AGENDA PER I DIRITTI UMANI IN ITALIA (aggiornata al 1 marzo 2015)
Nel gennaio 2013, un mese prima delle elezioni politiche che hanno portato alla formazione dell'attuale parlamento, Amnesty International Italia ha lanciato la campagna “Ricordati che devi rispondere”. L'Italia e i diritti umani. La necessità della stessa nasceva dalla constatazione che in Italia ampie fasce di popolazione subiscono o corrono il rischio di subire violazioni dei diritti umani, provocate da inadeguatezze del sistema giuridico e/o da scelte politiche sbagliate. Nel chiedere un impegno serio a chi si proponeva, candidandosi, alla guida del paese, Amnesty International Italia ha presentato un programma di riforme, contenuto in un’Agenda in 10 punti per i diritti umani in Italia, con una lista di richieste articolate per temi prioritari. Attraverso il lancio della campagna e la presentazione dell’Agenda, Amnesty International Italia ha chiesto ai leader delle coalizioni e dei partiti in lizza, e a tutti i candidati e le candidate, di esprimersi chiaramente su ogni punto, prendendo una posizione netta e impegnandosi davanti all’elettorato a realizzare, in caso di assunzione di responsabilità istituzionali dopo le elezioni, attività legislative e di governo nel senso richiesto dai 10 punti. L’Agenda ha ottenuto, alla vigilia delle elezioni politiche del 2013, molte importanti adesioni. Cinque leader dei partiti o delle coalizioni in lizza – Silvio Berlusconi, Pier Luigi Bersani, Antonio Ingroia, Mario Monti, Marco Pannella, oltre a Nichi Vendola, Paolo Ferrero – e più di 380 candidati (118 dei quali, corrispondenti a circa un ottavo del parlamento, sono stati eletti) hanno sottoscritto, integralmente o per la maggior parte, i punti dell'Agenda. Il presente documento dà conto delle risposte che governo e parlamento hanno dato nei primi 18 mesi della XVII legislatura alle richieste contenute nell’Agenda di Amnesty International Italia. Amnesty International Italia continuerà, per tutta la durata della legislatura, a chiedere a coloro che hanno un ruolo politico e/o istituzionale, e in particolare a coloro che hanno sottoscritto l’Agenda, di realizzare riforme finalizzate al pieno rispetto dei diritti umani nel nostro paese.
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1. GARANTIRE LA TRASPARENZA DELLE FORZE DI POLIZIA E INTRODURRE IL REATO DI TORTURA 13 anni dopo il G8 di Genova del 2001, molti dei responsabili delle gravi violazioni dei diritti umani commesse in quell'occasione sono sfuggiti alla giustizia, restando di fatto impuniti, mentre in Italia mancano ancora importanti strumenti per la prevenzione e la punizione di quelle violazioni. Nel frattempo, diversi altri casi, in particolare, di persone che hanno perso la vita durante il proprio arresto o mentre erano nelle mani delle forze di polizia, chiamano in causa la responsabilità di appartenenti a queste ultime. Per porre fine alle violazioni dei diritti umani che vedono un coinvolgimento delle forze di polizia e riaffermare il ruolo centrale di queste nella protezione dei diritti umani, è essenziale che le lacune esistenti vengano al più presto colmate. A tal proposito, dopo i falliti tentativi delle legislature precedenti, è da registrare come un passo positivo la presentazione di nuovi disegni di legge miranti a introdurre il reato specifico di tortura nell'ordinamento italiano sia alla Camera dei deputati che al Senato. I disegni di legge presentati al Senato a partire dal 22 luglio 2013 sono confluiti in un testo unico approvato il 5 marzo 2014, con voto quasi unanime. Pur in presenza di alcune criticità, il disegno di legge approvato dal Senato, qualora fosse approvato anche dalla Camera dei deputati, rappresenterebbe un importante passo in avanti rispetto alla situazione attuale, nella quale la tortura non è, in quanto tale, neppure menzionata nel codice penale. Per questo Amnesty International si augura che l'iter parlamentare sia tempestivamente completato e che si giunga finalmente – dopo avere eventualmente apportato quelle modifiche migliorative che raccolgano il consenso dei componenti di entrambi i rami del parlamento – a introdurre la fattispecie specifica di tortura entro questa legislatura. L'introduzione di una fattispecie specifica di tortura, in attuazione della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, ratificata dall'Italia ben 25 anni fa e mai compiutamente attuata, oltre a essere nell'interesse generale del paese, sarebbe – secondo Amnesty International – nell'interesse delle stesse forze di polizia, che non traggono alcun giovamento da una situazione, come quella attuale, nella quale coloro fra i propri appartenenti che dovessero compiere violazioni dei diritti umani continuerebbero a non essere adeguatamente puniti. Una buona notizia, dal punto di vista delle modifiche necessarie a prevenire la tortura e i trattamenti inumani e degradanti nei luoghi di privazione della libertà, è rappresentata dall’istituzione di un Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, prevista all’art. 7 del decreto legge n. 146 del 23 dicembre 2013, convertito con legge n. 10 del 21 febbraio 2014. Amnesty International chiede che si dia tempestivamente applicazione a quanto disposto e che il Garante nazionale possa al più presto diventare operativo. E' inoltre urgente – secondo Amnesty International – la previsione di misure che consentano l'identificazione degli agenti impegnati in operazioni di ordine pubblico, in modo tale che l'identità personale di questi possa essere stabilita ai fini dell'accertamento di eventuali responsabilità per violazioni dei diritti umani. Non vi sono sviluppi significativi su questo tema, oggetto di proposte di legge presentate in particolare al Senato, dove è cominciata la discussione di un testo unificato in Commissione Affari costituzionali, il 21 ottobre 2014. Infine, Amnesty International ritiene fondamentale che sia garantito che tutti gli appartenenti alle forze di polizia impegnati in operazioni di ordine pubblico o nell'effettuazione di arresti siano adeguatamente preparati all'impiego di metodi non violenti e non letali e a ricorrere solo in caso di assoluta necessità a un uso legittimo e proporzionato della forza e delle armi.
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2. FERMARE IL FEMMINICIDIO E LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE Secondo fonti attendibili, in Italia la violenza domestica non viene denunciata in oltre il 90 per cento dei casi. Negli ultimi 10 anni, il numero di omicidi compiuti da uomini su altri uomini è diminuito, mentre è rimasto costante il numero di donne uccise, in quanto donne, per mano di un uomo: oltre 100 ogni anno. In circa la metà dei casi, il colpevole è un partner o ex partner mentre solo in circostanze rare si tratta di una persona sconosciuta alla donna. A fronte della perdurante gravità della situazione della violenza contro le donne in Italia è quindi da accogliere come un passo positivo importante la ratifica del principale strumento internazionale in materia, la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla violenza contro le donne (o Convenzione di Istanbul). La legge di autorizzazione alla ratifica è stata approvata in via definitiva con voto unanime del Senato, nel giugno 2013 (legge n. 77 del 27 giugno 2013) e in settembre 2013, l’Italia ha depositato il proprio strumento di ratifica. La Convenzione è successivamente entrata in vigore il 1 agosto 2014, grazie al raggiungimento, nel mese di aprile, delle dieci ratifiche necessarie a tal fine. Nella stessa ottica, l’adozione nell’agosto 2013 di un decreto legge (decreto legge n. 93 del 14 agosto 2013 convertito in legge, con modifiche, con legge n. 119 del 15 ottobre 2013) sul contrasto della violenza di genere è da considerare un riconoscimento della gravità della situazione da parte del governo e un segnale dell’intenzione di affrontarla. Tuttavia, se la nuova legge rappresenta un innegabile passo in avanti in tema di lotta alla violenza contro le donne in Italia, si rileva come alcuni obiettivi, il cui raggiungimento è imposto dalla Convenzione di Istanbul e che sono oggetto di raccomandazioni da parte della Relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne e del Comitato Onu sull'eliminazione della discriminazione contro le donne, non siano ancora stati raggiunti. In particolare, mentre la centralità degli strumenti di prevenzione e protezione rispetto a quelli repressivi appare evidente nella Convenzione di Istanbul, questo non accade nella legge italiana, dove l’attenzione è concentrata piuttosto sull'aspetto repressivo. Secondo Amnesty International è auspicabile che si vada oltre l'obiettivo di affrontare l'attuale situazione di emergenza e si definiscano altresì politiche a lungo termine di prevenzione e sensibilizzazione sociale. Dubbi rimangono, a tal proposito, in ordine all’entità delle risorse economiche dedicate al piano d’azione straordinario previsto all’art. 5 della legge citata, che, stando a quanto lamentano le associazioni nazionali di settore, appaiono largamente insufficienti a garantire gli obiettivi prefissati. Inoltre, come previsto dalla Convenzione di Istanbul e raccomandato dalla Relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne, occorrerebbe prevedere un sistema di raccolta di dati statistici disaggregati sul fenomeno della violenza contro le donne, per garantire analisi standardizzate e periodiche, che ancora mancano nel nostro paese. I centri di accoglienza per donne vittime di violenza andrebbero mantenuti e aumentati – con un'allocazione di risorse sufficienti – assieme alla garanzia di un adeguato coordinamento tra la magistratura, la polizia e gli operatori socio–sanitari che si occupano della fenomeno e che sono in contatto diretto con le vittime. Infine, sempre allo scopo di prevenire la violenza nei confronti delle donne, gli organi di informazione italiani dovrebbero essere maggiormente sensibilizzati a promuovere una rappresentazione non stereotipata delle donne e degli uomini nell'immaginario comune.
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3. PROTEGGERE I RIFUGIATI, FERMARE LO SFRUTTAMENTO E LA CRIMINALIZZAZIONE DEI MIGRANTI E SOSPENDERE L'APPLICAZIONE DEGLI ACCORDI CON LA LIBIA SUL CONTROLLO DELL'IMMIGRAZIONE Nel corso dell'ultimo decennio numerosi esponenti politici italiani hanno alimentato l'ansia dell'opinione pubblica, sostenendo che la sicurezza del paese sarebbe minacciata da un'incontrollabile immigrazione “clandestina” e giustificando di conseguenza l'adozione di rigide misure di contrasto di tale fenomeno. Per lungo tempo, del resto, l’Italia ha considerato come una priorità assoluta il rafforzamento delle frontiere anche a scapito del rispetto degli obblighi relativi al salvataggio in mare, e respingendo persone verso la Libia, paese in cui queste sono state poi di norma arrestate, diventando spesso vittime di gravi violazioni dei diritti umani. La pratica dei respingimenti in mare, che ha portato, nel 2012, alla condanna dell'Italia da parte della Corte europea dei diritti umani (caso Hirsi c. Italia), è stata successivamente sospesa e una svolta assai positiva nel modo di affrontare il fenomeno dell'immigrazione via mare si è avuta con l'istituzione, a seguito dei tragici naufragi del 3 e dell'11 ottobre 2013 al largo dell’isola di Lampedusa, dell’operazione “Mare Nostrum”. Grazie ad essa molte migliaia di migranti, rifugiati e richiedenti asilo sono stati intercettati e trasferiti in Italia, e dunque salvati dal pericolo concreto di perdere la vita durante l'attraversamento del Mediterraneo. Amnesty International, che ha apprezzato lo sforzo dell'Italia nel salvataggio di vite umane in mare, è oggi profondamente preoccupata dalla decisione di interrompere “Mare Nostrum”, la quale non potrà essere adeguatamente sostituita dall'avvio dell’Operazione “Triton” dell'Agenzia europea per il controllo della frontiere (Frontex). Quest'ultima, infatti, non risulta essere idonea allo scopo né sotto il profilo delle sue finalità e caratteristiche complessive né dal punto di vista delle risorse messe in campo, che sono al momento decisamente insufficienti. Nel frattempo, gli accordi con la Libia sul controllo dell’immigrazione stipulati a suo tempo non risultano essere stati sospesi (né l'opportunità di mantenerli messa in discussione). Al contrario, le relazioni in questo campo sembrano essere state riavviate a tutti i livelli e – anche se la situazione politica in Libia è quanto mai instabile – la volontà di cooperazione internazionale tra i due stati in materia pare essere stata riconfermata ad ogni cambio di governo (sia libico che italiano). Durante le missioni effettuate in Libia nella primavera del 2013, Amnesty International ha appreso che il ministero dell’Interno italiano avrebbe finanziato l’ammodernamento di un certo numero di centri di trattenimento per migranti. In molti dei sette centri di trattenimento visitati dalla delegazione di Amnesty International in Libia sono stati documentati le scarse condizioni igieniche, la presenza di bambini detenuti per periodi prolungati e numerosi casi di uomini e donne sottoposti a pestaggi brutali con tubi e cavi elettrici. Anche in tempi più recenti – benché sia apprezzabile, nelle dichiarazioni del ministro degli Esteri Federica Mogherini, l’introduzione di linguaggio specifico relativo ai diritti umani in relazione ai fenomeni migratori – la cooperazione italiana con la Libia appare principalmente finalizzata allo scopo di contrastare l'immigrazione "illegale". Amnesty International auspica che l’Italia imposti in modo diverso le proprie relazioni con la Libia, mettendo di fatto – oltre che a parole – i diritti umani al centro della propria agenda e sospendendo ogni accordo sul controllo dell’immigrazione con essa, finché questa non dimostri di rispettare gli standard minimi internazionali sui diritti umani. Con l'inizio della XVII legislatura, Amnesty International ha seguito con attenzione i passi compiuti dal parlamento per giungere all'abrogazione del reato di “ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato” (il cosiddetto reato di “immigrazione clandestina”). E' positiva l'approvazione, avvenuta lo scorso 28 aprile, della legge delega n. 67/2014 che incarica il governo di abrogare entro 18 mesi il suddetto reato attraverso un decreto legislativo La legge delega, peraltro, prevede la depenalizzazione del primo ingresso sul territorio italiano soltanto, mentre continuerà a costituire reato la reiterazione del comportamento. Amnesty International auspica che il governo proceda al più presto alla cancellazione, definitiva e completa, dall'ordinamento del reato di immigrazione irregolare.
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E' altresì necessario che la detenzione "amministrativa" dei migranti irregolari sia usata solo in via eccezionale, nel rispetto del principio di proporzionalità, assistita da adeguate garanzie procedurali e per un tempo ragionevole. Al tal proposito si segnala come il 17 settembre 2014 il Senato abbia approvato con modificazioni il ddl n. 1533 che proponeva la riduzione del periodo massimo di trattenimento degli stranieri all'interno dei CIE previsto dal Testo Unico sull’immigrazione (art. 14, c. 5) a novanta giorni. L'esame del provvedimento è tornato in seconda lettura alla Camera – la quale, in prima lettura, aveva già ridotto a 180 giorni il termine massimo di trattenimento dai diciotto mesi previsti dal decreto c.d. Maroni del 2011 – che lo ha approvato in via definitiva il 21 ottobre 2014. L'esame del provvedimento ritorna ora alla Camera la quale, approvando in prima lettura il provvedimento, aveva già ridotto il termine massimo di trattenimento dai diciotto mesi previsti dal decreto c.d. Maroni del 2011 a 180 giorni. Quanto alle condizioni di vita nei Centri di identificazione ed espulsione (Cie), queste devono al più presto essere portate in linea con gli obblighi internazionali dell’Italia in materia di detenzione. E deve essere posta immediatamente fine alle cattive prassi nell’accoglienza di migranti, richiedenti asilo e rifugiati, molti dei quali sono stati, negli ultimi anni, accolti in condizioni igienicamente deplorevoli. Infine, si auspica che le istituzioni italiane si adoperino al fine di garantire a chi fugge da conflitti e persecuzioni percorsi legali più sicuri per raggiungere l’Europa. L'assenza di questi ultimi favorisce il fenomeno dell'immigrazione irregolare e, con essa, lo sfruttamento lavorativo e il mancato rispetto, fra gli altri, del diritto a un alloggio adeguato, del diritto alla salute e del diritto di accesso ai rimedi giurisdizionali di numerosi cittadini stranieri. Al tempo stesso Amnesty International chiede al governo italiano di farsi promotore in sede europea di una revisione del sistema di asilo dell’Unione, il c.d. Regolamento di Dublino, attraverso il superamento, quantomeno parziale, ai fini dell'attribuzione di competenza a esaminare la domanda di asilo, del criterio del paese di primo arrivo, e una maggiore valorizzazione, fra gli altri, del criterio della riunificazione familiare.
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4. ASSICURARE CONDIZIONI DIGNITOSE E RISPETTOSE DEI DIRITTI UMANI NELLE CARCERI Più volte, nell’ultimo decennio, gli organi internazionali di garanzia dei diritti umani hanno segnalato l’esistenza di un diffuso problema di sovraffollamento nelle carceri italiane, incompatibile con l’obbligo internazionale di garantire condizioni di detenzione rispettose della dignità umana e con il diritto di tutti a non essere sottoposti a pene o trattamenti disumani o degradanti. La sentenza della Corte europea dei diritti umani dell'8 gennaio 2013 nel caso Torreggiani c. Italia, oltre a condannare il nostro paese per violazione dell'art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani nei confronti di 7 detenuti reclusi nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza, accerta che il problema della sovrappopolazione carceraria in Italia ha "carattere strutturale e sistemico", essendo il risultato del "malfunzionamento cronico" del nostro sistema penitenziario. La sentenza in questione rientra nella categoria delle c.d. "sentenze–pilota", i cui effetti consistono nella sospensione dell'esame dei ricorsi aventi per oggetto situazioni analoghe a quella presa in esame (nel caso specifico si tratta di molte migliaia) e nell'assegnazione allo Stato parte di un termine di tempo entro il quale dovranno essere introdotte misure idonee a porre fine alla situazione che è all'origine della violazione. Le autorità italiane, in attuazione della sentenza Torreggiani, hanno introdotto diverse misure che, pur non essendo risolutive del problema, sono da valutare complessivamente con favore. Nell'estate del 2013 è stato emanato il primo decreto legge c.d. “svuota–carceri” (o "primo decreto Cancellieri" – decreto legge n.7 8 del 1 luglio 2013), successivamente convertito in legge, con modificazioni, nell'agosto 2013 (legge n. 94 del 9 agosto 2013). Questo prevede, tra le novità apprezzabili, una riduzione dei casi nei quali può essere disposta la custodia cautelare in carcere, un aumento dei casi di sospensione dell'esecuzione della pena e una riduzione dei casi nei quali è escluso o reso più difficile l'accesso ai benefici penitenziari. Ulteriori misure sono previste dal decreto legge n. 146 del 23 dicembre 2013, o "secondo decreto Cancellieri", convertito con modificazioni con legge n. 10 del 21 febbraio 2014, anch'esso motivato dalla necessità di porre rimedio alla situazione di sovraffollamento degli istituti penitenziari nell'imminenza, ormai, della scadenza del termine imposto dalla Corte europea dei diritti umani La legge in questione prevede, tra l'altro, la configurazione della detenzione e spaccio “di lieve entità” come reato distinto punibile con pene ridotte; l'estensione dei casi possibili di concessione delle misure alternative alla detenzione (quali l'affidamento in prova ai servizi sociali); la stabilizzazione della misura della detenzione domiciliare per le pene detentive non superiori ai 18 mesi; il riconoscimento, per chi abbia commesso reati non particolarmente gravi e abbia tenuto una condotta regolare, della liberazione anticipata speciale caratterizzata da una detrazione di 75 giorni di detenzione ogni semestre (anziché 45); l’abolizione del divieto previsto dal testo unico sugli stupefacenti (DPR n. 309 del 9 ottobre 1990) di applicare per più di due volte l’affidamento in prova terapeutico per condannati tossicodipendenti (misura che tuttavia richiede, per essere efficace, la disponibilità di posti in numero sufficiente nelle comunità di recupero); una nuova disciplina dei reclami al magistrato di sorveglianza per violazione dei propri diritti. Infine, la legge in questione prevede – come già indicato al punto 1 – l’istituzione della figura del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, che è ancora in attesa, tuttavia, di diventare operativa. Fra le leggi in materia di esecuzione penale approvate nel corso del 2014, destinate ad avere effetti sul fenomeno del sovraffollamento carcerario, si segnala anche la legge 67 del 28 aprile 2014 (la stessa che prevede l'abolizione del reato di immigrazione clandestina – cfr. punto 3) che delega al governo l'introduzione di una serie di misure fra le quali l'incremento del ricorso a pene detentive non carcerarie (da eseguire presso la propria abitazione o in altro luogo diverso dal carcere), la possibilità di infliggere la sanzione del lavoro di pubblica utilità consistente nella prestazione di un 6
lavoro non retribuito a favore della collettività, e la trasformazione di una serie di reati in illeciti amministrativi (depenalizzazione). A completare il pacchetto normativo previsto dal governo in risposta alla sentenza Torreggiani, è stato approvato il decreto legge n. 92 del 26 giugno 2014, convertito l’11 agosto con la legge n. 117/2014 della quale vanno messi in evidenza due aspetti in particolare. In primo luogo, questa contiene una nuova disciplina del risarcimento in favore di chi abbia subito un trattamento in violazione dell'articolo 3 della Convenzione europea la quale prevede che venga concesso uno sconto di un giorno di pena ogni dieci passati in celle sovraffollate, se la pena è ancora da espiare. A chi avrà già espiato la pena andranno invece otto euro per ogni giornata in cui si è subito il pregiudizio. In secondo luogo, la legge interviene ponendo nuovi limiti alla custodia cautelare in carcere (carcerazione preventiva) escludendone – sia pure con alcune importanti eccezioni – l'applicazione "se il giudice ritiene che, all'esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni".
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5. COMBATTERE L’OMOFOBIA E LA TRANSFOBIA E GARANTIRE TUTTI I DIRITTI UMANI ALLE PERSONE LGBTI (LESBICHE, GAY, BISESSUALI, TRANSGENDER E INTERSESSUATE) Negli ultimi anni, aggressioni sia verbali che fisiche nei confronti di persone Lgbti (lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuate) si sono verificati in Italia con preoccupante frequenza, mentre diversi esponenti politici e istituzionali hanno continuato a incoraggiare un clima d’intolleranza e, in alcuni casi, di vero e proprio odio nei confronti di queste attraverso dichiarazioni pubbliche palesemente omofobe. Le norme penali contro la discriminazione attualmente in vigore (c.d. legge Mancino–Reale) prevedono pene aggravate per crimini di odio basati sull'etnia, la razza, la nazionalità, la lingua o la religione, ma non considerano allo stesso modo quelli motivati da finalità di discriminazione a causa dell’orientamento sessuale o dell’identità di genere. Inoltre, l’incitamento a commettere atti di violenza omofobica e transfobica non è perseguibile come altre forme di incitamento alla violenza discriminatoria. Infine, nella legislazione italiana in vigore manca qualsiasi riconoscimento della rilevanza sociale delle famiglie costituite da persone dello stesso sesso e dai loro figli, circostanza che impedisce a molte persone di godere di diritti umani essenziali alla propria autorealizzazione e alimenta la stigmatizzazione delle persone Lgbti. Nel 2013, per la prima volta, la discussione parlamentare relativa all'introduzione di norme penali contro l’omofobia ha oltrepassato l’ostacolo delle pregiudiziali di costituzionalità ed è risultata in un confronto – sia pure a tratti molto teso – sui contenuti delle proposte avanzate. Alla tempestiva presentazione a inizio legislatura di diversi disegni di legge sul tema hanno fatto seguito una rapida calendarizzazione e quindi la discussione, prima in Commissione giustizia e poi in Assemblea, alla Camera dei deputati. Il 19 settembre 2013 è stato approvato il testo di un disegno di legge che estende l'applicazione della legge Mancino–Reale al movente d’odio basato sulla discriminazione per motivi di identità di genere e orientamento sessuale, introducendo al tempo stesso una clausola c.d. di salvaguardia della libertà di espressione. Il ddl è stato trasmesso al Senato il giorno successivo. Al momento il suo esame da parte della Commissione Giustizia del Senato, sebbene ri– calendarizzato per ottobre 2014 dopo uno stallo di diversi mesi, non è ancora entrato nel vivo. Il testo del ddl approvato dalla Camera accoglie le due principali richieste di Amnesty International Italia, ossia l’estensione, con riferimento all'ipotesi dell'orientamento sessuale e dell'identità di genere, dell'applicazione delle norme della legge Mancino–Reale – sia della prima parte, che riguarda il c.d. discorso d’odio, che della seconda, relativa all’aggravante per i reati comuni motivati da odio. È un importante risultato, che non sembra essere vanificato dalla citata clausola sulla libertà di espressione la quale, alla luce delle ipotesi di reato previste dalla legge, appare, ad un prima analisi, priva di effetti significativi. Al fine di confermare questa valutazione, tuttavia, Amnesty International Italia si riserva di compiere un esame più approfondito dei possibili effetti processuali ed extra–processuali della stessa. Si auspica che la discussione sul ddl approvato dalla Camera inizi al più presto in Senato, che i punti di forza dell'attuale testo non siano indeboliti a seguito di eventuali ulteriori modifiche e che si arrivi ad approvare in via definitiva un testo efficace per combattere l’omofobia e la transfobia. Si segnalano anche, fra gli sviluppi positivi in tema di diritti delle persone Lgbti, la presentazione, sia alla Camera che al Senato, di diversi disegni di legge sul matrimonio tra persone dello stesso sesso, sulle unioni civili, incluse quelle tra persone dello stesso sesso (tema sul quale si registra con soddisfazione la recente presa di posizione dell'attuale esecutivo), nonché sull’istituzione della Giornata nazionale contro l’omofobia.
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6. FERMARE LA DISCRIMINAZIONE, GLI SGOMBERI FORZATI E LA SEGREGAZIONE ETNICA DEI ROM I rom continuano essere, in Italia, vittime di discriminazione ed esclusi dal godimento di molti diritti umani. Negli ultimi anni centinaia di rom sono stati sgomberati e lasciati senza alloggio. Piani per la chiusura di diversi campi autorizzati o “tollerati” continuano a essere attuati senza salvaguardie, mentre le condizioni di vita nella maggior parte dei campi autorizzati restano gravemente inadeguate, non avendo le autorità agito – o avendo agito in misura insufficiente – per migliorarle. Nei campi informali la situazione è peggiore, caratterizzandosi per lo scarso accesso ad acqua, ai servizi igienico–sanitari e alla fornitura elettrica. La segregazione etnica nei campi si perpetua e i rom continuano a essere in Italia vittime di un diffuso pregiudizio, come segnalato nel 2012 dal Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione razziale. Negli anni passati, le politiche dell’Italia in materia hanno avuto carattere emergenziale essendo basate sul piano di intervento straordinario detto, appunto, “Emergenza nomadi”. Questo era ispirato a una politica di sgomberi sistematici, piuttosto che a promuovere l’inclusione e l’accesso a un alloggio adeguato per donne, uomini e bambini rom. L'"Emergenza nomadi" è stata dichiarata illegittima dal Consiglio di Stato nel 2011. Il governo si è impegnato allora a seguire un approccio diverso, definito con la "Strategia nazionale d’inclusione dei rom, Sinti e Caminanti", presentata alla Commissione europea nel febbraio 2012. Nel frattempo, la stessa Commissione europea aveva avviato il monitoraggio finalizzato alla possibile apertura di una procedura di infrazione nei confronti dell'Italia. A maggio 2013, la Corte di cassazione ha confermato l’illegittimità dell’“Emergenza nomadi” . Al momento, la segregazione di fatto delle comunità in campi isolati dalle città e sovente privi di accesso ai servizi di base continua, mentre anche gli sgomberi forzati proseguono in diverse città. Secondo Amnesty International questi ultimi vanno fermati e il sistema dei campi va superato. Ed è urgente rimuovere, allo stesso tempo, gli ostacoli discriminatori dei rom e di altri gruppi emarginati nell’accesso all’edilizia residenziale pubblica. Amnesty International Italia chiede al governo di rispettare i propri obblighi internazionali in materia di diritto a un alloggio adeguato e il principio di non discriminazione, e di attuare le numerose raccomandazioni ad esso rivolte dagli organismi internazionali – fino ad ora ampiamente disattese – in materia di tutela dei diritti dei rom. Lo sollecita inoltre ad attuare con urgenza la propria "Strategia nazionale d'inclusione" in tutte le sue parti.
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7. CREARE UN’ISTITUZIONE NAZIONALE INDIPENDENTE PER LA PROTEZIONE DEI DIRITTI UMANI L’Italia non ha ancora introdotto, nonostante le ripetute raccomandazioni in tal senso di diversi organismi internazionali, una Istituzione nazionale per i diritti umani che sia in linea con i cd "Principi di Parigi", adottati dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1993 (che sia, in altre parole, indipendente, dotata di poteri e risorse adeguati, pluralista nella composizione, accessibile, e con un mandato comprensivo di tutti i diritti umani internazionalmente riconosciuti). Un organismo di questo tipo, qualora fosse istituito, potrebbe garantire un monitoraggio costante della situazione dei diritti umani nel paese e formulare, allo stesso tempo, raccomandazioni finalizzate ad un maggiore rispetto dei diritti umani in Italia. In continuità con i tentativi compiuti nelle scorse legislature, rimasti senza esito, sono stati presentati cinque disegni di legge finalizzati alla creazione di una tale istituzione. Due di questi sono stati assegnati alla commissione Affari costituzionali ma, ad oggi, né di questi né delle altre proposte presentate risulta essere stato avviato l’esame. La creazione di una Istituzione nazionale per i diritti umani rientra, tra l'altro, fra gli impegni che l’Italia ha preso al momento di presentare la propria candidatura a membro del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite nonché in sede di Revisione periodica universale (Upr) davanti allo stesso Consiglio. Le raccomandazioni sulla creazione di una Istituzione nazionale indipendente sui diritti umani avanzate in occasione del primo ciclo di Upr, nel 2010, sono state considerate non esaudite in occasione del recente secondo ciclo, la cui sessione sull’Italia si è svolta il 27 ottobre 2014. L’Italia ha ricevuto, in questa data, ben 25 raccomandazioni su questo punto. Non riuscire a onorare questo impegno nel corso della legislatura costituirebbe un segnale molto negativo per quanto riguarda l’effettivo impegno dell’Italia in materia di diritti umani, compromettendone la credibilità sul piano internazionale.
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8. IMPORRE ALLE AZIENDE ITALIANE IL RISPETTO DEI DIRITTI UMANI L’Italia è sede di aziende multinazionali e di altre aziende di grandi dimensioni il cui operato può avere effetti importanti sul godimento dei diritti umani da parte di molte persone, sia in Italia che all'estero. Amnesty International da diversi anni documenta le conseguenze per le popolazioni locali delle attività estrattive dell’Eni nel delta del fiume Niger, in Nigeria. Queste ultime si collocano in un contesto globale di assenza di norme e meccanismi di controllo adeguati sull’operato delle imprese multinazionali, che solo raramente sono chiamate a rispondere delle proprie azioni e agiscono pertanto in una situazione di sostanziale impunità. Al tempo stesso, Amnesty International Italia segue con preoccupazione il dibattito pubblico e gli sviluppi politici e giudiziari relativi alle conseguenze sul godimento del diritto alla salute della popolazione locale delle attività industriali svolte sul nostro territorio da alcune grandi aziende, a cominciare dall'ILVA di Taranto. Gli stati in cui le imprese hanno sede dovrebbero introdurre una disciplina applicabile sia alle attività locali che a quelle extraterritoriali poste in essere da queste, al fine di imporre loro il rispetto dei diritti umani in tutti i paesi nei quali esse operano. Si ritiene necessaria inoltre, l’adozione da parte delle imprese stesse di misure di "due diligence”, comprensive di una valutazione regolare, anche preventiva, dell’impatto delle proprie operazioni sui diritti umani. Infine, gli stati che hanno partecipazioni proprietarie in aziende o che forniscono loro aiuti economici, dovrebbero condizionare il proprio sostegno al rispetto dei diritti umani, soltanto in questo modo potendo escludere la propria complicità nella commissione di eventuali abusi. Negli ultimi anni, Amnesty International Italia ha sviluppato con l'Eni un approfondito dialogo relativo alle conseguenze sui diritti umani delle attività dell'azienda in Nigeria. Questo è proseguito fra l'altro durante l’Assemblea degli azionisti dello scorso maggio 2014, e ha indotto la Naoc (Nigerian Agip Oil Company), consociata dell'Eni in Nigeria, a pubblicare importanti informazioni relative a progetti di riduzione delle torce di gas (gas flaring), alle fuoriuscite di petrolio, alle valutazioni di impatto ambientale e ai progetti per le comunità e il territorio del delta del Niger. Quanto agli sviluppi normativi in materia, il 16 aprile 2013 la Commissione europea ha adottato una proposta di direttiva volta a migliorare la trasparenza delle grandi imprese in materia sociale e ambientale. Tale direttiva, una volta approvata dal Consiglio dell’UE e pubblicata sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione, avrebbe l'effetto di modificare le direttive in materia contabile attualmente in vigore richiedendo alle aziende di fornire informazioni sulle politiche aziendali, i rischi e i risultati relativi alle questioni ambientali, sociali, del lavoro, nonché al rispetto dei diritti umani, alla lotta contro la corruzione e alle pari opportunità. Anche il parlamento europeo ha adottato, nel febbraio 2013, due risoluzioni sulla responsabilità sociale d'impresa e la trasparenza. Un piano di azione italiano su imprese e diritti umani è stato inviato dall’Italia alla Commissione europea, il 19 marzo 2014. Il documento riprende i "Principi guida delle Nazioni Unite sulle imprese e diritti umani", affermando il dovere dello stato di proteggere i diritti umani dagli abusi, l'obbligo delle imprese di rispettare i diritti umani e la necessità di una maggiore accessibilità a rimedi efficaci, di carattere giurisdizionale e non, per le vittime di violazione dei diritti umani. Amnesty International continuerà a monitorare tali sviluppi e a vigilare sull'effettivo rispetto dei diritti umani delle popolazioni locali da parte delle imprese.
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9. LOTTARE CONTRO LA PENA DI MORTE NEL MONDO E PROMUOVERE I DIRITTI UMANI NEI RAPPORTI CON GLI ALTRI STATI Il rispetto dei diritti umani deve essere, secondo Amnesty International, uno dei principi ispiratori delle relazioni internazionali, sia bilaterali che multilaterali, dell'Italia, la cui politica estera dovrà in futuro essere più attenta e più coerente, sotto questo profilo, di quanto non sia stata in anni passati. L’Italia ha svolto e continua a svolgere un ruolo positivo importante in seno alle Nazioni Unite, nel promuovere l’adozione di risoluzioni sui diritti umani. Tra queste, un posto speciale occupa la risoluzione che invita a stabilire una moratoria sull’uso della pena di morte, in favore della quale il governo italiano si è attivamente speso, essendo al momento impegnato a promuoverne l'approvazione, con il voto favorevole del numero di stati più ampio possibile, anche in occasione della prossima Assemblea generale. In tale contesto si registra con soddisfazione la costituzione, a seguito di una proposta di Amnesty International prontamente accolta dal ministro degli esteri Federica Mogherini, di una "task force" mista, impegnata a promuovere la risoluzione e composta, oltre che dal Ministero degli Esteri e da Amnesty International Italia, da Nessuno Tocchi Caino e della Comunità di Sant'Egidio. L'auspicio è che, oltre che in sede multilaterale, l'impegno italiano contro la pena di morte sia portato avanti con coerenza anche nel contesto dei rapporti bilaterali con gli stati mantenitori. Più in generale, Amnesty International Italia auspica che i diritti umani siano, per quanto possibile, parte integrante dell'agenda in tutti gli incontri istituzionali del nostro governo con i rappresentanti di altri stati. Da un lato, le consolidate relazioni con la Libia e i paesi del Corno d’Africa, così come i rapporti con gli stati dell’Africa del Nord e del Medio Oriente, impongono all’Italia di compiere ogni sforzo per favorire un'evoluzione verso sistemi in cui i diritti umani siano pienamente riconosciuti e garantiti. Dall'altro, lo stesso livello di attenzione è richiesto all'Italia, secondo Amnesty International, nelle relazioni con paesi europei (quali la Russia e la Bielorussia) o extraeuropei (come il Kazakistan e l’Azerbaigian) governati da regimi autoritari, con paesi interessati da fasi di transizione (come il Myanmar) o, infine, con paesi destinati, soprattutto in ragione della loro importanza economica, a giocare un ruolo sempre più importante sulla scena internazionale (come la Cina, l'India e il Brasile). Al momento, il rilievo assunto nell'ambito delle relazioni internazionali dell'Italia dal tema del rispetto dei diritti umani appare ancora insufficiente, in particolare con riferimento a paesi come la Libia, il Kazakistan o l’Azerbaigian, considerati partner commerciali fondamentali nel settore energetico. Per quanto riguarda il Kazakistan, paese in cui l’uso della tortura e dei maltrattamenti risulta essere diffuso e radicato, si ricorda il caso, assai preoccupante, dell'espulsione illegale dall'Italia, avvenuta il 31 maggio 2013, di Alma Shalabayeva e di Alua Ablyazov, moglie e figlia dell'oppositore politico kazako Mukhtar Ablyazov. Il 30 luglio 2014, la Corte di cassazione ha accolto il ricorso di Alma Shalabayeva contro il decreto del giudice di pace di roma del 31 maggio 2013, che ha reso possibile il provvedimento di rimpatrio nei suoi confronti – una misura risultata essere viziata da "manifesta illegittimità originaria". Amnesty International ha chiesto alle autorità italiane di assicurare l'accertamento completo dei fatti relativi a quella vicenda e di ogni eventuale violazione dei diritti delle due persone espulse, senza escludere, ove necessario, l'avvio di un procedimento penale. Anche nei confronti dell’Azerbaigian, meta di una recente visita istituzionale da parte del presidente del Consiglio (20 settembre 2014), l’Italia porta avanti un’azione di politica estera che pare centrata unicamente sulle questioni energetiche e che sembra ignorare invece le gravi violazioni dei diritti umani – in particolare del diritto alle libertà di espressione e di riunione pacifica e del diritto a non subire torture – che avvengono in quel paese.
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10. GARANTIRE IL CONTROLLO SUL COMMERCIO DELLE ARMI FAVORENDO L’ATTUAZIONE DEL TRATTATO INTERNAZIONALE SUL COMMERCIO DELLE ARMI Il 2 aprile 2013, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato il Trattato internazionale sul commercio di armi (ATT), un obiettivo che Amnesty International ha perseguito con tenacia per quasi 20 anni. L’Italia lo ha tempestivamente firmato. Il Consiglio dei Ministri (governo Letta), su proposta dei ministri degli Affari esteri e della Difesa, ha quindi approvato la proposta di legge di ratifica ed esecuzione del Trattato, che è stata approvata con voto unanime da entrambi i rami del parlamento: il 12 settembre 2013 dalla Camera dei deputati e il 25 settembre dal Senato. L’Italia è stata il quinto stato e il primo stato membro dell’Unione europea a depositare la propria ratifica. A seguito della sua entrata in vigore, avvenuta il 24 dicembre 2014 grazie al raggiungimento delle 50 ratifiche necessarie, il Trattato sul Commercio delle Armi è diventato uno strumento fondamentale per porre fine a un commercio internazionale di armi irresponsabile e scarsamente regolamentato, che ha causato finora la violazione dei diritti umani di milioni di persone. L'assenza di adeguati controlli comporta infatti che le armi finiscano nelle mani di governi e gruppi armati che continuano a colpire le popolazioni civili, come tuttora accade, ad esempio, in Afghanistan, Colombia, Repubblica Democratica del Congo, Siria e Somalia. Amnesty International chiede all’Italia, che ha già svolto un ruolo positivo nel raggiungimento di questo importante risultato da parte della comunità internazionale, di proseguire nel proprio impegno per fare sì che il trattato venga ratificato e pienamente attuato da quanti più stati possibile, così che il sistema di controllo internazionale da esso creato sia, di conseguenza, efficace.
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