tale protocollo si dovrebbe chiaramente stabilire che l’Unione non può intervenire quando gli obiettivi delle azioni previste sono sufficientemente realizzati a livello degli Stati membri, delle regioni e dei comuni. Solo questa garanzia europea della sussidiarietà potrà persuadere i nostri concittadini del fatto che l’Europa non è stata realizzata per privarli dei loro diritti e della loro specificità, ma per poter agire con maggiore equità ed efficacia. Per quanto riguarda la garanzia del diritto all’autonomia comunale, alcuni Stati membri, tra cui la Presidenza italiana di turno, hanno annunciato il loro sostegno.
Il ruolo delle regioni e delle città Per l’Unione europea è naturalmente difficile tenere conto della grande molte-
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plicità delle condizioni di vita in Europa, quando adotta una normativa, stabilisce programmi di sostegno o altri interventi. Ne conseguono spesso decisioni lontane dalla realtà che, a causa delle situazioni differenti, sono prive di utilità e consistenza, non possono essere applicate o addirittura peggiorano la situazione. Inoltre, si tiene poco conto delle conseguenze finanziarie e amministrative degli atti giuridici europei per le regioni e le città. All’inizio, gli Stati membri erano i soli interlocutori dell’Ue. Tuttavia l’immagine dello Stato come entità monolitica non ha mai corrisposto alla realtà, perché gli altri livelli ‑ regioni, città e comuni ‑ sono stati completamente esclusi, sebbene per molti aspetti fossero altrettanto interessati dalla legislazione comunitaria dei governi centrali (ad es., regolamentazione sulle sovvenzioni statali, appalti pubblici, applicazione del diritto comunitario). Le relazioni tra la Comunità e gli enti regionali e comunali erano determinate dall’obbligo per questi ultimi di rispettare la legislazione, senza che avessero la possibilità di esercitare un’influenza. Con la costituzione del Consiglio consultivo degli enti locali e regionali e l’introduzione del principio del partenariato per i fondi strutturali, si è iniziato nel 1988 a riconoscere il ruolo delle regioni e dei comuni, ma è solo con la creazione del Comitato delle regioni che l’Unione europea si è resa conto dell’esistenza delle strutture substatali di governo. L’esistenza di un livello regionale e locale è stata riconosciuta e sancita nel Trattato Ce. Dopo questo inizio, occorre adesso sviluppare il ruolo delle regioni e delle città. Inoltre, le decisioni prese a Bruxelles su proposta della Commissione, eventualmente modificate dal Parlamento e infine adottate dai governi degli Stati membri rappresentati nel Consiglio, spesso non sono capite, o lo sono solo in parte nelle regioni e nelle città. Ciò è dovuto, in non pochi casi, alla mancanza di informazioni o di chiarimenti.
Aspettative dei cittadini I cittadini europei continuano a reagire con incomprensione e insoddisfazione a
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tutta una serie di decisioni europee. In tali casi, hanno spesso la sensazione che nel vasto processo europeo di formazione del consenso, le loro esigenze ed i loro interessi siano semplicemente tralasciati. Senza necessità e al solo scopo di armonizzare vengono decise delle modifiche, sebbene la normativa esistente fosse del tutto soddisfacente nell’ambito del sistema Stato- regione‑città. I cittadini continuano quindi a lamentarsi del fatto che le regolamentazioni europee creino, in loco, più problemi di quanti ne risolvano. I cittadini si attendono inoltre che a livello locale vi sia un margine di manovra autonomo nell’ambito del quale poter sviluppare degli obiettivi comuni europei.
Interessi delle regioni e dei comuni Partecipando alle decisioni europee, le regioni e le città, possono contribuire a superare le deficienze. Essi possono portare nel processo decisionale europeo la loro conoscenza della situazione locale, le loro competenze specifiche, la loro esperienza amministrativa, e la loro dimestichezza con l’applicazione delle regolamentazioni. Possono esercitare delle pressioni affinché ci si limiti all’essenziale e ci si concentri sulle funzioni specificamente europee, e possono contribuire, grazie al contatto immediato che hanno con i cittadini, a chiarire e divulgare le decisioni europee. In quanto rappresentanti eletti dai cittadini ed a loro estremamente vicini, la loro partecipazione. integrativa di quella del Parlamento europeo, può rafforzare la legittimazione democratica dell’Unione
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europea. Nel contesto degli sforzi intesi a dare legittimità democratica all’Unione non si deve dimenticare che ogni volta che in un determinato Stato si deve svolgere un referendum, è necessaria tutta la collaborazione dei rappresentanti regionali e locali per ottenere un responso favorevole all’Europa. Il Comitato può inoltre verificare gli effetti amministrativi e finanziari delle misure dell’Ue sulle regioni, e proporre miglioramenti che ritiene opportuni. “Tutti gli oneri, finanziari e amministrativi, che incombono sulla Comunità, sui governi nazionali, sugli enti locali, sulle imprese e sui cittadini devono essere ridotti al minimo e proporzionati all’obiettivo perseguito. Le azioni della Comunità devono lasciare il maggior spazio possibile alle decisioni prese a livello nazionale.”
Posizione del Comitato A giudizio del Comitato una maggiore partecipazione delle regioni e dei comuni al processo decisionale europeo costituisce un elemento decisivo per la creazione di un’Unione europea vicina ai cittadini e comprensibile. Grazie al Comitato delle regioni, istituito dal Trattato di Maastricht, per la prima volta gli enti locali e regionali partecipano formalmente, con funzione consultiva, alla procedura decisionale europea. “In effetti, l’emergere dell’idea di Unione europea, la creazione di una cittadinanza europea, l’introduzione del principio di sussidiarietà, l’importanza crescente delle politiche a finalità regio-
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nale e strutturale e, infine, l’ampliamento delle competenze dell’Unione a settori che riguardano direttamente la vita dei cittadini e l’esercizio delle competenze degli enti regionali e locali rendono necessario un maggiore riconoscimento politico e istituzionale di tali poteri nello spirito del Trattato sull’Unione europea, il cui obiettivo è di creare un’Unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa, in cui le decisioni siano prese il più vicino possibile ai cittadini”. Il Comitato può e vuole contribuire, con i pareri che sottopone alla Commissione e al Consiglio, a ravvicinare l’Europa ai cittadini, nonché ad aumentare la trasparenza e l’efficienza delle politiche europee. Contemporaneamente, attaverso i propri membri, intende spiegare e rendere più comprensibile l’Europa nelle regioni, città e comuni. Il Comitato è un pilastro essenziale della legittimità democratica dell’Unione europea. La partecipazione dei rappresentanti degli enti locali e regionali rafforza la fiducia dei cittadini nelle decisioni europee. “Il Comitato sottolinea che gli enti regionali e locali costituiscono l’anello di congiunzione nel dialogo che deve instaurarsi tra i cittadini e le istituzioni europee. Migliorando i meccanismi della partecipazione regionale e locale al processo decisionale dell’Unione, sarà infatti possibile dare un contributo di rilievo al rafforzamento della trasparenza e della democrazia e all’avvicinamento dell’Unione ai cittadini, obiettivi chiave della revisione del Trattato di Maastricht”. Con il rafforzamento della partecipazione delle regioni, il Comitato intende migliorare la posizione del Comitato stesso, dare alle regioni la possibilità di difendere i propri diritti e di partecipare attivamente a livello del Consiglio dei ministri quando sono coinvolte le loro competenze.
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Circa l’80 per cento della popolazione europea vive in città e l’Europa è quindi il continente più urbanizzato del mondo. Pur essendo molto diverse tra di loro, le zone urbane europee presentano alcune caratteristiche comuni qui brevemente riassunte. Le città in un contesto che evolve Circa il 20 per cento degli Europei vive in grosse conurbazioni con oltre 250.000 abi-
Belle, ricche e complesse città d’Europa
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Il 6 maggio dello scorso anno la Commissione europea diffuse una comunicazione dal titolo “La problematica urbana: orientamenti per un dibattito europeo”. Come spesso capita per le cose più importanti internazionali passò sotto silenzsio nella nostra stampa. Diviso in due parti, la prima di analisi e la seconda di proposte operative, ci sembra un buon testo dal quale partire per riflettere sui problemi e le prospettive che le città europee debbono affrontare in questo periodo. Una base di partenza per ragionare sulla condizione della qualità della vità nelle nostre città.
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tanti. Un altro 20 in città di medie dimensioni e il 40 per cento in città di 10.000-50.000 abitanti. In Europa le sole agglomerazioni che contano approssimativamente 10 milioni di abitanti sono Londra e Parigi. I dati demografici confermano che il processo di inurbamento della società europea sta continuando, sebbene ad un ritmo più lento rispetto ai decenni precedenti. La crescita della popolazione nelle città costituisce il risultato dell’aumento demografico naturale, dell’afflusso di persone da zone rurali o meno prospere e dell’immigrazione, specialmente da paesi terzi. A livello internazionale l’Unione europea costituisce una delle principali destinazioni del flusso di immigrati e questo fenomeno è servito a compensare la tendenza al ribasso della popolazione. Si calcola che nel 1990, ad esempio, siano arrivate negli Stati membri 2,1 milioni di persone provenienti dall’esterno, mentre circa 1 milione di persone ha lasciato la Comunità. Se si esclude l’Irlanda, tutti gli Stati membri registrano attualmente un’immigrazione netta e dai dati relativi al periodo 1987-1991 emerge che i due terzi degli immigrati sono affluiti verso i grossi centri industriali e le capitali. Altre città hanno invece registrato,
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durante gli anni ’80, un calo della popolazione dovuto soprattutto alla scomparsa o alla dislocazione di attività occupazionali tradizionali e ai fenomeni di suburbanizzazione. Bruxelles, Londra, Parigi, Lilla, Porto, Hannover, Torino, Barcellona e le città olandesi della Randstad costituiscono altrettanti esempi di centri città che hanno perso una parte della popolazione a vantaggio della periferia. Questa dispersione tra luogo di residenza, luogo di lavoro e infrastrutture ricreative comporta, tra l’altro, un maggior numero di spostamenti. In termini di risultati economici le maggiori città continuano a rappresentare la principale fonte di ricchezza e contribuiscono al Pil regionale o nazionale in misura proporzionalmente superiore alla loro popolazione. Le città hanno quindi un maggior tasso di produttività, ma l’incremento del Pil spesso non ha prodotto nuovi posti di lavoro: le regioni urbane di Bruxelles, Reno-Ruhr e Londra hanno registrato, ad esempio, incrementi annui del PIL dal 5 al 6%, mentre la creazione annua di nuovi posti di lavoro nello stesso periodo è stata di +0,2 a Bruxelles, +0,1 nella zona Reno‑Ruhr e di ‑0,2 a Londra. Analogamente alcune città di medie dimensioni come Parma, Rennes, Cambridge, Braga e Volos hanno continuato a crescere grazie al loro successo economico. Nella maggior parte delle città l’occupazione complessiva è cresciuta dalla meta degli anni ’80 grazie alla forte espansione del settore dei servizi, che garantisce attualmente dal 60 all’80% circa di tutti i posti di lavoro e che è riuscito perlopiù a compensare le perdite occupazionali del settore industriale. Circa un terzo di questi posti di lavoro riguarda servizi non commerciali, compresa la pubblica amministrazione,
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l’istruzione, la sanità e i servizi sociali, come nel caso di Bruxelles, Roma, Helsinki, Stoccolma e Copenaghen. In molte città lo sviluppo dei servizi non commerciali è però limitato dalle restrizioni sulla spesa pubblica. Per quanto concerne gli altri due terzi dei posti di lavoro nel settore dei servizi, si tratta per lo più di servizi finanziari assicurazioni, trasporti e comunicazioni, commercio al dettaglio, alberghi e ristoranti. Le città che hanno avuto più difficoltà ad adeguarsi alle mutate circostanze sono quelle che dipendevano in precedenza dalle industrie di trasformazione delle materie prime oppure quelle inserite in un’economia regionale molto legata al settore agricolo tradizionale. Le città della Germania orientale debbono affrontare difficoltà specifiche, dovute soprattutto al rapido processo di ristrutturazione in corso che, in altre città europee, ha richiesto decenni. E chiaro che il futuro sviluppo delle città verrà influenzato da elementi diversi rispetto al passato: acquisteranno maggiore peso le attività di servizio, come ad esempio le telecomunicazioni e i trasporti, la biotecnologia, l’alta tecnologia, il commercio internazionale e il commercio al dettaglio nonché lo sviluppo della società dell’informazione, l’istruzione e la ricerca. Anche l’ambiente e una migliore qualità di vita stanno diventando fattori sempre più importanti per l’ubicazione di nuove attività. Le città sono pertanto chiamate ad adeguarsi rapidamente ai rapidi mutamenti dell’economia e di altri settori. Questo nuovo tipo di sviluppo rischia di aggravare i contrasti sociali nelle società urbane e pone l’esigenza di una riqualificazione continua della manodopera.
Città, disoccupazione ed emarginazione sociale Sebbene vi siano grossi problemi per quanto concerne la disponibilità dei dati, sembra confermato che la disoccupazione nelle zone urbane è superiore alla media comunitaria: nel 1995 le zone più densamente popolate dell’Unione registra-
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vano un tasso di disoccupazione dell’11,9%, a fronte del 10,8 delle zone rurali e del 9% delle zone con caratteristiche semiurbane, spesso situate in prossimità di grossi centri urbani. La media dell’Unione nel 1994 era del 10,8%. Questi dati si riferiscono a realtà diverse tra di loro: alcune città hanno un tasso di disoccupazione relativamente basso (Milano, Francoforte), mentre altre superano le medie nazionali ed europee di almeno un quinto (Bruxelles, Birmingham, Colonia, Copenaghen, Napoli, Palermo, ecc.). Le nuove opportunità economiche che offrono attualmente numerose città contribuiscono ad aggravare le divergenze socioeconomiche: accanto alla manodopera più qualificata, capace di competere in un’economia aperta, vi è un gruppo più vulnerabile che vive in uno stato di emarginazione permanente o semipermanente. Il grado d’istruzione e la possibilità di accedere al mercato del lavoro sono diventati i principali fattori di discriminazione della popolazione urbana. Va precisato a questo proposito che nell’Unione la metà delle persone senza lavoro sono disoccupate da lungo tempo, mentre nelle zone densamente abitate la disoccupazione a lungo termine rappresenta il 56,1% della disoccupazione complessiva. Nelle città vi sono numerose situazioni di disagio caratterizzate da una crescente povertà, da persone senza tetto, dall’isolamento sociale, da inadeguate condizioni abitative, dalla droga e dalla criminalità. In molte città europee l’emarginazione ha fatto sì che alcuni gruppi sociali siano fisicamente confinati in quartieri sprovvisti di adeguate infrastrutture. Questo fenomeno si è verificato già da lungo tempo nelle città del Nord‑Europa e si sta adesso diffondendo anche nelle città dell’Europa meridionale. Alcuni quartieri urbani di grandi città registrano un tasso di disoccupazione superiore al 30% e un livello d’istruzione molto basso. In molte città l’emarginazione sociale coincide inoltre con la diversità linguistica e culturale di alcuni quartieri, nei quali il sistema d’istruzione deve tener conto di esigenze specifiche. È ormai quasi generalmente riconosciuto che
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la segregazione fisica costituisce non solo un problema sociale in termini di occupazione, istruzione e inadeguatezza degli alloggi, ma che i comportamenti socialmente devianti che ne risultano compromettono l’attrattiva economica generale della città.
Squilibri nel sistema urbano europeo
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La globalizzazione e il passaggio dall’industria ai servizi non hanno diminuito l’importanza dell’ubicazione ai fini dello sviluppo economico; le aree metropolitane situate presso nodi strategici e ben attrezzati saranno probabilmente assai avvantaggiate rispetto a città più periferiche e meno attrezzate. L’importanza predominante di queste aree è dimostrata in particolare nel settore dei trasporti: nel 1993 il collegamento aereo Londra‑Parigi ha trasportato il doppio di passeggeri rispetto a qualsiasi altro collegamento in Europa. Per un assetto equilibrato dello sviluppo urbano è fondamentale che le città dispongano di servizi capaci di attrarre moderne attività commerciali. Città periferiche come ad esempio Atene, Valencia, Palermo, Salonicco, Belfast, Lisbona e Siviglia e città industriali come Torino, Glasgow e Bilbao sono da questo punto di vista svantaggiate rispetto a città centrali come Anversa, Brema, Rotterdam e a città come Hannover, Lione e Vienna, che dispongono tutte di una gamma più diversificata di attività e sono facilmente accessibili. Anche le città di dimensioni medie che sono ben collegate ad economie molto efficienti dispongono di evidenti vantaggi rispetto ad altre. Le città medie situate al centro del territorio dell’Unione dovrebbero profittare maggiormente dei benefici dell’integrazione europea rispetto alle città periferiche.
Ambiente urbano Gli abitanti delle zone urbane stanno diventando sempre più sensibili al problema della qualità dell’ambiente naturale e fisico. Nonostante i notevoli sforzi compiuti, sono ancora molti i problemi
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da risolvere. Da un’indagine condotta nel 1995 dall’Agenzia europea per l’ambiente risulta che nel 70‑80% delle città europee con oltre 500.000 abitanti non sono rispettate le norme di qualità dell’aria stabilite dall’Organizzazione mondiale per la sanità. Vi è poi il problema dell’inquinamento invernale che interessa circa 70 milioni di cittadini dell’Unione. A Milano, Torino, Stoccarda, Belfast, Dublino e Berlino, ad esempio, gli indicatori dello “smog” invernale salgono talvolta a livelli doppi rispetto ai valori massimi ammissibili. Circa l’80% della popolazione comunitaria deve infine sopportare, almeno una volta all’anno, concentrazioni eccessive di ozono. Assieme all’industria e al riscaldamento domestico i trasporti urbani sono una delle principali fonti di inquinamento. L’uso dell’automobile si è sviluppato più rapidamente di qualsiasi altro mezzo di trasporto e dovrebbe aumentare ulteriormente in un prossimo futuro. Il crescente traffico nelle città diminuisce gli effetti positivi sull’ambiente derivanti dalle tecnologie più pulite applicate nel settore automobilistico. Ma l’ambiente urbano deve affrontare anche altri gravi problemi, come ad esempio il trattamento dei rifiuti solidi e delle acque reflue. Oltre ad avere effetti negativi sulla qualità dell’ambiente urbano, come ad esempio l’inquinamento acustico, la congestione del traffico riduce la mobilità e la facilita di accesso alle città, aumentando i costi di produzione dell’economia urbana. A Londra e a Parigi la velocità media delle automobili o dei mezzi pesanti si è ridotta alla velocità che si registrava all’inizio del secolo con mezzi di trasporto più semplici. La qualità di vita dei cittadini delle zone urbane è determinata anche dal patrimonio architettonico e culturale rappresentato dagli edifici, dagli spazi pubblici e dall’arredo urbano. L’ambiente è una problematica che riguarda tutte le zone urbane, ma vi sono naturalmente grosse differenze nell’esperienza delle singole città. Si prenda ad esempio la qualità e la quantità degli spazi verdi dispo-
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nibili: alcune città come Hannover, Evora e Bruxelles hanno destinato oltre il 20% della propria superficie a spazi verdi mentre a Rotterdam e a Madrid tale percentuale è del 5% o ancor meno. Per quanto riguarda l’ambiente in senso lato, le politiche urbanistiche del passato non hanno sempre contribuito a far sì che le città e i quartieri potessero svolgere varie funzioni simultaneamente. Si sono così create zone monofunzionali che rispondono a determinate esigenze (lavoro, acquisti, tempo libero, abitazione), ma che compromettono la possibilità, per le città, di offrire ai propri abitanti condizioni ottimali di vita. È pertanto necessario modificare le politiche di assetto del territorio urbano dando maggiore spazio alle esigenze di sviluppo sostenibile, di plurifunzionalità e di diversità per fare nuovamente delle città vivaci luoghi d incontro, adatti alle varie attività in qualsiasi momento della giornata.
Frammentazione del potere e integrazione della società urbana I principali fattori dell’integrazione in una società urbana oltrepassano i settori dell’economia e del mercato del lavoro. Oltre al lavoro, alla prosperità e al commercio, le città offrono anche opportunità per il tempo libero, l’istruzione e lo sviluppo culturale: esse dovrebbero fornire ai loro abitanti uno “spazio vitale” e un’identità. Il senso dell’identità si sta invece indebolendo nelle città: lo dimostra il livello, spesso debole, della partecipazione al processo democratico locale. Tale partecipazione è particolarmente scarsa nelle zone più emarginate delle città, dove i problemi possono essere esacerbati dalla presenza di comunità stabili di immigrati che non sempre esercitano il diritto di voto. Oltre a porre il problema dell identità, il basso livello di partecipazione alle elezioni nelle zone urbane svantaggiate diminuisce la pressione che dovrebbe essere esercitata sulle amministrazioni per ottenere la prestazione di servizi in tali zone. Per quanto riguarda la risposta istituzionale, le città operano in diversi sistemi giuridici. istituzionali e finanziari nei vari Stati membri. Poiché le autorità locali reagiscono
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ai problemi con le risorse politiche a loro disposizione, è naturale che i loro sforzi nel settore dello sviluppo urbano siano variabili. Secondo uno studio del 1996 alcune autorità locali operano nell’ambito di una tradizione più consolidata di autonomia locale e dispongono di possibilità di spesa superiori a quelle di altre autorità locali nell’Ue. Molte autorità sono costrette a conciliare le loro responsabilità nella soluzione dei problemi urbani con la mancanza di possibilità istituzionali e finanziarie. Gli amministratori delle città si trovano sempre più spesso a finanziare servizi a vantaggio della zona circostante, in quanto i confini amministrativi non coincidono più con lo spazio effettivo dell’area urbana. Le località circostanti traggono così beneficio dagli sforzi delle popolazioni, spesso meno ricche, della città principale. D’altronde, le entrate effettive a disposizione degli amministratori urbani sono diminuite nell’ultimo decennio a causa della generale limitazione della spesa governativa. Nella maggior parte dei casi, e soprattutto quando è aumentata la spesa sociale dell’amministrazione urbana, ciò ha provocato una diminuzione degli investimenti a livello locale. La gestione delle città è ulteriormente complicata dalla presenza di un gran numero di autorità pubbliche responsabili a vari livelli, da quello regionale, a quello nazionale, a quello europeo: questo può da un lato ostacolare l’effettiva attuazione delle politiche sul territorio, dall’altro rendere difficile ai cittadini comprendere chi sia realmente responsabile della loro città. Questa frammentazione ostacola pertanto lo sviluppo di un vero senso civico. I cittadini, da parte loro, pretendono un maggiore controllo sulle decisioni che influenzano la loro vita Diventa quindi più importante che attori locali partecipino ai processi decisionali, affinché le loro esigenze siano prese in considerazione nell’attuazione della normativa o dei programmi. Occorre inoltre prestare maggiore attenzione alle esigenze e alle opinioni delle donne nell’ambito dello sviluppo urbano.
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Montini e Maritain nell’età del Concilio Papa Paolo VI
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Qual è l’intreccio fra l’elaborazione conciliare, la personalità di Paolo VI e il pensiero filosofico di Jacques Maritain? Quali intuizioni maritainiane stanno alla base di alcuni documenti conciliari? Con quali contraddizioni dovette confrontarsi il filosofo francese? A quali conclusioni giunse circa il ruolo dei cristiani nella storia? A queste e ad altre domande aiuta a rispondere il presente saggio, che è un estratto dalla relazione pronunciata al Convegno nazionale “Montini e Maritain tra religione e cultura”, del 28-29 dicembre 1997, nella Pontificia Università Gregoriana di Roma.
Giancarlo Zizola
“Tra i pensatori cristiani moderni nessuno certamente ha contribuito quanto Jacques Maritain a preparare la strada che ha condotto ai grandi documenti conciliari, particolarmente quelli che trattano dell’ecumenismo, della libertà religiosa e della Chiesa nel mondo contemporaneo”. Così assicurava l’allora Osservatore permanente della santa Sede presso l’Unesco monsignor Giovanni Benelli nel presentare all’uditorio l’anziano filosofo il 21 aprile 1996 ad un convegno della stessa organizzazione internazionale a Parigi avente per tema Rencontre des cultures sous le signe du Concilie Vatican II. Sarebbe stato quello l’ultimo intervento pubblico del filosofo prima della morte che sarebbe sopraggiunta il 28 aprile 1973. E del resto sarebbe difficile dubitare del fondamento di una simile valutazione, se appena si voglia considerare che l’incontro tra la più grande occasione goduta dal pensiero cattolico neotomistico dopo parecchi secoli e l’impresa sintetica principale affrontata dalla Chiesa cattolica romana per rinnovare il suo sistema dall’epoca del Concilio di Trento aveva qualche caratteristica di inevitabilità. Si deve tuttavia avvertire che le forme di questo incontro, quali risultano dalla documentazione
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finora messa a disposizione dalle ricerche sugli archivi e le memorie del Concilio Vaticano II, presentano aspetti sorprendentemente poco rilevanti dal punto di vista della storia istituzionale. Si può dire che la forza spirituale e la influenza di Jacques Maritain sul Concilio sono inversamente proporzionali alle loro tracce registrate. Non ci viene anche di qui una motivazione particolare a cogliere la testimonianza del paradosso cristiano in azione nella storia, con un’efficacia tanto maggiore quanto più umile e nascosta?
Roncalli e Maritain Il nunzio a Parigi monsignor Roncalli aveva avuto molteplici contatti con Maritain e aveva formulato un parere favorevole alla sua accettazione come ambasciatore di Francia presso la Santa Sede, ufficio che questi ricoprì dal 1945 al 1948. Tuttavia, una volta divenuto papa, Roncalli non aveva potuto, al tempo del suo apprendistato pontificio nel 1958, impedire l’intervento del Sant’Offizio, che si era opposto al conferimento della laurea honoris causa già deciso dall’Università Cattolica di Milano. Come indicava un dispaccio dell’Ambasciata di Francia presso la Santa Sede, in data 24 dicembre 1958: “Gli avversari del pensiero di Maritain non disarmano; pochi giorni or sono, il cardinal Pizzardo confidava ad un
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“Questa attenzione servile all’opinione degli uni e degli altri, questa concezione della Chiesa come non so quale satrapia dove il frullar di ciglia d‘un maestro o di una parola “delicata” detta da un cardinale in un salotto esigerebbe l’appiattimento immediato; questa attitudine morale così contraria prelato di nostri amici che preservare gli spiriti italiani dal contagio delle idee del filosofo francese restava una delle sue grandi preoccupazioni” (Archives Maritain, in Philippe Chenaux, Paul VI et Maritain, Istituto Paolo VI Brescia 1994, pp. 77). Eppure la lista degli eletti, sottoposta dal Rettore Magnifico Padre Gemelli al papa, aveva già ricevuto l’approvazione di Giovanni XXIII. Il titolo gli era stato infine conferito, nel marzo 1959, se non in scienze sociali, almeno in Filosofia, in seguito ad un intervento a Roma del Cardinale Montini, il quale poteva ritenere di avere qualche ragione di sentirsi indirettamente riguardato da quel provvedimento romano. Del resto lo stesso Maritain aveva abbastanza esperienza delle cose vaticane se, in una lettera del 26 dicembre 1958 al suo amico fedele l’abbé Charles Journet, professore al seminario Maggiore di Friburgo e direttore della rivista Nova et Vetera, aveva scritto: “Io credo che il colpo sia stato portato altrettanto contro di lui (Montini) che contro di me”.
Maritain isolato dalla curia romana La consapevolezza di Maritain sul clima di sospetto che nella curia romana si nutriva ormai da tempo nei suoi confronti, e a livelli supremi (il P. Garrigou non esitava a riferire che
all’onore umano e allo spirito del Vangelo e a tutto ciò che essi insegnano dall’alto della loro cattedra, tutto questo mi sembra così vergognoso in un teologo e in un preteso spirituale che temo di lasciar mostrare il mio disgusto” (Jacques Maritain)
lo stesso Pio XI non era soddisfatto) non era che aggravata, se possibile, dalla osservazione di Journet secondo il quale si poteva rilevare una sovrapposizione oggettiva fra le posizioni dell’Action Française ( dalle cui attitudini Maritain si era dissociato all’epoca della rottura con Charles Maurras ) e le critiche di settori curiali alle posizioni maritainiane. Egli si sentiva aggregato allora a quei “rossi” che erano contestati per il solo fatto di non aver preso partito per il generale Franco e che assistevano già alla scalata del nazismo o semplicemente del fascismo. La sensazione di essere allora isolato percorre il carteggio: “Da parte di Roma io sento dei grandi malintesi. È attraverso la Chiesa che si cercherà di colpirmi. Perché ho sempre provato dell’apprensione del cardinale Pacelli, del quale molte persone simpatizzanti per l’Action Française mi vantavano la santità al loro ritorno a Roma?” scriveva
a Journet l’11 luglio 1936. Egli si era rattristato nel prevedere che con lui sarebbero stati colpiti molti buoni movimenti e germinazione di vita, “tutto il bene che io speravo sarà rovinato”. Egli temeva che il suo libro sarebbe stato posto all’Indice. È comprensibile che una prospettiva del genere lo preoccupasse anche se non fino al punto di renderlo dimissionario: “Naturalmente c’è il dovere di sottomissione alla Chiesa. Ma ci sono anche altri doveri, verso la verità e verso le anime, che bisognerà conciliare con quello” (Ibidem, p. 589). Tornando al timore di una messa all’Indice, egli manifestava la premura per le conseguenze di tale misura “verso tutte queste povere anime che dal fondo dell’infermità, ahimé, aspirano a delle direzioni cristiane e che rischiano di rivolgersi in massa contro la Chiesa se i cristiani si solidarizzano tutti col fascismo” (Ibidem, p. 604).
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La sua indipendenza di spirito era mantenuta dinanzi a quelle manovre così disonorevoli che compromettevano la Chiesa con le dittature. Egli si era sentito obbligato “terribilmente” a distinguere in questi prelati ciò che era della Chiesa e ciò che era di loro stessi: “Si dovrà vivere in permanenza in mezzo alle distinzioni laceranti alle quali la cristianità doveva esercitarsi al tempo del grande scisma o del processo di Giovanna d’Arco?... Il mondo cattolico rotola nella fossa, cieco condotto da ciechi” ( Ibidem, p. 549). Non era rimasto quasi solo che Journet ad assicurargli di poter escludere che Humanisme Integral fosse candidato all’Indice e che comunque egli non doveva, per quanto grandi fossero le suscettibilità vaticane, rinunciare a scrivere sulle questioni di filosofia politica, e anzi a valutare come “utili e opportune” le sue ricerche sulla vera nozione di democrazia, incitandolo a pubblicarle (lettera in data 15 marzo 1939) “per mostrare la strada attraverso la quale si uscirebbe dal comunismo e dal totalitarismo”.
Montini:sponda dell’umanesimo cristiano di Maritain Né la consapevolezza degli umori romani aveva attenuato la decisione del cardinale Montini di assumere nei suoi vota per il Concilio, e in una posizione di rilievo, la
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questione tipicamente maritainiana dell’umanesimo cristiano. Memore delle reazioni di Padre Messineo e bene al corrente delle contestazioni del S. Offizio, egli si limitava a cautelarsi con il distinguerle chiaramente dalle concezioni del sedicente “umanesimo naturale” prevalenti nella mentalità dell’uomo contemporaneo. Montini proponeva che fosse definita “la qualità intrinseca della speranza cristiana” contro le deviazioni illuministe d’una speranza puramente terrestre e invocava dal Concilio la trattazione delle questioni del rapporto tra spirituale e temporale, così come una chiarificazione circa le competenze tra Chiesa e Stato. Sarà agevole notare che i nuclei maggiori della dottrina maritainiana sono sì tematizzati, ma in modo sfumato, quasi rivelando nel Montini preparatore del Concilio, in quell’atto creativo e propositivo cui pochi altri vescovi italiani avrebbero partecipato con pari profondità, consapevolezza e tensione prospettica, l’intento di collocare delle teste di ponte in modo mimetizzato sotto il fuoco avversario, al fine di preservare l’essenziale per sviluppi che si auspicavano possibili in circostanze meno sfavorevoli e nella dinamica conciliare che stava per avviarsi. Data la situazione, non poteva sorprendere che tra i periti, così tra gli uditori laici nominati per il Concilio, non figurasse il nome di Jacques Maritain. È stato anzi notato che egli
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stesso sembrava mantenere una certa riserva o comunque una distanza in rapporto al grande evento conciliare, specie dopo la decisione di ritirarsi in Francia in seguito alla morte di Raissa il 4 novembre 1960. Una lettera di Montini il 25 luglio di quell’anno, in occasione della festa onomastica di Jacques, interrogava l’amico: “Cosa pensate della convocazione del prossimo Concilio? Come vedete la vita della Chiesa in questo periodo? Non venite in Europa quest’anno?” (Archives Maritain, in P. Chenaux, cit., p. 82). Questa sorta di reticenza pubblica fu mantenuta a lungo, rendendo difficile reperire un solo suo testo, almeno fino al 1965, che riporti le sue opinioni sui dibattiti conciliari e i suoi primi esiti. Forse il seguito del carteggio Journet-Maritain ci aiuterà a discernere i sentimenti del filosofo, anche perché il primo era stato nominato nel 1960, per quanto vi sedesse raramente, consultore della Commissione Teologica preparatoria, la stessa in cui serpeggiavano le proposte di condanna verso le tesi maritaniane.
Insufficienza del progetto della “nuova cristianità”? Una tale distanza sembra assimilarsi a quella, ben deliberata, d’un padre che vede distaccarsi dalla propria casa i figli a mano a mano che essi appartengono
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Jacques Maritain (1882-1973)
alla storia del mondo, e si astiene volutamente dall’esibire una paternità patrocinante che sarebbe semplicemente una sterile, e persino egoistica pretesa di tutela. L’altra ipotesi può meritare qualche attenzione: quella che in lui già si insinuasse, nel radicalismo spirituale raggiunto dopo la morte di Raissa, un ripensamento basico, una riserva autocritica, un sospetto sulla pertinenza del progetto di nuova cristianità al quale aveva consacrato la genialità del suo spirito e il suo appassionato amore per la Chiesa, così schernito da alcuni suoi uomini in autorità; quel progetto, dico, che era infine riuscito a varcare la soglia del Concilio Ecumenico, superando ostacoli che si ritenevano insormontabili, grazie alla solidarietà dell’amico, a sua volta esiliato da Roma e ora papa. Ogni Nike ha le ali spezzate, e al momento della vittoria, sembra di discernere in Maritain non la stanchezza e la fuga, sentimenti che aveva sempre ripudiato nelle congiunture più ostili, piuttosto una interrogazione: se nella tragedia della crisi cristiana moderna, bastasse infine alla Chiesa cattolica la riconciliazione umanistica della sua presenza nel tempo, il passaggio per quanto significativo ad una “nuova cristianità” capace sì di restaurare il paradigma dottrinario e lo schema operativo del passato fornendogli una capacità di attrazione e una
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credibilità rinnovate, ma senza in fondo riuscire né ad una revisione profonda della sua storia né a cogliere i caratteri nuovi e complessi di una situazione antropologica in radicale movimento, che andava precipitando verso la soglia culturale del Sessantotto. Mi pare dunque che quel distacco di Maritain dall’impresa conciliare, che per tanta parte gli era per certi versi debitrice, meriti di essere più profondamente esaminato, se per caso fin da quegli anni non fosse già presente in lui quella crisi radicale, non solo mistica ma anche e allo stesso tempo culturale e teologica, che andava prefigurando l’uomo del Paysan de la Garonne, anche perché sembra, ormai e necessariamente, da scartare lo stereotipo superficiale e fuorviante d’una protesta anti conciliare improvvisata per alcuni deviazionismi post-conciliari. Piuttosto, sembra degna di
considerazione l’ipotesi secondo la quale veniva a essere posto in quell’opera, nella gravità che lo richiedeva, il problema di fondo della crisi strutturale e perciò irreversibile della modernità, già evocato del resto e contemporaneamente dai tenori della Scuola di Francoforte, da Habermas ed Horkheimer. Se questa ipotesi trovasse sufficienti verifiche, allora avremmo a disposizione una luce supplementare per esplorare il dramma che si svolgerà in quell’età del Concilio, un dramma così pregnante rispetto al quale le controversie conciliari tra innovatori e tradizionalisti, su temi certo di non scarso momento per la riforma ecclesiologica, facevano figura di contorno. Quel dramma si svolgeva in realtà tra giganti, voglio dire tra Paolo VI, il Concilio e il monaco Maritain, per quella sorta di asimmetria fra i progetti storici della cristianità
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Papa Paolo VI incontra i giovani all’Università di Manila
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che era quasi improvvisamente precipitata intorno all’aula conciliare, quasi che potesse apparire, nel fervore stesso delle conclamate vittorie riportate dall’ala riformistica, un ritardo rispetto alle più radicali esigenze antropologiche del tempo, non meno che alle domande irrinunciabili della fedeltà al Vangelo. Si poteva supporre che si lavorasse dunque in un sostanziale anacronismo, se aveva ragione Maritain, che anche il modello della “nuova cristianità” non sarebbe valso ad evitare la dissoluzione, che non restava che il tempo dell’annuncio gratuito e libero del Regno di Dio per un cristianità divenuta minoranza sparsa nel mondo, sempre meno protetta delle antiche sicurezze esteriori. Ma i tempi della Chiesa registravano intanto un recupero, certo significativo e persino rapido, della piattaforma maritainiana,
grazie all’appoggio personale di Paolo VI. Alcune intuizioni di Maritain viaggiavano mediante il processo conciliare verso la storia comunitaria della Chiesa universale, specialmente nella terza e quarta sessione. Mi limiterei ad accennare qui soltanto a due punti sui quali è provata l’influenza e persino la collaborazione di Maritain al Concilio: la Dichiarazione sulla Libertà Religiosa e la Costituzione pastorale Gaudium et Spes. E mi atterrei agli aspetti storici di questa interazione, rinviando per l’esame comparativo dei contenuti alla letteratura maritainiana che non manca al riguardo.
Il contributo di Maritain alla Dignitiatis Humanae Anzitutto, il ruolo di Maritain nella genesi e nella redazione della Dignitatis Humanae. Secondo Patrick Granfield, Maritain svolse un ruolo di ponte che collegava padre
Murray a Montini: “Murray citava Maritain in diversi suoi articoli ed essi prendevano posizioni simili su alcuni punti... Le opere di Maritain può darsi che abbiano influenzato entrambi, Montini and Murray” (Cfr. Patrick Granfield, American Theologians Dignitatis Humanae and Paul VI, in “Paolo VI e il rapporto Chiesa-mondo al Concilio”, Colloquio internazionale di studio, Roma, 22-24 settembre 1989, Brescia 1991,p. 202). E fu precisamente l’elaborazione della Dignitatis Humanae che diede l’occasione a Paolo VI di sollecitare l’uscita di Maritain dalla discrezione per richiederne la collaborazione. Dopo la fine della terza sessione del Concilio, che aveva attraversato ore tempestose, due emissari del papa, monsignor Pasquale Macchi e Jean Guitton, raggiungevano il 27 dicembre 1964 Maritain a Tolosa, per sottoporre al filosofo, a nome del pontefice, un elenco di questioni da discutere in vista della quarta e ultima sessione del Vaticano II. L’argomento subito affrontato, nella stessa mattina, fu appunto la libertà religiosa, che costituiva un tema di massimo interesse per il pontefice; il pomeriggio fu riservato al vaglio dell’idea di un’enciclica sulla verità e del progetto conciliare sull’apostolato dei laici. Non si potrebbe sottovalutare il carattere eccezionale dell’iniziativa del papa. Essa non potrebbe trovare una spiegazione adeguata unicamente avanzando la necessità
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“In un regime di civiltà come quello moderno, in cui la Chiesa e lo Stato formano due sfere essenzialmente autonome, la Chiesa ha guadagnato la sua piena indipendenza verso lo Stato, e d’altra parte lo Stato non ha alcun titolo di intervenire nelle cose della coscienza” (Jacques Maritain) d’un confronto su alcune carte conciliari, o d’una missione più personale, che si osò immaginare all’epoca, forse esagerando, collegata ad un desiderio del papa di fare Maritain cardinale. Alcuni non esitano ad assicurare che non si possa escludere che tale fosse effettivamente il disegno del papa, se si crede ad una lettera di Charles Journet a Maritain in data 25 febbraio 1965, il giorno stesso del Concistoro nel quale lo stesso Journet era stato creato cardinale. Riferendo una udienza della vigilia con Paolo VI, il teologo-cardinale raccontava che Paolo VI gli aveva confidato che attraverso lui era Maritain che egli voleva onorare e che “se il rumore era corso che egli sarebbe cardinale, era quella l’esagerazione di una cosa profonda e vera” (cfr. Chenaux, op. cit., p. 86). Lo stesso Maritain si era interposto perché la decisione del papa di associare Journet al Collegio cardinalizio non fosse stornata dalle resistenze del teologo. In un telegramma a Paolo VI il 28 gennaio 1965, Maritain supplicava Paolo VI di “non tener alcun conto delle proteste di monsignor Journet” e lo ringraziava “per questa nomina la cui significazione ha così grande importanza” (Ibidem, p. 86).
Una visita decisiva Per riprendere il racconto dell’incontro tra gli inviati del papa e Maritain a Tolosa, si può forse
supporre che un gesto del genere potesse cercare la sua ragione in una posta di pari importanza, e cioè il confronto sulle finalità del progetto conciliare in rapporto alla crisi cristiana. Si trattava di mettere a fuoco le eventuali divergenze, quelle in effetti che si ritenne di poter riscontrare nella documentazione dell’incontro passata agli archivi, come lo indica Philippe Chenaux: “Ciò che interessava in primo luogo al papa era il problema dell’uomo contemporaneo e delle risposte che il Concilio poteva fornire alle sue angosce e alle sue miserie. Su questo punto, il suo debito intellettuale verso Maritain era immenso e si comprende che egli abbia auspicato di conoscere il suo parere in quest’ora decisiva della storia della Chiesa. Le preoccupazioni del vecchio filosofo erano invece piuttosto di ordine dottrinale e spirituale” (Ibidem, p. 84). Egli assicurò i suoi ospiti che avrebbe condensato in quattro distinti testi le idee emerse nella discussione. In data 14 marzo 1965 egli fu in grado di trasmettere al papa i quattro memoranda (rispettivamente sulla verità, la libertà religiosa, l’apostolato dei laici, la preghiera e la liturgia). La lettera di accompagnamento indirizzata a monsignor Macchi era interamente dedicata al problema dell’impiego della lingua volgare nella liturgia e dello spirito nel quale le traduzioni dei testi sacri in francese erano state fatte. Nel quarto
memorandum, Maritain giudicava “eretica” la formula “della stessa natura del Padre ” della traduzione francese del Credo. Una lettera di monsignor Macchi, in data 23 marzo 1965, assicurava a Maritain che il papa aveva ricevuto i testi e si accingeva a esaminarli.
Il memorandum sulla libertà religiosa: non confondere le prospettive di Chiesa e Stato Concentriamoci ora sul memorandum sulla libertà religiosa. Jacques Maritain apre il memorandum rinviando a L’Homme et l’Ètat (1953). Egli istituisce una distinzione tra l’ordine della Chiesa e l’ordine dello Stato. Nel primo, essa ha diritto sulle anime e le coscienze, potendo non ammettere l’errore in materia di fede tra i suoi membri visibili, non avendo sugli altri alcun potere. Ma lo Stato “non ha alcuna missione e alcuna competenza per insegnare la verità o per guidare verso di essa. Per questo non ha alcun potere sulle anime e le coscienze. Ed è nei confronti dello Stato che la libertà religiosa deve essere proclamata e mantenuta come uno dei diritti fondamentali della persona umana”. Maritain raccomandava la massima prudenza onde evitare la confusione tra la prospettiva dello Stato e quella della Chiesa in materia di libertà religiosa. La sua preoccupazione era anzitutto epistemologica: occorreva assumere
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L’utopia della pace e della soprannazionalità Nel commento al capitolo V della Gaudium et Spes, Maritain preconizzava la costituzione di una autorità politica sovranazionale consistente non in un impero mondiale o in un superstato
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la prospettiva politica, di diritto naturale, per rapporto allo Stato, nel quale il principio che l’uguaglianza dei diritti deve essere rispettata per tutte le differenti famiglie religiose implicava il riconoscimento a tutti della libertà religiosa, col solo limite dell’ordine pubblico. Notevole l’argomentazione adottata: “in un’epoca che vede la Chiesa impegnata nel dialogo ecumenico con i non cattolici e con i non cristiani, secondo i metodi del dialogo e della cooperazione, è chiaro che ogni discriminazione che uno Stato qualunque potrebbe operare contro dei non cattolici sarebbe ingiuriosa verso la stessa Chiesa cattolica e direttamente contraria ai suoi interessi primordiali”. Se da un lato egli valutava come provvidenziale lo smantellamento del regime sacrale degli Stati, da loro utilizzato strumentalmente più per i propri vantaggi che per i benefici apparenti concessi alla Chiesa nello scambio, dall’altro Maritain introduceva una raccomandazione pressante, la cui attualità non cessa di sorprenderci: quella di mettere l’accento sulla necessità che l’ordine secolare, nella laicità sua propria, metta in opera, di propria iniziativa e nella chiara coscienza del suo proprio bene, “dei valori che non si misurino soltanto sulla prosperità materiale e sulla potenza, ma che attingano ad un ideale morale di giustizia, di generosità, di amore fraterno e di ispirazione evangelica come
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mondiale, ma “in una vera organizzazione politica del mondo, fondata sul libero consenso e la libera cooperazione delle nazioni e dei popoli”. Riconoscendo il carattere utopico della proposta, egli raccomandava ciònondimeno di contribuire alle “preparazioni lontane” di questa società,
dato che - sottolineava “bisogna salvare ad ogni costo la speranza degli uomini in un ideale temporale, un ideale dinamico di pace in terra, perché l’assenza di un tale ideale crea un vuoto tragico nel cuore dei popoli e dei governanti”. Tra queste preparazioni lontane, egli include-
all’etica naturale”. Egli concludeva richiamando l’esempio della non violenza gandhiana e con l’auspicio che “i dirigenti delle nazioni e degli Stati reclamassero l’avvento d’una ‘politica cristiana’, la quale corrisponderebbe nell’ordine politico a questa filosofia cristiana della quale, nell’ordine speculativo, il mondo filosofico (e lo stesso mondo religioso) tarda talmente a riconoscere i diritti” (Ibidem, pp. 111- 114).
attuale ha disperatamente bisogno, non sono dei pseudorinnovamenti filosofici che tradiscono la ragione nel suo sforzo di cogliere l’essere, oppure dei pseudorinnovamenti teologici che pretendono di cambiare le verità uscite dalla bocca di Dio. I rinnovamenti autentici di cui noi abbiamo bisogno, parlo specialmente dei cristiani, sono dei rinnovatori nelle vie di approccio, la metodologia, la preoccupazione di scoperta e di progresso, la maniera di porre e di trattare i problemi, più libera, più premurosa dell’esperienza, più intuitiva, anche, e più attenta alla storia del pensiero e allo sviluppo delle scienze, così come alle diverse filosofie e sofistiche contemporanee, non per mettersi stancamente al loro rimorchio, ma per tutto comprendere e reinterpretare alla luce di una saggezza appassionatamente fedele e reale, e capace di credere senza fine, perché essa è durevole. Penso alla saggezza e al realismo di san Tommaso d’Aquino”.
Il memorandum sull’apostolato dei laici: alcune idee sul rinnovamento della Chiesa Egualmente il memorandum sull’apostolato dei laici portava l’accento sulla loro missione spirituale nella Chiesa piuttosto che sui problemi convenzionali dell’Azione Cattolica, autorizzando - parrebbe - a notare “un certo scarto tra le aspettative del papa e le risposte del filosofo”. Possiamo anche verificare il grado di pertinenza del cosiddetto maritainismo alla cultura del Concilio sul punto strategico della Gaudium et Spes. Il testo di riferimento mi pare qui l’allocuzione all’Unesco del 21 aprile 1966, quando dunque da appena una stagione il Concilio era concluso. In questo testo Jacques Maritain si riferisce ripetutamente alla Costituzione pastorale, ma con una premessa: “Io non vorrei che ci fosse il minimo equivoco circa la parola rinnovamento che ho appena usato. Ciò di cui il mondo
Il modello di presenza dei cristiani Ora sembra corretto discernere nel complesso di questo discorso, come in alcuni dei suoi passaggi nodali, una presa di distanza, se non una dichiarazione di diffidenza, per un’interpretazione della Gaudium et Spes come legittimazione del ricorso al modello di cristianità profana nella definizione dei rapporti cristianesimo/mondo, secondo quel
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va la rinuncia all’idolo della sovranità dello Stato e il risveglio, in governanti e governati, d’una premura reale per il bene comune dell’umanità e del bene intrinseco di ogni comunità nazionale... Per questo egli portava l’accento sulla necessità di un generale cambiamento del cuore,
poiché egli riteneva che senza la carità nulla si sarebbe potuto compiere, anche col più ardente lavoro di riforma sociale; senza la carità, la politica sarebbe affondata come sempre nel cinismo. Un motivo di speranza nell’ordine politico del mondo egli invitava a coglierlo nel risveglio in
molte anime, non certo nelle moltitudini, della vita di preghiera contemplativa e di unione con Dio: “una invisibile costellazione d’anime dedicate alla vita contemplativa, io dico nel mondo stesso, in seno al mondo, ecco in definitiva la nostra ultima ragione di sperare” (Jacques Maritain, Les
modello che lo stesso Maritain aveva nutrito, insieme a J. Danielou, H. de Lubac, H. von Balthasar; e ciò a prescindere dalle adesioni, forse strumentali e comunque parziali, che a quella distanza affluiranno, non appena sarà espressa in Paysan de la Garonne, da chi, come La pensée catholique, aveva sempre combattuto le idee del filosofo, per quanto alieno costantemente dalle posizioni tradizionaliste. Vi era una rielaborazione critica sopravvenuta che non poteva identificarsi con le attitudini del tradizionalismo gerarchico o politico. In effetti quest’ultimo Maritain, a suo modo conciliare, si ritrovava nelle visioni di don Giuseppe Dossetti, il primo collaboratore del cardinale Lercaro al Vaticano II, precisamente sul punto del modello di presenza cristiana definito dalla Gaudium et Spes : un modello di presenza in funzione dell’adeguamento alla società, in termini di potere, e un diverso modello, che porta il cristiano ad assumersi fino in fondo le proprie responsabilità sul fronte dei problemi dell’umanità, fino a perdere ogni possibilità di potere sulla storia, almeno in apparenza. Tuttavia , non si potrà trascurare che il ruolo dei cristiani nel mondo non è più concepito, nei testi del Concilio Vaticano II, in termini di dominio e di potere, ma come un servizio di animazione e di vita, non più teocratico e dominatore, ma pneumatico e
vivificatore. In piena armonia con la Costituzione dogmatica Lumen Gentium, la Gaudium et Spes “cambia radicalmente il modo di considerare i rapporti tra spirituale e temporale ereditati dal Medioevo, abbandonando l’ecclesiologia di potere per quella di servizio, svincolandosi da ogni interesse temporale per meglio servire la comunità degli uomini, a cui essa rivela la sua vocazione integrale. Non è più un potere su, ma un servizio in, secondo quel tipo di azione senza potere che si chiama influenza e si manifesta con la testimonianza”. In ciò il Concilio era debitore del primato dello spirituale che formava una delle principali acquisizioni del pensiero maritainiano, con il corollario che la Chiesa doveva attenersi al suo proprio ordine, rispettando l’autonomia dell’ordine temporale (cfr. Paul Poupard, Chiesa e culture, Vita e Pensiero Milano 1985, p. 63).
Vaticano II, Jacques Maritain viene ricevuto a Castelgandolfo dal papa. Secondo gli appunti del diario di Maritain, l’accoglienza di Paolo VI fu “straordinariamente cordiale e affettuosa”. La sua venuta a Roma era stata “precipitosa” ed egli confessava di temere di aver commesso “una gaffe piuttosto imbarazzante per il Santo Padre”. Quanto al contenuto del colloquio, non si saprebbe ridurlo ad uno scambio di affetti amicali: risulta infatti che il papa, senza entrare nelle questioni particolarmente delicate in agenda nell’imminente sessione, gli avesse fatto parte dei suoi progetti per la chiusura del Concilio (messaggi all’umanità) e per il dopo Concilio (restaurazione della teologia speculativa), invitandolo specialmente a partecipare con propri suggerimenti all’elaborazione di un messaggio che il papa intendeva indirizzare agli intellettuali. Non fu questa tuttavia la sola collaborazione assicurata da Maritain al papa per il Concilio, stando alle informazioni finora raggiungibili. Nel vivo delle tensioni per le attenuazioni apportate al testo del progetto di Dichiarazione conciliare sugli Ebrei, e in particolare alla condanna formulata sulle persecuzioni di cui il popolo ebraico era stato vittima, Maritain decise di intervenire, profondamente turbato da simile revisionismo. In una lettera indirizzata a monsignor Macchi all’intenzione del papa, in data 6
Il rapporto con Paolo VI In ogni modo le approssimazioni tra Maritain e il papa si fanno meno rare, in quest’ultimo periodo del Concilio. La partecipazione indiretta del filosofo alle vicende conciliari passa anche attraverso gli interventi in aula del neocardinale Journet sulla libertà religiosa (21 settembre 1965) e gli emendamenti da questi proposti soprattutto sullo schema XIII. L’11 settembre 1965, ormai alla vigilia dell’ultima sessione del
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ottobre 1965, egli reagiva ad una “tale omissione, affermando che essa gli appariva un grave arretramento per rapporto alla prima versione così come alle condanne del razzismo e dell’antisemitismo enunciate da Pio XI. Egli annunciava l’invio di un giro di bozze corrette del Mystère d’Israel et autres essais (Paris 1965), antologia di suoi articoli sull’argomento, corredato da un lungo postscriptum nel quale il filosofo invitava a riconoscere un diritto divino del popolo di Israele alla terra di Palestina. L’iniziativa turbò Paolo VI al punto che lo stesso cardinal Journet se ne fece eco in una lettera all’amico del 22 ottobre 1965.(Cfr. Cahiers Jacques Maritain, ottobre 1991,pp.3338, Cercle d’études Jacques et Raissa Maritain - 1980 -1982). Lo stesso cardinale assicurava Maritain, in una lettera del 5 novembre 1965, di essere in grado di sapere che il papa aveva considerato le osservazioni del filosofo nell’inciso del discorso del 28 ottobre 1965 al Concilio per la promulgazione della dichiarazione Nostra Aetate sulle religioni non cristiane: “gli Ebrei”, sottolineò il papa,
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“non sono oggetto di riprovazione e di diffidenza, ma di rispetto, amore e speranza”. Un’altra nota inviata da Maritain al papa, nel novembre 1965, sotto il titolo Amour et pouvoir, caldeggiava il sostegno del papato alla linea gandhiana dei mezzi poveri e non violenti nell’ordine politico. Benché egli non negasse che il ricorso alla forza fosse legittimo in certi casi e a determinate condizioni, egli cercava di sensibilizzare il papa ad una prospettiva più profetica che diplomatica nella redazione del capitolo della Gaudium et Spes sulla pace e sulla guerra, nell’ora in cui le preoccupazioni dei vescovi americani motivate dalla guerra in Vietnam sembravano influire sull’indebolimento del testo a questo proposito. In ogni caso, valorizzando agli occhi del papa il significato generale delle lotte non violente di Luther King contro la discriminazione razziale negli Stati Uniti, così come le esperienze non violente del suo amico Lanza del Vasto, Jacques Maritain sembrò ulteriormente accettare di farsi coinvolgere dal papa non solo nel dibattito conciliare, ma anche nella preparazione della visita e del discorso che Paolo VI avrebbe reso alle Nazioni Unite a New York il 4 ottobre 1965, con quella formula sintetica della “Chiesa esperta di umanità”, impegnata con le sue forze antiche ma finalmente simboliche, prive di forza materiale, ad aiutare i cammini della pace nel mondo.
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Due antichi amici, uno di fronte all’altro Questa storia sfocia nella scena che la simboleggia perfettamente, in quel mattino dell’8 dicembre 1965, sul sagrato della Basilica Vaticana, quando il Concilio ecumenico si conclude all’aperto, verso gli orizzonti del mondo, e i due antichi amici, PaoloVI e Jacques Maritain, si trovano uno dinanzi all’altro: il papa rivestito del piviale e della mitra episcopali, di primo dei vescovi cattolici, Maritain con la giacca a collo chiuso, alla cinese, che rende anche più diafana la sua figura di Piccolo Fratello di Gesù. La sua mano si tende a ricevere dal papa il messaggio agli intellettuali, al quale egli ha dato la sua collaborazione. Ma al di là dell’occasione vi è un senso trascendente in questo faccia a faccia tra i due uomini, di fronte alla Chiesa e al mondo, nello scenario dei palazzi vaticani e del colonnato, a poca distanza dal palazzo del Sant’Offizio. Seguiamo le note del diario di Maritain: “Paolo VI si alza quando io mi avvicino e, consegnandomi il messaggio, mi dice alcune parole sconvolgenti: ‘L’Eglise vous est réconnaissante du travail de toute votre vie...’ e altre parole che io ero troppo emozionato per ritenere”. Commentando la scena, monsignor Paul Poupard, allora responsabile della sezione francese della Segreteria di Stato, ha invitato a riconoscervi “un punto di arrivo e al tempo stesso un punto di partenza”. Il giorno
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Jacques Maritain a 17 anni. In basso, Raissa Maritain in una fotografia del
1900. I due si conobbero quando
erano studenti universitari a Parigi.
successivo, 9 dicembre, egli riceveva Maritain in un salottino della terza loggia, su preghiera del papa che quel giorno non poteva dedicargli tutto il tempo necessario: “lo ascoltai per un’ora e mezzo d’orologio: i suoi occhi azzurri di una dolcezza e purezza estrema, e il suo corpo smagrito dentro la larga e svolazzante casacca alla Mao creavano un singolare contrasto con la nitidezza metallica delle sue affermazioni, di una fermezza innegabile. E nel raccogliere quest’ultimo messaggio (Maritain non sarebbe più ritornato a Roma ) destinato a colui che si considerava come un suo discepolo e che egli stesso venerava come un padre, anch’io come tanti altri ero soggiogato dal fascino di quell’uomo che uno dei testimoni di Meudon, Georges Hourdin, aveva dipinto come “un’aiuola di miosotidi su un fiume di petrolio” (Cfr. P. Poupard, Jacques Maritain oggi, Vita e pensiero Milano 1983 pp. 363). Ricordando quel dialogo, Poupard oggi cardinale ha potuto assicurare che Maritain non era anticonciliare. Egli era semplicemente preoccupato dei fondamenti spirituali del tutto, e specialmente dell’adeguatezza degli uomini della Chiesa. Non era contro l’impegno nel mondo. Ma osservava che la Chiesa non riesce più a reggere il temporale mediante le
sue istituzioni e che è obbligata, tanto più oggi, a concentrarsi nell’impresa di ispirarlo spiritualmente. Egli era ansioso dinanzi alla tentazione continua che vedeva insidiare la Chiesa: quella di preferire l’azione corta piuttosto che la formazione delle coscienze (testimonianza del cardinal Paul Poupard all’autore, ottobre 1997 Roma).
I cristiani? “Anima nel corpo” Punto di arrivo. Punto di partenza. Il Medioevo aveva riflettuto sui rapporti tra spirituale e temporale a partire dai rapporti tra l’anima e il corpo, ma in un contesto giuridico di preminenza e di sovranità politica in cui lo spirituale faceva fatica a trapelare sotto le forme pesanti della dominazione politica. Nella nostra età la Chiesa si è impegnata a portare a compimento la crisi ineluttabile della alleanza tra potere e religione che marcherà l’alba del Terzo Millennio. Qualunque sia l’interrogazione sulla sufficienza e pertinenza del Concilio alla crisi delle forme cristiane in questo secolo, resta che il posto dei cristiani nel mondo non è più concepibile nei modi del dominio e del potere, ma nell’unica forma rimasta nelle loro mani: quella di uno spirituale significativo per irrorare di senso la storia umana e aiutarla a rinascere nei gemiti del parto. Tale era, dopo tutto, il senso stesso del libro che nel 1966 Maritain dedicò ad una rimessa in luce delle finalità autentiche del Concilio di fronte
alla tendenza di numerosi cristiani a voler assolutizzare la vocazione temporale del genere umano e a fare di questi fini temporali, come la pace, la giustizia, la felicità, “il vero fine dell’umanità”. Il rischio di una temporalizzazione del cristianesimo a prezzo della sua ricchezza spirituale, era la preoccupazione di Jacques Maritain. Del resto, non era questo anche il senso dell’umanesimo “plenario” evocando il quale Paolo VI concludeva l’enciclica Populorum Progressio ? Recuperando nel suo magistero l’eredità del filosofo dell’Humanisme Integral ,papa Montini scriveva nell’enciclica: “È un umanesimo plenario che occorre promuovere. Che vuol dire ciò, se non lo sviluppo integrale di tutto l’uomo e di tutti gli uomini?” Ma sulla questione dei mezzi, resta il dilemma, tra la “nuova cristianità”, che rischia di “inginocchiarsi al mondo”, e la presenza evocata dalla Lettera a Diogneto : “I cristiani svolgono nel mondo la stessa funzione dell’anima nel corpo. L’anima abita nel corpo, ma non è del corpo. Anche i cristiani abitano nel mondo ma non sono del mondo. Essendo nel mondo sono visibili ma il culto che rivolgono a Dio rimane invisibile. Non è un’invenzione terrena quanto è stato loro trasmesso né ritengono di custodire con tanta cura una dottrina transeunte... Dio ha assegnato a loro un posto così sublime e a essi non è lecito abbandonarlo”.
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Obiettivo
Ulivo per agire
politicamente
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Si sono autoconvocati con una lettera di invito alla vigilia delle scorse vacanze di Natale. Hanno affittato una sala della Domus Pacis, Intervista ad e la risposta è stata Alberto Monticone incoraggiante: gente a cura di impegnata in politica, Marco Damilano nell’associazionismo, nelle amministrazioni locali, richiamati dai nomi dei A fine ’97 si firmatari della lettera (tra è costituito gli altri, Alberto Monticone, un gruppo Raffaele Cananzi, Angelo che sulla scia Bertani, Gianfranco Maggi, del “Pensare Politicamente” Paolo Danuvola, Patrizia Pignacchino, Paolo Nepi), di Lazzati e dallo slogan scelto vuole riaprire per la riunione: “Agire un’occasione politicamente”. Dopo il primo di dialogo incontro si sono svolte alcune ai cattolici assemblee locali e sono in presenti preparazione due iniziative nelle diverse nazionali, una al nord formazioni sull’Europa e una al sud sulla dell’Ulivo.
Ne parliamo Alberto Monticone, Senatore Ppi, tra i promotori; e con
pubblichiamo alcuni passi del documento di
Base.
riforma dello Stato. Chi sono dunque i “neocattolici democratici” e cosa di propongono di fare? Ne parliamo con Alberto Monticone, senatore del partito popolare, expresidente dell’Azione cattolica. Cosa è “Agire politicamente”: un gruppo di pressione, un’iniziativa culturale, una corrente interna al partito popolare? Direi che è un coordinamento tra quanti condividono gli ideali politici e sociali dell’area cattolicodemocratica e sentono il bisogno di avere voce, in un momento in cui è difficile esprimersi liberamente in
politica. Sentiamo l’esigenza di un’espressione dura, piena, non rispettosa dei canoni politici. Vorremmo offrire un luogo politico intermedio tra i cittadini e i partiti, tra quanti vivono nella comunità ecclesiale e la politica. In un certo senso siamo dunque un gruppo di pressione, non in forza di interessi ma di valori condivisi. Non siamo invece una corrente di partito, neppure del Ppi, anche se molti di noi condividono lo sforzo dei popolari di raccogliere l’eredità dei cattolici democratici. È una proposta che vuole avere un radicamento territoriale: non siamo un gruppo pensante nazionale che cerca una base di consenso per legittimarsi, vogliamo essere una sollecitazione per i gruppi locali affinchè si esprimano. Siamo un collegamento, luogo di incontro, di messa in comune delle attese e anche delle proteste, dei progetti per un cammino di sviluppo del paese. In questo senso vogliamo fare un passo avanti rispetto a esperienze pure importanti come Carta ’93. Abbiamo adottato l’espressione “Agire politicamente” per attualizzare l’ispirazione di Lazzati: elaborare, riflettere per poi agire, mettere insieme le forze, tradurre questo impegno
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Il rapporto con il mondo cattolico.
DOC U M E NTO Nessuno si illudeva che la fine della “unità politica dei cattolici” fosse senza traumi. In verità, opportunamente, essa ha rilanciato anche una ricerca sulle radici culturali e una tensione verso una unità morale dei credenti. Essa tuttavia incontra qualche difficoltà sia perché le diverse scelte politiche innestano qualche tensione anche nella comunità ecclesiale sia perché spesso si individuano quali valori unificanti delle scelte concrete che possono essere opinabili o strumentalizzabili. Se il principio della libertà parità della scuola, ad esempio, è largamente condiviso può non esserlo altrettanto il progetto storico-concreto e il quadro normativo in cui realizzarlo. Così è per tanti problemi, dalla politica fiscale verso la famiglia alle norme per l’immigrazione. Ma soprattutto è importante che la comunità cristiana si ritrovi nella difesa e nella promozione dei grandi valori evangelici - che vanno seminati nella realtà storica attraverso la trasparenza dell’esempio e un dialogo credibile piuttosto che nella difesa e rivendicazione di potere ed interessi economici. Ci sembra che qualche volta, in alcuni settori del mondo cattolico, prevalga lo smarrimento, magari accompagnato da molte parole e da poca riflessione; e si diffonda la tentazione di abbandonare la dimensione politica - quella in cui si serve il bene comune - per ripiegare nella gestione degli spazi “privati”, quasi limitandosi alle opere di catechesi o di carità, quando non alla difesa delle loro “istituzioni”, con un misto di abnegazione e di opportunismo. È ben vero che c’è una urgenza di riscoprire il limite della politica e l’essenziale della vita cristiana, ma anche la carità politica fa parte dell’essenziale. E poi c’è il rischio di un rinchiudersi in una dimensione puramente intraecclesiale, senza che i laici abbiano il coraggio e la libertà di impegnarsi a proprio rischio, con responsabile coerenza, per contri-
in termini operativi. È uno strumento che serve anche a darci coraggio. Non temete di essere confusi con altre operazioni, magari meno nobili? La nostra è una casa ideale, fatta di valori e di esperienze sociali, che parte dal basso. Non ci interessa aggiungere una sigla alle altre. Siamo certo vicini all’idea di fondo dell’Ulivo, vorremmo che l’Ulivo risalisse sul pullman e facesse tappa alle fermate dei cattolici democratici. Nel vostro documento fondativo si afferma che «le coalizioni sono stabili ma non immobili in eterno»: c’è ancora la tentazione di far nascere un terzo polo? Al contrario: dire che le coalizioni non sono eterne è una semplice constatazione che però garantisce la stabilità delle attuali alleanze. Sottolineare con forza questo aspetto significa mettere in guardia dai tentativi di ipotizzare equilibri diversi. Non solo siamo legati alla coalizione del centrosinistra, ma riteniamo anche che per un lungo periodo il sistema politico italiano si reggerà su una qualche forma
di bipolarismo, con un sistema politico in cui l’insieme di quanti optano per una società riformistica e popolare si impegnano insieme, fanno patti e progetti insieme. Altrettanto facciano quanti scelgono un modello di società diverso, fondato sul mercato, su criteri di intervento liberistici. Come giudicate il tentativo dei Cristiano-sociali di costruire con altri una forza che si richiama alla sinistra europea? Di fronte alla tendenza della sinistra democratica di darsi un’identità europea, che comprenda varie anime sulla base di un progetto politico comune, noi riteniamo che sia ancora utile che i valori cattolici democratici si esprimano politicamente in maniera autonoma. Poi possano collegarsi con altre forze, come i cristiano-sociali, che ricercano la loro identità a partire dai programmi. Del resto è quanto già avviene nelle realtà locali. Credo che una democrazia viva di identità chiare: è bene che il cattolicesimo democratico le esprima con una sua autonoma proposta politica. In questa posizione si avverte una forte
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Novità e difficoltà di una situazione in rapido mutamento.
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... l’esperienza dell’Ulivo, cioè di una coalizione riformista in cui convergono tradizioni culturali e politiche differenti, unite tuttavia dal consenso sui valori della Costituzione, dal primato dell’uomo sull’economia e da un programma concordato, deve fare ancora passi avanti, anche qualitativi. Non solo nell’azione di governo, ma anche nel modo in cui è composta e strutturata, evidenziando sia una maggiore compattezza, sia una maggiore identità delle sue componenti; un’azione ancor più incisiva soprattutto sul piano delle scelte culturali e morali, nel rigore con cui scegli i suoi rappresentanti, per lo stile con cui si rapporta
preoccupazione per una possibile scomparsa del cattolicesimo democratico, non solo a livello politico ma anche ecclesiale. Noi ci siamo mossi perché abbiamo un’inquietudine: che venga disperso un grande patrimonio ideale, dalle grandi potenzialità civili. La nostra preoccupazione è su due fronti: il primo è quello civilepolitico. La frammentazione politica allontana molte persone che in fondo sono cattolico-democratiche ma non si sentono di incanalarsi in un’avventura politica. La nostra tradizione è storicamente alla ricerca di una casa comune. Proprio perché alle origini i cattolici democratici hanno compiuto una scelta di laicità, abbandonando le politiche clericali, hanno poi
subito avuto bisogno di una traduzione politica. La nostra non è un’identità generica, anche se tutti oggi si dicono cattolici democratici: ccd, cdu e le altre formazioni non sono cattolico-democratiche: a volte mi chiedo fino a che punto anche nel Ppi siano tutti cattolici democratici. L’altra preoccupazione è sul piano ecclesiale: dopo la lunga stagione dell’unità politica e dopo la conseguente disponibilità - diretta o indiretta - delle gerarchie ecclesiastiche e dei mondi ecclesiali a sostenere quella casa comune, adesso si rischia di fare un passo indietro. Il riconoscimento giusto e
lodevole dell’autonomia della politica rischia di tradursi in una semplice sollecitazione a difendere i valori cattolici in politica, quelli che sono sostenuti dai credenti in ragione della loro coscienza. La giusta pressione sui valori rischia di allontanare dalla laicità, di creare un virtuale partito clericale che ogni tanto si materializza su alcuni temi. In questo senso la nostra presenza che rafforza l’identità cattolico-democratica è una garanzia contro il pericolo del ritorno al clericalismo. Ma su quali valori ideali e programmatici si fonda oggi l’identità dei
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La nostra ispirazione ed esperienza.
DOC U M E NTO ... Sentiamo una speciale responsabilità di offrire un collegamento, e se possibile di dar voce, a quanti si sono in vario modo impegnati nella complessa vicenda che ha portato alla nascita del Partito popolare e, successivamente, dell’Ulivo. Noi sappiamo che questo non è l’unico modo di incarnare nella realtà politica l’ispirazione cristiana, ma siamo certi che è un modo legittimo e a noi sembra, qui ed oggi, il migliore. Siamo comunque aperti e desiderosi di dialogare su questo ed altri punti con tutti quanti hanno a cuore i valori in cui crediamo, ma pensano di tradurli politicamente in programmi e strategie differenti. Certo non tutto si gioca a livello dei vertici dei partiti e delle istituzioni; e dunque riteniamo essenziale il lavoro di base, a livello di società civile e di elaborazione culturale. E tuttavia sappiamo bene che c’è un livello proprio, di sintesi... per questo abbiamo lavorato e lavoriamo per collegare organicamente i cittadini alla Politica, per realizzare quella partecipazione necessaria ad una vita civile, e che abbiamo imparato anche nelle associazioni da cui proveniamo.
cattolici democratici? Padre Sorge ad esempio afferma che i cattolici democratici devono costituire il polo della solidarietà, in alternativa al polo liberista. Anch’io sono convinto che il liberismo sia la caratteristica dello schieramento del centro-destra, ma ritengo che sia improprio parlare di solidarietà come contenuto politico. La solidarietà è
un valore trasversale, che può essere invocato da tutti, da An a Rifondazione comunista, perfino dalla Lega. Possiamo rallegrarci di questo atteggiamento civile, ma si potrebbe anche in questo caso ricadere nel rischio clericale di cui si parlava prima. Il nostro specifico è un altro, poggia su due elementi: da un lato sulla pienezza dell’accettazione del sistema democraticorappresentativo, con la valorizzazione di tutti gli elementi intermedi della società, accettando in pieno non solo la divisione “verticale” dei poteri, ma anche quella orizzontale degli strati sociali, dei “mondi vitali”, per utilizzare l’espressione di Ardigò. È un’ottica che si oppone al dirigismo, al presidenzialismo, a tutte le forme economiche, culturali, istituzionali che comprimono questa complessità. Dall’altro si fonda sulla scelta radicale a favore dell’insieme dei diritti delle persone e delle comunità. Non solo la scelta dei poveri, che potrebbe essere ancora una volta trasversale, ma scelta del personalismo sociale, dei diritti degli individui e delle comunità in se stesse. Le conseguenze politiche di queste scelte sono rilevanti e discriminanti.
Un’ultima questione: stiamo assistendo a una ripensamento delle identità politiche nazionali sul piano europeo. Al di là delle polemiche strumentali, qual sarà il punto di riferimento dei cattolici democratici nel momento in cui si tenterà di costruire l’Europa politica oltre a quella economica? Alla fine del secolo scorso in tutta Europa sono nati movimenti cristiano-sociali in modo concorrenziale con i partiti socialdemocratici. Entrambi erano in alternativa alle istituzioni liberali e dunque non erano esclusi momenti di iniziativa comune. Questa è la storia che abbiamo alle spalle: abbiamo l’orgoglio di dire che nei momenti più alti della Democrazia cristiana, dal migliore De Gasperi a Moro e Zaccagnini, la Dc era una soluzione politica che altrove si osservava come modello, come una strada possibile. Adesso i cattolici democratici italiani possono costituire una sollecitazione per altre forze europee. Ci sentiamo a disagio con quei partiti
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Quel
deficit
di cui i parametri non parlano
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Il 19 giugno del 1997 è stato presentato al Consiglio Europeo di Amsterdam e da esso approvato il Rosario Sapienza progetto di trattato che porterà a una revisione e a un E se dopo aggiornamento del Trattato l’unione di Maastricht. Si tratta di una monetaria si tappa prevista nel processo facessero gli di costruzione dell’Unione stessi sforzi europea, che rappresenta per costruire l’esito dei lavori della l’unione Conferenza Intergovernativa politica? insediata nella primavera Dopo il 1996. La pubblicistica Trattato di ufficiale tende a presentare Amsterdam quanto acquisito come L’Unione un importante risultato in Europea tra termini sia di efficienza delle efficienza e istituzioni comunitarie sia di democrazia democraticità dell’Unione. È lecito chiedersi se sia veramente così. Anzi, è il caso di chiedersi se abbia senso, in ultima analisi, lo stesso interrogarsi in ordine alla democraticità delle strutture dell’Unione. Va subito detto che nonostante i propositi ambiziosi espressi alla vigilia, il Trattato di Amsterdam non modifica gli assetti già consolidati con il trattato di Maastricht, ma risolve (o almeno cerca di risolvere) alcuni problemi che si sono posti o stanno per porsi in relazione al funzionamento delle istituzioni comunitarie. E ciò in primo luogo
prevedendo alcune “riforme istituzionali”, intervenendo cioè sui meccanismi di funzionamento delle istituzioni comunitarie. Ma c’è stato in verità anche qualcosa di più, come la previsione della cosiddetta “cooperazione rafforzata” in applicazione della quale gli Stati membri che vorranno potranno procedere oltre sulla strada dell’integrazione europea, lasciando al palo i meno entusiasti. Le “riforme istituzionali” più incisive riguardano soprattutto la Commissione, il Consiglio dei Ministri e il Parlamento europeo, che sono le istituzioni più direttamente responsabili della politica comunitaria e che operano attraverso l’emanazione dei vari atti normativi comunitari (ciò vale soprattutto per i primi due organi, mentre il Parlamento assolve a importanti funzioni di cooperazione). La Commissione, attualmente composta da venti membri, è l’istituzione cui il trattato ha riservato funzioni di proposta degli atti normativi comunitari. È la Commissione che prende l’iniziativa di preparare un determinato atto normativo, anche se è poi il Consiglio dei Ministri che
concretamente lo adotta. Si tratta di un’importante funzione di impulso, alla quale se ne affianca un’altra, non meno importante, di esecuzione degli atti normativi del Consiglio dei Ministri, funzione che talvolta, su esplicita delega dello stesso Consiglio, si è tradotta nell’emanazione di veri e propri regolamenti esecutivi dei regolamenti emanati dal Consiglio dei Ministri. Il Trattato di Amsterdam prevede la modifica nella composizione della Commissione: mentre, infatti, attualmente, essa è composta da due rappresentanti per gli Stati cosiddetti “grandi” (ossia Germania, Francia, Italia, Spagna e Gran Bretagna) un protocollo allegato al trattato di Amsterdam prevede che essa debba in futuro esser composta da un rappresentante per Stato membro, per evitare che l’allargamento dell’Unione ai Paesi dell’Europa centrale e orientale (ormai prossimo) porti alla costituzione di un organo pletorico e dunque incapace di attivarsi con efficienza. Anche il Consiglio dei Ministri è interessato da queste riforme, dato che aumenta il numero dei casi in cui si voterà a maggioranza,
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cosa che renderà più rapido il processo decisionale comunitario. Quanto al Parlamento Europeo, va detto che i suoi poteri, già notevolmente accresciuti dal Trattato di Maastricht, crescono ancora con il Trattato di Amsterdam. Si cerca così di rimediare a quello che viene comunemente chiamato il “deficit democratico” della costruzione europea, una espressione con la quale si intende far Bruxelles: la sede della
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riferimento proprio al fatto che il Parlamento europeo non ha nell’architettura costituzionale europea una posizione centrale paragonabile a quella dei Parlamenti nazionali nei loro Stati. Ma in verità, quello che veramente cambia è che vengono fissati alcuni termini più restrittivi all’esercizio da parte del Parlamento dei suoi poteri, cosa che dovrebbe rendere più veloce il processo decisionale
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comunitario. In particolare, il trattato di Amsterdam prevede termini più rigidi per lo svolgimento della procedura di codecisione che deve comunque attuarsi in nove mesi (dalla seconda lettura del Parlamento europeo all’esito della procedura in Comitato di Conciliazione). Le istituzioni comunitarie dovrebbero quindi poter gestire un processo decisionale più rapido ed efficiente e dunque meglio
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assolvere i nuovi compiti che si apprestano ad assumere. Tra questi nuovi compiti spicca senza dubbio la politica estera e di sicurezza comune (PESC), che si baserà sull’esperienza di cooperazione rappresentata dall’Unione dell’Europa Occidentale. Sempre più quindi, si dice, l’Unione Europea somiglierà a uno “Stato europeo” e le sue competenze si sovrapporranno, inglobandole, a quelle degli Stati membri. Tuttavia, l’evocazione del paradigma dello Stato federale europeo, pur accettabile per ovvie ragioni di propaganda politica, appare in realtà fuorviante. Quello che si sta costruendo oggi in Europa, attraverso le dinamiche dell’integrazione istituzionale nell’Unione Europea è una entità complessa, in verità unica nel suo genere, nella quale i processi decisionali (almeno formalmente) democratici, esistenti negli Stati membri, si accompagnano a processi
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decisionali certamente molto meno democratici a livello dell’Unione Europea (vedi il sostanziale mantenimento del deficit democratico anche dopo il trattato di Amsterdam). Tutti concordano nel constatare che il processo decisionale comunitario è fortemente sbilanciato a tutto vantaggio degli organi europei che rappresentano la componente intergovernativa delle dinamiche dell’integrazione. In questo senso, dunque, il deficit democratico, lungi dal rappresentare un incidente di percorso nella costruzione dell’Unione europea è invece un dato strutturale e funzionale alla costruzione di una sistema decisionale, per dir così, a due livelli. In altre parole, quello che mi pare stia avvenendo è che, attraverso l’allargamento delle competenze materiali dell’Unione europea, certi processi decisionali si spostano sempre di più a livello europeo, dove il controllo democratico delle
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decisioni normative non è certo particolarmente incisivo. Mentre a livello dei singoli Stati membri si perpetuerebbero i “ritualismi” del gioco democratico parlamentare, che non intaccherebbero però l’efficienza e l’efficacia del processo decisionale europeo, dato che il diritto dell’Unione europea prevale in tutti i Paesi membri sul diritto nazionale di questi. A Bruxelles si prendono insomma le grandi decisioni, senza che i “manovratori” vengano importunati più di tanto da querimonie parlamentari, mentre nei Parlamenti nazionali si adottano le misure di attuazione ovvero si costruisce il consenso popolare a quelle misure che sono già state adottate altrove. Da questo particolare punto di vista, quindi, ogni incremento delle competenze comunitarie si traduce non solo e non tanto in una riduzione della sovranità nazionale di ogni singolo Stato membro, ma in una
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nelle due immagini:
Strasburgo, il Parlamento Europeo
riduzione della concreta capacità di decisione di ogni parlamento all’interno di ogni singolo Stato membro. Non voglio unirmi al coro degli antieuropeisti. Credo, invece, che l’Europa unita sia utile e necessaria e che sbaglia chi sostiene che si tratta di un progetto antistorico o pericoloso. Al contrario, credo che l’integrazione economica dell’Europa sia una necessità storica e, come tale, inevitabile. Si tratta, però, di arrivarci “ad occhi aperti”. E tra le cose che vanno guardate “ad occhi aperti” c’è anche questa singolare caratteristica del riparto di competenze sia in seno all’Unione tra organi
democraticamente eletti e organi che sono nominati dai governi sia tra gli organi europei e quelli statali. Detto questo, va precisato che la situazione che si è venuta a creare potrebbe anche non essere necessariamente cosa del tutto negativa, dato che potremmo trovarci di fronte a una maniera originale nella storia delle istituzioni politiche per coniugare il massimo possibile di democrazia con il massimo possibile di decisionismo efficientista. In un’epoca poi nella quale le sfide della globalizzazione dei mercati rendono necessaria una difesa ad oltranza dei mercati europei (e dei posti di lavoro in
Europa) nonché una proiezione sempre più aggressiva delle imprese europee sui mercati mondiali, potrebbe pure essere l’unica via possibile per la “sopravvivenza” dell’Europa. Se però si considera che questi poteri vengono rivendicati con la motivazione esplicita di poter meglio risolvere problemi che stanno a cuore a tutti, come ad esempio la disoccupazione, e poi si scopre invece che, come è accaduto al Vertice straordinario del Lussemburgo il 20-21 novembre dello scorso anno, si rinvia tutto alla buona volontà dei governi nazionali, le preoccupazioni aumentano. Nasce allora il sospetto che i poteri europei debbano rafforzarsi quando ci sono da
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Il fiume carsico
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della sinistra cristiana SALVATORE VENTO ADRIANO OSSICINI, Il fantasma cattocomunista e il sogno democristiano, Editori Riuniti, 1998, pp. 142
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Nonostante l’unità politica dei cattolici, è sempre esistito in Italia, dalla Resistenza in poi, un filone di cattolicesimo politico ispirato ai valori della sinistra. Questo volume ne racconta le vicissitudini, il dibattito interno, gli obiettivi e i rapporti con gli altri attori della storia politica nazionale
IL LIBRO
Il libro di Adriano Ossicini s’inserisce a pieno titolo nel dibattito avviato dai Cristiano sociali con la decisione di partecipare alla costruzione del nuovo partito dei Democratici di Sinistra (vedi in particolare il convegno di Roma del 12 Aprile pubblicato sul numero zero della rivista); nato dall’esigenza di contestare la legittimità del termine cattocomunista, la sua testimonianza ricostruisce la storia del movimento della sinistra cristiana riportando in appendice (a cura di Alberto Massimi) documenti significativi di quell’esperienza (con interventi di Franco Leonori, Fedele D’Amico, Franco Rodano, Claudio Napoleoni).
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La prefazione di Romano Prodi chiarisce che la nuova stagione politica inaugurata con l’Ulivo non può essere ricondotta a nessuna delle formule/strategie del passato (governo delle sinistre, prospettiva postcomunista, compromesso storico),
ma alla consapevolezza di superare le contrapposizioni tra le componenti democratiche della sinistra e del centro cattolico e liberale, per garantire un governo stabile al paese. Ossicini, coerente con la sua professione di psicoterapeuta, ripensa la storia adottando il metodo delle “associazioni libere” per capire come sia possibile, pur con i radicali mutamenti dei diversi cicli storici, la riproposizione del fantasma cattocomunista, di volta in volta identificato con qualsiasi pur timida alleanza dei cattolici con i comunisti; con l’esperienza del gruppo della sinistra cristiana tra il 1937 e il 1945; con quella di Rodano e compagni che aderirono al PCI nell’immediato secondo dopoguerra; con i fautori del compromesso storico negli anni ‘70; con l’esperienza dell’Ulivo, oggi. Se appare fin troppo facile la critica al tentativo di rifare un grande
centro cattolico alleato alla destra, magari richiamandosi a De Gasperi che sosteneva proprio il contrario (forza di centro che guarda verso sinistra), fino a prefigurare, nel futuro dell’evoluzione politica italiana, anche la possibilità di una naturale divisione dei cattolici tra conservatori e laburisti, risulta storicamente più interessante la comprensione del fenomeno della “sinistra cristiana” negli anni decisivi della formazione del “partito cattolico”. L’accusa di cattocomunista gli venne mossa per la prima volta dal capo dell’ufficio politico della Questura di Roma, Rotondano, all’inizio della lotta clandestina contro il fascismo. La Sinistra cristiana, come gruppo politico nasce nel 1937, nell’ambito dei giovani dell’Azione Cattolica che frequentavano la sottofederazione Roma sud, legata ai quartieri operai; Franco Leonori ricorda la presenza degli operai Antonio Rinaldini e Giulio Sella; aderivano sia giovani che sentivano il
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richiamo della tradizione del popolarismo (in particolare quella che si oppose subito all’alleanza con Mussolini e che trovò in uomini come Giuseppe Donati, Francesco Luigi Ferrari e Guido Miglioli la massima espressione); sia giovani provenienti dagli studi filosofici d’origine crociana (Franco Rodano, Mario Motta, Felice Balbo). Secondo C.F. Casula, nella primavera del ‘43, oltre 400 comunisti cristiani vennero arrestati a Roma. Essa assunse diverse denominazioni: da “partito cooperativista” (valorizzazione di un assetto proprietario basato sulle cooperative) a “cattolici comunisti” (durò un anno, dal settembre ‘43 allo stesso mese del ‘44, espressione piuttosto compromettente considerando l’egemonia stalinista di allora) che venne cambiata in quella
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più generica (ma più appropriata) di “sinistra cristiana”. Per i giovani, impazienti e desiderosi di scendere in campo contro la dittatura mussoliniana, si trattò di stabilire una naturale alleanza con tutti coloro che in questa lotta erano più disponibili e organizzati ( in primo luogo i comunisti, poi Giustizia e Libertà e socialisti). E’ davvero sorprendente leggere le loro mature riflessioni politiche: avevano tra i venti e i venticinque anni! Una valutazione storica di questo gruppo non può prescindere dal dato generazionale. Proprio perché riconoscevano l’autorità della Chiesa, e nello stesso tempo subivano il fascino del marxismo, la loro riflessione filosofica li portò ad elaborare la famosa distinzione tra materialismo storico (il marxismo come metodo d’interpretazione della realtà), da condividere, e materialismo dialettico da respingere perché prefigurava un’ideologia, una concezione del mondo, una vera weltaschaung. Bisognava distinguere il comunismo, fenomeno politico, dal cattolicesimo, fenomeno religioso. Qualche anno più tardi questa distinzione sarà ripresa da Elio Vittorini che nel suo “Politecnico” presenta il marxismo quale strada della filosofia come ricerca e non come vicolo cieco della filosofia
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come sistema. L’altro gruppo, attivo fin dal 1941, era quello cristiano sociale, promosso da Gerado Bruni, forse il più aderente alle moderne sensibilità dei cattolici impegnati nella sinistra; egli, rifacendosi a Maritain, Mounier, Berdjaev, propugnava un socialismo personalista e comunitario ed era vicino alle esperienze degli azionisti di Giustizia e Libertà e dei socialisti. Tra il 1943 e il 1944 nella gerarchia ecclesiastica non era ancora completamente definita la scelta sulla connotazione che doveva assumere la presenza dei cattolici in politica (partito cattolico, partiti cattolici, o cattolici nei partiti?) oscillante tra due opposte tendenze: dall’opzione spagnolaportoghese (salazariana) che prevedeva una soluzione di destra senza Mussolini, all’accettazione del pluralismo (legittimante perciò anche una presenza a sinistra). Nella confusa situazione del periodo 25 luglio-8 settembre 1943 (caduta di Mussolini, governo Badoglio, armistizio, fuga del re) e dell’inizio della Resistenza armata, sono significative due lettere: quella di Luigi Gedda (presidente della GIAC-Gioventù italiana di Azione Cattolica) datata agosto ‘43 in cui proponeva a Badoglio d’inserire personale cattolico nelle istituzioni fasciste (tra cui L’EIAR) in
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modo da “combattere la propaganda sovversiva del fuoruscitismo comunista”; nel mese di dicembre dello stesso anno la lettera di monsignor Tardini (addetto agli Affari ecclesiastici straordinari) al rappresentante americano Taylor diventa più esplicita nell’indicare il nome di De Gasperi quale futuro capo del governo. Prevalse così la linea dell’”unità politica dei cattolici” nella realistica elaborazione di De Gasperi (con l’autorevole sostegno del sostituto della segreteria di Stato, monsignor Montini, futuro Papa Paolo VI) che ebbe in Adriano Ossicini un coerente e costante oppositore perché avrebbe portato, a lungo andare, all’integralismo (uso strumentale del fattore religioso, conquista dello Stato, identificazione ChiesaDC) molto diversa dalla scelta laica di Sturzo che appunto fondò non la DC ma un partito (il PPI) con una precisa e moderna qualificazione programmatica. Laicità della politica significava, per Ossicini e il suo gruppo, la formazione d’un movimento a motivazione cristiana dentro il vasto schieramento unitario antifascista e di alternativa democratica; un’identità cristiana non escludente, ma aperta al dialogo. Nell’ottobre del 1943 Ossicini dichiarava: “come cattolico voglio
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evitare che la nascita del partito di tutti i cattolici ci porti ad una situazione più rovinosa sul piano religioso di quella prodotta dal clerico-fascismo perché lì almeno c’era una alleanza col regime fascista, ma i cattolici non tendevano, in quanto tali, ad assumere il potere in nome della borghesia e ad identificarsi con essa.” Una posizione simile a quella sostenuta in Francia da Emmanuel Mounier che considerava l’improvviso rigoglio in tutta Europa dei partiti democristiani non una forza, ma un edema sul corpo malato della cristianità: se il cristianesimo si deve sbagliare, scriveva Mounier, si sbagli almeno con grandezza, nell’audacia, nella sfida, nell’avventura, nella passione; ma che il cristianesimo venga a confondersi con la timidezza sociale, con la sorda paura del popolo, ecco quello che noi non potremo mai permettere perché nulla è più ambiguo, fragile e contestabile delle deduzioni politiche tratte dai principi cristiani. Secondo Scoppola, la scelta di Montini a favore dell’”unità politica dei cattolici” era l’unico modo per evitare il sorgere d’un movimento di destra (“partito romano”), come accadde nel primo dopoguerra quando il Partito popolare venne abbandonato e prevalsero i clerico
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fascisti. Si tratta però di un’osservazione che non tiene sufficientemente conto della assoluta novità derivante dalla partecipazione dei cattolici e di altre componenti non comuniste al movimento di liberazione e al successivo contributo unitario della Costituzione. Riflettendo su quegli anni, e in particolare sul 18 Aprile del ‘48, Bartolomeo Sorge, a cinquant’anni di distanza (Aggiornamenti Sociali, n.4/98) afferma che, accanto agli importanti risultati ottenuti, il “collateralismo ChiesaDC” pose una pesante ipoteca sulla vita stessa del partito (impedì la piena realizzazione della concezione laica e aconfessionale che Sturzo aveva del partito d’ispirazione cristiana) e fece pagare un prezzo pastorale molto alto alla Chiesa. Sta qui la vera caduta: la progressiva identificazione delle Istituzioni del mondo cattolico col potere dominante soffocò, per un lungo periodo di tempo (almeno per altri vent’anni), il dispiegarsi di energie intellettuali e di creatività; solo col Concilio Vaticano II, e con la conseguente Costituzione pastorale Gaudium et Spes (1965), cominciava, per i cristiani laici, la nuova stagione di liberazione dal clericalismo dominante. Non dobbiamo dimenticare il ruolo inquisitorio svolto dal
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... Moro voleva assegnare un nuovo ruolo alla Dc, mentre Ossicini era convinto che una nuova stagione passasse per la rottura dell’unità dei cattolici... Sant’Uffizio nei confronti di sacerdoti-intellettuali come Primo Mazzolari, Lorenzo Milani, Ernesto Balducci, Nazareno Fabbretti (e di tanti altri meno noti, ma presenti e sofferenti); e in Francia, su ordine romano, la condanna dei preti operai del 1954. Non si può neanche sfuggire ad un sereno (non per cercare i colpevoli, ma per capire) esame della degenerazione partitocratica del sistema politico italiano (basato sulla centralità del “partito cattolico” e sulla mancanza di alternanza) col conseguente emergere della “questione morale” dei nostri ultimi anni. Pur trovandoci di fronte a fatti e circostanze diverse,
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l’ideologia dell’”unità politica dei cattolici”, e la mancanza di distinzione degli ambiti, costituì la casa comune dove si diffondevano i noti fenomeni di doppiezza, di ipocrisia e di clientelismo; molto lontana da qualsiasi autentica ispirazione cristiana. I risultati sono davanti agli occhi di tutti: come mai dopo cinquant’anni di dominio e di occupazione del potere del “partito cattolico” tutti oggi scoprono che i cattolici consapevoli sono una minoranza? Il 7 dicembre 1945 si svolse il congresso straordinario del Partito della Sinistra Cristiana e il suo segretario Mario Motta presentò la proposta di scioglimento, accettata dalla maggioranza (tra cui Franco Rodano, Felice Balbo, Fedele D’Amico), ma respinta da Ossicini, mentre Togliatti, che consigliava di aderire alla sinistra D.C. (come fecero Siro Lombardini e Pasquale Saraceno), solo molti anni più tardi, nel 1959, si convincerà della necessità di un autonomo movimento di sinistra nel mondo cattolico. La scelta di Rodano di aderire al PCI avvenne, dopo che al V Congresso fu approvato l’art.2 dello Statuto in cui si affermava la possibilità di aderire sulla base del programma politico, indipendentemente dalle convinzioni filosofiche e religiose. Le ragioni dello scioglimento non
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derivarono da difficoltà organizzative ma da divergenze politiche in quanto la maggioranza era convinta che bisognasse favorire un’alleanza stabile tra DC e PCI quale unico modo per superare il pericolo di una democrazia bloccata derivante da vincoli internazionali. In questo modo, per Rodano e compagni, si sarebbe favorita la nascita del “partito nuovo” della sinistra. Ossicini, invece, conoscitore degli umori del Vaticano, non credeva ci fossero le condizioni per un’alleanza stabile, ma solo temporanea, come infatti avvenne. Anche sulla costituzione del Fronte Popolare, Ossicini espresse la sua contrarietà in un pubblico comizio allo stadio di Bologna in presenza di Miglioli e Grieco. In anni più recenti quando Berlinguer, dopo il golpe di Pinochet in Cile, lancia la prospettiva del compromesso storico e Rodano vede finalmente una concretizzazione delle sue elaborazioni (nascita del “partito nuovo” frutto della trasformazione delle tre correnti popolari per attuare l’egemonia operaia), Ossicini si trovò, ancora una volta, a dissentire avvicinandosi alle posizioni di Moro impegnato nell’avviare la fase della solidarietà nazionale, con la differenza che Moro voleva assegnare un nuovo ruolo alla DC,
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LIBRI Poteri a confronto
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Durante i lavori della Bicamerale, e per tutto il successivo iter parlamentare del progetto di riforma della Costituzione, ha costituito oggetto di pesanti critiche il modello istituzionale a cui si sarebbe ispirata la nuova Costituzione. L’accusa è stata lanciata a più riprese, e spesso con intenti assai diversi. Si sono dichiarati avversari del progetto sia coloro che sostanzialmente bollavano come avventurismo e ‘modellismo’ qualsiasi tentativo di procedere a un minimo di manutenzione costituzionale, sia i critici del risultato finale della Bicamerale (il cosiddetto ‘semipresidenzialismo all’italiana’). Mentre il primo atteggiamento si fonda su una visione ‘valutativa’ e ‘sostanzialista’ della democrazia, il secondo nasce da considerazioni più articolate, e attribuisce alle istituzioni un rapporto non neutrale, e anzi dinamico rispetto agli orientamenti politici della società. Il metodo democratico è visto principalmente come una serie di obiettivi funzionali (stabilità, decisionalità, partecipazione ecc.): il modello istituzionale serve a tradurli e a contemperarli in una determinata fase storica. Un’istituzione non può essere giudicata sostanzialmente migliore o peggiore di un’altra, ma solo più o meno adeguata rispetto agli obiettivi che si propone. Va da sé che tale indirizzo attribuisce importanza particolare
agli effetti sistemici delle modifiche costituzionali, e alle connessioni tra i vari livelli di governo e di rappresentanza politica. Un ruolo fondamentale è rivestito dai meccanismi elettorali: anzi, proprio su questo campo si presentano - e si sono storicamente presentati - i contrasti più aspri col partito degli antimodellisti tout court. La sostanziale sconnessione del progetto di legge elettorale rispetto al resto dell’impianto costituzionale è stato uno degli aspetti più aspramente criticati - anche se certamente non l’unico. Lo sguardo fornito dal saggio è assai ampio: si tratta di una rassegna dei regimi parlamentari europei, considerati in prospettiva storica. È proprio un processo storico di lungo periodo, la ‘secolarizzazione della politica’ - e cioè la perdita di centralità del potere statale - a fornire il quadro di fondo. La chiave di lettura dei regimi parlamentari e semipresidenziali del continente è esaminata a partire dalle ‘razionalizzazioni’, cioè dalle determinazioni dei rapporti tra i massimi organi di indirizzo politico. La razionalizzazione, ‘il tentativo di trasformare una serie di comportamenti pratici fondati su rapporti politici in regole giuridicamente vincolanti’, rimane nel mondo della politica secolarizzata ‘il punto critico di snodo del potere politico, quello dei rapporti tra il Legislatore e l’Esecutivo’. Naturale che risenta di tutti quegli
aspetti ‘metagiuridici’ (Mortati avrebbe parlato di ‘costituzione materiale’) e quindi sociali ed economici che accompagnano l’evoluzione delle società democratiche. Ed è proprio la risorsa-problema del dualismo dei poteri il nodo di fondo delle costituzioni degli ultimi due secoli. I sistemi di seguito esaminati sono numerosissimi: si parte dai ‘classici’ quale il modello Westminster, o la Terza Repubblica Francese, e si arriva - particolare degno di nota - alle nuove sistematizzazioni dei Paesi dell’Europa dell’Est successive al 1989. Le tendenze individuate a margine delle diverse esperienze nazionali si addensano attorno al monismo parlamentare (più o meno limitato nei suoi effetti più problematici) o al rilancio del dualismo tra Capo dello Stato e Parlamento sulla scorta del modello della quinta repubblica francese. Coerentemente con l’impostazione di fondo, non è indicata una preferenza netta per alcuno dei ‘poli’ individuati. Rimane, invece, una considerazione critica dei modelli acefali, o meglio privi di obiettivi funzionali. Mutuando una considerazione di Mario Galizia, si fa notare che i fallimenti delle razionalizzazioni sono dovuti all’aver dato ‘maggiore risalto all’armonia sistematica che alle esigenze della realtà concreta, rimanendo sostanzialmente all’esterno della dinamica del potere politico’. In tal
senso non si risparmiano rilievi all’esperienza della Bicamerale e del semipresidenzialismo all’italiana: ‘Quello che emerge è un modello ancora incerto: non sembra essere ancora del tutto emersa la consapevolezza del carattere decisivo della dimensione di scala di un Paese ai fini dell’adozione di una forma di governo e di un connesso sistema elettorale’. A chiudere è un duro monito lanciato da Duverger circa l’eventualità dell’elezione di un ‘presidente senza poteri’: ‘Siamo seri: è esattamente il genere di soluzioni che possono creare delle dittature opponendo un demagogo a un Parlamento impotente’. (Diego Toma) Stefano Ceccanti La forma di governo parlamentare in trasformazione Il Mulino, pp. 298, L. 40.000
Brevi profili di figure che hanno fatto storia Attorno alla figura di De Gasperi si è di recente consumata una singolare disputa tra Polo (Forza Italia, in special modo) e Ulivo. La questione della primogenitura rispetto all’esperienza politica dello statista trentino (o, più probabilmente, rispetto alla sua vittoria sul Fronte popolare) ha fatto pensare più a un sospetto transfert politico
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IL CLASSICO che non a un dibattito di un qualche contenuto (che, forse, avrebbe condotto ad approfondimenti più interessanti). Il breve saggio non ha la pretesa di inserirsi in questo dibattito ma, proprio per la sua concisione, potrà essere di aiuto per chi voglia farsi una visione d’insieme sulla formazione e sull’esperienza politica di De Gasperi. Più che offrire, per esempio, chiarimenti sulla questione - logora, e sostanzialmente male impostata dell’‘anticomunismo intrinseco’ di De Gasperi, o sul suo ipercitato ‘atlantismo’, la biografia invece risulterà di gran lunga più interessante per mettere in luce altri aspetti: primo su tutti lo slancio europeista, connotato quasi obbligatorio per l’‘austriaco’ von Gasper, nato suddito dell’Impero asburgico. E, collegato a questo, la sua attenzione per la questione dell’autonomia del Trentino, sia sotto l’Austria che all’interno dello Stato italiano. Si tratta di due chiavi di lettura facilmente - e proficuamente ricollegabili alla nostra storia recentissima. Eppure si preferisce discettare ancora su quanto De Gasperi incarnasse o meno la quintessenza del liberalismo. Ben altro destino invece è toccato a Ezio Vanoni. La sua figura è stata decisamente posta ai margini della storia politica italiana. Forse perché, così come è accaduto per molti suoi colleghi economisti, la sua figura mal si è prestata a idealizzazioni. O forse perché il nome di
Vanoni è rimasto legato al famoso Piano degli anni ’50, unico esperimento di programmazione economica statale ad aver avuto qualche effetto nell’Italia del dopoguerra. E di questi tempi, tutto ciò che ricordi l’intervento pubblico in economia viene considerato decisamente politically uncorrect. Così lo ‘statalista’ Vanoni è stato messo in soffitta, nonostante la sua storia personale presenti tratti di indubbio interesse. Vanoni - così come ce lo presenta la biografia di Guido Vigna, - è una figura del tutto particolare, che matura la sua esperienza nel primo dopoguerra, al confine tra cristianesimo e socialismo. Dopo aver abbandonato la militanza attiva sotto il fascismo in favore della carriera accademica (per poi riprenderla simbolicamente con la partecipazione alla stesura del Codice di Camaldoli) Vanoni si propone come uno degli artefici della modernizzazione economica del Paese. Spalleggiato dallo stesso De Gasperi crea l’ENI in vista della dirigenza di Mattei, e soprattutto, una volta al governo, ristruttura il sistema fiscale statale. I temi della riforma economica e dell’etica politica si sovrappongono spesso nel pensiero di Vanoni. L’impeto riformistico è sorretto, oltre che da una brillantissima preparazione teorica, dalla consapevolezza che il Paese potrà avanzare nella vita democratica solo a condizione di modernizzare le sue istituzioni
Giuseppe Tomasi di Lampedusa Il Gattopardo Feltrinelli Appartengo ad una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi e che si trova a disagio in tutti e due. (...) sono privo di illusioni; e che cosa se ne farebbe il Senato di me, di un legislatore inesperto cui manca la facoltà di ingannare se stesso, questo requisito essenziale per chi voglia guidare gli altri? Così risponde Fabrizio principe di Salina, nel romanzo il Gattopardo, al cavaliere Aimone Chevalley, gentiluomo piemontese, inviato in Sicilia dal governo di Torino, che gli propone la nomina a senatore del Regno. Era il 1960 e le disincantate parole dell’aristocratico siciliano partorito dallo scrittore Tomasi di Lampedusa sono tutt’ora ricche di suggestioni, anche se oltre un secolo ci divide dalle vicende narrate. Nei classici si trovano spunti di riflessione spesso maggiori di quanti non si trovino nei saggi attuali, troppo sovente propagandati da interessi di bottega. Le parole antiche che superano l’usura del tempo hanno la forza evocativa degli oggetti che oltrepassano le mode, la consistenza degli amori che resistono all’aggressione della quotidianità. Noi, moderni figlie e figli di una democrazia fondata sull’utopia ottocentesca del progresso, non ignoriamo quanto il governo della cosa pubblica abbia
dovuto e debba fare i conti con l’inganno , sia esso ideologico o di basso interesse personale. Le amare riflessioni di Don Fabrizio, possono essere una piccola luce con cui avanzare negli intricati sentieri che ci stanno conducendo al terzo millennio, senza dimenticare che queste parole sono di un: rappresentante della vecchia classe, inevitabilmente compromesso con il regime borbonico, e ad esso legato da vincoli della decenza, in mancanza di quelli dell’affetto. Egli era consapevole della sua appartenenza di classe, della sua compromissione, della sua età non più giovane. Un senso di morte attraversa del resto tutto il libro, ma anche il coraggio di fronte a essa: dissoluzione di un’epoca, vecchiaia di un uomo. Sapeva il principe di avere in sé i germi della fine, era consapevole che li avrebbe sparsi se non fosse stato in disparte. Scelse di essere una Cassandra a cui rivolgersi, volendo, per cercare anche nelle nefaste previsioni motivi di riflessione, meditazioni sui possibili errori da evitare per costruire il futuro. Non voleva essere un guastatore, un picconatore, forte solo della sua imponente volontà di dominio. Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della
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Potere
1. Quanto è consentito
dalla volontà o disponibilità del
soggetto: ha fatto
tutto ciò che era in suo possesso fare.
2. La facoltà di azione in rapporto alla personalità e capacità giuridica: p. legislativo, esecutivo, giudiziario... assol. la posizione o l’ente cui fanno capo le attribuzioni dell’autorità politica o amministrativa.
Leggendo la definizione sul vocabolario riusciamo a dimenticarci per un attimo del sovraccarico di emozioni che investe la parola. Per un attimo... Poi, basta soffermarci sui termini utilizzati nella spiegazione, correlati tra di loro, per ritrovarci nuovamente a disagio, preda di tanti interrogativi: consentito, volontà o disponibilità, soggetto. Chi determina ciò che la volontà o la disponibilità consentono al soggetto? Il soggetto stesso? Le vicende che questi si trova a vivere? E in tutto ciò l’altro, colui che in tale agire si trova coinvolto, che ruolo ha? Andando avanti nella lettura le cose non si semplificano. Là dove la facoltà di azione è in relazione alla personalità e capacità giuridica, ci troviamo a meditare sul fatto che se c’è un detentore del potere deve esistere parimenti che questo potere condivide, ma anche chi lo subisce, o chi vi si oppone. E subire ci fa venire in mente il rischio del sopruso, dell’abuso, della
sopraffazione. Sappiamo bene che in ogni azione umana, anche la più nobile, c’è la possibilità della degenerazione. La tutela, il controllo, nelle loro esasperazioni, non possono sottrarre responsabilità al tutelato? L’amore, nei suoi eccessi, non conduce forse all’annientamento dell’amato? Ecco, allora, il punto: il limite o piuttosto l’autolimitazione. Le due cose sembrano strettamente dipendenti l’uno dall’altra. Non ci sono limiti senza condivisioni di regole, pur tuttavia il limite solo nato dalle regole ha una vita grama, sottostà all’autorità non per convinzione e condivisione, ma per acquiescenza e/o interesse. L’autolimitazione diceva Luigi Sturzo è: la caratteristica più elevata di coloro che sentono la libertà e la praticano, perché l’essenza della libertà consiste nel rispetto della libertà altrui e nella possibilità di tutela della propria. Anche don Sturzo, come il vocabolario, e come
di Anna Vinci
ogni vero appassionato di libertà, usava con attenzione e rispetto le parole. La tutela della libertà, egli sembra voler sottolineare, è qualcosa di possibile, ma non certo di scontato. Nulla è scontato in qualsiasi azione umana. Certo non lo è l’esercizio del potere, che mette in gioco profondamente il rapporto con gli altri e tira in ballo le singole coscienze. Infine giungendo alla terza definizione, là dove la parola è usata in modo assoluto, dobbiamo confrontarci con un altro termine carico di significati: autorità. In questo caso specifico il dizionario si riferisce alle attribuzioni dell’autorità politica o amministrativa. Non esiste uno stato democratico senza attribuzioni. E quanto è delicato il sistema della rappresentanza, che è alla base delle attribuzioni; quanti numerosi sono i rischi che minano alla base l’autorità; tutti quegli accadimenti che sottraggono autorevolezza all’autorità. L’autorevolezza è qualcosa che non esiste
assemblee, falsi congressi, finti partiti e finte parole; queste diventano recipienti vuoti e si rivestono di potere taumaturgico, magico che come spiega il vocabolario - è: l’ambito sottoposto all’esercizio di un dominio genrl. incontrollabile: ridurre l’avversario in proprio potere. L’arte alta della politica diventa una grande kermesse, il detentore del potere un illusionista che dimentica, mentendo sapendo di mentire o mentendo anche a se stesso, che non basta dire ripetitivamente cuore per averne uno; non basta dichiararsi discendenti di un padre valoroso e importante per divenire valorosi e importanti; non serve a nulla suonare un inno infinite volte perché l’inno sia realmente l’espressione del legame profondo tra un leader e il suo popolo. Tra i sinonimi di potere troviamo: forza, potenza,
virtù, autorità, influsso, mezzo, modo, balìa, dominio, signoria, pugno, capacità. Il contrario è solo indicato nel termine incapacità. Giocando con le parole una riflessione conclusiva: il segretario di un partito nell’esercizio dell’autorità può finire in balìa del suo desiderio di onnipotenza e fare del partito un dominio personale, utilizzando le sue capacità, professionali e finanziarie, come un mezzo per influenzare, coltivare, esaltare gli istinti demagogici del corpo elettorale, tenendolo in pugno con facili, illusorie, promesse, dimentico che l’esercizio del potere è una virtù difficile da praticare e che l’agone politico non è un campo di battaglia per virtuali duelli medioevali.
P
Potere
una volta per tutte e che non è diretta conseguenza di un ruolo, ma deriva da come il ruolo viene vissuto: servizio alla comunità e non contro o, peggio ancora, distante, indifferente, alle esigenze della comunità, manipolatore delle sue inquietudini e delle sue speranze. Visto che i tempi della grande abbuffata ideologica sono finiti e che nessuna appartenenza da il lasciapassare per la verità, ognuno di noi deve essere all’erta, vigile, consapevole che l’esercizio del potere è una delle esperienze umane più difficili da vivere. Potere, potenza, da che mondo è mondo sono gli elementi portanti dell’identità maschile. L’ebbrezza del potere può facilmente sfociare e anche le donne ahimé non ne sono immuni - nel delirio di onnipotenza e l’onnipotenza è la negazione dell’altro, il deserto , il nulla, sui quali si costruiscono false comunanze, false