l’
Editoriale
Tutti gli uomini sono morti, eccetto quelli che sanno; e quelli che sanno pure sono morti, eccetto quelli che praticano; e quelli che praticano sono tutti ingannati, eccetto quelli che agiscono con sincerità d’intenti; e quelli che sono sinceri si trovano tutti in grave pericolo. (Ibrâhîm Dhû ‘n-Nûn) New York, 11 settembre 2001. Madrid, 11 marzo 2004. Londra, 7 luglio 2005. Il volto dell’Occidente è un volto rigato di sangue. La pace dei governi è la tregua di sangue dei popoli. Nelle strade delle città si continua a morire di questa pace. Ognuno di noi è un ostaggio nelle mani dei signori della guerra infinita. Condannati a vivere nell’inverno del rischio planetario, merce di scambio per armi e petrolio, il nostro sangue e quello dei nostri figli è moneta facile per i fabbricanti di morte. Le nostre vite sono un effetto collaterale del consolidamento del mercato ad Oriente. La dimensione del sacro sopravvive solo nel consumo – a chi ha, sarà dato, a chi non ha, sarà tolto –, asservita alla legge del profitto globale e contrabbandata come “fatale” scontro di civiltà. In questo deserto di parole, l’uomo contemporaneo ha perduto da tempo le variabili culturali tradizionali di identificazione, cancellate dal perenne spettacolo delle merci. Solo con il contributo delle merci l’uomo può trovare una propria collocazione nel mondo. Solo l’inganno della merce può restituirgli per un attimo l’illusione di essere vivo. Un grande eretico della letteratura e del cinema del Novecento ha scritto: “il corpo è una terra non ancora colonizzata dal
potere”. Nessuno ha compreso e denunciato la grande mutazione dei nostri tempi come Pier Paolo Pasolini. Nessuno più di lui ha pagato la “cattiveria del nuovo” sulla propria pelle. Nel cinema pasoliniano, prima ancora che in letteratura, la poetica del corpo ferito è il sacro sostentamento di ogni libertà negata. È il Dio fucilato di ogni speranza di libertà. È il senso profondo del percorso del poeta friulano che Altroverso pubblica nell’inserto speciale di questo numero, tratto in anteprima mondiale dall’opera The New Youth, che verrà pubblicata il prossimo anno negli Stati Uniti da Green Integer Press a cura di Luigi Bonaffini. “Contro tutto questo voi non dovete far altro (io credo) che continuare semplicemente a essere voi stessi: il che significa essere continuamente irriconoscibili. Dimenticare subito i grandi successi: e continuare imperterriti, ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi col diverso, a scandalizzare, a bestemmiare”, ha scritto ancora Pier Paolo Pasolini in quello che sembra un folgorante manifesto/testamento per la letteratura occidentale. Ma quale letteratura può mai generare l’Occidente dei consumatori predestinati? Una letteratura–merce, naturalmente, da festival letterario nazional-popolare. Una letteratura venduta a Francoforte un tanto per ogni colpo di spazzola, una letteratura fatta di emozioni para-televisive. Una letteratura “semplificata” e circolare, che si nutre delle tautologie del genere poliziesco, per esempio. “Il romanzo d’indagine poliziesca, con la sua semplice dinamica - omicidio, indagine, scoperta e punizione del 1
colpevole - acquieta illusoriamente la nostra ansia, la paura del vivere in questa nostra civiltà”, afferma Vincenzo Consolo. Dunque, una letteratura sterilizzata, “disinfettata” dall’angoscia quotidiana, anaffettiva e anacronistica. Una letteratura dal cuore freddo che pretende di risolvere il male di vivere semplicemente rimuovendo la storia dal suo luogo di azione, trasformandosi in questo modo in un non-luogo, omologato ai non-luoghi del consumo planetario. Una terra di nessuno battuta dai venti di guerra per il consumo universale. E quale poesia può partorire la generazione televisiva, per definizione incapace di pensare (e di leggere)? Una poesia–merce a buon mercato, naturalmente, autoreferenziale, esausta e disoccupata. Una litania fraudolenta, da circo mediatico, da ascoltare possibilmente nello scantinato della confraternita. Un verso che fa il verso a sé stesso, una grottesca parodia da “poeti a duello”. Regredita alla fase anale della letterina al caro estinto, la post-poesia di oggi non rinuncia a scatarrare giudizi critici sommari sulla poesia novecentesca. E i suoi tristi pruriti di protagonismo generazionale sono sdoganati dalla “letteralità” di riviste e rivistine e convertiti in brand editoriali (di non largo consumo) dalla connivenza un po’ mascalzona del clero “antologizzatore”. Alla fine il prodotto editoriale resta pur sempre una poesia zombie, da cassetto dei ricordi. Una poesia filo-governativa e vaticano-centrica che ha dimenticato il valore della vita e il senso della morte. Una poesia bulimica, sazia di tutto, che abita il Nord del mondo e non ha alcun interesse per la ricerca della bellezza. Una poesia anoressi2
ca, che vomita di tutto, dileggiando proprio quei pochi che hanno consumato le loro esistenze in una tensione dolorosa verso la poesia. Una poesia dello sterminio (di chi legge). Eppure noi uomini morti e sinceri del deserto di Ponente non possiamo non condividere la speranza di Antonella Anedda, quando scrive che “forse noi non esistiamo che per imparare l’alfabeto dei morti e per raggiungerli non appena saremo in grado di parlare la loro lingua”. Una lingua che restituisca il senso della morte e la superi nella poesia. Una lingua che si fa poesia perché si prende cura del dolore dell’uomo. Una lingua che si fa universale perché è la lingua dell’Occidente in stato di assedio. La lingua della poesia di Notti di pace occidentale, di Antonella Anedda: “Se ho scritto è per pensiero/ perché ero in pensiero per la vita/ per gli esseri felici stretti/ nell’ombra della sera/ per la sera che di colpo crollava sulle nuche./ Scrivevo per la pietà del buio/ per ogni creatura che indietreggia/ con la schiena premuta a una ringhiera/ per l’attesa marina – senza grido – infinita”. La lingua dei Cori che Antonella Anedda ha scritto per Altroverso. Una lingua tanto più luminosa quanto più vicina alla notte della vita. Una poesia che oggi in Italia, forse non a caso, è quasi esclusivamente declinata al femminile e canta sul gracidio generale delle consorterie. Poche, pochissime le voci che hanno qualcosa da dire. Ma in queste voci può succedere ancora, come ha detto Mario Luzi, che la poesia viva della sua morte. Gli autori
Guido Carminati
1. Letteratura e impegno civile
l’uomo che sparò sulla folla
bisognava che lo facevo tutto qua…e poi un pedone in più o in meno sulla dannata terra cos’è che cambia? cos’è che sono gli uomini in definitiva? bastardi maledetti bastardi che pensano ognuno alla loro sporca trippa come me sì anch’io per questo l’ultimo tuono lo tengo per me…razza bastarda quella degli uomini ne so qualcosa…Anita ci aveva solo nove anni quando me l’hanno ammazzata sporche carogne…uno sbaglio dicono uno sbaglio cose che succedono dottori di merda…ma non c’entra Anita è che mi andava tutto qua «Chi era?» «Certo William Christopher Tourner di Helena, Arkansas. 33 anni, lavorava in un garage. Reduce di guerra.» «Ci risiamo…» non c’entra mica sta storia è che mi andava di tuonare e colpire non capisce chi non ha provato è come che tutto comincia ad avere un senso tutto ti si pialla e nelle tue mani che si pialla e subito
ti togli un’oppressione feroce dalle budella dalla testa e quando che premi il grilletto scatta anche in te una pace che dura poco ma è una pace vera e respiri ti pare di respirare che puoi allargare le braccia finalmente Santo Iddio come quando chiavi di santa ragione e ti sparisce ogni grana va a farsi fottere anche lei come te e dove tuoni colpisci non ci sono santi li buchi davvero…non li volevo far penare…ho cercato di colpire giusto…volevo farli fuori subito ammazzare non sono mica un sadico «Mandate al diavolo quei fottuti giornalisti rompicazzo… (razza di iene…)» prima ci hai una furia dentro che non ti può fermare niente e ti va dappertutto dai piedi alla cima dei capelli e dopo che hai colpito ancora di più non puoi fermarti e tu sei fuori di te come che finalmente ti sentissi libero e sarò pazzo furioso li sento già cosa dicono tutti al diavolo un bastardo pazzo furioso va bene sputatemelo in faccia non sapete voi cos’è per una volta ti prende una furia e ti senti nudo nudo e libero come un bambino che la fa sul prato «Aveva una mitragliatrice RPD (neanche il solito Kalashnikov…), una Mauser (un fissato!) e la Walther PI con cui s’è fatto secco.» sempre intrippato per le cattive qualcosa che finalmente funziona cazzo
Letteratura e impegno civile - l’uomo che sparò sulla folla
«Precedenti?» «Roba da poco. Codice della strada. Un paio di risse… pare nient’altro.»
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Guido Carminati
qualcosa che ti puoi fidare e fa quello che deve fare e poi tenerle in mano le carichi le monti come che ti attendessero senza sbattimenti senza dubbi senza ma forse può darsi mio padre ci aveva un fucile da caccia e una pistola mi ricordo la prima volta che sentivo nelle mani quella Smith and Wesson pesante solida lustra il mio vecchio ride ci piaceva anche a lui le armi sapeva sparare e sapeva tenerle in ordine è inutile che tieni un’arma che non sai ingrassarla pulirla come dio comanda è lui il mio vecchio che mi ci ha insegnato a sparare la domenica quando era meno sbronzo del solito mi caricava sul suo Bedford scassato e mi portava all’ex macello fuori mano è lì che ci ho sentito per la prima volta cos’era tuonare c’hai un ferro carico in mano era bello sentivi che non eri mica solo poi nell’inferno imparo a tuonare sul serio c’hai un M16 o un Car15 d’assalto mica è la stessa cosa le armi da guerra sono diverse ce la senti la loro cattiveria non sono mica fatte per tutti sono per chi tuona e basta
Letteratura e impegno civile - l’uomo che sparò sulla folla
«Salve Ron!» «Ehi Charlie! Come ti va?» «Non c’è male… no grazie cerco di farne a meno.» «Io invece ne fumo a raffica… e Christy come sta?» «Meglio, meglio… l’aria di montagna le fa bene.» «…ci vorrebbe anche a me un po’ d’aria pulita…» «A chi lo dici!»
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ci senti la voglia che hanno di fare a pezzi tutto quanto gli si pianta davanti ce la senti anche solo a guardarle sono loro a tuonare mica tu le guardi le prendi e poi ti portano sono loro non ci puoi far niente ti danno quella loro strana pace di un momento…Ruchnoi Pulemyot Degtyaryev 7e62 9kg. carico caricatore a tamburo da 100 colpi alimentazione a gas di recupero cadenza di fuoco 700 colpi al minuto velocità iniziale 732m. al secondo «Non ha scherzato eh!?» «Già! E questi non sono mica tutti. Ne ha sparsi per via un’altra mezza dozzina.» «Mai vista una cosa simile…» «Una volta. Tanti anni fa… Ma non così. E poi c’erano dei motivi. Qui non si capisce nulla. Ha sparato a caso.» bisogna sempre che ci abbia un senso quello che fai!? cazzo! non lo so per dio! non lo so! mi mancava il respiro! sì! tutto qua! mi mancava proprio non respiravo il respiro da soffocare da crepare come che ti strangolano come che strafogassi nella merda…ti opprimono ti opprimono lo giuro! uno sull’altro addosso appiccicati e sempre di più e non sai perché non capisci che ci stiamo a fare a che serve tanta gente che nasce pena crepa e sempre di più
Guido Carminati
e peggio è il mondo e più ne nascono dev’essere questo per questo che mi fa sparare non respiri…a tutti gli pare gran cosa esistere in questo porco mondo gli pare alle donne di fare gran cosa a metterne al mondo un altro uguale agli altri che farà la stessa fine…dev’essere questo «L’avete preso?» «Sì, cioè no… pare che sempre sparando come un forsennato si sia rifugiato dentro quella scuola vuota, intanto siamo arrivati, abbiamo circondato l’edificio, gli dici di non fare altre scemenze e di uscire fuori…» Quanti saranno trenta? quaranta? sessanta!? ne arriva una diarrea in divisa in borghese di tutte le razze c’è perfino un manichino della forestale tutti per me che spreco manca solo l’esercito (…in testa in bocca o al cuore?)
«Mi senti?… Non hai scampo! Getta le armi e vieni fuori con le mani alzate. Nessuno ti torcerà un capello.» …tra un po’ lo chiamano…uscire come un fesso finire in una marcia galera e magari pentirsi prima di crepare…non datevi troppo disturbo ci penso da me a togliermi dalle palle «Ascoltami! Sei circondato… È tutto finito… Vieni fuori.» …non la tiro mica per le lunghe solo ancora un po’ quest’ultima commedia fumandomi l’ultima canna... (…in bocca ti arriva dritta dritta al cervello non c’è scampo…)
…e vada allora…
«Dopo un po’ che siamo lì senti un colpo a qualcuno saltano i nervi comincia a sparare poi un altro, sai come succede, prima dell’inferno riusciamo a fermare tutto… beh, a farla breve, s’era tirato un colpo senza tante cerimonie.» a Slide Corner! erano tanti là fuori incazzati duri da far paura mi ricordo mica per che ostia cattivi fino ai denti…da gelarti le budella…fionde cerbottane Jim aveva una sputasassi da far paura…beh cazzo si giocava con quel che si aveva non è mica come adesso che a sei anni c’hai già la trinciatrippe ma quella volta li ho fatti fessi tutti è che conoscevo quella marcia fabbrica come le mie tasche c’è un buco che mi sa conosco solo io vai per la
Letteratura e impegno civile - l’uomo che sparò sulla folla
(…al cuore rischi che sbagli rischi che te la pigli in culo un’altra volta no e anche in testa ti può andar male)
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Guido Carminati
rampa su per la torre mi fiondo fuori e non mi sgamano mica gliel’ho fatta sotto i bulbi a quei fessi «No no. Lascia pure così. Puoi andare, torno con Rodney… sì… ciao.» «Beh vado a fare il mio spiacevole dovere. Ciao Ron!» «Ciao vecchio. Stammi bene.» «Anche tu!» «Salutami Christy. Digli che respiri anche per me.» «Ci puoi contare. Ci vediamo.» non dovevo sparare mica per respirare a quei tempi che mi bastava correre tirar le pietre alle vetrine…magari darle o prenderle di santa ragione…
Letteratura e impegno civile - l’uomo che sparò sulla folla
«Allora che mi dici di Triggairy Street?» «Quattro sono morti, a uno ha quasi staccato la testa, due feriti e un altro sotto choc… pare se la sia cavata per un pelo.» «I feriti possono parlare?» «Uno no… ha un polmone trapassato, difficile se la cavi… l’altro… ferito a un braccio.»
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prima dei dodici tredici mai avuta una cattiva mia poi una 22 cinese tutta la grana messa via lavando i gingilli dei siuri grazie a Fatafat che ti rimediava un B52 basta che ci avevi la paglia non era un gran che ma faceva la sua figura in mano a un pidocchietto poi ce l’ho data dentro e ci avevo una Star 7e65 a tamburo che è già una cosa seria…per vedere l’effetto su un cagasotto la dura a Pine Bluff c’è andata liscia ma poca grana ma mica c’avevo voglia di far secco nessuno allora macché era scarica perfino ci godevo a tenerla in mano a tirarla fuori per fifare i cagasotto far tirare la cosina alle trippette mica altro come che ci hai un 8V a valvole in testa sotto le chiappe «Adesso fammene una a questo qui… così… bene… una alla scuola che si veda tutta…» chissà quanti ne ho fatti secchi…strillavano scappavano via da tutte le parti come schegge di granata…certi li avrò conciati male…come facevo?! scheggiavano dappertutto!…mica li ho contati li vedevo appena…qualcuno mi stava a culo!?…mi voltavo e tuonavo non c’era mica…li vedevo appena…c’ho in testa un viso solo chissà di chi mi pare che avevano tutti sto viso qua che c’ho in testa… «La faccia di questo l’hai fatta?… OK. Ora prendi i tuoi pennelli che facciamo il ritratto al nostro uomo.»
Guido Carminati
neanche mi son fatto la barba non sarò granché quando che mi stampano…stan meglio le mie cattive lustre lustre ingrassate come dio comanda si vede che ci ho cura vanno meglio loro in prima pagina…e poi è giusto l’han fatto loro il putiferio…toh guardale qua…come che non fosse affar loro…pronte a farne magari anche di peggio magari per qualche buona causa…fottuta…a loro gliene sbatte sia buona o cattiva sono i meglio soldati di questo mondo…al massimo distinguono che è colpo singolo o raffica ci hanno un’altra dimensione delle cose…meno sentimentale non ero mica sicuro di farlo me lo sognavo di notte per avere aria è stato come in uno di quei sogni mi vesto preparo tutto vado fuori prendo la macchina e poi mi pare di non averne più di aria di soffocare smonto e tuono tuono e respiro e fuoco fuoco dappertutto che mi fa respirare mi va nei polmoni mi sale al cervello e bevo bevo quel fuoco quell’aria la gente cade ma il fucile non smette tuona non sono io è lui lui che vuole respirare anche lui e sputare tutto quello che c’ha in corpo fino all’ultimo veleno…chi mi sta a culo!? come da piccolo c’era sempre qualcuno che mi stava a culo mai avuto tregua mai un po’ di tregua e sempre meno aria meno aria…rapido un attimo…anche per me…tutto lì in quel punto dove c’è tutto…un attimo il click che ti balza e arriva in alto fuori da tutto dentro tutto…non senti niente e senti tutto…non gli va di partire l’avviamento in tilt o la batteria o un motore fottuto andato e ci provi a farla partire ma non c’è verso sempre nel cervello sto avviamento lagnoso che ti fa crepare ti manda in bestia non c’è verso ti sfotte e si gode che t’incazzi…gnagnagnagnagna da crepare…pensare cos’è la mia 98 tirata lustra altro che gnagnagna subito canta che è uno sballo…solo a vederla…romba di luce… …che strano freddo… nelle ossa… freddo luce crepare rapido tregua fuoco sparo e respiro…sogni… E vada allora
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Stefano Calzi
2. Impegno civile e letteratura
tecnocrazia del lutto Propaganda 2005
Nel 1978 – con le stesse Forze Armate sotto controllo o influenza della loggia Propaganda 2 – si ha la ristrutturazione dei servizi segreti italiani. Alla P2 di Gelli appartenevano i generali Santovito e Grassini, assegnati rispettivamente a Sismi e Sisde. Santillo non era iscritto alla loggia, e venne infatti trasferito da capo dell’Ispettorato Antiterrorismo a vicecapo della Polizia. Tutti i suoi uomini – circa 600 – furono assegnati ad attività non informative. Siamo pochi mesi prima dell’omicidio Moro. È solo nei primi anni ’90 che si scopre che molte società fantasma con sedi in appartamenti di Via Gradoli 96 facevano diretto riferimento al Sisde e agli Interni. Via Gradoli – come ormai tutti sanno – era il centro operativo delle cosiddette Brigate Rosse durante il sequestro Moro.
Impegno civile e letteratura - propaganda 2005
Quel tragico momento della nostra storia non rappresentò affatto il tentativo di bloccare la fase tre del progetto dello statista democristiano – il compimento dell’integrazione politica del PCI da regionale a nazionale -, ma l’esatto opposto: disintegrare i quadri combattivi, libertari e alternativi della ‘grande sinistra’ nel consociativismo indifferenziante, acritico ed impolitico. Una maggioranza di vago unitarismo nazionale e nessuna opposizione.
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Oggi viviamo in una macrocultura che in quegli anni ebbe origine. Macrocultura non è solo induzione di massa e condizionamento mediatico. È conlocamento delle microculture che inevitabilmente vengono a prodursi. Queste, infatti, non vengono emarginate o esautorate, bensì forzate alla scelta di campo - o con o contro, o filo o anti. Forzate quindi o alla proposizione o alla contrapposizione – e in entrambi i casi variabili dipendenti della macrocultura, che necessitano della macrocultura per esistere. Il salto di qualità nella gestione politica del dissenso nei tre momenti topici del ‘900: dalla scomposizione delle avanguardie operaie della Ruhr (Weimar) al capitalismo ‘inglobante’ (anni ’70-‘90) all’odierna globalizzazione non integra ma integrale, che non integra ma integralizza. Ma questa macrocultura è soltanto faccia e filiazione della crisi del mercato e la crisi di questo mercato necessita di microculture collocabili pro o contra ponentisi. Lo sviluppo liberista in questo momento storico non procede per azioni ma per reazioni: più ‘selvaggio’ lo sviluppo più ‘radicale’ la resistenza usufruibile. Macrocultura è il prodotto che produce economia rendendo commerciabile la fondamentalizzazione di integrati e disintegrati. Una volta definito il prodotto-utente, questi fruisce la fruibilità. E come l’inutile divie-
Stefano Calzi
ne utile così il contrapposto diviene propulsore. Collocabilità e quindi gestione dell’esistente procede solo per espansione – è gestione dell’espandibile. Essendo vuoto teorico, trae alimento dalle opposizioni che incontra. Vi si oppone e drammatizza il conflitto. Quasi tutte le microculture stanno al gioco: contrapposizione (statica e speculare) in luogo di antagonismo (dinamico-progettuale e quindi ‘fuorviante’ – variabile indipendente). Interazioni, interlocuzioni si hanno dunque solo con linguaggi contrapposti e cioè derivati, governabili. Prodotti riproducibili. L’odierno proliferare di neologismi mostra solo la miseria critica dei ‘nuovi linguaggi’ e l’inattaccabilità del Glossario intorno al quale danzucchiano riverenti metavanguardismi.
Ora – come si rende commerciabile il prodotto macrocultura? Perché è questo il punto. Si pensi a quante volte nei media e negli spot televisivi ‘passano’ le parole “sicurezza” e “protezione”. E le parole passano perché non ascoltate – perché recepite subliminalmente nelle case che al posto del camino hanno il televisore, quasi sempre acceso, sottofondo, amabilmente scoppiettante e ormai ‘centrale’. Ora - qual è il modo migliore per instillare insicurezza e paura? Quello di ripetere sicurezza e protezione. Presupposto dell’aumento delle vendite è l’aumento della richiesta di consumo. Il prodotto-protezione è oggi bene di consumo quanto il prodotto-terrorismo. E qual è lo scopo del prodotto-terrorismo? Disgregare le libertà collettiva e individuale in frammenti sparsi e fragili. Per vendere il prodotto-protezione. Internet rappresenta la mondializzazione dei frammenti sparsi e fragili nel disciolto, nel solubile. Internet è inoltre il ‘sublimato’ dei processi – virtuali e non - di scomposizione sociale, ovvero dell’annichilimento della volontà di potenza di soggetti
Impegno civile e letteratura - propaganda 2005
Le microculture antagoniste sono - per dire - l’open source (la sorgente aperta) di fronte all’indotto Microsoft (il monopolio sta nell’indotto): il sistema operativo è ‘stabile’ se stai nella catena di produzione. Ma l’indotto non è globale perché è ‘sicuro’ e ‘protettivo’ – è sicuro e protettivo perché globalizzato. Eppure, questa macrocultura sarebbe vulnerabilissima: il progetto Propaganda 2 implica il totale accentramento organizzativo nel governo, nell’amministrazione centrale. Nulla di diffuso, ma una diffusione da un punto isolato e isolabile.
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Stefano Calzi
organizzati mediante la loro dissoluzione in un generico movimentismo amebico. Quanto più i soggetti disciolti vorranno libertà come voler-potere, tanto più si aggrumeranno loro contro le agglomeranti sicurezza-protezione. Questo ‘bisogno’ indotto-introiettato per funzionare deve essere insolubile. E per essere insolubile, irrisolvibile, deve essere pro-vocato dal terrore – dal terrorismo. I devastanti vuoti sociali fisiologici al sistema economico liberista si coprono col tappeto di foglie del Prodotto-Sicurezza/Protezione, che per essere commerciabile ed esportabile esige terrore. È variabile dipendente della proliferazione planetaria del terrore. Come il prodotto-antivirus dipende dalla proliferazione dei virus.
Impegno civile e letteratura - propaganda 2005
Torniamo al 1978. La ristrutturazione dei servizi segreti in funzione Propaganda 2 fu tutt’altro che mera manovra di vertici. A infornate di ‘funzionari’ piduisti corrisposero vere e proprie ‘retate’ a tappeto di reclutamento di manovalanza nelle sacche morte dei reduci del 77. Nel triennio 74-77 si ebbero cellule eversive con due peculiari proprietà: l’eterogeneità politico-culturale omologata in un impazzimento teorico, e il totale scollegamento organizzativo nel quale lavorava il totale collegamento operativo di agenti infiltrati. Col 77 si ha – in Italia – un vasto e profondo crollo ideologico che coinvolge e sconvolge anche i già precari squilibri teorici che avevano mischiato le idee-forza ‘destra’ e ‘sinistra’ nel crogiuolo dei disciolti ego infranti.
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Nel vuoto ideologico cresce il fondamentalismo. E cioè appunto un ritorno alle basi ‘bioetiche’ dell’essere-al-mondo – un soddisfacimento di bisogni corporali. Nasce nell’assenza di valori – nega il valore negato. È lutto ‘invalido’, inabile a scindere valore da valutato. È postmoderno: ridefinizione orgiastica del lutto. Il fondamentalismo italiano cresce nell’edonismo e nel culto della persona/personalità interagendo con le varie fasi di attuazione del progetto P2 e le varie fasi di sviluppo del capitalismo ormai soltanto libero mercato sempre più ‘selvaggio’ (bioetica dell’ego ricostruito) in cui la concorrenzialità produce oligopolio. L’oligopolio cresce in vasi comunicanti - economia, politica, cultura. Affinché funzioni il nesso Sicurezza-Protezione/Terrorismo, i punti di riferimento degli sparuti e impauriti ‘cittadini’ (ormai “utenti terminali”, “final users”) devono essere pochi e ‘fondamentali’. Affinché i fondamentalismi planetari esistenti risultino molto più pericolosi e diffusi di quanto non siano in realtà occorre che l’antifondamentalismo divenga integralista e liberticida. Il Prodotto-Sicurezza/Protezione deve poter uccidere le
Stefano Calzi
libertà civili con il consenso e la delega della massa massificata. Esempi eclatanti li abbiamo, non a caso, in USA e in Italia. L’abominevole Patriot Act – isteria totalitaria e psicosi collettiva che va dai bimbetti intonanti il giuramento di fedeltà alla Patria prima delle lezioni agli incredibili poteri preventivi e repressivi polizieschi al nuovo calendario che ci vorrebbe tutti nell’Anno Quarto D.T. (dopo torri). La tragicomica campagna antifumo col naturale indotto di organizzazioni salvifiche che ti telefonano a casa. Per decenni si è parlato di polveri ossidi e benzene, ma questo non ha indotto masse ad arricciar le nari o ad annusare abiti. Nemmeno la precedente bordata antipedofila coinvolse così tante solerti coscienze. Perché? Perché quella antifumo è successiva. Nient’altro. Ma come può la letteratura cadere vittima di questo oligopolio culturale che fa del terrorismo uno strumento affinché i bisogni di sicurezza e protezione siano sentiti dipendenti dalla rinuncia alle libertà?
Minaccia e assedio danno luogo a reazioni paranoidi. Ma siamo all’ultimo passo: sarebbe del tutto improduttivo aizzare contro un ‘terrorismo’ localizzato geopoliticamente, specifico e identificato. Il mostro fa paura se invisibile. Se generico, potenzialmente onnipresente, potenzialmente in agguato ovunque, se è la signora della porta accanto o la…rivista del portale accanto. E se la rivista del portale accanto non fa poi così paura, sicuramente prima o poi finirà col ‘fiancheggiare’ il mostro e se il tuo bel bimbetto ti salterà in aria sotto il naso un po’ di colpa l’avrà anche il poeta che ha usato parole ‘inopportune’, ‘inadeguate’, ‘ambigue’. Alla fine, si ha il grottesco. Un grottesco connubio di liberismo onnimercificante e tecnocratico che fa l’economia e una conservazione integralistica e moraleggiante che fa la cultura. E mentre viene chiuso un sito di storia dell’arte perché ospita…”Leda e il cigno”, esce l’ennesimo videogame espandi-conquista-impera. L’entrata ludica è
Impegno civile e letteratura - propaganda 2005
Attraverso la scomposizione e ricomposizione mediatica dell’informazione. Se vuoi disinformare metti in circolo esubero di informazioni. Se vuoi disinformare inonda di ben comprensibile, forma un eccesso di nozioni bene assimilabili, dati, news, il tutto disciolto nel flusso mediatico. Poi coagula quanto basta perché la notizia buchi il video o l’audio. La notizia può essere, ad esempio, che il regime iracheno è coinvolto nell’attentato alle torri. Quasi il 90% degli statunitensi lo credette. Un eccellente atto terroristico per formare terrorismo.
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infatti il logico complemento di quella subliminale. Il progetto P2 dice immagine ma intende subliminale. E subliminale è anche rendere ‘normale’ che uno spot sia del tutto altro dal prodotto pubblicizzato. Togliere connessione è reclamizzare la merce in sé e feticizzare il mercato in quanto tale – si compra l’acquisto.
Impegno civile e letteratura - propaganda 2005
Ora – possiamo parlare di cultura globalizzata. Perché ‘cultura’ è oggi ‘morale’ e morale è insieme di usi e costumi che fanno ‘comunità’ come somma aritmetica di ‘accomunati’ integrati. Ora – qual è il prodotto essenziale all’economia liberista? Il consumo. E per produrre consumo si devono produrre consumatori. Questi devono infine poter usufruire di tempi di produzione accelerati e di grande quantità di prodotti dequalificati e rapidamente deperibili. Ma questa cinghia trasmette se e soltanto se il processo è esteso alla vita sociale e culturale. Il ridicolo è che l’attuale economia di mercato pone in atto Marx, mentre le ‘alternative’ al sistema liberista dichiarano il sistema liberista ineluttabile o vi si oppongono specularmente, confermandone così l’ineluttabilità.
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L’utente terminale consuma il prodotto-vita, dal tempo di produzione accelerato e dalle componenti di breve e ricambiabile fruibilità. Una grande quantità di dequalificato, rapidamente deteriorabile consumo. I ritmi della produzione determinano i ritmi della vita, la circolazione di monete e idee, vendere e comprare per vendere. La parola-moneta passa di mano in mano in un tintinnante, epidermico chiacchiericcio. L’esperienza è un onnivoro assaggio nevrotico che riempie il carrello, ma appena piluccata una scelta una nuova scelta si impone. Cultura è quantità di informazioni per quantità di utenti. L’omogeneità dell’informazione fa la somma aritmetica degli integrati. Ma la strategia globale di cui P2 è la faccia italiana non agisce, oggi, per integrare in consenso ma per disintegrare in dissenso. Obiettivo primario è la criminalizzazione del dissenso in terrore, obiettivo immediato è la produzione e vendita dell’antivirus da aggiornare quotidianamente perché si sa che 400 buontemponi sfornano quotidianamente un nuovo virus. E la sicurezza è protezione. E la protezione è prevenzione. Due - ormai - sono i cardini della sopravvivenza di questo ‘ineluttabile’ sistema capitalistico: terrorismo e guerra preventiva al terrorismo. E quindi – terrorismo preventivo. Superfluo disquisire su quanto i media visivi possano agire al riguardo. Determinante invece considerare come abbiano agito per poter agire oggi al riguardo. Compendio al subliminale è la continuità della quantità dequalificata. La qualità, infatti, devierebbe il fruitore dall’omogeneo flusso che assimila geneticamente, che forma ghenos.
Stefano Calzi
L’occidente atlantico si viene a riconoscere, a ‘riappaesare’, in microvalori che sommati danno macrocultura come collettività identificantesi ad excludendum. La risata registrata, l’applauso a comando, enfatizzano il luogo comune tanto più uniformante quanto più banale, quotidiano. È l’insieme di microvalori a cooptare, a coalizzare. Non si è mai avuta ‘crisi dei valori’, ma loro riduzione a riflesso, a reazione biochimica. Grave errore è stato – ed è – non comprendere che la tv-spazzatura va appunto a frugare fra i nostri rifiuti. E cosa c’è di più intimo dei nostri rifiuti? Quindi, in sintesi, in un sistema di microvalori il subliminale deve agire a livello percettivo basso e stabile – la tv-caminetto – per produrre macrocultura, per impennarsi poi nel momento ‘adrenalinico’ in breaking new. I microvalori costantemente diffusi e diluiti nell’organismo vengono stimolati a reazione dallo scarto allarmistico del ‘notiziario’, che è solo insieme di punti di coagulo. L’informazione è già presente al momento dell’atto informativo. L’informazione è gestione sistemica del microvalore.
Al di là dei più o meno sottili distinguo su ‘globalizzazione’ e ‘mondializzazione’, oggi abbiamo mera omologazione. E non si dica che “un altro mondo è possibile” – non si legittimi così questo mondo, questa monocultura continuando a parlare al singolare di quel mondo.
Altri mondi non sono possibili: ci sono già.
stefanocalzi@tiscali.it
Impegno civile e letteratura - propaganda 2005
La storia dell’ultimo trentennio è stata la progressiva cementificazione di assemblaggi di corpi bisognosi. Ma il corpo bisognoso, e quindi carente, trasforma eros in lutto e lutto inelaborabile in quanto strutturante il bisogno. È questo il circolo vizioso nel quale penetra come in burro il prodotto sicurezza-protezione. E nel corpo malato di paura di ammalarsi la stessa prevenzione diviene malattia. La mediaticissima tragedia delle torri ha innescato il sempre più ossessivo ricorso a grotteschi catastrofismi. Questa ennesima strategia del terrore ci mostra un sistema non economico ma economizzante, che a fatica ha superato la soglia del nuovo millennio e altro non può che elaborare tecnocrazia del lutto.
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IL DIO FUCILATO
Pier Paolo Pasolini Traduzione di Luigi Bonaffini
l.bonaffini@att.net
Pier Paolo Pasolini
Luigi Bonaffini
Il nini muàrt
The Dead Boy
Sera imbarlumida, tal fossàl a cres l’aga, na fèmina plena a ciamina pal ciamp.
Luminous evening, the water swells in the ditch, a pregnant woman walks across the field.
Jo ti recuardi, Narcís, ti vèvis il colòur da la sera, quand li ciampanis a súnin di muàrt.
I remember you, Narcís, you had the color of evening in the mournful toll of the church bells.
Il fanciullo morto
Sera luminosa, nel fosso cresce l’acqua, una donna incinta cammina per il campo.
il Dio fucilato
Io ti ricordo, Narciso, avevi il colore della sera, quando le campane suonano a morto.
II
Pier Paolo Pasolini
Luigi Bonaffini
Ploja tai cunfíns
Rain at the Edges
Fantassút, al plòuf il Sèil tai spolèrs dal to país, tal to vis di rosa e mèil pluvisín al nas il mèis.
Young man, the Sky rains on the fireplaces of your town, on your face of rose and honey the month is born in clouds.
Il soreli scur di fun sot li branchis dai moràrs al ti brusa e sui cunfíns tu i ti ciantis, sòul, i muàrs.
The smoke-darkened sun burns you under the spread of the mulberry grove and alone, at the edges, you sing of the dead.
Fantassút, al rit il Sèil tai barcòns dal to país, tal to vis di sanc e fièl serenàt al mòur il mèis.
Young man, the Sky smiles on your town’s balconies on your face of blood and bile the month dies serenely.
Pioggia sui confini
Giovinetto, piove il Cielo sui focolari del tuo paese, sul tuo viso di rosa e miele, nuvoloso nasce il mese.
il Dio fucilato
Il sole scuro di fumo, sotto i rami del gelseto, ti brucia e sui confini, tu solo, canti i morti.
III
Giovinetto, ride il Cielo sui balconi del tuo paese, sul tuo viso di sangue e fiele, rasserenato muore il mese.
Pier Paolo Pasolini
Luigi Bonaffini
Ciant da li ciampanis
The Song of Church Bells
Co la sera a si pièrt ta li fontanis il me país al è colòur smarít.
When evening sinks inside the fountains my town has a bewildered hue.
Jo i soi lontàn, recuardi li so ranis, la luna, il trist tintinulà dai gris.
I am far away, I remember its frogs, the moon, the crickets’ sad quiver.
A bat Rosari, pai pras al si scunís: jo i soj muàrt al ciant da li ciampanis.
The sound of Vespers dies out in the fields: I am dead to the song of the bells.
Forèst, al me dols svualà par il plan, no ciapà pòura: jo i soj un spirt di amòur
Stranger, do not fear my soft flight across plains: I am a spirit of love
che al so país al torna di lontàn.
coming back to his town from afar .
Canto delle campane
Quando la sera si perde nelle fontane, il mio paese è di colore smarrito. Io sono lontano, ricordo le sue rane, la luna, il triste tremolare dei grilli. Suona Rosario, e si sfiata per i prati: io sono morto al canto delle campane.
che al suo paese torna di lontano.
il Dio fucilato
Straniero, al mio dolce volo per il piano, non aver paura: io sono uno spirito d’amore,
IV
il Dio fucilato
Pier Paolo Pasolini
V
Luigi Bonaffini
Vuei a è Domènia
Today is Sunday
Vuei a è Domènia, doman a si mòur, vuei mis vistís di seda e di amòur.
Today is Sunday, tomorrow we die, I’m dressed today in silk and love.
Vuei a è Domènia, pai pras cun frescs piès a sàltin frutíns lizèirs tai scarpès.
Today is Sunday, young boys run loose with fresh feet on the grass weightless in their shoes.
Ciantànt al me spieli ciantànt mi petèni. Al rit tal me vuli il Diàul peciadòur.
Singing before my mirror singing I comb my hair. The sinful Devil’s sneer laughs in my eye.
Sunàit, mes ciampanis, paràilu indavòur! Sunàn, ma se i vuàrditu ciantànt tai to pras?”
Ring on, my churchbells, and drive him out! “We’ll ring, but what is it you look at when you sing in your meadows?”
I vuardi il soreli di muartis estàs, i vuardi la ploja li fuèjs, i gris.
I look at the sun of dead summers, I look at the rain the leaves, the crickets.
I vuardi il me cuàrp di quan’ch’i eri frut, li tristis Domèniis, il vivi pierdút.
I look at my body of when I was a boy, the unhappy Sundays, the life gone by.
“Vuei ti vistíssin la seda e l’amòur, vuei a è Domènia domàn a si mòur”.
“You’re dressed today by silk and love, today is Sunday, tomorrow we die”.
Pier Paolo Pasolini
Luigi Bonaffini
Oggi è Domenica
Oggi è Domenica, domani si muore, oggi mi vesto di seta e d’amore. Oggi è Domenica, pei prati con freschi piedi saltano i fanciulli leggeri negli scarpetti. Cantando al mio specchio, cantando mi pettino. Ride nel mio occhio il Diavolo peccatore. Suonate, mie campane, cacciatelo indietro! “Suoniamo, ma tu cosa guardi cantando nei tuoi prati?” Guardo il sole di morte estati, guardo la pioggia, le foglie, i grilli.
“Oggi ti vestono la seta e l’amore, oggi è Domenica, domani si muore”.
il Dio fucilato
Guardo il mio corpo di quando ero fanciullo, le tristi Domeniche, il vivere perduto.
VI
Pier Paolo Pasolini
Luigi Bonaffini
Mi contenti
I’m content
Ta la sera ruda di Sàbida mi contenti di jodi la int fôr di ciasa ch’a rit ta l’aria.
In the naked evening of Saturday I’m content watching the people, laughing outside in the air.
Encia il me côr al è di aria e tai me vuj a rit la int e tai me ris a è lus di Sàbida.
My heart too is made of air and in my eyes the laughter of people and in my curls shines the light of Saturday
Zòvin, i mi contenti dal Sàbida, puòr, i mi contenti da la int, vif, i mi contenti da l’aria.
Young man, I’m content with Saturday, poor, I’m content with the people, I’m alive, content with the air.
I soj usât al mal dal Sàbida.
I am used to the misery of Saturday.
Mi accontento
Nella nuda sera del Sabato mi accontento di guardare la gente che ride fuori di casa nell'aria. Anche il mio cuore è di aria e nei miei occhi ride la gente e nei miei ricci è la luce del Sabato.
il Dio fucilato
Giovane, mi accontento del Sabato, povero, mi accontento della gente, vivo, mi accontento dell'aria.
VII
Sono abituato al male del Sabato.
Pier Paolo Pasolini
Luigi Bonaffini
I dis robàs
Stolen Days
Nos ch’i sin puòrs i vin puòc timp de zoventùt e de belessa: mond, te pòus stà sensa de nos.
We who are poor have little time in youth and beauty: world, you can do without us.
Sclafs da la nàssita i sin nos! Pavèjs ch’a no àn mai vut belessa muartis ta la galeta dal timp.
Our birth has enslaved us! Butterflies that never had beauty dead in the chrysalis of time.
I siòrs a no ni pàin il timp: i dis robàs a la belessa dai nuostris paris e da nos.
The rich do not pay for our time: the days stolen from beauty by our fathers and by us.
No finiràia il dizùn dal timp?
Is there no end to the fast of time?
I giorni rubati
Noi che siamo poveri abbiamo poco tempo di gioventù e di bellezza: mondo, tu puoi stare senza di noi. Schiavi della nascita siamo noi! Farfalle che non hanno mai avuto bellezza, morte nel bozzolo del tempo.
il Dio fucilato
I ricchi non ci pagano il tempo: i giorni rubati alla bellezza dai nostri padri e da noi. Non finirà il digiuno del tempo?
VIII
Pier Paolo Pasolini
Luigi Bonaffini
Dansa di Narcìs
The Dance of Narcissus
Jo i soj neri di amòur nè frut né rosignòul dut intèir coma un flòur i brami sensa sen.
I am black with love neither nightingale nor boy whole as a flower I desire without desire.
Soj levat ienfra li violis intant ch’a sclariva, ciantànt un ciant dismintiàt ta la not vualiva.
I got up among violets at the break of dawn, singing a forgotten tune in the outspread night.
Mi soj dit: «Narcìs!» e un spirt cu’l me vis al scuriva la erba cu’l clar dai so ris.
I said to myself: “Narcís!” and a spirit with my face was darkening the grass with his curls’ brightness. Danza di Narciso
Io sono nero di amore, nè fanciullo nè usignolo, tutto intero come un fiore, desidero senza desiderio.
il Dio fucilato
Mi sono alzato tra le viole, mentre albeggiava, cantando un canto dimenticato nella notte distesa.
IX
Mi sono detto: «Narciso!», e uno spirito col mio viso oscurava l’erba al chiarore dei suoi ricci.
Luigi Bonaffini
Dansa di Narcìs (II)
The Dance of Narcissus (II)
Jo i soj na viola e un aunàr, il scur e il pàlit ta la ciar.
I’m an alder tree and a violet, the dark in the flesh and the white,
I olmi cu’l me vuli legri l’aunàr dal me stomi amàr e dai me ris ch’a lusin pegris in tal soreli dal seàl.
I watch with my cheerful eye the alder tree of my bitter heart and my curls that lazily shine in the sun of the riverside.
Jo i soj na viola e un aunàr, il neri e il rosa ta la ciar.
I’m an alder tree and a violet, the dark in the flesh and the roseate.
E i vuardi la viola ch’a lus greva e dolisiosa tal clar da la me siera di vilút sot da l’ombrena di un moràr.
And I watch the violet that gleams grave and tender in the glint of my velvety skin in the shade of a mulberry tree.
Jo i soj na viola e un aunàr, il sec e il mòrbit ta la ciar
I’m an alder tree and a violet, the dry in the flesh and the soft.
La viola a intorgolèa il so lun tínar tai flancs durs da l’aunàr e a si spièglin ta l’azúr fun da l’aga dal me còur avàr.
The violet ‘s light twists along the alder tree’s sides and they mirror in the blue mist of the water of my miserly heart.
Jo i soj na viola e un aunàr, il frèit e il clípit ta la ciar
I’m an alder tree and a violet, the cold in the flesh and the warmth.
il Dio fucilato
Pier Paolo Pasolini
X
Pier Paolo Pasolini
Danza di Narciso (II)
Io sono una viola e un ontano, lo scuro e il pallido nella carne. Spio col mio occhio allegro l’ontano del mio petto amaro e dei miei ricci che splendono pigri nel sole della riva. Io sono una viola e un ontano, il nero e il rosa nella carne. E guardo la viola che splende greve e tenera nel chiaro della mia cera di velluto sotto l’ombra di un gelso. Io sono una viola e un ontano, il secco e il morbido nella carne. La viola contorce il suo lume sui fianchi duri dell’ontano, e si specchiano nell’azzurro fumo dell’acqua del mio cuore avaro.
il Dio fucilato
Io sono una viola e un ontano, il freddo e il tiepido nella carne.
XI
Luigi Bonaffini
Pier Paolo Pasolini
Luigi Bonaffini
El testament Coràn
Mi eri un pithu de sèdese ani con un cuor rugio e pothale cui vuoj coma rosi rovani e i ciavèj coma chej de me mare. Scaminthievi a dujà a li bali, a ondi i rith, a balà de fiesta. Scarpi scuri! Siamesi clari! dovenetha, tiara foresta! Chela vuolta se ne ‘ndava a rani de nuòt col fèral e la fòssina. Rico al manganava li ciani e i bruscànduj colferal ros ta l’umbrìa ch’a inglassava i vuos. Tal Sil se trovava pissìguli a mijars in ta li pothi. Se ‘ndava plan thentha un thigu. In ta la boscheta dai poj ‘pena magnàt se ingrumava duta la compagnia dai fiòj, e lì spes se bestemava e coma uthiej se ciantava. Dopo se adujava a li ciarti a l’umbrìa da la blava. La mare e il pare a eri muarti. De Domènia, òmis dal cuòr gredo, se coreva via in bicicletta par loucs de un inciànt sensa pretto. E na sera mi ài vist la Neta
in tal lustri da la boscheta ch’a menava a passòn la feda. Liena co la sova bacheca a moveva l’aria de seda. Mi nasavi de arba e ledàn e dei sudòurs rassegnadi tal me cialt stomi de corbàn; e li barghessi impiradi tai flancs, da l’alba dismintiadi, a no cujerdavin la vuoja sglonfa de albi insumiadi e seri thenta fresc de ploja. Par la prima vuolta ài provàt cun chela fiola de tredese ani e plen de ardòur soj s-ciampàt par cuntalu ai me cumpagni. Al era Sabo, e nancia un cian no se vedeva par li stradi. Al brusava el loùc de Selàn. Li luci duti distudadi. In mieth da la platea un muàrt ta na potha de sanc glath. Tal paese desert coma un mar quatro todèscs a me àn ciapàt e thigànt rugio a me àn menàt. ta un camio fer in ta l’umbrìa. Dopo tre dis a me àn piciàt in tal moràr de l’osteria. Lassi in reditàt la me imàdin ta la cosientha dai siòrs. I vuòj vuòiti, i àbith ch’a nasin dei me tamari sudòurs. Coi todescs no ài vut timour de tradì la me dovenetha. Viva il coragiu, el dolòur e la nothentha dei puarèth!
il Dio fucilato
In ta l’an dal quaranta quatro fevi el gardòn dei Botèrs: al era il nuostri timp sacro sabuìt dal soul del dovèr. Nuvuli negri tal foghèr thàculi blanci in tal thièl a eri la pòura e el piathèr de amà la falth e el martièl
XII
Pier Paolo Pasolini
Luigi Bonaffini
Coràn’s Will In the year nineteen forty-four I was the Boters’ houseboy: it was our sacred hour burned by the sun of duty. Black clouds over the chimney white spots across the sky it was the fear and the joy of loving hammer and sickle. A boy of sixteen I was, whose heart was rough and bare, with eyes like burning roses and had my mother’s hair. I was starting to play cards, grease my curls, dance with the band. Dark shoes! light shirts! youth, foreign land! Back then we went out to catch frogs at night with the spear and the beam from the lamp. In the bone-chilling fog Rico bloodstained the reeds with the red lamp, and the weeds. In the Sile small fish came out by the thousands in the small streams. We walked softly without a shout.
il Dio fucilato
Inside the poplar grove after we had dinner the whole company of boys came over, and there we often swore and would sing like birds. Then, under the cornstalks’ shade, we would play cards. Mother and father were dead.
XIII
We, men with rough hearts, rode our bikes on Sundays through places of priceless charm. And one evening my gaze
fell on Neta in the bright haze of the thicket. With her slender stick she led her sheep to graze and stirred the air of silk. I smelled of manure and grass and of resigned perspiration on my warm strapping chest and the trousers hanging down over the hips, forgotten by dawn, did not cover the swollen desire of slumbering dawns and evenings without the fresh rain. For the first time I tried with that girl of thirteen and then I ran, wild-eyed, to tell my friends where I’d been. Saturday, and you couldn’t see even a dog down the street. Sellàn’s house was on fire. All the lights were out. In the square lay a dead man in a pool of clotted blood. I was grabbed by four Germans in the town deserted as an ocean and they took me to a wagon there in the shadows, shouting in anger. After only three days they decided to hang me from the tavern’s mulberry tree. I leave in inheritance my image to speak to the conscience of the wealthy. The empty eyes, the clothes that reek with my earthy sweat. With the Germans I didn’t fret about abandoning my youth. Long live the courage, the hurt, and the innocence of the destitute!
Pier Paolo Pasolini
Luigi Bonaffini
Il testamento di Coran
Io ero un ragazzo di sedici anni, con un cuore ruvido e disordinato, con gli occhi come rose roventi e i capelli come quelli di mia madre. Cominciavo a giocare alle carte, a ungere i ricci, a ballare di festa. Scarpe scure, camicia chiara, giovinezza, terra straniera! In quel tempo si andava a rane di notte col fanale e la fiocina. Rico insanguinava le canne e le erbacce col fanale rosso, nell’ombra che gelava le ossa. Nel Sile si trovavano pesciolini a migliaia dentro le pozze. Andavamo piano senza un grido. Nel boschetto dei pioppi appena mangiato si radunava tutta la compagnia dei ragazzi, e lì spesso si bestemmiava e come uccelli si cantava. Dopo giocavamo alle carte all’ombra del granoturco. La madre e il padre erano morti. Di Domenica, uomini dal cuore rozzo, si correva via in bicicletta per luoghi di un incanto senza prezzo. E una sera ho visto la Neta,
nella luce del boschetto, che conduceva al pascolo la pecora. Con il suo ramoscello muoveva l’aria di seta. Io odoravo di erba e letame e dei sudori rassegnati nel mio caldo torace di corame; e i calzoni infilati sui fianchi, dimenticati dall’alba, non coprivano la voglia gonfia di albe assopite e di sere senza fresco di pioggia. Per la prima volta ho provato con quella ragazza di tredici anni, e pieno di ardore sono scappato a raccontarlo ai miei compagni. Era Sabato ma per le strade non si vedeva neanche un cane. La casa di Sellàn bruciava. Le luci erano tutte spente. In mezzo alla piazza c’era un morto in una pozza di sangue agghiacciato. Nel paese deserto come un mare quattro tedeschi mi hanno preso e gridando rabbiosi mi hanno condotto su un camion fermo nell’ombra. Dopo tre giorni mi hanno impiccato al gelso dell’osteria. Lascio in eredità la mia immagine nella coscienza dei ricchi. Gli occhi vuoti, i vestiti che odorano dei miei rozzi sudori. Coi tedeschi non ho avuto paura di tradire la mia giovinezza. Evviva il coraggio, il dolore e l’innocenza dei poveri!
il Dio fucilato
Nel mille novecento quaranta quattro facevo il famiglio dei Botèr; era il nostro tempo sacro, arso dal sole del dovere. Nuvole nere sul focolare, macchie bianche nel cielo, erano la paura e il piacere di amare la falce e il martello.
XIV
Luigi Fabio Mastropietro
3. Storie riprese
il nero del mondo Anticlimax
Capitolo VII
L’angelo delle corde In quei giorni gli uomini cercheranno la morte e non la troveranno; brameranno morire, ma la morte fuggirà da loro. (Apocalisse 9,6)
Anticlimax - Capitolo VII - l’angelo delle corde
Piovve sangue. Città sante sprofondarono. Nessuno guardò i fuochi. La nostra immaginazione sopravvisse all’assalto; perché si inflisse tale terrore non possiamo capire. (Etel Adnan)
14
Quando la cometa rossa sarà vicina e spegnerà il sole, il cielo si congiungerà alla terra e l’acqua al fuoco, il potere di Dio entrerà nei corpi e li sconvolgerà e niente sarà come prima dell’avvento, perché sarà giunto il tempo dell’attraversamento, perché tutto il tempo è adesso e tutte le vite sono una.
Cuando el cometa rojo estarà cercano y apagará el sol, el cielo se unirá a la tierra y el agua al fuego, el poder de Dios entrará en los cuerpos y los revolverá y nada será como antes del adviento, porque el tiempo del cruzamiento habrá llegado, porque todo el tiempo es ahora y todas las vidas son una.
When the red comet will be near and will turn off the sun, the sky will join the earth and the water the fire, the power of God will enter into the bodies and will upset them and anything will be like before the Advent, cause the time of the crossing will have arrived, cause the whole time is now and all the lives are one.
Come occhi che non vedono e cuori che non sentono, così gli uomini attraversano il guado tra la nascita e la morte. Ogni vita, una corda tesa sul vuoto. Gli uomini camminano in bilico sulle loro corde guardando avanti senza pupille. Quando si girano a guardare indietro, i coltelli degli angeli tagliano le loro corde. Una ad una, senza rumore, le esistenze precipitano nel ventre di Dio.
Luigi Fabio Mastropietro
La voce mi sussurra di uscire attraverso la finestra. Ho spinto su il vetro, ce l’ho fatta. Sono fuori adesso, a piedi nudi sul cornicione della casa. Un passo dopo l’altro, la faccia contro il muro ruvido, mi sposto verso il lampione a forma di giraffa. La sua faccia illuminata tocca il muro all’angolo del palazzo. Ho paura di guardare sotto, c’è come una mano che vuole tirarmi giù. Stringo con le dita il bordo di pietra del davanzale e muovo un altro passo di lato. Un altro passo ancora e toccherò il collo di ferro della giraffa. My Voice, lead my steps... Here it ends what it is begun in Sarajevo on the 28th of June 1914. La scritta livida sul muro dietro il pronto soccorso dell’Ospedale Yarmook lampeggia al sole. Sembra sangue. Ma tutto a Baghdad sembra scritto con il sangue, anche le insegne di cartone dei venditori ambulanti di spezie al mercato di Al Jadida. Tutto è scritto con il sangue e coperto di cenere. La cenere delle bombe. Le case della gente a Sumer e Wazirya, le macerie dei palazzi ministeriali di Aalam, i taxi vuoti parcheggiati in Khulafa Square, l’acqua sabbiosa del Dijla, i ponti sopravvissuti del fiume di Simbad. Tutti i colori di questo mondo sono coperti di cenere. Al-Mansur riemerge dalla bocca di un vulcano spento, città perduta dentro un’aria di cenere e nafta.
Anticlimax - Capitolo VII - l’angelo delle corde
They are here, mom …. There’s no more time. I must go, mom, even though I am scared… Gli uomini antichi mi aspettano. Le loro voci mi chiamano, mi dicono che è il momento di andare lontano nella nave dentro l’acqua. Mi aspettano giù in strada, chiusi nella loro macchina nera. Respirano a fatica fuori dall’acqua. Mi hanno cercato a lungo in tutte le case del mondo. Una notte hanno sentito la musica nella mia testa e sono arrivati. L’uomo con gli occhi grigi è Azrai’l. È molto vecchio, anche se non vedi la sua età. I call him Asheneye. L’uomo con i capelli lunghi sulla faccia è Semeyaza. È furioso perché aspetta da troppo tempo. I call him Noface...do you remember, mom? Loro non sono cattivi e non sono buoni. Vengono da un posto molto lontano e hanno freddo al cuore. Io sento il freddo che loro sentono. Come una lingua di gelo nella pancia. Devono attraversare la luce dei morti per tornare a casa. Hanno bisogno di me, perché solo io la vedo. La luce dei morti. Per questo mi chiamano. Devono tornare nella loro città dietro il sole, prima che arrivino gli angeli delle corde. I loro denti sono coltelli. Ormai manca poco e hanno paura di non fare in tempo. C’è qualcosa dentro di me e dentro di loro che non capisco. Qualcosa nella mia testa che nutre il loro cuore freddo di ghiaccio. Mi nasconderanno in fondo alla nave dei dormienti e dormirò. Quando arriverà il sogno, sarò pronto. Allora li chiamerò. Guarderò nei loro occhi e vedrò la porta tra le stelle. È quello che vogliono da me. Loro partiranno e mi lasceranno libero.
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Luigi Fabio Mastropietro
La vita brulica fuori dalla cenere, rabbiosa, solo a scatti. Solo a certe ore, quando Allah chiama all’egira del martirio. Volti di pietra fasciati e nudi, barbe unte e atre, occhi bianchi e ciglia arse, braccia e gambe e stracci di carne dolente eruttati da un’alba di piombo dentro le strade e i mercati e le piazze. Un mare ammortito di sangue secco che solo il lampo e il boato colorano improvvisamente di sangue fresco. Qui finisce quello che ha avuto inizio a Sarajevo il 28 giugno 1914. Chi ha scritto sul muro quelle parole sa. Deve sapere. Cosa insolita che un umano sappia, conosca i disegni…una fuga di notizie dal Ministero dell’Inferno, direbbe Semeyaza in un momento di grazia vocale. O forse le Alurie, forse gli Ementali già sanno…
Anticlimax - Capitolo VII - l’angelo delle corde
Ma nessuno, nemmeno Semeyaza, può sapere che Babilonia sono io. Questa città di dei sommersi e di cenere è solo il battito di ciglia degli occhi di un vecchio jinn…prima che arrivi il nuovo Dio.
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Come tanti altri luoghi di questa terra, Baghdad è una riserva di caccia privilegiata per Nephilim e Sadaim affamati di endorfine, encefaline, proteine delta2. I preziosi fluidi cerebrali che solo gli umani sanno produrre quando hanno paura. E se anche gli Esseni di Qumran hanno deciso che i bisogni alimentari degli Abitatori di fuori non giustificano tutto il dolore di questo mondo, poco importa all’Intento. Ci sono sempre gli uomini a fare di testa loro, per la fortuna di tutti gli angeli endorfinomani. Esseni, Ossioi, Abdal, santi risvegliati, raeliani e mormoni, salgono su dal nulla con i loro profeti e angeli di luce, dopo avere imbastito qualche crociata e qualche jihâd, puntano il dito verso il cielo e dicono di vedere la luce. E dicono che El-Dajjal, l’Anticristo è su questa terra. Ma che breve sarà il suo tempo. Lo dicono da quattromila anni, ma il Dragone non vuole saperne di traslocare. Da quattromila anni predicano, inascoltati, nel nome del Dio degli dei, il Dio di tutte le religioni, il Dio unico che ha deposto o sottomesso tutti gli altri. Tanto è vero, dicono, che siamo tutti figli di Abramo e che i musulmani adorano Cristo, Seidna Haissa con Maometto e che gli Ebrei aspettano l’avvento del Messia, lo stesso Cristo dei cristiani. Questo Dio monocratico e pietoso è il nuovo Dio che ha oscurato tutti gli altri dei con la sua misericordia e la sua humanitas. Il Dio moderno delle Tre tradizioni che concede la salvezza a tutti, anche ai diseredati, soprattutto a loro, ai poveri di spirito. Il Dio dai cento nomi, che in cambio della grazia non pretende sacrifici umani e guerre di religione, anche se gli uomini continuano a goderne quotidianamente. Allah, Jahvet, God. L’Eloha che del libero arbitrio e della pietas ha
Luigi Fabio Mastropietro
fatto la sua rivelazione ma che continua a nutrirsi come i suoi divini predecessori. In suo nome gli Abitatori di dentro continuano ad erigere templi e santuari, madrasa e yeshiva, monasteri e luoghi di culto, nei quali si riuniscono grandi folle di uomini e di cervelli nutrienti. Uomini che pregano e si dolgono dei propri peccati, milioni di uomini che hanno paura del loro Dio e delle sue punizioni terrene e ultraterrene. Milioni di cervelli alterati dalla paura che producono onde elettromagnetiche di altissima frequenza che fanno volare i carri celesti e sanguinare le sacre icone. Tonnellate di sinapsi proteiche che nutrono lo spirito divino e gli Abitatori di fuori. Piazza San Pietro, la Mecca, Prashanti Nilayam, milioni di menti e di cuori sanguinanti, miliardi di atmamatra adoranti, dominati da un’unica incessante vibrazione di preghiera e sottomissione. Da un solo immane sentimento di mortificazione e paura.
È l’11 luglio 1995, secondo il calendario gregoriano. Sono a Srebrenica con un pugno di Caschi Blu olandesi messi a difesa dell’enclave protetta da quella vecchia volpe del generale Morillot. I serbo bosniaci di Mladic bombardano la città da quaranta giorni. L’aviazione delle Nazioni Unite è un miraggio. Alla fine gli olandesi cedono in blocco tutto il loro armamento ai serbi per salvare la pelle. In una mattina di sole fuligginoso i macellai dell’esercito serbo bosniaco entrano in città a bordo dei blindati bianchi dell’ONU. La gente stremata dall’assedio li festeggia nelle strade. Ma i salvatori che scendono dai blindati non sono arrivati per liberarli dall’inferno. Sono loro l’inferno. Nelle due settimane seguenti, l’orgia di sangue e stupri mi procura una overdose di encefalina. Per quattro giorni e quattro notti la mia coscienza fluttua in un limbo liquido, le pupille sono due spilli verdi, la faccia è un’icona bluastra e polmoni e branchie sono in debito di ossigeno. Sotto il mio letto, nella baracca del comando della forza di pace, i cristalli di Urim e Thummim sono incandescenti e scromano un’aura verde scuro. 19 dicembre 2001, arrivo a Buenos Aires da solo, ancora una volta
Anticlimax - Capitolo VII - l’angelo delle corde
L’eterno banchetto di paura del Dio delle Genti del Libro, il nuovo Eloha di Ahl al-Kitab, gareggia in lussuria e ricchezza con i tradizionali banchetti stragisti degli dei deposti. Ma nessuna cerimonia monoteista eguaglierà mai il nutrimento che può dare ai Nephilim la sinapsi di sangue e dolore della guerra infinita. Quando le genie degli uomini si incontrano per sbranarsi e infliggersi reciprocamente raffinate sofferenze, quando i martiri fanno esplodere la loro follia in mezzo ad una folla di innocenti, santa madre guerra allatta il cosmo al suo seno. I cervelli dei combattenti secernono il nirthyana, il latte divino della paura, essenziale per la sopravvivenza degli Abitatori di fuori.
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Luigi Fabio Mastropietro
senza Semeyaza, partito per il Kurdistan iracheno. Nella Casa Rosada si respira aria di fuga. De La Rua passa le sue ultime ore tra riunioni di gabinetto sempre più improbabili e brevi sedute scoptofile dietro le tende blu del balcone che affaccia su Plaza de Mayo. La vista della polizia a cavallo che carica il muro di madri e studenti gli procura un singhiozzo urticante. La notte del 20 la piazza è occupata da un oceano di cacerolazos in festa. Il colossale veglione all’aperto ha fine quando gli infiltrati federali cominciano finalmente a sparare ad altezza d’uomo. De La Rua si chiude nel suo studio. Il mio stomaco ingoia urla di dolore. Perdo la vista e l’udito per due giorni. Devo tornare in Darfur in compagnia di un bastone da passeggio.
Anticlimax - Capitolo VII - l’angelo delle corde
Solo tre mesi prima, con i pompieri di New York al World Trade Center, avevo vissuto una delle esperienze di nutrimento più paniche di tutto il mio eone. La vista di migliaia di corpi umani fusi nell’acciaio delle torri mi aveva provocato un’anoressia nervosa al limite dell’azzeramento vibrazionale, durata sei mesi e che mi tormenta ancora adesso a tratti.
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È facile centrare ogni volta la geografia alimentare del dolore e della paura. C’è solo l’imbarazzo della scelta. Sulla terra il nirthyana si confonde e si mescola con l’oceano di sangue quotidiano. Il problema è prevenire gli effetti collaterali dell’iperalimentazione astrale. Tenere le distanze dal dolore per potersene nutrire. Se l’occhio di Nalanda resta aperto troppo a lungo, ogni contatto è un orgasmo di sale che disperde carbonio. E non bastano cento visite alla piramide di Eridu per riacquistare tutto il soma perduto. Io soffro quando gli uomini soffrono. Questa è la mia condanna. Soffro con loro le pene dell’inferno e di questo inferno mi nutro. Fino all’annullamento. Ma la rabbia di Semeyaza mi ricorda adesso ciò che non voglio ricordare. È giunto il tempo di un altro Dio. Anche alla fine di questo Manvantara il muro di Gog e Magog è crollato sotto la spinta delle armate delle tenebre. Gli angeli di Oliblish incideranno ancora una volta la pelle del mondo per ingoiarne tutto il nero. L’avvento del nuovo Mahdi cambierà tutto per non cambiare niente. E io tornerò ancora una volta su Kolob per fuggire gli angeli delle corde. E l’acedia mi spegnerà il cuore. È forse la luce d’oro di Shinehah più brillante della luce del sole? O il pallido viso di Olea più desolato del volto della luna? Mille lune, mille soli, lontani e uguali. Mille ascensioni, mille abissi, uguali e vicini. Che senso ha tutto questo, mio Eloha? Che senso hanno altri mille eoni digeriti dal ventre dell’Intento? Non si è compiuto già troppe volte il tempo di un altro Dio? Non si è compiuta ancora un’altra apocalisse solo perché l’apocalisse duri in eterno? Sono stanco di fluire per l’eternità…
Luigi Fabio Mastropietro
Mentre la limousine dai cristalli di piombo risale Junub street verso il Museo Nazionale, guardo ancora una volta la nuca di Semeyaza. I suoi capelli neri, lunghi sulla faccia. Un’aureola senza luce intorno al capo. Lo guardo guidare muto, senza una parola, e penso che è un santo, un imbunche, un bambino al quale la madre ha cucito i nove orifizi del corpo con filo d’argento per conservarlo puro e incorrotto. Il dio della rabbia non parla e non dorme. Non ha pupille, se non per guardare la vendetta. Domani ci sarà un’altra distribuzione nel quartiere di Tashri. Dall’Italia arrivano razioni alimentari e vestiti dimessi. I Marines faranno piovere american candies. Ci sarà una grande folla. Un ex-tassista libanese si farà esplodere in mezzo a donne e bambini. I morti saranno decine. Il fiume di sangue scorrerà nel suo letto di cenere. Ancora una volta l’ultimo degli angeli ribelli renderà grazie all’ultima delle reclute di Belial. Una volta ancora ripeterà il suo delirio senza muovere le labbra, muto come il suo Dio… Il sole della prima incarnazione impallidisce non sento più la tua presenza yá Bahá’u’l-Abhá2 arrivi una notte senza luna che sto dormendo con la faccia perduta nel buio non ti sento ancora fino a quando batti le tue grandi ali d’acqua posandoti lento sul mio petto bevi il mio respiro lasciandomi vuoto di me il cielo trema al battito delle tue ali per scrollarsi di dosso le stelle io non sono più solo non sono più libero le mie ali si seccano al tuo respiro il mio cuore fugge altrove eloka d’meir aneini eloka d’meir aneini eloka d’meir aneini3 mi chiedi di graffiare via il nero della terra per te le mie unghie lo fanno fino a consumarsi i miei denti strappano e strappano ancora il filo d’affanno che cuce i corpi fino a spezzarsi i miei occhi affogano per sempre nel latte della paura mentre ti guardo tirare le mie viscere senza un lamen1 2 3
Uomo integrale che riunisce in sé natura divina e umana. “Dio il più glorioso”. “Il Dio di Meir mi risponde”.
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Azrai’l, Azrai’l, che cosa pensi…perché soffri, perché dubiti, il tuo dubbio è il mio dubbio, il tuo dolore è il mio dolore…non chiederti perché la vita vive, se credi nell’Intento. Rispetta il tuo Karma, se vuoi conservare il tuo cuore per sentire e il tuo occhio per vigilare. Quella notte a New York hai salvato la vita di David e adesso ne sei responsabile. Fermando la furia di Semeyaza, hai compiuto quello che era scritto. Adam Kadmon1 è con te ora ed è ormai pronto per l’ultimo sogno. Il futuro degli Abitatori gli appartiene e il tuo futuro è il futuro di tutti gli altri. Solo l’Intento conosce ciò che sarà fatto e nessuno può fermarlo. Nessuno può risalire il fiume di Shakti. Per troppo tempo sei stato sulla terra, ostaggio delle emozioni degli Abitatori di dentro. Scaccia il demone che ti paralizza e torna alla Vimana. Adam Kadmon aspetta il segno di Thummim per cominciare a sognare…
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to chiamo il tuo nome di vuoto risuona eloka d’meir aneini eloka d’meir aneini eloka d’meir aneini discendo le scale di sangue del tuo tempio non vedo la luce dei morti sull’altare ti chiamo a me non mi chiami a te mi soffi fuori di te nel freddo di Fuori a urlare per sempre muto perché mi abbandoni mio Eloha eloka d’meir aneini eloka d’meir aneini eloka d’meir aneini sorgi davanti a me ora prendimi con te nella luce dei morti che non torna prenditi cura di me che sento le tue spine crescere dentro la mia carne che perdo anche l’ultimo senso non esserci più che non sento più niente solo i tuoi chiodi trafiggermi le tempie come parole esplose chiodi lunghi acuminati ferro di amore dannato che mi tormenta per sempre prendimi dentro la tua luce dei precipitati dammi riposo sprofondami nel mai nato adesso che il tempo finisce spezza la mia muta deriva nella notte che partorisci per tua natura spegni le stelle che mi accecano fra i tuoi capelli ingoiami dentro di te prenditi cura di me malato per sempre malato del morbo di Dio la Ilah Illa Allah4 Eloha Jahvet prendimi con te adesso prima che la falce tagli l’ultima spiga degli abitatori di dentro prendimi dentro bevi il nero dentro la mia preghiera come hai bevuto fuori il mio cuore come io bevo il tuo dolce nero d’amore amaro senza mai morire come la fiamma di Belial senza mai scaldare eloka d’meir aneini eloka d’meir aneini eloka d’meir aneini morire ti prego dentro di te come l’acqua che scorre indietro nel tuo ventre e impasta la tua voce che non posso udire la tua croce che non posso toccare con queste mani che mi dai perché non posso attraversare la luce morire dannato di te come tutti i tuoi servi che le mie mani schiacciano strappano spezzano smembrano bruciano affogano divorano sputano in nome tuo cavano il nero della terra per te promessa della fine non esserci più risveglio per te veglio la porta di mille viaggi senza ritorno dentro un sole senza raggi mille volte la chiudo con le mani di anime immani strette le mani insieme alle altre strette l’una con l’altra strette con la mia bocca cucita ai tuoi occhi bianchi la Ilah Illa Allah Eloha Jahvet che guardano giù senza vedere i mari di Abramo sotto di te nelle terre di Enoch le mani sporche risorte al suono delle tue campane che non posso udire così lontano in fondo al mondo perduto scorticato nel vortice del tuo dirupo dentro l’antro delle bestie di ferro e di fumo che muovono il mondo non sento e non vedo più niente solo la fame di morte che non mi dai e il fuoco che divora il fuoco dell’Intento e la sua luce non è la tua luce e il suo occhio non è il tuo occhio da Lui lontano e la morte è solo dentro quella luce e la tua palpebra assente copre la luce al passaggio e il tuo nome è fuori di Te e dentro la luce muore la vita e fuori vive la morte Nenatteqâh ‘eth moserothêymo venashliykhâh5 ti prego risorgi schiavo del tuo verbo liberami da me… 4 5
“Non vi è Dio se non Iddio”. Dai Salmi di Tehillim (translitterazione dall’ebraico in lingua inglese: “Let us break their bands asunder, and cast away their cords from us”).
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La Vimana è alla fonda di fronte ad Abi Nuwas Street, dove il letto del Dijla disegna un’ampia curva verso Ovest. L’isola di Um al-Khanazir la nasconde interamente, ridotta ad un ologramma muto. Non un solo animale è più in vita sull’isola per effetto della fusione molecolare. Adesso che la notte sta calando, l’acqua del fiume ha il colore dell’argilla. Sulla strada di Qadisiya per l’aeroporto il mare di nebbia si accende delle luci gialle dei checkpoint. L’orizzonte tutto intorno è un lago di latte. Il nirthyana di milioni di cervelli spremuti dalle mani dell’Intento per l’ultimo banchetto divino. Le tenebre di Fuori guariranno la bestemmia di questo mondo. Il ventre del nuovo Eloha nascerà libero dall’infezione. La fine degli Abitatori di dentro è la fine della malattia. Milioni di vite precipitate nel lombricaio di Dio spingono sulle porte del Tempio. Chiedono di essere risuscitate per conoscere il disegno. Premono sulla soglia di Belial per essere ammesse al grande responso. Eppure non c’è una risposta per i morti, come non c’è per i vivi. Solo le doglie dell’Intento. Il dolore partorisce dolore con dolore. Nient’altro per i figli dell’uomo. Niente che loro debbano sapere, che già non sanno. Nessun disegno che li riguardi. Nessun progetto di salvezza. Se non quello di essere il transitorio alimento dell’essere.
Io Ti amo perché mi hai fatto conoscere la tua casa profonda e misteriosa. Tutto esiste grazie a Te e non c’è niente al di fuori di Te. Tu sei il sentiero. Tu sei la dimora della vita. Tu solo hai diritto al mio cuore. Tu che hai portato il tuo fiato nel mio fiato, sei il mio Signore e Padrone. La Tua legge è la mia vita. La Tua volontà è il mio Karma. Ti prego, guida i miei passi fino a Te. Distendi la tua mano di luce su di me. Fammi rinascere nel sonno di Thummim. I pray You, make me find the door among the stars...conjoin me with You… Ti prego, fa’ che io Ti sogni.. David, figlio prediletto dei miei figli diletti…chiudi gli occhi e pensa a me. Io sono ciò che ami. Io sono tua madre, io sono tuo padre, io sono tuo fratello. Io sono il risveglio nel mattino radioso di sole, io sono il sonno che di notte ristora il tuo corpo e la tua mente. Io sono il tuo rifugio e il tuo sangue. Da sempre scorro dentro di te perché da sempre sono colui che ha cura di te, colui che ti parla nel tuo sogno che è il mio sogno senza fine. Domani tutte le vite saranno una e tu sarai tutte le vite che sono in me. Domani rinascerai Adam Kadmon, figlio di Dio ricongiunto a me…Selamat Gajun…Selamat Kasijaram6… il tempo si compierà. 6
“Sii/siate Uno…sii/siate benedetti nella gioia dell’Unione”.
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Semeyaza è già sul molo e stringe nelle mani il cristallo di Urim. Siamo di nuovo nella grande nave. La sala delle corde è deserta.
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Luigi Fabio Mastropietro
Nella stiva della Vimana la grande piscina a sette bracci ospita sette corpi in amnionarcosi, galleggianti nel nirthyana distillato da novantanove generazioni di Deva antariani. Alla luce delle saliere di Arjan una cascata di meduse d’argento fluttua tra le colonne di radmonio in penombra. Il piccolo corpo di Adam Kadmon è disteso nel braccio centrale. Le mani lungo i fianchi, dorme ad occhi aperti, sussultando leggermente di tanto in tanto. Nel suo pigiama azzurro sembra una bambola abbandonata da un bambino capriccioso nella vasca del giardino. Ciascuno dei tre bracci laterali ospita tre Alurie di Ibiru. Le sei creature pleiadiane sono le nutrici elementali di Adam Kadmon fino al risveglio. Le loro menti alimentano e schermano le sinapsi di David. Lo nascondono e lo proteggono dagli angeli delle corde. Nascondono tutti noi e la nave alla loro vista. Quando arriveranno, il tempo sarà compiuto. David respira lentamente, adesso. Un leggero sorriso gli increspa le labbra. I suoi occhi neri puntati in alto sembrano guardare al colore delle ciglia e dei capelli. Sono già quasi del tutto candidi come la neve. È l’alba ormai. Sono fuori, sull’isola. Ho lasciato Semeyaza nella nave. È in ginocchio davanti alla piscina di Adam Kadmon. Mentre penso che devo ad abituarmi a rimanere solo, guardo il sole spuntare ad occidente dietro le colline brumose di Hamra. Dalla parte sbagliata.
Anticlimax - Capitolo VII - l’angelo delle corde
<continua>
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altroverso@infinito.it
Gianna Piano
4. Poesia e memoria
labirinto d’acqua * E già che si fa cura di silenzi illuminata solo un poco d’altri segni nel bianco minimale dei sentieri - di mani che assomigliano nei graffi farà sancta sanctorum di carezze candele accese al nero che ci tocca. E giorni e giorni confusi in poco fiato un mantra secco ma il resto l’ho taciuto e ora prego il sonno al mio risveglio rimprovero ad un gioco che ho già chiuso.
E' che non ho imparato ancora niente e arrotolo pensieri come posso nel modo d'ogni morte consegnata prima di correre in forma d'acqua, canto o stella. Cellule pari e pari anche l'affanno non c'è distanza al rischio della carne e ciò che cambia è iperbole d'ognuno istinto fermo al palo dell'accenno. Allora è giorno come tanti altri l'idea che muore sopra ad un divano pianeta o nucleo è questo qui il confine: voce di spillo che scheggia ogni silenzio fondo che va compiendo il nero al bianco.
labirinto d’acqua
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Gianna Piano
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labirinto d’acqua
Potevo ancora respirare e darmi forma di passaggio al dopo. Poi più nulla. Di te non ebbi che fili d'erba alle mani e periplo d'anno in tazza da tè. Poi più nulla. Buio scorsoio agli occhi e carne ai fianchi cuore di madre e figlia al panno bianco. Dedalo di pianto nell'attesa respiro che ritorna e poi si vive. Gioco di grigi amari attorno ad un’ala davvero eri ancora lì nell'aria?
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Giusi Maria Reale
5. Letteratura e Kabbalah
il cerchio della sfinge Il simbolismo ebraico nell’incipit dell’Horcynus Orca
L’approccio ermeneutico e simbolico all’Horcynus Orca è giustificato dallo stesso D’Arrigo che semina nel suo romanzo simboli a diversi livelli di interpretazione, si va dai richiami alchemici a quelli cabalistici, ai rimandi gnostici e mitologici. Anche nel Codice siciliano, d’altronde, si trovano chiari segni di tale tipo di visione del mondo: Isola, sole e luna moventi mortali, misteriosi paradigmi di sfingi, puma, leoni ruggenti con faccia d’uomo, profilo d’enigmi rugosi sotto palpebre di belva, appostati in una oscura parola, nella loro stessa ombra, in una selva colore di funebre lava viola… (da Pregreca, in Codice siciliano, Mondadori, Milano, 1978) Nello stesso testo si parla di “mari celesti”, “navi solari”, discese “d’alto al basso mondo” di figure dell’emigrare e dell’aldilà in figure (“forse pure sottoterra sfingi, puma, leoni ruggenti mantenevano la guerra”).
Sono diversi livelli di lettura: .PSHaT senso letterale .ReMeZ senso allegorico .DRaSH senso simbolico .SoD senso segreto Ma si tratta anche dell’incontro di culture diverse; dell’incontro della cultura greca con quella ebraica. Sono due mondi complementari , il primo definisce la dimensione epica del romanzo, il nostos, il ritorno, di questo Ulisse siculo, ‘Ndria; il secondo delinea la dimensione più propriamente sapienziale, cioè biblica, cui soggiace il messaggio escatologico di ‘Ndria-Mosè-Messia, nella prospettiva avvolgente della morte che dà la vita e della vita che dà la morte, il Leviathan-Orca che abbiamo nominato prima. I rimandi biblici nel romanzo sono innumerevoli e proprio sull’aspetto biblico e strettamente ebraico, fermeremo l’attenzione nell’analisi dell’incipit. 2.Interpretazione dell’incipit Diameter sphaerae tau circuli crux orbis non orbis prosunt Per spirito biblico si intende soprattutto l’aspetto sapienziale, quello legato all’inter-
Letteratura e Kabbalah - il cerchio della sfinge
Di tutto ciò D’Arrigo parla anche nell’Horcynus, ma soprattutto nell’ H. O. si parla di simboli ebraici, che si profilano già all’inizio (Mosé, il passaggio Stretto-Mar Rosso, la manna-cicirella, il Leviathan-Orca, ecc..).
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Giusi Maria Reale
pretazione haggadica della lettera della Bibbia, nel senso stretto di segno, e alla numerologia ghematrica legata strettamente all’alfabeto, BeiT- aLePH, sarebbe il caso di dire visto che l’alfa sta al secondo posto nell’alfabeto ebraico.
Il sole tramontò quattro volte sul suo viaggio e alla fine del quarto giorno, che era il quattro di ottobre del millenovecentoquarantatre… Inizia così l’immane opera di Stefano D’Arrigo, l’Horcynus Orca. Non può sfuggire il valore simbolico del numero quattro, il DaLeT ebraico. Se consideriamo che il viaggio di ‘Ndria si svolge un arco di tempo che va dal primo ottobre all’otto, e che comincia in media res a partire dal quattro, avremo i numeri 1, il primo che in ebraico è l’aLePH, e subito dopo il DaLeT, che è quattro, cioè avremo il termine ed.1 In ebraico ed vuol dire elemento acqueo, vapore, principio di umidità, è affine ad un termine mesopotamico che significa “ondata” e che la “Bibbia dei LXX” – cioè la versione in greco dei testi sacri – traduce “fonte”, acqua vitale insomma. A parte le implicazioni infinite che comporta l’acqua, il mare, in un romanzo come l’Horcynus Orca, che è connotato dall’elemento acqueo, vorrei osservare altri aspetti. aLePH e DaLeT, sono anche le prime due lettere della parola Adam, che si scrive aLePH- DaLeT - MeM, in numeri 1-4-40. Infatti, la tredicesima lettera ebraica, MEM, ha valore numerico 40.
Letteratura e Kabbalah - il cerchio della sfinge
In Adam ritroviamo il rapporto 1:4. Il 40 è un 4 in posizione decimale superiore, posto su un successivo livello di elaborazione.
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La MeM è l’”em” dei Latini, “my” dei Greci, “mim” o “mem” dei Fenici, che vale per “acqua”, “onde”, ed è così detta per la sua figura primitiva, che ha l’aspetto delle onde agitate. L’acqua entra dunque nella composizione del nome Adamo, che pure, per definizione è colui che è tratto dalla terra. Adamo vuol dire uomo, il primo uomo, ‘Ndria è nome che deriva, per aferesi della A, da Andrea, che deriva a sua volta da Andros, che vuol dire uomo. Il legame sapienziale diventa più evidente ancora se consideriamo che ‘Ndria viene chiamato dai quattro (torna ancora il quattro) soldati che lo hanno eletto a loro messia, con il nome di Mosè, Mosè marinaro aggiunge D’Arrigo. Mosè è, letteralmente colui che è stato tratto dall’acqua (del Nilo) e guida il suo popolo per quaranta anni nel deserto verso la Terra promessa. Tra ‘Ndria e Mosè c’è dunque l’elemento acqueo che corre, che è il quaranta. La storia della conoscenza biblica è contrassegnata da questo numero: Mosé fu chiamato da Dio a far da guida al suo popolo quando aveva 40 anni e rimase poi nel deserto per 40 mesi; in Numeri si legge: “Per questo l’ira del Signore s’accese contro Israele; e li ha 1 Nereo Villa, Cap. II de “NUMEROLOGIA BIBLICA, Considerazioni sulla Matematica Sacra”, SeaR Edizioni, Reggio Emilia, aprile 1995.
Giusi Maria Reale
fatti vagare nel deserto per quarant’anni”; Gesù predica per 40 mesi, ed appare poi ai suoi discepoli quaranta giorni prima dell’Ascensione (Atti degli Apostoli 1, 3); il Vangelo di Matteo 2, 13, racconta che “Egli, dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, finalmente ebbe fame”; il Genesi riporta che “farò piovere per 40 giorni e 40 notti”; Saul e Davide regnano 40 anni come Salomone; infine, Buddha e Maometto iniziarono a predicare all’età di quarant’anni. Per non dire poi di Quaresima, Quarantena… Se come ha messo bene in evidenza il Marco Trainito, in “Il mare immane del male”, l’etimologia del termine mare si riallaccia a maru che in sanscrito vuol dire deserto, possiamo forse dire che l’accostamento tra Adamo - ‘Ndria e Mosè marinaro non è casuale ma costituisce il SoD, il senso nascosto del testo, quello aperto all’interpretazione. Che è quanto stiamo facendo. Una ulteriore precisazione: - la lettera MeM rappresenta il Rivelato e il Nascosto: Mosè e il Messia; - la MeM ha due forme una aperta e una chiusa; - la MeM aperta è usata ovunque tranne che in fine di parola. Lì si usa solo quella chiusa. La Mem aperta indica la gloria rivelata delle azioni di Dio, la MeM chiusa quella parte delle regole celesti che è nascosta all’uomo: in Adamo, che è aLePH- DaLeT –MeM, la MeM è chiusa e ciò avvalora la funzione escatologica dell’intero romanzo, ‘Ndria-Mosè muore nella visione apocalittica del Messia, cioè la MeM chiusa finale.
Il quattro figura tre volte per un totale di 12, se consideriamo che ottobre si segna come 102 otteniamo 22, che è il numero delle lettere dell’alfabeto ebraico, che non conosce la scissione tra il segno e il significato: il segno è il significato, mimesis nell’accezione di Erich Auerbach. Ciò vuol dire come per la Toràh, che lo spazio per l’interpretazione del testo di Stefano D’Arrigo, si svolge nell’arco di tutte le lettere, cioè in tutti i sensi, infiniti sensi, com’è proprio dell’ermeneutica biblica, che è labirintica e non ha un prima e un dopo, è sempre doppia, palindroma, speculare, secondo l’approccio haggadico e cabalistico, che abbiamo già menzionato. L’infinito, già compreso nell’aLePH, si snoda in tutti i significati e in tutti i segni, dall’aLePH alla TaW, e all’aLePH ritorna, con infinita circolarità. Con il moto eterno e inarrestabile delle onde del mare. A questo punto non possiamo non attribuire il valore numerico alla TaW: 400. Continua, dunque, il rapporto 1:4. La catena diventa 1-4-40-400. 2
Se, volendo essere troppo sottili, muoviamo l’obiezione che il 10 attribuito ad ottobre è invalido ai fini del nostro discorso, perché i mesi per gli ebrei si computano con la luna, possiamo sempre ritrovare il 10 nell’arco temporale che precede ogni 4, specialmente l’ultimo. Il quattro ottobre, infatti, è l’ultimo di una serie di numeri che danno la Tetraktis: 1+2+3+4 (1 ottobre, 2 ottobre…)
Letteratura e Kabbalah - il cerchio della sfinge
Ma torniamo all’incipit: Il sole tramontò quattro volte sul suo viaggio e alla fine del quarto giorno, che era il quattro di ottobre del millenovecentoquarantatre…
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Disponiamola in altro modo: 1 4 1 4 40 1 40 400 Cosa abbiamo scoperto? Forse nulla, forse tutto, relativamente alla nostra lettura che intende scoprire il vero oltre la lettera. La sequenza, infatti, 1-40-400, in lettere è aLePHMeM-TaW, il cui significato è VERITA’. La cosa si chiosa da sé. La lettura sapienziale non è la sola possibile, infatti, l’Uno, il Quattro e il Dieci sono i numeri della Tetraktis pitagorica , il triangolo formato da dieci sassolini perché mostrava che la totalità delle cifre, rappresentata dal dieci, si ottiene dalla somma delle prime quattro: 1+2+3+4= 10. Il quattro è il simbolo della terra, ma è il numero tradizionale degli elementi o stati di materia: fuoco, acqua, aria, terra. Sia nella tradizione pitagorica che in quella cabalistica, i quattro elementi sono associati ai primi quattro numeri. E’ il primo numero a non essere primo, cioè a non essere divisibile per qualcun altro. Graficamente è la cifra in cui due linee si incrociano a perpendicolo, pertanto è simbolo della croce. La croce è anche X, che in numeri romani è 10. Ancora una volta il passaggio dal 4 al 10 è possibile.
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Per tornare all’interpretazione biblica, lo YoD, lo yota, è ghematricamente 10, ma è soprattutto l’invito a guardare oltre le parole, a cogliere i segni, ogni singolo segno. In Matteo 5, 17ss, Gesù afferma: “in verità vi dico: finchè non sia passato il cielo e la terra, non passerà neppure uno yota o un segno della legge senza che tutto sia compiuto”. Non la parola ma lo yota, il segno è importante per decrittare il tutto, per comprendere oltre le parole i simboli, e del resto il rotolo della Toràh è invalido per l’uso se manca anche una sola lettera, un solo yota.
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Per chiudere, non possiamo non notare che due YoD separati trasversalmente da una VaV trasversale e posti in posizione speculare formano il segno dell’aLePH, così si torna all’Uno, all’universo, alla totalità. E se a ciò si aggiunge che la VaV ha una forma grafica che richiama il delfino, la fera, si potrebbe, temo, continuare all’infinito...! D’altronde lo stesso D’Arrigo si richiama espressamente al circolo infinito quando fa dire al signor Cama:
”Lo volete sapere, in due parole, che fa l’orca? Fa il cerchio della morte intorno al mondo, e gira, gira, incavallando onde e dando morte a rotazione continua...” (pag. 776, Mondadori, 1975).
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Pier Paolo Giannubilo
6. Poesia clinica
narcosintesi
In psicoterapia per “narcosintesi” si intende un trattamento delle nevrosi preceduto da un’iniezione di barbiturici. Il sostantivo composto richiama però anche il concetto di sintesi come riassunto. E un sunto in versi è questa silloge: la trascrizione di dieci giorni (fra ricovero, preparazione, intervento e degenza) a cavallo di un intervento chirurgico. La perdita della coscienza, il sonno indotto della cosiddetta “piccola morte” provocata dall’anestesia, la mancanza di controllo sul proprio corpo che diventa così carcassa manipolabile da mani estranee… Un’esperienza che qualcuno vive come un naufragare dolce (so di adulti per i quali l’azione stordente e il caratteristico cerchio alla testa provocato dal narcotico sono stati un’esperienza piacevolissima), altri come una situazione “estrema” che centrifuga insicurezze, fobie e allarmi latenti e rivela l’uomo per quella povera cosa tremante che è: una creatura dalla fragilità quasi oscena. I diciannove testi sequenziali di Narcosintesi credo raccontino, tra referto e accensione visionaria, questa subitanea metamorfosi (corporale, psicologica, etica) innescata dal sentimento primordiale della paura, una metafora dell’incapacità non solo individuale, ma collettiva, occidentale, di convivere con la labilità delle cose e di se stessi. Annotavo ogni particolare, intimo ed esterno, durante quei giorni di due anni fa: prendendo appunti, scavando nella Bibbia, limando versi iper-raziocinanti anche in piena notte, esorcizzavo il mio dolore fisico e l’immotivato pensiero (che però era una convinzione) che non mi sarei alzato mai più da quel tavolo operatorio. Quando l’anestesista, una giovane romana che sembrava la controfigura di una nota presentatrice di Rete 4, mi svegliò a schiaffi, la riconobbi e feci il galante. Lei mi sorrise. Io mi vergognai subito di me: ero appena risalito dal mio temporaneo aldilà e per farmi riaccettare fra i vivi ricorrevo a una simulazione di coraggio così pateticamente maschile, da filmaccio americano. Fui riportato in camera, stetti male, non respiravo più: volevo farmi mettere il taccuino e la bic fra le mani. Alla fine crollai. L’oblio. Il sonno.
pigiannu@tin.it
narcosintesi
Dedico queste poesie a Marcello, medico di Lecce e mio compagno di stanza a Roma, che mi infondeva coraggio (lui a me!) mentre un cancro, conseguenza di una ustione, se lo mangiava velocemente. Solo nella settimana del mio ricovero gli amputarono le gambe e lo sottoposero a tre operazioni. Non sentii mai un suo lamento. Quando uscii dall’ospedale tornai da lui una prima volta: aveva il colore di una candela di cera, gli feci fare un giro in carrozzella lungo i viali alberati del policlinico “Umberto I”, parlammo del Salento; la seconda volta che andai a trovarlo, pochi mesi più tardi, non c’era già più.
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Pier Paolo Giannubilo
“All obscurity / Starts with a danger: / Your dangers are many” “Ogni oscurità / comincia con un pericolo: / i tuoi pericoli sono molti” S. Plath, A cinque braccia dal fondo
Paesaggio appenninico con intruso
SCCC…
Le ruspe sfondano la crosta dell’Appennino sannitico e modellano nel paesaggio un invaso monumentale per produrre energia idroelettrica mentre il massiccio trattiene ancora, a maggio, le sue lingue di neve…
L’intervento consiste in cinque spiedi tubolari che via computer faranno l’uncinetto nell’esofago da incidere e coibentare:
narcosintesi
Dal pianoro arriva il ronzio dei motori, l’acqua scroscia sulla forra… Sarà fra novantadue ore: il pericolo si stratifica, ho addosso strati e strati di pericoli, una concrezione, tutto il calcare su di me.
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se il luminare dell’Ateneo capitolino sbaglia il puntocroce sovrapponendo i sondini come bastoncini dello Sciangai l’antenna si scollega e sullo show scivola uno “sc” avvolgente come un mantra: fine delle trasmissioni.
Pier Paolo Giannubilo
Accettazione in reparto
Il Cenacolo dei pazienti
Prassi consueta: il modulo la radiografia al torace il tracciato cardiaco con le ventose e le pinze alle caviglie… “No, non mi occorre niente”: grado zero espressivo. I pazienti formicolano in sala d’attesa, bisbigliano come se fossero in un luogo sacro, poi sdrammatizzano con aneddoti personali su degenze pregresse. Sui corridoi in corsia è srotolato il planisfero di una glaciazione: un grigio chiaro uniforme che i solchi fra le piastrelle reticolano come meridiani e paralleli. Si crolla dai nervi.
Al nostro improvvisato cenacolo intercamere c’è il nipote acquisito di Leonardo Sinisgalli: spiega che il nome “Giulietta” all’ammiraglia dell’Alfa Romeo fu un omaggio a sua zia, un amore del poeta (responsabile delle comunicazioni dell’azienda) oltre che un calembour sulla coppia Montecchi-Capuleti; c’è un sociologo dall’aspetto rabbinico: disserta sulla Torah sulla meccanica quantistica i fenomeni subatomici il canone della fantascienza novecentesca le nocive interferenze statali sulla conduzione delle aziende vinicole… Si esorcizza meglio, in gruppo, l’ora topica del laparoscopio.
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La svestizione va accelerata.
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Pier Paolo Giannubilo
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Poesia bianca
Dieta idrica
Controsoffittature, pareti, sgabelli, lenzuola, taccuino, federe del cuscino: la stanza è scavata in un blocco di gesso. Il latte di calce e questa scala cromatica da eschimesi, le superfici gelide… Nell’appartamento di “Arancia Meccanica” in cui si praticano stupro e pestaggio ferisce gli occhi lo stesso colore d’insonnia.
Nient’altro che acqua e i suoi derivati: tè, caffè, affini; regime di dieta idrica, astensione dai solidi: l’ospedale mi irriga come si irriga una zolla di creta.
Tricotomia
Underground
Annunciano la tricotomia: sbuca fuori un rasoio e il tronco mi viene rasato accuratamente fino al pube, che ora appare frollo e gommoso, un rilievo curvilineo come la sagoma del labbro superiore, un pube glabro di bambina, se lo osservo da posizione supina - ormai implume e statico, un pollo in cellophane e vaschetta fra le confezioni di carni bianche.
L’apprendista infermiera che ha il compito di scortarmi al varco si ingegna come può per praticarmi il pietoso ufficio del sollievo… La barella scende al piano interrato, nell’underground dell’ “Umberto I” - un sistema di ampie gallerie in penombra pavimentate come garage condominiali e si inoltra nel labirinto di barbagli, crepe, tubature, nel fetore delle sepolture, la chiesa di Santo Stefano a Vienna con i suoi Asburgo eviscerati e messi in conserva sotto l’altare centrale, la Cripta dei Cappuccini, incensata dal lezzo mortuario della Storia: corone Cristi tibie putti kaiser e kaiserine aquile bifronti tube teschi sdentati copricapi vescovili volti di femmine velati matasse onomastiche incise sui sepolcri… Da questa catacomba ci risucchia nell’anticamera della sala operatoria un neon verdastro simile a orina. Un teletrasporto fra i ghiacci dell’Antartide, lo stomaco perforato da una fresatrice…
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Pier Paolo Giannubilo
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Pier Paolo Giannubilo
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Sul Cherùb
Un istante prima che l’anestetico faccia il suo corso
L’anestesista soppesa i liquidi, dosa il preparato; sto per involarmi dalla branda, monto in groppa ad un cherùb, il toro alato e androcefalo, l’elicottero privato delle divinità dell’Antico Oriente. Me lo affittano come un pattino, per un’ora e mezza, la durata dell’operazione.
Sotto il soffio glaciale della sala operatoria nei cunicoli del Policlinico rimpiango persino i mugolii la promiscuità i corpi itterici e le escrescenze dei malati, o il linguaggio sfrenato delle cornacchie, il loro crocidare sinistro che ci stride sui timpani negando il riposo.
Pier Paolo Giannubilo
La piccola morte
Post
L’intossicante si ramifica nell’organismo alla velocità di un virus stellare, liquefa la coscienza sorta di gas coercibile la disperde in granuli allo stato mercuriale…
I ceffoni degli aiuti per il risveglio, lo spasmo, il rictus, le perdite di sangue dalla trachea intubata e raschiata dagli strumenti, sugli zigomi il peso di una celata di ferro medioevale…
In alcuni casi non ci si sveglia più: il tasso di mortalità per la mia cardiomiotomìa extramucosa è dello 0,5%
Inghiottire saliva è come forzare cocci di porcellana lungo la gola, eppure lentamente mi squaglio nel sonno.
Quand’ecco la sbornia è già smaltita, galleggio dopo l’apnea imbevuto come una pelliccia a mollo. Il narcotico ha percorso l’anima senza danni quantificabili, come il filo di ferro con i pesi alle estremità nell’esperimento del “rigelo” attraversa il cubo ghiacciato ma non lo seziona perché il ghiaccio si riforma appena dopo il passaggio. Ci sono dunque sono.
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Ma morire è infilare la propria chiave nella toppa di Dio, deve essere un gesto militare come quello di Mishima, richiede un coagulo emotivo irripetibile… non così… non…
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L’incarnato
Male alle ossa
Dopo i ferri ognuno ha il suo colorito, le sue sfumature. Ci ha percorsi un getto d’aria canalizzata. Uno è livido, uno è come un ginocchio sbucciato in un dipinto di Schiele, un altro è ricoperto di colostro, questo pare un frammento di criptonite, questo una chiazza di psoriasi lilla, l’enciclopedia vivente del letto accanto - il sociologo che ama Bradbury e i vini abruzzesi un fibroma pendulo cauterizzato, l’altro è un pomfo roseo. Io - concordano - ero rigonfio e marrone castagna. Non ho ripreso i sensi, lavoro dispendioso. Al contrario, loro hanno ripreso me - al lazo - mentre fiottavo nelle intercapedini dell’esistenza.
Il male è sempre una costola del male, il male genera il male per gemmazione, setacciamo le pieghe del male come porci golosi di perle. Rampolla dalla pozza del male il nostro male quotidiano. Come in una serra ottimizziamo le qualità del male: la giusta temperatura, l’humus arricchito, gli additivi selezionati nei laboratori… Nell’ora in cui l’alba e la notte si sovrappongono, sono sveglio, la Bibbia è aperta su Qohelet. Sulle mie scapole muovono i loro curiosi passetti granchi d’avorio con meccaniche laccate in oro, rosicchiano le mie ossa e mi debilitano.
La flebo
Il Deltoide
La flebo è una clessidra in cui scivolano gocce - di glucosio potassio antibiotici - lente come lacrime, che addomesticano l’appetito e l’arsura. All’altra estremità l’agocannula è infitta nella carne del braccio. Scandisce il tempo liquido in vena, grazie al principio dei vasi comunicanti. Faccio apprendistato nel mestiere della sopportazione, mi specializzo nell’esercizio della pazienza.
All’altezza della spalla tutti gli operati lamentano una zona terremotata come il circondario di Algeri dopo il sisma, che i notiziari mostrano fra un gossip e l’altro sui ricevimenti in onore del ritorno dei Savoia. E’ come se avessero privato il deltoide della guaina cutanea. Il muscolo è rigido e frangibile, il materasso concavo fa il resto.
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Pier Paolo Giannubilo
La forma del tonno
Metamorfosi al titanio
La forma gastronomica perfetta in natura è per me l’arcata del filetto di tonno nel barattolo di vetro. Il tonno nel cremoso olio d’oliva, la sua salatura delicata, il tonno inodore e proteico è il mio desiderio più acuto, ora che il mio esofago è fasciato e insanguinato,
Sospetto che sui miei pori non innaffiati, non aperti dai lavaggi per la traspirazione, possa formarsi come una crespatura, un plissé, un tessuto nuovo o un cuoio simile alle ali di pipistrello o un piumaggio incarognito grinze di gallina squame. Non potendo fare docce e sciacqui, qui, controllo allo specchio i segni di eventuali accenni di metamorfosi.
ora che non mi è dato di gustare neppure una minestra sciapa neppure una foglia di lattuga scondita ora che mangerei anche pastura per pesci, scarti di pesce tritati
narcosintesi
ora che in camera siamo maleodoranti come i canali di Venezia bonificati a segmenti e tristi come turisti d’inverno in un albergo di Jesolo.
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Ma il mutamento è interno. Le lastre a RX mostreranno che il sacco dello stomaco ora è ravvolto e spillato intorno al tubo esofageo con graffette di titanio, quello usato per scambiatori di calore e telai di aerei. Sono, nel mio piccolo, un innesto. Un giorno anche la mia polvere si consumerà, ma dietro la lastra di marmo io ci sarò: sarò quei pezzetti di titanio, sarò un elemento pregiato del sistema periodico, sarò quei punti ancora intatti, quella parte resistente di me che si sarà incastrata nella cerniera, nei fori di un bottone, nelle suole o nelle pieghettature di indumenti fatti con materiali durevoli, avrò fiori freschi il 2 novembre.
Pier Paolo Giannubilo
[…]
Intanto ho svuotato nel lavandino la boccetta di Maalox, denso intruglio medicinale di magnesio e alluminio idrossidi al gusto di minerale fossile, glutinoso come l’acido latte che sprizza dall’attaccatura della foglia quando si coglie un fico ancora acerbo, ho scartato i cibi pesanti frazionato per bene le pietanze masticato trenta volte a boccone deglutito seguendo le prescrizioni ma le fitte notturne al petto riprendono, e il bolo alimentare si strozza nel cardias, non transita; nel mio corpo si producono montate lattee, alte maree dagli orari imprevedibili: flussi, rigurgiti.
narcosintesi
Clausura e ciclicità: il mio esofago è in un’arena in cui ogni spettatore pagante imbraccia un fucile da cecchino. La mia malattia affronta imprevisti paga penalità, retrocede caselle attende per turni. Mettermi orizzontale è per me un atto masochistico, sull’addome i punti di sutura tirano come i ganci ai quali i fachiri si appendono per la pelle. pigiannu@tin.it
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Stefano Calzi
7. Letteratura e mitologia
ab origine
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UR
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In pianure umide e fertili, lungo le rive di ruscelli e onde, volano i cavalli che Pindaro vede nella prima olimpica per Elea, e “nel turbinare delle ruote, nel ritmo accelerato dei corsieri schiumanti si poteva vedere l’immagine delle stesse acque, che sole hanno una velocità senza arresto in mezzo ad una natura immobile” (Bachofen). Simile a quella degli uccelli è la vita di questi umani, come gli uccelli poco amanti della sosta e della quiete. L’uovo dei misteri orfico-dionisiaci si schiude al parto gemellare dei figli di Aktor, i Molionidi. Essi montano una biga cui la loro duplice, opposta tensione dà una velocità insuperabile, circolare – il costante ritorno al punto di partenza fa sì che ogni allontanarsi sia ricongiungersi, simultaneamente, nell’eterno muoversi, nell’eterno divenire-tramontando. Perenne creazione tellurica. Il carro vola come un dardo, vola a misurare ciò che indica il dio di cui è l’oracolo a Delfi – che non rivela e non nasconde. Il disequilibrio distoglie le componenti stabili e identiche a se stesse – movimento, antagonismo, lotta. Risacca e ritmo eterni – Eraclito. Le cadenze della superficie marina trascorrono. I nomi delle cose esprimono un come-se permanessero, un come-se si protraessero a portata di mano. Tratti-fuori, ex-pulsi, ex-sistenti – Kierkegaard. Una parte che vuole mantenersi, come l’altra parte vuole, e lottano per durare. E questo polemos è l’eterna giustizia dell’inesausta creazione tellurica, del gremium dell’apeiron che costella di cose il cui sgorgare è fuori da ogni termine. Così gira e gira in cerchio il circuito delle quadrighe che il vecchio Bachofen non smette di seguire, che volgono con estrema rapidità intorno alle metae per tornare al punto di partenza e ripercorrere la stessa pista. Ma cosa insegna questo gioco? E perché “si loda la vittoria non come simbolo della maggior durata dell’esistenza e procrastinazione del suo termine fatale, ma potente dispiegamento della forza”, rapido consumo di ogni possibilità che il gioco implica? Dike, la giustizia, è diade – l’uovo orfico-dionisiaco diviso in due parti uguali dai diversi colori. Duplex, doppio è il moto di Dike. E tale moto discende (kata) secondo l’ordine del tempo – Anassimandro. L’adikia, l’ingiustizia di cui parla Anassimandro è la sconnessione dell’attardarsi nel soggiorno di ciò che solo transitoriamente soggiorna. “Nulla è più naturale che sciogliere qualunque cosa allo stesso modo in cui fu legata” (il sirio-fenicio Ulpiano) – vim vi repellere. Ma nelle uova-madri licie di Xanto la morte è una madre giusta che chiede che la vita che ha dato le venga restituita. Nemesi è l’uovo-madre – colei che divide giustamente, come nella ‘aequitas’ materna. La pista equina è la contrada aperta da cui vengono i soggiornanti e in cui sprofondano. La pista circolare ha la pendenza tramite la quale il destino giunge alle cose – kata to chreon, secondo necessità. “Non si deve schivare alcun peso. Si deve partire per non più ritornare. Si deve morire senza guardare indietro” – Pitagora. Il naive del nuovo ditirambo attico è l’innocenza orfica – il ritmo in compendio di
Stefano Calzi
voce e lira. Ritornano in Archiloco fra il lirato sorriso apollineo e l’Ur-shrei dionisiaco. Misura a questo interno è la “folgore” eraclitea – “metra e metra”. Tutte queste trame soggiacciono all’eco: eco come gioco-immagine di sogno simbolico. Si deve “volere” persino l’illusione. Dike ha le chiavi dell’apparenza che dissimula – Parmenide. Ma Pausania intuì e non volle rivelare l’arcano delle “vive ferite” acri e tese alla prossimità della fine nella profonda compassione della Magna Mater preellenica. Dopo il ronzio delle api nutrici, “innocenza è il fanciullo e oblio, un ricominciamento, un gioco, una ruota di per se stessa volgentesi (anamnesis n.d.r.), un primo movimento, un sacro dir-di-sì (mnemosine n.d.r.)” – Nietzsche.
Nei Monti Bianchi di Creta, vasti boschi di cipressi che ancora nel sedicesimo secolo fornivano materia alla flotta veneziana. Estese coltivazioni di ulivi e vigneti. L’ulivo attico, che valse all’Atena achea la vittoria sul cavallo di Poseidone, ha origine cretese, come la stessa dea. L’albero giunse nel Peloponneso dalla terra degli Iperborei, che Pausania identificava in Creta. Dai novecento ai milleduecento metri, nelle zone boscose più elevate, si trovano querce, aceri, cipressi, oltre alla salvia. Fra i milleduecento e i milleottocento querce e cipressi sono sempreverdi. I cipressi sorgono prevalentemente su terreno calcareo e fanno da contorno ai santuari delle vette. Nelle aree costiere si estendono paludi saline naturali. Vicino, nel primo entroterra, asfodeli. Esistono precise affinità fra questa vegetazione, le decorazioni fitomorfe minoiche e l’Ur-pflanze – la pianta originaria – goethiana. Una ritmica immobilità del movimento vitale in un “sentimento mistico e dionisiaco” (Schweitzer) e metà strada fra la Magna Mater e gli dèi (Schefold). Affreschi e specchi raffigurano leoni, grifoni, sfingi. Umani appaiono solo in feste, processioni, tauromachie. Qui Dioniso è la naturale prosecuzione del culto neolitico della Grande Dea. Le strutture architettoniche cretesi minoiche rifuggono la fortificazione – cortili, corridoi, balconi, aprono il complesso verso l’esterno. Già nel tardo neolitico si parla di architettura “agglutinante” (Hutchinson), o “senza forma”: sulla base di una stanza rettangolare se ne aggiungono altre di varia forma e grandezza. La ‘pianta’ che ne risulta “dà più l’idea
Letteratura e mitologia - UR
In una valle umida stendentesi fra l’Aventino e il Palatino aveva sede il culto di Murcia, una madre primordiale concepita afroditicamente. In quel fertile suolo si trovava la pietra divina – la meta Murciae. Questo luogo scelse Tarquinio per la costruzione del circo. In piena consonanza con la trofia tellurico-poseidonica, “ove la stessa forza viene concepita come un ente fluido-ctonico”, le bighe turbinano lungo il fiume che fa da sponda alla pista, sfiorando le spade-metae infisse nel suolo, fra uova e delfini. La madre è potnia paidofora ai fanciulli divini Apollo e Dioniso. La loro lingua, la lingua dei cavalli, la lingua dei cretesi dèmoni della superficie gaia, Hölderlin rapì agli dèi: sorgere e tramontare nel folgorare intermittente fra essere e non essere platonici.
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Stefano Calzi
Letteratura e mitologia - UR
dello sviluppo di cellule viventi” che di un disegno edificato. Hutchinson porta ad esempio la casa di Vasiliki, del Medio Minoico I, - “si direbbe cresciuta sul terreno come una pianta di edera”. I luoghi sacri sono a cielo aperto (altare + bosco sacro + recinto). E non solo “Bosco sacro”, ma l’intero immaginario böckliniano, nel sole meditarraneo, ‘pensa’ Creta. Dèmoni minoici sono spesso raffigurati nell’atto di versare libagioni o recare offerte a una dea. La dea cretese è una forma dalle molte forme e dai molti nomi – è la Dea Originaria: Afrodite, che nella sua nascita da mare e terra insieme rimemora l’ancestrale unità dei due elementi; Artemide, signora delle belve e delle piante; Cibele che nasce in Asia Minore e che Esichio descrive con bipenne e così simile alla dea-madre frigia Ma; l’Atena non omerica, ancora fedele alla sua civetta, come Fidia figura. Ma la Dea Originaria prende anche la forma e il nome di Persefone-Kore. Persefone ama Adone. Adone è anemone-asfodelo (anemos = vento). Adone ama Persefone “che non lo libera più” (Bione). E l’anemone adonico è, a Creta, insieme al grappolo sensuale dionisiaco. Persefone-Kore unisce anemone-asfodelo a grappolo-vino. Fiore del vento e uva non sono qui accostati a Cerere – mescolanza georgica di spiga e coppa – ma a Persefone infera. E’ ancora il dipinto vascolare di Enocle, in cui Dioniso saluta con la coppa levata Persefone, la dea che fu rapita da Edòneo mentre giocava con le figlie di Oceano e coglie il narciso. Edòneo figlio di Chrono che emerge dal baratro apertosi sotto il narciso. Nella Creta minoica i riti sono compiuti usando materie che rapidamente si deteriorano – vegetali, impasti dolci, sesamo, miele. Nella Creta minoica – “forma unica di molti nomi” (Eschilo, Pindaro, Sofocle) il Neolitico ci mostra vasi decorati con ornati a treccia, strisce composte da fila di v, linee frangiate. E le antichissime conchiglie marine, che insieme al modello cicladico della spirale congiunto a volute a forma di foglia introducono alle lavorazioni dell’Antico Minoico. Modelli floreali e vegetali, con perle di ceramica turchine e verdi e frammenti di conchiglia sono elaborati poi nel Minoico Medio insieme a scudi a forma di otto. La musica è ritratta in forma di donna che soffia in una conchiglia. Zeus. Certo non manca Zeus nella Creta minoica. Musica e danza attorniano la sua nascita. Egli nasce e muore nell’isola. E’ solo dio della vegetazione e la sua vita è esattamente quella del paredro della Signora delle piante. Mandorlo e pino sono i suoi aspetti fitomorfi e la sua gloria avviene nel tramonto sottoterra e nell’alba in cui ogni pianta feconda.
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L’elemento cibelico e infero, la trasmutazione di Persefone in Mater tenebrarum avviene per la prima volta nel sud-ovest cinese e prende il nome di Maya. E’ un proteismo marino-vegetale a dissolvere l’atma nel ritmo del gioco della potenza inesauribile di Maya. Generosa, nel dar vita ad esseri deboli e transitori e proteggerli – fondo materno che crea e preserva. Crudele trascinandoli nel vortice del samsâra. Il volto di Maya è Rahu – dèmone delle eclissi. Il non-atma diverrà poi l’Informe dell’essenza nell’immaginario dhyana della Scuola del Sud. Alla dissoluzione condurrà il mohua – il potere di trasformazione dell’inchiostro. La Scuola del Sud – sotto Maya-Rahu – è taoista e zen. Con buona pace di archi e motociclette. Così come la fortezza micenea violenta la casa di germogli minoica. Così come la
Stefano Calzi
dolce Circe che accarezzava accarezzata le belve diviene – nel nuovo olimpo indoeuropeo – maga malvagia che tramuta uomo in porco e le sirene in puttanelle adescatrici. Così come la Madre o accetta l’haram, il thalamos (cella), o viene isterizzata come seduttrice attentante. Così come alla donna è conferito l’Interno allo stesso modo l’uomo si trova a muoversi intorno all’haram, al thalamos, alla caverna. Ovunque e in ogni tempo il maschio tenta di visitare il luogo della femmina, circumnavigando l’isola della creazione. Nel 1854 Prohle scrive – in “Sagen des Ober-Harzes” – di una caverna in una montagna. Siamo in Pomerania, nei boschi che era solito attraversare Friedrich. Nella caverna abita la Bianca Donna di Harzburg, fantasma maledetto (Arianna? Elena? Fedra?). Incontra un carbonaio e – dopo avergli offerto un fiore – lo invita. Gli concede di colmare il sacco con i tesori della caverna, chiedendo solo che esso non venga aperto prima che sia stato guadato un corso d’acqua. L’uomo lascia la dimora della Bianca Donna dimenticandosi del fiore e la porta si chiude alle sue spalle per sempre.
Un colloquio fra interno ed esterno, fra la stanza e chi vi dimora e l’apertura veneziana della finestra, è reso visibile nella “Madonna e Bambino” di Giorgione. I colori dell’interno sono gli stessi della veduta di San Marco – verde, giallo, azzurro -, però nella stanza hanno luoghi e profili mentre fuori si confondono reciprocamente, in quel quasi monocromatismo paesaggistico soffuso in molti altri dipinti. Già è avvertibile questo vicendevole scambio negli intarsi sfumanti gialli nei verdi della parete, nella striscia decorata che fa da bordo interno alla finestra. Ma questo profondersi di colori è anche in funzione dei volti che a propria volta cercano l’esterno. E’ una stasi tonale policroma a dare ‘espressione’ ai volti. Giorgione rende ‘monotona’ la policromia. Ha qui luogo costantemente, monotonamente, una prova – un tentativo di scambio paracelsiano. La natura, l’esterno, chiedono al volto qualche specie di ‘riflessione’ – che li ‘immagini’ come essi sono, che provi a dirli, a discernere il prisma separando il verde il gial-
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Due sono gli elementi anomali nella storia: il corso d’acqua e il fiore. Ma le Sagen parlano ancora dell’arcaica triade femminile-marina-vegetale. I boschi di Pomerania, la caverna della montagna, ci dicono e ci ripetono che della donna è la Natura. Che la Madre ancora partorisce in una grotta e il tempo del maschio è menstruazione. Che la Madre è la grotta e da oscure grotte siamo generati e ad oscure grotte bramiamo ritornare. Doxiadis ha a lungo studiato il non-finito architettonico. Vi ha ravvisato il timore umano di spingere oltremisura il coraggio con cui si operano sottrazioni alla natura, alla legge di Tyche – del Caso. Purini insiste su una coincidenza originaria di architettura e natura: un conflitto perenne si svolge nell’impossibilità di separare il pensiero ‘costruttivo’ dal suo opposto. Ogni costruzione riapparterrà alla natura. L’architettura non può esistere senza natura ma per l’uomo la natura deve essere ‘architettata’. Le due entità sono costrette “in un disequilibrio permanente e in una nostalgia reciproca”.
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lo e l’azzurro ma non eccedendo l’equilibrio monocromatico, non antropocentrando per presunta dignitas quel molto difficilmente inalterabile. Ma i volti esprimono – riescono ad esprimere – null’altro che un’eco di melancholia, una già dimenticata tristezza dopo la quale, nonostante la quale, il fare prosegue e il sacro ritrova i suoi luoghi e i suoi simboli aggirando l’esterno che non è solo physis ma anche humus, - esserci ed esserci decentrati. E’ così che sacro e profano stanno su di una comune linea parallela alla natura. E’ questo il radicale antinaturalismo di Giorgione come estremo omaggio e ricordo a quella physis che ama nascondersi – nel nome del grande folle per l’origine: Paracelso. I volti e null’altro animano le tele di Giorgione. Ma sono incompiuti. La natura se ne sta costretta molto lontano, e più viene messa in rilievo più mostra la distanza. E l’attesa. L’esterno attende un qualche tratto, un qualcosa di a noi familiare sotto forma di segno che lo distragga dai segni atmosferici, fitomorfi, florali, azzurrati all’orizzonte. Attende che la malinconia del volto non sia più un dopo ma un tramite mediante il quale l’uomo possa sorprendere con stupore e liberare le incompiute albe e l’approssimarsi dei tramonti racchiusi nel prisma del tempo, amando quel monotono prisma. Cercare quei processi alchemici che fanno decantare e reagire mostrando insieme come la melancholia del sembiante, dell’aspetto umano, sia l’altra faccia della profusione physica sospesa nel tenue, pervadente, unico colore. Quest’eco paracelsiana sembra attrarre lo sguardo del più giovane de “I tre filosofi”. Diviene un chiamarsi vicendevole nel “Ritratto di Laura”. E’ provato dal lampo, nella “Tempesta”. L’avvicinarsi dell’arcaica energheia genitrix, ma come energia statica, in attesa, che non vuol far male, che chiede soltanto una breccia nel travaso alchemico concluso della madre che allatta.
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A liberare albe e approssimare tramonti va l’Ur-shrei – l’urlo originario – espressionista.
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Mai è stata notata la formidabile ascendenza antropomitologica della civiltà matrilineare e prearia in autori come Heym, Kokoschka, Stramm. Corposissimo è lo sciocchezzaio sui “grandi sacerdoti” George e Hofmannsthal, sulla “intellighenzia dei Kaffeehäuser” dove ma guarda si incontra la Lasker-Schüler – “poetessa amorosa e fantasiosa profetessa” (attingo qua e là), e tutti quanti presi “nell’andirivieni dei giovani”. Mentre gli “idoli dei Caffè” sono Van Gogh Nietzsche Freud Verlaine. Nei caffè ci sarebbero i “simpatizzanti” – “gli ammiratori, le donne dei poeti e gli organizzatori”. Giuro che ho trovato un Kraus sotto forma di “nano autore di ‘Tramonto ad opera della magia nera’” (M.T. Mandalari…se lo merita). E’ un anti-Ulisse a muovere il tutto: Ulisse il non-trasformato, cui Poseidone è nemico e “Minerva (questa snob arrivista)” (Bazlen) protettrice. Ulisse del tutto privo di fantasia e incapace di vedere la rinuncia di Calipso. Esattamente come l’Atalanta di Heym (“Atalanta o l’angoscia”) di fronte al “diffidente” Sigismondo. La luce dell’alba apporta vieto moralismo maschile (e quanto simile al “senso morale” del Capitano in Wozzeck…). Ma Atalanta si è donata ben sapendo che l’uomo “come un ragno tesse le sue reti”. Il “pallido mattino” apre l’univoco. L’univoco è aperto dal canto del gallo in Kokoschka e la Sancta
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Susanna di Stramm è un’eumenide (Dioniso e Afrodite + Muse). Queste donne sono simulacri notturni, il loro astro è la solitaria, eterna peregrina cui va il canto del pastore errante. L’astro è marina e vegetale nel “tacito, infinito andar del tempo”. L’Ur-shrei alla morte di Atalanta infrange l’ordo et connexio del sole patriarcale, infrange l’univoco come Buon Senso e il Buon Senso deve farsi cadavere divorante, vampiro che si abbevera al corpo gocciolante della donna. Questo è l’univoco. Ma la donna può donarsi perché altro. E l’abbandono sottrae all’uomo senza morte – la communication mystique di Ulisse e Penelope – la rinuncia di Calipso: l’arte di morire ogni secondo.
Ma i nuovi dèi soggiacciono a Moira – originario demone preellenico – di grande vendetta. Moira-Nemesi, sotto forma di uccello di palude – ambiente sacro alla Potnia mediterranea – rinasce nella figlia Elena e a ridicolizzare il giudizio di Atena su Oreste (che aveva ridotto le Erinni ad assistenti sociali) sparge semi di aorgico rimemorando Tetide – “artefice” per Alcmane, che la canta nella sua arcaica forma di signora del mare e della terra insieme; anche ippomorfa, a rendere gloria alla mixis equina di Chronos con la Potnia Rheia minoica. Tetide esercitava potere sul caos esiodeo – “il caos esiodeo è una delle manifestazioni della Potnia androginica” (Untersteiner). Acqueo è l’originario: Poros, principio maschile formatore, è “mezzo per passare un fiume, un guado” (De Vergiliis). E l’acqua – chiosa Otto – “tradisce una doppia natura: una chiara, gioiosa, vivificatrice e una oscura, inquietante, pericolosa e annientatrice”. Uccelli di palude si fanno incontro ad una Potnia riposante nella “Ambasceria” di Klinger. Lo sfondo unilineo dell’orizzonte Jugendstil sembra davvero limitante una sponda licia dello Xanto. Un’altra Potnia Klinger rende visibile nel Primo Intermezzo schumanniano del “Recupero delle vittime di Ovidio”. Il tempo ierofanico ritmato dall’altalena, giocabile
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Il quadrato tabernacolo delfico evoca l’iperuranio, il cerchio-bothros coperto dalla pietra-omphalos l’Ade (la formula ippocratica: dai morti ci vengono i nutrimenti, le crescite e i semi). La pietra delfica è ornata da due aquile di bronzo. L’emblema dell’arte taoista è un disco forato nel centro. Il vuoto centrale è l’essenza. Il disco è ornato da due draghi, simbolo degli opposti. Macrobio narra che in Beozia, la regione a cultura più arcaica della Grecia classica, venivano onorati insieme l’oracolo di Delfi e le grotte di Dioniso. Eraclito chiama insieme Ades e Dioniso. Le Nereidi indicano agli umani i misteri di Dioniso e Persefone-Kore. Le due aquile e i due draghi contengono l’originaria duplicità (due è numero femminile) che coglie Erodoto, che nelle “Trachinie” coglie Sofocle. La pietra delle aquile solari chiude il bothros. Ma Helios non oltrepasserà le sue misure – altrimenti le Erinni, ministre di Dike, lo troveranno. I Saturnali legano il sole all’elemento latonico: l’aria umida e addensata che si oppone all’etere perché non rifulga lo splendore degli astri attraverso il velo, come se avvenisse un parto.
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zenonianamente fra Illo Tempore e durata profana (folgorare questo tempo!), dischiude lo sguardo all’antico mito agrario del ciclo della vegetazione, delle fasi lunari, a questa cornice egea di cui Helios entra a far parte dagli orienti solari della Colchide. In Illo Tempore le specie non erano fissate e le forme erano fluide (Eliade). E’ nella religiosità agraria cretese che si ha l’unione del ghenos, della stirpe, con la vita vegetativa. E lo scorrere parallelo della religione della terra e delle acque, perché l’eterno fluire dell’acqua è l’elemento femminile da cui sgorga ciò che prende vita. La dea minoica è pelaghia, regina marium. Il dio maschile minoico-mediterraneo ha un momento solare non celeste ma ctonico nel tramontare e sorgere dalla terra. “Il sole è formato dall’evaporazione umida” (Senofane). “Il sole è un piccolo bacile, in cui viene innescata ogni mattina l’evaporazione umida e calda del mare” (Eraclito). Tempo era in cui Selene “smorzando le luci del bel corpo divino, scendeva velata di notte sul paredro in attesa. Ma ella allora godeva del sostare sulla terra. E’ Plutarco a dirci di quando se ne salì in cielo per non più ridiscendere, se non “trascinata giù a forza di carmi” (Nonno). Ma i carmi trascinano giù il riflesso – la ripetizione talisia di un archetipo profanamente esangue. “Tutto odorava di pingue estate, odorava di raccolto” (Teocrito). Le ninfe castalie – alle feste talisie dove primizie erano offerte a Demetra – scendevano dal Parnaso versando mielate bevande. E la dea si dà, tenendo in ambedue le mani spighe e papaveri. Ma spighe e papaveri sono maternità cereale centripeta, nel campo che ha termini e termini di paragone e di confine. Un tempo, in Bielorussia, il dio-grano viveva sulla terra e passeggiava per i larghi sentieri che separavano i confini dei campi esaminando e avendo cura di ogni spiga, insegnando agli uomini ad arare (Gasparini – ‘Il matriarcato slavo’). Quando la terra cominciò a scarseggiare, anche i sentieri dei campi furono coltivati. Il dio se ne offese e scomparve, chi dice in cielo, chi nella terra. Scomposto il principio di distribuzione e di individuazione, i campi sono l’Informe della natura che ormai dimentica l’agire dei mortali. Il canto si fa elegia – selvatiche piante nella campagna selvaggia sono disseminati i mortali e i figli della terra stranieri l’uno accanto all’altro immemori d’appartenersi. L’Empedocle di Hölderlin, come il Cristo hegeliano, ha troppo conciliato, prematuramente. E il destino del tempo – il neikos – chiede vittime. E per quanto il capraio elogi la dolce bocca e la soave voce del pastore Dafni, solo tacere può della insuperabile risposta che questi dà a Menalca nella gara canora: “E ieri la fanciulla…dal suo antro vedendomi…disse che ero bello, bello…Non le risposi alcunché, neppure una parola amara, ma guardando a terra me ne andai per la mia strada”. Dafni è “l’uomo senza amore”. Così lo chiama “l’incantatrice” che rivolge la cantilena a Selene: “Sappi l’amore mio onde venne, augusta Selene”. Ma onde venne è proprio ciò che ha compreso l’efebo – che la felicità è rottura dell’ordine e foriera di sventura. E l’invidia degli dèi che genera l’inganno è “conseguenza della troppa fiducia e quindi della hybris dell’uomo” (nota di Untersteiner a Senofane che accusa Omero di avere reso gli dèi ingannatori). Ma con un threnos ben più luttuoso Bellerofonte si accorge da vecchio che solo la diomedica necessità sovrasta la creazione, e gli dèi nutrono una uguale collera verso tutto ciò che è terrestre. Bellerofonte, “in cui la forza virile si manifesta ancora come principio
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Molte sono le affinità , studiate da Brandenstein, che legano Creta ai tramili-fenici e questi ai lici greci. Sulle montagne dove l’ultimo sole può ancora incontrare i raggi del primo sono edificate le necropoli carie. L’oltretomba stesso è qui sulle alte vette dove il verde è più folto ed esteso. La stessa montagna è sede e oggetto di culto. Le è padre Chrono, Cibele la madre. Appellativo dei lici era anche “ogigi”. Ogigia era l’isola di Calipso, antica Pelaghia, posta all’ombelico del Ponto. Una radice fenicia – ricercata da De Camp e Lewy – inscrive “og” come “cerchio”. Tale sarebbe anche l’origine della parola Okeanos. Lewy tradusse la forma derivata “ogeg-hogeg” con “l’acqua che forma un circolo” – da cui Ogigia risulterebbe “l’isola dell’Oceano circolare”. Un identico cerchio si dischiude intorno al ponto licio generatore. All’aurora, quando all’orizzonte mare e sole appaiono ancora uniti, Teocrito narra di come le donne si dirigano alla spiaggia porgendo a Helios il rodopachus Adonis. Di questa Licia e della sua scuola sacerdotale tracio-iperborea scrive Bachofen. In primo luogo l’intera architettura licia è necropolitana. Stile equilibrato “nel pensiero e nella forma…austero e dignitoso…Arte influenzata da un pensiero mistico, tesa a esprimersi per simboli, pone in relazione l’osservatore con un mondo superiore estraneo e misterioso”. Stile di pietra, mai terracotta. Nella necropoli compiva la perfezione dei propri tratti. Edificata in un solo tono, muto, sui luoghi più alti, sul simbolo stesso – i due raggi opposti che ancora si toccano – di quella civiltà che le voleva lasciar fiorire intorno odeon e teatri e stadi. Quella civiltà fondata sulla memoria sepolcrale. E sull’infanzia. Un rilievo su roccia, vicino ad una sorgente sacra, mostra una ninfa che dona acqua, circondata da guerrieri a cavallo (equus-aqua) con le spade sguainate nell’atto di accingersi a difendere fino alla morte non tanto la terra quanto proprio le tombe che la terra custodisce. Queste sono l’inalienabile. In quanto memoria sacra. “Supplices audi pueros, Apollo”. Apollo licio protegge l’infanzia. Il coro è sempre composto da tre volte nove fanciulli. Ma infanti sono anche i defunti. Qualunque sia la loro età, sono “appena nati”. Ma perché Bellerofonte – colui che mise la briglie a Pegaso – si scaglia con tanta ferocia contro la propria natura? A che generare? A che un’azione eternamente sterile? In Licia origine è femmina. Il phallus nasce dal mare, che è femmina. Licia significa luce aurorale. Licia è il toccarsi, l’ancora toccarsi di giorno-padre e notte-madre. Bellerofonte vince le Amazzoni nel nome del diritto materno, della ierogamia – l’unione sacra di sole e luna, di Zeus e Demetra, di Poros-desiderio e Penia-privazione. Per le
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umido poseidonico” (Bachofen) – l’oracolo dei pesci, il lago paludoso di Latona, le Salacie patariche. Ma allora questi dèi sono ingrati e andrebbe insterilita la materia che nutre solo morte. “Meglio non generare” che assistere al tramonto di quel che è sorto a vita. “A che vale un’azione eternamente sterile?” Le Danaidi versano eternamente acqua nella botte forata. Se il licio volesse nominare i propri padri somiglierebbe a chi volesse contare le foglie dell’albero cadute e dimenticate.
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Amazzoni luna è vergine gorgonica, ma il maschio licio vuole aurora, deve avere aurora – dove e quando l’ultimo raggio ancora tocca il primo. Demetra è la vera Femmina licia. Demetra salva dall’eterismo afroditico. Ma la donna è Demetra e Afrodite. E se il phallus nasce dalle acque marine, sono le menadi le donne del mare. Se la concordia dei sessi è il fondamento della cultura licia, questa cultura dipende tutta dal phallus che – per uscire dalle acque, per nascere – deve attraversare le menadi. E’ Dioniso il “dio ingrato” di Bellerofonte. Dioniso la cui epifania attica fu germe di caos e divisione, nel villaggio di Icaria, da Icario ben accolto. Sia chi è ospitale con Dioniso sia chi lo rifiuta “subisce lo stesso destino di esilio e di isolamento” (Massenzio). Dioniso lysios – colui che scioglie – è “pseudanor”, pseudomaschio, “gymnis, arsenothelos”, femmineo, “dyalos”, ibrido. Dioniso è maschera. Il phallus licio nasce dalle baccanti che lasciano il focolare nelle ore notturne. Il phallus licio nasce dallo sparagmos – la lacerazione. La castrazione. L’estrema risposta è Apollo licio: la mediazione tra l’Apollo delfico e il Dioniso attico. Disperata risposta, come nel mito scandinavo a Ran – dea del mare che cattura i maschi con le sue reti e li annega – si affianca il marito Agir che placa le tempeste. Il tritone accanto alla sirena. Disperata come ogni ottativo di ogni teologia, che nasce appunto con Euripide quando fa dire a Tiresia che Dioniso è versato in libagione agli dèi, così che gli umani ottengano beni. Oreste trasgredisce la legge solo per rimettere le cose a posto, con gesto olimpico. Elettra riconcilia i sessi. La nuova legge di Atena e Apollo. “Ma la natura mi gioca, mi getta più lontano di se stessa, al di là delle leggi…La mia imbecillità ha benedetto la natura caritatevole, inginocchiata, davanti a Dio” (Bataille – ‘L’Orestea’; Essere Oreste).
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A mezzogiorno si addormentano le menadi sugli alti pascoli di Arcadia. E il pastore, accostandosi loro, attento a non sfiorarle, si ripete: Afrodite inclina gli opposti ad attrarsi. Una brama congiunge e quando la brama è sazia il conflitto interiore di nuovo separa. “E allora l’uomo dice: ‘Questa cosa trapassa’” (Nietzsche).
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“Chi può vantare una discendenza più vicina a quella di chi ha per patria il cielo, o chi altro mai una Nereide portò di nascosto sino alle acque dello Stige?...Chi dal suo primo crescere fu educato alla dura scuola del Centauro?” (Stazio, “Achilleide”; I, 477 ss.). Chirone insegna ad Achille a “non aver paura di fronte al fragore dei massi spaccati dalla forza dirompente dell’acqua né di fronte ai vasti silenzi degli immensi boschi” (II, 104-5). Achille che torna dalla caccia e – “come Apollo licio” – “scambia la terribile faretra con la lira” e canta glorie d’eroi. Una “impercettibile differenza” dà sesso al giovane. Questa gli permette il soggiorno femminile a Sciro. Qui era un bosco, sopra un alto monte, dedicato al culto di Dioniso. Voleva la legge che i maschi vi stessero lontani – “ripete il venerando sacerdote ogni volta questo comando…Né basta: sul limite prescritto sta una temibile sacerdotessa che osserva l’accesso e bada che nessun profanatore si mescoli al gruppo delle donne: tacito dentro di sé sorrise Achille”. E’ Apollo licio che si rivolge a Licaone sullo Xanto – “sarà un mattino o una sera o un
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meriggio, quando qualcuno mi strapperà la vita” – e dopo averlo ucciso lo (si) getta ai pesci. Achille è il Letoide, l’Incompiuto e Incompibile. Figlio del “glauco mare” trae dal luogo avito ed alza al cielo la bilancia licia di acqua e luce. Le briglie che Bellerofonte pose a Pegaso (acqua e luce). Il matrimonio nello spirito che Kouraphrodite custodiva. Tutto si discioglie nel desolato “A che generare?”. E Poseidone inonda la Licia e Achille licio indossa lo sfolgorante elmo a coda equina, dal tremendo ondeggiare.
Nel 1905 Klinger acquista Villa Romana, in Via Senese, a Firenze, volendo farne una casa di riposo per artisti. Da pochi anni il vecchio Böcklin aveva smesso di passeggiare su e giù lungo il Mugnone. L’anno dopo, guardando Firenze da San Miniato, Simmel parla alla e della città, ma mostra ciò che così profondamente unì la Marina bökliniana alla Campagna toscana, alla Terra fiorentina. “Da quando il senso unitario della vita proprio dell’antichità è stato lacerato nei due poli della natura e dello spirito – da quando l’esserci immediato e visibile si è ritrovato estraneo e in opposizione al mondo dello spirito e della interiorità – da allora si è posto il problema della perduta unità…Questo fine sembra pienamente raggiungibile soltanto nel-
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Gli anni di Basilea e di Roma, dei Pan dalla genealogia sradicata che attentano alla ninfa Siringa per ritrovarsi soli e malinconici a suonarne il corpo trasformato in giunco in qualche canneto di palude. Celata dal fogliame e dalle rose di un parco cinquecentesco, una “Venere abbandonata”. Nel 1874 Böcklin è a Firenze. La casa a San Domenico e il laboratorio lungo il torrente Mugnone. Quel passeggiare su e giù lungo il Mugnone che fece pensare alla moglie che l’ispirazione del “Prometeo” gli fosse venuta dall’ombrello di nuvole sopra Monte Morello. Ebbene in quegli anni i circoli cittadini sono pieni di tradizione romantica francese, Lega dipinge “Le bambine che fanno le signore” e Fattori – correggendo gli studi degli allievi – allunga smisuratamente mani e piedi. Soffici pone Böcklin nella schiera dei “maestri mancati”. Alla sua morte, si ha solo una nota di passaggio su “l’Arte”, alla voce “Notizie di Germania”. Recentemente, un suo quadretto con dedica ad un collezionista macchiaiolo è stato venduto per poche lire in un’asta milanese. Del vecchiaccio ci restano poche cose: un suo parere su “Le Tre Grazie” di von Marées: “Quando uno crea le tre Grazie, per noi non ha dipinto che tre donne nude, appiccicate insieme in maniera sconveniente e che si palpano…Che cosa sono per noi le tre Grazie?...Semplicemente non ci sono, malgrado tutta l’erudizione classica e la presunzione degli eruditi”. Ci resta il delizioso quadretto che fece Klinger della sua visita a Lipsia, nel 1894, con la quale Böcklin volle ricambiare la precedente dell’amico ed estimatore, a Fiesole: “Il vecchio era la gentilezza personificata. Era spassoso, instancabile, e in nessun caso c’era verso di staccarlo dalla tavola prima delle due di notte. Intorno a lui era stato allestito una specie di servizio d’ordine occulto; avevamo spedito nostro figlio a Berlino per impedirgli in tutti i modi di esporsi personalmente ai suoi esperimenti aviatori…Da egoista, io fui felice di poter trascorrere tre giorni con lui”.
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l’opera d’arte…Quando si guarda Firenze dall’alto di San Miniato, nella cornice dei suoi colli, attraversata dall’Arno come da una linfa vitale…quando nel pomeriggio si va attraverso le viti…e i cipressi. L’arte che qui agisce come prodotto del suolo. Papaveri e ginestre, ville chiuse come misteri, fanciulli che giocano, l’azzurro e le nubi del cielo…non per la singola bellezza, ma Firenze nel suo insieme. Le vecchie mura che salgono il monte, le ville sulle cime con i cipressi annosi…il passato accanto al presente senza tuttavia toccarlo. Tempo ideale dell’opera d’arte…Firenze…non significa nulla. Essa è ciò che può essere. Il limite di Firenze è il limite dell’arte: la terra di Firenze non è la terra nel cui cuore l’uomo si rifugia per risentirne l’oscuro calore, la forza informe…Firenze non è posto per epoche che intendono cominciare ancora una volta, che vogliono ritornare ancora alle fonti della vita. Firenze ha raggiunto l’essenziale della vita oppure vi ha rinunciato, e vuole cercare la propria forma in questo pieno possesso o in questa piena rinuncia”.
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Ma il limite di cui parla Simmel – limite di Firenze e dell’arte - è la necessità della trasformazione nell’irripetibile che rende originaria la nota musicale mahleriana. La nota deve incessantemente sperimentare la propria trasformabilità tenendo ferma l’irripetibilità. Si deve passare oltre perché non si può ri-formare. L’uso mahleriano della tonalità è questa ininterrotta catena – le sospensioni in silenzi dell’Adagetto della Quinta sono l’altra e identica faccia dell’accavallarsi di archi e corni nel quarto tempo della Sesta, del “kreisschend” – stridente – dello Scherzo della Settima e del trio della marcia funebre della Quinta “improvvisamente più veloce, appassionato, selvaggio” (partitura). Ex-pressione come superamento – oltrepassamento dei “limiti naturali”. Ma perché Mahler è preso, preso dalla morte sulla cui parola dissonano le viole? Nel canto ebbro del dolore della terra “nei raggi della luna / sui sepolcri / si china / una selvaggia figura spettrale. / E’ una scimmia! Ascoltate come le sue grida / erompono / lancinanti / nel dolce profumo della vita!”. Al culmine del dolce profumo della vita sta la vicinanza della morte, come nella Parigi di Baudelaire e Rilke. La dissonanza accolgono tutti gli strumenti a percussione “con gli ottoni che suonano senza sordina” (Duse) nella cavalcata in “Della bellezza”. Perché al culmine del proprio fulgore la cavalcata si fa eco. Perché Diotima è un fragile fiore d’inverno, che ancora cerca il sole. Ma ancora, cos’è a morire? L’unio mystica hölderliniana? Sì, ma in quale forma? Nella forma del fiore che in questo prato non sboccia. Il dolore mahleriano sulla terra è il dover venir meno al “sacro custodire” l’attesa che un giorno “parole, come fiori, sboccino”. Sono le domande di questo tempo a non poter avere risposta. Se parole verranno, saranno per dare altre risposte. Questo è l’azzurro che “ovunque e sempre” illumina gli orizzonti nell’Addio. In un’alba e nel suo tramonto si canta il canto d’addio alla desolazione della terra. Ma nel clangore della scimmia sui sepolcri, in un salto ascendente che introduce le nuove tonalità il tenore del “Canto ebbro” esclama: “Il canto del dolore deve risuonarvi nell’anima scoppiando in una risata!”. Allora si può bere. E passare oltre serpenti e scimmie. L’Ur-Pflanze – la pianta originaria goethiana – è pensata come metamorfosi nei termini di una ripetizione infinita – infinita varietà – della semplicità della foglia.
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E’ l’infinita varietà della semplicità della palma in Valéry. Indifferente ai richiami e agli addii, assorbe richiami e addii per rigenerarli in frutto. Pane e latte porge l’angelo al poeta, - “resta calmo, calma! Impara il peso di una palma che porta la sua profusione”. Pazienza. Pazienza in cielo puro (“dans l’azur!”). Perché meraviglie - “le brezze…una donna che si appoggia” – sono l’hereuse surprise di “quelle che pensi giornate vane”, che hanno invece radici affamate “a travagliare i deserti”. Questa ‘meravigliosa’ indifferenza ritorna nel calore meridiano di Sète, immettendo nel medesimo gioco sia il frutto che i dissolti nelle radici del cimitero marino. Il gioco vuole il frutto disciogliersi – in godimento, “come in delizia cambia la sua assenza” – in una bocca dove la sua forma muore. Mentre i dissolti – la “specie bianca” – sono bevuti dalla rossa argilla, trapassano nei fiori (fiori-frutti). Vari e svariati tempi fanno del cimitero il “Tempio del Tempo”. Uno ciclico archetipico, qui ciclico-marino (la calma degli dèi). Uno sotto la specie della scintilla – il prestèr eracliteo – fra il nulla e il puro evento. Ma il primo entra in un flusso e deflusso orizzontale sempre passato, e le essenze “porose” sono frastagliate conchiglie di litorale. Il prestèr entra in un vuoto eleatico “sempre futuro”. Un terzo tempo ha il meriggio che “in sé si pensa e a se stesso conviene”. E’ il tempo della conoscenza nella forma del sogno. D’oro e d’onda, assume un andante ‘lineare’. Lineare come un’onda, o un orizzonte, o un sogno. Ma all’orizzonte il meriggio è distolto dal sogno e visto-uno con il mare. Entra nel gioco del cimitero e del mare. Entra nel godimento dell’io-frutto, che si discioglie ritornando all’indifferenza. Vi entra insieme al sogno senza conoscenza. I tempi del tempio ancora s’incrociano e trasmutano: il prestèr-scintilla cade nel vuoto perennemente in fieri della freccia zenoniana – indifferente eterno presente. Il tempo marino archetipico accoglie le spore che gli giungono dal cimitero e dal meriggio come sogno e le restituisce in “incanti”, - “salmastra potenza”, scheggia d’acqua che in polvere ingiallita rierompe dalle rocce. Prestèr.
_ _ La - l’Origine – eraclitea non è lo Zurva n di Zoroastro e non è il Ka la delle Upanisad. Suo analogo è il babilonese Duri Dari – sempre e sempre. non è – principio. E’ inizio e fine di tutte le cose che mutano e insieme di tutte le cose che mutano. E’ noumeno e fenomeni. E’ il molteplice e l’Uno. Uno in quanto molteplice e molteplice in quanto Uno. “Comune il principio e la fine nel cerchio” (73). Eraclito è Eraclito l’Oscuro.
– non “sulla” né “della”, ma “intorno” all’origine.
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La “Villa am Meer” di Böcklin attraversa Basilea, Roma e Firenze. Le sue ripetizioni vanno dal 1864 al 1878. La donna al muro diroccato della casa dalle intatte statue. Cipressi. L’orizzonte giunge in onde. Silenzio. E la parola eco del richiamo del silenzio.
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Sapiente è colui che conosce “l’armonia non visibile”. Sapienza non è ‘fenomenologia’ della di Polemos Giustizia e Necessità che governano il fluire delle cose. Se “nello stesso fiume non è possibile entrare due volte” (30), pure “negli stessi fiumi entriamo e non entriamo, siamo e non siamo” (31). Perché entrare nel fiume è “conoscere l’immediato”, ma sapienza – Sophia – è ‘intendere’ “secondo l’origine” (76). Se l’acqua del fiume non è mai la stessa, pure sempre lo stesso è il fiume. E dunque l’acqua non è ed è sempre la stessa poiché già-stata, trascorsa, - poiché il fiume sfocia nell’origine. I fanciulli che schiacciano i pidocchi ingannano il più sapiente dei Greci – “tutte le cose che abbiamo visto e preso, le lasciamo; quelle che non abbiamo visto né preso, le portiamo con noi” (118). Tutto ciò che apprenderemo è già appreso. Possiamo comprendere solo il già compreso. Il non appreso, il non compreso, non hanno luogo nel mondo dell’essente. Il non essente è essente. Ma anche l’essente è non essente. Sperare l’insperabile è contro-senso non già perché a-poros, non già perché “ad esso nessuna strada conduce”, ma perché l’insperabile è già-stato-sperato, è già stato ‘scoperto’. “Di chi dimentica dove conduce la via” (100). La via conduce indietro. Nel mondo del progresso e dell’economia, nel mondo in cui Mida interroga Sileno, l’Origine ama nascondersi – “poiché mancano di fede, non si lascia riconoscere” (120). Solo “giochi di fanciulli” (87) possono ri-conoscerla. Eraclito separa sapienza da conoscenza. Nella conoscenza delle “cose manifeste” gli uomini vengono “tratti in inganno”. Eraclito separa origine da principio. da
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. Principio è Fuoco, che entra nel gioco di Polemos Giustizia e Necessità. Insieme ‘configurano’ il mondo nel quale gli umani “nati, vogliono vivere e trovare destino di morte, e lasciano figli perché siano destini di morte” (49). “Morte è quanto vediamo da svegli”(90). Ma la sapienza che vuole l’origine, vuole la morte postuma a se stessa, come destino verso l’Origine. Vita e morte “sono la stessa cosa”. E “questo mondo non lo fece nessuno degli dèi né degli uomini, ma sempre era, è, e sarà” (2). “L’eternità è un fanciullo che gioca, muovendo i pezzi sulla scacchiera” (123). Il fanciullo ha la mossa, il gesto che solo consacra la vita: la volontà nel destino.
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Epilogo. All’origine.
Nel mare Egeo, nella Creta preistorica e in Mesopotamia, MA e MATA significano “donna di ogni forma di vita e di fertilità”. In semitico, MA significa “acqua”. Da quando Zeus lo incatenò, Saturno-Chrono dorme inebriato dal miele. Nell’età
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aurea Chrono lo assaporava stillante dalle querce. Mielato vino inebria e perde i Centauri, che per primi lo centellinarono. “Disonorare i centauri bimembri” (Cornificio). L’Apollo del museo di Madrid, dai capelli mollemente raccolti alla sommità della nuca, è licio e colloquia con Helios e Selene. In Etiopia colloquiava Dioniso, nella trinità Meroe (Helios-Selene-Dioniso). Un testo orfico considera le Moire parti della luna – che fila, misura, ripartisce.
Metaponto alle foci del Bradano e del Casuento. Cultura cereale e Demetra Bona Dea. Artemide è Themi eukleia, giustizia. Ha un altare allo scoperto, in un boschetto, insieme a Tyche. Bacchilide se ne innamorò, “presso le larghe acque del Casa”. A Metaponto uno statero con spiga di grano e locusta. Una giovane divinità con barba, corna e orecchie di toro, nudo, con una patera nella mano sinistra e una canna palustre nella destra: Acheloo. Aqua viene dal suo ‘Ach’. Padre delle sirene, delle acque scorrenti e benefiche, bonificatore dell’agro. Sul retro della moneta con locusta c’è un delfino. C’è anche Sileno. Alybas è il padre dell’eponimo Metabos. Alybas significa “morto disseccato”. Poseidone è il padre adottivo di Metabos. In dialetto eolico Poseidone si dice Mesopontios. A Posidonia, culto di Chirone. Quando Mitridate incendiò un boschetto sacro alle Eumenidi, si udì un terribile riso e i vati imposero un sacrificio umano. Ma anche dalla ferita alla gola della fanciulla sacrificata sgorgò una risata che turbò il sacrificio (Giulio Ossequente). La dea Moneta era duplice – fortuna nella polis e Dike (moneo). Incarnazione del principio femminile-materiale del Thesmos, la Iustitia in bellis. Le si edificò un tempio nelle proprietà di M. Manlio Capitolino. Questi, infatti, l’aveva offesa.
M come Mutterland. Il tellurismo erinnico della prima parola filosofica. La materia avita in cui ogni ethos si ridissolve, da cui proviene ogni ghenos. Argenteo uovo ‘terminato’ – in greco: mangiato.
stefanocalzi@tiscali.it
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Mantica, da ‘mainesthai’ – essere fuori di sé. Il piucheperfetto greco ha ‘sapere’ come ‘avere visto’. Solo chi ha già visto vede e prevede. Vede il futuro dal passato – mnemosyne.
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8. AltreLetture
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Luciano Cecchinel è penetrato nella mente e nel cuore del lettore, senza più dargli pace, con un ronzio ossessivo e ammaliante, che è anche di un dialetto e di una gente egualmente perduti e salvati da un gesto – quello della scrittura – sentito per tanti aspetti come sacrilego (ma necessario fino all’autodafè). Ora, quasi riprendendo uno di quei sentieri in salita che si incontrano continuamente in Al tràgol jért, L’erta strada da strasino (1988, 1999?), lo ritroviamo “par tragoi forèsti lontan” (“per strade sconosciute lontano”), spinto ad entrare fisicamente in quelle ninnananne che la madre americana gli cantava da piccolo, e a rivivere così leggende e miti famiLuciano Cecchinel, Lungo la traccia, liari di un’America di emigranti. Ciò avviene “lungo Einaudi, 2005. una traccia” che rimanda, fino a confonderli e congiungerli circolarmente, sia al cammino degli avi partiti per gli Stati Uniti d’America nel 1905 sia a quello del poeta, tornato in Ohio, al posto della madre, nel 1984.
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Anche qui ritroviamo i tratti tipici della personalità poetica di Cecchinel, quali ad esempio l’adesione alla povertà sentita come destino (in cui stanno motivazioni biografiche ed etiche profonde); il farsi carico, per riscattarla, di una subalternità amata fino all’identificazione che non cancella ma esalta il sentimento di alterità; oppure la sete di giustizia che si mescola ai sensi di colpa; infine la parola pronunciata e scritta come forma di consolazione e risarcimento, in cui le rime e i piedi del verso sono anch’essi tracce di una sapienza che si esprime per sentenze o proverbi. Ma ciò che colpisce non è la continuità, pur facilmente riconoscibile, ma lo scarto, il modo in cui Cecchinel è riuscito a liberarsi, pur rimanendo fedele a se stesso, da un mondo e da una poesia corsi da voci sciamaniche ma che avrebbero forse potuto farlo prigioniero per sempre. Era insomma difficile immaginare, prima di questo Lungo la traccia, un altro, diverso Cecchinel, tanto alto e compiuto appariva il libro unico del Tràgol. E invece, con la semplicità e inevitabilità di ciò che accade, ecco il fantasma onirico del poeta, “sonnambulo forastico” per “una vecchia strada dietro la Grande Via” “sulla traccia di un mio, di un tuo passato”. Con un movimento che alterna continuamente verismo e allucinazione, volontà e febbre, rivolta e accettazione dell’ineluttabile, Cecchinel passa dall’asprezza rurale della Vallata delle Prealpi trevigiane all’asprezza metallica dell’Ohio River. L’alterità è inizialmente rappresentata da labirinti e voragini dentro cui si precisa, ma come dentro uno specchio infranto, la casa straniera (appun-
L’impossibilità di tornare, questa morte vissuta che ci divide per sempre da ciò che siamo stati, è solo il vestibolo di un inferno siderurgico, di altiforni, ciminiere, città ferrovetrose, in cui la psiche stessa dell’uomo cola imbrattando con sé ogni cosa, anche il cielo. Ancora più assurdo sembrerà allora il sacrificio di tante vite, visto dalla ragnatela continua di proprietà private e di consumistica ruggine in cui si è ulcerato il sogno americano, ragnatela che, come un’immensa babele, ha colonizzato tutto, perfino lo spazio e la luna (quella luna “migrante” che accompagna come un leitmotiv, insieme alla lanterna oscillante dei pionieri, il movimento sconnesso e vertiginoso del poema). Immagini di deserti o di stagni, qualcosa di acido e raggelato in lampi, o di tremante, ne divengono il contrappasso lirico: e tremante è sempre la lingua, le lingue, il plettro di questo poeta, anche quando egli finisce per apparirci, con e diversamente da Whitman, un cantore dell’implosione, dell’orgoglio umiliato e redento. Marco Munaro
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to, “altra” e “mia”), specchio che inghiotte e affolla vivi e morti, straripamento e vuoto, lamento e pietà cosmici. Ma l’alterità è anche linguistica ed espressiva, perché qui Cecchinel riprende, ma trascinandolo in un’atmosfera onirica e cupa, il linguaggio aulico della nostra tradizione letteraria e lo immerge dentro una musica ricca di motivi country e blues o spirituals, cioè dei segni distintivi della cultura popolare americana. A tratti erompe il dialetto, la povera lengua di un passato da rimuovere, rimosso, eppure ritornante come prepotente soffio vitale. La voce di cantilena, invece, che sempre udiamo dentro ogni testo viene dalla madre bambina sradicata dalla sua terra natale, grand land of liberty, come sradicato era stato il nonno italiano dall’Italia (e ogni emigrante). In questo modo – attraverso l’intima voce familiare e straniera della madre – Cecchinel arriva ad udire le altre voci di emigranti (dopo averne imparato in fotografie e lettere il grido), fino al confronto con la grande tradizione letteraria americana, ma sempre nel timbro di quella voce interiore che conferisce al libro la sua più alta verità mitica. La quale poi si rivela in un susseguirsi di immagini, ora di dettagli, visi, sguardi, ora di intere scene corali e di spazi immensi, allo stesso tempo rimpiccioliti e dilatati. La durezza di mottetto che qua e là assume la lingua poetica di Cecchinel ha però dentro un afflato, un’ansia che dinamizza e non si acquieta anche quando si inceppa. E che viene forse dalla forza con la quale egli sente il peso del fato, come nei poemi antichi o nelle società arcaiche sedentarie e nomadi (come quelle degli emigranti, dei coloni o degli indiani), quelle che Cecchinel meglio conosce e ama. Nella sua eneide e telemachia del mai più, Cecchinel assume il punto di vista di reietti, un cercatore di pepite, un vagabondo, una morta suicida, un vecchio operaio farneticante, che cantano la loro sfiatata canzone alle erinni, e infine l’avo Bill Maldoth, Guglielmo Maldotti.
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Antonella Anedda (1955), Notti di pace occidentale, Donzelli, Roma, 2001. “Non c’è salvezza nell’attardarsi di un millennio semplicemente i suoni si alzano più fitti dentro il vento uno stormire di uccelli e di foresta. combatti nonostante il tremore. Ma noi parliamo a candele, ad auspici imperfetti a ombre che abbracciamo con fervore e la lingua è la stessa che si porta migrando dalle isole: una nube in gola che oscura la dizione degli oggetti.”
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Erri De Luca (1950), Solo andata - righe che vanno troppo spesso a capo, Feltrinelli, Milano, 2005. “La nostra terra inghiottita non esiste sotto i piedi, nostra patria è una barca, un guscio aperto. Potete respingere, non riportare indietro, è cenere dispersa la partenza, noi siamo solo andata.”
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Pier Paolo Giannubilo (1971), Questo è il mio corpo, Palomar, Bari, 2004. Cinque monologhi, un’intervista e una lettera. Sette racconti “crudeli” sul corpo umano, metafore inquietanti della solitudine contemporanea. Storie che mescolano la cronaca con il fantastico e il grottesco, le ipotesi metafisiche e i paradossi sacri. Ma anche la brutalità con la tenerezza, l’ossessione del disfacimento e del nulla con l’esercizio della pietas.
Chiara Moimas (1953), L’angelo della morte e altre poesie, Scettro del Re, Roma, 2005. “Ma ritorno e mi trafiggo sul biancospino spudoratamente fiorito m’immergo nel vapore che mitiga i confini e sento la melma ostruire ogni fonte di respiro.”
DIECI SEGNALIBRI D’AUTORE PER ALTROVERSO
Questo numero otto di AltroVerso trae una linfa speciale dall’arte visiva del pittore, regista e scenografo Nicola Macolino, il quale ha disegnato appositamente per il quaderno dieci segnalibri d’autore che celebrano dieci preziosi incontri alchemici tra pittura e scrittura. Ciascun segnalibro riproduce un’opera visiva dell’artista ed una citazione tratta da un testo pubblicato nei precedenti numeri della rivista. A tutti coloro che si abboneranno entro il 30 settembre 2005, AltroVerso regalerà la collezione completa a colori dei segnalibri disegnati ed autografati dall’artista visivo.
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