AUTOPSIA D'UNA PAROLA ANNEGATA

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Editore: AMP Monaco, 47 Bd. du Jardin Exotique | MC 98000 | Principato di Monaco


AUTOPSIA D’UNA PAROLA ANNEGATA

DI SALVATORE DIMAGGIO PREFAZIONE DI ALESSANDRO PORRO


Prefazione di Alessandro Porro SOCCORRITORE DELLA AQUARIUS - SOS MEDITERRANEE

Mi trovo molto più spesso a terra a testimoniare che in mare a soccorrere vite umane, effetto collaterale della “chiusura dei porti”e delle politiche in difesa della fortezza europea. Nelle scuole, nelle università e nelle associazioni, le persone mi chiedono cosa succede alla frontiera marina. Succede che – banalmente – si continua a morire. Si muore per disperazione, per mancanza di alternative legali, forse anche per ignoranza dei rischi. Ma si muore, e quando non si muore si viene riportati indietro in prigioni libiche in cui si patisce la fame e l'umiliazione della violenza. Io vorrei raccontare di barelle, ancoraggi e materiali, di quanto noi soccorritori abbiamo imparato sulle tecniche di intervento – ma non posso, perché è troppo vasta la distanza fra l'esperienza quotidiana del mio pubblico e la durezza di un giorno in mare a guardare l'orizzonte sapendo che attorno ci sono gommoni e persone in difficoltà che non vediamo, di cui non sappiamo, di cui non sapremo mai. Per dare modo a chi mi ascolta di mettere un piede sull'Aquarius devo fermarmi al significato delle singole parole, devo costruire prima di tutto un vocabolario. Per capire cosa succede in un luogo inaccessibile - in cui non ci sono testimoni se non soccorritori, militari e pochi giornalisti – devo tornare all'uso della parola fatto da Primo Levi, dove la parola è molecola, elemento costruttivo, frammento delle stessa realtà che vorrebbe descrivere. Torno volentieri a Primo Levi perché alcune immagini dei corpi deformati nelle fosse comuni dei lager io le ho viste, a qualche centinaio di miglia a sud della gentile Sicilia, in un gommone dove otto corpi rimanevano accatastati e calpestati sul fondo di plastica e di legno male imbullonato, annegati di fatica e di benzina nei polmoni. Lo scrittore torinese temeva, al rientro nella società cittadina a cui apparteneva, di non essere creduto, di disperdere storie e incubi in un linguaggio sfilacciato, incomprensibile per la distanza e la differenza di esperienza fra lui e gli interlocutori. Io sperimento a terra l'incomprensione a un livello più basso, che è quello del significato, dato che parlo con persone la cui sensibilità è nutrita da televisione e internet. Anni luce di distanza. Pianeti diversi. Opera sistematica di semplificazione. Mistificazione. Chiedo al mio pubblico che cos'è un migrante. Chiedo quanti sono i migranti, da dove vengono e dove vanno. Nelle università a volte piomba un silenzio imbarazzante. Alle superiori ricevo risposte iperboliche, affermazioni che vorrebbero al 50 percento la proporzione fra residenti e stranieri (è il 3 percento). La macchina delle propaganda viaggia veloce di questi tempi, coniando espressioni formidabili che si attaccano all'immaginario e ne prendono possesso. Trovo persone che ripetono mantra, lezioni imparate a memoria ma vuote di esperienza, vuote di umanità. Il giorno in cui un politico iniziava a chiamare le navi di soccorso “taxi del mare” io ero di fronte a un pattugliatore della Guardia Costiera che ci chiedeva di prenderci cura del suo carico umano e di portalo in un luogo sicuro. Lo stesso Stato che si faceva burla di noi, era lo Stato con cui cooperavamo, seguendone le leggi e i protocolli. Quando su internet si è incominciato a parlare di “pacchia”, ero a gestire 630 persone spaventate e un tentato suicidio - per paura di ritornare in Libia - in quel pezzo di mare fra Malta e la Sicilia. Parlando con le persone percepisco che il tempo in cui si svolge il dramma è sempre il presente, è il tempo dell'urgenza e dell'immediato. Figli di un Paese che vive quotidianamente l'emergenza, gli sbarchi dal Sud vengono interpretati e gestiti come fatto di cronaca, come ultim'ora da titolo di giornale.


Le pagine che seguono di Salvatore Dimaggio vanno nella direzione opposta, restituiscono prospettiva e costruiscono uno spazio fuori dal tempo, sono una pausa di riflessione utile per la riscrittura di quel vocabolario comune che serve a trattare temi complessi. L'esercizio di semplificazione dei concetti, a cui siamo collettivamente sottoposti, viene scardinato, ridando un orizzonte alle parole abusate. Nel quotidiano vivo spesso una situazione che aggiunge un capitolo al lavoro di Dimaggio. Durante le interviste, i giornalisti mi presentano come un “attivista”. Sento una frizione, questo termine viene usato come segnaposto per il dissenso e la protesta. Nel sentire comune, l'attivista è figura che cerca lo scontro, che combatte una situazione del presente. E' chiaro a molti che sono abbondanti anche parlando di migrazioni - i motivi per protestare, se non altro per ricordare l'urgenza dell'azione umanitaria. Io però insisto a ridare il giusto posto all'intervento mio e dei colleghi. Siamo soccorritori, alcuni anche a terra sulle ambulanze e in montagna, e il soccorso non è un metodo per contestare l'autorità o per affermare dei diritti. E' un fatto puro e semplice, è un gesto per restare umani, in qualsiasi epoca e contesto. Questo siamo. Umani. E soccorritori.


Capitolo 1 Le parole

Da poco è stato dato alle stampe un libro che sostiene che non vi sia sventura peggiore dell’essere venuti al mondo. E’ del filosofo sudafricano David Benatar, il titolo è “Meglio non essere mai nati. Il dolore di venire al mondo.” Eloquente. Mi fa tornare alla mente il Cioran nauseato dal vedere una donna incinta. Un concetto per me spaventoso, al quale ne voglio contrapporre uno che sento opposto. Eschilo ci offre un'immagine forte come senso possibile per la filosofia. “Cacciare via, con verità, il dolore dalla mente.” Niente di strano in questo. Tutta la nostra esistenza trema per gli spasmi dei nostri tentativi di cacciare via il dolore dalla mente, ma in questo caso lo strumento per rimuovere quasi chirurgicamente questo dolore è la verità. Fondere insieme la fine del dolore ed il raggiungimento della verità è una prospettiva elevatissima e allo stesso tempo un tremendo atto di fiducia nei confronti della realtà nella quale viviamo. Come siamo passati dalla luminosa fiducia greca nella filosofia e nel mondo ad una prospettiva che annaspa nello strazio di una tale estraneità alla speranza? Il punto è che con la pensosa ambivalenza che li contraddistingueva, anche gli antichi greci comprendevano la deprimente tesi espressa in questo libro. Me phynai: meglio non essere mai venuti al mondo. Questo concetto è rivelato da un essere soprannaturale a Re Mida che lo interrogava sulla felicità e l'infelicità: “Stirpe miserabile ed effimera, figlia del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire?” Dopo questo preambolo, la creatura straordinaria gli rivela l'amara verità, tanto amara che è meglio non conoscerla: la vera tragedia è l’essere venuti al mondo e a ciò non c'è soluzione. Ma allora conoscere la verità, elimina il dolore o è “svantaggiosissimo”? Se frughiamo nel profondo della nostra mente, ci accorgiamo che entrambe le prospettive sono terribilmente umane e ci riguardano tutti. Nella nostra percezione del mondo, nel nostro approcciarlo, oscilliamo tra questi due estremi. Quello di vedere nella nostra vita, una sfida straordinaria che possiamo e dobbiamo vincere oppure percepire la stessa vita come una battaglia persa in partenza. Come una guerra nella quale siamo stati trascinati e che è chiaramente destinata alla sconfitta. Questo orrido senso di vuoto frammisto a disperazione è stato ben espresso da Isaac Asimov quando ha scritto che nella vita, a differenza degli scacchi, bisogna continuare a giocare anche quando la partita è persa. Più lapidario il Sartre che dice “Ogni vita è uno scacco”. La compresenza in noi di questi due atteggiamenti in misura maggiore o minore, determina l’amare la verità oppure il temerla. Intendiamoci, a parole tutti sosteniamo di amare la verità, di cercare la verità e di difendere la verità. Ma, in pratica, spesso la temiamo e, onestamente, a ragion veduta. Se riteniamo che questa vita sia una partita persa in partenza e l'unica cosa ragionevole da fare sia cercare di ottunderci quel tanto che basta allo sfuggire al dolore, è normale che la verità divenga la nostra naturale nemica. E’ addirittura sano, visto che non siamo masochisti. È piuttosto ingenuo dare per scontato che tutti perseguiamo la verità. Per il discorso appena fatto dobbiamo lucidamente riconoscere che una consistente fetta del genere umano, e probabilmente noi stessi in tanti momenti della nostra vita, abbiamo proditoriamente definito verità, una menzogna che abbiamo ritenuto utile, magari necessaria, per sopportare l'insensato peso della vita. Spesso siamo testimoni di un acceso dibattito tra due frazioni. Ognuna di esse sostiene che la propria versione dei fatti sia la verità. Se guardiamo con attenzione, tuttavia, non possiamo non renderci conto del fatto che, spesso, solo una delle due vuole stabilire la verità. L'altra vuole sancire il proprio diritto di far passare come verità una fandonia che, in fondo, essa stessa sa essere tale.


Il desiderio di imporre una manipolazione dei fatti è particolarmente intenso quando si parla dell'identità di un singolo o di un popolo. Un esempio illuminante è rappresentato dal compianto storico Randolph Braham da poco scomparso. Praticamente tutta la sua vita è stata un braccio di ferro con il suo paese natale, l'Ungheria, per cercare di contrastare una pervicace menzogna di Stato sulla seconda guerra mondiale. Egli ha sempre cercato di ricostruire in modo attendibile gli eventi della Shoah che hanno avuto luogo nella sua Ungheria. Comprendeva come fosse più importante ricostruire fedelmente i fatti, anche a costo di dover riconoscere colpe atroci in capo alla propria stessa patria, che non costruire un'identità collettiva encomiabile quanto fasulla. Quando verità e menzogna si scambiano di posto, allora ogni altra parola può iniziare a fluttuare nel vocabolario.


Capitolo 2 Soccorritori / Contrabbandieri

Soccorritori Soccorso è una di quelle parole umanamente e spiritualmente preziosissime che però hanno un'etimologia un po' povera. Infatti soccorrere vuol dire semplicemente correre sotto e poi nell'uso ha acquistato il significato che adoperiamo oggi. Tuttavia, è proprio nel salvataggio in mare, che questa etimologia scialba s’imbeve d’un inaspettato vigore, giacché il soccorso in mare è proprio il correre sotto il pelo dell'acqua, sotto lo scafo, sotto l'oscurità insidiosa dei flutti, sotto il tempo limite dei cinque minuti, superando il quale l'annegamento significa morte. Alle volte sotto la pioggia. Chiunque abbia prestato soccorso in mare vi dirà che farlo sotto la pioggia è un incubo elevato al quadrato. Ma Vladimir Nabokov ci ricordava di non prendercela con essa. “Non essere in collera con la pioggia; semplicemente non sa come cadere verso l’alto.” Ne Le opere e i giorni, Esiodo mette in guardia il lettore dai numerosi pericoli della navigazione. Le opere e i giorni è un poema sapienziale e come tale è un'opera che vuole trasmettere conoscenza, che vuole istruire per uno scopo fondamentale: preservare la vita che sul mare è sempre inevitabilmente a rischio. Esiodo in vita ha avuto la gioia di vincere una gara poetica alla quale aveva partecipato, ma non era consapevole di aver stabilito primati universali che ricordiamo ancora oggi. È in assoluto il primo poeta del quale sappiamo effettivamente l'esistenza: lo stesso Omero, non dicendo nulla di sé nelle sue opere, ci lascerà per sempre il dubbio sulla sua reale esistenza. Specie in un mondo nel quale poesia e oralità andavano a braccetto. Le opere e i giorni stabilisce anche un altro primato, è la prima opera ad occuparsi delle tecniche dell'andar per mare. Il grande poeta greco ha utilizzato il suo poema come una scialuppa per salvare se stesso dall'oblio del tempo. Il mare come il tempo è sempre mortale e sempre minaccioso. Cinque minuti, si diceva, separano la vita dalla morte. Cinque minuti sotto quel confine ondoso che è il mare costituiscono il confine tra la vita e la morte. E proprio uno su cinque migranti salpati per l'Italia nel Mediterraneo è morto in mare in questo settembre 2018. È la cosiddetta linea dura. Quali parole possiamo utilizzare per descrivere questo? Prima o poi giungerà il momento in cui le tante parole di giornalisti interessati che travestono uno sterminio da un atto dovuto oppure doloroso ma necessario e certe volte, addirittura, si spingono a considerarlo qualcosa di etico, si saranno fermate perché non vi è più interesse a mascherare la realtà. Ecco, quando tutta questa macchina sarà stata vinta dall'inerzia, sarà stata bloccata dalla carenza di olio lubrificante puzzolente, come potranno gli storici descrivere tutto questo? Aldilà della condanna inevitabile, ciò che sarà difficoltoso sarà proprio lo spiegare, il ricostruire. Si ricorrerà di nuovo alla banalità del male? I social network, nati per connettere tra loro studenti universitari o aspiranti rock band alle prime armi, si sono trasformati in un pauroso panopticon dove tutti osservano tutti e smaniano per essere osservati. Nelle viscere guizzanti di questo essere planetario nuovo di zecca, i pensieri complessi o anche solo che possiedono un minimo di struttura, si bloccano, si inceppano, ristagnano sfiniti. Ma le urla, le accuse, le denunce di complotti inverosimili si espandono, crescono e trovano nuovo vigore di bocca in bocca, da profilo a profilo da bulimia di punti esclamativi a... Ed ecco che un massacro svanisce. Basta poco. Basta trovare il video di un uomo di colore che picchia una donna bianca. Raccontare che è avvenuto vicino a te. Ripetere che ci stanno invadendo. (Ma chi ci invade? Che t’importa? I neri, gli altri… cose così.) Che dobbiamo fermarli. Chiedere retoricamente alla folla sciamante se è giusto tutto questo. Ascoltare un boato virtuale ripetere: “no, no e ancora no! Va fermata questa invasione.” Tutto semplicissimo nell'impianto di irrigazione guasto del sottobosco. Non c'è neppure bisogno di un prete che dia l'assoluzione. Ci assolviamo da soli. Ci urliamo l'un


l'altro che siamo assolti, che siamo nel giusto. Dal guizzare delle dita sulla tastiera non si indovinerebbe il vetrificato rigor mortis. Questi nuovi ecosistemi obbediscono, come sempre, alla selezione darwiniana, che non premia come molti credono il più forte, bensì il più adatto. Sui social network il più adatto a diffondersi è il concetto più semplice e più emozionante. Quello che ci rinchiude in una rassicurante fazione impegnata a combattere una lotta strenua contro un'altra fazione in malafede, che ha chiaramente torto. Ed ecco che le parole strappate con violenza dai libri diventano pezzi di pensieri elementari e ferini, fuorvianti ed emozionanti... mortali, ma capaci di creare un inebriante Lega. D'altra parte ciò che riusciva ad unire le polis greche, è la sola cosa che riesca sempre, ieri come oggi, ad unire gli esseri umani, vale a dire l'urgenza di combattere contro un nemico comune. Eppure è cecità non accorgersi che al vertice dell'evoluzione tecnologica, l'unico nemico da cui dobbiamo guardarci è la perdita di umanità. Contrabbandieri Anche contrabbando ha un'etimologia piuttosto semplice ed immediata: che contravviene ad un bando. Di nuovo i tempi nei quali viviamo pizzicano in un modo particolare questa parola sino a conferirle sonorità cupe ed assordanti. In particolare viene da chiedersi che cosa sia stato messo al bando o meglio a quale bando contravvengono in particolare i soccorritori? Forse ad alcuni sfugge, ma è proibito dal diritto internazionale rispedire qualcuno in un contesto nel quale questi veda minacciati i suoi diritti fondamentali. È il principio del non-refoulement, non respingimento, ma la cosiddetta linea dura che alcuni governi stanno utilizzando contravviene chiaramente a questo principio. È davvero curioso come un mondo che non riesce a bandire niente, cerchi di bandire un elementare umano soccorso. Non siamo riusciti a bandire i jeans strappati. Non siamo riusciti a bandire le console degli anni 80. Non siamo riusciti a bandire la schiavitù, che sembrava davvero un vecchio arnese da libri di storia e invece salta fuori che è uno dei business più redditizi del mondo. Ma in un universo nel quale nulla si può creare e neppure nulla si può distruggere, ad un livello profondo, cosa vuol dire mettere al bando degli esseri umani ed il gesto di salvarne la vita? Può davvero voler dire cancellare le loro esistenze: eliminare le storie che si portano appresso o comunque rinchiuderle in un altrove che non comunica e non comunicherà mai con la nostra Storia? Sull'illusione di bandire le storie è utile rileggere Alberto Manguel. “Poco importa il motivo per cui una biblioteca viene distrutta: ogni censura, riduzione, frammentazione, saccheggio o bottino dà origine (perlomeno come presenza spettrale) a una biblioteca più forte, più chiara e più durevole di libri banditi, saccheggiati, depredati, frammentati o ridotti. Può essere che questi libri non siano più consultabili, che esistano soltanto nel vago ricordo di un lettore o nell'ancor più vago ricordo di una tradizione e di una leggenda, ma hanno acquisito una sorta di immortalità. [... ] Le biblioteche che sono svanite o a cui non è mai stato concesso di esistere sono molte di più di quelle che visitiamo, e formano gli anelli di una catena circolare che ci accusa e ci condanna tutti.” Barattare esseri umani per fantasmi è davvero un pessimo affare. Chiedetelo ad ogni bravo turco che abbia abbastanza amor di patria da essere tentato di negare il genocidio degli armeni ed abbastanza buon senso da essere costretto ad ammetterlo. Ma entrando un pochino più in profondità nel concetto di storia, siamo sicuri di poter parlare di nostre storie e loro storie, come se i suoni e le musiche provenienti da quello che, troppo facilmente, consideriamo un altrove, non riguardino direttamente la nostra storia? Ravel aveva un cruccio. Il titolo Miroirs aveva autorizzato i critici ad ascrivere questa raccolta di opere all'impressionismo. Egli non era pregiudizialmente contrario a questo legame, a patto però che tutto ciò non apparisse come una dichiarazione di intenti a favore di una prospettiva di stampo soggettivistico. Il compositore tiene molto a chiarire questo punto e per farlo si affida alle parole del Giulio Cesare di Shakespeare. “L'occhio non vede se stesso se non di riflesso, attraverso altri oggetti”. Nell'utilizzo di questa citazione Ravel racconta molto di sé e soprattutto della sua naturale tendenza all'isolamento, ma soprattutto enuncia una limpida teoria della conoscenza: l'altro non è un accidente bensì è necessario per poter conoscere sé stessi. Anche una civiltà, un popolo non possono


conoscersi da se stessi (se non a costo di pericolose distorsioni) ma si definiscono attraverso specchi rappresentati da altri popoli. Siamo sicuri di desiderare che l'unico specchio mediante il quale vogliamo conoscerci, sia quello della ristretta cerchia dei paesi ricchi? Di quei paesi che con la loro egemonia culturale ci consentono di vederci sempre invariabilmente allo stesso modo? Chiudendoci ad altri specchi, non stiamo sostanzialmente immiserendo le opportunità che abbiamo di conoscere noi stessi? La questione è stata ottimamente affrontata dal compianto filosofo Cvetan Todorov che nel suo saggio La conquista dell'America. Il problema dell'altro racconta i protagonisti della scoperta dell'America e segnatamente della colonizzazione del Messico come un grande quanto drammatico processo di scoperta dell'altro ma, soprattutto, di scoperta collettiva del sé. Che gli indigeni siano considerati inferiori da sterminare o sfruttare oppure pari da assimilare, la macchina distruttrice dei colonizzatori finisce inevitabilmente per consentire ai suoi spiriti più consapevoli di guardare in faccia se stessi e la propria cultura. Procedendo nel libro si assiste ad un progressivo risveglio, ad un progressivo guardarsi allo specchio dagli esiti imprevedibili. Quanto siamo distanti dal grande Federico II di Svevia che fece tradurre la metafisica di Aristotele ad uno scozzese come Michele Scoto e la fece divulgare a Pietro d'Irlanda addirittura con il commento di Averroè? Che ne dite: dobbiamo farci insegnare il multiculturalismo dal cuore del Medioevo?


Capitolo 3 Persone / Numeri

Tu insegui un sogno disperato Elisabeth, questo è il tuo tormento. Tu vuoi essere, non sembrare di essere; essere in ogni istante cosciente di te e vigile, e nello stesso tempo ti rendi conto dell’abisso che separa ciò che sei per gli altri da ciò che sei per te stessa. Questo ti provoca un senso di vertigine per il timore di essere scoperta, messa a nudo, smascherata, poiché ogni parola è menzogna, ogni sorriso una smorfia, ogni gesto falsità. Il testo tratto dal ruvido, espressivamente violento e sperimentalissimo Persona di Bergman introduce direttamente la questione fondamentale ovverosia: cosa c'è oltre la persona? Cosa si cela dietro la persona? Difatti la persona era la maschera indossata dagli attori. La voce suonava attraverso di essa e non da essa e da qui il suo nome. Dunque il concetto di persona è un concetto irrimediabilmente inautentico. D'altra parte nell'antica Grecia gli attori si chiamavano ypokrites. Questo è un fulcro della riflessione junghiana: la persona è il ruolo che ricopriamo nella società e che molto spesso è imposto e frustrante. Credere che i diritti e le titolarità giuridiche che il mondo contemporaneo ha voluto garantire all'individuo, rendano un po' meno evanescente quel mistero che si nasconde dietro la maschera, sarebbe un grossolano errore. In effetti hanno semplicemente colorato quel mistero con la violenta conflittualità tipica della politica. Nonché di tutte le sue degenerazioni. Primo Levi racconta che nella massa dei suoi compagni di sventura vi era persino qualcuno che si era consegnato spontaneamente al lager. Se ciò può sembrare assolutamente assurdo, l’autore ci viene incontro spiegandoci che lo facevano per mettersi “in ordine con la legge”. Cantor sosteneva che l'essenza della matematica risiede nella sua libertà. Usualmente noi consideriamo la matematica qualcosa di piuttosto costrittivo: un ammasso di regole complicate ed ostiche. Eppure il grande matematico ha perfettamente ragione: trasformando dati e concetti in numeri, possiamo farne pressoché che tutto quello che vogliamo. I computer si basano proprio su questo: una fotografia può essere manipolata, copiata, diffusa all'infinito quando viene digitalizzata e lo stesso vale per un testo, per un database, eccetera. Con queste premesse appare chiaro come la trasformazione di persone in numero non sia poi così difficoltosa. Difatti essendo quello della persona un concetto tutto da inventare e reinventare ed essendo il numero un oggetto particolarmente pratico per la mente, questa trasformazione trova sempre qualche estimatore. Questa libertà si riverbera anche sul piano etico. Decretare la morte di un essere umano e guardarla succedere, guardare un corpo trascolorare dalla vita a ciò che per comodità chiamiamo morte, è qualcosa che ripugnerebbe a chiunque. Al contrario, stabilire che una piccola percentuale di una popolazione sia sacrificabile per un interesse superiore è molto più digeribile. Oggi la retorica mortifera che fa appello ai peggiori istinti dell'uomo ed a questo utilizzo furbesco del numero come supplente amorale della persona, viaggia attraverso i media e soprattutto i social media e come tale può imporsi ad una velocità prima impensabile per qualsiasi forma di propaganda. Questa accelerazione delle pessime idee imposta dalla tecnologia può suscitare qualche interrogativo, ma la dobbiamo correttamente interpretare. È utile soffermarsi un momento. Nella storiografia recente è messo un parallelo molto interessante e stimolante. Segnatamente si sottolinea da un lato come i profeti di sventura, di qualsiasi natura essi fossero, hanno sempre posto l'accento su un accelerazione dei tempi ed un'accelerazione dei segni per sottolineare l'approssimarsi di una catastrofe. Dall'altra parte il progresso tecnico-scientifico impone per sua natura una cadenza sempre più accelerata ai cambiamenti. In questo senso si rileva acutamente che nel nostro mondo tecnologico, è facile percepire tendenze di sapore apocalittico.


Capitolo 4 Navi di soccorso / taxi

"Forse non siamo molto migliorati dall'epoca in cui eravamo pronti a spingere dentro i vagoni i nostri simili, così come siamo tentati di chiudere la porta in faccia ad un profugo che fugge da una guerra o una persecuzione. Eppure, davvero non vorrei trovarmi a tracciare questo tragico parallelo: vorrei pensare che saggezza e umanità finiscano sempre per prevalere su egoismi e indifferenza". Queste lucidissime parole di Ferruccio De Bortoli sintetizzano dolorosamente bene una questione con la quale dobbiamo confrontarci in questi anni. La Shoah costituisce un orrore, un oscuro e terribile monumento nella nostra memoria condivisa. Una stele con la quale non possiamo non fare i conti. Proprio per questo, se da un lato questa stele è da maneggiare con cura e da non tirare in ballo a sproposito, dall'altro è difficile che si sottragga al destino di costituire una sorta di metro, di termine di paragone. Da anni Ferruccio De Bortoli, Presidente della Fondazione Memoriale della Shoah di Milano, si occupa, tra le altre cose, di una ferrovia sotterranea. Ma è assai diversa da quella ferrovia sotterranea per la quale Colson Whitehead ha vinto il primo premio pulitzer assegnato ad un fantasy. Quella di cui si occupa De Bortoli è vera e non fantastica è, sempre a differenza di quella dell'autore americano, porta verso la morte e non verso la salvezza. L'ordinata fila di quei convogli ferroviari era parte delle orride coreografie naziste esattamente come le parate in bianco e nero immortalate da Leni Riefenstahl. Il treno è movimento e ordine. Queste sono le ragioni per cui Aldo Masullo da giovane amava talmente tanto i treni da voler diventare capotreno. In effetti aveva ragione e la vicenda del binario milanese lo dimostra. Chiaramente ordine e movimento possono essere declinati in tanti modi e quello del filosofo era molto molto lontano da quello dei collaborazionisti. Le parole sono beffarde. Esistono etimologie che riescono a zampillare dai più profondi crepacci del tempo e poi vi sono parole ed espressioni recentissime delle quali non sappiamo quasi nulla. È il caso di quella che forse è la parola più utilizzata al mondo in assoluto, vale a dire “ok”. È anche il caso della parola taxi. È una parola nata alla fine dell'800 insieme a questo peculiare mezzo di trasporto che riflette il cambiamento della società. “Il flusso continuo dei taxi, sul viale maggiore, pareva la vana furia degli uomini, che ad ogni costo volesse arrivare a una fine.” (Carlo Emilio Gadda) Una società desiderosa di muoversi: di essere veloce. Talmente veloce, che il taxi non ha aspettato la nascita dell'automobile per venire al mondo, ma l'ha preceduta. I primi taxi erano carri trainati dai cavalli. Tre sono le possibili origini di questa parola. Può derivare dalla ricca e nobile famiglia tedesca Thurn und taxis che già da secoli deteneva il monopolio del servizio postale dell'impero tedesco. Oppure può derivare da tax: il pagamento. O ancora dalla parola greca ταχύς, velocità. Invece sappiamo benissimo chi ha utilizzato per primo questa parola per denigrare i soccorritori in mare. È stato Luigi Di Maio a coniare la sciagurata espressione “taxi del mare”. Anche questa espressione a suo modo è figlia dei tempi. Tempi nei quali sfornare immagini ad effetto, in grado di fare facilmente presa su un certo tipo di pubblico, conferisce potere mediatico e poi politico. E poco importa, anzi proprio niente importa, se il contenuto abbia un fondamento di verità o senso. Che l'espressione taxi del mare sia completamente destituita di ogni fondamento lo dimostrano vari studi. Tra questi studi uno dei più interessanti l'ha portato avanti l’ISPI ed in particolare il ricercatore Matteo Villa esperto di migrazioni. “I dati mostrano che tra il 2015 e oggi le attività delle ong non hanno fatto da pull factor (cioè non sono un fattore di attrazione) e non sono correlate con l’aumento dei flussi. Che le ong operassero in mare o meno i flussi non ne erano influenzati”.


AUTOPSIA D'UNA PAROLA ANNEGATA di Salvatore DIMAGGIO Š Copyright All rights reserved Tutti i diritti sono riservati. Ăˆ vietata qualsiasi utilizzazione, totale o parziale, dei contenuti inseriti nel presente libro digitale, ivi inclusa la memorizzazione,

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