Merleau ponty maurice fenomenologia della percezione

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Questo libro del 1945, dal 2003 riproposto da Bompiani al pubblico italiano, ha acquistato negli anni un rilievo teorico sempre maggiore al punto di essere oggi considerato tra i grandi classici della filosofia del Novecento. Qui la fenomenologia di Husserl si congeda da ogni equivoco idealistico e diventa sapere del concreto mondo della vita, un sapere tutto centrato attorno a quell’enigma che è il nostro corpo. La percezione investe nella sua globalità il soggetto-corpo che noi siamo, intreccia l’interno e l’esterno in un’ambivalenza irrisolvibile che non permette più nessuna frontiera rigida e annulla ogni dualismo di sapore cartesiano. Quando il libro uscì attrasse soprattutto per le affinità con i motivi dell’esistenzialismo. Quando venne tradotto negli anni Sessanta Enzo Paci ne fece il manifesto della fenomenologia concreta. Oggi esso è un crocevia inevitabile sia per i filosofi dell’esperienza sia per gli scienziati della percezione. Corpo, intersoggettività e una nuova idea di soggetto sono i concetti di Merleau-Ponty da cui la filosofia non può tornare indietro. D’altronde lo scavalcamento di ogni dualismo tra scienze della natura e scienze dello spirito, nutrito da una miriade di descrizioni puntuali, fa di questo libro anche la base indiscussa di gran parte del lavoro sperimentale sulla percezione.


Maurice Merleau-Ponty (1908-1961) è uno dei grandi maître della filosofia francese contemporanea. È considerato il più originale erede della fenomenologia di Husserl. Dopo avere insegnato alla Sorbona e alla Normale, dal 1952 ha tenuto lezione al College de France. Oltre a Il visibile e l’invisibile i suoi libri più significativi sono La struttura del comportamento (1942), Fenomenologia della percezione (1945), Senso e non senso (1948), Elogio della filosofia (1953), t e avventure della dialettica (1955), L’occhio e lo spirito (1961). Di Merleau-Ponty non va dimenticato il lungo sodalizio con Jean-Paul Sartre con cui fondò nel 1945 la prestigiosa rivista “Les Temps Modernes”.


Studi Bompiani Filosofia a cura di Pier Aldo Rovatti


Maurice Merleau-Ponty

FENOMENOLOGIA DELLA PERCEZIONE Traduzione di Andrea Bonomi

Bompiani


Merleau-Ponty, Marcel, Phénoménologie de la perception © Librairie Gallimard, Paris 1945 ISBN 978-88-58-76597-5 © 2003 RCS Libri S.p.A. via Mecenate 91 - 20138 Milano Prima edizione digitale 2014

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Nota del traduttore

L’espressione francese être à..., che tanto spesso ricorre nella Fenomenologia della percezione, è stata resa in italiano con «inerire a...»: diversamente, sarebbe andata perduta quell’accezione particolare che essa ha nei testi di Merleau-Ponty e che viene tematizzata in una nota di lavoro di Le visible et l’invisible (Paris, Gallimard, 1964, pp. 245-246). In tal senso va letta anche la formula étre-au-monde, che però è stata qui tradotta con «essere-al-mondo». A questo proposito va ricordato che, contrariamente a quanto ritengono alcuni, essa non è la semplice traduzione dell’heideggeriano In-der-Welt-sein, che infatti Merleau-Ponty rende con Être-dans le-monde (cfr., per esempio, Les sciences de l’homme et la phénoménologie, Paris, Centre de Documentation Universitarie, 1950, pp. 54-55). Per quanto riguarda il problema dei riferimenti husserliani, va detto che Merleau-Ponty non cita quasi mai le versioni francesi (del resto assai scarse al momento della stesura della Fenomenologa della percezione) dei testi di Husserl, ma traduce personalmente dall’originale tedesco. Queste brevi traduzioni hanno molto spesso carattere interpretativo e a volte incidono in modo rilevante sul linguaggio filosofico di Merleau-Ponty: ecco perché ho ritenuto opportuno tradurre dal testo francese le citazioni husserliane, anche qualora si verifichino piccole discrepanze con le versioni italiane delle opere da cui esse sono tratte. Per esempio, Merleau-Ponty rende con «significazione» (signification) l’espressione tedesca Sinngebung, laddove in italiano possiamo trovarla tradotta, oltre che con «significazione» (cfr. Idee per una fenomenologia pura, trad. it. di G. Alliney, Torino, Einaudi, 1950), anche con «donazione di senso» (cfr. Enzo Paci, Funzione delle scienze e significato dell’uomo, Milano, Il Saggiatore, 1963) o con «conferimento di senso» (cfr. Meditazioni cartesiane, trad. it. di F. Costa, Milano, Bompiani, 1960); parimenti, invece di «protenzione» (cfr. Mondo, Io e Tempo, trad. it. di E. Filippini, Milano, Bompiani, 1960) nella Fenomenologia della percezione troviamo il termine «protensione» (protension). Esiste infine un problema concernente gli inediti husserliani. Nella bibliografia della Fenomenologia della percezione Merleau-Ponty cita tre testi inediti e cioè: Ideen II; Umsturz der kopernikanischen Lehre: die Erde als Ur-Arche bewegt sich nicht (vale a dire gli scritti del gruppo D, concernenti il problema della «costituzione primordiale»); e infine Krisis II e III (in realtà si tratta solo della terza parte della Krisis, la seconda essendo già stata pubblicata nel 1939). Egli poté vedere questi testi durante un breve soggiorno a Lovanio nd 1939 (cfr., su tutta la questione, l’articolo di Van Breda, Merleau-Ponty et les Archives Husserl à Louvain, «Revue de Métaphysique et de Morale», 1962, n. 67, pp. 410-430). Ma va aggiunto che fra il 1939 e il 1945 egli ebbe modo di consultare - in circostanze diverse e sempre difficoltose, dò die gli impedì di avere una visione organica degli inediti husserliani e di poterli utilizzare appieno - altri inediti, fra cui vanno ricordati: la Sesta meditazione cartesiana, gli inediti F I 17 (L’idea della fenomenologia) e altri appartenenti al gruppo C (dedicati, come è noto, al problema della temporalità).

Andrea Bonomi


PREMESSA


Che cos’è la fenomenologia? Può sembrare strano che si debba ancora porre tale questione mezzo secolo dopo i primi lavori dì Husserl. Essa è però lungi dall’essere risolta. La fenomenologia è lo studio delle essenze, e per essa tutti i problemi consistono nel definire delle essenze: per esempio, l’essenza della percezione e quella della coscienza. Ma la fenomenologia è anche una filosofia che ricolloca le essenze nell’esistenza e pensa che non si possa comprendere l’uomo e il mondo se non sulla base della loro «fatticità». È una filosofia trascendentale che pone fra parentesi, per comprenderle, le affermazioni dell’atteggiamento naturale, ma è anche una filosofia per la quale il mondo è sempre «già là» prima della riflessione, come una presenza inalienabile, una filosofia tutta tesa a ritrovare quel contatto ingenuo con il mondo per dargli infine uno statuto filosofico. È l’ambizione dì una filosofia che vuole essere una «scienza esatta», ma è anche un resoconto dello spazio, del tempo, del mondo «vissuti». È il tentativo di una descrizione diretta della nostra esperienza cosi come è, senza alcun riferimento alla sua genesi psicologica e alle spiegazioni causali che lo scienziato, lo storico o il sociologo possono fornire; tuttavia, nei suoi ultimi lavori Husserl menziona una «fenomenologia genetica»1 e anche una «fenomenologia costruttiva».2 Si vorranno rimuovere queste contraddizioni distinguendo la fenomenologia di Husserl da quella di Heidegger? Ma tutto Sei» una Zeit è uscito da una indicazione di Husserl e in ultima analisi non è altro che una esplicitazione del natürlichen Welthegriff o della Lebenswelt che Husserl, alla fine della sua vita, assegnava come primo tema alla fenomenologia, cosicché la contraddizione riappare nella filosofia dello stesso Husserl. Il lettore frettoloso rinuncerà a circoscrivere una dottrina che ha detto tutto, e si chiederà se una filosofia che non giunge a definirsi merita tutto il rumore che si fa attorno a essa e se non si tratta piuttosto di un mito e di una moda. Anche se così fosse, rimarrebbero da comprendere il prestigio di questo mito e l’origine di questa moda, e la serietà filosofica esprimerà tale situazione dicendo che la fenomenologia si lascia praticare e riconoscere come maniera o come stile ed esiste come movimento ancor prima di essere giunta a un’intera coscienza filosofica. Essa è in cammino da molto tempo, i suoi discepoli la ritrovano ovunque, certamente in Hegel e in Kierkegaard, ma anche in Marx, Nietzsche e Freud. Un commento filologico dei testi sarebbe inutile: in essi troviamo solo ciò che noi vi abbiamo messo, e se c’è una storia che ha sempre postulato la nostra interpretazione, questa è la storia della filosofia. Troveremo in noi stessi l’unità della fenomenologia e il suo vero senso. Non si tratta di contare le citazioni, bensì di fissare e di oggettivare questa fenomenologia per noi la quale fa sì che, leggendo Husserl o Heidegger, molti nostri contemporanei abbiano avuto la sensazione non tanto di incontrare una filosofia nuova quanto di riconoscere ciò che attendevano. La fenomenologia non è accessibile se non a un metodo fenomenologico. Tentiamo dunque di annodare deliberatamente i famosi temi fenomenologici cosi come si sono annodati spontaneamente nella vita. Forse comprenderemo allora perché la fenomenologia è rimasta a lungo allo stato di cominciamento, di problema e di voto. Non si tratta di spiegare o di analizzare, bensì di descrivere. La prima consegna che Husserl impartiva alla fenomenologia esordiente, di essere cioè una «psicologia descrittiva» o di ritornare «alle cose stesse», è anzitutto la sconfessione della scienza. Io non sono il risultato o la convergenza delle molteplici causalità che determinano il mio corpo o il mio «psichismo», non posso pensarmi


come una parte del mondo, come il semplice oggetto della biologia, della psicologia e della sociologia, né chiudere su di me l’universo della scienza. Tutto ciò che so del mondo, anche tramite la scienza, io lo so a partire da una veduta mia o da una esperienza del mondo senza la quale i simboli della scienza non significherebbero nulla. Tutto l’universo della scienza è costruito sul mondo vissuto e se vogliamo pensare la scienza stessa con rigore, valutarne esattamente il senso e la portata, dobbiamo anzitutto risvegliare questa esperienza del mondo di cui essa è l’espressione seconda. La scienza non ha e non avrà mai il medesimo senso d’essere del mondo percepito, semplicemente perché essa ne è una determinazione o una spiegazione. Io sono non già un «essere vivente» o un «uomo» o una «coscienza», con tutti i caratteri che la zoologia, l’anatomia sociale o la psicologia induttiva accordano a questi prodotti della natura o della storia - io sono la fonte assoluta, la mia esistenza non viene dai miei antecedenti, dal mio ambiente fisico e sociale, ma va verso di essi e li sostiene, giacché sono io che faccio essere per me (e dunque essere nel solo senso che la parola possa avere per me) questa tradizione che scelgo di riprendere o questo orizzonte la cui distanza da me - non appartenendogli come proprietà - si eclisserebbe se io non fossi là a percorrerla con lo sguardo. Le vedute scientifiche per le quali io sono un momento del mondo, sono sempre ingenue e ipocrite, perché sottintendono, senza menzionarla, l’altra veduta - quella della coscienza per la quale originariamente un mondo si dispone attorno a me e comincia a esistere per me. Ritornare alle cose stesse significa ritornare a questo mondo anteriore alla conoscenza di cui la conoscenza parla sempre, e nei confronti del quale ogni determinazione scientifica è astratta, segnitiva e dipendente, come la geografia nei confronti del paesaggio in cui originariamente abbiamo imparato che cos’è una foresta, un prato o un fiume. Questo movimento è assolutamente distinto dal ritorno idealistico alla coscienza, e l’esigenza di una descrizione pura esclude sia il procedimento dell’analisi riflessiva che quello della spiegazione scientifica. Cartesio e soprattutto Kant hanno svincolato il soggetto o la coscienza mostrando che io non potrei cogliere nessuna cosa come esistente se dapprima non mi esperissi esistente nell’atto di coglierla, hanno fatto apparire la coscienza, l’assoluta certezza di me per me, come la condizione senza la quale non ci sarebbe proprio nulla e l’atto del collegare come il fondamento del collegato. Certamente l’atto del collegare non è nulla senza lo spettacolo del mondo che esso collega; in Kant l’unità della coscienza è esattamente contemporanea all’unità del mondo, e in Cartesio il dubbio metodico non ci fa perdere nulla, giacché il mondo intero, per lo meno a titolo di esperienza nostra, è reintegrato al Cogito, sicuro insieme con questo, e contrassegnato soltanto dall’indice «pensiero di...». Ma le relazioni del soggetto e del mondo non sono rigorosamente bilaterali: se lo fossero, in Cartesio la certezza del mondo sarebbe immediatamente data con quella del Cogito e Kant non parlerebbe di «rivoluzione copernicana». L’analisi riflessiva risale dalla nostra esperienza del mondo al soggetto come condizione di possibilità distinta da quella esperienza, e mostra la sintesi universale come ciò senza di cui non ci sarebbe mondo. In questa misura essa cessa di aderire alla nostra esperienza, e a un resoconto sostituisce una ricostruzione. Si comprende quindi come Husserl abbia potuto rimproverare a Kant uno «psicologismo delle facoltà dell’anima»3 e opporre a una analisi noetica, che fa riposare il mondo sull’attività sintetica del soggetto, la sua riflessione noematica, che rimane nell’oggetto e ne esplicita l’unità primordiale anziché generarla. Il mondo è là prima di ogni analisi che io possa farne, e sarebbe artificioso derivarlo da una serie di sintesi che collegassero le sensazioni, e successivamente gli aspetti prospettici dell’oggetto, mentre le une e gli altri sono appunto prodotti dell’analisi e non debbono essere realizzati prima di essa. L’analisi riflessiva crede di seguire a ritroso il cammino di una costituzione preliminare e di raggiungere nell’«uomo interiore», come dice Sant’Agostino, un potere costituente sempre identico a


se stesso. Cosi, la riflessione rimuove se stessa e si ricolloca in una soggettività invulnerabile, al di qua dell’essere e del tempo. Ma questa è una ingenuità o, se si preferisce, una riflessione incompleta che perde coscienza del proprio cominciamento. Ho iniziato a riflettere, la mia riflessione è riflessione su un irriflesso e non può ignorare se stessa come evento, quindi essa appare ai suoi stessi occhi come una autentica creazione, come un mutamento di struttura della coscienza, e le spetta riconoscere, al di qua delle proprie operazioni, il mondo che è dato al soggetto perché il soggetto è dato a se stesso. Il reale è da descrivere, e non da costruire o costituire. Ciò significa che non posso assimilare la percezione alle sintesi che appartengono all’ordine del giudizio, degli atti o della predicazione. In ogni momento il mio campo percettivo è riempito di riflessi, di scricchiolii, di fugaci impressioni tattili che io non sono in grado di connettere in modo preciso al contesto percepito, e che tuttavia pongo immediatamente nel mondo, senza mai confonderle con le mie fantasticherie. Inoltre, in ogni istante io sogno sulle cose, immagino oggetti o persone la cui presenza qui non è incompatibile con il contesto e che tuttavia non si mescolano al mondo, ma sono oltre il mondo, sul teatro dell’immaginario. Se fosse fondata solo sulla coerenza intrinseca delle «rappresentazioni», la realtà della mia percezione dovrebbe essere sempre esitante e, abbandonato alle mie congetture probabili, in ogni momento io dovrei disfare sintesi illusorie e reintegrare al reale fenomeni aberranti dapprima esclusi. Nulla di tutto questo. Il reale è un tessuto solido, non attende i nostri giudizi per annettersi i fenomeni più sorprendenti e per respingere le nostre immaginazioni più verosimili. La percezione non è una scienza del mondo, non è nemmeno un atto, una presa di posizione deliberata, ma è lo sfondo sul quale si staccano tutti gli atti ed è da questi presupposta. Il mondo non è un oggetto di cui io posseggo nel mio intimo la legge di costituzione, ma è l’ambiente naturale, il campo di tutti i miei pensieri e di tutte le mie percezioni esplicite. La verità non «abita» soltanto l’«uomo interiore»4 o meglio non v’è uomo interiore: l’uomo è nel mondo, e nel mondo egli si conosce. Quando ritorno in me a partire dal dogmatismo del senso comune o dal dogmatismo della scienza, io trovo non un nucleo di verità intrinseca, ma un soggetto votato al mondo. Con ciò si vede il vero senso della celebre riduzione fenomenologica. Non vi è certo questione sulla quale Husserl abbia impiegato maggior tempo a comprendere se stesso, cosi come non vi è questione sulla quale egli sia più spesso ritornato: la «problematica della riduzione» occupa infatti negli inediti un posto importante. Per molto tempo, e sin nei testi recenti, la riduzione è presentata come il ritorno a una coscienza trascendentale di fronte alla quale il mondo si dispiega in una trasparenza assoluta, da parte a parte animato da una serie di appercezioni che il filosofo avrebbe il compito di ricostruire a partire dal loro risultato. Cosi, la mia sensazione del rosso è appercepita come manifestazione di un certo rosso sentito, questo rosso come manifestazione di una superficie rossa, questa superficie, a sua volta, come manifestazione di un cartone rosso e questo cartone, infine, come manifestazione o profilo di una cosa rossa, di questo libro. Sarebbe dunque l’apprensione di una certa hyle come significante un fenomeno di grado superiore, la Sinngebung, cioè l’operazione attiva di significazione, a definire la coscienza, e il mondo non sarebbe altro che il «significato mondo». La riduzione fenomenologica sarebbe idealistica, nel senso di un idealismo trascendentale che tratta il mondo come una unità di valore indivisa fra Paolo e Pietro, nella quale le loro prospettive si incontrano, e che fa comunicare la «coscienza di Pietro» e la «coscienza di Paolo», perché la percezione del mondo «da parte di Pietro», non è il fatto di Pietro, né la percezione del mondo «da parte di Paolo» il fatto di Paolo, ma in entrambe il fatto di coscienze prepersonali la cui comunicazione non costituisce un problema, essendo postulata dalla definizione stessa della


coscienza, del senso o della verità. In quanto sono coscienza, cioè in quanto qualche cosa ha senso per me, io non sono qui, né là, né Pietro, né Paolo, non mi distinguo in nulla da un’«altra» coscienza, giacché siamo tutti presenze immediate al mondo, e questo mondo è per definizione unico, essendo il sistema delle verità. Un idealismo trascendentale conseguente spoglia il mondo della sua opacità e della sua trascendenza. Il mondo è dò stesso che noi rappresentiamo, non come uomini o come soggetti empirici, ma nella misura in cui siamo tutti una sola luce e partecipiamo all’Uno senza dividerlo. L’analisi riflessiva ignora sia il problema dell’altro che il problema del mondo perché fa apparire in me, con il primo barlume di coscienza, il potere, in linea di diritto, di accedere a una verità universale, e perché - anche l’altro essendo senza ecceità, senza posto e senza corpo - l’Alter e l’Ego fanno tutt’uno nel mondo vero, legame degli spiriti. Non c’è difficoltà nel comprendere come Io posso pensare l’Altro, perché l’Io e quindi l’Altro non sono presi nel tessuto dei fenomeni e, anziché esistere, valgono. Non vi è nulla di nascosto dietro questi volti o questi gesti, nessun paesaggio per me inaccessibile: appena un po’ d’ombra che esiste solo in quanto esiste la luce. Viceversa, è noto che per Husserl c’è un problema dell’altro e l’alter ego è un paradosso. Se l’altro è veramente per sé, al di là del suo essere per me, e se noi siamo l’uno per l’altro, e non l’uno e l’altro per Dio, è necessario che l’uno appaia all’altro, è necessario che egli abbia e che io abbia una esteriorità e che vi sia, oltre alla prospettiva del Per Sé - la mia veduta su di me e la veduta dell’altro su se stesso -, una prospettiva del Per Altri - la mia veduta sull’Altro e la veduta dell’Altro su di me. Naturalmente, in ciascuno di noi queste due prospettive non possono essere semplicemente giustapposte, altrimenti non è me che l’altro vedrebbe e non è lui che io vedrei. Occorre che io sia la mia esteriorità e che il corpo dell’altro sia lui stesso. Questo paradosso e questa dialettica dell’Ego e dell’Alter Ego sono possibili solo se l’Ego e l’Alter Ego vengono definiti dalla loro situazione e non liberati da ogni inerenza, cioè se la filosofia non si conclude con il ritorno all’io e se con la riflessione io scopro non solo la mia autopresenza ma anche la possibilità di uno «spettatore estraneo», cioè ancora se, nel momento stesso in cui esperisco la mia esistenza, e sino a questa punta estrema della riflessione, io manco ancora di quella densità assoluta che mi farebbe uscire dal tempo e scopro in me una specie di debolezza interna che mi impedisce di essere assolutamente individuo e mi espone allo sguardo degli altri come un uomo fra gli uomini, o almeno una coscienza fra le coscienze. Finora il Cogito svalutava la percezione dell’altro, mi insegnava che l’Io è accessibile solo a se stesso, giacché mi definiva per il pensiero che io ho di me stesso e che sono evidentemente il solo ad avere, almeno in questo senso ultimo. Perché l’altro non sia una parola vana, occorre che la mia esistenza non si riduca mai alla coscienza che io ho di esistere, ma che involga anche la coscienza che si può avere e dunque la mia incarnazione in una natura e la possibilità almeno di una situazione storica. Il Cogito deve scoprirmi in situazione, e solo a questa condizione la soggettività trascendentale potrà, come dice Husserl,5 essere una intersoggettività. Come Ego meditante, io posso si distinguere da me il mondo e le cose, giacché certamente io non esisto alla maniera delle cose. Debbo anzi allontanare da me il mio corpo inteso come una cosa fra le cose, come una somma di processi fisico-chimici. Ma, anche se è senza luogo nel tempo e nello spazio oggettivi, la cogitatio che in questo modo io scopro trova posto nel mondo fenomenologico. Il mondo che distinguevo da me come somma di cose o di processi legati da rapporti di causalità, lo riscopro «in me» come l’orizzonte permanente di tutte le mie cogitationes e come una dimensione in rapporto alla quale io non cesso di situarmi. L’autentico Cogito non definisce l’esistenza del soggetto per il pensiero che questi ha di esistere, non tramuta la certezza del mondo in certezza del pensiero del mondo e infine non sostituisce al mondo stesso il significato mondo. Esso riconosce invece il mio pensiero stesso come un fatto inalienabile ed elimina ogni sorta di idealismo scoprendomi come «essere al mondo».


Proprio pel fatto che siamo da parte a parte rapporto al mondo, per noi la sola maniera di rendercene conto è di sospendere questo movimento, di negargli la nostra complicità (o di guardarlo obne mitzumachen, come spesso dice Husserl), o ancora di metterlo fuori gioco. Non perché si rinunci alle certezze del senso comune e dell’atteggiamento naturale - viceversa esse sono il tema costante della filosofia -, ma perché, appunto come presupposti di ogni pensiero, esse «sono ovvie», passano inosservate, e perché, per risvegliarle e farle apparire, dobbiamo astenercene per un istante. La migliore formula della riduzione è certo quella che forniva Eugen Fink, l’assistente di Husserl, quando parlava di uno «stupore» di fronte al mondo.6 La riflessione non si ritira dal mondo verso l’unità della coscienza come fondamento del mondo, ma prende distanza per veder scaturire le trascendenze, distende i fili intenzionali che ci collegano al mondo per farli apparire, essa sola è coscienza del mondo perché lo rivela strano e paradossale. II trascendentale di Husserl non è quello di Kant, e Husserl rimprovera alla filosofia kantiana di essere una filosofia «mondana» perché utilizza il nostro rapporto al mondo, che è il motore della deduzione trascendentale, e fa il mondo immanente al soggetto, anziché stupirsene e concepire il soggetto come trascendenza verso il mondo. Tutto il malinteso di Husserl con i suoi interpreti, con i «dissidenti» esistenziali e infine con se stesso discende dal fatto che, appunto per vedere il mondo e coglierlo come paradosso, occorre rompere la nostra familiarità con esso, e questa rottura non può insegnarci altro che lo scaturire immotivato del mondo. Il piò grande insegnamento della riduzione è l’impossibilità di una riduzione completa. Ecco perché Husserl si interroga sempre di nuovo sulla possibilità della riduzione. Se noi fossimo lo spirito assoluto, la riduzione non sarebbe problematica. Ma poiché invece noi siamo al mondo, poiché anche le nostre riflessioni prendono posto nel flusso temporale che cercano di captare (poiché esse sich einströmen, come dice Husserl), non vi è pensiero che abbracci tutto il nostro pensiero. Il filosofo, dicono ancora gli inediti, è un eterno principiante. Ciò significa che egli non considera acquisito nulla di ciò che gli uomini o gli scienziati credono di sapere. Significa anche che la filosofia stessa non deve ritenersi acquisita in ciò che ha potuto dire di vero, che essa è un’esperienza rinnovata del proprio cominciamento, che consiste interamente nel descrivere questo cominciamento e infine che la riflessione radicale è coscienza della propria dipendenza nei confronti di una vita irriflessa la quale è la sua situazione iniziale, costante e finale. Lungi dall’essere, come si è creduto, la formula di una filosofia idealistica, la riduzione fenomenologica è quella di una filosofia esistenziale: l’ln-der-Welt-sein di Heidegger non appare che sullo sfondo della riduzione fenomenologica. Un malinteso del medesimo genere offusca la nozione delle «essenze» in Husserl. Ogni riduzione, egli dice, oltre che trascendentale è necessariamente eidetica. Ciò significa che non possiamo sottoporre allo sguardo filosofico la nostra percezione del mondo senza cessare di fare tutt’uno con questa tesi del mondo, con questo interesse per il mondo che ci definisce, senza indietreggiare al di qua del nostro impegno per farlo apparire esso stesso come spettacolo, senza passare dal fatto della nostra esistenza alla natura della nostra esistenza, dal Dasein al Wesen, Ma è chiaro che l’essenza non è qui lo scopo, bensì un mezzo, che il nostro impegno effettivo nel mondo è appunto ciò che occorre comprendere e condurre al concetto, e che polarizza tutte le nostre fissazioni concettuali. La necessità di passare per le essenze non significa che la filosofia le assuma come oggetto, ma, per contro, che la nostra esistenza è troppo strettamente presa nel mondo per conoscersi come tale nel momento in cui vi si getta, e che essa ha bisogno del campo della idealità per conoscere e conquistare la sua fatticità. Come è noto, la Scuola di Vienna ammette una volta per tutte che possiamo avere rapporto solo con significati. Per esempio, per la Scuola di Vienna la «coscienza»


non è ciò stesso che noi siamo. È un significato tardivo e complicato, di cui dovremmo far uso solo con circospezione e dopo aver esplicitato i numerosi significati che hanno contribuito a determinarlo nel corso dell’evoluzione semantica della parola. Questo positivismo logico è agli antipodi del pensiero di Husserl. Quali che siano le variazioni di senso che infine hanno dato luogo alla parola e al concetto di coscienza come acquisizione del linguaggio, noi abbiamo un mezzo diretto per accedere a ciò che esso designa, abbiamo l’esperienza di noi stessi, di questa coscienza che noi siamo: su tale esperienza si misurano tutti i significati del linguaggio, ed essa fa si che il linguaggio voglia appunto dire qualcosa per noi. «È l’esperienza ... ancora muta che ora per la prima volta deve essere portata all’espressione pura del suo senso proprio.»7 Le essenze di Husserl devono ricondurre con sé tutti i rapporti viventi dell’esperienza, come la rete porta dal fondo del mare i pesci e le alghe palpitanti. Non bisogna dunque dire con J. Wahl che «Husserl separa le essenze dall’esistenza». 8 Le essenze separate sono quelle del linguaggio. La funzione di quest’ultimo consiste nel far esistere le essenze in una separazione che, a dire il vero, è solo apparente, giacché per mezzo del linguaggio esse riposano ancora sulla vita antepredicativa della coscienza. Nel silenzio della coscienza originaria si vede apparire non soltanto ciò che vogliono dire le parole, ma anche ciò che vogliono dire le cose, il nucleo di significato primario attorno al quale si organizzano gli atti di denominazione e di espressione. Cercare l’essenza della coscienza non sarà quindi sviluppare la Wortbedeutung «coscienza» e fuggire dall’esistenza nell’universo delle cose dette, bensì ritrovare questa mia effettiva autopresenza, il fatto della mia coscienza che è quanto, in definitiva, significano la parola e il concetto di coscienza. Cercare l’essenza del mondo non è cercare ciò che esso è in idea, una volta che l’abbiamo ridotto a tema di discorso, ma cercare ciò che è di fatto per noi prima di ogni tematizzazione. Il sensismo «riduce» il mondo osservando che dopo tutto non abbiamo mai se non degli stati di noi stessi. Anche l’idealismo trascendentale «riduce» il mondo, giacché, se lo rende certo, è a titolo di pensiero o coscienza del mondo e come il semplice correlato della nostra conoscenza, cosicché esso diviene immanente alla coscienza e la aseità delle cose è con ciò soppressa. La riduzione eidetica è viceversa la risoluzione di far apparire il mondo cosi come è prima di ogni ritorno su noi stessi, è l’ambizione di eguagliare la riflessione alla vita irriflessa della coscienza. Io mi protendo verso un mondo e percepisco un mondo. Se con il sensismo dicessi che vi sono qui solo degli «stati di coscienza» e se cercassi di distinguere le mie percezioni dai miei sogni con «criteri», io mancherei il fenomeno del mondo. Infatti, posso parlare di «sogni» e di «realtà», interrogarmi sulla distinzione dell’immaginario e del reale e mettere in dubbio il «reale», proprio perché questa distinzione è già fatta da me prima dell’analisi, perché ho un’esperienza del reale come dell’immaginario, e il problema non consiste allora nel ricercare come il pensiero critico possa darsi degli equivalenti secondari di questa distinzione, ma nell’esplicitare il nostro sapere primordiale del «reale», nel descrivere la percezione del mondo come ciò che fonda per sempre la nostra idea della verità. Non dobbiamo dunque chiederci se percepiamo veramente un mondo, dobbiamo invece dire: il mondo è ciò che noi percepiamo. Più in generale, non dobbiamo chiederci se le nostre evidenze sono delle verità, o se, per un vizio del nostro spirito, ciò che è evidente per noi non sarebbe poi illusorio nei confronti di qualche verità in sé: infatti, se parliamo di illusione è perché abbiamo riconosciuto delle illusioni, e abbiamo potuto farlo solo in nome di qualche percezione che, nello stesso momento, si attestasse come vera, cosicché il dubbio o il timore di ingannarsi afferma nel contempo il nostro potere di svelare l’errore e non potrebbe quindi sradicarci dalla verità. Noi siamo nella verità e l’evidenza è «l’esperienza della verità».9 Cercare l’essenza della percezione significa dichiarare che la percezione è non presunta vera, ma


definita per noi come accesso alla verità. Se ora, con l’idealismo, volessi fondare questa evidenza di fatto, questa credenza irresistibile su un’evidenza assoluta, cioè sull’assoluta chiarezza dei miei pensieri per me, se volessi ritrovare in me un pensiero naturante che formi la membratura del mondo o l’illumini da parte a parte, ancora una volta io sarei infedele alla mia esperienza del mondo e cercherei ciò che la rende possibile anziché cercare ciò che essa è. L’evidenza della percezione non è il pensiero adeguato o l’evidenza apodittica.10 Il mondo non è ciò che io penso, ma ciò che io vivo; io sono aperto al mondo, comunico indubitabilmente con esso, ma non lo posseggo, esso è inesauribile. «C’è un mondo», o meglio «c’è il mondo»: di questa tesi costante della mia vita non posso mai rendere interamente ragione. Tale fatticità del mondo è ciò che fa la Weltlichkeit der Welt, ciò per cui il mondo è mondo, cosi come la fatticità del cogito non è una imperfezione nel cogito stesso, ma viceversa ciò che mi rende certo della mia esistenza. Il metodo eidetico è quello di un positivismo fenomenologico che fonda il possibile sul reale. Possiamo ora affrontare la nozione di intenzionalità, troppo spesso citata come la scoperta principale della fenomenologia, mentre essa non è comprensibile se non in virtù della riduzione. «Ogni coscienza è coscienza di qualche cosa», ciò non è nuovo. Nella Confutazione dell’Idealismo Kant ha dimostrato che la percezione interna è impossibile senza percezione esterna, che il mondo, come connessione dei fenomeni, è anticipato nella coscienza della mia unità, è per me il mezzo di realizzarmi come coscienza. Ciò che distingue l’intenzionalità dal rapporto kantiano a un oggetto possibile, è il fatto che, prima di essere posta dalla conoscenza e in un atto di identificazione espressa, l’unità del mondo è vissuta come già fatta o già là. Nella Critica del Giudizio lo stesso Kant mostra che vi è un’unità dell’immaginazione e dell’intelletto e una unità dei soggetti prima dell’oggetto e che, per esempio, nell’esperienza del bello io esperisco un accordo del sensibile e del concetto, di me e dell’altro, accordo che è esso stesso senza concetto. Qui il soggetto non è più il pensatore universale di un sistema di oggetti rigorosamente collegati, la potenza letica che, per formare un mondo, assoggetta il molteplice alla legge dell’intelletto, - esso si scopre e si gusta come una natura spontaneamente conforme alla legge dell’intelletto. Ma se vi è una natura del soggetto, allora l’arte recondita dell’immaginazione deve condizionare l’attività categoriale: non è più soltanto il giudizio estetico, ma anche la conoscenza che riposa su di essa ed è ancora essa a fondare l’unità della coscienza e delle coscienze. Husserl riprende la Critica del Giudizio quando parla di una teleologia della coscienza. Non si tratta di sdoppiare la coscienza umana in un pensiero assoluto, che, dal di fuori, le assegnerebbe i suoi fini. Si tratta invece di riconoscere la coscienza stessa come progetto del mondo, destinata a un mondo che essa non abbraccia né possiede, ma verso il quale non cessa di dirigersi, - e il mondo come quell’individuo preoggettivo la cui unità imperiosa prescrive alla conoscenza il suo scopo. Ecco perché Husserl distingue l’intenzionalità d’atto, che è quella dei nostri giudizi e delle nostre prese di posizione volontarie, la sola di cui la Critica della Ragion Pura abbia parlato, e l’intenzionalità fungente (fungierende Intentionalität), quella che costituisce l’unità naturale e ante-predicativa del mondo e della nostra vita che appare nei nostri desideri, nelle nostre valutazioni, nel nostro paesaggio più chiaramente che nella conoscenza oggettiva, e che fornisce il testo di cui le nostre conoscenze cercano di essere la traduzione in linguaggio esatto. Il rapporto al mondo, cosi come si pronuncia instancabilmente in noi, non è qualcosa che possa essere reso più chiaro da una analisi: la filosofia può solo ricollocarlo sotto il nostro sguardo, offrirlo alla nostra constatazione. Grazie a questa nozione allargata dell’intenzionalità, la «comprensione» fenomenologica si


distingue dall’«intellezione» classica, che è limitata alle «vere e immutabili nature», e la fenomenologia può divenire una fenomenologia della genesi. Che si tratti di una cosa percepita, di un avvenimento storico o di una dottrina, «comprendere» significa riafferrare l’intenzione totale - non soltanto ciò che essi sono per la rappresentazione, le «proprietà» della cosa percepita, la polvere dei «fatti storici», le «idee» introdotte dalla dottrina, ma l’unico modo di esistere che si esprime nelle proprietà della pietra, del bicchiere o del pezzo di cera, in tutti i fatti di una rivoluzione, in tutti i pensieri di un filosofo. Si tratta di ritrovare in ogni civiltà l’Idea nel senso hegeliano, ossia non una legge di tipo fisico-matematico, accessibile al pensiero oggettivo, ma la formula di un unico comportamento nei confronti dell’altro, della Natura, del tempo e della morte, una certa maniera di plasmare il mondo, che lo storico deve essere capace di riprendere e di assumere. Ecco le dimensioni della storia. In rapporto a queste non vi è una parola, né un gesto umano, anche abituali o distratti, che siano privi di significato. Io credevo di aver taciuto per stanchezza, il tale ministro pensava di non aver detto che una frase di circostanza, ed ecco che il mio silenzio o la sua parola assumono un senso, poiché la mia stanchezza o il ricorso a una formula fatta non sono fortuiti, ma esprimono un certo disinteresse e quindi anche una certa presa di posizione nei confronti della situazione. In un avvenimento considerato da vicino, nel momento in cui è vissuto, tutto sembra dovuto al caso: l’ambizione del tale, questa congiuntura favorevole, quella circostanza locale sembrano essere stati decisivi. Ma le casualità si compensano ed ecco che questa polvere di fatti si agglomera, delinea una certa maniera di prendere posizione nei confronti della situazione umana, un avvenimento i cui contorni sono definiti e di cui si può parlare. Si deve comprendere la storia a partire dall’ideologia, oppure dalla politica, oppure dalla religione, oppure dall’economia? Si deve comprendere una dottrina in base al suo contenuto manifesto, oppure in base alla psicologia dell’autore e agli avvenimenti della sua vita? Si deve comprendere in tutti i modi contemporaneamente, tutto ha un senso, sotto ogni rapporto ritroviamo la medesima struttura dell’essere. Tutte queste vedute sono vere a condizione che non le si isoli, che si vada sino al fondo della storia e che si raggiunga l’unico nucleo di significato esistenziale che si esplicita in ogni prospettiva. È vero, come dice Marx, che la storia non cammina sulla testa, ma è altresì vero che non pensa con i piedi. O meglio, non dobbiamo occuparci né della sua «testa» né dei suoi «piedi», bensì del suo corpo. Tutte le spiegazioni economiche, psicologiche di una dottrina sono vere, giacché il pensatore non pensa mai se non a partire da ciò che egli è. La riflessione stessa su una dottrina sarà totale solo se realizza il proprio congiungimento con la storia della dottrina e con le spiegazioni estreme, e se riesce a ricollocare le cause e il senso della dottrina in una struttura di esistenza. C’è, come dice Husserl, una «genesi del senso» (Sinngenesis),11 e in definitiva essa sola ci insegna ciò che la dottrina «vuol dire». Come la comprensione, cosi la critica dovrà svolgersi su tutti i piani; naturalmente, per confutare una dottrina non ci si potrà accontentare di collegarla a un certo accidente della vita dell’autore: essa ha un significato che va al di là, e tanto nell’esistenza quanto nella coesistenza non c’è alcun accidente puro, giacché l’una e l’altra assimilano le casualità per tramutarle in ragione. Infine, la storia è indivisibile nella successione cosi come lo è nel presente. In rapporto alle sue dimensioni fondamentali, tutti i periodi storici appaiono come manifestazioni di una sola esistenza o episodi di un solo dramma, e noi non sappiamo se questo dramma ha uno scioglimento. Poiché siamo nel mondo, noi siamo condannati al senso e non possiamo fare nulla né dire nulla che non assuma un nome nella storia. La più importante acquisizione della fenomenologia consiste certo nell’aver congiunto l’estremo soggettivismo e l’estremo oggettivismo nella sua nozione del mondo o della razionalità. La


razionalità è esattamente commisurata alle esperienze nelle quali si rivela. Vi è razionalità, cioè: le prospettive si incontrano, le percezioni si confermano, un senso appare. Ma esso non deve venir posto a parte, trasformato in Spirito assoluto o in mondo nel senso realista. Il mondo fenomenologico non è essere puro, ma il senso che traspare all’intersezione delle mie esperienze e all’intersezione delle mie esperienze e di quelle altrui, grazie all’innestarsi delle une sulle altre: esso è quindi inseparabile dalla soggettività e dall’intersoggettività, le quali realizzano la loro unità mediante la ripresa delle mie esperienze passate nelle mie esperienze presenti, dell’esperienza altrui nella mia. Per la prima volta la meditazione del filosofo è abbastanza cosciente per non realizzare nel mondo, ancor prima di espletarsi, i propri risultati. Il filosofo tenta di pensare il mondo, l’altro e se stesso, e di concepire i loro rapporti. Tuttavia, l’Ego meditante, lo «spettatore disinteressato» (uninteressierter Zuschauer)12 non raggiungono una razionalità già data, ma «si stabiliscono»13 e la stabiliscono con una iniziativa che non ha garanzia nell’essere e il cui diritto riposa interamente sul potere effettivo che essa ci dà di assumere la nostra storia. Il mondo fenomenologico non è l’esplicitazione di un essere preliminare, ma la fondazione dell’essere, la filosofia non è il rispecchiamento di una verità preliminare, ma, come l’arte, la realizzazione di una verità. Ci si chiederà come questa realizzazione è possibile, ci si chiederà se essa non raggiunge nelle cose una Ragione preesistente. Ma il solo Logos che preesista è il mondo stesso, e la filosofia che lo fa passare all’esistenza manifesta non comincia con l’essere possibile: essa è attuale o reale, come il mondo di cui fa parte, e nessuna ipotesi esplicativa è pili chiara che l’atto stesso con il quale noi riprendiamo questo mondo incompiuto per tentare di totalizzarlo e di pensarlo. La razionalità non è u n problema, non v’è dietro di essa una incognita che dobbiamo determinare deduttivamente o provare induttivamente a partire da essa: in ogni istante assistiamo al prodigio della connessione delle esperienze, e nessuno sa meglio di noi come esso avviene, giacché noi siamo questo nodo di relazioni. Il mondo e la ragione non costituiscono un problema; diciamo, se si preferisce, che sono misteriosi, ma questo mistero li definisce, e non c’è motivo di dissiparlo con qualche «soluzione»: esso è al di qua delle soluzioni. La vera filosofia consiste nel reimparare a vedere il mondo, e in questo senso una storia raccontata può significare il mondo con altrettanta «profondità» che un trattato di filosofia. Noi prendiamo in mano la nostra sorte, diveniamo responsabili della nostra storia in virtù della riflessione, ma allo stesso modo in virtù di una decisione nella quale impegniamo la nostra vita, e in entrambi i casi si tratta di un atto violento che si convalida esercitandosi. Come rivelazione del mondo la fenomenologia riposa su se stessa o, anche, fonda se stessa.14 Tutte le conoscenze poggiano su un «terreno» di postulati e infine sulla nostra comunicazione con il mondo come primo fondamento della razionalità. In quanto riflessione radicale, di norma la filosofia si priva di questa risorsa. Poiché è anch’essa nella storia, anch’essa fa uso del mondo e della ragione costituita. Occorrerà dunque che la filosofia rivolga a se stessa l’interrogazione che rivolge a tutte le conoscenze: cosi, essa si sdoppierà indefinitamente, sarà, come dice Husserl, un dialogo o una meditazione infinita e, nella misura stessa in cui rimane fedele alla sua intenzione, non saprà mai dove va. L’incompiutezza della fenomenologia e il suo modo di procedere incoativo non sono il segno di un fallimento, ma erano inevitabili perché la fenomenologia ha il compito di rivelare il mistero del mondo e il mistero della ragione.15 Se la fenomenologia è stata un movimento ancor prima di essere una dottrina o un sistema, ciò non è un caso né un’impostura. Essa è laboriosa come l’opera di Balzac, quella di Proust, quella di Valéry o quella di Cézanne - per lo stesso genere d’attenzione e di stupore, per la stessa esigenza di coscienza, per la stessa volontà di cogliere il senso del mondo o della storia allo stato nascente. Sotto questo profilo essa si confonde con lo sforzo del pensiero moderno.



Note

1 Meditazioni 2

Cfr. la VI Meditazione cartesiana, redatta da Eugen Fink e inedita, di cui G. Berger mi ha cortesemente dato comunicazione.

3 Logische 4 «In te 5

cartesiane, trad. it., Milano, Bompiani, 1960, pp. 193 sgg.

Untersuchungen, Prolegomena zur reinen Logik, p. 93.

redi; in interiore nomine habitat veritas», S. Agostino.

Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, III; trad. it, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, Il Saggiatore, 1961

6 Die

phänomenologische Philosophie Edmund Husserls in der gegenwärtigen Kritik, pp. 331 sgg

7 Meditazioni 8 Rédisme 9 Dos

dialectique et mystère, l’Arbalète, autunno 1942.

Erlebnis der Wahrbeit (Logische Untersuchungen, Prolegomena zur reinen Logik, p. 190).

10 Non c’è 11

cartesiane, trad. it. cit., p. 80.

evidenza apodittica, dice in sostanza Formale und transzendentale Logik, p. 142.

Il termine è abituale negli inediti. L’idea si trova in Formale und transzendentale Logik, pp. 184 sgg.

12 VI

Meditazione cartesiana (inedita).

13 Ibidem. 14 «Rückbeziehung der 15

Phänomenologie auf sich selbst», dicono gli inediti.

Dobbiamo quest’ultima espressione a G. Gusdorf, che, del resto, la impiegava forse in un altro senso.


INTRODUZIONE I PREGIUDIZI CLASSICI E IL RITORNO AI FENOMENI


I. La «sensazione»

Cominciando lo studio della percezione troviamo nel linguaggio la nozione di sensazione, che sembra immediata e chiara: io sento del rosso, dell’azzurro, del caldo, del freddo. Tuttavia, vedremo che essa è oltremodo confusa e che, per averla ammessa, le analisi classiche hanno fallito il fenomeno della percezione. Anzitutto potrei intendere per sensazione la maniera in cui sono stimolato e l’esperienza di uno stato di me stesso. Il grigio degli occhi chiusi che mi circonda senza distanza, i suoni del dormiveglia che vibrano «nella mia testa» indicherebbero ciò che può essere il puro sentire. Io sentirei nell’esatta misura in cui coincido con il sentito, e in cui esso cessa di aver posto nel mondo oggettivo e non mi significa nulla. Ciò equivale a confessare che si dovrebbe cercare la sensazione al di qua di ogni contenuto qualificato, giacché, per distinguersi l’uno dall’altro come due colori, il rosso e il verde devono già esser spettacolo dinanzi a me anche senza localizzazione precisa, e cessano dunque di essere me stesso. La sensazione pura consisterà nell’esperire uno «choc» indifferenziato, istantaneo e puntuale. Non è, necessario dimostrare, data la concordanza dei punti di vista in proposito, che tale nozione non corrisponde a nulla di cui abbiamo l’esperienza e che le percezioni di fatto più semplici che conosciamo, per esempio in animali come la scimmia e la gallina, vertono su relazioni e non su termini assoluti.1 Ma resta da chiedersi perché ci si crede autorizzati di diritto a distinguere nell’esperienza percettiva uno strato di «impressioni». Prendiamo una macchia bianca su uno sfondo omogeneo. Tutti i punti della macchia hanno in comune una certa «funzione» che fa di essi una «figura». Il colore della figura è più denso e per cosi dire più resistente di quello dello sfondo; i bordi della macchia bianca le «appartengono» e non sono solidali con lo sfondo, quantunque quest’ultimo sia a essi contiguo; la macchia appare posta sullo sfondo e non lo interrompe. Ogni parte annuncia più di quanto contenga e questa percezione elementare è quindi già pregna di un senso. Ma se la figura e lo sfondo, come insieme, non sono sentiti, è pur necessario, si dirà, che lo siano in ogni loro punto. Ciò significherebbe però dimenticare che, a sua volta, ogni punto può essere percepito solo come una figura su uno sfondo. Quando la Gestalttheorie ci dice che una figura su sfondo è il dato sensibile più semplice che possiamo ottenere, non ci troviamo di fronte a un carattere contingente della percezione di fatto - che, in una analisi ideale, ci lascerebbe liberi di introdurre la nozione di impressione, - ma alla definizione stessa del fenomeno percettivo, ciò senza di cui un fenomeno non può essere detto percezione. Il «qualcosa» percettivo è sempre in mezzo ad altre cose e fa sempre parte di un «campo». Una zona veramente omogenea che non offra nulla da percepire non può essere data a nessuna percezione. Solo la struttura della percezione effettiva ci può insegnare che cos’è percepire. Pertanto, la pura impressione è non soltanto introvabile, ma anche impercettibile, e quindi impensabile come momento della percezione. Se la si introduce, è perché, invece di rimanere attenti all’esperienza percettiva, la si dimentica in favore dell’oggetto percepito. Un campo visivo non è fatto di visioni locali. Ma l’oggetto visto è fatto di frammenti di materia e i punti dello spazio sono l’uno esteriore all’altro. Un dato percettivo isolato è inconcepibile, se per lo meno facciamo l’esperienza mentale di percepirlo. Ma nel mondo vi sono oggetti isolati, ossia c’è un vuoto fisico. Pertanto, rinuncerò a definire la sensazione con l’impressione pura. Ma vedere è avere dei colori o delle luci, udire è avere dei suoni, sentire è avere delle qualità: per sapere che cos’è sentire, non è forse sufficiente aver visto un rosso o udito un lai II rosso e il verde non sono sensazioni, ma dei


sensibili, e la qualità non è un elemento della coscienza, ma una proprietà dell’oggetto. Se la consideriamo nell’esperienza stessa che la rivela, la qualità è ben lungi dall’offrirci un mezzo semplice per delimitare le sensazioni, ma è ricca e oscura quanto l’oggetto o l’intero spettacolo percettivo. Questa macchia rossa che vedo sul tappeto è rossa solo tenuto conto di un’ombra che l’attraversa, la sua qualità non appare se non in rapporto ai giochi di luce e quindi come elemento di una configurazione spaziale. Del resto, il colore è determinato solo se si stende su una certa superficie, una superficie troppo piccola sarebbe inqualificabile. Infine, questo rosso non sarebbe letteralmente lo stesso se non fosse il «rosso lanoso» di un tappeto.2 In ogni qualità l’analisi scopre quindi dei significati che l’abitano. Si dirà forse che si tratta qui esclusivamente delle qualità della nostra esperienza effettiva, ricoperte da tutto un sapere, e che si conserva il diritto di concepire una «qualità pura» che definirebbe il «puro sentire»? Ma, come abbiamo visto, questo puro sentire equivarrebbe a non sentire nulla e quindi a non sentire affatto. La pretesa evidenza del sentire non è fondata su una testimonianza della coscienza, ma sul pregiudizio del mondo. Noi crediamo di sapere molto bene che cos’è «vedere», «udire», «sentire», perché da molto tempo la percezione ci ha dato oggetti colorati o sonori. Quando vogliamo analizzarla, trasportiamo tali oggetti nella coscienza. Commettiamo quello che gli psicologi chiamano l’experience error, e cioè d’un sol tratto supponiamo nella nostra coscienza delle cose ciò che sappiamo essere nelle cose. Per costituire la percezione ricorriamo al percepito. E poiché evidentemente il percepito stesso è accessibile solo attraverso la percezione, in definitiva non comprendiamo né l’uno né l’altra. Siamo presi nel mondo e non arriviamo a staccarcene per passare alla coscienza del mondo. Se lo facessimo, vedremmo che la qualità non è mai esperita immediatamente e che ogni coscienza è coscienza di qualcosa. Del resto, questo «qualcosa» non è necessariamente un oggetto identificabile. Vi sono due modi di ingannarsi sulla qualità: il primo consiste nel farne un elemento della coscienza, mentre essa è oggetto per la coscienza, nel trattarla come un’impressione muta, mentre ha sempre un senso, il secondo consiste nel credere che al livello della qualità questo senso e questo oggetto siano pieni e determinati. E, come il primo, il secondo errore deriva dal pregiudizio del mondo. Con l’ottica e la geometria costruiamo il frammento del mondo la cui immagine può in ogni momento formarsi sulla nostra retina. Non riflettendosi su alcuna superficie possibile, tutto ciò che è fuori da questo perimetro non agisce sulla nostra visione più di quanto agisca la luce sugli occhi chiusi. Dovremmo quindi percepire un segmento del mondo contornato da limiti precisi, circondato da una zona buia, riempito senza lacune da qualità, sotteso da rapporti di grandezza determinati come quelli che esistono sulla retina. Orbene, l’esperienza non offre nulla di simile, e a partire dal mondo non comprenderemo mai che cosa è un campo visivo. Se è possibile tracciare un perimetro di visione avvicinando a poco a poco al centro gli stimoli laterali, i risultati della misura variano da un momento all’altro e non si giunge mai a stabilire il momento in cui uno stimolo dapprima visto cessa di esserlo. La regione che circonda il campo visivo non è facile da descrivere, ma è pur certo che non è né nera né grigia. Vi è qui una visione indeterminata, una visione di non so che e, se si passa al limite, ciò che è dietro la mia schiena non manca di presenza visiva.


Fig. 1

Nella illusione di Müller-Lyer ( fig. 1) i due segmenti di retta non sono né eguali né diseguali : questa alternativa si impone solo nel mondo oggettivo.3 Il campo visivo è quel particolare ambito in cui le nozioni contraddittorie si incrociano perché, in esso, gli oggetti - le rette di Müller-Lyer - non sono posti sul terreno dell’essere, ove sarebbe possibile un confronto, ma colti ciascuno nel suo contesto privato, come se non appartenessero al medesimo universo. Per molto tempo gli psicologi hanno accuratamente ignorato questi fenomeni. Nel mondo preso in sé tutto è determinato. Vi sono si spettacoli confusi, come un paesaggio in un giorno di nebbia, ma per l’appunto noi ammettiamo sempre che nessun paesaggio reale è in sé confuso. Non lo è se non per noi. L’oggetto, diranno gli psicologi, non è mai ambiguo, lo diviene solo per disattenzione. I limiti stessi del campo visivo non sono variabili, e vi è un momento in cui l’oggetto che si avvicina comincia assolutamente a essere visto: semplicemente, non lo «notiamo».4 Ma, come dimostreremo in modo più ampio, la nozione di attenzione non ha per sé alcuna testimonianza della coscienza. È soltanto una ipotesi ausiliaria, formulata per salvare il pregiudizio del mondo oggettivo. Dobbiamo riconoscere l’indeterminato come un fenomeno positivo. È in questa atmosfera che si presenta la qualità. Il senso che essa racchiude è un senso equivoco, si tratta di un valore espressivo piuttosto che di un significato logico. La qualità determinata, con la quale l’empirismo voleva definire la sensazione, è un oggetto, non un elemento, della coscienza, ed è l’oggetto tardivo di una coscienza scientifica. Per questi due motivi, più che rivelare essa maschera la soggettività. Le due definizioni della sensazione che abbiamo abbozzato erano dirette solo in apparenza. Come s’è visto, esse si modellavano sull’oggetto percepito e in ciò concordavano con il senso comune, che delimita il sensibile con le condizioni oggettive da cui esso dipende. Il visibile è ciò che si coglie con gli occhi, il sensibile ciò che si coglie tramite i sensi. Seguiamo l’idea di sensazione su questo terreno5 e vediamo cosa divengono, nel primo grado di riflessione che è la scienza, questo «tramite», questo «con» e la nozione di organo di senso. In mancanza di una esperienza della sensazione, nelle sue cause e nella sua genesi oggettiva troviamo almeno qualche motivo per mantenerla come concetto esplicativo? La fisiologia, alla quale lo psicologo si rivolge come a un’istanza superiore, è nelle medesime difficoltà in cui versa la psicologia. Anch’essa comincia con il situare il suo oggetto nel


mondo e con il trattarlo come un frammento di estensione. Il comportamento si trova cosi nascosto dal riflesso, l’elaborazione e la strutturazione degli stimoli da una teoria longitudinale del funzionamento nervoso che di norma fa corrispondere a ogni elemento della situazione un elemento della reazione.6 Come la teoria dell’arco riflesso, la fisiologia della percezione comincia con l’ammettere un percorso anatomico che, attraverso un trasmettitore definito, porta da un recettore determinato a un posto di registrazione anch’esso specializzato.7 Una volta dato il mondo oggettivo, si ammette che esso affida agli organi di senso messaggi che devono quindi essere portati, poi decifrati, in modo da riprodurre in noi il testo originale. Ne deriva, in via di principio, una corrispondenza puntuale e una connessione costante fra lo stimolo e la percezione elementare. Ma questa «ipotesi di costanza»8 entra in conflitto con i dati della coscienza e gli stessi psicologi che l’ammettono ne riconoscono il carattere teorico.9 Per esempio, in certe condizioni la forza del suono fa decrescere la sua altezza, l’aggiunta di linee ausiliarie rende diseguali due figure oggettivamente eguali,10 un colore pellicolare ci appare del medesimo colore su tutta la sua superficie, mentre le soglie cromatiche delle differenti zone della retina dovrebbero farlo qui rosso, altrove arancione, talvolta persino acromatico.11 Questi casi in cui il fenomeno non aderisce allo stimolo devono forse essere mantenuti nel quadro della legge di costanza e spiegati con fattori addizionali - attenzione e giudizio -, oppure occorre respingere la legge stessa? Quando un rosso e un verde, presentati insieme, danno una risultante grigia, si ammette che la combinazione centrale degli stimoli può immediatamente dar luogo a una sensazione diversa da quella che gli stimoli oggettivi esigerebbero. Quando la grandezza apparente di un oggetto varia con la sua distanza apparente, o il suo colore apparente con i ricordi che ne abbiamo, si riconosce che «i processi sensoriali non sono inaccessibili a influenze centrali».12 Pertanto, in questo caso il «sensibile» non può più essere definito come l’effetto immediato di uno stimolo esterno. La stessa conclusione non si attaglia forse ai primi tre esempi citati? Il fatto che l’attenzione, una consegna più precisa, il riposo, l’esercizio prolungato ottengano alla fine percezioni conformi alla legge di costanza, non prova la validità generale di questa legge: infatti, negli esempi citati la prima apparenza aveva un carattere sensoriale allo stesso titolo che i risultati ottenuti alla fine, e il problema consiste nel sapere se la percezione attenta, la concentrazione del soggetto su un punto del campo visivo - per esempio la «percezione analitica» delle due linee principali nell’illusione di Müller-Lyer - non sostituiscano al fenomeno originario un montaggio eccezionale, anziché rivelare la «sensazione normale».13 Contro la testimonianza della coscienza la legge di costanza non può valersi di nessuna esperienza cruciale in cui tale legge non sia già implicata, e ovunque si crede di stabilirla essa è già presupposta.14 Se torniamo ai fenomeni, essi ci mostrano l’apprensione di una qualità, esattamente come quella di una grandezza, collegata a tutto un contesto percettivo, e gli stimoli non ci danno più il mezzo indiretto che noi cercavamo per delimitare uno strato di impressioni immediate. Ma, quando si cerca una definizione «oggettiva» della sensazione, non è soltanto lo stimolo fisico che sfugge. L’apparato sensoriale, quale se lo rappresenta la fisiologia moderna, non è più adatto alla funzione di «trasmettitore» cui la scienza classica l’aveva preposto. Le lesioni non corticali degli apparati tattili diradano certo i punti sensibili al caldo, al freddo o alla pressione, e diminuiscono la sensibilità dei punti conservati. Ma se all’apparato leso si applica un eccitante abbastanza ampio, le sensazioni specifiche riappaiono; l’elevazione delle soglie è compensata da una esplorazione più energica della mano.15 Al grado elementare della sensibilità si intravede una collaborazione degli stimoli parziali fra di loro e del sistema sensoriale con il sistema motorio, collaborazione che, in una costellazione fisiologica variabile, mantiene costante la sensazione e quindi impedisce di definire il processo


nervoso come la semplice trasmissione di un messaggio dato. A prescindere dalla sede delle lesioni, la distruzione della funzione visiva segue la medesima legge: in un primo tempo tutti i colori sono percepiti16 e perdono la loro saturazione. Poi lo spettro si semplifica, si riduce a quattro e poco dopo a due colori; si arriva infine a una monocromasia in grigio, del resto senza che il colore patologico sia mai identificabile a un qualsiasi colore normale. Pertanto, nelle lesioni centrali come nelle lesioni periferiche «la perdita di sostanza nervosa cagiona non soltanto una deficienza di certe qualità, ma il passaggio a una struttura meno differenziata e più primitiva».17 Viceversa, il funzionamento normale deve essere inteso come un processo di integrazione in cui il testo del mondo esterno non è ricopiato, bensì costituito. E se tentiamo di cogliere la «sensazione» nella prospettiva dei fenomeni corporei che la preparano, non troviamo un individuo psichico, funzione di certe variabili conosciute, ma una formazione già collegata a un insieme e già dotata di un senso, la quale si distingue solo per grado dalle percezioni più complesse e quindi non ci è di alcun aiuto nella nostra delimitazione del sensibile puro. Non c’è definizione fisiologica della sensazione e, pili in generale, non c’è psicologia fisiologica autonoma perché lo stesso evento fisiologico obbedisce a leggi biologiche e psicologiche. Per molto tempo si è creduto di trovare nel condizionamento periferico una maniera sicura di individuare le funzioni psichiche «elementari» e di distinguerle dalle funzioni «superiori» meno strettamente legate all’infrastruttura corporea. Una analisi più esatta mette in luce che le due specie di funzioni si incrociano. Quella elementare non è più ciò che per addizione costituirà il tutto, né del resto una semplice occasione offerta al tutto per costituirsi. L’avvenimento elementare è già rivestito di un senso e la funzione superiore realizzerà soltanto un modo di esistenza più integrato o un adattamento più valido, utilizzando e sublimando le operazioni subordinate. Reciprocamente, «l’esperienza sensibile è un processo vitale, così come la procreazione, la respirazione o la crescita».18 La psicologia e la fisiologia non sono quindi più due scienze parallele, ma due determinazioni del comportamento, la prima concreta e la seconda astratta.19 Quando lo psicologo chiede al fisiologo una definizione della sensazione «fondata sulle sue cause», egli ritrova su questo terreno, come dicevamo, le proprie difficoltà, e ora vedremo il perché. Il fisiologo ha il compito di liberarsi dal pregiudizio realista che tutte le scienze attingono al senso comune e che le intralcia nel loro sviluppo. Il cambiamento di senso delle parole «elementare» e «superiore» verificatosi nella fisiologia moderna annuncia un mutamento di filosofia.20 Anche lo scienziato deve imparare a criticare l’idea di un mondo esterno in sé, giacché i fatti stessi lo invitano ad abbandonare quella del corpo come trasmettitore di messaggi. Il sensibile è ciò che si coglie con i sensi, ma ora sappiamo che questo «con» non è semplicemente strumentale, che l’apparato sensoriale non è un conduttore e che anche alla periferia l’impressione fisiologica si trova legata a relazioni un tempo considerate centrali. Ancora una volta, la riflessione - anche la riflessione seconda della scienza - rende oscuro ciò che si credeva chiaro. Pensavamo di sapere che cosa è sentire, vedere, udire, e ora queste parole divengono problematiche. Siamo invitati a ritornare alle esperienze stesse che esse designano per definirle di nuovo. Dal canto suo, la nozione classica di sensazione non proveniva dalla riflessione, ma era un prodotto tardivo del pensiero volto verso gli oggetti, l’ultimo termine della rappresentazione del mondo, quello più lontano dalla fonte costitutiva e per questo motivo il meno chiaro. È inevitabile che, nel suo sforzo generale di oggettivazione, la scienza venga a rappresentarsi l’organismo umano come un sistema fisico in presenza di stimoli essi stessi definiti dalle loro proprietà fisico-chimiche, e che cerchi di ricostruire su questa base la percezione effettiva21 e di chiudere il ciclo della conoscenza scientifica scoprendo le leggi secondo le quali si produce la


conoscenza stessa, fondando una scienza oggettiva della soggettività.22 Ma è anche inevitabile che questo tentativo fallisca. Se ci rifacciamo alle stesse ricerche oggettive, dapprima scopriamo che le condizioni esteriori del campo sensoriale non lo determinano parte per parte e intervengono solo con il rendere possibile una organizzazione autoctona, come dimostra la Gestalttheorie; successivamente scopriamo che nell’organismo la struttura dipende da variabili come il senso biologico della situazione, le quali non sono più variabili fisiche, cosicché l’insieme sfugge ai consueti strumenti dell’analisi fisico-matematica per aprirsi a un altro tipo di intelligibilità.23 Se ora ci volgiamo, come si fa qui, verso l’esperienza percettiva, notiamo che la scienza riesce a costruire solo una parvenza di soggettività: essa introduce sensazioni che sono cose, laddove l’esperienza mostra che vi sono già insiemi significativi, e assoggetta l’universo fenomenico a categorie riferibili unicamente all’universo della scienza. Essa esige che, come due linee reali, due linee percepite siano eguali o diseguali, che un cristallo percepito abbia un numero di facce determinato,24 senza vedere che la peculiarità del percepito è di ammettere l’ambiguità, il «mosso», di lasciarsi modellare dal suo contesto. Nell’illusione di Müller-Lyer una delle linee cessa di essere eguale all’altra senza divenire «diseguale»: diviene «altra». Ciò significa che, per la percezione, una linea oggettiva isolata e la medesima linea presa in una figura cessano di essere «la stessa». In queste due funzioni essa non è identificabile se non per una percezione analitica che non è naturale. Parimenti, il percepito comporta lacune che non sono semplici «impercezioni». Con la vista o con il tatto io posso conoscere un cristallo come corpo «regolare» senza averne, anche tacitamente, contato le facce, posso aver familiarità con una fisionomia senza aver mai percepito per se stesso il colore degli occhi. La teoria della sensazione, che compone ogni sapere con qualità determinate, ci appronta oggetti mondati di ogni equivoco, puri, assoluti, i quali sono piuttosto l’ideale della coscienza che i suoi temi effettivi; tale teoria si adatta unicamente alla sovrastruttura tardiva della coscienza. È qui che «si realizza approssimativamente l’idea della sensazione».25 Le immagini che l’istinto proietta davanti a sé, quelle che la tradizione ricrea in ogni generazione, o semplicemente i sogni, si presentano dapprima, con diritti eguali, insieme alle percezioni propriamente dette, e la percezione autentica, attuale ed esplicita si distingue a poco a poco dai fantasmi attraverso un travaglio critico. La parola indica una direzione piuttosto che una funzione primitiva.26 È noto che la costanza della grandezza apparente degli oggetti a distanze variabili, o quella del loro colore sotto illuminazioni differenti, sono più perfette nel fanciullo che nell’adulto.27 Ciò significa che la percezione è più strettamente legata all’eccitante locale nel suo stato tardivo che nel suo stato precoce e più conforme alla teoria della sensazione nell’adulto che nel fanciullo. Essa è come una rete i cui nodi appaiono sempre più nettamente.28 Del «pensiero primitivo» è stato dato un quadro che si comprende bene solo se si riferiscono le risposte dei primitivi, le loro enunciazioni e l’interpretazione del sociologo ai contenuti di esperienza percettiva che esse cercano tutte di tradurre.29 Talora l’aderenza del percepito al suo contesto, che è come la sua viscosità, talora la presenza in esso di un indeterminato positivo impediscono agli insiemi spaziali, temporali e numerici, di articolarsi in termini maneggevoli, distinti e identificabili. E se vogliamo comprendere il sentire dobbiamo esplorare in noi stessi questo dominio preoggettivo.


Note

1 Cfr. 2 J.-P.

La strutture du comportement, pp. 142 sgg. Sartre, L’imaginaire, p. 241.

3 Koffka,

Psychologie, p. 530.

4 Traduciamo 5

Non c’è motivo di respingere la discussione - come fa per esempio Jaspers (Zur Analyse der Trugwahrnehmungen) - contrapponendo una psicologia descrittiva che «comprende» i fenomeni a una psicologia esplicativa che ne considera la genesi. Per lo psicologo la coscienza è sempre collocata in un corpo in mezzo al mondo e la serie stimolo-impressione-percezione è una serie di eventi al termine della quale comincia la percezione. Ogni coscienza è nata nel mondo e ogni percezione è una nuova nascita della coscienza. In questa prospettiva i dati «immediati» della percezione possono sempre essere respinti come semplici apparenze e come i prodotti complessi di una genesi. Il metodo descrittivo può acquistare un diritto proprio solo dal punto di vista trascendentale. Ma, anche da questo punto di vista, rimane da comprendere come la coscienza si coglie o appare a se stessa inserita in una natura. Sia per il filosofo che per lo psicologo c’è dunque sempre un problema della genesi, e il solo metodo possibile consiste nel seguire, nel suo sviluppo scientifico, la spiegazione causale, per precisarne il senso e per collocarla al suo vero posto nell’insieme della verità. Ecco perché non si troverà qui nessuna confutazione, ma uno sforzo per comprendere le difficoltà proprie del pensiero causale

6 Cfr. 7

il take notice o il bemerken degli psicologi

La structure du comportement, cap. I

Traduciamo press’a poco la serie Empfänger-Übermittler-Empfinder, di cui parla J. Stein, Über die Veränderung der Sinnesleistungen und die Entstehung von Trugwahrnehmungen, p. 351

8 Koehler,

Über unbemerkte Empfindungen und Urteilstäuschungen

9 Stumpf lo 10 Ibidem, 11 R.

fa espressamente. Ibidem, p. 54.

pp. 57-66.

Déjean, Les conditions objectives de la perception visuelle, pp. 60 e 83.

12 Stumpf,

citato da Koehler, op. cit., p. 58.

13 Ibidem,

pp. 58-63.

14

È giusto aggiungere che ciò vale per tutte le teorie e che non c’è mai un’esperienza cruciale. Per lo


stesso motivo l’ipotesi di costanza non può essere rigorosamente confutata sul terreno dell’induzione. Essa si scredita poiché ignora e non permette di comprendere i fenomeni. È però necessario, per coglierli e per giudicarla, averla prima «messa in sospeso» 15 J. 16

Stein, op. cit., pp. 357-359.

Il daltonismo stesso non prova che certi apparati siano deputati alla «visione» del rosso e del verde e che siano i soli a esserlo: infatti, se gli si presenta un colore pellicolare di una certa estensione o se si fa durare la presentazione del colore, un daltonico riesce a riconoscere il rosso. Stein, op. cit., p. 365.

17 Weizsacker, 18 Ibidem, 19 Su tutti 20 Gelb, 21

citato da Stein, op. cit., p. 364.

p. 354.

questi punti, cfr. La strutture du comportement, in particolare pp. 52 sgg., pp. 65 sgg.

Die Farbenkonstanz der Sehdinge, p. 595

«Le sensazioni sono certamente prodotti artificiali, ma non arbitrari: esse sono le totalità parziali ultime nelle quali le strutture naturali possono essere scomposte dall’ "atteggiamento analitico". Considerate da questo punto di vista, esse contribuiscono alla conoscenza delle strutture. Pertanto, i risultati dello studio delle sensazioni sono, qualora vengano correttamente interpretati, un elemento importante della psicologia della percezione.» Koffka, op. cit., p. 548.

22 Cfr.

Guillaume, L’objectivité en psychologie.

23 Cfr.

La structure du comportement, cap. III.

24 Koffka, 25 M. 26

op, cit., pp. 530 e 549.

Scheler, Die Wissensformen und die Geselhchaft, p. 412.

Ibidem, p. 397. «L’uomo si avvicina a immagini ideali ed esatte meglio dell’animale, l’adulto meglio del fanciullo, gli uomini meglio delle donne, l’individuo meglio del membro di una collettività, l’uomo che pensa storicamente e sistematicamente meglio dell’uomo mosso da una tradizione, "preso" in essa e incapace di trasformare in oggetto, attraverso la costituzione del ricordo, l’ambiente in cui è preso, di oggettivarlo, di localizzarlo nel tempo e di possederlo nella distanza del passato.»

27 Hering,

Jaensch

28 Scheler, 29 Cfr.

op. cit., p. 412.

Wertheimer, Über das Denken der Naturvölker, in Drei Abhandlungen zur Gestalttheorie


II. L’«associazione» e la «proiezione dei ricordi»

Una volta introdotta, la nozione di sensazione compromette tutta l’analisi della percezione. Già una «figura» su uno «sfondo» contiene, come abbiamo detto, molto di più che le qualità attualmente date. Essa ha «contorni» che non «appartengono» allo sfondo e se ne «distaccano», è «stabile» e di colore «compatto», mentre lo sfondo è illimitato, di colore incerto, e «continua» sotto la figura. Pertanto, le differenti parti dell’insieme - per esempio le parti della figura più vicine allo sfondo possiedono un senso particolare, oltreché un colore e delle qualità. Si tratta di sapere di che cosa è fatto questo senso, che cosa significano le parole «bordo» e «contorno», che cosa avviene quando un insieme di qualità è afferrato come figura su sfondo. Ma una volta introdotta come elemento della conoscenza, la sensazione non ci lascia la scelta della risposta. Un essere che potesse sentire - nel senso di: coincidere assolutamente con una impressione o con una qualità -, non potrebbe avere altro modo di conoscenza. Che una qualità, che una regione di rosso significhi qualche cosa, che per esempio essa sia colta come una macchia su uno sfondo, equivale a dire che il rosso non è più soltanto quel colore caldo, esperito, vissuto nel quale io mi perdo, ma che annuncia qualche altra cosa senza includerla, che esercita una funzione di conoscenza e che le sue parti compongono insieme una totalità alla quale ciascuna si collega senza abbandonare il suo posto. Ormai il rosso non mi è più soltanto presente, ma mi rappresenta qualcosa, e ciò che esso rappresenta non è posseduto come una «parte reale» della mia percezione, ma soltanto colto come una «parte intenzionale».1 Il mio sguardo non si fonde nel contorno o nella macchia come fa nel rosso materialmente preso: li percorre o li domina. Per ricevere in se stessa un significato che la penetri veramente, per integrarsi in un «contorno» legato all’insieme della «figura» e indipendente dallo «sfondo», la sensazione puntuale dovrebbe cessare di essere una coincidenza assoluta e perciò stesso cessare di essere come sensazione. Se ammettiamo un «sentire» nel senso classico, il significato del sensibile non può più consistere se non in altre sensazioni presenti o virtuali. Vedere una figura non può essere altro che possedere simultaneamente le sensazioni puntuali che ne fanno parte. Ciascuna di esse resta sempre ciò che è, un contatto cieco, un’impressione, l’insieme si fa «visione» e forma un quadro davanti a noi poiché noi impariamo a passare più velocemente da un’impressione all’altra. Un contorno non è altro che una somma di visioni locali e la coscienza di un contorno è un essere collettivo. Gli elementi sensibili di cui esso è fatto non possono perdere l’opacità che li definisce come sensibili per aprirsi a una connessione intrinseca, a una legge di costituzione comune.


Fig. 2

Sul contorno di una figura prendiamo tre punti A, B, C: il loro ordine nello spazio è il loro modo di coesistere sotto i nostri occhi e, per vicini che io li scelga, questa coesistenza è la somma delle loro esistenze separate, la posizione di A, più la posizione di B, più la posizione di C. Può accadere che l’empirismo abbandoni questo linguaggio atomistico e parli di blocchi di spazio o di blocchi di durata, aggiunga un’esperienza delle relazioni all’esperienza delle qualità. Ciò lascia immutata la dottrina. O il blocco di spazio è percorso e ispezionato da uno spirito, ma allora si abbandona l’empirismo, giacché la coscienza non è più definita dall’impressione - oppure è dato anch’esso alla maniera di un’impressione, e allora è chiuso a una coordinazione più estesa cosi come l’impressione puntuale di cui parlavamo precedentemente. Ma un contorno non è solo l’insieme dei dati presenti: questi ne evocano altri che vengono a completarli. Quando dico che ho davanti a me una macchia rossa, il senso della parola macchia è fornito da esperienze anteriori nel corso delle quali ho imparato a impiegarla. La distribuzione nello spazio dei tre punti A, B, C evoca altre distribuzioni analoghe e io dico che vedo un cerchio. Anche l’appello all’esperienza acquisita lascia immutata la tesi empiristica. La «associazione delle idee» che richiama l’esperienza passata non può restituire se non connessioni estrinseche, fra le quali deve necessariamente essere annoverata anch’essa poiché l’esperienza originaria non ne comportava altre. Una volta definita la coscienza come sensazione,


ogni modo di coscienza dovrà attingere la propria chiarezza alla sensazione. Nelle precedenti esperienze, alle quali io mi riconduco, le parole cerchio, ordine non hanno potuto designare se non la maniera concreta in cui le nostre sensazioni si ripartivano davanti a noi, un certo assestamento di fatto, un modo di sentire. Se i tre punti A, B, C sono su una circonferenza, il tratto AB «somiglia» al tratto BC, ma questa somiglianza significa solo che di fatto l’uno fa pensare all’altro. L’arco ABC somiglia ad altri archi che il mio sguardo ha percorso, ma ciò significa solo che esso ne desta il ricordo e ne fa apparire l’immagine. Due termini non possono mai essere identificati, appercepiti o compresi come il medesimo, la qual cosa presupporrebbe che la loro ecceità venga superata: non possono essere che associati indissolubilmente e sostituiti ovunque l’uno all’altro. La conoscenza appare come un sistema di sostituzioni in cui una impressione ne annuncia altre senza mai renderne ragione, in cui delle parole fanno attendere delle sensazioni cosi come la sera preannuncia la notte. Il significato del percepito non è altro che una costellazione di immagini le quali cominciano a riapparire senza ragione. Le immagini o le sensazioni più semplici sono, in ultima analisi, tutto ciò che vi è da comprendere nelle parole, i concetti sono una maniera complicata di designarle e, poiché sono anch’esse impressioni indicibili, comprendere è una impostura o un’illusione, la conoscenza non ha mai presa sui suoi oggetti che si attraggono vicendevolmente, e lo spirito funziona come una macchina calcolatrice2 che non sa perché i suoi risultati sono veri. La sensazione non ammette altra filosofia che il nominalismo, cioè la riduzione del senso al controsenso della somiglianza confusa o al non senso della associazione per contiguità. Orbene, le sensazioni e le immagini che dovrebbero cominciare e terminare tutta la conoscenza non appaiono mai se non in un orizzonte di senso, e il significato del percepito, lungi dal risultare da una associazione, è invece presupposto in tutte le associazioni, sia che si tratti della sinossi di una figura presente o dell’evocazione di esperienze trascorse. Il nostro campo percettivo è fatto di «cose» e di «vuoti fra le cose».3 Le parti di una cosa non sono collegate da una semplice associazione esteriore, che risulterebbe dalla loro solidarietà constatata durante i movimenti dell’oggetto; dapprima io vedo come cose degli insiemi che non ho mai visto muoversi: delle case, il sole, dei monti. Se si vuole che io estenda all’oggetto immobile una nozione acquisita nell’esperienza degli oggetti mobili, è pur necessario che la montagna presenti nel suo aspetto effettivo qualche carattere che fondi il suo riconoscimento come cosa e giustifichi tale trasposizione. Ma allora questo carattere è sufficiente a spiegare, senza trasposizioni, la segregazione del campo. Anche l’unità degli oggetti abituali che il fanciullo può maneggiare e spostare non si riconduce alla constatazione della loro solidità. Se ci mettessimo a vedere come cose gli intervalli fra le cose, l’aspetto del mondo muterebbe altrettanto sensibilmente che quello della vignetta-indovinello nel momento in cui scopro «il coniglio» o «il cacciatore». Non sarebbero gli stessi elementi diversamente collegati, le stesse sensazioni diversamente associate, lo stesso testo investito di un altro senso, la stessa materia in un’altra forma, ma veramente un altro mondo. Non vi sono dei dati indifferenti che, in quanto associati da contiguità o somiglianze di fatto, formino insieme una cosa; anzi, proprio perché percepiamo un insieme come cosa, l’atteggiamento analitico può in seguito discernervi somiglianze o contiguità. Ciò non significa solo che, senza la percezione del tutto, noi non penseremmo a notare la somiglianza o la contiguità dei suoi elementi, ma letteralmente che questi non farebbero parte del medesimo mondo e che quelle non esisterebbero affatto. Lo psicologo, che pensa sempre la coscienza nel mondo, annovera la somiglianza e la contiguità degli stimoli fra le condizioni oggettive che determinano la costituzione di un insieme. Gli stimoli più vicini o più simili, egli dice,4 o quelli che, riuniti, danno allo spettacolo il miglior equilibrio, per la percezione tendono a unirsi nella medesima configurazione. Ma questo linguaggio è ingannatore perché confronta gli stimoli oggettivi, che


appartengono al mondo percepito e anche al mondo secondo che la coscienza scientifica costruisce, con la coscienza percettiva che la psicologia deve descrivete in base all’esperienza diretta. Il pensiero anfibio dello psicologo rischia sempre di reintrodurre nella descrizione rapporti che appartengono al mondo oggettivo. Cosi, si è potuto credere che la legge di contiguità e la legge di somiglianza di Wertheimer reintroducessero la contiguità e la somiglianza oggettive degli associazionisti come principi costitutivi della percezione. In realtà, per la descrizione pura - e la teoria della Forma vuole essere tale - la contiguità e la somiglianza degli stimoli non precedono la costituzione dell’insieme. La «forma buona» non è realizzata perché sarebbe buona in sé in un cielo metafisico, ma è buona perché è realizzata nella nostra esperienza. Le pretese condizioni della percezione non divengono anteriori alla percezione anche quando, anziché descrivere il fenomeno percettivo come prima apertura all’oggetto, noi presupponiamo attorno a esso un ambito in cui siano già inscritte tutte le esplicitazioni e tutti gli accertamenti che la percezione analitica otterrà e giustificate tutte le norme della percezione effettiva - un luogo della verità, un mondo. Cosi facendo, spogliamo la percezione della sua funzione essenziale che è di fondare o di inaugurare la conoscenza, e la vediamo attraverso i suoi risultati. Se ci atteniamo ai fenomeni, l’unità della cosa nella percezione non è costruita per associazione, ma, in quanto condizione dell’associazione, precede gli accertamenti che la verificano e la determinano, precede se stessa. Se cammino su una spiaggia verso una nave arenata e il fumaiolo o l’alberatura si confondono con la foresta che delimita la duna, vi sarà un momento in cui questi dettagli si congiungeranno vivamente al battello e si salderanno con esso. A mano a mano che mi avvicinavo non ho percepito somiglianze o prossimità che infine avrebbero riunito in un disegno continuo la sovrastruttura della nave. Ho soltanto sentito che l’aspetto dell’oggetto stava per cambiare, che qualcosa era imminente in questa tensione, cosi come il temporale è imminente nelle nubi. A un tratto lo spettacolo si è riorganizzato dando soddisfazione alla mia attesa imprecisa. A cose fatte, come giustificazione del mutamento io riconosco la somiglianza e la contiguità di ciò che chiamo gli «stimoli» - cioè i fenomeni più determinati, ottenuti a breve distanza, e con cui compongo il mondo «vero». «Come non ho visto che questi corpi di legno facevano tutt’uno con la nave? Eppure essi erano del suo stesso colore e si adattavano bene alla sua sovrastruttura.» Ma queste ragioni per percepire bene non erano date come ragioni prima della percezione corretta. L’unità dell’oggetto è fondata sul presentimento di un ordine imminente che in un sol tratto darà risposta a domande soltanto latenti nel paesaggio, essa risolve un problema che non era posto se non sotto forma di vaga inquietudine, organizza elementi che prima di allora non appartenevano al medesimo universo e che per questa ragione, come Kant ha detto con acutezza, non potevano essere associati. Ponendoli sul medesimo terreno, quello dell’oggetto unico, la sinossi rende possibile la contiguità e la somiglianza tra di essi, e un’impressione non può mai, per se stessa, associarsi a un’altra impressione. Parimenti, un’impressione non ha il potere di risvegliarne altre, ma lo fa solo a condizione di essere dapprima compresa nella prospettiva dell’esperienza passata, in cui essa si trovava a coesistere con quelle che si tratta di risvegliare. Prendiamo una serie di sillabe accoppiate5 in cui la seconda è una rima della prima (dak-tak) e un’altra serie in cui la seconda sillaba è ottenuta invertendo la prima (ged-deg); se le due serie sono state imparate a memoria e se, in una esperienza critica, si dà la prescrizione uniforme di «cercare una rima», si nota chiaramente che il soggetto ha maggiori difficoltà nel trovare una rima per ged che per una sillaba neutra. Ma se la prescrizione è di cambiare la vocale nelle sillabe proposte, questo lavoro non subisce alcun ritardo. Non erano dunque delle forze associative ad agire nella prima esperienza critica, giacché se esistessero dovrebbero agire anche nella seconda. La verità è che, posto di fronte a sillabe spesso associate con rima, il


soggetto, anziché rimare veramente, approfitta dell’acquisizione e mette in moto una «intenzione di riproduzione»,6 cosicché, quando egli giunge alla seconda serie di sillabe, in cui la prescrizione presente non si accorda più con gli aggruppamenti realizzati nelle esperienze di tirocinio, l’intenzione di riproduzione può dar luogo solo a errori. Nella seconda esperienza critica si propone invece al soggetto di cambiare la vocale della sillaba induttrice: poiché si tratta di un compito che non è mai comparso nelle esperienze di tirocinio, egli non può ricorrere all’accorgimento della riproduzione e in queste condizioni le esperienze di tirocinio rimangono senza influenza. Pertanto l’associazione non interviene mai come una forza autonoma, non è mai la parola proposta, come causa efficiente, che «induce» la risposta, ma essa agisce solo rendendo probabile o attraente una intenzione di riproduzione, opera esclusivamente in virtù del senso che ha assunto nel contesto dell’esperienza trascorsa e suggerendo il ricorso a questa esperienza, è efficace nella misura in cui il soggetto la riconosce, la coglie sotto l’aspetto o sotto la fisionomia del passato. Se infine, anziché la semplice contiguità si volesse far intervenire l’associazione per somiglianza, si vedrebbe ancora che, per evocare un’immagine trascorsa alla quale la percezione presente somigli effettivamente, tale percezione deve essere strutturata in modo tale da divenire capace di reggere questa somiglianza. Sia che abbia visto cinque volte o cinquecentoquaranta volte la fig. 3, il soggetto7 la riconoscerà con una facilità press’a poco identica nella fig. 4 in cui si trova «camuffata», e del resto non ve la riconoscerà mai costantemente. Per contro, un soggetto che cerca nella fig. 4 un’altra figura mascherata (senza d’altronde sapere quale) ve la ritrova più rapidamente e più spesso che un soggetto passivo, a parità di esperienza. Come la coesistenza, la somiglianza non è dunque una forza in terza persona che dirigerebbe una circolazione di immagini o di «stati di coscienza».

La fig. 3 non è evocata dalla fig. 4, o lo è solo se precedentemente nella fig. 4 è stata vista una «fig. 3 possibile»: ciò equivale a dire che la somiglianza effettiva non ci dispensa dal cercare come essa sia dapprima resa possibile dall’organizzazione presente della fig. 4. Ma inoltre equivale a dire che la figura «induttrice» deve rivestire il medesimo senso della figura indotta prima di richiamarne il ricordo e, infine, che di fatto il passato non è introdotto nella percezione presente da un meccanismo di associazioni, ma dispiegato dalla coscienza, essa stessa presente. Con ciò si vede quanto valgano le formule ordinarie concernenti la «funzione dei ricordi nella percezione». Anche fuori dell’empirismo si parla degli «apporti della memoria». 8 Si ripete che


«percepire è ricordare». Si dimostra che nella lettura di un testo la rapidità dello sguardo rende lacunose le impressioni retiniche e che i dati sensibili debbono quindi essere completati da una proiezione di ricordi.9 Un paesaggio o un giornale visti alla rovescia ci rappresenterebbero la visione originaria, giacché il paesaggio o il giornale visti normalmente non sono più chiari se non per quello che vi aggiungono i ricordi. «A causa della inconsueta disposizione delle impressioni l’influenza delle cause psichiche non può più esplicarsi.»10 Non ci si chiede perché impressioni diversamente disposte rendano il giornale illeggibile o il paesaggio irriconoscibile. Il fatto è che, per venire a completare la percezione, i ricordi devono essere resi possibili dalla fisionomia dei dati. Prima di ogni apporto della memoria, ciò che è visto deve presentemente organizzarsi in modo da offrirmi un quadro in cui io possa riconoscere le mie esperienze precedenti. Cosi, l’appello ai ricordi presuppone ciò che si pensa che esso spieghi: la strutturazione dei dati, l’imposizione di un senso al caos sensibile. L’evocazione dei ricordi diviene superflua nel momento stesso in cui è resa possibile, poiché il lavoro che si attende da essa è già fatto. Ciò vale anche per quel «colore del ricordo» (Gedächtnisfarbe) che, secondo altri psicologi, finisce con il sostituirsi al colore presente degli oggetti, cosicché li vediamo «attraverso gli occhiali» della memoria.11 Si tratta allora di sapere che cosa attualmente desta il «colore del ricordo». Hering dice che esso è evocato ogniqualvolta rivediamo un oggetto già conosciuto «o crediamo di rivederlo». Ma in base a che cosa lo crediamo? Che cosa, nella percezione attuale, ci indica che si tratta di un oggetto già conosciuto, giacché per ipotesi le sue proprietà sono modificate? Se si vuole che il riconoscimento della forma o della grandezza comporti quello del colore si è in un circolo vizioso, poiché la grandezza e la forma apparenti sono esse stesse modificate e anche qui il riconoscimento non può risultare dal risveglio dei ricordi, ma deve precederlo. Pertanto esso non va mai dal passato al presente, e la «proiezione di ricordi» è solo una brutta metafora che nasconde un riconoscimento più profondo e già fatto. Parimenti, l’illusione del correttore non può infine essere intesa come la fusione di alcuni elementi veramente letti con ricordi che verrebbero ad amalgamarsi con essi al punto da non distinguersene più. In quale modo l’evocazione dei ricordi si effettuerebbe senza essere guidata dall’aspetto dei dati propriamente sensibili? E se è guidata, a che cosa serve, visto che allora la parola ha già la sua struttura o la sua fisionomia prima di attingere qualcosa al tesoro della memoria? Evidentemente è l’analisi delle illusioni ad avere accreditato la «proiezione di ricordi», secondo un ragionamento sommario che si svolge più o meno in questi termini: la percezione illusoria non può poggiare sui «dati presenti», poiché io leggo «deduzione» dove il foglio porta «distruzione». Non essendo fornita dalla visione, la lettera d, che si è sostituita al gruppo str, deve quindi avere un’altra provenienza. Si dirà che essa proviene dalla memoria. Cosi, su un quadro piatto poche ombre e poche luci sono sufficienti per dare un rilievo, in una vignetta-indovinello pochi rami d’albero suggeriscono un gatto, nelle nubi poche linee confuse suggeriscono un cavallo. Ma l’esperienza trascorsa può apparire come causa dell’illusione solo a cose fatte, ed è pur necessario che l’esperienza presente prendesse dapprima forma e senso per richiamare proprio questo ricordo e non altri. Il cavallo, il gatto, la parola sostituita, il rilievo nascono dunque sotto il mio sguardo attuale. Le ombre e le luci del quadro danno un rilievo mimando «il fenomeno originario del rilievo»,12 in cui esse si trovano investite di un significato spaziale autoctono. Perché nella vignetta io trovi un gatto, occorre «che l’unità di significato “gatto” prescriva già, in un certo qual modo, gli elementi del dato che l’attività coordinatrice deve conservare e quelli che deve lasciar cadere».13 L’illusione ci inganna proprio facendosi passare per una percezione autentica, in cui il significato nasce nella culla del sensibile e non ha altra provenienza. Essa imita quell’esperienza privilegiata in cui il senso ricopre esattamente


il sensibile, si articola visibilmente o si esprime in esso: essa implica questa norma percettiva; non può nascere pertanto da un incontro fra il sensibile e i ricordi, e tanto meno la percezione. La «proiezione di ricordi» le rende entrambe incomprensibili. Infatti, se fosse composta di sensazioni e di ricordi, una cosa percepita sarebbe determinata solo grazie all’intervento dei ricordi, non avrebbe dunque nulla in se stessa che potesse limitarne l’invasione, non avrebbe soltanto quell’alone di «mosso» che, come abbiamo visto, ha sempre, ma sarebbe inafferrabile, sfuggevole e sempre ai confini dell’illusione. A maggior ragione, l’illusione non potrebbe mai offrire l’aspetto fermo e definitivo che una cosa finisce con l’assumere (giacché esso mancherebbe alla percezione stessa), e quindi non ci ingannerebbe. Se infine si ammette che i ricordi non si proiettano spontaneamente sulle sensazioni e che la coscienza li confronta con il dato presente per conservare solo quelli che si accordano con esso, allora si riconosce un testo originario che porta in sé il suo senso e lo oppone a quello dei ricordi: questo testo è la percezione stessa. Insomma, si sbaglia a credere che con la «proiezione di ricordi» si introduca nella percezione una attività mentale e ci si contrapponga all’empirismo. La teoria non è se non una conseguenza, una correzione tardiva e inefficace dell’empirismo, ne ammette i postulati, ne condivide le difficoltà e, al pari dell’empirismo, occulta i fenomeni anziché farli comprendere. Come sempre, il postulato consiste nel dedurre il dato da ciò che può essere fornito dagli organi di senso. Per esempio, nell’illusione del correttore si ricostituiscono gli elementi effettivamente visti in base ai movimenti degli occhi, alla velocità della lettura e al tempo necessario all’impressione retinica. Poi, sottraendo questi dati teorici dalla percezione totale, si ottengono gli «elementi evocati», die a loro volta sono trattati come cose mentali. Si costruisce la percezione per mezzo di stati di coscienza cosi come si costruisce una casa con delle pietre, e si immagina una chimica mentale che faccia fondere questi materiali in un tutto compatto. Analogamente a ogni teoria empiristica, anche questa descrive solo processi ciechi che non possono mai essere l’equivalente di una conoscenza, poiché in questo cumulo di sensazioni e ricordi non vi è nessuno che veda, che possa esperire l’accordo del dato e dell’evocato - e, correlativamente, nessun oggetto saldo difeso da un senso contro il pullulare dei ricordi. Occorre quindi respingere il postulato che oscura tutto. La separazione del dato e dell’evocato in base alle cause oggettive è arbitraria. Ritornando ai fenomeni, troviamo come strato fondamentale un insieme già pregno di un senso irriducibile: non sensazioni lacunose, fra le quali dovrebbero inserirsi dei ricordi, ma la fisionomia, la struttura del paesaggio o della parola, spontaneamente conforme alle intenzioni del momento come alle esperienze precedenti. Allora si scopre il vero problema della memoria nella percezione, legato al problema generale della coscienza percettiva. Si tratta di comprendere come, con la propria vita e senza portare in un mitico inconscio materiali di complemento, la coscienza possa, con il tempo, alterare la struttura dei suoi paesaggi - come, in ogni istante, la sua esperienza trascorsa le sia presente sotto forma di un orizzonte che essa può riaprire, se lo assume come tema di conoscenza, in un atto di rimemorazione, ma che può anche lasciare «al margine»: allora tale esperienza fornisce immediatamente al percepito una atmosfera e un significato presenti. Un campo sempre a disposizione della coscienza e che, perciò stesso, circonda e avvolge tutte le sue percezioni, una atmosfera, un orizzonte o, se si preferisce, dei «montaggi» dati che le assegnano una situazione temporale: ecco la presenza del passato che rende possibili gli atti distinti di percezione e di rimemorazione. Percepire non è esperire una moltitudine di impressioni che condurrebbero con sé ricordi capaci di completarle, bensì veder scaturire da una costellazione di dati un senso immanente, senza il quale nessun appello ai ricordi è possibile. Ricordare non è ricondurre sotto lo sguardo della coscienza un quadro del passato a sé stante, ma tuffarsi nell’orizzonte del passato e svilupparne a poco a poco le prospettive racchiuse finché le esperienze


che esso riassume siano come vissute di nuovo al loro posto temporale. Percepire non è ricordare. I rapporti «figura» e «sfondo», «cosa» e «non-cosa», l’orizzonte del passato sarebbero dunque strutture di coscienza irriducibili alle qualità che appaiono in esse. L’empirismo non rinuncerà mai a trattare questo a priori come il risultato dì una chimica mentale. Esso riconoscerà che ogni cosa si offre su uno sfondo che non è una cosa, e il presente fra due orizzonti di assenza, passato e avvenire. Ma, aggiungerà, questi significati sono derivati. La «figura» e lo «sfondo», la «cosa» e il suo «contesto», il «presente» e il «passato», sono termini che riassumono l’esperienza di una prospettiva spaziale e temporale, e tale esperienza si riconduce alla cancellazione del ricordo o a quella delle impressioni marginali. Anche se, una volta formate, nella percezione di fatto le strutture hanno più senso di quanto possa offrirne la qualità, non debbo limitarmi a questa testimonianza della coscienza e debbo ricostruirle teoricamente per mezzo delle impressioni di cui esse esprimono i rapporti effettivi. Su questo piano l’empirismo non è confutabile. Poiché esso respinge la testimonianza della riflessione e mette capo, associando impressioni esteriori, alle strutture che noi abbiamo coscienza di comprendere andando dal tutto alle parti, non vi è alcun fenomeno che si possa citare come prova decisiva contro di esso. Generalmente non si può confutare, descrivendo dei fenomeni, un pensiero che ignora se stesso e che si installa nelle cose. Gli atomi del fisico sembreranno sempre più reali che l’immagine storica e qualitativa di questo mondo, i processi fisico-chimici più reali che le forme organiche, gli atomi psichici dell’empirismo più reali che i fenomeni percepiti, gli atomi intellettuali (i «significati» della Scuola di Vienna) più reali che la coscienza, finché si cercherà di costruire l’immagine di questo mondo, la vita, la percezione, lo spirito, anziché riconoscere, come fonte del tutto vicina e come ultima istanza delle nostre conoscenze nei loro confronti, l’esperienza che ne abbiamo. Questa conversione dello sguardo, che capovolge i rapporti del chiaro e dell’oscuro, deve essere compiuta da ciascuno di noi, e solo in seguito si giustifica con l’abbondanza dei fenomeni che fa comprendere. Ma prima di essa questi fenomeni erano inaccessibili, e alla descrizione che ne facciamo l’empirismo può sempre obiettare di non comprendere. In questo senso la riflessione è un sistema di pensieri altrettanto chiuso che la pazzia, con la differenza che essa comprende se stessa e il pazzo, mentre il pazzo non la comprende. Anche se è un mondo nuovo, il campo fenomenico non è mai assolutamente ignorato dal pensiero naturale, gli è presente in orizzonte, e la stessa dottrina empiristica è un tentativo di analisi della coscienza. A titolo di paramythia è quindi utile indicare tutto ciò che le costruzioni empiristiche rendono incomprensibile e tutti i fenomeni originali che occultano. Anzitutto esse ci nascondono il «mondo culturale» o il «mondo umano» nel quale nondimeno trascorre quasi tutta la nostra vita. Per la maggior parte di noi la natura non è se non un essere vago e lontano, respinto dalle città, dalle strade, dalle case e soprattutto dalla presenza degli altri uomini. Orbene, per l’empirismo gli oggetti «culturali» e i volti devono la loro fisionomia, la loro potenza magica, a trasposizioni e proiezioni di ricordi, il mondo umano non ha senso se non accidentalmente. Nell’aspetto sensibile di un paesaggio, di un oggetto o di un corpo non vi è nulla che lo predestini ad avere l’aria «gaia» o «triste», «viva» o «cupa», «elegante» o «grossolana». Definendo ancora una volta il percepito con le proprietà fisiche e chimiche degli stimoli che possono agire sui nostri apparati sensoriali, l’empirismo esclude dalla percezione la collera o il dolore, che però leggo su un volto, la religione, di cui però colgo l’essenza in una esitazione o in una reticenza, la città, di cui però conosco la struttura in un atteggiamento del vigile o nello stile di un monumento. Non può più esservi spirito oggettivo: la vita mentale si ritira in coscienze isolate e aperte soltanto all’introspezione, anziché svolgersi, come fa apparentemente, nello spazio umano composto da coloro con i quali io discuto o con i quali vivo, nel luogo del mio lavoro o in quello della mia felicità. La gioia e la tristezza, la vivacità o lo stordimento, sono dati dell’introspezione, e ne


rivestiamo i paesaggi o gli altri uomini solo perché abbiamo constatato in noi stessi la coincidenza di queste percezioni interne con segni esterni, che sono associati a esse dalle combinazioni della nostra organizzazione. Così impoverita, la percezione diventa una pura operazione di conoscenza, una registrazione progressiva delle qualità e del loro svolgimento più ordinario, e il soggetto percipiente è di fronte al mondo come lo scienziato di fronte alle sue esperienze. Se ammettiamo invece che tutte queste «proiezioni», «associazioni» e «trasposizioni» sono fondate su qualche caratteristica intrinseca dell’oggetto, il «mondo umano» cessa di essere una metafora per ridivenire ciò che esso è in realtà, l’ambiente e per cosi dire la patria dei nostri pensieri. Il soggetto percipiente cessa di essere un soggetto pensante «acosmico», e l’azione, il sentimento, la volontà restano da esplorare come maniere originali di porre un oggetto, giacché «un oggetto appare attraente o ripugnante prima di apparire nero o azzurro, circolare o quadrato».14 Ma l’empirismo non deforma soltanto l’esperienza riducendo a un’illusione il mondo culturale, mentre tale mondo è l’alimento della nostra esperienza. A sua volta, e per gli stessi motivi, viene sfigurato anche il mondo naturale. Ciò che rimproveriamo all’empirismo non è l’averlo assunto come primo tema d’analisi. Infatti, è pur vero che ogni oggetto culturale rinvia ad uno sfondo di natura sul quale appare e che del resto può essere confuso e lontano. Sotto il quadro la nostra percezione sente la presenza vicina della tela, sotto il monumento quella del cemento che si disgrega, sotto il personaggio quella dell’attore che si affatica. Ma la natura di cui parla l’empirismo è una somma di stimoli e di qualità. È assurdo pretendere che questa natura sia, anche solo in intenzione, l’oggetto primo della nostra percezione: essa è posteriore all’esperienza degli oggetti culturali, o meglio è uno di essi. Dovremo quindi riscoprire anche il mondo naturale e il suo modo di esistenza che non si confonde con quello dell’oggetto scientifico. Che lo sfondo continui sotto la figura, che sia visto sotto la figura, quantunque essa lo ricopra, questo fenomeno, che involge tutto il problema della presenza dell’oggetto, è anch’esso occultato dalla filosofia empiristica, la quale, grazie a una definizione fisiologica della visione, tratta questa parte dello sfondo come invisibile, e la riconduce alla condizione di semplice qualità sensibile supponendo che essa è data da una immagine, cioè da una sensazione indebolita. Più in generale, gli oggetti reali che non fanno parte del nostro campo visivo non possono più essere presenti a noi se non per mezzo di immagini, ecco perché essi non sono altro che «possibilità permanenti di sensazioni». Se abbandoniamo il postulato empiristico della priorità dei contenuti siamo liberi di riconoscere il modo di esistenza singolo dell’oggetto dietro a noi. Il bambino isterico che si gira «per vedere se, dietro di lui, il mondo è ancora là»15 non manca di immagini, ma per lui il mondo percepito ha perduto la struttura originale che per il soggetto normale rende i suoi aspetti nascosti altrettanto certi che gli aspetti visibili. Ancora una volta, con il raggruppare atomi psichici, l’empirista può si costruire equivalenti approssimati di tutte queste strutture. Ma, nei capitoli seguenti, l’inventario del mondo percepito lo farà sempre più apparire come una sorta di cecità mentale e come il sistema meno idoneo a dar fondo all’esperienza rivelata, mentre dal canto suo la riflessione comprende la sua verità subordinata assegnandole il posto che le compete.


Note

1

L’espressione è di Husserl. L’idea è ripresa con acutezza in M. Pradines, Philosophie de la sensation, I, in particolare pp. 152 sgg.

2 Husserl,

Logische Untersuchungen, cap. I, Prolegomena zur reìnen Logik, p. 68.

3 Cfr.

per esempio Koehler, Gestalt Psychology, pp. 164-165.

4 Per

esempio Wertheimer (leggi di vicinanza, di somiglianza e la legge della pregnanza).

5

K. Lewin, Vorbemerkungen über die psychischen Kräfte und Energien und über die Struktur der Seele.

6 «Set to

reproduce», Koffka, Principles of Gestalt Psychology, p. 581.

7 Gottschaidt,

Über den Einfluss der Erfahrung auf die Wahrnehmung von Figuren.

8 Brunschvicg, 9 Bergson, 10 Cfr.

L’expérience humaine et la causalità p. 466.

L’énergie spirituelle, L’effort intellectuel, per esempio, p. 184.

per esempio Ebbinghaus, Abriss der Psychologie, pp. 104-105.

11 Hering,

Grundzüge der Lehre vom Lichtsinn, p. 8.

12 Scheler,

Idole der Selbsterkenntnis, p. 72.

13 Ibidem. 14 Koffka,

The Grotvtk of the Mind, p. 320.

15 Scheler,

op. cit., p. 85.


III. L’«attenzione» e il «giudizio»

Finora, la discussione dei pregiudizi classici è stata condotta contro l’empirismo. In realtà non prendevamo di mira soltanto l’empirismo. Occorre ora dimostrare che la sua antitesi intellettualistica si pone sul suo stesso terreno. Entrambi assumono come oggetto di analisi il mondo oggettivo che non è mai primo né in base al tempo, né in base al senso, entrambi sono incapaci di esprimere la maniera particolare con cui la coscienza percettiva costituisce il suo oggetto. Entrambi si tengono a distanza dalla percezione anziché aderirvi. Si potrebbe dimostrarlo studiando la storia del concetto di attenzione. Per l’empirismo esso si deduce dall’«ipotesi di costanza», e cioè, come abbiamo spiegato, dalla priorità del mondo oggettivo. Anche se ciò che noi percepiamo non corrisponde alle proprietà oggettive dello stimolo, l’ipotesi di costanza obbliga ad ammettere che le «sensazioni normali» sono pur sempre date. Occorre dunque che esse passino inosservate, e si chiamerà attenzione la funzione che le rivela, come un proiettore illumina gli oggetti preesistenti nell’ombra. L’atto di attenzione non crea dunque nulla, ed è un miracolo naturale, come diceva pressappoco Malebranche: tale miracolo fa appunto scaturire le percezioni o le idee capaci di rispondere alle domande che io mi ponevo. Il Bemerken o take notice non è causa efficiente delle idee che fa apparire: per questo motivo esso è il medesimo in tutti gli atti di attenzione, cosi come la luce del proiettore è la medesima indipendentemente dal paesaggio illuminato. L’attenzione è quindi un potere generale e incondizionato, nel senso che in ogni momento può dirigersi indifferentemente su tutti i contenuti di coscienza. Sempre sterile, essa non potrebbe mai essere interessata; per collegarla alla vita della coscienza si dovrebbe dimostrare come una percezione desti l’attenzione, poi come l’attenzione la sviluppi e la arricchisca. Occorrerebbe descrivere una connessione interna, ma l’empirismo non dispone se non di connessioni esterne, può solo giustapporre dati di coscienza. Il soggetto dell’empirismo, non appena gli viene accordata una iniziativa - ed è questa la ragion d’essere di una teoria dell’attenzione -, può ricevere unicamente una libertà assoluta. L’intellettualismo muove invece dalla fecondità dell’attenzione: giacché io ho coscienza di ottenere, per merito suo, la verità dell’oggetto, essa non fa succedere in modo fortuito un quadro a un altro. Il nuovo aspetto dell’oggetto subordina a sé quello vecchio ed esprime tutto ciò che esso voleva dire. Sin dall’inizio la cera è un frammento di estensione flessibile e mutabile, semplicemente io lo so in modo chiaro o confuso «a seconda che la mia attenzione si diriga più o meno intensamente verso le cose che sono in essa e di cui essa è composta».1 Giacché nell’attenzione io esperisco un rischiaramento dell’oggetto, è necessario che l’oggetto percepito implichi già la struttura intelligibile che essa porta alla luce. La coscienza trova il cerchio geometrico nella fisionomia circolare di un piatto solo perché ve l’aveva già messo. Per prendere possesso del sapere attento, le basta ritornare in sé, nel senso in cui si dice che un uomo svenuto torna in sé. Reciprocamente, la percezione disattenta o delirante è un dormiveglia. Essa non può essere descritta se non per mezzo di spiegazioni, il suo oggetto è senza consistenza, i soli oggetti di cui si possa parlare sono quelli della coscienza desta. Abbiamo si con noi un principio costante di distrazione e di vertigine che è il nostro corpo. Ma il nostro corpo non ha il potere di farci vedere ciò che non è; può soltanto farci credere di vederlo. La luna all’orizzonte non è e non è vista più grande di quando è allo zenith: se la guardiamo attentamente, per esempio attraverso un tubo di cartone o un cannocchiale, vedremo che il suo diametro apparente rimane costante.2 La percezione distratta non contiene nulla di più e anzi nient’altro che la percezione attenta. Così, la filosofia non deve tener


conto di un prestigio dell’apparenza. La coscienza pura e liberata dagli ostacoli che essa stessa acconsentiva a crearsi, il mondo vero senza alcuna commistione di fantasticheria, sono a disposizione di tutti. Non dobbiamo analizzare l’atto di attenzione come passaggio dalla confusione alla chiarezza, poiché la confusione non è nulla. La coscienza comincia a essere solo quando determina un oggetto e anche i fantasmi di una «esperienza interna» non sono possibili se non vengono attinti all’esperienza esterna. Non vi è dunque vita privata della coscienza e la coscienza non ha altri ostacoli che il caos, il quale è nulla. Ma, come nella coscienza dell’empirismo, la quale non costituisce nulla, anche in una coscienza che costituisce tutto, o meglio che eternamente possiede la struttura intelligibile di tutti i suoi oggetti, l’attenzione rimane un potere astratto, inefficace, poiché non ha nulla da fare. La coscienza non è meno intimamente collegata agli oggetti da cui si distrae che a quelli cui si interessa, e la maggior chiarezza determinata dall’atto di attenzione non inaugura alcun rapporto nuovo. Tale atto ridiviene dunque una luce che non si differenzia con gli oggetti che rischiara, e ancora una volta si sostituiscono con atti vuoti dell’attenzione «i modi e le direzioni specifiche dell’intenzione».3 Infine, avendo indifferentemente tutti gli oggetti a sua disposizione, l’atto d’attenzione è incondizionato, cosi come lo era il Bemerken degli empiristi poiché tutti gli oggetti gli erano trascendenti. In che modo un oggetto attuale fra tutti potrebbe eccitare un atto d’attenzione, giacché la coscienza li ha tutti? All’empirismo mancava la connessione interna dell’oggetto e dell’atto che esso provoca. All’intellettualismo manca la contingenza delle occasioni di pensare. Nel primo caso la coscienza è troppo povera e nel secondo troppo ricca perché qualche fenomeno possa sollecitarla. L’empirismo non vede che abbiamo bisogno di sapere cosa cerchiamo, senza di che non lo cercheremmo, e l’intellettualismo non vede che abbiamo bisogno di ignorare cosa cerchiamo, senza di che, di nuovo, non lo cercheremmo. Essi si accordano in questo, che nessuno dei due coglie la coscienza nell’atto di apprendere, né tiene conto di quella ignoranza circoscritta, di quella intenzione ancora «vuota» ma già determinata che è l’attenzione stessa. Sia che l’attenzione ottenga quanto cerca in virtù di un miracolo rinnovato, sia che lo possegga in anticipo, in entrambi i casi la costituzione dell’oggetto è passata sotto silenzio. Tanto se lo consideriamo una somma di qualità, guanto se lo consideriamo un sistema di relazioni, sin dall’origine l’oggetto deve essere puro, trasparente, impersonale, e non imperfetto, verità per un momento della mia vita e del mio sapere, cosi come emerge alla coscienza. La coscienza percettiva è confusa con le forme esatte della coscienza scientifica e l’indeterminato non figura nella definizione dello spirito. Nonostante le intenzioni dell’intellettualismo, le due dottrine hanno dunque in comune l’idea che l’attenzione non crea nulla, poiché un mondo di impressioni in sé o un universo di pensiero determinante sono egualmente sottratti all’azione dello spirito. Contro questa concezione di un soggetto ozioso, l’analisi dell’attenzione acquista, per gli psicologi, il valore di una presa di coscienza, e la critica della «ipotesi di costanza» si approfondirà in una critica della credenza dogmatica nel «mondo», considerato come realtà in sé nell’empirismo e come termine immanente della conoscenza nell’intellettualismo. L’attenzione presuppone anzitutto una trasformazione del campo mentale, una nuova maniera per la coscienza di essere presente ai suoi oggetti. Prendiamo l’atto di attenzione in virtù del quale io localizzo un punto del mio corpo che viene toccato. L’analisi di certe turbe di origine centrale che rendono impossibile la localizzazione rivela l’operazione profonda della coscienza. Head parlava sommariamente di un «indebolimento locale dell’attenzione». In realtà non si tratta né della distruzione di uno o più «segni locali», né della caduta di un potere secondario di apprensione. La condizione prima della turba è una disgregazione del campo sensoriale che non resta più fisso mentre il soggetto percepisce, ma si muove seguendo i movimenti di esplorazione e si contrae mentre lo si interroga.4 Una localizzazione vaga: questo


fenomeno contraddittorio rivela uno spazio preoggettivo in cui vi è si estensione, giacché più punti del corpo toccati insieme non sono confusi dal soggetto, ma non ancora posizione univoca, poiché da una percezione all’altra non permane nessuna cornice spaziale fissa. La prima operazione dell’attenzione consiste quindi nel crearsi un campo, percettivo o mentale, che si possa «dominare» (Überschauen), in cui movimenti dell’organo esploratore o evoluzioni del pensiero siano possibili senza che la coscienza perda a poco a poco quanto ha acquisito e perda se stessa nelle trasformazioni che provoca. La posizione precisa del punto toccato sarà l’invariante dei sentimenti diversi che io ne ho a seconda dell’orientamento delle mie membra e del mio corpo, l’atto di attenzione può fissare e oggettivare questa invariante poiché ha preso distanza rispetto ai mutamenti dell’apparenza. Pertanto, come attività generale e formale, l’attenzione non esiste.5 Ogni volta vi è una certa libertà da acquistare, un certo spazio mentale da amministrare. Rimane da far apparire l’oggetto stesso dell’attenzione. Si tratta qui, alla lettera, di una reazione. Per esempio, da molto tempo è noto che nei primi nove mesi di vita i bambini non distinguono se non globalmente il colorato e l’acromatico; in seguito le zone colorate si articolano in tinte «calde» e «fredde», e infine si giunge al dettaglio dei colori. Ma gli psicologi6 ammettevano che soltanto l’ignoranza o la confusione dei nomi impedisce al bambino di distinguere i colori. Il bambino doveva pur vedere il verde dove ve ne è, gli mancava solo di farvi attenzione e di afferrare i suoi propri fenomeni. Va però detto che gli psicologi non erano giunti a rappresentarsi un mondo in cui i colori siano indeterminati, un colore che non sia una qualità precisa. Per contro, la critica di tali pregiudizi permette di considerare il mondo dei colori come una formazione seconda, fondata su una serie di distinzioni «fisionomiche»: quella delle tinte «calde» e delle tinte «fredde», quella del «colorato» e del «noncolorato». Non possiamo confrontare questi fenomeni, che nel bambino fanno le veci del colore, con nessuna qualità determinata, e ugualmente i colori «strani» del malato non possono essere identificati con nessuno dei colori dello spettro.7 La prima percezione dei colori propriamente detti è quindi un mutamento di struttura della coscienza,8 lo stabilirsi di una nuova dimensione dell’esperienza, il dispiegarsi di un a priori. Orbene, è in base al modello di questi atti originari che deve venir concepita l’attenzione, giacché un’attenzione seconda, che si limitasse a richiamare un sapere già acquisito, ci rinvierebbe all’acquisizione. Fare attenzione non è soltanto illuminare maggiormente dei dati preesistenti, ma anche realizzare in essi un’articolazione nuova prendendoli per figure.9 Queste non sono preformate se non come orizzonti e costituiscono veramente nuove regioni nel mondo totale. È proprio la struttura originale, da esse arrecata, a far apparire l’identità dell’oggetto prima e dopo l’atto d’attenzione. Una volta acquisito il colore qualità, e soltanto grazie a questo colore, i dati anteriori appaiono come preparazioni della qualità. Una volta acquisita l’idea di equazione, le eguaglianze aritmetiche appaiono come varietà della medesima equazione. È appunto sconvolgendo i dati che l’atto di attenzione si collega agli atti anteriori e l’unità della coscienza si costruisce cosi a poco a poco mediante una «sintesi di transizione». Il miracolo della coscienza consiste nel far apparire, grazie all’attenzione, fenomeni che, nel momento stesso in cui rompono l’unità dell’oggetto, la ristabiliscono in una dimensione nuova. Cosi, l’attenzione non è un’associazione di immagini, né il ritorno in sé di un pensiero già padrone dei suoi oggetti, ma la costituzione attiva di un oggetto nuovo che esplicita e tematizza ciò che prima era offerto solo a titolo di orizzonte indeterminato. Nello stesso tempo in cui mette in moto l’attenzione, l’oggetto è in ogni istante riafferrato e posto di nuovo sotto la sua dipendenza. Esso non suscita l’«evento conoscente» che lo trasformerà se non grazie al senso ancora ambiguo che gli offre da determinare, cosicché ne è il «motivo»10 e non la causa. Ma per lo meno l’atto di attenzione si trova radicato nella vita della coscienza e si comprende, infine,


come essa esca dalla sua libertà indifferente per darsi un oggetto attuale. Questo passare dall’indeterminato al determinato, questo riprendere in ogni istante la propria storia nell’unità di un senso nuovo, è il pensiero stesso. «L’opera dello spirito non esiste se non in atto.» 11 Il risultato dell’atto di attenzione non è nel suo cominciamento. Se, quando guardo la luna con il cannocchiale o attraverso un tubo di cartone, essa non mi appare più grande all’orizzonte di quando è allo zenith, non se ne può concludere12 che anche nella visione libera l’apparenza è invariabile. L’empirismo ha questa convinzione in quanto non si occupa di ciò che si vede, ma di ciò che si deve vedere in base all’immagine retinica. L’intellettualismo, in quanto descrive la percezione di fatto in base ai dati della percezione «analitica» e attenta nella quale la luna riprende effettivamente il suo vero diametro apparente. Il mondo esatto, interamente determinato, è ancora posto preliminarmente, non più certo come la causa delle nostre percezioni, ma come il loro fine immanente. Per essere possibile, il mondo deve essere implicato nel primo abbozzo di coscienza, come afferma risolutamente la deduzione trascendentale.13 Ecco perché, all’orizzonte, la luna non deve mai apparire più grande di quello che è. La riflessione psicologica ci costringe invece a ricollocare il mondo esatto nella sua culla di coscienza, a chiederci come sia possibile l’idea stessa del mondo o della verità esatta, a cercarne il primo scaturire per la coscienza. Quando, nell’atteggiamento naturale, io guardo liberamente, le parti del campo interagiscono e motivano questa enorme luna all’orizzonte, questa grandezza senza misura che nondimeno è una grandezza. Si deve mettere la coscienza in presenza della sua vita irriflessa nelle cose e destarla alla propria storia, che essa dimenticava: questa è la vera funzione della riflessione filosofica, ed è cosi che si giunge a una vera teoria dell’attenzione. L’intellettualismo si proponeva sì di scoprire per riflessione la struttura della percezione, anziché spiegarla con il gioco combinato delle forze associative e dell’attenzione, ma il suo sguardo sulla percezione non è ancora diretto. Lo si vedrà meglio esaminando la funzione che il concetto di giudizio esplica nella sua analisi. Il giudizio è spesso introdotto come ciò che manca alla sensazione per rendere possibile una percezione. La sensazione non è più presupposta come elemento reale della coscienza. Ma quando si vuole delineare la struttura della percezione, lo si fa seguendo la traccia delle sensazioni. L’analisi si trova dominata da questa nozione empiristica, quantunque non sia ricevuta se non come il limite della coscienza e serva solo a manifestare un potere di collegamento di cui è l’opposto. L’intellettualismo vive della confutazione dell’empirismo, e in esso il giudizio ha spesso la funzione di annullare la possibile dispersione delle sensazioni.14 L’analisi riflessiva si stabilisce spingendo fino alle loro conseguenze le tesi realista ed empirista e dimostrando per assurdo l’antitesi. Ma in questa riduzione all’assurdo non si prende necessariamente contatto con le operazioni effettive della coscienza. Può accadere che, se muove idealmente da una intuizione cieca, per compensazione la teoria della percezione metta capo a un concetto vuoto, e che il giudizio, contropartita della sensazione pura, ricada a una funzione generale di collegamento indifferente ai suoi oggetti o addirittura divenga ancora una forza psichica palesatale in virtù dei suoi effetti. La celebre analisi del pezzo di cera salta da qualità come l’odore, il colore e il sapore alla potenza di una infinità di forme e di posizioni, che è, dal canto suo, al di là dell’oggetto percepito, e definisce solo la cera del fisico. Per la percezione non vi è più cera quando tutte le proprietà sensibili sono scomparse, ed è la scienza a supporre qui una certa materia che si conservi. Insieme con la sua maniera originale di esistere, con la sua permanenza che non è ancora l’identità esatta della scienza, con il suo «orizzonte interno»15 di variazione possibile secondo la forma e secondo la grandezza, con il suo colore opaco che annuncia la mollezza, con la sua mollezza che annuncia un rumore sordo quando la colpirò, e infine con la struttura percettiva dell’oggetto, si perde di vista la


stessa cera «percepita», poiché, per collegare qualità completamente oggettive e chiuse in sé occorrono determinazioni di ordine predicativo. Gli uomini che vedo da una finestra sono nascosti dal loro cappello e dal loro mantello, e la loro immagine non può dipingersi sulla mia retina. Dunque io non li vedo, ma giudico che essi sono là.16 Una volta definita la visione alla maniera degli empiristi, cioè come il possesso di una qualità inscritta dallo stimolo sul corpo,17 anche l’illusione piò insignificante è sufficiente a stabilire che la percezione è un giudizio,18 poiché dà all’oggetto proprietà che esso non ha sulla mia retina. Siccome ho due occhi, dovrei vedere doppio l’oggetto e se ne percepisco uno solo è perché, per mezzo delle due immagini, costruisco l’idea di un oggetto unico a distanza.19 La percezione diviene una «interpretazione» dei segni che la sensibilità fornisce conformemente agli stimoli corporei,20 una «ipotesi» che lo spirito fa per «spiegarsi le sue impressioni».21 Ma anche il giudizio (introdotto per spiegare l’eccedere della percezione sulle impressioni retiniche), anziché essere l’atto stesso del percepire colto dall’interno in virtù di una riflessione autentica, ridiviene un semplice «fattore» della percezione incaricato di fornire ciò che non fornisce il corpo -, anziché essere un’attività trascendentale, ridiviene una semplice attività logica di conclusione.22 Con ciò siamo condotti fuori della riflessione e costruiamo la percezione invece di rivelarne il funzionamento peculiare, ancora una volta non cogliamo l’operazione primordiale che impregna di un senso il sensibile e che ogni mediazione logica, cosi come ogni causalità psicologica, presuppone. Ne consegue che l’analisi intellettualistica finisce con il rendere incomprensibili i fenomeni percettivi, sui quali è chiamata a far luce. Mentre il giudizio perde la sua funzione costitutiva e diviene un principio esplicativo, le parole «vedere», «udire», «sentire» perdono ogni significato, giacché la visione più insignificante oltrepassa l’impressione pura e rientra cosi nell’ambito generale del «giudizio». L’esperienza comune fa una differenza molto chiara tra il sentire e il giudizio. Il giudizio è per essa una presa di posizione e tende a conoscere qualcosa di valido per me stesso in tutti i momenti della mia vita e per gli altri spiriti esistenti o possibili; sentire significa invece rimettersi all’apparenza senza cercare di possederla e di saperne la verità. Nell’intellettualismo questa distinzione svanisce poiché il giudizio è in qualsiasi luogo in cui non vi sia la pura sensazione, cioè ovunque. La testimonianza dei fenomeni sarà quindi respinta ovunque. Una grande scatola di cartone mi sembra più pesante che una piccola scatola fatta del medesimo cartone e, stando ai fenomeni, direi che la sento in anticipo pesare nella mia mano. Ma l’intellettualismo delimita il sentire con l’azione sul mio corpo di uno stimolo reale. Poiché qui non ve ne sono, si dovrà quindi dire che la scatola non è sentita, ma giudicata più pesante, e questo esempio, che sembrava fatto apposta per dimostrare l’aspetto sensibile dell’illusione, serve invece a dimostrare che non vi è conoscenza sensibile e che si sente come si giudica.23 Un cubo disegnato sul foglio muta aspetto a seconda che è visto da una parte e dal di sopra, oppure dall’altra e dal di sotto. Anche se io so che esso può essere visto in due modi, accade che la figura si rifiuti di mutare struttura e che il mio sapere debba attendere la sua realizzazione intuitiva. Anche qui si dovrebbe concludere che giudicare non è percepire. Ma l’alternativa della sensazione e del giudizio costringe a dire che il mutamento della figura (non dipendendo dagli «elementi sensibili», che, come gli stimoli, rimangono costanti) può dipendere unicamente da un mutamento nell’interpretazione, e che infine «la concezione dello spirito modifica la percezione stessa»,24 «l’apparenza prende forma e senso a comando».25 Orbene, se si vede ciò che si giudica, come distinguere la percezione vera da quella falsa? Come si potrà dire, dopo tutto ciò, che l’allucinato o il pazzo «credono di vedere ciò che non vedono affatto»?26 In che cosa consisterà la differenza fra «vedere» e «credere di vedere»? Se si risponde che l’uomo sano non giudica se non in base a segni sufficienti e su una materia piena, è


perché c’è differenza fra il giudizio motivato della percezione vera e il giudizio vuoto della percezione falsa: siccome la differenza non è nella forma del giudizio ma nel testo sensibile che esso struttura, percepire, nel pieno senso della parola - che l’oppone a immaginare - non è giudicare, bensì cogliere un senso immanente al sensibile prima di ogni giudizio. Il fenomeno della percezione vera offre quindi un significato che inerisce ai sensi e di cui il giudizio è solo l’espressione facoltativa. L’intellettualismo non può far comprendere né questo fenomeno né, del resto, l’imitazione che ne dà l’illusione. Più in generale esso è cieco per il modo di esistenza e di coesistenza degli oggetti percepiti, per la vita che attraversa il campo visivo e ne collega segretamente le parti. Nell’illusione di Zöllner io «vedo» le linee principali inclinate le une sulle altre. L’intellettualismo riduce il fenomeno all’errore di far intervenire le linee ausiliarie e il loro rapporto con le linee principali, mentre dovrei confrontare le stesse linee principali. In fondo, io mi inganno sulla prescrizione che mi è stata data e confronto i due insiemi anziché confrontarne gli elementi principali.27 Rimarrebbe da sapere perché mi inganno sulla prescrizione. «Dovrebbe imporsi tale problema: come può accadere che, nell’illusione di Zöllner, sia tanto difficile confrontare isolatamente le rette stesse che, secondo la prescrizione data, devono venir confrontate? Per quale motivo esse si rifiutano di lasciarsi separare dalle linee ausiliarie?»28 Si dovrebbe ammettere che, ricevendo delle linee ausiliarie, le linee principali hanno cessato di essere parallele, che hanno perduto quel senso per assumerne un altro, e che le linee ausiliarie introducono nella figura un significato nuovo che ormai vi dimora e non può più esserne distaccato.29 È questo significato aderente alla figura, questa trasformazione del fenomeno che motiva il giudizio falso e che, per così dire, è dietro di esso. Nel contempo, al di qua del giudizio e al di là della qualità o dell’impressione, questo significato restituisce un senso alla parola «vedere»: fa riapparire il problema della percezione. Se si conviene di chiamare giudizio ogni percezione di un rapporto e di riservare il nome di visione all’impressione puntuale, è certo che l’illusione è un giudizio. Ma questa analisi presuppone almeno idealmente uno strato di impressioni in cui le linee principali sarebbero parallele cosi come lo sono nel mondo, cioè nell’ambito che costituiamo per mezzo di misure - e presuppone pure un’operazione seconda che modifica le impressioni facendo intervenire le linee ausiliarie e falsa cosi il rapporto delle linee principali. Orbene, la prima fase è di pura congettura, e con essa il giudizio che dà la seconda. Si costruisce l’illusione, ma non la si comprende. In questo senso generalissimo e completamente formale, il giudizio spiega la percezione vera o falsa solo se si regola sull’organizzazione spontanea e sulla configurazione particolare dei fenomeni. È pur vero che l’illusione consiste nel far entrare gli elementi principali della figura in relazioni ausiliarie che rompono il parallelismo. Ma perché lo rompono? Perché due rette prima parallele cessano di far coppia e sono trascinate in una posizione obliqua dal contesto immediato in cui vengono introdotte? Tutto avviene come se tali rette non facessero più parte dello stesso mondo. Due vere oblique sono situate nel medesimo spazio, che è lo spazio oggettivo. Ma queste non si inclinano in atto l’una sull’altra, se le si fissa è impossibile vederle oblique. Esse tendono sordamente verso questo nuovo rapporto quando le abbandoniamo con lo sguardo. Al di qua dei rapporti oggettivi, abbiamo qui una sintassi percettiva che si articola secondo regole proprie: la rottura delle vecchie relazioni e lo stabilirsi di relazioni nuove, il giudizio, non esprimono se non il risultato di questa operazione profonda e ne sono la constatazione finale. Falsa o vera, è cosi che la percezione deve dapprima costituirsi perché un predicato sia possibile. È certo vero che la distanza di un oggetto o il suo rilievo non sono proprietà dell’oggetto come il suo colore o il suo peso. È certamente vero che si tratta di relazioni inserite in una configurazione d’insieme che, del resto, include il peso stesso e il colore stesso. Ma non è vero che questa configurazione sia costruita da una «ispezione dello spirito»;


sarebbe come dire che lo spirito percorre impressioni isolate e scopre a mano a mano il senso del tutto, nello stesso modo in cui lo scienziato determina le incognite in funzione dei dati del problema. Orbene, qui i dati del problema non precedono la sua soluzione e la percezione è appunto quell’atto che in un sol tratto crea, con la costellazione dei dati, il senso che li collega - quell’atto che non si limita a scoprire il senso che essi hanno, ma fa si che abbiano un senso. È vero che queste critiche sono dirette solo contro gli inizi dell’analisi riflessiva, e l’intellettualismo potrebbe rispondere che in un primo tempo si è pur costretti a ricorrere al linguaggio del senso comune. La concezione del giudizio come forza psichica o come mediazione logica e la teoria della percezione come «interpretazione» - questo intellettualismo degli psicologi non è infatti se non una contropartita dell’empirismo, atta a preparare una autentica presa di coscienza. Non si può che cominciare nell’atteggiamento naturale, con i suoi postulati, finché la dialettica interna di questi postulati li distrugga. Una volta intesa la percezione come interpretazione, la sensazione, che ha funto da punto di partenza, è definitivamente superata, dal momento che ogni coscienza percettiva è già andata oltre. La sensazione non è sentita30 e la coscienza è sempre coscienza di un oggetto. Giungiamo alla sensazione quando, riflettendo sulle nostre percezioni, vogliamo esprimere che esse non sono in tutto e per tutto opera nostra. La pura sensazione, definita dall’azione degli stimoli sul nostro corpo, è l’«effetto ultimo» della conoscenza, in particolare della conoscenza scientifica: solo per un’illusione, del resto naturale, la poniamo all’inizio e la crediamo anteriore alla conoscenza. Essa è la maniera necessaria e necessariamente fallace con cui uno spirito si rappresenta la propria storia.31 Appartiene alla sfera del costituito, e non allo spirito costituente. La percezione può apparire come un’interpretazione secondo il mondo o secondo la opinione. Ma in che modo questa percezione potrebbe essere, per la coscienza stessa, un ragionamento, giacché non vi sono sensazioni che siano in grado di servirle da premesse, oppure una interpretazione, giacché prima di essa non vi è nulla da interpretare? Allorché si supera in questo modo, con l’idea di sensazione, l’idea di un’attività semplicemente logica, scompaiono le obiezioni prima sollevate. Chiedevamo che cos’è vedere o che cos’è sentire, che cosa distingue dal concetto questa conoscenza ancora presa nel suo oggetto, inerente a un punto del tempo e dello spazio. La riflessione dimostra che non vi è qui nulla da comprendere. È un fatto che, innanzitutto, io mi credo circondato dal mio corpo, preso nel mondo, situato qui e ora. Ma, quando vi rifletto, ciascuna di queste parole è priva di senso e non pone quindi nessun problema: mi riconoscerei «circondato dal mio corpo» se non fossi in esso altrettanto che in me, se non pensassi io stesso questo rapporto spaziale e non sfuggissi così all’inerenza nel momento stesso in cui me la rappresento? Saprei che sono preso nel mondo e che vi sono situato, se vi fossi veramente preso e situato? Al pari di una cosa, mi limiterei allora a essere dove sono: se però so dove sono e vedo me stesso in mezzo alle cose, è perché sono una coscienza, un essere singolo che non risiede in nessun luogo e può rendersi presente ovunque in intenzione. Tutto ciò che esiste esiste come cosa o come coscienza, e non c’è via di mezzo. La cosa è in un luogo, ma la percezione non è in nessun luogo: infatti, se fosse situata, essa non potrebbe far esistere per se stessa le altre cose, giacché riposerebbe in sé alla maniera delle cose. La percezione è quindi il pensiero di percepire. La sua incarnazione non offre alcun carattere positivo di cui vi sia da rendere conto, la sua ecceità non è se non l’ignoranza di se stessa in cui essa si trova. L’analisi riflessiva diviene una dottrina puramente regressiva secondo la quale ogni percezione è una intellezione confusa, ogni determinazione una negazione. Cosi essa sopprime tutti i problemi, tranne uno: quello del proprio cominciamento. La finitezza di una percezione che mi dà, come diceva Spinoza, delle «conseguenze senza premesse», l’inerenza della coscienza a un punto di vista, tutto si riduce alla mia ignoranza di me stesso, al mio potere completamente negativo di non riflettere. Ma come è a sua volta


possibile questa ignoranza? Rispondere che essa non è mai, significherebbe sopprimermi come filosofo che indaga. Nessuna filosofia può ignorare il problema della finitezza, sotto pena di ignorare se stessa come filosofia, nessuna analisi della percezione può ignorare la percezione come fenomeno originale, sotto pena di ignorare se stessa come analisi, e il pensiero infinito che si scoprirebbe immanente alla percezione non sarebbe il più alto grado di coscienza, ma viceversa una forma di incoscienza. Il movimento di riflessione oltrepasserebbe il segno: ci trasporterebbe da un mondo cristallizzato e determinato a una coscienza senza incrinature, mentre l’oggetto percepito è animato di una vita segreta e, come unità, la percezione si disfa e si rifà continuamente. Non avremo altro che un’essenza astratta della coscienza, finché non avremo seguito il movimento effettivo con il quale in ogni momento essa riafferma i suoi atti, li contrae e li fissa in un oggetto identificabile, passa a poco a poco dal «vedere» al «sapere» e ottiene l’unità della propria vita. Non raggiungeremo questa dimensione costitutiva, se sostituiremo con un soggetto assolutamente trasparente l’unità piena della coscienza e con un pensiero eterno l’«arte recondita» che fa sorgere un senso nelle «profondità della natura». La presa di coscienza intellettualistica non giunge sino a questo ciuffo vivente della percezione in quanto, anziché svelare l’operazione che la rende attuale o attraverso la quale essa si costituisce, cerca le condizioni che la rendono possibile o senza le quali essa non ci sarebbe. Nella percezione effettiva e presa allo stato nascente prima di ogni parola, il segno sensibile, il suo significato non sono separabili nemmeno idealmente. Un oggetto è un organismo di colori, odori, suoni, apparenze tattili che si simbolizzano e si modificano reciprocamente e si accordano vicendevolmente secondo una logica reale che la scienza ha la funzione di esplicitare e la cui analisi essa è ben lungi dall’aver compiuto. Nei confronti di questa Vita percettiva l’intellettualismo è insufficiente o per difetto o per eccesso: esso evoca a titolo di limite le molteplici qualità che non sono se non l’involucro dell’oggetto, e di qui passa a una coscienza dell’oggetto che ne possiederebbe la legge o il segreto e che, perciò stesso, priverebbe lo sviluppo dell’esperienza della sua contingenza e l’oggetto del suo stile percettivo. Quel passaggio dalla tesi all’antitesi, quel capovolgimento dal pro al contro che è il procedimento costante dell’intellettualismo lascia immutato il punto di partenza dell’analisi; si partiva da un mondo in sé che agiva sui nostri occhi per farsi vedere da noi, si ha ora una coscienza o un pensiero del mondo, ma la natura stessa di questo mondo non è cambiata: esso è sempre definito dall’esteriorità assoluta delle parti. Semplicemente, in tutta la sua estensione è sdoppiato in un pensiero su cui si fonda. Si passa da una oggettività assoluta a una soggettività assoluta, ma questa seconda idea ha il medesimo valore della prima e non si regge se non contro quella, cioè grazie a quella. Pertanto, l’affinità dell’intellettualismo e dell’empirismo è molto meno visibile e molto più profonda di quanto si creda. Essa non consiste solamente nella definizione antropologica della sensazione cui ricorrono entrambi, ma nel fatto che entrambi conservano l’atteggiamento naturale o dogmatico: la sopravvivenza della sensazione nell’intellettualismo non è altro che un segno di questo dogmatismo. L’intellettualismo accetta come assolutamente fondata l’idea del vero e l’idea dell’essere, nelle quali si compie e si riassume il lavoro costitutivo della coscienza, e la sua pretesa riflessione consiste nel porre come potenze del soggetto tutto quanto è necessario per metter capo a queste idee. Gettandomi nel mondo delle cose, l’atteggiamento naturale mi dà la sicurezza di cogliere un «reale» al di là delle apparenze, il «vero» al di là dell’illusione. Il valore di queste nozioni non è messo in questione dall’intellettualismo: si tratta solo di conferire a un naturante universale il potere di riconoscere quella stessa verità assoluta che il realismo pone ingenuamente in una natura data. Senza dubbio l’intellettualismo si presenta di solito come una dottrina della scienza e non come una dottrina della percezione, crede di fondare la sua analisi sulla prova della verità matematica e non sull’evidenza ingenua del mondo: habemus ideam veratri. Ma in


realtà io non saprei di possedere una idea vera, se con la memoria non potessi collegare l’evidenza presente a quella dell’istante trascorso e, mediante il confronto della parola, l’evidenza mia a quella dell’altro, cosicché l’evidenza spinoziana presuppone quella del ricordo e della percezione. Se invece si vuole fondare la costituzione del passato e quella dell’altro sul mio potere di riconoscere la verità intrinseca dell’idea, si sopprime si il problema dell’altro e quello del mondo, ma solo perché si rimane nell’atteggiamento naturale che li assume come dati e si utilizzano le forze della certezza ingenua. Infatti, come hanno visto Cartesio e Pascal, mai io posso coincidere in un sol tratto con il puro pensiero che costituisce un’idea anche semplice, il mio pensiero chiaro e distinto si serve sempre di pensieri già formati da me o da altri, si affida alla mia memoria, cioè alla natura del mio spirito, o alla memoria della comunità dei pensatori, ossia allo spirito oggettivo. Assumere come scontato il fatto che abbiamo una idea vera significa credere alla percezione senza critica. L’empirismo rimaneva nella credenza assoluta nel mondo come totalità degli eventi spaziotemporali, e trattava la coscienza come un angolo di questo mondo. L’analisi riflessiva rompe certo con il mondo in sé, giacché lo costituisce con l’operazione della coscienza, ma, anziché essere colta direttamente, questa coscienza costituente è costruita in modo da rendere possibile l’idea di un essere assolutamente determinato. Essa è il correlato di un universo, il soggetto che possiede assolutamente compiute tutte le conoscenze di cui la nostra conoscenza effettiva è l’abbozzo. Il fatto è che si suppone effettuato in qualche luogo ciò che per noi non è se non intenzione: un sistema di pensieri assolutamente vero, capace di coordinare tutti i fenomeni, un geometrale che renda ragione di tutte le prospettive, un oggetto puro nel quale sbocchino tutte le soggettività. Bastano questo oggetto assoluto e questo soggetto divino per allontanare la minaccia del genio maligno e per garantirci il possesso dell’idea vera. Orbene, vi è un atto umano che in un sol tratto attraversa tutti i dubbi possibili per insediarsi nel cuore della verità: questo atto è la percezione, nel senso lato di conoscenza delle esistenze. Allorché mi metto a percepire questo tavolo, io contraggo risolutamente lo spessore di durata trascorsa da quando lo guardo, esco dalla mia vita individuale cogliendo l’oggetto come oggetto per tutti, riunisco dunque istantaneamente esperienze concordanti ma disgiunte e distribuite in più punti del tempo e in varie temporalità. Non rimproveriamo all’intellettualismo di ricorrere a questa «doxa originaria»,32 a questo atto decisivo che esplica, nel cuore del tempo, la funzione dell’eternità spinoziarta, ma di ricorrervi tacitamente. Vi è qui un potere di fatto, come diceva Cartesio, una evidenza semplicemente irresistibile, che riunisce, sotto l’invocazione di una verità assoluta, i fenomeni separati del mio presente e del mio passato, della mia durata e di quella dell’altro, ma che non deve essere astratta dalle sue origini percettive e distaccata dalla sua «fatticità». La funzione della filosofia consiste nel ricollocarla nel campo di esperienza privata in cui sorge e nell’illuminarne la nascita. Se invece ci si serve di essa senza assumerla come tema, si diviene incapaci di vedere il fenomeno della percezione e il mondo che nasce in essa attraverso la lacerazione delle esperienze separate, si risolve il mondo percepito in un universo che non è se non questo stesso mondo astratto dalle sue origini costitutive e divenuto evidente perché le si dimentica. Cosi, l’intellettualismo lascia la coscienza in un rapporto di familiarità con l’essere assoluto, e l’idea stessa di un mondo in sé sussiste come orizzonte o come filo conduttore dell’analisi riflessiva. Il dubbio ha sì interrotto le affermazioni esplicite circa il mondo, ma non intacca questa sorda presenza del mondo che si sublima nell’ideale della verità assoluta. La riflessione dà allora un’essenza della coscienza che si accetta dogmaticamente senza chiedersi che cos’è un’essenza, senza chiedersi se l’essenza del pensiero esaurisce il fatto del pensiero. Essa perde il carattere di una constatazione, e ormai non si tratta più di descrivere fenomeni: l’apparenza percettiva delle illusioni è respinta come l’illusione delle illusioni, si può vedere solo ciò che è, la visione stessa e l’esperienza non sono più


distinte dalla concezione. Di qui una filosofia a doppio uso, riscontrabile in ogni dottrina dell’intelletto: si salta da una prospettiva naturalistica, che esprime la nostra condizione di fatto, a una dimensione trascendentale in cui tutte le schiavitù sono rimosse di diritto, e non ci si deve mai chiedere come lo stesso soggetto è parte del mondo e principio del mondo, poiché il costituito non è mai se non per il costituente. In realtà, l’immagine di un mondo costituito, in cui, con il mio corpo, io non sarei che un oggetto fra altri, e l’idea di una coscienza costituente assoluta si contrappongono solo in apparenza: esse esprimono due volte il pregiudizio di un universo in sé perfettamente esplicito. Anziché alternarle come vere entrambe, alla maniera della filosofia intellettualistica, una riflessione autentica le respinge come false entrambe. È vero che forse deformiamo una seconda volta l’intellettualismo. Quando diciamo che l’analisi riflessiva realizza in anticipo tutto il sapere possibile al di sopra del sapere attuale, rinchiude la riflessione nei suoi risultati e annulla il fenomeno della finitezza, forse questa è solo una caricatura dell’intellettualismo, la riflessione secondo il mondo, la verità vista dal prigioniero della caverna che preferisce le ombre alle quali è abituato e non comprende che esse derivano dalla luce. Forse non abbiamo ancora capito la vera funzione del giudizio nella percezione. L’analisi del pezzo di cera non significherebbe che una ragione è celata dietro la natura, ma che la ragione è radicata nella natura; la «ispezione dello spirito» non sarebbe il concetto che discende nella natura, ma la natura che si innalza al concetto. La percezione è un giudizio che tuttavia ignora le sue ragioni,33 e ciò equivale a dire che l’oggetto percepito si dà come tutto e come unità prima che ne abbiamo colto la legge intelligibile, e che la cera non è originariamente un’estensione flessibile e mutevole. Dicendo che il giudizio naturale non ha «agio di pensare e considerare alcuna ragione», Cartesio lascia capire che, sotto il nome di giudizio, egli ha di mira la costituzione di un senso del percepito che non precede la percezione stessa e sembra sorgere da esso.34 Questa conoscenza vitale o questa «inclinazione naturale» che ci mostra l’unione dell’anima e del corpo, quando la luce naturale ce ne indica la distinzione, appare contraddittorio garantirla con la veracità divina, la quale non è altro che la chiarezza intrinseca della idea e non può comunque autenticare se non pensieri evidenti. Ma forse la filosofia di Cartesio consiste nell’assumere questa contraddizione.35 Il fatto che egli dica che l’intelletto si sa incapace di conoscere l’unione dell’anima e del corpo e deputi la vita a conoscerla,36 sta a significare che l’atto di comprendere si dà come riflessione su un irriflesso che tale atto non riassorbe né di fatto né di diritto. Quando ritrovo la struttura intelligibile del pezzo di cera, io non mi ricolloco in un pensiero assoluto nei confronti del quale esso sarebbe solo un risultato, non lo costituisco, ma lo ricostituisco. Il «giudizio naturale» non è altro che il fenomeno della passività. È sempre alla percezione che spetterà di conoscere la percezione. La riflessione non trasporta mai se stessa fuori di ogni situazione, l’analisi della percezione non dissolve il fatto della percezione, l’ecceità del percepito, l’inerenza della coscienza percettiva a una temporalità e a una località. La riflessione non è assolutamente trasparente per se stessa, ma è sempre data a se stessa in una esperienza, nel senso kantiano della parola, sorge sempre ignorando essa stessa la propria origine e mi si offre sempre come un dono della natura. Ma se la descrizione dell’irriflesso resta valida dopo la riflessione e la Sesta Meditazione dopo la Seconda, reciprocamente questo stesso irriflesso non ci è noto se non per la riflessione, e non deve essere posto fuori di essa come un termine inconoscibile. Fra me che analizzo la percezione e l’io percipiente vi è sempre una distanza. Ma nel concreto atto riflessivo io supero questa distanza, dimostro effettivamente che sono capace di sapere ciò che percepivo, domino praticamente la discontinuità dei due Io e, in definitiva, il senso del cogito non consisterebbe nel rivelare un costituente universale o nel ricondurre la percezione alla


intellezione, ma nel constatare questo fatto della riflessione che domina e insieme mantiene l’opacità della percezione. L’avere cosi identificato la ragione e la condizione umana sarebbe conforme alla risoluzione cartesiana, e si può sostenere che questo è il significato ultimo del cartesianismo. Il «giudizio naturale» dell’intellettualismo anticipa allora quel giudizio kantiano che fa nascere nell’oggetto individuale il suo senso e non glielo apporta bell’e fatto.37 Come il kantismo, il cartesianismo avrebbe pienamente visto il problema della percezione, problema consistente nel fatto che essa è una conoscenza originaria. Vi è una percezione empirica o seconda, quella che esercitiamo in ogni istante, che ci occulta tale fenomeno fondamentale in quanto è tutta piena di vecchie acquisizioni e si esplica, per cosi dire, alla superficie dell’essere. Quando guardo rapidamente gli oggetti che mi circondano per individuarmi e orientarmi in mezzo a essi, accedo a mala pena all’aspetto istantaneo del mondo, identifico qui la porta, là la finestra, altrove il mio tavolo, che sono solo i supporti e le guide di una intenzione pratica orientata altrove e che allora non mi sono dati se non come significati. Ma, quando contemplo un oggetto con l’unico intento di vederlo esistere e dispiegare di fronte a me le sue ricchezze, allora esso cessa di essere un’allusione a un tipo generale, e mi accorgo che ogni percezione, e non soltanto quella degli spettacoli che scopro per la prima volta, ricomincia per conto suo la nascita dell’intelligenza e ha un che di invenzione geniale: affinché io riconosca l’albero come albero occorre che, al di sotto di questo significato acquisito, l’assetto momentaneo dello spettacolo sensibile ricominci, come nel primo giorno del mondo vegetale, a disegnare l’idea individuale di questo albero. Tale sarebbe questo giudizio naturale, che non può ancora conoscere le sue ragioni, poiché le crea. Ma anche se si riconosce che l’esistenza, l’individualità, la «fatticità» sono all’orizzonte del pensiero cartesiano, rimane da sapere se tale pensiero le ha tematizzate. Orbene, bisogna riconoscere che esso non avrebbe potuto farlo se non trasformandosi profondamente. Per fare della percezione una conoscenza originaria, avrebbe dovuto accordare alla finitezza un significato positivo e prendere sul serio quella strana frase della Quarta Meditazione che fa di me «un termine medio fra Dio e il nulla». Ma se, come lascia intendere la Quinta Meditazione e come dirà Malebranche, il nulla non ha proprietà, se non è niente, questa definizione del soggetto umano è solo un modo di dire e il finito non ha niente di positivo. Per vedere nella riflessione un fatto creativo, una ricostituzione del pensiero trascorso che non era preformata in tale pensiero e che tuttavia lo determina validamente poiché essa solo ce ne dà l’idea e poiché il passato in sé è per noi come se non fosse -, sarebbe stato necessario sviluppare una intuizione del tempo alla quale le Meditazioni fanno solo un breve cenno. «Mi inganni chi potrà, ma è pur vero che egli non saprebbe mai fare che io non sia niente, mentre che penserò di essere qualcosa; o che un giorno sia vero che io non sia mai stato essendo vero adesso che io sono.»38 L’esperienza del presente è quella di un essere fondato una volta per tutte e al quale nulla potrebbe impedire di essere stato. Nella certezza del presente c’è una intenzione che ne supera la presenza, che lo pone anticipatamente come un «presente trascorso» indubitabile nella serie delle rimemorazioni; come coscienza del presente, la percezione è il fenomeno centrale che rende possibile l’unità dell’Io e con essa l’idea dell’oggettività e della verità. Ma nel testo essa non è data se non come una di quelle evidenze irresistibili solamente di fatto e che soggiacciono al dubbio.39 La soluzione cartesiana non consiste quindi nell’assumere come garante di se medesimo il pensiero umano nella sua condizione di fatto, ma nel farlo poggiare su un pensiero che si possiede assolutamente. La connessione dell’essenza e dell’esistenza non è trovata nell’esperienza, ma nell’idea dell’infinito. In definitiva è dunque vero che l’analisi riflessiva riposa interamente su un’idea dogmatica dell’essere e che in questo senso essa non è una presa di coscienza compiuta.40


Quando l’intellettualismo riprendeva la nozione naturalistica di sensazione, una filosofia era implicita in questo passo. Reciprocamente, quando la psicologia elimina definitivamente tale nozione possiamo aspettarci di trovare in questa riforma l’avvio di un nuovo tipo di riflessione. Al livello della psicologia la critica dell’«ipotesi di costanza» significa solo che si abbandona il giudizio in quanto fattore esplicativo nella teoria della percezione. Come pretendere che la percezione della distanza è dedotta dalla grandezza apparente degli oggetti, dalla disparazione delle immagini retiniche, dall’accomodazione del cristallino, dalla convergenza degli occhi, che la percezione del rilievo è dedotta dalla differenza fra l’immagine che fornisce l’occhio destro e quella che fornisce il sinistro, poiché, stando ai fenomeni, nessuno di questi «segni» è chiaramente dato alla coscienza e poiché non potrebbe esservi ragionamento dove mancano le premesse? Ma questa critica dell’intellettualismo colpisce solo la volgarizzazione che ne hanno dato gli psicologi. E, come l’intellettualismo stesso, tale critica deve venir trasferita sul piano della riflessione, ove il filosofo non cerca più di spiegare la percezione, ma di coincidere con l’operazione percettiva e di comprenderla. Qui la critica dell’ipotesi di costanza rivela che la percezione non è un atto intellettivo. Basta che io guardi un paesaggio con la testa in giù per non riconoscervi più nulla. Orbene, nei riguardi dell’intelletto l’«alto» e il «basso» hanno solo un senso relativo e l’intelletto non potrebbe trovare un ostacolo assoluto nell’orientamento del paesaggio. Di fronte all’intelletto un quadrato è sempre un quadrato, sia che poggi su una delle sue basi o su uno dei suoi vertici. Per la percezione è, nel secondo caso, appena riconoscibile. Il Paradosso degli oggetti simmetrici opponeva al logicismo l’originalità dell’esperienza percettiva. Questa idea deve essere ripresa e generalizzata: vi è un significato del percepito che non ha equivalenti nell’universo dell’intelletto, un contesto percettivo che non è ancora il mondo oggettivo, un essere percettivo che non è ancora l’essere determinato. Soltanto, gli psicologi che praticano la descrizione dei fenomeni non riconoscono, solitamente, la portata filosofica del loro metodo. Essi non vedono che, se questa riforma è conseguente e radicale, il ritorno all’esperienza percettiva condanna tutte le forme del realismo, cioè tutte le filosofie che abbandonano la coscienza e assumono come dato uno dei suoi risultati -, non vedono che il vero difetto dell’idealismo consiste appunto nell’assumere come dato l’universo determinato della scienza, che questo rimprovero si applica a fortiori al pensiero psicologico, giacché esso colloca la coscienza percettiva in mezzo a un mondo bell’e fatto, e infine che la critica dell’ipotesi di costanza, se è condotta fino in fondo, assume il valore di una autentica «riduzione fenomenologica».41 La Gestalttheorie ha si dimostrato che i pretesi segni della distanza la grandezza apparente dell’oggetto, il numero di oggetti interposti fra quello e noi, la disparazione delle immagini retiniche, il grado di accomodazione e di convergenza - non sono espressamente conosciuti se non in una percezione analitica o riflessiva che si distoglie dall’oggetto e si dirige sul suo modo di presentazione, e che quindi noi non passiamo attraverso questi intermediari per conoscere la distanza. Solamente, essa ne conclude che, non essendo segni o ragioni nella nostra percezione della distanza, le impressioni corporee o gli oggetti interposti del campo non possono essere che cause di questa percezione.42 Si ritorna cosi a una psicologia esplicativa di cui la Gestalttheorie non ha mai abbandonato l’ideale,43 poiché, come psicologia, non ha mai rotto con il naturalismo. Ma, nello stesso tempo, essa diviene infedele alle proprie descrizioni. Un soggetto i cui muscoli oculo-motori siano paralizzati vede gli oggetti spostarsi verso sinistra quando crede di volgere egli stesso gli occhi verso sinistra. Il fatto è, dice la psicologia classica, che la percezione ragiona: il soggetto pensa che l’occhio giri verso sinistra e, poiché tuttavia le immagini retiniche non si sono mosse, per mantenerle al loro posto nell’occhio è necessario che il paesaggio sia scivolato verso sinistra. La Gestalttheorie dimostra che la percezione della posizione degli oggetti non passa


per una coscienza espressa del corpo: in nessun momento io so che le immagini sono rimaste immobili sulla retina, ma vedo direttamente il paesaggio spostarsi verso sinistra. La mia coscienza non si limita a ricevere bell’e fatto un fenomeno illusorio che cause fisiologiche genererebbero fuori di essa. Affinché si produca l’illusione, è necessario che il soggetto abbia avuto l’intenzione di guardare verso sinistra e che abbia pensato di muovere l’occhio. L’illusione circa il corpo proprio comporta l’apparenza del movimento nell’oggetto. I movimenti del corpo proprio sono naturalmente investiti di un certo significato percettivo, formano con i fenomeni esterni un sistema così ben collegato che la percezione esterna «tiene conto» dello spostamento degli organi percettivi, trova in essi, se non la spiegazione espressa, per lo meno il motivo dei mutamenti intervenuti nello spettacolo, e può cosi comprenderli subito. Quando io ho l’intenzione di guardare verso sinistra, questo movimento dello sguardo porta in sé, come sua traduzione naturale, una oscillazione del campo visivo: gli oggetti restano al loro posto, ma dopo aver vibrato per un istante. Questa conseguenza non è appresa, ma fa parte dei montaggi naturali del soggetto psico-fisico, è, come vedremo, un annesso del nostro «schema corporeo», è il significato immanente di uno spostamento dello «sguardo». Quando essa viene a mancare, quando abbiamo coscienza di muovere gli occhi senza che lo spettacolo ne risenta, questo fenomeno si manifesta, senza alcuna deduzione espressa, con lo spostamento apparente dell’oggetto verso sinistra. Lo sguardo e il paesaggio rimangono come incollati l’uno all’altro, nessun sussulto li dissocia, e nel suo spostamento illusorio lo sguardo trascina con sé il paesaggio: tutto sommato, lo scivolamento del paesaggio non è altro che la sua fissità in fondo a uno sguardo che si crede in movimento. Pertanto, l’immobilità dell’immagine sulla retina e la paralisi dei muscoli oculo-motori non sono cause oggettive che determinerebbero l’illusione e l’apporterebbero bell’e fatta nella coscienza, cosi come l’intenzione di muovere l’occhio e la docilità del paesaggio a questo movimento non sono premesse o ragioni dell’illusione, ma ne sono i motivi. Parimenti, gli oggetti interposti fra me e quello che io fisso non sono percepiti per se stessi; nondimeno sono percepiti, e noi non abbiamo alcun motivo per negare a questa percezione marginale una funzione nella visione della distanza, giacché, non appena uno schermo maschera gli oggetti interposti, la distanza apparente si contrae. Gli oggetti che riempiono il campo non agiscono sulla distanza apparente come una causa sul suo effetto. Quando leviamo lo schermo, vediamo nascere la lontananza dagli oggetti interposti. Questo è il linguaggio muto che ci parla la percezione. In questo testo naturale, degli oggetti interposti «vogliono dire» una maggior distanza. Non si tratta però di una delle connessioni che conosce la logica oggettiva, la logica della verità costituita: infatti, non c’è nessuna ragione perché un campanile mi appaia più piccolo e più lontano a partire dal momento in cui io posso vedere meglio nel loro dettaglio i declivi e i campi che mi separano da esso. Non ci sono ragioni, ma c’è un motivo. La Gestalttheorie ci ha appunto fatto prendere coscienza di queste tensioni che, come linee di forza, attraversano il campo visivo e il sistema corpo proprio-mondo e che l’animano di una vita sorda e magica imponendo qua e là torsioni, contrazioni e gonfiamenti. La disparazione delle immagini retiniche, il numero degli oggetti interposti non agiscono né come semplici cause oggettive, che produrrebbero dall’esterno la mia percezione della distanza, né come ragioni che la dimostrerebbero. Essi le sono tacitamente noti sotto forme velate, la giustificano con una logica senza parole. Ma, per esprimere sufficientemente queste relazioni percettive, manca alla Gestalttheorie un rinnovamento delle categorie: essa ne ha ammesso il principio, lo ha applicato ad alcuni casi particolari, ma non si avvede che se si vogliono tradurre esattamente i fenomeni è necessaria tutta una riforma dell’intelletto e che, per realizzarla, si deve rimettere in questione il pensiero oggettivo della logica e della filosofia classiche, sospendere le categorie del mondo, mettere in dubbio, nel senso cartesiano, le pretese evidenze del realismo e


procedere a una autentica «riduzione fenomenologica1». Il pensiero oggettivo, quello che si applica all’universo e non ai fenomeni, non conosce se non nozioni alternative; sulla base dell’esperienza effettiva esso definisce concetti puri che si escludono: il concetto di estensione, che è quello di una esteriorità assoluta delle parti, e il concetto di pensiero, che è quello di un essere raccolto in se stesso, il concetto di segno vocale come fenomeno fisico arbitrariamente legato a certi pensieri e quello di significato come pensiero interamente chiaro per sé, il concetto di causa come determinante esterno del suo effetto e quello di ragione come legge di costituzione intrinseca del fenomeno. Orbene, come abbiamo visto, la percezione del corpo proprio e la percezione esterna ci offrono l’esempio di una coscienza non-tetica, cioè di una coscienza che non possiede la piena determinazione dei suoi oggetti, quello di una logica vissuta che non rende conto di se stessa e quello di un significato immanente che non è chiaro per sé e non si conosce se non grazie all’esperienza di certi segni naturali. Per il pensiero oggettivo questi fenomeni non sono assimilabili: ecco perché la Gestalttheorie, che, come ogni psicologia, è prigioniera delle «evidenze» della scienza e del mondo, può scegliere unicamente fra la ragione e la causa; ecco perché, nelle sue mani, ogni critica dell’intellettualismo mette capo a una restaurazione del realismo e del pensiero causale. Il concetto fenomenologico di motivazione è invece uno di quei concetti «fluenti»44 che, se si vuole ritornare ai fenomeni, è necessario formare. Un fenomeno ne fa sorgere un altro, non per un’efficacia oggettiva, come quella che collega gli avvenimenti della natura, ma per il senso che offre -, c’è una ragion d’essere che orienta il flusso dei fenomeni senza essere esplicitamente posta in nessuno di essi, una specie di ragione operante. È cosi che l’intenzione di guardare verso sinistra e l’aderenza del paesaggio allo sguardo motivano l’illusione di un movimento nell’oggetto. A mano a mano che il fenomeno motivato si realizza, appare la sua relazione interna con il fenomeno motivante e, anziché succedergli solamente, esso lo esplicita e lo fa comprendere, cosicché sembra essere preesistito al proprio motivo. In tal modo l’oggetto a distanza e la sua proiezione fisica sulle retine spiegano la disparazione delle immagini e, grazie a una illusione retrospettiva, parliamo con Malebranche di una geometria naturale della percezione, poniamo anticipatamente nella percezione una scienza che è costruita su di essa e perdiamo di vista il rapporto originale di motivazione, in cui la distanza sorge prima di ogni scienza, non da un giudizio sulle «due immagini» - poiché esse non sono numericamente distinte -, ma dal fenomeno del «mosso», dalle forze che abitano questo abbozzo, che cercano l’equilibrio e che conducono questo abbozzo alla maggior determinazione. Per una dottrina cartesiana tali descrizioni non avranno mai un’importanza filosofica. Le si tratterà come allusioni all’irriflesso che, per principio, non possono mai divenire degli enunciati e, come ogni psicologia, sono senza verità di fronte all’intelletto. Per render loro giustizia occorrerebbe dimostrare che in nessun caso la coscienza può cessare del tutto di essere ciò che essa è nella percezione, cioè un fatto, né prendere interamente possesso delle sue operazioni. Pertanto, il riconoscimento dei fenomeni implica infine una teoria della riflessione e un nuovo cogito.45


Note

1 Il

Méditotion, AT, IX, p. 25.

2 Alain,

Système des Beaux-Arts, p. 343.

3 Cassirer, 4

J. Stein, Über die Veränderungen der Sinnesleistungen und die Entstehung von Trugwahrnehmungen, pp. 362 e 383

5 E.

Rubin, Die Nichtexistenz der Aufmerksamkeit.

6 Cfr.,

per esempio, Peters, Zur Entwicklung der Farbenwahrnebmung, pp. 152-153.

7 Ibidem,

p. 16.

8 Koehler, 9 Koffka, 10

Philosophie der symbolischen Formen, t. III, Phänomenologie der Erkenntnis, p. 200.

Über unbemerkte Empfindungen..., p. 52.

Perception, pp. 561 sgg.

E. Stein, Beiträge zur philosophischen Geisteswissenschaften, pp. 35 sgg.

11 Valéry, 12 Come

Begrundung

der

Psychologie

und

der

Introduction à la poétique, p. 40.

fa Alain, op. cit., p. 343.

13

Nelle pagine seguenti si vedrà meglio in che cosa la filosofia kantiana è, per esprimerci come Husserl, una filosofia «mondana» e dogmatica. Cfr. Fink, Die phänomenologische Philosophie Husserls in der gegenwärtigen Kritik, pp. 531 sgg.

14

«Perché si avvicinassero all’effettiva esperienza naturale, la Natura di Hume necessitava di una ragione kantiana ... e l’uomo di Hobbes necessitava di una ragione pratica kantiana.» Scheler, Der Formalismus in der Ethik, p. 62.

15 Cfr. 16

Husserl, Erfahrung und Urteil, per esempio p. 172.

Cartesio, II Méditation: «...non manco di dire che veggo degli uomini, proprio come dico di vedere della cera. E, tuttavia, che veggo io da questa finestra se non dei cappelli e dei mantelli, che possono coprire degli spettri e degli uomini finti che non si muovono se non per mezzo di molle? Ma io giudico che sono veri uomini...». AT, IX, p. 25 ( Meditazioni filosofiche, trad. it. di A. Tilgher, Bari, Laterza, 1949, p. 84.)


17

«Anche qui, il rilievo sembra saltare agli occhi; esso è però dedotto da un’apparenza che non somiglia affatto a un rilievo, cioè da una differenza fra le apparenze delle medesime cose per ognuno dei nostri occhi.» Alain, Quatre-vingt-un chapitres sur l’esprit et les passions , p. 19. Del resto, Alain (ibidem p. 17) rinvia all’Ottica fisiologica di Helmholtz in cui è sempre sottintesa l’ipotesi di costanza e in cui il giudizio non interviene se non per colmare le lacune della spiegazione fisiologica. Cfr. anche ibidem, p. 23: «Per quanto riguarda questo orizzonte di foreste, è abbastanza evidente che la vista ce lo presenta non già lontano ma azzurrognolo, e ciò per l’interposizione di strati d’aria.» Questo è ovvio se la definizione della visione è fondata sul suo stimolo corporeo o sul possesso di una qualità: infatti, in tal caso essa può darci l’azzurro e non la distanza, die è un rapporto. Ma non è propriamente evidente, ossia attestato dalla coscienza. La coscienza si stupisce appunto di scoprire nella percezione della distanza delle relazioni che precedono ogni valutazione, ogni calcolo, ogni conclusione.

18

«Che io qui giudichi lo dimostra il fatto che i pittori sanno darmi questa percezione di una montagna lontana imitando le apparenze su una tela.» Alain, ibidem, p. 14.

19

«In quanto abbiamo due occhi, noi vediamo doppi gli oggetti; tuttavia, non prestiamo attenzione a queste immagini doppie se non per ricavarne conoscenze circa la distanza o il rilievo dell’oggetto unico che percepiamo per mezzo loro.» Lagneau, Célèbres leçons, p. 105. E in generale: «Si deve dapprima cercare quali sono le sensazioni elementari che appartengono alla natura dello spirito umano; il corpo umano d rappresenta questa natura.» (Ibidem p. 75.) - «Ho conosciuto qualcuno» dice Alain «che non voleva ammettere che, di ogni cosa, i nostri occhi d presentano due immagini; eppure, basta fissare gli occhi su un oggetto abbastanza vicino, per esempio una matita, perché le immagini degli oggetti lontani si sdoppino immediatamente.» (Op. cit., pp. 23-24.) Ciò non prova che esse fossero doppie anche prima. Emerge qui il pregiudizio della legge di costanza, il quale esige che i fenomeni corrispondenti alle impressioni corporee siano dati anche là ove non li si constata

20

«La percezione è una interpretazione dell’intuizione primitiva, interpretazione in apparenza immediata, ma in realtà acquisita per mezzo dell’abitudine, corretta dal ragionamento...». Lagneau, op. cit., p. 158.

21 Ibidem, 22

p. 160.

Cfr., per esempio, Alain, op. cit., p. 15: il rilievo è «pensato, dedotto, giudicato o come si vorrà dire».

23 Alain,

op. cit., p. 18.

24 Lagneau, 25 Alain,

op. cit.,pp. 132 e 128.

op. cit., p. 32.

26 Montaigne,

citato da Alain, Système des Beaux-Arts, p. 15.


27 Cfr.,

per esempio, Lagneau, op. cit., p. 134.

28 Koehler, 29

Cfr. Koffka, Psychologie, p. 533: «Si è tentati di dire: il lato di un rettangolo è pur sempre una linea. - Ma, come fenomeno e anche come elemento funzionale, una linea isolata è qualcosa di diverso dal lato di un rettangolo. Per limitarci a una proprietà, il lato di un rettangolo ha una faccia interna e una esterna, mentre la linea isolata ha due facce assolutamente equivalenti.»

30 «A 31

Über unbemerkte Empfindungen unteilstäuschungen p. 69.

dire il vero, l’impressione pura è concepita e non sentita.» Lagneau, op. cit., p. 119

Quando, attraverso la conoscenza scientifica e la riflessione, abbiamo acquisito questa nozione, ci sembra die quello che è l’effetto ultimo della conoscenza, e cioè che essa esprime il rapporto di un essere con gli altri, ne è in realtà l’inizio; ma si tratta qui di un’illusione. Questa idea del tempo, in virtù della quale noi d rappresentiamo l’anteriorità della sensazione in rapporto alla conoscenza, è una costruzione dello spirito.» Ibidem.

32 Husserl,

Erfahrung und Urteil, per esempio p. 331.

33

«... osservavo che i giudizi che ero solito fare di questi oggetti si formavano in me prima che avessi l’agio di ponderare e considerare delle ragioni che mi potessero obbligare a farli.» VI Méditation, AT, IX, p. 60 (trad. it., p. 144.)

34

«... mi sembrava di avere appreso dalla natura tutte le altre cose che giudicavo riguardo agli oggetti dei miei sensi...» Ibidem.

35

«... non sembrandomi che lo spirito umano sia capace di concepire in modo ben chiaro e nel medesimo tempo la distinzione fra l’anima e il corpo e la loro unione, giacché, per farlo, è necessario concepirli come una sola cosa e insieme concepirli come due, dò che si contraddice.» A Elisabetta, 28 giugno 1643. AT, III, pp. 690 sgg.

36 Ibidem. 37

(La facoltà di giudicare) «deve fornire da sé un concetto col quale veramente nessuna cosa sia conosciuta, ma che serva di regola soltanto ad esso giudizio: non però come regola oggettiva, alla quale essa facoltà possa adattare il suo giudizio, perché allora sarebbe necessaria un’altra facoltà di giudizio per decidere se sia o no il caso in cui la regola si applica.» (Kant, Critica del Giudizio, trad. it di A. Gargiulo, Bari, Laterza, 1960, pp. 5-6.)

38 III

Méditation, AT, IX, p. 28.

39 Come 40

2+3=5. Ibidem.

Secondo la sua linea propria l’analisi riflessiva non d fa ritornare alla soggettività autentica; essa d nasconde il ganglio vitale della coscienza percettiva, in quanto ricerca le condizioni di


possibilità dell’essere assolutamente determinato e si lascia tentare dalla pseudo-evidenza della teologia che il nulla non è niente. Tuttavia, i filosofi che l’hanno praticata hanno sempre sentito che c’era da cercare al di sotto della coscienza assoluta. L’abbiamo visto a proposito di Cartesio. Sarebbe possibile dimostrarlo con altrettanta pertinenza a proposito di Lagneau e di Alain. Una volta condotta a termine, l’analisi riflessiva non dovrebbe più lasciar sussistere, dalla parte del soggetto, se non un naturante universale per il quale esiste il sistema dell’esperienza, ivi compresi il mio corpo e il mio io empirico, collegati al mondo dalle leggi della fisica e della psicofisiologia. La sensazione che noi costruiamo come il prolungamento «psichico» degli eccitamenti sensoriali non appartiene evidentemente al naturante universale e ogni idea di una genesi dello spirito è una idea bastarda, in quanto ricolloca nel tempo lo spirito per il quale il tempo esiste, in quanto confonde i due Io. Tuttavia, se noi siamo questo spirito assoluto, senza storia, e se nulla d separa dal mondo vero, se l’io empirico è costituito dall’io trascendentale e se è dispiegato davanti a esso. dovremmo scoprirne l’opacità, non si vede come sia possibile Terrore, e tanto meno l’illusione, ossia la «percezione anormale» che nessun sapere può far scomparire (Lagneau, op. cit., pp. 161-162). Si può ben dire (ibidem) che l’illusione e l’intera percezione sono al di qua della verità come dell’errore. Ma dò non d aiuta a risolvere il problema, giacché si tratta allora di sapere come uno spirito può essere al di qua della verità e dell’errore. Quando sentiamo, noi non appercepiamo la nostra sensazione come un oggetto costituito in una rete di relazioni psicofisiologiche. Non abbiamo la verità della sensazione. Non siamo di fronte al mondo vero. «È la stessa cosa dire che noi siamo individui e dire che in questi individui c’è una natura sensibile in cui qualcosa non risulta dall’azione dell’ambiente. Se nella natura sensibile tutto soggiacesse alla necessità, se per noi d fosse una maniera di sentire che si identificasse con quella vera, se in ogni istante la nostra maniera di sentire risultasse dal mondo esterno, allora noi non sentiremmo.» (ibidem, p. 164.) Cosi, il sentire non appartiene all’ordine del costituito, non è dispiegato di fronte all’Io, ma sfugge al suo sguardo, è come raccolto dietro di esso, vi forma una sorta di spessore o di opacità che rende possibile Terrore, delimita una zona di soggettività o di solitudine, d rappresenta dò che è «prima» dello spirito, ne evoca la nascita e sollecita una analisi più profonda che farebbe luce sulla «genealogia della logica». Lo spirito ha coscienza di sé come «fondato» su questa Natura. C’è dunque una dialettica del naturato e del naturante, della percezione e del giudizio, nel corso della quale il loro rapporto si capovolge. Lo stesso movimento si trova nell’analisi della percezione di Alain. È noto che un albero mi appare sempre più grande di un uomo, anche se l’albero è lontanissimo da me e l’uomo assai vicino. Io sono tentato di dire die «Anche qui, è un giudizio a ingrandire l’oggetto. Ma esaminiamo piu attentamente la questione. Non avendo in se stesso alcuna grandezza, l’oggetto non è mutato; la grandezza è sempre confrontata, e pertanto la grandezza di questi due oggetti e di tutti gli oggetti forma un tutto indivisibile e realmente senza parti; le grandezze sono giudicate insieme. Ragion per cui non bisogna confondere le cose materiali, sempre separate e formate di parti esteriori l’una all’altra, e il pensiero di queste cose, nel quale non può essere ammessa nessuna divisione. Per quanto oscura sia ora questa distinzione e per quanto difficile essa rimanga sempre da pensare, prendetela com’è. In un certo senso, e considerate come materiali, le cose sono divise in parti, e l’una non è l’altra; mentre in un altro senso, e considerate come pensieri, le percezioni delle cose sono indivisibili e senza parti.» (Quatre-vingt-un chapitres sur l’esprit et les passions , p. 18.) Ma allora una ispezione dello spirito che le percorresse e le determinasse l’una in funzione dell’altra non sarebbe la vera soggettività e dovrebbe ancora troppo alle cose considerate come in sé. La percezione non deduce la grandezza dell’albero da quella dell’uomo o viceversa, non deduce né


l’una né l’altra dal senso di questi due oggetti, ma costituisce tutto in una volta: la grandezza dell’albero, quella dell’uomo, e il loro significato di albero e di uomo; di modo che ogni elemento si accorda con tutti gli altri e compone con essi un paesaggio in cui tutti coesistono. Si entra cosi nell’analisi di dò che rende possibile la grandezza e, più in generale, le relazioni o le proprietà dell’ordine predicativo, si entra in quella soggettività «precedente ogni geometria» che nondimeno Alain dichiarava inconoscibile. Il fatto è che l’analisi riflessiva diviene più strettamente cosciente di se stessa come analisi. Essa si accorge di aver abbandonato il proprio oggetto, la percezione. Dietro il giudizio che aveva messo in evidenza, riconosce una funzione più profonda che lo rende possibile; ritrova, al di là delle cose, i fenomeni. È a questa descrizione che gli psicologi si riferiscono quando parlano di una Gestaltung del paesaggio. Essi richiamano il filosofo alla descrizione dei fenomeni, separandoli rigorosamente dal mondo oggettivo costituito, in termini che sono molto vicini a quelli di Alain. 41 Cfr. 42

A. Gurwitsch, Recensione del Nachwort zu meiner Ideen di Husserl, pp. 401 sgg.

Cfr., per esempio, P. Guillaume, Traité de psychologie, cap. IX, La perception de l’espace, p. 151.

43 Cfr.

La structure du comportement, p. 178.

44

Fliessende, in Husserl, Erfahrung und Urteill, p. 428. È nel suo ultimo periodo che lo stesso Husserl ha preso pienamente coscienza di cosa significasse il ritorno ai fenomeni e tacitamente rotto con la filosofìa delle essenze. In questo modo egli non faceva altro che esplicitare e tematizzare dei procedimenti di analisi che egli stesso andava applicando da molto tempo: è quanto dimostra appunto il concetto di motivazione, anteriore alle Ideen.

45

Cfr. la terza parte del presente volume. La psicologia della forma ha praticato un genere di riflessione di cui la fenomenologia husserliana fornisce la teoria. È forse un errore trovare tutta una filosofia implicita nella critica della «ipotesi di costanza»? Quantunque non sia questo il luogo per una esposizione storica, vai la pena di ricordare che la parentela fra la Gestalttheorie e la fenomenologia è attestata anche da indizi esteriori. Non è un caso se il compito che Koehler affida alla psicologia consiste in ima «descrizione fenomenologica» (Über unbemerkte Empfindungen und Urteilstäuschungen, p. 70), se Koffka, già allievo di Husserl, riferisce a questa influenza le idee direttrici della sua psicologia e cerca di dimostrare che la critica dello psicologismo non tocca la Gestalttheorie (Principles of Gestalt Psychology, pp. 614-683), dal momento che la Gestalt non è un evento psichico paragonabile all’impressione, ma un insieme che sviluppa una legge di costituzione interna. Parimenti, non è un caso se Husserl, nel suo ultimo periodo, sempre più lontano dal logicismo (che del resto egli aveva criticato insieme allo psicologismo), riprende il concetto di «configurazione» e anche di Gestalt (cfr. Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, I). Vero è che, nella Gestalttheorie, la reazione contro il naturalismo e contro il pensiero causale non è né conseguente né radicale, come dimostra il realismo ingenuo della sua teoria della conoscenza (cfr. La structure du comportement, p. 180). La Gestalttheorie non vede che l’atomismo psicologico è solamente un caso particolare di un pregiudizio piu generale: il pregiudizio dell’essere determinato o del mondo; per questo motivo essa dimentica le sue descrizioni più valide quando cerca di darsi


un’ossatura teorica. La Gestalttheorie è priva di difetti solo nelle regioni medie della riflessione. Ma, quando vuol riflettere sulle sue proprie analisi, essa tratta la coscienza come un aggregato di «forme», contravvenendo cosi ai suoi principi. Ciò basta a giustificare le critiche che Husserl ha rivolto espressamente alla Teoria della Forma, come a ogni psicologia (Nachwort zu meinen Ideen, pp. 564 sgg.), in un periodo in cui contrapponeva ancora il fatto e l’essenza, in cui non aveva, ancora acquisito l’idea di una costituzione storica e in cui, di conseguenza, sottolineava la cesura fra psicologia e fenomenologia piuttosto che il loro parallelismo. Altrove (La structure du comportement, p. 280) abbiamo citato un testo di E. Fink che ristabilisce l’equilibrio. - Quanto al problema di fondo, ossia quello dell’atteggiamento trascendentale di fronte all’atteggiamento naturale, basti dire die esso potrà essere risolto solo nell’ultima parte, in cui si esaminerà il significato trascendentale del tempo.


IV. Il campo fenomenico

Risulta ora chiaro in quale direzione si svolgerà la ricerca nei capitoli seguenti. Per noi il «sentire» è divenuto di nuovo un problema. L’empirismo l’aveva svuotato di ogni mistero riconducendolo al possesso di ima qualità e aveva potuto fare ciò solo allontanandosi considerevolmente dall’accezione ordinaria. Fra sentire e conoscere l’esperienza comune stabilisce una differenza che non è quella tra la qualità e il concetto. Questa ricca nozione del sentire si trova ancora nell’uso romantico e, per esempio, in Herder. Essa indica un’esperienza nella quale non ci sono date delle qualità «morte», ma delle proprietà attive. Per la visione una ruota di legno posta per terra non equivale a una ruota che porta un peso. Un corpo in riposo, in quanto nessuna forza si esercita su di esso, non equivale, per la visione, a un corpo in cui forze contrarie si equilibrano.1 La luce di una candela muta aspetto per il fanciullo quando, dopo una scottatura, cessa di attirare la sua mano e diviene, alla lettera, repellente.2 La visione è già abitata da un senso che le assegna una funzione nello spettacolo del mondo cosi come nella nostra esistenza. Il puro quale ci sarebbe dato solo se il mondo fosse imo spettacolo e il corpo proprio un meccanismo di cui uno spirito imparziale prenderebbe conoscenza.3 Per contro, il sentire investe la qualità di un valore vitale, la coglie anzitutto nel suo significato per noi, per quella massa pesante che è il nostro corpo, e per tale motivo comporta sempre un riferimento al corpo. Si tratta allora di comprendere queste relazioni singolari che si tessono fra le parti del paesaggio o tra quest’ultimo e me come soggetto incarnato e grazie alle quali un oggetto percepito può concentrare in se stesso un’intera scena o divenire l’imago di tutto un segmento di vita. Il sentire è quella comunicazione vitale con il mondo che ce lo rende presente come luogo familiare della nostra vita. L’oggetto percepito e il soggetto percipiente devono il loro spessore al sentire. Esso è il tessuto intenzionale che lo sforzo di conoscenza cercherà di scomporre. - Con il problema del sentire riscopriamo quello dell’associazione e della passività. Queste ultime hanno cessato di rappresentare un problema poiché le filosofie classiche si ponevano al di sotto o al di sopra di esse e attribuivano loro o tutto o nulla: ora l’associazione era estesa come una semplice coesistenza di fatto, ora era derivata da una costruzione intellettuale; ora la passività era trasferita dal mondo delle cose a quello dello spirito, ora l’analisi riflessiva ritrovava in essa una attività intellettiva. Tali concetti assumono invece il loro senso pieno se si distingue il sentire dalla qualità: allora l’associazione o meglio la «affinità» nel senso kantiano è il fenomeno centrale della vita percettiva, essendo la costituzione, senza modello ideale, di un insieme significativo; la distinzione fra la vita percettiva e il concetto, fra la passività e la spontaneità non è più dissolta dall’analisi riflessiva, poiché l’atomismo della sensazione non ci costringe più a cercare in una attività di collegamento il principio di ogni coordinazione. - Infine, dopo il sentire, anche l’intelletto necessita di una nuova definizione, giacché la funzione generale di collegamento che il kantismo gli attribuisce è ora comune a tutta la vita intenzionale e quindi non è più sufficiente a contrassegnarlo. Noi cercheremo di far vedere nella percezione rinfrastruttura istintiva e in pari tempo le sovrastrutture che si stabiliscono su di essa tramite l’esercizio dell’intelligenza. Girne dice Cassirer, mutilando la percezione dall’alto l’empirismo la mutilava anche dal basso:4 l’impressione è altrettanto priva di senso istintivo e affettivo che di significato ideale. Si potrebbe aggiungere che mutilare la percezione dal basso, trattarla immediatamente come una conoscenza e dimenticarne il contenuto esistenziale è mutilarla dall’alto, poiché ciò equivale a ritenere scontato e passare sotto silenzio il momento


decisivo della percezione: lo scaturire di un mondo vero ed esatto. La riflessione sarà certa di aver trovato il centro del fenomeno se sarà egualmente capace di illuminarne l’inerenza vitale e l’intenzione razionale. Pertanto, la «sensazione» e il «giudizio» hanno perduto entrambi la loro chiarezza apparente: d siamo accorti che essi erano chiari solo mediante il pregiudizio del mondo. Non appena, per mezzo loro, cercavamo di rappresentarci la coscienza nell’atto di percepire e tentavamo di definirli come momenti della percezione, di risvegliare l’esperienza percettiva dimenticata e di confrontarli con essa, li trovavamo impensabili. Sviluppando queste difficoltà, d riferivamo implicitamente a un nuovo genere di analisi, a una nuova dimensione in cui esse dovevano dissolversi. La critica dell’ipotesi di costanza e più in generale la riduzione dell’idea di «mondo» aprivano un campo fenomenico che ora dobbiamo circoscrivere meglio, e d invitavano a ritrovare un’esperienza diretta che va situata, almeno provvisoriamente, in rapporto al sapere scientifico, alla riflessione psicologica e alla riflessione filosofica. Per secoli la scienza e la filosofia sono state sorrette dalla fede originaria della percezione. La percezione sbocca su cose. Ciò significa che essa si orienta verso una verità in sé, in cui si trova la ragione di tutte le apparenze, come verso il proprio fine. La tesi tacita della percezione è che in ogni istante l’esperienza può essere coordinata con quella dell’istante precedente e con quella dell’istante seguente, la mia prospettiva con quelle delle altre coscienze, - che tutte le contraddizioni possono essere rimosse, che l’esperienza monadica e intersoggettiva è un solo testo senza lacune - e infine che dò che, ora, per me, è indeterminato, diverrebbe determinato per una coscienza più completa che è come realizzata anticipatamente nella cosa o meglio che è la cosa stessa. Dapprima la scienza non è stata che il seguito o l’amplificazione del movimento costitutivo delle cose percepite. Come la cosa è l’invariante di tutti i campi sensoriali e di tutti i campi percettivi individuali, cosi il concetto scientifico è il mezzo per fissare e oggettivare i fenomeni. La scienza definiva uno stato teorico dei corpi che non soggiacciono all’azione di nessuna forza, e con dò stesso definiva la forza e ricostituiva, per mezzo di queste componenti ideali, i movimenti effettivamente osservati. Essa stabiliva statisticamente le proprietà chimiche dei corpi puri, ne deduceva quelle dei corpi empirici e sembrava cosi possedere il piano stesso della creazione o comunque ritrovare una ragione immanente al mondo. La nozione di uno spazio geometrico, indifferente ai suoi contenuti, quella di uno spostamento puro, che di per se stesso non altera le proprietà dell’oggetto, fornivano ai fenomeni un contesto di esistenza inerte in cui ogni evento poteva essere collegato a condizioni fisiche responsabili dei mutamenti intervenuti, e contribuivano quindi a quella fissazione dell’essere che sembrava costituire il compito della fisica. Sviluppando cosi il concetto di cosa, il sapere scientifico non aveva coscienza di lavorare su un presupposto. Appunto perché nelle sue implicazioni vitali e prima di ogni pensiero teorico la percezione si dà come percezione di un essere, la riflessione non credeva di dover fare una genealogia dell’essere e si accontentava di ricercare le condizioni che lo rendono possibile. Anche se si teneva conto delle trasformazioni della coscienza determinante, 5 anche se si ammetteva che la costituzione dell’oggetto non è mai compiuta, non c’era nulla da dire dell’oggetto se non ciò che ne dice la scienza, l’oggetto naturale restava per noi una unità ideale e, secondo la celebre espressione di Lachelier, un intreccio di proprietà generali. Per quanto si contestasse ai principi della scienza ogni valore ontologico e si lasciasse a essi solo un valore metodico,6 questa riserva lasciava sostanzialmente immutata la filosofia, poiché l’unico essere pensabile rimaneva definito dai metodi della scienza. In queste condizioni il corpo vivente non poteva sfuggire alle determinazioni che erano le sole a fare dell’oggetto un oggetto e senza le quali esso non avrebbe avuto posto nel sistema dell’esperienza. I predicati di valore che il giudizio


riflettente gli conferisce dovevano venire portati nell’essere da un primo sostrato di proprietà fisicochimiche. L’esperienza comune trova una convenienza e un rapporto di senso fra il gesto, il sorriso, l’accento di un uomo che parla. Ma questa relazione d’espressione reciproca, che fa apparire il corpo umano come la manifestazione esterna di una certa maniera di essere al mondo, per una fisiologia meccanicistica doveva risolversi in una serie di relazioni causali. Occorreva collegare a condizioni centripete il fenomeno centrifugo di espressione, ridurre a processi in terza persona quella maniera particolare di trattare il mondo che è un comportamento, livellare l’esperienza all’altezza della natura fisica e convertire il corpo vivente in una cosa senza interiorità. Le prese di posizione affettive e pratiche del soggetto vivente di fronte al mondo erano quindi riassorbite in un meccanismo psicofisiologico. Ogni valutazione doveva risultare da una trasposizione grazie alla quale situazioni complesse divenivano capaci di risvegliare le impressioni elementari di piacere e di dolore, a loro volta strettamente legate ad apparati nervosi. Le intenzioni motrici del vivente erano convertite in movimenti oggettivi: non si dava alla volontà se non un fiat istantaneo, l’esecuzione dell’atto era interamente attribuita alla meccanica nervosa. Cosi distaccato dall’affettività e dalla motilità, il sentire diveniva la semplice recezione di una qualità e la fisiologia credeva di poter seguire, dai recettori sino ai centri nervosi, la proiezione del mondo esterno nel vivente. Il corpo vivente, trasformato in questo modo, cessava di essere il mio corpo, l’espressione visibile di un Ego concreto, per divenire un oggetto fra gli altri. Correlativamente, il corpo dell’altro non poteva apparirmi come l’involucro di un altro Ego. Non era più che una macchina, e la percezione dell’altro non poteva essere veramente percezione dell’altro perché risultava da una inferenza: pertanto, dietro all’automa essa poneva solo una coscienza in generale, causa trascendente e non abitante dei suoi movimenti. Non avevamo più quindi una costellazione di Io coesistenti in un mondo. Tutto il contenuto concreto degli «psichismi», risultante, secondo le leggi della psicofisiologia e della psicologia, da un determinismo di universo, si trovava integrato all’in sé. Non rimaneva altro autentico per sé che il pensiero dello scienziato, pensiero che appercepisce questo sistema e che è il solo a cessare di avervi posto. Cosi, mentre il corpo vivente diveniva una esteriorità senza interiorità, la soggettività diveniva una interiorità senza esteriorità, uno spettatore imparziale. Il naturalismo della scienza e lo spiritualismo del soggetto costituente universale, cui metteva capo la riflessione sulla scienza, avevano in comune il livellamento dell’esperienza: di fronte all’Io costituente gli Io empirici sono degli oggetti. L’Io empirico è una nozione bastarda, un misto dell’in sé e del per sé, al quale la filosofia riflessiva non poteva dare uno statuto. In quanto ha un contenuto concreto, esso è inserito nel sistema dell’esperienza e non è quindi soggetto, - in quanto è soggetto, esso è vuoto e si riconduce al soggetto trascendentale. L’idealismo dell’oggetto, l’oggettivazione del corpo vivente, la posizione dello spirito in una dimensione del valore senza misura comune con la natura, ecco la filosofia trasparente alla quale si giungeva continuando il movimento di conoscenza inaugurato dalla percezione. Poiché la scienza non faceva altro che seguire acriticamente l’ideale di conoscenza fissato dalla cosa percepita, si poteva ben dire che la percezione è una scienza ai suoi albori, la scienza una percezione metodica e completa.7 Orbene, questa filosofia si distrugge da sé sotto i nostri occhi. L’oggetto naturale si è eclissato per primo, e la stessa fisica ha riconosciuto i limiti delle sue determinazioni esigendo un rimaneggiamento e una contaminazione dei concetti puri che essa si era data. A sua volta, l’organismo non oppone all’analisi fisico-chimica le difficoltà di fatto di un oggetto complesso, ma la difficoltà di principio di un essere significativo.8 Più in generale, si trova messa in questione l’idea


di un universo di pensiero o di un universo di valori in cui sarebbero confrontate e conciliate tutte le vite pensanti. La natura non è di per sé geometrica, non appare tale se non a un osservatore prudente che si attiene ai dati macroscopici. La società umana non è una comunità di spiriti ragionevoli, si è potuto intenderla cosi solo in quei paesi favoriti in cui l’equilibrio vitale ed economico era stato ottenuto localmente e per un certo tempo. Sul piano speculativo come sull’altro piano, l’esperienza del caos ci invita a vedere il razionalismo in una prospettiva storica alla quale per principio esso pretendeva di sfuggire, a cercare una filosofia che ci faccia comprendere lo scaturire della ragione in un mondo che essa non ha fatto e preparare l’infrastruttura vitale senza la quale ragione e libertà si svuotano e si decompongono. Non diremo più che la percezione è una scienza ai suoi albori, ma viceversa che la scienza classica è una percezione che dimentica le sue origini e si crede compiuta. Il primo atto filosofico consisterebbe quindi nel ritornare al mondo vissuto al di qua del mondo oggettivo - giacché è in esso che potremo comprendere sia il diritto che i limiti del mondo oggettivo , nel restituire alla cosa la sua fisionomia concreta, agli agli organismi il loro modo proprio di trattare il mondo, alla soggettività la sua inerenza storica, nel ritrovare i fenomeni, lo strato di esperienza vivente attraverso cui l’altro e le cose ci sono originariamente dati, il sistema «Io-l’Altrole cose» allo stato nascente, nel risvegliare la percezione e nell’eludere l’astuzia con la quale essa si lascia dimenticare come fatto e come percezione a beneficio dell’oggetto che ci consegna e della tradizione razionale che fonda. Questo campo fenomenico non è un «mondo interiore», il «fenomeno» non è uno «stato di coscienza1» o un «fatto psichico», l’esperienza dei fenomeni non è una introspezione o una intuizione nel senso di Bergson. Per molto tempo si è definito l’oggetto della psicologia dicendo che esso era «inesteso» e «accessibile a uno solo», e ne conseguiva che questo oggetto singolare non poteva essere colto se non da un atto di tipo speciale, la «percezione interiore» o introspezione, in cui il soggetto e l’oggetto erano confusi e la conoscenza ottenuta per coincidenza. Il ritorno ai «dati immediati della coscienza1» diveniva allora una opera zione destinata al fallimento, perché lo sguardo filosofico cercava di es sere ciò che per principio non poteva vedere. La difficoltà non consisteva soltanto nel distruggere il pregiudizio dell’esteriorità, che è l’invito rivolto al principiante da ogni filosofia, o nel descrivere lo spirito in un linguaggio fatto per tradurre le cose. Essa era molto più radicale, poiché l’interiorità, definita dall’impressione, sfuggiva per principio a ogni tentativo di espressione. Non solo la comunicazione agli altri uomini delle intuizioni filosofiche diveniva difficile - o, per essere più precisi, si riduceva a una sorta di incantesimo destinato a indurre in essi esperienze analoghe a quelle del filosofo -, ma il filosofo stesso non poteva rendersi conto di ciò che egli vedeva sull’istante, giacché sarebbe stato necessario pensarlo, cioè fissarlo e deformarlo. L’immediato era quindi una vita solitaria, cieca e muta. Il ritorno al fenomenico non offre nessuna di queste particolarità. La configurazione sensibile di un oggetto o di un gesto, che la critica dell’ipotesi di costanza fa apparire sotto il nostro sguardo, non è colta in una coincidenza ineffabile, ma è «compresa» con una specie di appropriazione che tutti esperiamo quando diciamo che abbiamo «trovato» il coniglio nel fogliame di una vignetta-indovinello, o che abbiamo «afferrato» un movimento. Una volta rimosso il pregiudizio delle sensazioni, un viso, una firma, una condotta cessano di essere semplici «dati visivi» di cui dovremmo cercare il significato psicologico nella nostra esperienza, e lo psichismo dell’altro diviene un oggetto immediato come insieme impregnato di un significato immanente. Più in generale, è il concetto stesso di immediato a venire trasformato: immediato è ormai il senso, la struttura, la disposizione spontanea delle parti, non già l’impressione, l’oggetto che fa tutt’uno con il soggetto. Non diversamente mi è dato il mio proprio «psichismo», poiché la critica dell’ipotesi di costanza mi insegna ancora a riconoscere come dati originari


dell’esperienza interna l’articolazione, l’unità melodica dei miei comportamenti, e mi insegna infine che, ricondotta a ciò che ha di positivo, l’introspezione consiste anch’essa nell’esplicitare il senso immanente di una condotta.9 Cosi, ciò che scopriamo superando il pregiudizio del mondo oggettivo non è un tenebroso . mondo interiore. E questo mondo vissuto non è, come lo era l’interiorità bergsoniana, assolutamente ignorato dalla coscienza ingenua. Operando la critica dell’ipotesi di costanza e svelando i fenomeni, senza dubbio lo psicologo va contro il movimento naturale della conoscenza che attraversa ciecamente le operazioni percettive per andare dritto al loro risultato teleologico. Niente è più difficile che il sapere esattamente quello che noi vediamo. «Vi è nell’intuizione naturale una specie di “criptomeccanismo” che dobbiamo rompere per giungere all’essere fenomenico»,10 o anche una dialettica mediante la quale la percezione si dissimula a se stessa. Ma se l’essenza della coscienza è di dimenticare i propri fenomeni e di rendere cosi possibile la costituzione delle «cose», questo oblio non è una semplice assenza, ma l’assenza di qualcosa che la coscienza potrebbe rendersi presente; in altri termini, la coscienza non può dimenticare i fenomeni se non in quanto può anche ricordarli, non li trascura a beneficio delle cose se non in quanto essi sono la culla delle cose. Per esempio, essi non sono mai assolutamente ignoti alla coscienza scientifica che deriva dalle strutture dell’esperienza vissuta tutti i suoi modelli; semplicemente, tale coscienza non li «tematizza», non esplicita gli orizzonti di coscienza percettiva di cui è circondata e di cui cerca di esprimere oggettivamente i rapporti concreti. L’esperienza dei fenomeni non consiste dunque, come l’intuizione bergsoniana, nell’esperire una realtà ignorata, verso la quale non vi è passaggio metodico, ma nell’esplicitare o nel riportare alla luce la vita prescientifica della coscienza, la quale è la sola a dare il loro senso completo alle operazioni della scienza e alla quale queste operazioni rinviano sempre. Non è una conversione irrazionale, ma una analisi intenzionale. Come appare chiaro, la psicologia fenomenologica si distingue in tutti i suoi caratteri dalla psicologia introspettiva proprio perché ne differisce nel principio. La psicologia introspettiva individuava, in margine al mondo fisico, una zona della coscienza in cui i concetti fisici non valgono più, ma lo psicologo credeva ancora che la coscienza è solo un settore dell’essere e decideva di esplorare questo settore come il fisico esplora il suo. Egli tentava di descrivere i dati della coscienza, ma senza mettere in questione l’esistenza assoluta del mondo attorno a essa. Con lo scienziato e con il senso comune, lo psicologo sottintendeva il mondo oggettivo come cornice logica di tutte le sue descrizioni e contesto del suo pensiero. Ma non si rendeva conto che questo presupposto determinava il senso che egli dava alla parola «essere», lo costringeva a realizzare la coscienza sotto il nome di «fatto psichico», distogliendolo cosi da una vera presa di coscienza o dall’autentico «immediato» e vanificando le precauzioni che egli moltiplicava per non deformare l’«interiore». È quanto accadeva all’empirismo, allorché sostituiva al mondo fisico un mondo di eventi interiori. È quanto accade anche a Bergson nel momento stesso in cui contrappone la «molteplicità di fusione» alla «molteplicità di giustapposizione». Infatti, anche qui si tratta di due generi dell’essere. Si è soltanto sostituita l’energia meccanica con una energia spirituale, l’essere 11

discontinuo dell’empirismo con un essere fluente, ma di cui si dice che esso si sussegue e che si descrive in terza persona. Stabilendo come tema della sua riflessione la Gestalt, lo psicologo rompe con lo psicologismo, poiché il senso, la connessione, la «verità» del percepito non risultano più dall’incontro fortuito delle nostre sensazioni, quali- ci sono date dalla nostra natura psicofisiologica, ma ne determinano i valori spaziali e qualitativi12 e ne sono la configurazione irriducibile. Ciò significa che l’atteggiamento trascendentale è già implicito nelle descrizioni dello psicologo, per poco che siano fedeli. Come oggetto di studio, la coscienza offre la particolarità di non poter essere


analizzata, anche ingenuamente, senza trascinarci al di là dei postulati del senso comune. Se, per esempio, ci si propone di fare una psicologia positiva della percezione, pur ammettendo che la coscienza è chiusa nel corpo e, attraverso di esso, subisce l’azione di un mondo in sé, si è indotti a descrivere l’oggetto e il mondo cosi come appaiono alla coscienza, e con ciò a chiedersi se questo mondo immediatamente presente, il solo che conoscevamo, non è anche il solo di cui conviene parlare. Una psicologia è sempre condotta al problema della costituzione del mondo. Pertanto, una volta cominciata, la riflessione psicologica si supera con il suo proprio movimento. Dopo aver riconosciuto l’originalità dei fenomeni nei confronti del mondo oggettivo - poiché è attraverso i fenomeni che noi conosciamo il mondo oggettivo - la riflessione è condotta a integrare a essi ogni oggetto possibile e a ricercare come quest’ultimo si costituisca attraverso di essi. Contemporaneamente il campo fenomenico diviene campo trascendentale. Essendo ora il fulcro universale delle conoscenze, la coscienza cessa decisamente di essere una regione particolare dell’essere, un certo insieme di contenuti «psichici», non risiede più o non è più relegata nel dominio delle «forme» che la riflessione psicologica aveva dapprima riconosciuto, ma le forme, come tutte le cose, esistono per essa. Non si tratta più di descrivere il mondo vissuto, che essa porta in sé come un dato opaco, ma è necessario costituirlo. L’esplicitazione che aveva messo a nudo il mondo vissuto, al di qua del mondo oggettivo, prosegue nei confronti dello stesso mondo vissuto, e mette a nudo, al di qua del campo fenomenico, il campo trascendentale. Il sistema io-l’altro-il mondo è a sua volta assunto come oggetto di analisi e si tratta ora di risvegliare i pensieri che sono costitutivi dell’altro, di me stesso come soggetto individuale e del mondo come polo della mia percezione. Pertanto, questa nuova «riduzione» non conoscerebbe più se non un solo soggetto autentico, l’Ego meditante. Questo passaggio dal naturato al naturante, dal costituito al costituente concluderebbe la tematizzazione cominciata dalla psicologia e non lascerebbe più nulla di implicito o di sottinteso nel mio sapere. Esso mi farebbe prendere interamente possesso della mia esperienza e realizzerebbe l’adeguazione del riflettente al riflesso. Tale è la prospettiva ordinaria di una filosofia trascendentale, e tale è anche, per lo meno in apparenza, il programma di una fenomenologia trascendentale.13 Orbene, il campo fenomenico, cosi come l’abbiamo scoperto in questo capitolo, contrappone all’esplicita-zione diretta e totale una difficoltà di principio. Lo psicologismo è certo superato, il senso e la struttura del percepito non sono più per noi il semplice risultato degli eventi psicofisiologici, la razionalità non è una fortunata combinazione che farebbe concordare sensazioni disperse, e la Gestalt è riconosciuta come originaria. Ma se la Gestalt può essere espressa con una legge interna, questa legge non deve venir considerata come un modello secondo il quale si realizzerebbero i fenomeni di struttura. La loro apparizione non è il dispiegarsi all’esterno di una ragione preesistente. Se nella nostra percezione la «forma» è privilegiata, non è perché realizzi un certo stato di equilibrio, perché risolva un problema di pregnanza e, nel senso kantiano, renda possibile un mondo: essa è l’apparizione stessa del mondo e non la sua condizione di possibilità, è la nascita di una norma e non si realizza secondo una norma, è l’identità dell’esteriore e dell’interiore, e non la proiezione dell’interiore nell’esteriore. Se dunque non risulta da una circolazione di stati psichici in sé, essa non è nemmeno un’idea. La Gestalt di un circolo non ne è la legge matematica, ma la fisionomia. Il riconoscimento dei fenomeni come ordine originale condanna si l’empirismo in quanto spiegazione dell’ordine e della ragione in base all’incontro dei fatti e ai capricci della natura, ma conserva alla ragione e all’ordine stessi il carattere della fatticità. Qualora una coscienza costituente universale fosse possibile, l’opacità del fatto scomparirebbe. Pertanto, se vogliamo che la riflessione conservi all’oggetto sul quale si dirige i suoi caratteri descrittivi e lo comprenda veramente, non dobbiamo considerarla come il semplice ritorno a una ragione universale, realizzarla


anticipatamente nell’irriflesso, ma dobbiamo considerarla come una operazione creativa che partecipa anch’essa alla fatticità dell’irriflesso. Ecco perché, unica fra tutte le filosofie, la fenomenologia parla di un campo trascendentale. Questo termine significa che la riflessione non ha mai sotto il suo sguardo il mondo intero e la pluralità delle monadi dispiegate e oggettivate, che essa non dispone mai se non di una veduta parziale e di un potere limitato. Ecco perché, inoltre, la fenomenologia è una fenomenologia, cioè studia l’apparizione dell’essere alla coscienza, anziché presupporne la possibilità. È sorprendente vedere che le filosofie trascendentali di tipo classico non si interrogano mai sulla possibilità di effettuare l’esplicitazione totale che esse suppongono sempre fatta in qualche luogo. Per esse è sufficiente che tale esplicitazione sia necessaria, e cosi giudicano di ciò che è in base a ciò che deve essere, in base a ciò che l’idea del sapere esige. Di fatto, l’Ego meditante non può mai sopprimere la sua inerenza a un soggetto individuale che conosce tutte le cose in una prospettiva particolare. La riflessione non può mai far si che io cessi di percepire, in un giorno di nebbia, il sole a duecento passi, di vedere il sole «levarsi» e «declinare», di pensare con gli strumenti culturali che la mia educazione, i miei sforzi precedenti e la mia storia mi hanno preparato. Pertanto, io non raggiungo mai effettivamente, non risveglio mai nello stesso tempo tutti i pensieri originali che contribuiscono alla mia percezione o alla mia convinzione presente. Tutto sommato, una filosofia come il criticismo non dà importanza a questa resistenza della passività, quasi non fosse necessario divenire il soggetto trascendentale per avere il diritto di affermarla. Essa sottintende quindi che il pensiero filosofico non è assoggettato a nessuna situazione. Partendo dallo spettacolo del mondo, che è quello di una natura aperta a una pluralità di soggetti pensanti, essa ricerca la condizione che rende possibile questo mondo unico offerto a più io empirici e la trova in un Io trascendentale al quale essi partecipano senza dividerlo, poiché tale Io non è un Essere, ma una Unità o un Valore. Ecco perché il problema della conoscenza dell’altro non è mai posto nella filosofia kantiana: l’Io trascendentale di cui essa parla è tanto quello altrui quanto il mio, l’analisi si è posta immediatamente fuori di me, deve solo portare alla luce le condizioni generali che rendono possibile un mondo per un Io (che si identifica tanto con me stesso quanto con l’altro) e non incontra mai la domanda: chi medita? Per contro, proprio perché vuole effettuare una presa di coscienza più radicale, la filosofia contemporanea assume il fatto come tema principale e per essa l’altro diviene un problema. La riflessione non può essere piena, non può essere una delucidazione totale del suo oggetto, se, mentre prende coscienza dei suoi risultati, non prende coscienza di se stessa. Dobbiamo non solo insediarci in un atteggiamento riflessivo, in un Cogito inattaccabile, ma anche riflettere su questa riflessione, comprendere la situazione naturale alla quale esso ha coscienza di succedere e che dunque fa parte della sua definizione; dobbiamo non solo praticare la filosofia, ma anche renderci conto della trasformazione che essa reca con sé nello spettacolo del mondo e nella nostra esistenza. Solamente a questa condizione il sapere filosofico può divenire un sapere assoluto e cessare di essere una specialità o una tecnica. Cosi, non si affermerà più una Unità assoluta, tanto meno dubbia in quanto non deve realizzarsi nell’Essere, e il centro della filosofia non è più un’autonoma soggettività trascendentale, situata ovunque e in nessun luogo, ma risiede nel cominciamento perpetuo della riflessione, in quel punto in cui una vita individuale si mette a riflettere su se stessa. La riflessione è veramente riflessione solo se non si trasporta fuori di se stessa, se si conosce come riflessione-su-un-irriflesso, e perciò come un mutamento di struttura della nostra esistenza. Prima rimproveravamo all’intuizione bergsoniana e all’introspezione di ricercare un sapere per coincidenza. Ma all’altro capo della filosofia ritroviamo un errore simmetrico nel concetto di coscienza costituente universale. L’errore di Bergson consiste nel credere che il soggetto meditante possa fondersi con l’oggetto sul quale medita, che il sapere si dilati confondendosi con l’essere;


quello delle filosofie riflessive nel credere che il soggetto meditante possa assorbire nella sua meditazione o cogliere completamente l’oggetto sul quale medita, che il nostro essere si riduca al nostro sapere. Come soggetto meditante, noi non siamo mai il soggetto irriflesso che cerchiamo di conoscere; ma non possiamo nemmeno divenire interamente coscienza, ricondurci alla coscienza trascendentale. Se fossimo la coscienza, noi dovremmo avere di fronte a noi il mondo, la nostra storia, gli oggetti percepiti nella loro singolarità come sistemi di relazioni trasparenti. Orbene, anche quando non facciamo della psicologia, quando tentiamo di comprendere in una riflessione diretta, e senza ricorrere alle svariate concordanze del pensiero induttivo, che cos’è un movimento o un cerchio percepito, noi non possiamo gettar luce sul fatto singolo se non facendolo variare grazie all’immaginazione e fissando con il pensiero l’invariante di questa esperienza mentale, non possiamo penetrare l’individuale se non con il procedimento bastardo dell’esempio, cioè spogliandolo della sua fatticità. Cosi, è un problema sapere se il pensiero non possa mai cessare del tutto di essere induttivo e assimilare una esperienza qualsiasi in modo tale da riprendere e possederne tutto l’ordito. Una filosofia diviene trascendentale, cioè radicale, non già insediandosi nella coscienza assoluta senza menzionare i gradi attraverso cui è passata per giungervi, ma considerando se stessa come un problema, non già postulando l’esplicitazione totale del sapere, ma riconoscendo questa presunzione della ragione come il problema filosofico fondamentale. Ecco perché una ricerca sulla percezione doveva muovere dalla psicologia. Se non l’avessimo fatto, non avremmo compreso tutto il senso del problema trascendentale, giacché non avremmo seguito metodicamente il cammino che conduce a esso a partire dall’atteggiamento naturale. Dovevamo frequentare il campo fenomenico e fare conoscenza con il soggetto dei fenomeni mediante descrizioni psicologiche, se non volevamo, come la filosofia riflessiva, porci subito in una dimensione trascendentale - che avremmo supposto eternamente data - e mancare il vero problema della costituzione. Non dovevamo però cominciare la descrizione psicologica senza fare intravedere che, una volta purificata di ogni psicologismo, essa può divenire un metodo filosofico. Per risvegliare l’esperienza percettiva sepolta sotto i propri risultati, non sarebbe stato sufficiente presentarne descrizioni che potevano rimanere incomprese, ma era necessario fissare con riferimenti e anticipazioni filosofiche il punto di vista da cui esse possono apparire vere. Non potevamo quindi cominciare senza la psicologia, ma nemmeno potevamo cominciare con la sola psicologia. L’esperienza anticipa una filosofia, cosi come la filosofia non è se non una esperienza delucidata. Ma, ora che il campo fenomenico è stato sufficientemente circoscritto, entriamo in questo dominio ambiguo e cominciamo a inoltrarci in esso con lo psicologo, nell’attesa che, attraverso una riflessione di secondo grado, la sua autocritica ci conduca al fenomeno del fenomeno e converta decisamente il campo fenomenico in campo trascendentale.


Note

1 Koffka,

Perception, art Introduction to the Gestalt Theory, pp. 558-559.

2 Koffka,

Mental Developtnent, p. 138.

3 ScheLer, 4

Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen, t. III, Phänomenologie der Erkenntnis, pp. 7778.

5 Come 6 Cfr., 7

fa L. Brunschvicg.

per esempio, L’expérience bumaine et la causditè physique, p. 536.

Cfr., per esempio, Alain, Quatre-vingt-un chapitres sur l’esprit et les passions, p. 19 e Brunschvicg, L’expérience humaine et la causalità physique, p. 468.

8 Cfr. 9

Die Wissensformen und die Gesellschaft, p. 408.

La structure du comportement e la prima parte del presente volume.

Cosi, nei capitoli successivi potremo ricorrere indifferentemente all’esperienza interna della nostra percezione e all’esperienza «esterna» dei soggetti percipienti.

10 Scheler,

Idole der Selbsterkenntnis, p. 106.

11 Abbiamo

qui tradotto «s’écoule» con «si sussegue» anziché con «scorre», per sottolineare appunto la forma riflessiva del verbo. (N. d. T.)

12 Cfr. 13

La structure du comportement, pp. 106-119 e 261.

Tale programma è esposto in questi termini nella maggior parte dei testi di Husserl e anche nei testi pubblicati nel suo ultimo periodo.


PARTE PRIMA IL CORPO


La nostra percezione mette capo a oggetti e, una volta costituito, l’oggetto appare come la ragione di tutte le esperienze che di esso abbiamo avuto o potremmo avere. Per esempio, io vedo la casa vicina sotto un certo angolo, mentre la si vedrebbe in modo diverso dalla riva destra della Senna, in un altro modo dall’interno, diversamente ancora da un aereo; la casa stessa non è nessuna di queste apparizioni, ma è, come diceva Leibnitz, il geometrale di queste prospettive e di tutte le prospettive possibili, cioè il termine senza prospettiva da cui è possibile derivarle tutte, è la casa vista da nessun luogo. Ma cosa significano queste parole? Vedere, non è sempre vedere da qualche luogo? Dire che la casa stessa non è vista da nessun luogo non equivale forse a dire che è invisibile? Tuttavia, quando dico di vedere la casa con i miei occhi, non dico certo nulla di discutibile: io non intendo dire che la mia retina e il mio cristallino, e cioè i miei occhi come organi materiali, funzionino e me la facciano vedere: se interrogo solo me stesso, non so nulla. Con quelle parole io voglio esprimere una certa maniera di accedere all’oggetto, lo «sguardo», che è altrettanto indubitabile che il mio proprio pensiero, altrettanto direttamente conosciuto da me. Dobbiamo comprendere come la visione può effettuarsi da qualche luogo senza essere imprigionata nella sua prospettiva. Vedere un oggetto significa o averlo al margine del campo visivo e poterlo fissare, o rispondere effettivamente a questa sollecitazione fissandolo. Quando lo fisso, io mi ancoro in esso, ma questo «arresto» dello sguardo non è se non una modalità del suo movimento: io continuo all’interno di un oggetto l’esplorazione che poco prima li sorvolava tutti, con un solo movimento richiudo il paesaggio e apro l’oggetto. Non a caso le due operazioni coincidono: non sono le contigenze della mia organizzazione corporea, per esempio la struttura della mia retina, che, se voglio vedere nitidamente l’oggetto, mi costringono a vedere sfocato ciò che lo circonda. Anche se non sapessi nulla di coni e bastoncelli, penserei che, per meglio vedere l’oggetto, è necessario porre in letargo ciò che lo circonda e perdere in sfondo ciò che si guadagna in figura: infatti, guardare l’oggetto significa immergersi in esso, e gli oggetti formano un sistema in cui uno di essi non può mostrarsi senza nasconderne altri. Per essere più precisi, l’orizzonte interno di un oggetto non può divenire oggetto senza che gli oggetti circostanti divengano orizzonte, e la visione è un atto a due facce. Io non identifico infatti l’oggetto dettagliato che ho ora con quello sul quale il mio sguardo scorreva poco fa confrontando espressamente questi dettagli con un ricordo della prima veduta di insieme. Quando in un film la macchina da presa si dirige su un oggetto e gli si avvicina per darcelo in primo piano, noi possiamo si ricordare che si tratta del portacenere o della mano di un personaggio, ma non l’identifichiamo effettivamente. Il fatto è che lo schermo non ha orizzonti. Per contro, nella visione io appoggio il mio sguardo su un frammento del paesaggio: esso si anima e si dispiega, gli altri oggetti si ritirano in margine ed entrano in letargo, ma non cessano di essere là. Orbene, con essi io ho a mia disposizione i loro orizzonti, nei quali è implicato, ma visto in visione marginale, l’oggetto che fisso attualmente. L’orizzonte è quindi ciò che assicura l’identità dell’oggetto nel corso dell’esplorazione, è il correlato del potere diretto che il mio sguardo conserva sulle cose che ha appena percorso e che ha già sui nuovi dettagli che sta per scoprire. Nessun ricordo espresso, nessuna congettura esplicita potrebbero svolgere questa funzione: essi darebbero solo una sintesi probabile, mentre la mia percezione si dà come effettiva. Pertanto, la struttura oggetto-orizzonte, cioè la prospettiva, non mi intralcia quando voglio vedere l’oggetto: se è il mezzo che gli oggetti hanno per dissimularsi, è anche il mezzo che essi hanno per svelarsi. Vedere significa entrare in un universo di esseri che si


mostrano, ed essi non si mostrerebbero se non potessero essere nascosti gli uni dietro agli altri, o dietro a me. In altri termini: guardare un oggetto significa venire ad abitarlo, e da qui cogliere tutte le cose secondo la faccia che gli rivolgono. Ma, nella misura in cui le vedo, tali cose rimangono dimore aperte al mio sguardo, e, situato virtualmente in esse, io scorgo già sotto differenti angoli l’oggetto centrale della mia visione attuale. Ogni oggetto è pertanto lo specchio di tutti gli altri. Quando guardo la lampada posta sul tavolo, io le attribuisco non solo le qualità visibili dal mio posto, ma anche quelle che il camino, i muri, il tavolo possono «vedere», la parte posteriore della lampada non è se non la faccia che essa «mostra1» al camino. Io posso quindi vedere un oggetto in quanto gli oggetti formano un sistema o un mondo, e ciascuno di essi dispone degli altri attorno a sé come spettatori dei suoi aspetti nascosti e garanzia della loro permanenza. Ogni mia visione di un oggetto si ripete istantaneamente fra tutti gli oggetti del mondo che sono colti come coesistenti: ciascuno di essi è infatti tutto ciò che gli altri ne «vedono». La formula precedentemente espressa deve dunque venire modificata: la casa stessa non è la casa vista da nessun luogo, ma la casa vista da tutti i luoghi. L’oggetto compiuto è translucido, è penetrato da tutti i lati da una infinità attuale di sguardi che si incontrano nella sua profondità e non vi lasciano nulla di celato. Quanto si è detto della prospettiva spaziale potremmo ripeterlo a proposito della prospettiva temporale. La casa, se la considero attentamente e senza alcun pensiero, ha un’aria di eternità, e da essa emana una specie di stupore. Io la vedo da un certo punto della mia durata, ma essa è la medesima casa che vedevo ieri, meno vecchia di un giorno; un vecchio e un fanciullo contemplano la medesima casa. Naturalmente essa pure ha la sua età e i suoi mutamenti; ma, anche-se domani crollerà, resterà vero per sempre che oggi essa è stata: ogni momento del tempo si dà come testimoni tutti gli altri, mostra, sopraggiungendo, «come doveva volgere la tal cosa» e «come sarà finita», ogni presente fonda definitivamente un punto del tempo e sollecita il riconoscimento di tutti gli altri, l’oggetto è quindi visto da tutti i tempi come è visto da tutti i luoghi, e con lo stesso mezzo, cioè la struttura d’orizzonte. Il presente tiene ancora in pugno, senza porlo come oggetto, il passato immediato, e poiché quest’ultimo ritiene allo stesso modo il passato immediato che l’ha preceduto, il tempo trascorso è interamente ripreso e colto nel presente. Lo stesso può dirsi per l’avvenire imminente, che avrà anch’esso il suo orizzonte di imminenza. Ma con il mio passato immediato io ho anche l’orizzonte d’avvenire che lo circondava, ho quindi il mio presente effettivo come passato di questo avvenire. Così, grazie al duplice orizzonte di ritenzione e protensione, il mio presente può cessare di essere un presente di fatto in breve trascinato e distrutto dal flusso della durata, e divenire un punto fisso e identificabile in un tempo oggettivo. Ma, ancora una volta, il mio sguardo umano non pone mai, dell’oggetto, se non una faccia, quantunque, per mezzo degli orizzonti, intenzioni tutte le altre. Esso non può mai venire confrontato con le visioni precedenti o con quelle degli altri uomini senza la mediazione del tempo e del linguaggio. Se concepisco a immagine del mio gli sguardi che da tutte le parti frugano la casa e definiscono la casa stessa, io non ho ancora che una serie concordante e indefinita di vedute sull’oggetto, non ho l’oggetto nella sua pienezza. Allo stesso modo, per quanto contragga in se stesso il tempo trascorso e il tempo a venire, il mio presente li possiede solo in intenzione, e se per esempio la coscienza che io ho ora del mio passato mi sembra combaciare con ciò che esso fu, questo passato che pretendo di riafferrare nella sua originalità non è il passato in persona, è il mio passato cosi come lo vedo ora, forse l’ho alterato. Parimenti, in avvenire misconoscerò forse il presente che vedo. Cosi la sintesi degli orizzonti non è se non una sintesi presuntiva, essa opera con certezza e precisione solo nel contesto immediato dell’oggetto. Io non tengo più in pugno il contesto lontano: esso non è più fatto di oggetti o di ricordi ancora distinguibili, è un orizzonte anonimo che non può


più portare testimonianze precise, lascia l’oggetto incompiuto e aperto come effettivamente è nell’esperienza percettiva. Attraverso questa apertura defluisce la sostanzialità dell’oggetto. Se l’oggetto deve giungere a una perfetta densità, se, in altri termini, deve esservi un oggetto assoluto, occorre che esso sia una infinità di prospettive diverse contratte in una coesistenza rigorosa e che sia dato a mille sguardi come da una sola visione. La casa ha i suoi condotti dell’acqua, il suo suolo, forse le sue crepe che si dilatano segretamente nello spessore dei soffitti. Noi non li vediamo mai, ma essa li ha insieme con le sue finestre o con i suoi camini, per noi visibili. Dimenticheremo la percezione presente della casa: ogniqualvolta possiamo confrontare i nostri ricordi con gli oggetti ai quali si riferiscono, tenuto conto degli altri motivi di errore, ci stupiamo dei mutamenti che essi devono alla loro propria durata. Ma crediamo che c’è una verità del passato, facciamo poggiare la nostra memoria su una immensa Memoria del mondo, in cui figura la casa cosi come era veramente quel giorno e che fonda il suo essere del momento. Preso in se stesso - e come oggetto esso esige che lo si assuma cosi -, l’oggetto non ha nulla di recondito, ma è interamente dispiegato, le sue parti coesistono mentre il nostro sguardo le percorre una dopo l’altra, il suo presente non cancella il suo passato, il suo avvenire non cancellerà il suo presente. La posizione dell’oggetto ci fa quindi oltrepassare i limiti della nostra esperienza effettiva che si dissolve in un essere estraneo, cosicché essa crede di trarre tutto ciò che ci insegna da tale essere. Grazie a questa estasi dell’esperienza, ogni percezione è percezione di qualcosa. Assillato dall’essere, e dimenticando il prospettivismo della mia esperienza, io lo tratto ormai come oggetto, lo deduco da un rapporto fra oggetti. Considero il mio corpo, che è il mio punto di vista sul mondo, come uno degli oggetti di questo mondo. Rimuovo la coscienza che avevo del mio sguardo come mezzo di conoscenza, tratto i miei occhi come frammento di materia. Da questo momento essi prendono posto nel medesimo spazio oggettivo in cui cerco di situare l’oggetto esterno e credo di far sorgere la prospettiva percepita con la proiezione degli oggetti sulla mia retina. Parimenti, tratto la mia propria storia percettiva come un risultato dei miei rapporti con il mondo oggettivo, il mio presente, che è il mio punto di vista sul tempo, diviene un momento del tempo fra tutti gli altri, la mia durata un riflesso o un aspetto astratto del tempo universale, come il mio corpo un modo dello spazio oggettivo. Allo stesso modo, infine, se gli oggetti che circondano la casa o la abitano rimanessero ciò che sono nell’esperienza percettiva, cioè sguardi vincolati a una certa prospettiva, la casa non sarebbe posta come essere autonomo. In tal modo la posizione di un solo oggetto nel senso pieno esige la composizione di tutte queste esperienze in un solo atto politetico. In ciò essa eccede l’esperienza percettiva e la sintesi d’orizzonti, - così come la nozione di un universo, ossia di una totalità compiuta ed esplicita, in cui i rapporti siano di determinazione reciproca, eccede quella di un mondo, cioè di una molteplicità aperta e indefinita in cui i rapporti sono di implicazione reciproca.1 Io abbandono la mia esperienza e passo all’idea. Come l’oggetto, l’idea pretende di essere la medesima per tutti, valida per tutti i tempi e per tutti i luoghi, e l’individuazione dell’oggetto in un punto del tempo e dello spazio oggettivo appare, in definitiva, come l’espressione di una potenza tetica universale.2 Non mi occupo più del mio corpo, né del tempo, né del mondo, cosi come li vivo nel sapere antepredicativo, nella comunicazione interna che ho con essi. Non parlo se non del mio corpo in idea, dell’universo in idea, dell’idea di spazio e dell’idea di tempo. Si forma quindi un pensiero «oggettivo» (nel senso di Kierkegaard) - quello del senso comune, quello della scienza - che infine ci fa perdere il contatto con l’esperienza percettiva, di cui esso è pur sempre il risultato e il seguito naturale. Tutta la vita della coscienza tende a porre oggetti, giacché è coscienza, cioè sapere di sé, solo in quanto essa stessa si riprende e si raccoglie in un oggetto identificabile. E ciononostante la posizione assoluta di un solo oggetto è la morte della coscienza: infatti, essa coagula


tutta l’esperienza, cosi come un cristallo introdotto in una soluzione la fa immediatamente cristallizzare. Non possiamo rimanere nell’alternativa di non comprendere nulla del soggetto o di non comprendere nulla dell’oggetto. Dobbiamo ritrovare l’origine dell’oggetto nel cuore stesso della nostra esperienza, descrivere l’apparizione dell’essere e comprendere come, paradossalmente, per noi c’è un in sé. Non volendo pregiudicare nulla, prenderemo alla lettera il pensiero oggettivo e non gli porremo problemi che esso stesso non si pone. Se saremo indotti a ritrovare dietro di esso l’esperienza, questo passaggio sarà motivato solo dalle sue proprie difficoltà. Consideriamolo quindi all’opera nella costituzione del nostro corpo come oggetto, giacché questo è un momento decisivo nella genesi del mondo oggettivo. Si vedrà che, nella scienza stessa, il corpo proprio si sottrae al trattamento che gli si vuole imporre. E poiché la genesi del corpo oggettivo è solo un momento nella costituzione dell’oggetto, ritirandosi dal mondo oggettivo il corpo trascinerà con sé i fili intenzionali che lo legano al suo mondo circostante e infine ci rivelerà tanto il soggetto percipiente quanto il mondo percepito.


Note

1

Husserl, «Umsturz der kopernikanischen Lehre: die Erde als Ur-Arche bewegt sich nicht.» (Inedito.)

2

...comprendo per mezzo della sola facoltà di giudicare che risiede nel mio spirito ciò che credevo di vedere con i miei occhi.» Il Méditation, AT, IX, p. 25 (Trad. it. cit., p. 84).


I. Il corpo come oggetto e la fisiologia meccanicistica

La definizione dell’oggetto, come abbiamo visto, è che esso esiste partes extra partes e che perciò non ammette fra le sue parti, o fra se stesso e gli altri oggetti, se non relazioni esteriori e meccaniche, sia nel senso stretto di un movimento ricevuto e trasmesso, sia nel senso lato di un rapporto da funzione-variabile. Se si voleva inserire l’organismo nell’universo degli oggetti e chiudere questo universo attraverso di esso, si doveva tradurre il funzionamento del corpo nel linguaggio dell’in sé e scoprire, sotto il comportamento, la dipendenza lineare del recettore dallo stimolo, dell’Empfinder dal recettore.1 Certo, si sapeva che nel circuito del comportamento emergono determinazioni nuove, e la teoria dell’energia specifica dei nervi, per esempio, riconosceva all’organismo il potere di trasformare il mondo fisico. Ma essa prestava appunto agli apparati nervosi il potere occulto di creare le diverse strutture della nostra esperienza e, mentre la visione, il tatto, l’udito sono altrettanti modi di accedere all’oggetto, queste strutture si trovavano trasformate in qualità compatte e derivate dalla distinzione locale degli organi messi in gioco. Cosi, il rapporto fra lo stimolo e la percezione poteva rimanere chiaro e oggettivo, l’evento psicofisico era dello stesso tipo delle relazioni della causalità «mondana». La fisiologia moderna non ricorre più a tali artifici. Essa non collega più a strumenti materiali distinti le diverse qualità di un medesimo senso e i dati dei diversi sensi. In realtà, le lesioni dei centri e anche dei conduttori non si manifestano con la perdita di certe qualità sensibili o di certi dati sensoriali, ma con una perdita di differenziazione da parte della funzione. Si ricordi quanto abbiamo indicato precedentemente: quale che sia la sede della lesione nelle vie sensoriali e la sua genesi, si assiste, per esempio, a una decomposizione della sensibilità ai colori; all’inizio tutti i colori sono modificati, il loro tono fondamentale resta il medesimo, ma la loro saturazione decresce; poi lo spettro si semplifica e si riduce a quattro colori: giallo, verde, blu, rosso porpora, inoltre tutti i colori a onde corte tendono verso una specie di blu, tutti i colori a onde lunghe tendono verso una specie di giallo, e la visione può del resto variare da un momento all’altro, secondo il grado di stanchezza. Si giunge infine a una monocromasia in grigio, ancorché condizioni favorevoli (contrasto, lungo tempo di esposizione) possano momentaneamente ricondurre la dicromasia.2 Il progredire della lesione nella sostanza nervosa non distrugge quindi a uno a uno contenuti sensibili già fatti, ma rende sempre più incerta la differenziazione attiva degli eccitamenti, che appare come la funzione essenziale del sistema nervoso. Allo stesso modo, nelle lesioni non corticali della sensibilità tattile alcuni contenuti (temperature) sono pili fragili e scompaiono per primi, non perché un territorio determinato, distrutto nel malato, ci serva a sentire il caldo e il freddo - visto che la sensazione specifica verrà restituita se si applicherà un eccitante sufficientemente esteso -3, ma perché l’eccitamento non riesce a prendere la sua forma tipica se non per uno stimolo più energico. Le lesioni centrali sembrano lasciare intatte le qualità, mentre modificano l’organizzazione spaziale dei dati e la percezione degli oggetti. Ciò aveva fatto supporre l’esistenza di centri gnosici specializzati nella localizzazione e nell’interpretazione delle qualità. In realtà, le ricerche moderne dimostrano che le lesioni centrali agiscono soprattutto innalzando le cronassie che nel malato sono due o tre volte decuplicate. L’eccitamento produce i suoi effetti più lentamente, tali effetti permangono più a lungo, e la percezione tattile del ruvido, per esempio, si trova compromessa in quanto presuppone una serie di impressioni circoscritte o una coscienza precisa delle diverse posizioni della mano.4 La localizzazione confusa dell’eccitante non


si spiega con la distruzione di un centro localizzatore, ma con il livellamento degli eccitamenti che non riescono più a organizzarsi in un insieme stabile in cui ciascuno di essi riceverebbe un valore univoco e non si manifesterebbe alla coscienza se non con un cambiamento circoscritto.5 Cosi, gli eccitamenti di un medesimo senso differiscono meno per lo strumento materiale di cui si servono che per il modo in cui gli stimoli elementari si organizzano spontaneamente tra di loro, e questa organizzazione è il fattore decisivo sia al livello delle «qualità» sensibili che a quello della percezione. È ancora questa organizzazione, e non l’energia specifica dell’apparato interrogato, a far si che un eccitante dia luogo a una sensazione tattile o a una sensazione termica. Se con un capello si eccita a più riprese una data regione della pelle, dapprima si hanno percezioni puntuali, nettamente distinte e ogni volta localizzate nello stesso punto. A mano a mano che l’eccitamento si ripete, la localizzazione si fa meno precisa, la percezione si diffonde nello spazio e in pari tempo la sensazione cessa di essere specifica: non è più un contatto, è un bruciore, ora per il freddo, ora per il caldo. Successivamente il soggetto crede che l’eccitante si muova e tracci un cerchio sulla sua pelle. Infine, egli non sente più nulla.6 Ciò significa che la «qualità sensibile», le determinazioni spaziali del percepito e anche la presenza o l’assenza di una percezione non sono effetti della situazione di fatto fuori dell’organismo, ma rappresentano il modo in cui esso viene incontro alle stimolazioni e si riferisce a esse. Un eccitamento non è percepito quando raggiunge un organo sensoriale che non è «accordato» con esso.7 Nella recezione degli stimoli, la funzione dell’organismo è per cosi dire di «concepire» una certa forma di eccitamento.8 Pertanto, l’«evento psicofisico» non è più dello stesso tipo della causalità «mondana», il cervello diviene la sede di una «strutturazione» che interviene ancor prima della tappa corticale e che mescola, sin dalla periferia del sistema nervoso, le relazioni fra lo stimolo e l’organismo. L’eccitamento è colto e riorganizzato da funzioni trasversali che lo fanno somigliare alla percezione che esso sta per suscitare. Non posso rappresentarmi questa forma che si delinea nel sistema nervoso, questo dispiegarsi di una struttura come una serie di processi in terza persona, come trasmissione di movimento o determinazione di una variabile da parte di un’altra. Non posso prenderne conoscenza a distanza. Per contro, riuscirò a indovinare che cosa può essere tale forma solo tralasciando il corpo oggetto, partes extra partes, e riportandomi al corpo che esperisco attualmente, per esempio, alla maniera in cui la mia mano circonviene, l’oggetto che tocca precorrendo gli stimoli e delineando essa stessa la forma che sto per percepire. Posso comprendere la funzione del corpo vivente solo compiendola io stesso e nella misura in cui sono un corpo che si leva verso il mondo. Cosi l’esterocettività esige una strutturazione degli stimoli, la coscienza del corpo invade il corpo, l’anima si espande su tutte le sue parti, il comportamento oltrepassa il suo settore centrale. Ma si potrebbe obiettare che questa «esperienza del corpo» è anch’essa una «rappresentazione», un «fatto psichico», che, come tale, essa è al termine di una catena di eventi fisici e fisiologici e che solo questi ultimi possono essere attribuiti al «corpo reale». Il mio corpo non è forse, proprio come i corpi esterni, un oggetto che agisce su recettori e infine dà luogo alla coscienza del corpo? Non vi è forse una «enterocettività» cosi come vi è una «esterocettività»? Non posso forse trovare nel corpo dei fili che gli organi interni inviano al cervello e che sono istituiti dalla natura per dare all’anima la possibilità di sentire il suo corpo? In tal modo la coscienza del corpo e l’anima si trovano rimossi, il corpo torna a essere quella macchina ben ripulita che il concetto ambiguo di comportamento è stato sul punto di farci dimenticare. Per esempio, se, in un amputato, qualche stimolazione si sostituisce a quella della gamba sul tratto che va dal moncone al cervello, il soggetto sentirà una gamba fantasma, poiché l’anima è unita immediatamente al cervello e a esso soltanto.


Cosa dice a questo proposito la fisiologia moderna? L’anestesia con la cocaina non sopprime l’arto fantasma, vi sono arti fantasma senza amputazioni e in seguito a lesioni cerebrali.9 Infine, l’arto fantasma conserva spesso la posizione stessa che il braccio reale occupava al momento della ferita: un ferito di guerra sente ancora nel braccio fantasma le schegge di granata che hanno lacerato il braccio reale.10 Si deve dunque sostituire alla «teoria periferica» una «teoria centrale»? Ma una teoria centrale non ci sarebbe di nessun aiuto, se aggiungesse alle condizioni periferiche dell’arto fantasma solo delle tracce cerebrali. Infatti, un insieme di tracce cerebrali non potrebbe raffigurare i rapporti di coscienza che intervengono nel fenomeno. In realtà esso dipende da determinanti «psichiche». Una emozione, una circostanza che ricordi quelle della ferita fanno apparire un arto fantasma in soggetti che non ne avevano.11 Accade che il braccio fantasma, enorme dopo l’operazione, si restringa poi per scomparire infine nel moncherino «con il consenso del malato ad accettare la propria mutilazione».12 Il fenomeno dell’arto fantasma viene qui illuminato dal fenomeno di anosognosia, che manifestamente esige una spiegazione psicologica. I soggetti che ignorano in modo sistematico la loro mano destra paralizzata e tendono la sinistra quando si chiede loro la destra, parlano però del loro braccio paralizzato come di un «serpente lungo e freddo», e ciò esclude l’ipotesi di una vera anestesia e suggerisce quella di un rifiuto della deficienza.13 Si deve dunque dire che l’arto fantasma è un ricordo, una volontà o una credenza, e, in mancanza di una spiegazione fisiologica, darne una spiegazione psicologica? Tuttavia, nessuna spiegazione psicologica può ignorare che, se si asportano i conduttori sensitivi che conducono all’encefalo, l’arto fantasma scompare.14 Occorre quindi comprendere come le determinanti psichiche e le condizioni fisiologiche si innestino le une sulle altre: se l’arto fantasma dipende da condizioni fisiologiche e se a questo titolo è l’effetto di una causalità in terza persona, non si capisce in quale modo esso possa per un’altra parte derivare dalla storia personale del malato, dai suoi ricordi, dalle sue emozioni o dalle sue volontà. Infatti, per potere determinare insieme il fenomeno, come due componenti determinano una risultante, le due serie di condizioni necessiterebbero di un medesimo punto di applicazioni o di un terreno comune, e non si vede quale potrebbe essere il terreno comune a «fatti fisiologici», che sono nello spazio, e a «fatti psichici», che non sono in nessun luogo, o anche a processi oggettivi come gli influssi nervosi, che appartengono all’ordine dell’in sé, e a cogitationes quali l’accettazione e il rifiuto, la coscienza del passato e l’emozione, che appartengono all’ordine del per sé. Una teoria mista dell’arto fantasma, che ammettesse le due serie di condizioni,15 può quindi essere valida come enunciato di fatti conosciuti, ma è fondamentalmente oscura. L’arto fantasma non è il semplice effetto di una causalità oggettiva, e nemmeno una cogitatio. Esso potrebbe essere una commistione dei due solo se trovassimo il mezzo per articolare l’uno sull’altro lo «psichico» e il «fisiologico», il «per sé» e l’«in sé», e per combinare il loro incontro, e solo se i processi in terza persona e gli atti personali potessero venire integrati in un ambito comune a entrambi. Per descrivere la credenza nell’arto fantasma e il rifiuto della mutilazione, gli studiosi parlano di una «repressione» o di una «rimozione organica».16 Questi termini poco cartesiani ci costringono a formare l’idea di un pensiero organico grazie alla quale il rapporto fra lo «psichico» e il «fisiologico» diverrebbe concepibile. Del resto, come abbiamo già visto altrove, i fenomeni di sostituzione vanno oltre l’alternativa dello psichico e del fisiologico, della finalità espressa e del meccanismo.17 Quando, con un atto istintivo, l’insetto sostituisce la zampa sana a quella recisa, non si deve pensare che un dispositivo prestabilito di soccorso sia automaticamente sostituito al circuito messo fuori uso. Ma non si deve nemmeno pensare che l’animale abbia coscienza di un fine da realizzare e usi i suoi arti come mezzi diversi, che allora la sostituzione dovrebbe realizzarsi ogniqualvolta l’atto è impedito,


mentre, come è noto, è sufficiente che la zampa sia attaccata perché essa non si realizzi. Semplicemente, l’animale continua a essere nel medesimo mondo e si dirige verso di esso con tutte le sue forze. L’arto attaccato non è sostituito dall’arto libero perché continua a contare nell’essere animale e perché la corrente di attività che va verso il mondo passa ancora attraverso di esso. Non vi è, qui, pili scelta che in una goccia d’olio la quale impieghi tutte le sue forze interne per risolvere praticamente il problema di equilibrio che le viene posto. La differenza consiste solo nel fatto che la goccia d’olio si adatta a forze esterne date, mentre l’animale progetta esso stesso le norme del suo ambiente e pone da sé i termini del suo problema vitale;18 ma questo è un a priori della specie, non una opzione personale. Così, dietro il fenomeno di sostituzione troviamo il movimento dell’essere al mondo, ed è giunto il momento di precisarne la nozione. Quando si dice che un animale esiste, che ha un mondo, o che è a un mondo, non si vuole dire che ne abbia percezione o coscienza oggettiva. La situazione che mette in moto le operazioni istintive non è interamente articolata e determinata, il suo senso totale non è posseduto, come dimostrano in modo abbastanza chiaro gli errori e l’accecamento dell’istinto. Essa offre solo un significato pratico, invita solo a un riconoscimento corporeo, è vissuta come situazione «aperta» e suggerisce i movimenti dell’animale cosi come le prime note della melodia suggeriscono un certo modo di risoluzione, senza che esso sia conosciuto per se stesso, ed è appunto ciò a permettere agli arti di sostituirsi reciprocamente, di essere equivalenti di fronte all’evidenza del compito. Visto che àncora il soggetto in un certo «ambiente»», l’«essere al mondo» è qualcosa come P«attenzione alla vita» di Bergson o come la «funzione del reale» di Janet? L’attenzione alla vita è la coscienza che noi prendiamo di «movimenti nascenti» nel nostro corpo. Orbene, dei movimenti riflessi, abbozzati o compiuti, non sono ancora se non processi oggettivi di cui la coscienza può constatare lo svolgimento e i risultati, ma in cui non è impegnata.19 In realtà, gli stessi riflessi non sono mai processi ciechi, ma si adeguano a un «senso» della situazione, esprimono tanto il nostro orientamento verso un «ambiente di comportamento», quanto l’azione dell’«ambiente geografico» su di noi. Essi delineano a distanza la struttura dell’oggetto senza attenderne le stimolazioni puntuali. È questa presenza globale della situazione che dà un senso agli stimoli parziali e li fa contare, valere o esistere per l’organismo. Il riflesso non risulta dagli stimoli oggettivi, ma si volge verso di essi, li investe di un senso che non hanno assunto a uno a uno e come agenti fisici, ma che hanno solo in quanto situazione. Li fa essere come situazione, è con essi in un rapporto di «conoscenza», e cioè li indica come ciò che esso stesso è destinato ad affrontare. Il riflesso (in quanto si apre al senso di una situazione) e la percezione (in quanto non pone preliminarmente un oggetto di conoscenza ed è una intenzione del nostro essere totale) sono modalità di una veduta preoggettiva, la quale è ciò che chiamiamo l’essere al mondo. Al di qua degli stimoli e dei contenuti sensibili si deve riconoscere una specie di diaframma interno che, molto più di essi, determina ciò verso cui i nostri riflessi e le nostre percezioni potranno dirigersi nel mondo, la zona delle nostre operazioni possibili, l’ampiezza della nostra vita. Alcuni soggetti possono avvicinarsi alla cecità senza aver cambiato «mondo»: li si vede urtare ovunque gli oggetti, ma essi non hanno coscienza di non avere più qualità visive, e la struttura della loro condotta non si altera. Viceversa, altri malati perdono il loro mondo non appena si dileguano i contenuti, rinunciano alla loro vita consueta ancor prima che essa sia divenuta impossibile, si fanno infermi anzi tempo e rompono il contatto vitale con il mondo prima di avere perduto il contatto sensoriale. C’è dunque una certa consistenza del nostro «mondo», relativamente indipendente dagli stimoli, che impedisce di trattare l’essere al mondo come una somma di riflessi, - una certa energia della pulsazione di esistenza, relativamente indipendente dai nostri pensieri volontari, che impedisce di trattarlo come atto di coscienza. L’essere al mondo può distinguersi da ogni processo in terza persona e da ogni modalità della res extensa, cosi come da


ogni cogitatio e da ogni conoscenza in prima persona, proprio perché è una veduta preoggettiva e, sempre per questo motivo, potrà realizzare l’unione dello «psichico» e del «fisiologico». Ritorniamo ora al problema dal quale siamo partiti. L’anosognosia e l’arto fantasma non ammettono né una spiegazione fisiologica, né una spiegazione psicologica, né una spiegazione mista, quantunque sia possibile collegarli alle due serie di condizioni. Una spiegazione fisiologica interpreterebbe la anosognosia e l’arto fantasma come la semplice soppressione o la semplice persistenza delle stimolazioni enterocettive. In questa ipotesi la anosognosia è l’assenza di un frammento della rappresentazione del corpo che dovrebbe essere dato, poiché c’è pur sempre l’arto corrispondente, e l’arto fantasma è la presenza di una parte della rappresentazione del corpo che non dovrebbe essere data, poiché non c’è l’arto corrispondente. Se ora si dà una spiegazione psicologica dei fenomeno, l’arto fantasma diviene un ricordo, un giudizio positivo o una percezione, la anosognosia una dimenticanza, un giudizio negativo o una impercezione. Nel primo caso l’arto fantasma è la presenza effettiva di una rappresentazione, mentre la anosognosia è l’assenza effettiva di una rappresentazione. Nel secondo caso l’arto fantasma è la rappresentazione di una presenza effettiva, mentre la anosognosia è la rappresentazione di una assenza effettiva. In entrambi i casi non usciamo dalle categorie del mondo oggettivo, in cui non c’è via di mezzo tra la presenza e l’assenza. In realtà, l’anosognosico non ignora semplicemente l’arto paralizzato: può distogliersi dalla deficienza solo perché sa dove rischierebbe di incontrarla, cosi come, nella psicoanalisi, il soggetto sa che cosa non vuole vedere in faccia, senza di che non potrebbe evitarlo cosi bene. Non comprendiamo l’assenza o la morte di un amico se non nel momento in cui ci attendiamo da lui una risposta e in cui sentiamo che non ve ne saranno più; cosi, per non dover percepire questo silenzio, prima di tutto evitiamo di interrogare; ci teniamo lontani dalle ragioni della nostra vita in cui potremmo incontrare questo nulla, ma è quanto dire che le indoviniamo. Ugualmente, l’anosognosico mette fuori gioco il suo braccio paralizzato per non dover avvertire la sua menomazione, ma ciò significa che egli ne ha un sapere precosciente. È vero che, nel caso dell’arto fantasma, il soggetto sembra ignorare la mutilazione e contare sul suo fantasma come su un arto reale, visto che tenta di camminare con la sua gamba fantasma e non si lascia nemmeno scoraggiare da una caduta. Ma d’altra parte egli descrive molto bene le particolarità della gamba fantasma, per esempio la sua motilità peculiare, e la tratta praticamente come un arto reale solo perché, come il soggetto normale, non ha bisogno, per mettersi in cammino, di una percezione netta e articolata del proprio corpo: gli basta averlo «a sua disposizione» come una potenza indivisa e indovinare la gamba fantasma vagamente implicita in esso. Anche la coscienza della gamba fantasma rimane dunque equivoca. L’amputato sente la sua gamba come io posso sentire vivamente l’esistenza di un amico che tuttavia non è sotto i miei occhi, non l’ha perduta perché continua a contare su di essa, allo stesso modo in cui Proust può constatare la morte della nonna senza perderla ancora, finché la conserva all’orizzonte della propria vita. Il braccio fantasma non è una rappresentazione del braccio, ma la presenza ambivalente di un braccio. Il rifiuto della mutilazione nel caso dell’arto fantasma o il rifiuto della deficienza nella anosognosia non sono decisioni deliberate, non avvengono al livello della coscienza tetica che prende posizione in modo esplicito dopo aver considerato diverse possibilità. La volontà di avere un corpo sano o il rifiuto del corpo malato non sono formulati per se stessi, l’esperienza del braccio amputato come presente o del braccio malato come assente non appartengono all’ordine dell’«io penso che...». Questo fenomeno, che tanto le spiegazioni fisiologiche quanto quelle psicologiche rendono irriconoscibile, diviene invece comprensibile nella prospettiva dell’essere al mondo. Quello che in noi rifiuta la mutilazione e la deficienza è un Io impegnato in un certo mondo fisico e interumano, che


continua a protendersi verso il suo mondo nonostante le deficienze o le amputazioni, e che, in questa misura, non le riconosce de jure. Il rifiuto della deficienza è solo il rovescio della nostra inerenza a un mondo, la negazione implicita di quanto si oppone al movimento naturale che ci getta nei nostri compiti, nelle nostre preoccupazioni, nella nostra situazione, nei nostri orizzonti familiari. Avere un braccio fantasma significa rimanere aperti a tutte le azioni di cui solamente il braccio è capace, conservare il campo pratico che avevamo prima della mutilazione. Il corpo è il veicolo dell’essere al mondo, e per un vivente avere un corpo significa unirsi a un ambiente definito, confondersi con certi progetti e impegnarvisi continuamente. Nell’evidenza di questo mondo completo in cui figurano ancora oggetti maneggevoli, nella forza del movimento che va verso di esso e in cui figurano ancora il progetto di scrivere o di suonare il piano, il malato trova la certezza della sua integrità. Ma nel momento stesso in cui gli dissimula la sua menomazione, il mondo non può fare a meno di rivelargliela: infatti, se è vero che io ho coscienza del mio corpo attraverso il mondo, che esso è, al centro del mondo, il termine inosservato verso il quale tutti gli oggetti volgono la loro faccia, è anche vero, per la stessa ragione, che il mio corpo è il perno del mondo: io so che gli oggetti hanno svariate facce perché potrei farne il giro, e in questo senso ho coscienza del mondo per mezzo del mio corpo. Nel momento stesso in cui il mio mondo consueto fa sorgere in me intenzioni abituali, non posso più, se sono amputato, unirmi effettivamente a esso: proprio perché si presentano come maneggevoli, gli oggetti maneggevoli interrogano una mano che non ho più. Cosi, nell’insieme del mio corpo si delimitano regioni di silenzio- Il malato conosce quindi la sua menomazione proprio perché la ignora, e la ignora proprio perché la conosce. Tale paradosso caratterizza tutto l’essere al mondo: portandomi verso un mondo, io dissolvo le mie intenzioni percettive e le mie intenzioni pratiche in oggetti che infine mi appaiono come anteriori ed esteriori rispetto a esse, e che però esistono per me solo in quanto suscitano in me pensieri o volontà. Nel caso in questione l’ambiguità del sapere consiste nel fatto che il nostro corpo comporta come due strati distinti, quello del corpo abituale e quello del corpo attuale. Nel primo figurano i gesti propri del maneggiare che sono scomparsi dal secondo, e il problema di sapere come io possa sentirmi provvisto di un arto che non ho più si riduce, di fatto, a quello di sapere come il corpo abituale possa farsi garante per il corpo attuale. In che modo posso percepire degli oggetti come maneggevoli, se non posso pili maneggiarli? È necessario che il maneggevole abbia cessato di essere ciò che io maneggio attualmente, per divenire ciò che si può maneggiare, abbia cessato di essere un maneggevole per me e sia divenuto, per cosi dire, un maneggevole in sé. Correlativamente, il mio corpo deve essere colto non solo in una esperienza istantanea, singolare, piena, ma anche sotto un aspetto di generalità e come un essere impersonale. Con ciò il fenomeno dell’arto fantasma si ricongiunge a quello della rimozione, il quale lo rischiarerà. Infatti, la rimozione di cui parla la psicoanalisi consiste in questo, che il soggetto imbocca una certa strada - iniziativa amorosa, carriera, lavoro -, che incontra una barriera e che, non avendo la forza di superare l’ostacolo né quella di rinunciare all’impresa, egli rimane bloccato in questo tentativo e impiega indefinitamente le sue forze a rinnovarlo nello spirito. Il tempo che passa non trascina con sé i progetti impossibili, non si richiude sull’esperienza traumatica, il soggetto rimane sempre aperto al medesimo avvenire impossibile, se non nei suoi pensieri espliciti, per lo meno nel suo essere effettivo. Fra tutti i presenti, un presente acquista dunque un valore d’eccezione: sposta gli altri e li destituisce del loro valore di presenti autentici. Io continuo a essere colui che un giorno si è impegnato in questo amore da adolescente o colui che un giorno ha vissuto in questo universo familiare. Percezioni nuove sostituiscono le percezioni trascorse e anche emozioni nuove sostituiscono quelle di un tempo, ma questo rinnovamento interessa solo il contenuto della nostra


esperienza e non la sua struttura, il tempo impersonale continua a fluire, ma il tempo personale è imbrigliato. Naturalmente tale fissazione non si confonde con un ricordo, anzi esclude il ricordo, poiché esso dispiega innanzi a noi come un quadro una esperienza trascorsa, mentre questo passato che rimane il nostro vero presente non si allontana da noi, si nasconde sempre dietro il nostro sguardo, anziché disporsi dinanzi a esso. L’esperienza traumatica non sussiste a titolo di rappresentazione, nel modo della coscienza oggettiva e come un momento datato, ma le è essenziale sopravvivere solo come uno stile d’essere e in un certo grado di generalità, lo alieno il mio potere perpetuo di darmi dei «mondi» a beneficio di uno di essi, e con ciò stesso questo mondo privilegiato perde la sua sostanza e finisce per non essere più se non una certa angoscia. Ogni rimozione è quindi il passaggio dall’esistenza in prima persona a una specie di scolastica di questa esistenza, che vive su una esperienza trascorsa o piuttosto sul ricordo di averla avuta, poi sul ricordo di avere avuto questo ricordo e cosi via, di modo che, in definitiva, ne conserva solo la forma tipica. Orbene, come avvento dell’impersonale, la rimozione è un fenomeno universale, fa comprendere la nostra condizione di esseri incarnati collegandola alla struttura temporale dell’essere al mondo. In quanto ho degli «organi di senso», un «corpo», delle «funzioni psichiche» paragonabili a quelli degli altri uomini, ciascuno dei momenti della mia esperienza cessa di essere una totalità integrata, rigorosamente unica, in cui i dettagli esisterebbero solo in funzione dell’insieme, io divengo il luogo in cui si incrociano una moltitudine di «causalità». In quanto io abito un «mondo fisico», in cui «stimoli» costanti e situazione tipiche si ritrovano - e non soltanto il mondo storico, ove le situazioni non sono mai confrontabili -, la mia vita comporta ritmi che non hanno la loro ragione in ciò che io ho scelto di essere, ma la loro condizione nell’ambiente banale che mi circonda. Cosi, attorno alla nostra esistenza personale appare un margine di esistenza quasi impersonale, che per cosi dire va da sé, alla quale mi rimetto per mantenermi in vita -, attorno al mondo umano che ciascuno di noi si è fatto, appare un mondo in generale al quale occorre anzitutto appartenere per potersi rinchiudere nell’ambito particolare di un amore o di una ambizione. Come si parla di una rimozione in senso stretto quando io mantengo attraverso il tempo uno dei mondi momentanei che ho traversato e quando ne faccio la forma di tutta la mia vita, cosi si può dire che il mio organismo, in quanto esistenza anonima e generale, esplica, al di sotto della mia vita personale, la funzione di un complesso innato. Tale organismo non è come una cosa inerte, ma abbozza anch’esso il movimento dell’esistenza. Nel pericolo può certo accadere che la mia situazione umana cancelli la mia situazione biologica, che il mio corpo aderisca senza riserve all’azione.20 Ma questi momenti21 non possono essere altro che momenti, e perloppiú l’esistenza personale rimuove l’organismo senza poter né passare oltre, né rinunciare a se stessa - né ridurlo a sé, né ridursi a esso. Mentre sono prosternato da un evento luttuoso e tutto preso dal dolore, già i miei occhi errano davanti a me, si interessano sornionamente a qualche oggetto brillante, ricominciano la loro esistenza autonoma. Dopo quel minuto in cui volevamo rinchiudere tutta la nostra vita, il tempo, per lo meno il tempo prepersonale, ricomincia a fluire, e trascina con sé se non il nostro proposito, almeno i sentimenti calorosi che lo sostenevano. L’esistenza personale è intermittente, e quando questa marea si ritira, la decisione non può più dare alla mia vita se non un significato forzato. La fusione dell’anima e del corpo nell’atto, la sublimazione dell’esistenza biologica in esistenza personale, del mondo naturale in mondo culturale, è resa possibile e al tempo stesso precaria dalla struttura temporale della nostra esperienza. Ogni presente coglie a mano a mano, attraverso il suo orizzonte del passato immediato e del futuro prossimo, la totalità del tempo possibile; esso supera cosi la dispersione degli istanti, è in condizione di dare il suo senso definitivo al nostro stesso passato e di reintegrare all’esistenza personale persino quel passato di tutti i passati che le stereotipie organiche ci fanno indovinare


all’origine del nostro essere volontario. In questa misura, anche i riflessi hanno un senso, e lo stile di ogni individuo è ancora visibile in essi come il battito del cuore si fa sentire fino alla periferia del corpo. Ma questo potere appartiene a tutti i presenti, ai presenti trascorsi come al nuovo. Anche se pretendiamo di comprendere il nostro passato meglio di quanto esso comprendesse se stesso, tale passato può sempre rifiutare il nostro giudizio presente e rinchiudersi nella sua evidenza autistica. Anzi, esso lo fa necessariamente in quanto io lo penso come un presente trascorso. Ogni presente può pretendere di fissare la nostra vita, ecco ciò che lo definisce come presente. Poiché esso si dà per la totalità dell’essere e poiché per un istante riempie la coscienza, noi non ce ne liberiamo mai completamente, il tempo non si rimargina mai interamente su di esso: ogni presente rimane come una ferita attraverso la quale defluisce la nostra forza. A maggior ragione il passato specifico che è il nostro corpo può essere riafferrato e assunto da una vita individuale solo perché tale vita non lo ha mai trasceso, Io nutre segretamente e vi impiega una parte delle sue forze, solo perché esso rimane il suo presente, come si vede nella malattia, durante la quale gli eventi del corpo divengono gli eventi del giorno. Ciò che ci permette di centrare la nostra esistenza è anche ciò che ci impedisce di centrarla assolutamente, e l’anonimato del nostro corpo è inseparabilmente libertà e schiavitù. Cosi, per riassumere, l’ambiguità dell’essere al mondo si manifesta con quella del corpo, e quest’ultima si comprende mediante quella del tempo. Più avanti riparleremo del tempo. Per il momento accontentiamoci di mostrare che, a partire da questo fenomeno centrale, i rapporti fra lo «psichico» e il «fisiologico» diventano pensabili. Perché, anzitutto, i ricordi che vengono all’amputato possono fare apparire l’arto fantasma? Il braccio fantasma non è una rimemorazione, è un quasi-presente, il mutilato lo sente attualmente ripiegato sul petto senza alcun indizio di passato. Non possiamo nemmeno supporre che un braccio in immagine, errante attraverso la coscienza, sia venuto a porsi sul moncherino, giacché non si tratterebbe allora di un «fantasma», bensì di una percezione rinascente. È necessario che il braccio fantasma sia quello stesso braccio lacerato dalle schegge di granata e il cui involucro visibile - che viene a ossessionare il corpo presente senza confondersi con esso - è bruciato o imputridito in qualche luogo. Come l’esperienza rimossa, il braccio fantasma è dunque un vecchio presente che non si decide a divenire passato. I ricordi che vengono evocati di fronte all’amputato inducono un arto fantasma non già come nell’associazionismo una immagine ne richiama un’altra, ma perché ogni ricordo riapre il tempo perduto e ci invita a riprendere la situazione che evoca. La memoria intellettuale, nel senso di Proust, si accontenta dei connotati del passato, di un passato in idea, e, più che ritrovarne la struttura, ne estrae i «caratteri» o il significato comunicabile: ma, in definitiva, non sarebbe memoria se l’oggetto che essa costruisce non fosse ancora legato da pochi fili intenzionali all’orizzonte del passato vissuto e a questo stesso passato quale lo ritroveremmo in noi immergendoci in tali orizzonti e riaprendo il tempo. Allo stesso modo, se si ricolloca l’emozione nell’essere al mondo, si comprende come essa possa trovarsi all’origine dell’arto fantasma. Essere commosso significa trovarsi impegnato in una situazione cui non si riesce a far fronte e che tuttavia non si vuole abbandonare. Piuttosto che accettare il fallimento o ritornare sui suoi passi, in questo vicolo cieco esistenziale il soggetto manda in frantumi il mondo oggettivo che gli sbarra la strada e cerca una soddisfazione simbolica in atti magici.22 La distruzione del mondo oggettivo, la rinuncia all’azione vera, la fuga nell’autismo sono condizioni favorevoli all’illusione degli amputati poiché anche quest’ultima presuppone l’obliterazione del reale. Se il ricordo e l’emozione possono far apparire l’arto fantasma, non si deve pensare che ciò avvenga nello stesso modo in cui una cogitatio necessita di un’altra cogitatio o una condizione determina la sua conseguenza, - non si deve pensare che una causalità dell’idea si sovrapponga a una causalità fisiologica: qui un atteggiamento esistenziale ne motiva un altro e, nei


confronti dell’essere al mondo, ricordo, emozione, arto fantasma sono equivalenti. Perché, infine, l’ablazione dei conduttori afferenti sopprime l’arto fantasma? Nella prospettiva dell’essere al mondo questo fatto significa che gli eccitamenti provenienti dal moncherino mantengono l’arto amputato nel circuito dell’esistenza. Tali eccitamenti fissano e conservano il suo posto, fanno si che esso non sia annientato, che conti ancora nell’organismo, dispongono un vuoto che la storia del soggetto riempirà, gli permettono di realizzare il fantasma cosi come le turbe strutturali permettono al contenuto della psicosi di realizzare un delirio. Dal punto di vista che abbiamo assunto, un circuito senso-motorio è, nell’ambito del nostro essere al mondo globale, una corrente di esistenza relativamente autonoma: non perché esso apporti sempre al nostro essere totale un contributo separabile, ma perché, in certe condizioni, è possibile mettere in evidenza risposte costanti per stimoli anch’essi costanti. Si tratta allora di sapere perché il rifiuto della menomazione, che è un atteggiamento di insieme della nostra esistenza, necessita, per realizzarsi, di quella singolarissima modalità che è un circuito sensomotorio e perché il nostro essere al mondo, che dà il loro senso a tutti i nostri riflessi e che, sotto questo profilo, li fonda, ciononostante si abbandona a essi e infine si fonda su di essi. In realtà, come abbiamo dimostrato altrove, i circuiti senso-motori si delineano tanto più nettamente quanto più integrate sono le esistenze con cui si ha a che fare, e il riflesso allo stato puro si trova quasi esclusivamente nell’uomo, che non solo ha un mondo circostante (Umwelt), ma anche un mondo (Welt).23 Dal punto di vista dell’esistenza, questi due fatti, che l’induzione scientifica si limita a giustapporre, si connettono intimamente e vanno intesi sotto una medesima idea. Se l’uomo non deve essere rinchiuso nella ganga dell’ambito sincretico nel quale l’animale vive come in stato di estasi, se deve avere coscienza di un mondo come ragione comune di tutti gli ambienti e teatro di tutti i comportamenti, è necessario che fra lui stesso e ciò che egli chiama la sua azione si stabilisca una distanza, è necessario che, come diceva Malebranche, gli stimoli dell’esterno non lo tocchino più se non con «rispetto», che ogni situazione momentanea cessi di essere per lui la totalità dell’essere e ogni risposta particolare cessi di occupare tutto il suo campo pratico, che l’elaborazione di queste risposte, anziché effettuarsi al centro della sua esistenza, avvenga alla periferia e che infine le risposte stesse non esigano più ogni volta una presa di posizione singolare e siano delineate una volta per tutte nella loro generalità. Così, rinunciando a ima parte della sua spontaneità e impegnandosi nel mondo con organi stabili e circuiti prestabiliti, l’uomo può acquistare lo spazio mentale e pratico che in linea di massima lo svincolerà dal suo ambiente e glielo farà vedere. E a condizione di ricollocare nell’ordine dell’esistenza perfino la presa di coscienza di un mondo oggettivo, non troveremo più contraddizioni tra di essa e il condizionamento corporeo: darsi un corpo abituale è una necessità interna per l’esistenza più integrata. È possibile connettere il «fisiologico» e lo «psichico» proprio perché, reintegrati all’esistenza, essi non si distinguono più come l’ordine dell’in sé e quello del per sé, e perché sono entrambi orientati verso un polo intenzionale o verso un mondo. Certamente, le due storie non combaciano mai completamente: una è banale e ciclica, l’altra può essere aperta e singolare, e si dovrebbe riservare il termine storia al secondo ordine di fenomeni, se la storia fosse una serie di eventi che non solo hanno un senso, ma se lo danno essi stessi. Tuttavia, a meno di una vera rivoluzione che infranga le categorie storiche finora valide, il soggetto della storia non crea di sana pianta la propria parte: di fronte a situazioni tipiche egli prende decisioni tipiche, e Nicola II, ritrovando perfino le parole di Luigi XVI, assume la parte già scritta di un potere stabilito dinnanzi a un nuovo potere. Le sue decisioni traducono un a priori del principe minacciato nello stesso modo in cui i nostri riflessi traducono un a priori specifico. Del resto, queste stereotipie non sono una fatalità: come il vestito, l’ornamento, l’amore trasfigurano i bisogni biologici dai quali sono stati occasionati,


cosi all’interno del mondo culturale l’a priori storico non è costante se non per una fase data e a condizione che l’equilibrio delle forze lasci sussistere le stesse forme. Pertanto, la storia non è né una novità perpetua, né una ripetizione perpetua, ma il movimento unico che crea forme stabili e le dissolve. L’organismo e le sue dialettiche monotone non sono quindi estranee alla storia e come inassimilabili per essa. Considerato concretamente, l’uomo non è uno psichismo unito a un organismo, ma quell’andirivieni dell’esistenza che ora si lascia essere corporea e ora si porta agli atti personali. I motivi psicologici e le occasioni corporee possono intrecciarsi perché in un corpo vivente non vi è un solo movimento che sia assolutamente casuale nei confronti delle intenzioni psichiche, non un solo atto psichico che non abbia trovato almeno il suo germe o il suo disegno generale nelle disposizioni fisiologiche. Non si tratta mai dell’incontro incomprensibile di due causalità, né di una collisione tra l’ordine delle cause e quello dei fini. Ma, con una svolta insensibile, un processo organico sbocca in un comportamento umano, un atto istintivo si trasforma in sentimento, o viceversa un atto umano si immerge nel sonno e continua distrattamente come riflesso. Fra lo psichico e il fisiologico possono intercorrere rapporti di scambio che quasi sempre impediscono di definire una turba mentale come psichica o come somatica. La turba detta somatica abbozza, sul tema dell’accidente organico, commenti psichici, e la turba «psichica» si limita a sviluppare il significato umano dell’evento corporeo. Un malato sente conficcata nel suo corpo una seconda persona. In una metà del corpo egli è uomo, nell’altra è donna. Come distinguere, nei sintomi, le cause fisiologiche e i motivi psicologici? Come associare semplicemente le due spiegazioni e come concepire un punto di congiunzione tra le due determinanti? «In sintomi di questa specie, psichico e fisico sono così intimamente connessi che non si può più pensare di completare uno dei domini funzionali con l’altro e che entrambi devono essere assunti da un terzo...» Si deve «...passare da una conoscenza dei fatti psicologi e fisiologici a un riconoscimento dell’evento animico come processo vitale inerente alla nostra esistenza».24 Cosi, la fisiologia moderna risponde molto chiaramente alla domanda che ponevamo: l’evento psicofisico non può più essere concepito alla maniera della fisiologia cartesiana e come la contiguità di un processo in sé e di una cogitatio. L’unione dell’anima e del corpo non è suggellata da un decreto arbitrario fra due termini esteriori, uno oggetto, l’altro soggetto. In ogni istante essa si compie nel movimento dell’esistenza. Accostandoci al corpo attraverso una prima via d’accesso, quella della fisiologia, abbiamo trovato in esso l’esistenza. Ci è dunque lecito accertare e precisare questo primo risultato interrogando, questa volta, l’esistenza su se stessa, cioè rivolgendoci alla psicologia.


Note

1 Cfr., 2 J.

La strutture du comportement, cap. I e II.

Stein, Pathologie der Wahrnehmung, p. 365.

3 Ibidem,

p. 358.

4 Ibidem,

pp. 360-361.

5 Ibidem,

p. 362

6 Ibidem,

p. 364.

7 «Die 8

Reizvorgänge treffen ein ungestimmtes Reaktìonsorgan.» Ibidem, p. 361.

«Die Siane... die Form eben durch ursprüngliches Formbegreifen zu erkennen geben.» Ibidem, p. 353.

9 Lhermitte,

L’image de notte corps, p. 47.

10 Ibidem,

pp. 129 sgg.

11 Ibidem,

p. 59.

12

Ibidem, p. 73. Lhermitte fa notare che l’illusione degli amputati è in rapporto con la costituzione psichica del soggetto ed è più frequente negli uomini colti.

13 Ibidem,

pp. 129 sgg.

14 Ibidem. 15

L’arto fantasma non si presta né a una pura spiegazione fisiologica, né a una pura spiegazione psicologica: tale è la conclusione di J. Lhermitte, ibidem, p. 126.

16

Schilder, Dos Körperschema; Menninger-Lerchental, Dos Truggebilde der eigenen Gestalt, p. 174; Lhermitte, L’image de notre corps, p. 143.

17 Cfr.,

La structure du comportement, pp. 47 sgg.

18 Ibidem, 19

pp. 196 sgg.

Quando insiste sull’unità della percezione e dell’azione e quando per esprimerla inventa il termine


«processi senso-motori», Bergson cerca, in modo manifesto, di inserire la coscienza nel mondo. Ma se sentire è rappresentarsi una qualità, se il movimento è uno spostamento nello spazio oggettivo, allora non è possibile nessun compromesso fra la sensazione e il movimento, anche considerato allo stato nascente: essi si distinguono come il per sé e l’in sé. In generale, Bergson ha ben visto che il corpo e lo spirito comunicano grazie alla mediazione del tempo, che essere uno spirito significa dominare il flusso del tempo, che avere un corpo significa avere un presente. Egli dice che il corpo è una sezione istantanea sul divenire della coscienza (Matière et mémoire, p. 150). Ma per lui il corpo rimane ciò che noi abbiamo chiamato il corpo oggettivo, la coscienza rimane una conoscenza, il tempo rimane una serie di «adesso», sia che si avvolga su se stesso «come una palla di neve» o che si dispieghi in tempo spazializzato. Pertanto, Bergson può solo tendere o distendere la serie degli «adesso»: egli non arriva mai sino al movimento unico in virtù del quale si costituiscono le tre dimensioni del tempo, e non si vede perché la durata si dissolva in un presente, perché la coscienza si impegni in un corpo e in un mondo. Per quanto riguarda la «funzione del reale», va detto che Janet se ne serve come di una nozione essenziale. Ciò gli permette di abbozzare una acuta teoria dell’emozione come disgregazione del nostro essere abituale, come fuga dal nostro mondo e quindi come variazione del nostro essere al mondo (cfr., per esempio, l’interpretazione della crisi nervosa, De l’angoisse à l’extase, t. II, pp. 450 sgg.). Ma questa teoria dell’emozione non è seguita sino in fondo e negli scritti di Janet contrasta, come mostra J.-P. Sartre, con una concezione meccanica assai vicina a quella di James: la disgregazione della nostra esistenza nell’emozione è trattata come una semplice diversione delle forze psicologiche e l’emozione stessa come la coscienza di questo processo in terza persona. Pertanto, non c’è più motivo di cercare un senso per i comportamenti emozionali che sono il risultato della dinamica cieca delle tendenze, si ritorna al dualismo (Cfr. J.-P. Sartre, Esquisse d’une théorie des émotions). Del resto, P. Janet tratta espressamente la tensione psicologica - cioè il movimento attraverso il quale noi dispieghiamo davanti a noi il nostro «mondo», - come una ipotesi rappresentativa: egli è quindi ben lontano dal considerarla in tesi generale come l’essenza concreta dell’uomo, quantunque lo faccia implicitamente nelle analisi particolari 20

Così Saint-Exupéry, nel cielo di Arras, in mezzo al fuoco della contraerea, non sente più come distinto da se stesso quel corpo che prima gli sfuggiva: «È come se la vita mi fosse data, a ogni secondo. Come se la vita mi diventasse, a ogni secondo, più sensibile. Vivo. Sono vivo. Sono ancora vivo. Sono sempre vivo. Non sono più che una sorgente di vita.» Pilote de guerre, p. 174 (Trad. it. di M. Chiappelli, Milano, Bompiani, 1959, p. 130).

21

«Ma, certo, nel corso della vita, quando nulla di urgente mi governa, quando il mio significato non è in gioco, non concepisco nessun problema più grave di quelli del mio corpo.» A. de SaintExupéry, op. cit., p. 169 (Trad. it. cit., p. 127).

22 Cfr.

J.-P. Sartre, Esquisse d’une théorie des émotions.

23 La

structure du comportement, p. 55.

24 E.

Menninger-Lerchenthal, Das Truggebilde der eigenen Gestalt, pp. 174-175.


II. L’esperienza del corpo e la psicologia classica

Quando descriveva il corpo proprio, la psicologia classica gli attribuiva già «caratteri» incompatibili con lo statuto d’oggetto. In primo luogo affermava che il mio corpo si distingue dal tavolo o dalla lampada perché è costantemente percepito, mentre da quelli posso distogliermi. Pertanto, è un oggetto che non mi abbandona. Ma è dunque ancora un oggetto? Se l’oggetto è una struttura invariabile, non lo è malgrado il mutamento delle prospettive, ma in questo mutamento o attraverso di esso. Le prospettive sempre nuove non sono per esso una semplice occasione di manifestare la propria permanenza, un modo contingente di presentarsi a noi. Esso è oggetto, cioè di fronte a noi, solo perché è osservabile, cioè situato in fondo alle nostre dita o ai nostri sguardi, indivisibilmente sconvolto e ritrovato da ciascuno dei loro movimenti. Altrimenti, sarebbe vero come un’idea, e non presente come una cosa. In particolare l’oggetto è oggetto solo se può essere allontanato e quindi, al limite, scomparire dal mio campo visivo. La sua presenza è tale che non può prescindere da un’assenza possibile. Orbene, la permanenza del corpo proprio è di tutt’altro genere: esso non è al limite di una esplorazione indefinita, si sottrae all’esplorazione e mi si presenta sempre sotto lo stesso angolo. La sua permanenza non è una permanenza nel mondo, ma una permanenza dalla mia parte. Dire che esso è accanto a me, sempre là per me, è quanto dire che non è mai veramente di fronte a me, che non posso dispiegarlo sotto il mio sguardo, che rimane al margine di tutte le mie percezioni, che è con me. È vero che anche gli oggetti esterni non mi mostrano mai uno dei loro aspetti se non nascondendomi gli altri, ma per lo meno io posso scegliere a mio piacimento l’aspetto che mi mostreranno. Essi potrebbero apparirmi esclusivamente in prospettiva, ma la prospettiva particolare che ne ricavo in ogni momento risulta solo da una necessità fisica, cioè da una necessità di cui posso servirmi e che non mi imprigiona: dalla mia finestra si vede solo il campanile della chiesa, ma al tempo stesso questa costrizione mi promette che da un altro luogo si vedrebbe la chiesa per intero. È anche vero che, se sono prigioniero, la chiesa si ridurrà per me a un campanile tronco. Se non mi togliessi il vestito, non ne percepirei mai il rovescio, e si vedrà appunto che i miei vestiti possono divenire come degli annessi del corpo. Ciò non prova che la presenza del mio corpo sia paragonabile alla permanenza di fatto di taluni oggetti, l’organo a uno strumento sempre disponibile, ma viceversa che le azioni nelle quali mi impegno con l’abitudine assimilano i loro strumenti e li fanno partecipare alla struttura originale del corpo proprio. Quest’ultimo, poi, è l’abitudine primordiale, l’abitudine che condiziona tutte le altre e grazie alla quale esse sono comprensibili. La sua permanenza accanto a me, la sua prospettiva invariabile non sono una necessità di fatto, dal momento che la necessità di fatto le presuppone: affinché la mia finestra mi imponga un punto di vista sulla chiesa, è anzitutto necessario che il mio corpo me ne imponga uno sul mondo; la prima necessità può essere semplicemente fisica solo perché la seconda è metafisica, le situazioni di fatto possono investirmi solo se prima di tutto io sono di una natura tale che vi siano per me situazioni di fatto. In altri termini, io osservo gli oggetti esterni con il mio corpo, li maneggio, li ispeziono, ne faccio il giro, ma, per ciò che lo riguarda, non osservo il corpo stesso: per poterlo fare, sarebbe necessario disporre di un secondo corpo che a sua volta non sarebbe osservabile. Quando dico che il mio corpo è sempre percepito da me, queste parole non vanno dunque intese in un senso semplicemente statistico e deve esservi, nella presentazione del corpo proprio, qualcosa che ne renda impensabile l’assenza o anche la variazione. Che cosa dunque? La mia testa non è data alla mia vista se non per l’estremità del naso e per il contorno delle orbite. Io posso si vedere i miei occhi in uno specchio a


tre facce, ma sono gli occhi di uno che osserva, ed è già tanto se riesco a sorprendere il mio sguardo vivente quando per strada uno specchio mi rinvia inopinatamente la mia immagine. Il mio corpo nello specchio non cessa di seguire le mie intenzioni come la loro ombra, e se l’osservazione consiste nel far variare il punto di vista mantenendo fisso l’oggetto, esso si sottrae all’osservazione e si dà come un simulacro del mio corpo tattile, poiché ne mima le iniziative anziché rispondere a esse con un libero svolgimento di prospettive. Il mio corpo visivo è sì oggetto nelle parti lontane dalla mia testa, ma a mano a mano che ci si avvicina agli occhi, esso si separa dagli oggetti, dispone in mezzo agli oggetti un quasi-spazio in cui questi non hanno accesso, e quando voglio colmare questo vuoto ricorrendo all’immagine dello specchio, tale immagine mi rinvia ancora a un originale del corpo che non è laggiù, fra le cose, ma dalla mia parte, al di qua di ogni visione. Nonostante le apparenze, ciò vale anche per il mio corpo tattile, giacché, se posso palpare con la mano sinistra la mano destra mentre tocca un oggetto, la mano destra oggetto non è la mano destra che tocca; la prima è un intreccio di ossa, di muscoli e di carne schiacciato in un punto dello spazio, la seconda attraversa lo spazio come un razzo per andare a rivelare l’oggetto esterno nella sua sede. In quanto vede o tocca il mondo, il mio corpo non può quindi essere visto né toccato. Esso non è mai un oggetto, non è mai «completamente costituito»,1 proprio perché è ciò grazie a cui vi sono degli oggetti. Non è né tangibile né visibile nella misura in cui è corpo che vede e che tocca. Non è quindi un oggetto esterno qualsiasi, che avrebbe semplicemente la peculiarità di essere sempre là. Se è permanente, lo è di una permanenza assoluta che serve da sfondo alla permanenza relativa degli oggetti suscettibili di eclissi, degli autentici oggetti. La presenza e l’assenza degli oggetti esterni non sono se non variazioni, all’interno di un campo di presenza primordiale, di un dominio percettivo sui quali il mio corpo ha potere. Non solo la permanenza del mio corpo non è un caso particolare della permanenza nel mondo degli oggetti esterni, ma la seconda non è comprensibile se non per mezzo della prima; non solo la prospettiva del mio corpo non è un caso particolare di quella degli oggetti, ma la presentazione prospettica degli oggetti non è comprensibile se non per mezzo della resistenza del mio corpo a ogni variazione prospettica. Se è necessario che gli oggetti mi mostrino sempre solo una delle loro facce, lo è perché io stesso sono in un certo luogo dal quale li vedo e che non posso vedere. Ciononostante, io credo ai loro aspetti nascosti come anche a un mondo che li abbraccia tutti e che coesiste con essi, proprio in quanto il mio corpo, sempre presente per me, e nondimeno impegnato in mezzo a essi per tanti rapporti oggettivi, li fa coesistere con sé e fa battere in tutti la pulsazione della sua durata. Cosi, se avesse analizzato la permanenza del corpo proprio, la psicologia classica avrebbe potuto essere condotta, da questa permanenza, al corpo non più come oggetto del mondo, ma come mezzo della nostra comunicazione con esso, al mondo non più come somma di oggetti determinati, ma come orizzonte latente della nostra esperienza, continuamente presente, anch’esso, prima di ogni pensiero determinante. Gli altri «caratteri» con i quali si definiva il corpo proprio non erano meno interessanti, e per gli stessi motivi. Il mio corpo, si diceva, è riconoscibile dal fatto che mi dà delle «sensazioni doppie»: quando tocco la mano destra con la mano sinistra, l’oggetto mano destra ha anch’esso la singolare proprietà di sentire. Precedentemente abbiamo visto che le due mani non sono mai, l’una nei confronti dell’altra; contemporaneamente toccate e toccanti. Quando premo una mano contro l’altra, non si tratta quindi di due sensazioni che proverei insieme, come si percepiscono due oggetti giustapposti, ma di una organizzazione ambigua in cui le due mani possono alternarsi nella funzione di «toccante» e di «toccata». Parlando di «sensazioni doppie», si voleva proprio dire che nel passaggio da una funzione all’altra, io posso riconoscere la mano toccata come la medesima che tra poco sarà toccante: in quel pacco di ossa e di muscoli che è la mano destra per la mano sinistra, per


un istante io indovino l’involucro o l’incarnazione di quella altra mano destra, agile e vivente, che lancio verso gli oggetti per esplorarli. Il corpo sorprende se stesso dall’esterno in atto di esercitare una funzione di conoscenza, tenta di toccarsi toccando, abbozza «una specie di riflessione»,2 e ciò basterebbe per distinguerlo dagli oggetti, di cui posso certo dire che «toccano» il mio corpo, ma solo quando esso è inerte, e quindi senza sorprenderlo mai nella sua funzione esploratrice. Si diceva anche che il corpo è un oggetto affettivo, mentre le cose esterne mi sono solo rappresentate. Ciò significava porre una terza volta il problema dello statuto del corpo proprio. Infatti, se dico che il piede mi fa male, non voglio dire semplicemente che esso è una causa di dolore allo stesso titolo del chiodo che lo strazia e solamente più vicina; non voglio dire che esso è l’ultimo oggetto del mondo esterno, dopo di che comincerebbe un dolore del senso intimo, una coscienza del dolore per se stesso e senza luogo che si connetterebbe al piede solo per una determinazione causale e nel sistema dell’esperienza. Voglio dire che il dolore indica la propria sede e che è costitutivo di uno «spazio doloroso». «Ho male al piede» non significa: «io penso che il piede è causa di questo male», ma: «il dolore viene dal piede» o anche «il mio piede ha male». E ciò è dimostrato dalla «voluminosità primitiva del dolore» di cui parlavano gli psicologi. Si riconosceva dunque che il mio corpo non si offre alla maniera degli oggetti del senso esterno, e che forse questi ultimi si profilano solo su questo sfondo affettivo che getta originariamente la coscienza fuori di se stessa. Infine, quando gli psicologi hanno voluto riservare al corpo proprio delle «sensazioni cinestesiche» che ci darebbero globalmente i suoi movimenti, mentre attribuivano i movimenti degli oggetti esterni a una percezione mediata e al confronto delle posizioni successive, si poteva obiettare loro che, essendo una relazione, il movimento non potrebbe essere sentito ed esige un percorso mentale, ma questa obiezione condannava solo il loro linguaggio. Ciò che essi esprimevano, in verità molto male, con la «sensazione cinestesica», era l’originalità dei movimenti che io eseguo con il corpo: questi movimenti anticipano direttamente la situazione finale, la mia intenzione non abbozza un percorso spaziale se non per raggiungere la meta prefissata là ove si trova, vi è un germe di movimento che solo secondariamente si sviluppa in percorso oggettivo. Io muovo gli oggetti esterni per mezzo del mio proprio corpo che li prende in un luogo per condurli in un altro. Ma questo corpo, io lo muovo direttamente, non lo trovo in un punto dello spazio oggettivo per portarlo in un altro, non ho bisogno di cercarlo, è già con me - non ho bisogno di condurlo verso il termine del movimento, giacché gli è presente sin dall’inizio ed è esso stesso che vi si getta. Nel movimento, i rapporti fra la mia decisione e il mio corpo sono rapporti magici. Se la descrizione del corpo proprio fatta dalla psicologia classica offriva già tutto quanto occorre per distinguerlo dagli oggetti, per quale motivo gli psicologi non hanno operato questa distinzione o comunque non ne hanno tratto nessuna conseguenza filosofica? A questo proposito, va detto che, con un modo di procedere naturale, essi si collocavano nel luogo di pensiero impersonale al quale la scienza si è riferita finché ha creduto di potere separare, nelle osservazioni, ciò che dipende dalla situazione dell’osservatore e le proprietà dell’oggetto assoluto. Per il soggetto vivente, il corpo proprio poteva si essere differente da tutti gli oggetti esterni, ma, per il pensiero non situato dello psicologo, l’esperienza del soggetto vivente diveniva a sua volta un oggetto e, anziché richiedere una nuova definizione dell’essere, prendeva posto nell’essere universale. Ecco il significato dello «psichismo», che, pur essendo contrapposto al reale, era trattato come una seconda realtà, come un oggetto di scienza che andava sottomesso a leggi. Si postulava che la nostra esperienza, già investita dalla fisica e dalla biologia, doveva risolversi interamente in sapere oggettivo quando il sistema delle scienze fosse portato a termine. Conseguentemente, l’esperienza del corpo si degradava a «rappresentazione» del corpo, non era un fenomeno, ma un fatto psichico. Nell’apparenza della vita


il mio corpo visivo comporta una vasta lacuna al livello della testa, ma la biologia era li a colmare questa lacuna, a spiegarla con la struttura degli occhi, a insegnarmi che cosa in verità è il corpo, che ho una retina, un cervello come gli altri uomini e come i cadaveri che seziono, e che infine lo strumento del chirurgo metterebbe infallibilmente a nudo, in questa zona indeterminata della mia testa, la copia esatta delle tavole anatomiche. Io colgo il mio corpo come un oggetto-soggetto, come capace di «vedere» e di «soffrire», ma queste rappresentazioni confuse facevano parte delle curiosità psicologiche, erano campioni di un pensiero magico di cui la psicologia e la sociologia studiano le leggi e che fanno rientrare a titolo di oggetto di scienza nel sistema del mondo vero. L’incompletezza del mio corpo, la sua presentazione marginale, la sua ambiguità come corpo toccante e corpo toccato non potevano quindi essere dei lineamenti di struttura del corpo stesso, non ne scalfivano l’idea, divenivano i «caratteri distintivi» dei contenuti di coscienza che compongono la nostra rappresentazione del corpo: questi contenuti sono costanti, affettivi e bizzarramente accoppiati in «sensazioni doppie», ma, a parte ciò, la rappresentazione del corpo è una rappresentazione come le altre e, correlativamente, il corpo è un oggetto come gli altri. Gli psicologi non si accorgevano che, trattando in questo modo l’esperienza del corpo, non facevano altro, d’accordo con la scienza, che differire un problema inevitabile. L’incompletezza della mia percezione era intesa come una incompletezza di fatto derivante dall’organizzazione dei miei apparati sensoriali; la presenza del mio corpo come una presenza di fatto risultante dalla sua azione perpetua sui miei recettori nervosi; infine, l’unione dell’anima e del corpo, presupposta da queste due spiegazioni, era concepita, secondo il pensiero di Cartesio, come una unione di fatto la cui possibilità di principio non doveva essere stabilita, poiché il fatto, punto di partenza della conoscenza, veniva eliminato dai suoi risultati compiuti. Orbene, lo psicologo poteva si per un momento, alla maniera degli scienziati, guardare il proprio corpo con gli occhi altrui, e vedere il corpo altrui, a sua volta, come un meccanismo senza interiorità. L’apporto delle esperienze estranee veniva a cancellare la struttura della sua, e reciprocamente, avendo perduto contatto con se stesso, egli diveniva cieco per il comportamento altrui. Si installava cosi in un pensiero universale che rimuoveva tanto la sua esperienza dell’altro quanto la sua esperienza di se stesso. Ma, come psicologo, egli era impegnato in un compito che lo richiamava a se stesso, e non poteva rimanere a questo punto di incoscienza. Infatti, il fisico non è l’oggetto di cui parla, come non lo è il chimico, mentre lo psicologo era lui stesso, per principio, il fatto di cui trattava. Quella rappresentazione del corpo, quella esperienza magica che egli affrontava con distacco, era lui, egli la viveva nello stesso tempo in cui la pensava. Come è stato dimostrato,3 per conoscere lo psichismo non gli bastava certo il fatto di esserlo: al pari di ogni sapere, anche questo sapere viene acquisito solo in virtù dei nostri rapporti con l’altro; non è all’ideale di una psicologia di introspezione che ci riportiamo, e lo psicologo poteva e doveva riscoprire un rapporto preoggettivo sia fra se stesso e l’altro che fra se stesso e se stesso. Ma in quanto psichismo che parlava dello psichismo, egli era tutto ciò di cui parlava. Di questa storia dello psichismo, che egli sviluppava nell’atteggiamento oggettivo, lo psicologo possedeva già presso di sé i risultati: o meglio, piuttosto ne era, nella sua esistenza, il risultato contratto e il ricordo latente. L’unione dell’anima e del corpo non si era compiuta una volta per tutte in un mondo remoto, ma in ogni istante rinasceva al di sotto del pensiero dello psicologo, non come un evento che si ripete e che ogni volta sorprende lo psichismo, ma come una necessità che lo psicologo sapeva nel proprio essere nello stesso tempo in cui la constatava con la conoscenza. La genesi della percezione, dai «dati sensibili» sino al «mondo», doveva rinnovarsi a ogni atto percettivo, altrimenti i dati sensibili avrebbero perduto il senso che dovevano a questa evoluzione. Lo «psichismo» non era quindi un oggetto come gli altri: tutto ciò che si sarebbe detto di esso, lo psichismo l’aveva già fatto prima che lo si dicesse; su se


stesso l’essere dello psicologo la sapeva più lunga di lui, a detta della scienza nulla di ciò che gli era accaduto o gli accadeva gli era assolutamente estraneo. Applicato allo psichismo, il concetto di fatto subiva quindi una trasformazione. Lo psichismo di fatto, con le sue «particolarità», non era più un evento nel tempo oggettivo e nel mondo esterno, ma un evento che toccavamo dall’interno, di cui noi eravamo il compimento o il nascimento perpetui e che raccoglieva continuamente in sé il suo passato, il suo corpo e il suo mondo. Prima di essere un fatto oggettivo, l’unione dell’anima e del corpo doveva quindi essere una possibilità della coscienza stessa e si poneva il problema di sapere che cosa deve essere il soggetto percipiente per potere esperire come suo un corpo. Qui non vi era più un fatto subito, ma un fatto assunto. Essere una coscienza o piuttosto essere una esperienza, significa comunicare interiormente con il mondo, con il corpo e con gli altri, essere con essi anziché accanto a essi. Occuparsi di psicologia significa necessariamente incontrare, sotto il pensiero oggettivo che si muove fra le cose bell’e fatte, una prima apertura alle cose senza la quale non ci sarebbe conoscenza oggettiva. Lo psicologo non poteva fare a meno di riscoprirsi come esperienza, cioè come presenza immediata al passato, al mondo, al corpo e all’altro, nel momento stesso in cui voleva riconoscersi come oggetto fra gli oggetti. Ritorniamo dunque ai «caratteri» del corpo proprio e riprendiamone lo studio al punto in cui l’avevamo lasciato. In questo modo ripercorreremo il progresso della psicologia moderna ed effettueremo con essa il ritorno all’esperienza.


Note

1

Husserl, Ideen II. Siamo grati a Mons. Noël e all’Institut Supérieur de Philosophie di Lovanio, depositario dell’insieme del Nachlass, e in particolare al R. P. Van Breda, di aver potuto consultare un certo numero di inediti.

2 Husserl, 3 P.

Meditazioni cartesiane, p. 81.

Guillaume, L’objectivité en psychologie


III. La spazialità del corpo proprio e la motilità

Anzitutto descriviamo la spazialità del corpo proprio. Se il mio braccio è posato sul tavolo, non mi verrà mai in mente di dire che esso è accanto al portacenere come il portacenere è accanto al telefono. Il contorno del mio corpo è una frontiera che le ordinarie relazioni di spazio non oltrepassano. Infatti, le sue parti si riferiscono l’una all’altra in modo originale: non sono dispiegate l’una accanto all’altra, ma implicate l’una nell’altra. Per esempio, la mia mano non è una collezione di punti. Nel caso della allochiria,1 in cui il soggetto sente nella mano destra gli stimoli applicati alla mano sinistra, è impossibile supporre che ogni stimolazione muti valore spaziale per conto suo,2 e i differenti punti della mano sinistra sono trasportati a destra in quanto dipendono da un organo totale, da una mano senza parti che d’un sol tratto è stata spostata. Essi formano quindi un sistema, e lo spazio della mia mano non è un mosaico di valori spaziali. Analogamente, il mio intero corpo non è per me un aggregato di organi giustapposti nello spazio. Io lo tengo in un possesso indiviso e conosco la posizione di ogni mio membro grazie a uno schema corporeo nel quale sono comprese tutte le membra. Ma la nozione dello schema corporeo è ambigua, come del resto tutte quelle che appaiono alle svolte della scienza. Esse non potrebbero venire interamente sviluppate se non mediante una riforma dei metodi. Dapprima, vengono quindi impiegate in un senso che non è il loro senso pieno, ed è il loro sviluppo immanente a mandare in frantumi i vecchi metodi. Con «schema corporeo» si intendeva dapprima un riassunto della nostra esperienza corporea, atto a fornire un commento e un significato all’enterocettività e alla propriocettività del momento. Esso doveva darmi il mutamento di posizione delle parti del mio corpo per ogni movimento di una di esse, la posizione di ogni stimolo locale nell’insieme del corpo, il bilancio dei movimenti compiuti in ogni momento da un gesto complesso, e infine una perpetua traduzione in linguaggio visivo delle impressioni cinestesiche e articolari del momento. Parlando dello schema corporeo, dapprima si credeva di introdurre semplicemente un nome comodo per designare un gran numero di associazione di immagini e si voleva solamente esprimere che queste associazioni erano saldamente stabilite e costantemente pronte a entrare in azione. Lo schema corporeo doveva edificarsi gradualmente nel corso dell’infanzia, a mano a mano che i contenuti tattili, cinestesici e articolari si associavano tra di essi o con dei contenuti visivi e li evocavano più facilmente.3 Pertanto, la sua rappresentazione fisiologica non poteva essere se non un centro di immagini nel senso classico. Nell’uso che ne fanno gli psicologi, appare però chiaro che lo schema corporeo oltrepassa questa definizione associazionistica. Per esempio, affinché lo schema corporeo ci faccia comprendere meglio l’allochiria, non è sufficiente che ogni sensazione della mano sinistra venga a porsi e a situarsi fra immagini generiche di tutte le parti del corpo che si assoderebbero per formare attorno a essa come un disegno del corpo in sovrimpressione; è necessario che in ogni momento queste associazioni siano regolate da una legge unica, che la spazialità del corpo discenda dal tutto alle parti, che la mano sinistra e la sua posizione sia implicata in un disegno globale del corpo e vi abbia la sua origine, cosicché in un sol tratto essa possa non solo sovrapporsi alla mano destra, o abbassarsi su questa, ma anche divenire la mano destra. Quando si vuole4 rischiarare il fenomeno dell’arto fantasma collegandolo allo schema corporeo del soggetto, si aggiunge qualcosa alle spiegazioni classiche fondate sulle tracce cerebrali e le sensazioni rinascenti solo se lo schema corporeo, anziché essere il residuo della consueta cenestesia, ne diviene la legge di costituzione. Si è sentito il bisogno di


introdurre questa parola nuova proprio per esprimere che l’unità spaziale e temporale, l’unità sensomotoria del corpo è per cosi dire di diritto, che essa non si limita ai contenuti effettivamente e casualmente associati nel corso della nostra esperienza, che in un certo modo li precede e rende appunto possibile la loro associazione. Ci si avvia quindi verso una seconda definizione dello schema corporeo: esso non sarà più il semplice risultato delle associazioni stabilite nel corso dell’esperienza, ma una presa di coscienza globale della mia postura nel mondo intersensoriale, una «forma» nel senso Gestaltpsychologie.5 Ma, a sua volta, questa seconda definizione è già superata dalle analisi degli psicologi. Non basta dire che il mio corpo è una forma, cioè un fenomeno nel quale il tutto è anteriore alle parti. Come è possibile un tale fenomeno? A questo proposito, va detto che, confrontata al mosaico del corpo fisico-chimico o a quello della «cenestesia», una forma è un nuovo tipo di esistenza. Se l’arto paralizzato non conta più nello schema corporeo dell’anosognosico è perché lo schema corporeo non è né il semplice calco, né la coscienza globale delle parti esistenti del corpo, ma se le integra attivamente in ragione del loro valore per i progetti dell’organismo. Gli psicologi dicono spesso che lo schema corporeo è dinamico.6 Ricondotto a un senso preciso, questo termine significa che il mio corpo mi appare come atteggiamento in vista di un certo compito attuale o possibile. E infatti la sua spazialità non è, come quella degli oggetti esterni o come quella delle «sensazioni spaziali», una spazialità di posizione, ma una spazialità di situazione. Se sto in piedi di fronte alla scrivania e mi appoggio su di essa con entrambe le mani, solo le mie mani sono messe in risalto e tutto il mio corpo si trascina dietro a esse come una coda di cometa. Non che io ignori la posizione delle spalle o dei reni, ma essa non è che implicata in quella delle mie mani e tutto il mio atteggiamento si legge, per cosi dire, nell’appoggio che esse prendono sul tavolo. Se io sono in piedi e tengo la mia pipa chiusa nella mano, la posizione della mano non è determinata discorsivamente dall’angolo che essa fa con l’avambraccio, l’avambraccio con il braccio, il braccio con il tronco e infine il tronco con il suolo. Io so dove è la pipa in virtù di un sapere assoluto, e con ciò so dove è la mano e dove è il corpo, cosi come nel deserto il primitivo si orienta immediatamente senza dover ricordare e addizionare le distanze percorse dopo la partenza e gli angoli di deriva. Applicata al mio corpo, la parola «qui» non indica una posizione determinata in rapporto ad altre posizioni o in rapporto a coordinate esterne, ma l’installazione delle prime coordinate, l’ancoraggio del corpo attivo in un oggetto, la situazione del corpo di fronte ai suoi compiti. Lo spazio corporeo può distinguersi dallo spazio esterno e avviluppare le sue patti anziché dispiegarle, perché esso è l’oscurità della sala necessaria alla chiarezza dello spettacolo, lo sfondo di sonno o la riserva di potenza vaga sui quali si staccano il gesto e il suo scopo,7 la zona di non-essere di fronte alla quale possono apparire degli esseri precisi, delle figure e dei punti. In ultima analisi, il mio corpo può essere una «forma» e dinnanzi a esso possono esservi figure privilegiate su sfondi indifferenti, proprio perché è polarizzato dai suoi compiti, esiste verso di essi e si raccoglie su se stesso per conseguire il suo scopo: lo «schema corporeo» è insomma una maniera di dire che il mio corpo è al mondo.8 Per quanto concerne la spazialità, che per il momento è la sola a interessarci, il corpo proprio è il terzo termine, sempre sottinteso, della struttura figura e sfondo, e ogni figura si profila sul duplice orizzonte dello spazio esterno e dello spazio corporeo. Si deve quindi respingere come astratta ogni analisi dello spazio corporeo che tenga conto solo di figure e punti, giacché, senza orizzonti, le figure e i punti non possono né essere concepiti, né essere. Si risponderà forse che la struttura figura e sfondo o la struttura punto-orizzonte presuppongono anch’esse il concetto di spazio oggettivo, che, per esperire un gesto di destrezza come figura sullo sfondo massiccio del corpo, è pur necessario collegare la mano e il resto del corpo mediante questo


rapporto di spazialità oggettiva e che cosi la struttura figura e sfondo torna a essere uno dei contenuti contingenti della forma universale di spazio. Ma quale senso potrebbe avere la parola «su» per un soggetto che, mediante il suo corpo, non fosse situato di fronte al mondo? Essa implica la distinzione di alto e basso, cioè uno «spazio orientato».9 Quando dico che un oggetto è su un tavolo, con il pensiero io mi pongo sempre nel tavolo o nell’oggetto, e applico a essi una categoria che in linea di principio si attaglia al rapporto fra il mio corpo e gli oggetti esterni. Senza questa portata antropologica la parola «su» non si distingue più dalla parola «sotto» o dal termine «accanto a...». Anche se è ciò senza di cui non ci sarebbe, per noi, spazio corporeo, la forma universale di spazio non è ciò grazie a cui ve ne è uno. Anche se non è l’ambito nel quale, ma il mezzo con il quale si pone il contenuto, la forma non è, per quanto concerne lo spazio corporeo, il mezzo sufficiente di tale posizione, e in questa misura il contenuto corporeo rimane, in rapporto a essa, qualcosa di opaco, accidentale e inintelligibile. L’unica soluzione consisterebbe allora nell’ammettere che la spazialità del corpo non ha un senso proprio e distinto dalla spazialità oggettiva, il che farebbe scomparire il contenuto come fenomeno e simultaneamente il problema del suo rapporto con la forma. Ma possiamo fingere di non trovare nessun senso distinto per le parole «su», «sotto», «accanto a...», per le dimensioni dello spazio orientato? Anche se in tutte queste relazioni l’analisi ritrova la relazione universale di esteriorità, tuttavia l’evidenza dell’alto e del basso, della destra e della sinistra per colui che abita lo spazio ci impedisce di trattare come un non senso tutte queste distinzioni, e ci invita a cercare sotto il senso esplicito delle definizioni il senso latente delle esperienze. I rapporti dei due spazi sarebbero allora i seguenti: non appena voglio tematizzare lo spazio corporeo o svilupparne il senso, non trovo in esso se non lo spazio intelligibile. Ma in pari tempo questo spazio intelligibile non è svincolato dallo spazio orientato, non ne è appunto che l’esplicitazione e, distaccato da questa radice, non ha assolutamente senso, cosicché lo spazio omogeneo può esprimere il senso dello spazio orientato solo perché l’ha ricevuto da questo. Se il contenuto può essere veramente sussunto sotto la forma e apparire come contenuto di questa forma, è perché la forma è accessibile esclusivamente attraverso di esso. Lo spazio corporeo può divenire veramente un frammento dello spazio oggettivo solo se, nella sua singolarità di spazio corporeo, contiene il fermento dialettico che lo trasformerà in spazio universale. È quanto abbiamo tentato di esprimere dicendo che la struttura punto-orizzonte è il fondamento dello spazio. Se non appartenessero al medesimo genere d’essere che la figura e se non potessero essere convertiti in punti da un movimento dello sguardo, l’orizzonte o lo sfondo non si estenderebbero oltre la figura, o intorno a essa. Ma la struttura punto-orizzonte può insegnarmi che cos’è un punto solo disponendo davanti al punto stesso la zona di corporeità dalla quale sarà visto, e attorno a esso gli orizzonti indeterminati che sono la contropartita di questa visione. Per principio, la molteplicità dei punti o dei «qui» può costituirsi solamente grazie a una concatenazione di esperienze nella quale, per ogni volta, uno solo di essi è dato come oggetto e che si effettua essa stessa nel cuore di questo spazio. Infine, non solo il mio corpo non è per me un semplice frammento dello spazio, ma per me non ci sarebbe spazio se non avessi un corpo. Se lo spazio corporeo e lo spazio esterno formano un sistema pratico, il primo essendo lo sfondo sul quale può staccarsi o il vuoto di fronte al quale può apparire l’oggetto come scopo della nostra azione, evidentemente la spazialità del corpo si compie nell’azione e l’analisi del movimento proprio deve permetterci di comprenderla meglio. Considerando il corpo in movimento, risulta più chiaro come esso abiti lo spazio (e del resto il tempo), poiché il movimento non si accontenta di subire lo spazio e il tempo, ma li assume attivamente, li riprende nel loro significato originario che, nella banalità delle situazioni acquisite, scompare. Vorremmo analizzare da vicino un esempio di motilità morbosa che mette a nudo i rapporti fondamentali fra il corpo e lo spazio.


Un malato,10 che la psichiatria tradizionale considererebbe afflitto da cecità psichica, è incapace di eseguire, con gli occhi chiusi, movimenti «astratti», cioè movimenti che non si rivolgano a nessuna situazione effettiva, come muovere su comando le braccia o le gambe, distendere o flettere un dito. Egli non può nemmeno descrivere la posizione del suo corpo o della sua testa, né i movimenti passivi dei suoi arti. Infine, quando gli si tocca la testa, il braccio o la gamba, non può dire quale punto del suo corpo è stato toccato; non distingue due punti di contatto sulla sua pelle, anche se distano ottanta millimetri; non riconosce né la grandezza né la forma degli oggetti che si applicano contro il suo corpo. Il malato riesce a compiere movimenti astratti solo se gli si permette di guardare l’arto che ne è incaricato o di eseguire con tutto il corpo movimenti preparatori. Anche la localizzazione degli stimoli e il riconoscimento degli oggetti tattili divengono possibili grazie a movimenti preparatori. Pur con gli occhi chiusi, il malato compie con una rapidità e una sicurezza straordinarie i movimenti necessari alla vita, purché gli siano abituali: prende il fazzoletto nella tasca e si soffia il naso, prende un fiammifero in una scatola e accende una lampada. Il suo mestiere consiste nel fabbricare portafogli e il rendimento del suo lavoro raggiunge i tre quarti del rendimento di un operaio normale. Pur senza movimenti preparatori, egli può eseguire11 questi movimenti «concreti» su comando. Nello stesso malato, ma anche nei cerebellari si constata12 una dissociazione fra l’atto di mostrare e le reazioni di prensione: il medesimo soggetto che su comando è incapace di mostrare con il dito una parte del corpo, porta vivamente la mano nel punto in cui lo punge una zanzara. C’è quindi un privilegio dei movimenti concreti e dei movimenti di prensione di cui dobbiamo cercare la ragione. Consideriamo le cose più da vicino. Un malato al quale si chiede di mostrare con il dito una parte del suo corpo, per esempio il naso, vi riesce esclusivamente se gli si permette di prenderlo. Se gli si ingiunge di interrompere il movimento prima che consegua il suo fine, o se egli può toccare il naso solo per mezzo di una bacchetta di legno, il movimento diviene impossibile.13 Si deve quindi ammettere che, anche per il corpo, «prendere» o «toccare» è diverso da «mostrare». Sin dalla sua origine il movimento di prensione è magicamente al suo termine, non comincia se non anticipando la sua fine, giacché il divieto di prendere è sufficiente per inibirlo. E si deve ammettere che un punto del mio corpo può essermi presente come punto da prendere senza essermi dato, in questa presa anticipata, come punto da mostrare. Ma come è possibile tutto ciò? Se so dove è il mio naso quando si tratta di prendere, come potrei non saperlo quando si tratta di mostrare? Il fatto è che la nozione di un luogo viene intesa in vari sensi. La psicologia classica non dispone di nessun concetto per esprimere queste varietà della coscienza del luogo, perché per essa la coscienza del luogo è sempre coscienza posizionale, rappresentazione, Vor-stellung, perché a questo titolo essa ci dà il luogo come determinazione del mondo oggettivo e infine perché una tale rappresentazione è o non è, ma se è, ci offre il suo oggetto senza ambiguità e come un termine identificabile attraverso tutte le sue apparizioni. Per contro, noi dobbiamo qui elaborare i concetti necessari per esprimere il fatto che lo spazio corporeo può essermi dato in una intenzione di prensione senza essermi dato in una intenzione di conoscenza. Il malato ha coscienza dello spazio corporeo come ganga della sua azione abituale, ma non come contesto oggettivo, il suo corpo è a sua disposizione come mezzo per inserirsi in un mondo circostante che gli sia familiare, ma non come mezzo d’espressione di un pensiero spaziale gratuito e libero. Quando gli si ingiunge di eseguire un movimento concreto, dapprima egli ripete l’ordine con un accento interrogativo, poi il suo corpo si installa nella posizione di insieme richiesta dal compito; infine esegue il movimento. Si nota che tutto il corpo collabora a questo movimento e che il malato non lo riduce mai, come farebbe un soggetto normale, ai tratti strettamente indispensabili. Con il saluto militare vengono gli altri segni esteriori di rispetto. Con il gesto della


mano destra che finge di ravviare i capelli, viene quello della sinistra che tiene lo specchio, con il gesto della mano destra che conficca un chiodo viene quello della mano sinistra che tiene il chiodo. Vero è che la consegna è presa sul serio e che il malato non riesce a compiere su comando i movimenti concreti se non a condizione di porsi mentalmente nella situazione effettiva alla quale essi corrispondono. Quando esegue su comando il saluto militare, il soggetto normale vede in dò solo una situazione di esperienza, riduce quindi il movimento ai suoi elementi più significativi e non vi si cala totalmente.14 Egli recita con il proprio corpo, si compiace di fare il soldato, si «irrealizza» nella parte del soldato15 come l’attore introduce il suo corpo reale nel «grande fantasma»16 del personaggio che deve interpretare. L’uomo normale e l’attore non considerano reali delle situazioni immaginarie, ma viceversa staccano il loro corpo dalla sua situazione vitale per farlo respirare, parlare e, all’occorrenza, piangere nell’immaginario. È dò che il nostro malato non può più fare. Nella vita, egli dice, «sento i movimenti come un risultato della situazione, della serie degli eventi stessi; io e i miei movimenti non siamo, per cosi dire, se non un anello nello svolgimento dell’insieme ed è già tanto se ho coscienza dell’iniziativa volontaria ... tutto va avanti da solo». Parimenti, per eseguire un movimento su comando, egli si pone «nella situazione affettiva d’insieme, ed è da questa che fluisce il movimento, come nella vita».17 Se si interrompe il suo fare e lo si richiama alla situazione d’esperienza, tutta la sua destrezza scompare. L’iniziazione cinetica diviene nuovamente impossibile, prima di tutto il malato deve «trovare» il suo braccio, «trovare» il gesto richiesto mediante movimenti preparatori, mentre il gesto stesso perde il carattere melodico che offre nella vita abituale e manifestamente diviene una somma di movimenti parziali laboriosamente giustapposti. Per mezzo del mio corpo, come potenza di un certo numero di azioni familiari, posso quindi installarmi nel mio mondo circostante come insieme di manipulanda, senza cogliere né il mio corpo né il mio mondo circostante come oggetti in senso kantiano, cioè come sistemi di qualità collegate da una legge intelligibile, come entità trasparenti, libere da ogni aderenza locale o temporale e pronte per la denominazione o almeno per un gesto di designazione. C’è il mio braccio come supporto di questi atti che conosco bene, il mio corpo come determinata potenza d’azione di cui conosco in anticipo il campo o la portata, c’è il mio mondo circostante come l’insieme dei possibili punti d’applicazione di questa potenza, - e c’è, d’altra parte, il mio braccio come macchina di muscoli e di ossa, come apparato atto a flettersi e a distendersi, come oggetto articolato, il mondo come puro spettacolo al quale non mi unisco ma che contemplo e mostro con il dito. Per quanto concerne lo spazio corporeo, appare chiaro che c’è un sapere dell’uomo che si riduce a una specie di coesistenza con esso e che non è un nulla, quantunque non possa essere tradotto né per mezzo di una descrizione, né per mezzo della designazione muta di un gesto. Il malato morsicato da una zanzara non deve cercare il punto in cui è stato morsicato, lo trova immediatamente perché per lui non si tratta di situarlo in rapporto ad assi di coordinate nello spazio oggettivo, ma di raggiungere con la sua mano fenomenica un certo posto dolorante del suo corpo fenomenico, e perché, nel sistema naturale del corpo proprio, è dato un rapporto vissuto fra la mano come facoltà di grattare e il punto della morsicatura come punto da grattare. L’operazione si svolge interamente nell’ordine del fenomenico, non passa per il mondo oggettivo, e solamente Io spettatore, che presta al soggetto del movimento la sua rappresentazione oggettiva del corpo vivente, può credere che la morsicatura sia percepita, che la mano si muova nello spazio oggettivo e, pertanto, può meravigliarsi che lo stesso soggetto fallisca nelle esperienze di designazione. Parimenti, posto di fronte alle sue forbici, al suo ago e alle sue mansioni consuete, il soggetto non ha bisogno di cercare le mani o le dita, poiché questi non sono oggetti da trovare nello spazio oggettivo, non sono ossa, muscoli, nervi, ma potenze già mobilitate dalla percezione delle forbici o dell’ago, l’estremità centrale dei «fili intenzionali» che lo collegano


agli oggetti dati. Non muoviamo mai il nostro corpo oggettivo, ma il nostro corpo fenomenico, e ciò non ha nulla di misterioso, giacché era già il nostro corpo, come potenza di queste e quelle regioni del mondo, a levarsi verso gli oggetti da afferrare e a percepirli.18 Cosi, il malato non deve cercare una scena e uno spazio in cui dispiegare i movimenti concreti, ma anche questo spazio è dato, è il mondo attuale, è il pezzo di cuoio «da tagliare», è la fodera «da cucire». Il banco, le forbici, i pezzi di cuoio si presentano al soggetto come poli d’azione, definiscono con i loro valori combinati una certa situazione, e una situazione aperta, che richiede un certo modo di soluzione, un certo lavoro. Il corpo non è se non un elemento nel sistema del soggetto e del suo mondo, e il compito ottiene da esso i movimenti necessari mediante una specie di attrazione a distanza, cosi come le forze fenomeniche all’opera nel mio campo visivo ottengono da me, senza calcolo, le reazioni motorie che stabiliranno tra queste forze il migliore equilibrio, o come le consuetudini del nostro ambiente, la costellazione dei nostri uditori ottengono immediatamente da noi le parole, gli atteggiamenti, il tono opportuni, non perché noi cerchiamo di dissimulare i nostri pensieri o di piacere, ma perché siamo letteralmente ciò che gli altri pensano di noi e ciò che è il nostro mondo. Nel movimento concreto il malato non ha né coscienza tetica dello stimolo, né coscienza tetica della reazione: semplicemente, egli è il suo corpo, e il suo corpo è la potenza di un certo mondo. Che cosa succede invece nelle esperienze in cui il malato fallisce? Se si tocca una parte del suo corpo e gli si chiede di localizzare il punto di contatto, egli comincia con il mettere in movimento tutto il corpo e abbozza cosi la localizzazione, poi la precisa muovendo l’arto interessato e la porta a termine con piccole contrazioni della pelle in vicinanza del punto toccato.19 Se si pone il braccio del soggetto in estensione orizzontale, egli non può descriverne la posizione se non dopo una serie di movimenti pendolari che gli danno la situazione del braccio in rapporto al tronco, quella dell’avambraccio in rapporto al braccio, quella del tronco in rapporto alla verticale. In caso di movimento passivo, il soggetto sente che c’è movimento senza poter dire quale movimento e in quale direzione. Anche qui egli fa ricorso a movimenti attivi. Il malato deduce la sua posizione supina dalla pressione del materasso sulla schiena, la sua posizione eretta dalla pressione del suolo sui piedi.20 Se si pongono sulla sua mano le due punte di un compasso, egli le distingue solo a condizione di poter far dondolare la mano e mettere a contatto della pelle ora l’una, ora l’altra punta. Se sulla sua mano si disegnano delle lettere o delle cifre, il malato le identifica solo a condizione di muovere egli stesso la mano, e non percepisce il movimento della punta sulla mano, ma viceversa il movimento della mano in rapporto alla punta: ciò viene comprovato disegnando sulla mano sinistra delle lettere normali, che non sono mai riconosciute, poi l’immagine speculare delle medesime lettere, la quale è subito compresa. Il semplice contatto di un rettangolo o di un ovale di carta non danno luogo a nessun riconoscimento, mentre il soggetto riconosce le figure se gli vengono permessi movimenti di esplorazioni, di cui si serve per «compitarle», per individuare i loro «caratteri» e per dedurne l’oggetto.21 Come coordinare questa serie di fatti e come cogliere attraverso di essi la funzione che esiste nella persona normale e che manca al malato? Non si tratta certo di trasferire semplicemente nella persona normale ciò che manca al malato e che egli cerca di ritrovare. Come l’infanzia e come lo stato di «primitivo», la malattia è una forma d’esistenza completa e i procedimenti che essa adotta per sostituire le funzioni normali distrutte sono anch’essi fenomeni patologici. Non si può dedurre il normale dal patologico, le deficienze dai fenomeni di sostituzione, con un semplice mutamento di segno. È necessario comprendere i fenomeni di sostituzione come fenomeni di sostituzione, come allusioni a una funzione fondamentale che tentano di surrogare e di cui non ci danno l’immagine diretta. L’autentico metodo induttivo non consiste in un «metodo di differenze», ma nel leggere


correttamente i fenomeni, nell’intenderne il senso, cioè nel trattarli come modalità e variazioni dell’essere totale del soggetto. Noi constatiamo che il malato interrogato sulla posizione delle sue membra o su quella di uno stimolo tattile, cerca, mediante movimenti preparatori, di fare del suo corpo un soggetto di percezione attuale; interrogato sulla forma di un oggetto a contatto con il suo corpo, cerca di tracciarla egli stesso seguendo il contorno dell’oggetto. Nulla di più falso che supporre nel soggetto normale le medesime operazioni, solamente abbreviate dall’abitudine. Il malato non ricerca queste percezioni esplicite se non per surrogare una certa presenza del corpo e dell’oggetto che è data nella persona normale e che ci resta da ricostituire. Certamente, anche nel soggetto normale la percezione del corpo e degli oggetti a contatto con il corpo è confusa, se questo soggetto è immobile.22 Tuttavia, in ogni caso il normale distingue senza movimento uno stimolo applicato alla testa e uno stimolo applicato al corpo. Dovremmo supporre23 che l’eccitazione esterocettiva o propriocettiva ha destato in lui dei «residui cinestesia» che fungono da movimenti effettivi? Ma in che modo i dati tattili potrebbero risvegliare dei «residui cinestesici» determinati se non possedessero qualche carattere che li rende idonei a ciò, se non avessero essi stessi un significato spaziale preciso o confuso?24 Pertanto, diremo almeno che il soggetto normale ha immediatamente delle «prese»25 sul suo corpo. Egli non dispone solamente del suo corpo come implicato in un ambiente concreto, non è soli niente in citazione nei confronti delle mansioni proprie di un mestiere, non è solamente aperto alle situazioni reali, ma ha, in più, il suo corpo come correlato di puri stimoli privi di significato pratico, è aperto alle situazioni verbali e fittizie che egli può scegliersi o che uno sperimentatore può proporgli. Il suo corpo non gli è dato dal tatto come un disegno geometrico sul quale ogni stimolo verrebbe a occupare una posizione esplicita, e la malattia di Schneider consiste appunto nell’aver bisogno, per sapere dove lo si tocca, di far passare la parte toccata del corpo allo stato di figura. Ma nel soggetto normale ogni stimolazione corporea desta, anziché un movimento attuale, una specie di «movimento virtuale», la parte del corpo interrogata esce dall’anonimato, si annuncia con una tensione particolare e come una certa potenza d’azione nell’ambito del dispositivo anatomico. Nel soggetto normale il corpo non è solamente mobilitabile dalle situazioni reali che l’attirano dalla loro parte, ma può distogliersi dal mondo, applicare la sua attività agli stimoli che si inscrivono sulle sue superfici sensoriali, prestarsi a delle esperienze e, più in generale, situarsi nel virtuale. Il tatto patologico necessita di movimenti propri per localizzare gli stimoli appunto perché è rinchiuso nell’attuale, e per lo stesso motivo il malato sostituisce il riconoscimento e la percezione tattili con la decifrazione laboriosa degli stimoli e con la deduzione degli oggetti. Affinché una chiave, per esempio, appaia come chiave nella mia esperienza tattile, occorre una specie di ampiezza del tatto, un campo tattile nel quale le impressioni locali possano integrarsi a una configurazione così come le note sono solo i punti di passaggio della melodia; e la stessa viscosità dei dati tattili che assoggetta il corpo a situazioni effettive, riduce l’oggetto a una somma di «caratteri» successivi, la percezione a connotati astratti, il riconoscimento a una sintesi razionale, a una congettura probabile, e priva l’oggetto della sua presenza carnale e della sua fatticità. Mentre nel soggetto normale ogni evento motorio o tattile provoca nella coscienza un moltiplicarsi di intenzioni che vanno, dal corpo come centro d’azione virtuale, sia verso il corpo stesso che verso l’oggetto, nel malato, viceversa, l’impressione tattile rimane opaca e chiusa in sé. Tale impressione può anche attirare a sé la mano in un movimento di prensione, ma non si dispone di fronte a essa come qualcosa che si possa mostrare. Il soggetto normale fa i conti con il possibile che acquista cosi, senza abbandonare il suo posto di possibile, una specie di attualità, mentre nel malato il campo dell’attuale si limita a ciò che è incontrato in un contatto effettivo o collegato a questi dati


da una deduzione esplicita. L’analisi del «movimento astratto» nei malati mostra ancor meglio quel possesso dello spazio, quella esistenza spaziale che è la condizione primordiale di ogni percezione vivente. Se si prescrive al malato di eseguire un movimento astratto con gli occhi chiusi, una serie di operazioni preparatorie gli è necessaria per «trovare» l’arto effettore stesso, la direzione o l’andamento del movimento, e infine il piano nel quale esso si svolgerà. Se, per esempio, gli si ordina, senza altre precisazioni, di muovere il braccio, in un primo tempo egli rimane interdetto. Poi muove tutto il corpo, e i movimenti si restringono in seguito al braccio che il soggetto finisce per «trovare». Se si tratta di «alzare il braccio», il malato deve anche «trovare» la testa (che per lui è l’emblema delimito») mediante una serie di oscillazioni pendolari che saranno proseguite per tutta la durata del movimento e che ne fissano lo scopo. Se al soggetto si chiede di tracciare nell’aria un quadrato o un cerchio, dapprima egli «trova» il braccio, poi porta la mano in avanti, come fa un soggetto normale per individuare un muro nell’oscurità, infine abbozza vari movimenti secondo la linea retta e secondo differenti curve, e se uno di questi movimenti si trova a essere circolare, egli lo conclude prontamente. Inoltre, egli non riesce a trovare il movimento se non in un certo piano che non è esattamente perpendicolare al suolo e, fuori di questo piano privilegiato, non sa nemmeno abbozzarlo.26 Evidentemente, il malato non dispone del proprio corpo se non come di una massa amorfa nella quale solo il movimento effettivo introduce divisioni e articolazioni. Nell’intento di eseguire il movimento, egli fa assegnamento sul corpo come un oratore che non potrebbe dire una parola senza basarsi su un testo scritto in precedenza. Il malato non cerca e non trova da sé il movimento, ma agita il corpo finché appare il movimento. La consegna impartitagli non è per lui priva di senso perché egli sa riconoscere ciò che c’è d’imperfetto nei suoi primi abbozzi, e perché, se per caso la gesticolazione compie il movimento richiesto, sa anche riconoscerlo o utilizzare prontamente questa fortunata circostanza. Ma, pur avendo per lui un significato intellettuale, la prescrizione non ha un significato motorio, non parla a lui come soggetto capace di movimento: nella traccia di un movimento effettuato il malato può anche ritrovare la illustrazione della consegna data, ma non può mai dispiegare il pensiero di un movimento in movimento effettivo. Non gli manca né la motilità, né il pensiero, e noi siamo invitati a riconoscere, tra il movimento come processo in terza persona e il pensiero come rappresentazione del movimento, una anticipazione o una apprensione del risultato assicurata dal corpo stesso come potenza motrice, un «progetto motorio» (Bewegungsentwurf), una «intenzionalità motoria» senza i quali la consegna rimane lettera morta. Ora il malato pensa la formula ideale del movimento, ora lancia il suo corpo in tentativi ciechi, mentre nel soggetto normale ogni movimento è indissolubilmente movimento e coscienza di movimento. Tutto ciò può essere espresso dicendo che nel soggetto normale ogni movimento ha uno sfondo, e che il movimento e il suo sfondo sono «momenti di una totalità unica».27 Lo sfondo del movimento non è una rappresentazione associata o collegata esteriormente al movimento stesso, ma è immanente al movimento, lo anima e lo sostiene in ogni momento, per il soggetto l’iniziazione cinetica è un modo originale di riferirsi a un oggetto allo stesso titolo che la percezione. Con ciò si fa luce sulla distinzione fra il movimento astratto e il movimento concreto: lo sfondo del movimento concreto è il mondo dato, quello del movimento astratto è invece costruito. Quando faccio segno a un amico di avvicinarsi, la mia intenzione non è un pensiero che preparerei in me stesso, non percepisco il segno nel mio corpo. Faccio segno attraverso il mondo, faccio segno laggiù, dove si trova il mio amico, e la distanza che mi separa da lui, il suo consenso o il suo rifiuto si leggono immediatamente nel mio gesto, non c’è una percezione seguita da un movimento, la percezione e il movimento formano un sistema che si modifica come un tutto. Se, per esempio, mi accorgo che non mi si vuole obbedire e modifico il mio gesto in conseguenza, non ci


sono qui due atti di coscienza distinti, ma io vedo la cattiva volontà dell’altro, e il mio gesto di impazienza esce da questa situazione senza che si interponga nessun pensiero.28 Se ora eseguo «il medesimo» movimento, ma senza rivolgermi a nessun destinatario presente o anche immaginario e come «una serie di movimenti in sé»,29 se eseguo cioè una «flessione» dell’avambraccio sul braccio con «supinazione» del braccio e «flessione» delle dita, il mio corpo, che prima era il veicolo del movimento, ne diviene esso stesso il fine, il suo progetto motorio non ha più di mira qualcuno nel mondo, ma il mio avambraccio, il mio braccio, le mie dita, e li ha di mira in quanto sono capaci di rompere il loro inserimento nel mondo dato e di delineare attorno a me una situazione fittizia, o anche in quanto, senza nessun destinatario fittizio, io considero curiosamente questa strana macchina per significare e la faccio funzionare per diletto.30 Il movimento astratto scava una zona di riflessione e di soggettività all’interno del mondo pieno nel quale si svolgeva il movimento concreto, sovrappone allo spazio fisico uno spazio virtuale o umano; il movimento concreto è dunque centripeto, mentre il movimento astratto è centrifugo: il primo ha luogo nell’essere o nell’attuale, il secondo nel possibile o nel non essere, il primo aderisce a uno sfondo dato, il secondo dispiega esso stesso il suo sfondo. La funzione normale che rende possibile il movimento astratto è una funzione di «proiezione», mediante la quale il soggetto del movimento dispone di fronte a sé uno spazio libero in cui ciò che non esiste naturalmente possa assumere una parvenza d’esistenza. Vi sono malati colpiti meno gravemente di Schneider che percepiscono le forme, le distanze, gli oggetti stessi, ma che non possono né tracciare su questi oggetti le direzioni utili all’azione, né distribuirli secondo un principio dato, né, generalmente, annettere allo spettacolo spaziale le determinazioni antropologiche che ne fanno il paesaggio della nostra azione. Per esempio, posti in un labirinto di fronte a una via senza uscita, questi malati trovano difficilmente la «direzione opposta». Se si colloca una riga tra loro e il medico, essi non sanno, dietro comando, distribuire gli oggetti «dalla loro parte» o «dalla parte del medico». Indicano molto male, sul braccio di un’altra persona, il punto stimolato sul loro proprio corpo. Sapendo che siamo in marzo e che il giorno è lunedì, avranno difficoltà nell’indicare il giorno e il mese precedente, ancorché conoscano a memoria la serie dei giorni e dei mesi. Questi malati non riescono a confrontare il numero di unità contenute in due serie di aste poste di fronte a loro: ora contano due volte la stessa asta, ora contano con le aste di una serie alcune che appartengono all’altra.31 Il fatto è che tutte queste operazioni esigono una identica capacità di tracciare, nel mondo dato, frontiere e direzioni, di stabilire linee di forza, di disporre prospettive, in breve di organizzare il mondo dato secondo i progetti del momento, di costruire sull’ambiente geografico un ambiente di comportamento, un sistema di significati che esprima all’esterno l’attività interna del soggetto. Per questi malati il mondo non esiste più se non come un mondo bell’e fatto o cristallizzato, mentre nel soggetto normale i progetti polarizzano il mondo e, come per magia, vi fanno apparire mille segni che guidano l’azione, allo stesso modo in cui i cartelli guidano il visitatore in un museo. Tale funzione di «proiezione» o di «evocazione» (nel senso in cui il medium evoca e fa apparire un assente) è anche quella che rende possibile il movimento astratto: infatti, per possedere il mio corpo fuori di ogni compito urgente, per giocare con esso a mio piacimento, per descrivere nell’aria un movimento che è definito solo da una consegna verbale o da necessità morali, è anche necessario che io capovolga il rapporto naturale fra il corpo e il mondo circostante e che una produttività umana si faccia luce attraverso lo spessore dell’essere. In questi termini si può descrivere il disturbo motorio che ci interessa. Ma forse si scoprirà che questa descrizione, come spesso si è detto della psicoanalisi,32 ci mostra solo il senso o l’essenza della malattia e non ce ne dà la causa. La scienza non comincerebbe se non con la spiegazione che, in


base ai metodi sperimentati dell’induzione, deve ricercare sotto i fenomeni le condizioni da cui essi dipendono. In questo caso, per esempio, sappiamo che i disturbi motori di Schneider coincidono con disturbi massicci della funzione visiva, anch’essi collegati con la lesione occipitale che è all’origine della malattia. Con la sola vista Schneider non riconosce nessun oggetto.33 I suoi dati visivi sono macchie quasi informi.34 Quanto agli oggetti assenti, egli è incapace di darsene una rappresentazione visiva.35 D’altra parte, è noto che i movimenti «astratti» divengono possibili per il soggetto non appena egli fissa con gli occhi l’arto che ne è incaricato.36 Cosi, quanto rimane di motilità volontaria si basa su quanto rimane di conoscenza visiva. I celebri metodi di Mill ci permetterebbero qui di concludere che i movimenti astratti e lo Zeigen dipendono dalla capacità di rappresentazione visiva, e che i movimenti concreti, conservati dal malato, come del resto i movimenti imititavi mediante i quali egli compensa la povertà dei dati visivi, dipendono dal senso cinestesia» o tattile, invero considerevolmente esercitato da Schneider. La distinzione fra il movimento concreto e il movimento astratto, come quella fra il Greifen e lo Zeigen, si lascerebbe ricondurre alla distinzione classica fra il tattile e il visivo, e la funzione di proiezione o di evocazione, che poco sopra abbiamo evidenziato, alla percezione e alla rappresentazione visive.37 In realtà, una analisi induttiva, condotta secondo i metodi di Mill, non mette capo a nessuna conclusione. I disturbi del movimento astratto e dello Zeigen non si incontrano infatti solo nei casi di cecità psichica, ma anche nei cerebellari e in molte altre malattie.38 Non è lecito scegliere come decisiva una sola di tutte queste concordanze e «spiegare» con essa l’atto di mostrare. Di fronte alla ambiguità dei fatti non si può far altro che rinunciare alla semplice annotazione statistica delle coincidenze e cercare di «comprendere» la relazione manifestata da esse. Nel caso dei cerebellari, si constata che, a differenza degli eccitanti sonori, gli eccitanti visivi ottengono solo reazioni motorie imperfette, e tuttavia non c’è motivo di supporre che essi siano affetti da un disturbo primario della funzione visiva. Se i movimenti di designazione divengono impossibili, non lo divengono perché è colpita la funzione visiva: viceversa, gli eccitanti visivi suscitano solamente reazioni imperfette proprio perché l’atteggiamento dello Zeigen è impossibile. Dobbiamo ammettere che di per sé il suono richiede piuttosto un movimento di prensione, e la percezione visiva un gesto di designazione. «Il suono ci dirige sempre verso il suo contenuto, il suo significato per noi; per contro, nella presentazione visiva possiamo molto più facilmente “fare astrazione” dal contenuto e siamo piuttosto orientati verso il luogo dello spazio in cui si trova l’oggetto.»39 Pertanto, un senso si definisce meno per la qualità indescrivibile dei suoi «contenuti psichici» che per un certo modo di offrire il suo oggetto, per la sua struttura epistemologica la cui qualità è la realizzazione concreta e, per esprimerci come Kant, l’esibizione. Il medico che sottopone il malato a «stimoli visivi» o «sonori» crede di mettere alla prova la sua «sensibilità visiva» o «uditiva» e di fare l’inventario delle qualità sensibili che compongono la sua coscienza (in linguaggio empiristico), o dei materiali di cui dispone la sua conoscenza (in linguaggio intellettualistico). Il medico e lo psicologo derivano i concetti di «vista» e «udito» dal senso comune: quest’ultimo, poi, li crede univoci perché il nostro corpo comporta effettivamente apparati visivi e uditivi anatomicamente distinti, ai quali suppone che debbano corrispondere - secondo un postulato generale di «costanza» che esprime la nostra ignoranza naturale di noi stessi -40 dei contenuti di coscienza isolabili. Ma, ripresi e applicati sistematicamente dalla scienza, questi concetti confusi intralciano la ricerca e richiedono infine una revisione generale delle categorie ingenue. In realtà, la misura delle soglie mette alla prova funzioni anteriori tanto alla specificazione delle qualità sensibili quanto al dispiegamento della conoscenza, mette alla prova la maniera in cui il soggetto fa essere per se stesso ciò che lo circonda, sia come polo di attività e


termine di un atto di prensione o di espulsione, sia come spettacolo e tema di conoscenza. I disturbi motori dei cerebellari e quelli della cecità psichica possono essere coordinati solo se si definisce lo sfondo del movimento e la visione, non con un insieme di qualità sensibili, ma con un certo modo di strutturare il mondo circostante. L’uso stesso del metodo induttivo ci riconduce a quei problemi «metafisici» che il positivismo vorrebbe eludere. L’induzione consegue i propri fini solo se non si limita ad annotare presenze, assenze e variazioni concomitanti, ma se concepisce e comprende i fatti sotto delle idee che non vi sono contenute. Non c’è da scegliere fra una descrizione della malattia che ce ne darebbe il senso e una spiegazione che ce ne darebbe la causa, e, senza comprensione, non ci sono spiegazioni. Ma precisiamo la nostra critica: se l’analizziamo, vediamo che essa si sdoppia. 1 ) La «causa» di un «fatto psichico» non è mai un altro «fatto psichico» che si rivelerebbe alla semplice osservazione. Per esempio, la rappresentazione visiva non spiega il movimento astratto: infatti, è anch’essa abitata da quella stessa capacità di proiettare uno spettacolo che si manifesta nel movimento astratto e nel gesto di designazione. Orbene, questa capacità non cade sotto i sensi e nemmeno sotto il senso intimo. Provvisoriamente, diciamo che essa si rivela solo a una certa riflessione di cui preciseremo più oltre la natura. Ne consegue immediatamente che l’induzione psicologica non è un semplice riscontro dei fatti. La psicologia non spiega designando tra di essi l’antecedente costante e incondizionato. Essa concepisce o comprende i fatti proprio come l’induzione fisica non si limita a notare le successioni empiriche e crea concetti capaci di coordinare i fatti. Ecco perché nessuna induzione, in psicologia come in fisica, può valersi di una esperienza cruciale. Giacché non è scoperta ma inventata, la spiegazione non è mai data con il fatto ed è sempre una interpretazione probabile. Fin qui non facciamo altro che applicare alla psicologia quanto è stato dimostrato molto bene a proposito dell’induzione fisica,41 e la nostra prima critica è diretta contro la maniera empiristica di concepire l’induzione e contro i metodi di Mill. 2 ) Ora, vedremo che questa prima critica ne sottende una seconda. In psicologia non si deve rifiutare solamente l’empirismo, ma anche il metodo induttivo e il pensiero causale in genere. L’oggetto della psicologia è tale che non potrebbe essere determinato da relazioni del tipo funzione-variabile. Stabiliamo con qualche particolare questi due punti. 1) Noi constatiamo che i disturbi motori di Schneider sono accompagnati da una deficienza massiccia della conoscenza visiva. Siamo quindi tentati di considerare la cecità psichica come un caso differenziale di comportamento tattile puro, e, giacché in essa la coscienza dello spazio corporeo e il movimento astratto, che interessa lo spazio virtuale, sono quasi totalmente assenti, siamo propensi a concludere che di per se stesso il tatto non ci dà nessuna esperienza dello spazio oggettivo.42 Diremo allora che di per se stesso il tatto non è idoneo a fornire uno sfondo al movimento, cioè a disporre di fronte al soggetto del movimento il suo punto di partenza e il suo punto d’arrivo in una simultaneità rigorosa. Mediante i movimenti preparatori il malato tenta di darsi uno «sfondo cinestesie»», e riesce cosi a «definire» la posizione del suo corpo alla partenza e a cominciare il movimento. Tuttavia, questo sfondo cinestesico è labile, non potrebbe fornirci, come uno sfondo visivo, il rilevamento del mobile in rapporto al suo punto di partenza e al suo punto d’arrivo per tutta la durata del moto. Tale sfondo cinestesico è messo a soqquadro dal movimento stesso e dopo ogni fase del movimento deve essere ricostruito. Ecco perché, diremo noi, in Schneider i movimenti astratti hanno perduto il loro andamento melodico, perché sono fatti di frammenti giustapposti e perché spesso «deviano» durante la loro effettuazione. Il campo pratico che manca a Schneider non è altro che il campo visivo.43 Ma, per avere il diritto di collegare, nella cecità psichica, la turba motoria alla turba visiva e, nel soggetto normale, la funzione di proiezione alla


visione come al suo antecedente costante e incondizionato, si dovrebbe essere sicuri che solamente i dati visivi sono stati colpiti dalla malattia e che tutte le altre condizioni del comportamento, in particolare l’esperienza tattile, sono rimaste ciò che erano nel soggetto normale. Possiamo affermarlo? Proprio qui vedremo che i fatti sono ambigui, che nessuna esperienza è cruciale e nessuna spiegazione definitiva. Se osserviamo che un soggetto normale è capace di eseguire con gli occhi chiusi movimenti astratti e che la sua esperienza tattile è sufficiente per governare la motilità, si potrà sempre rispondere che i dati tattili del soggetto normale hanno appunto ricevuto dai dati visivi la loro struttura oggettiva secondo il vecchio schema dell’educazione dei sensi. Se osserviamo che un cieco è capace di localizzare gli stimoli sul suo corpo, di eseguire movimenti astratti, - oltre al fatto che vi sono esempi di movimenti preparatori nei ciechi, si può sempre rispondere che la frequenza delle associazioni ha comunicato alle impressioni tattili la colorazione qualitativa delle impressioni cinestesiche e ha saldato queste ultime in una quasi-simultaneità.44 A dire il vero, nel comportamento stesso dei malati45 molti fatti lasciano intuire una alterazione primaria dell’esperienza tattile. Per esempio, un soggetto sa bussare alla porta, ma non sa più farlo se la porta è nascosta o se soltanto non è alla portata del tatto. In quest’ultimo caso il malato non può eseguire nel vuoto il gesto di bussare o di aprire, anche se ha gli occhi aperti e fissi sulla porta.46 Come è qui possibile chiamare in causa le deficienze visive, dal momento che il malato dispone di una percezione visiva dell’obiettivo che solitamente è sufficiente per orientare alla meglio i suoi movimenti? Non abbiamo forse messo in evidenza un disturbo primario del tatto? Evidentemente, per poter provocare un movimento, un oggetto deve essere compreso nel campo motorio del malato, e il disturbo consiste in un restringimento del campo motorio, ormai limitato agli oggetti effettivamente tangibili, mancando quell’orizzonte del tatto possibile che li circonda nel soggetto normale. In fin dei conti, la deficienza interesserebbe una funzione più profonda della visione, più profonda anche del tatto come somma di qualità date, concernerebbe l’area vitale del soggetto, quella apertura al mondo la quale fa si che degli oggetti attualmente fuori presa contino egualmente per il soggetto normale, esistano tattilmente per lui e facciano parte del suo universo motorio. In questa ipotesi, quando i malati osservano la loro mano e l’obiettivo per tutta la durata di un movimento,47 non si dovrebbe vedere in ciò la semplice amplificazione di un procedimento normale, e questo ricorso alla visione sarebbe appunto reso necessario solo dalla disgregazione del tatto virtuale. Ma, sul piano strettamente induttivo, questa interpretazione, che chiama in causa il tatto, rimane facoltativa e si può sempre, con Goldstein, preferirne un’altra: per bussare il malato ha bisogno di un obiettivo che sia alla portata del tatto, appunto perché la visione, in lui deficiente, non basta più a dare uno sfondo solido al movimento. Non c’è dunque un fatto il quale possa attestare, in modo decisivo, che l’esperienza tattile dei malati è o non è identica a quella degli individui normali, e la concezione di Goldstein, al pari della teoria fisica, può sempre essere fatta concordare con i fatti per mezzo di qualche ipotesi ausiliaria. In psicologia come in fisica non è possibile nessuna interpretazione rigorosamente esclusiva. Tuttavia, se consideriamo le cose più dappresso, vedremo che in psicologia l’impossibilità di un’esperienza cruciale è fondata su ragioni particolari, è dovuta alla natura stessa dell’oggetto da conoscere, cioè del comportamento, e ha conseguenze molto più decisive. Fra varie teorie delle quali nessuna è assolutamente esclusa, nessuna rigorosamente fondata dai fatti, la fisica può egualmente scegliere secondo il grado di verisimiglianza, cioè in base al numero di fatti che ciascuna riesce a coordinare senza gravarsi di ipotesi ausiliarie immaginate all’uopo. In psicologia manca questo criterio: come abbiamo visto, nessuna ipotesi ausiliaria è necessaria per spiegare con il disturbo visivo l’impossibilità del gesto di «bussare» di fronte a una porta. Non solo non


perveniamo mai a una interpretazione esclusiva - deficienza del tatto virtuale o deficienza del mondo visivo -, ma, anche, abbiamo necessariamente a che fare con interpretazioni egualmente verosimili: infatti, «rappresentazioni visive», «movimento astratto» e «tatto virtuale» sono solo nomi differenti per un medesimo fenomeno centrale. Cosicché la psicologia non si trova qui nella medesima situazione che la fisica, cioè confinata nella probabilità delle induzioni, ma è incapace di scegliere, anche secondo la verosimiglianza, fra ipotesi che dal punto di vista strettamente induttivo rimangono pur sempre incompatibili. Perché una induzione, anche semplicemente probabile, rimanga possibile, è necessario che la «rappresentazione visiva» o che la «percezione tattile» sia causa del movimento astratto, o che infine esse siano entrambe effetti di un’altra causa. I tre o quattro termini devono poter essere considerati dall’esterno e si deve poterne individuare le variazioni correlative. Se però non fossero isolabili, se ciascuno di essi presupponesse gli altri, il fallimento non sarebbe quello dell’empirismo o dei tentativi di esperienza cruciale, ma quello del metodo induttivo o del pensiero causale in psicologia. Giungiamo cosi al secondo punto che volevamo stabilire. 2 ) Se, come riconosce Goldstein, nel soggetto normale la coesistenza di dati tattili con dati visivi modifica abbastanza profondamente i primi affinché essi possano servire da sfondo al movimento astratto, i dati tattili del malato, separati da questo apporto visivo, non potranno senz’altro essere identificati a quelli del soggetto normale. In quest’ultimo, dice Goldstein, dati tattili e dati visivi non sono giustapposti, i primi devono alla vicinanza dei secondi una «sfumatura qualitativa» che in Schneider hanno perduto. Ciò significa, egli aggiunge, che lo studio del tattile puro è impossibile nell’individuo normale e che soltanto la malattia dà un quadro di ciò che sarebbe l’esperienza tattile ridotta a se stessa.48 La conclusione è giusta, ma si riduce a dire che, applicata al soggetto normale e al malato, la parola «tatto» non ha il medesimo senso, che il «tattile puro» è un fenomeno patologico che non entra come componente nell’esperienza normale, che, disorganizzando la funzione visiva, la malattia non ha messo a nudo la pura essenza del tattile, ma ha modificato l’intera esperienza del soggetto, o, se si preferisce, che nei soggetto normale non c’è una esperienza tattile e una esperienza visiva, ma una esperienza integrale in cui è impossibile dosare i diversi apporti sensoriali. Le esperienze mediate dal tatto nella cecità psichica, non hanno nulla in comune con quelle mediate dal tatto nel soggetto normale, e né le une né le altre meritano di essere chiamate dati «tattili». L’esperienza tattile non è una condizione separata che si potrebbe mantenere costante per tutto il tempo in cui si fa variare l’esperienza «visiva», in modo da reperire la causalità propria di ciascuna, e il comportamento non è una funzione di queste variabili, ma è presupposto nella loro definizione così come ciascuna è presupposta nella definizione dell’altra.49 La cecità psichica, le imperfezioni del tatto e i disturbi motori sono tre espressioni di un disturbo più fondamentale mediante il quale essi vengono compresi, e non tre componenti del comportamento morboso; le rappresentazioni visive, i dati tattili e la motilità sono tre fenomeni ritagliati nell’unità del comportamento. Se, forti del fatto che essi presentano variazioni correlative, vogliamo spiegarli l’uno per mezzo dell’altro, dimentichiamo per esempio che, come testimonia il caso dei cerebellari, l’atto di rappresentazione visiva presuppone già la medesima capacità di proiezione che si manifesta anche nel movimento astratto e nel gesto di designazione, e in questo modo si dà per acquisito ciò che si crede di spiegare. Limitando alla visione o al tatto o a qualche dato di fatto la capacità di proiezione che li abita tutti, il pensiero induttivo e causale ce la dissimula e ci rende ciechi alla dimensione del comportamento, che è appunto quella della psicologia. In fisica la formulazione di una legge esige che lo scienziato concepisca l’idea sotto la quale i fatti saranno coordinati, e questa idea, che non si trova nei fatti, non sarà mai verificata da una esperienza cruciale, ma sarà sempre e solo probabile. Essa è nondimeno l’idea di un legame causale nel senso di un rapporto funzione-variabile. La pressione atmosferica


doveva essere inventata, ma in definitiva essa era ancora un processo in terza persona, funzione di un certo numero di variabili. Se il comportamento è una forma, nella quale i «contenuti visivi» e i «contenuti tattili», la sensibilità e la motilità figurano solo a titolo di momenti inseparabili, allora esso rimane inaccessibile al pensiero causale, può essere colto esclusivamente da un’altra specie di pensiero: quello che prende il suo oggetto allo stato nascente, cosi come appare a chi lo vive, con l’atmosfera di senso in cui è avvolto, e che cerca di introdursi in questa atmosfera, per ritrovare, dietro i fatti e i sintomi dispersi, l’essere totale del soggetto, se si tratta di un individuo normale, il disturbo fondamentale, se si tratta di un malato. Se non possiamo spiegare i disturbi del movimento astratto con la perdita dei contenuti visivi, né di conseguenza la funzione di proiezione con la presenza effettiva di questi contenuti, un solo metodo sembra ancora possibile: esso consisterebbe nel ricostituire il disturbo fondamentale risalendo dai sintomi non a una causa anch’essa constatabile, ma a una ragione o a una condizione di possibilità intelligibile, - nel trattare il soggetto umano come una coscienza indecomponibile e interamente presente in ogni sua manifestazione. Se il disturbo non deve essere riferito ai contenuti, sarebbe necessario collegarlo alla forma della conoscenza, se la psicologia non è empiristica ed esplicativa, dovrebbe essere intellettualistica e riflessiva. Proprio come l’atto di nominare,50 l’atto di mostrare presuppone che l’oggetto, anziché essere accostato, afferrato e inghiottito dal corpo, sia mantenuto a distanza e sia spettacolo di fronte al malato. Platone concedeva all’empirista la facoltà di mostrare con il dito, ma a dire il vero anche il gesto silenzioso è impossibile se ciò che esso indica non è già strappato dall’esistenza istantanea e dall’esistenza monadica, trattato come il rappresentante delle sue precedenti apparizioni in me e delle sue apparizioni simultanee nell’altro, cioè sussunto sotto una categoria e innalzato al concetto. Se il malato non può più mostrare con il dito un punto del suo corpo che viene toccato, è perché egli non è più un soggetto di fronte a un mondo oggettivo e non può più assumere l’«atteggiamento categoriale».51 Parimenti, il movimento astratto è compromesso in quanto presuppone la coscienza dello scopo, in quanto è sostenuto da esse ed è movimento per sé. E invero esso non è provocato da nessun oggetto esistente, è visibilmente centrifugo, delinea nello spazio un’intenzione gratuita che si dirige verso il corpo proprio e lo costituisce come oggetto anziché attraversarlo e raggiungere le cose per suo tramite. Il movimento astratto è quindi abitato da una capacità di oggettivazione, da una «funzione simbolica»,52 da una «funzione rappresentativa»,53 da una capacità di «proiezione»54 che del resto è già all’opera nella costituzione delle «cose» e che consiste nel trattare i dati sensibili come rappresentativi l’uno dell’altro, e come rappresentativi tutti insieme di un «eidos», nel dare a essi un senso, nell’animarli internamente, nell’ordinarli in sistema, nel centrare una pluralità di esperienze su un medesimo nucleo intelligibile, nel fare apparire in esse una unità identificabile sotto diverse prospettive, in breve, nel disporre dietro il flusso delle impressioni una invariante che ne renda ragione e nello strutturare la materia dell’esperienza. Orbene, non si può dire che la coscienza ha questo potere: essa è questo potere stesso. Dacché c’è coscienza, e perché ci sia coscienza, è necessario che ci sia un qualcosa di cui essa sia coscienza, un oggetto intenzionale, e la coscienza può dirigersi verso questo oggetto solo nella misura in cui si «irrealizza» e si getta in esso, solo se è interamente in questo riferimento a... qualcosa, solo se è un puro atto di significazione. Se un essere è coscienza, è necessario che esso non sia altro che un tessuto di intenzioni. Se cessa di definirsi con l’atto di significare, questo essere ricade nella condizione di cosa, la cosa essendo appunto ciò che non conosce, ciò che riposa in una assoluta ignoranza di sé e del mondo, ciò che di conseguenza non è un autentico «sé», ossia un «per sé», e ha solo l’individuazione spaziotemporale, l’esistenza in sé.55 Pertanto, la coscienza non comporterà il


più e il meno. Se non esiste più come coscienza, il malato deve esistere come cosa. O il movimento è movimento per sé, e allora lo «stimolo» non ne è la causa ma l’oggetto intenzionale, oppure si spezzetta e si disperde nell’esistenza in sé, diviene un processo oggettivo nel corpo, le cui fasi si succedono ma non si conoscono. Il privilegio dei movimenti concreti riscontrabile nella malattia verrebbe spiegato dal fatto che essi sono riflessi nel senso classico. La mano del malato raggiunge il punto del corpo in cui si trova la zanzara perché dei circuiti nervosi prestabiliti guidano la reazione al luogo dell’eccitamento. I movimenti propri del mestiere sono conservati in quanto dipendono da riflessi condizionati saldamente stabiliti, sussistono nonostante le deficienze psichiche in quanto sono movimenti in sé. La distinzione fra movimento concreto e movimento astratto, fra il Greifen e lo Zeigen sarebbe quella tra il fisiologico e lo psichico, tra l’esistenza in sé e l’esistenza per sé.56 Vedremo che, lungi dall’implicare la seconda, la prima distinzione è incompatibile con essa. Ogni «spiegazione fisiologica» tende a generalizzarsi. Se il movimento di prensione o il movimento concreto è assicurato da una connessione di fatto fra ogni punto della pelle e i muscoli motori che vi conducono la mano, non si vede perché, comandando agli stessi muscoli un movimento appena differente, il medesimo circuito non potrebbe assicurare il gesto dello Zeigen allo stesso modo in cui assicura il movimento del Greifen. Fra la zanzara che morsica la pelle e la bacchetta di legno che il medico appoggia sullo stesso luogo, la differenza fisica non è sufficiente per spiegare come il movimento di prensione sia possibile e il gesto di designazione impossibile. I due «stimoli» si distinguono veramente solo se si chiama in causa il loro valore affettivo o il loro senso biologico, le due risposte cessano di confondersi solo se si considerano lo Zeigen e il Greifen come due maniere di riferirsi all’oggetto e due tipi di essere al mondo. Ma, per l’appunto, ciò è impossibile qualora il corpo vivente sia degradato a oggetto. Se anche per una sola volta si ammette che esso è la sede di processi in terza persona, nel comportamento non si può più riservare qualcosa alla coscienza. Poiché impiegano i medesimi organi-oggetto, i medesimi nervi-oggetto, sia i gesti che i movimenti devono essere collocati sul piano dei processi senza interiorità e inseriti nel tessuto compatto delle «condizioni fisiologiche». Quando, nell’esercitare il suo mestiere, porta la mano verso uno strumento posto sul tavolo, il malato non sposta forse i segmenti del suo braccio proprio come dovrebbe fare per eseguire un movimento astratto di estensione? Un gesto quotidiano non contiene una serie di contrazioni muscolari e di innervazioni? È dunque impossibile limitare la spiegazione fisiologica. D’altro canto, è egualmente impossibile limitare la coscienza. Se si riferisce alla coscienza il gesto di mostrare, se anche per una sola volta lo stimolo può cessare di essere la causa della reazione per divenirne l’oggetto intenzionale, non si riesce a capire come esso possa mai fungere da pura causa e il movimento essere cieco. Infatti, se sono possibili dei movimenti «astratti» nei quali c’è coscienza del punto di partenza e coscienza del punto di arrivo, è pur necessario che in ogni momento della nostra vita noi sappiamo dov’è il nostro corpo senza doverlo cercare come cerchiamo un oggetto spostato durante la nostra assenza, occorre dunque che anche i movimenti «automatici» si annuncino alla coscienza: come dire che nel nostro corpo non ci sono mai movimenti in sé. E se ogni spazio oggettivo non è che per la coscienza intellettuale, dobbiamo ritrovare l’atteggiamento categoriale perfino nel movimento di prensione.57 Come la causalità fisiologica, la presa di coscienza non può cominciare in nessun luogo. È necessario o rinunciare alla spiegazione fisiologica, o ammettere che è totale, - o negare la coscienza, o ammettere che è totale: non è possibile far risalire certi movimenti alla meccanica del corpo e altri alla coscienza, il corpo e la coscienza non si limitano vicendevolmente, non possono essere che paralleli. Ogni spiegazione fisiologica si generalizza in fisiologia meccanicistica, ogni presa di coscienza in psicologia intellettualistica, e la fisiologia meccanicistica o la psicologia intellettualistica livellano il comportamento e cancellano la


distinzione fra il movimento astratto e quello concreto, fra lo Zeigen e il Greifen. Tale distinzione potrà essere mantenuta solo se per il corpo ci sono più modi di essere corpo, per la coscienza più modi di essere coscienza. Finché è definito dall’esistenza in sé, il corpo funziona uniformemente come un meccanismo, finché è definita dalla pura esistenza per sé, l’anima conosce solo oggetti dispiegati di fronte a sé. La distinzione fra il movimento astratto e il movimento concreto non si confonde dunque con quella fra il corpo e la coscienza, non appartiene alla medesima dimensione riflessiva, trova posto unicamente nella dimensione del comportamento. I fenomeni patologici fanno variare sotto i nostri occhi qualcosa che non è la pura coscienza d’oggetto. Disgregazione della coscienza e liberazione dell’automatismo, questa diagnosi della psicologia intellettualistica, come quella di una psicologia empiristica dei contenuti, non coglierebbe l’essenza del disturbo fondamentale. Qui come ovunque, l’analisi intellettualistica è meno falsa che astratta. La «funzione simbolica» o la «funzione di rappresentazione» sottende si i nostri movimenti, ma non è un termine ultimo per l’analisi, riposa a sua volta su un certo terreno. Il torto dell’intellettualismo consiste appunto nel farla riposare su se stessa, nel separarla dai materiali nei quali si realizza, e nel riconoscere in noi, a titolo originario, una presenza al mondo senza distanza: infatti, a partire da questa coscienza priva di opacità, da questa intenzionalità che non comporta il più e il meno, tutto quanto ci separa dal mondo vero - l’errore, la malattia, la follia e insomma l’incarnazione - si trova ricondotto alla condizione di semplice apparenza. L’intellettualismo non realizza certo la coscienza separatamente dai suoi materiali, e per esempio si astiene espressamente dall’introdurre dietro la parola, l’azione e la percezione, una «coscienza simbolica» che sarebbe la forma comune e numericamente una dei materiali linguistici, percettivi e motori. Non c’è, dice Cassirer, «facoltà simbolica in generale», 58 e fra i fenomeni patologici che concernono la percezione, il linguaggio e l’azione l’analisi riflessiva non cerca di stabilire una «comunanza nell’essere» ma una «comunanza nel senso».59 Appunto perché ha superato definitivamente il pensiero causale e il realismo, la psicologia intellettualistica sarebbe in grado di vedere il senso o l’essenza della malattia e di riconoscere una unità della coscienza che non si constata sul piano dell’essere, ma che si attesta a se stessa sul piano della verità. Tuttavia, proprio la distinzione fra la comunanza nell’essere e la comunanza nel senso, il passaggio cosciente dall’ordine dell’esistenza a quello del valore e il rovesciamento che permette di affermare come autonomi il senso e il valore, equivalgono praticamente a una astrazione, poiché, dal punto di vista in cui finiamo per porci, la varietà dei fenomeni diviene insignificante e incomprensibile. Se è posta fuori dell’essere, la coscienza non potrebbe lasciarsi intaccare da esso, la varietà empirica delle coscienze, - la coscienza morbosa, la coscienza primitiva, la coscienza infantile, la coscienza altrui non può essere presa sul serio, non vi è qui nulla che sia da conoscere o da comprendere, una sola cosa è comprensibile, e cioè la pura essenza della coscienza. Nessuna di queste coscienze potrebbe fare a meno di effettuare il Cogito. Dietro i suoi deliri, le sue ossessioni e le sue menzogne, il pazzo sa di delirare, di ossessionarsi da sé, di mentire, e, per finire, egli non è pazzo, ma pensa di esserlo. Tutto è dunque per il meglio e la pazzia non è altro che cattiva volontà. Se mette capo a una funzione simbolica, l’analisi del senso della malattia identifica tutte le malattie, riconduce all’unità le afasie, le aprassie e le agnosie60 e forse non ha neanche modo di distinguerle dalla schizofrenia.61 Si comprende allora come i medici e gli psicologi declinino l’invito dell’intellettualismo e, in mancanza di meglio, ritornino ai tentativi di spiegazione causale, che perlomeno hanno il vantaggio di tener conto di quanto c’è di peculiare alla malattia e a ogni malattia, e che perciò ci danno l’illusione di un sapere effettivo. La patologia moderna dimostra che non c’è mai un disturbo rigidamente elettivo, ma dimostra anche che ogni disturbo si caratterizza in base alla regione del comportamento che colpisce


principalmente.62 Anche se, osservata abbastanza dappresso, ogni afasia comporta disturbi gnosici e prassici, ogni aprassia disturbi del linguaggio e della percezione, ogni agnosia disturbi del linguaggio e dell’azione, rimane il fatto che il centro dei disturbi è qui nella zona del linguaggio, là nella zona della percezione e altrove nella zona dell’azione. Quando in tutti i casi si chiama in causa la funzione simbolica, si caratterizza si la struttura comune ai diversi disturbi, ma questa struttura non deve essere distaccata dai materiali in cui si realizza ogni volta, se non elettivamente, per lo meno principalmente. Dopo tutto, il disturbo di Schneider non è originariamente metafisico: è stata una scheggia di granata a ferirlo nella regione occipitale; le deficienze visive sono massicce; sarebbe assurdo, lo si è già detto, spiegare tutte le altre con quest’ultima come loro causa, ma sarebbe non meno assurdo pensare che la scheggia di granata si è incontrata con la coscienza simbolica. In Schneider lo Spirito è stato colpito nella vista. Finché non avremo trovato il modo di collegare l’origine e l’essenza o il senso della turba, finché non avremo definito una essenza concreta, una struttura della malattia che esprima la sua generalità e al tempo stesso la sua particolarità, finché la fenomenologia non sarà divenuta fenomenologia genetica, i ritorni offensivi del pensiero causale e del naturalismo rimarranno giustificati. Il nostro problema viene dunque precisandosi. Per noi si tratta di concepire un rapporto tra i contenuti linguistico, percettivo, motorio e la forma che essi ricevono o la funzione simbolica che li anima, rapporto che non sia né la riduzione della forma al contenuto, né la sussunzione del contenuto sotto una forma autonoma. Dobbiamo comprendere come la malattia di Schneider sopravanzi da ogni parte i contenuti particolari - visivi, tattili e motori della sua esperienza, e in pari tempo come essa colpisca la funzione simbolica solo attraverso i materiali privilegiati della visione. I sensi e in generale il corpo proprio offrono il mistero di un insieme che, senza abbandonare la sua ecceità e la sua particolarità, emette al di là di se stesso significati atti a dotare di un’ossatura tutta una serie di pensieri e di esperienze. Se il disturbo di Schneider concerne tanto la motilità e il pensiero quanto la percezione, rimane il fatto che soprattutto essa colpisce nel pensiero la capacità di cogliere gli insiemi simultanei, e nella motilità quella di sorvolare il movimento e di proiettarlo all’esterno. In un certo qual modo, sono dunque lo spazio mentale e lo spazio pratico a venire distrutti o danneggiati, e le parole stesse indicano abbastanza bene la genealogia visiva del disturbo. Il disturbo visivo non è la causa degli altri e in particolare di quello del pensiero, ma non ne è nemmeno una semplice conseguenza. I contenuti visivi non sono la causa della funzione di proiezione, ma ugualmente la visione non è per lo Spirito una semplice occasione di dispiegare un potere in se stesso incondizionato. I contenuti visivi sono ripresi, utilizzati, sublimati al livello del pensiero da una potenza simbolica che li oltrepassa, ma questa potenza può costituirsi proprio sulla base della visione. Il rapporto fra la materia e la forma è quello che la fenomenologia chiama un rapporto di Fundierutig: la funzione simbolica riposa sulla visione come su un terreno, non perché la visione ne sia la causa, ma perché è quel dono della natura che lo Spirito doveva utilizzare al di là di ogni speranza, al quale lo Spirito doveva dare un senso radicalmente nuovo e del quale aveva però bisogno non solo per incarnarsi, ma anche per essere. La forma si integra il contenuto a tal punto che quest’ultimo appare infine come un semplice modo della forma stessa e le preparazioni storiche del pensiero come una astuzia della Ragione camuffata da Natura, - ma, reciprocamente, perfino nella sua sublimazione intellettuale il contenuto rimane come una contingenza radicale, come il primo stabilimento o la fondazione63 della conoscenza e dell’azione, come la prima apprensione dell’essere o del valore, apprensione di cui la conoscenza e l’azione non avranno mai finito di esaurire la ricchezza concreta e di cui rinnoveranno ovunque il metodo spontaneo. È questa dialettica della forma e del contenuto che dobbiamo restituire, o meglio, poiché l’«azione reciproca» non è ancora che un compromesso con il pensiero causale e la formula di una contraddizione,


dobbiamo descrivere l’ambito in cui questa contraddizione è concepibile, cioè l’esistenza, la continua ripresa del fatto e della casualità da parte di una ragione che non esiste prima di essi e senza di essi.64 Se vogliamo sapere che cosa sottende la «funzione simbolica» stessa, dobbiamo anzitutto comprendere che anche l’intelligenza non si adegua all’intellettualismo. Nel caso di Schneider, a compromettere il pensiero non è la sua incapacità di appercepire i dati concreti come esemplari di un eidos unico o di sussumerli sotto una categoria, ma viceversa l’incapacità di collegarli senza una sussunzione esplicita. Si nota, per esempio, che il malato non comprende analogie semplici come «il pelo è per il gatto ciò che le penne sono per l’uccello» o «la luce è per la lampada ciò che il calore è per la padella» o ancora «l’occhio è per la luce e il colore ciò che l’orecchio è per i suoni». Allo stesso modo, egli non comprende nel loro senso metaforico termini usuali come «la gamba della sedia» o «la testa di un chiodo», quantunque sappia quale parte dell’oggetto designano queste parole. Accade che anche soggetti normali, dotati di una cultura eguale alla sua, non sappiano spiegare l’analogia, ma ciò è dovuto a ragioni opposte. Per il soggetto normale è più facile comprendere l’analogia che analizzarla, mentre il malato riesce a comprenderla solo quando l’ha esplicitata con una analisi concettuale. «Egli cerca ... un carattere materiale comune da cui possa concludere, come da un termine medio, l’identità dei due rapporti.»65 Per esempio, riflette sull’analogia dell’occhio e dell’orecchio e manifestamente la comprende solo nel momento in cui può dire: «L’occhio e l’orecchio sono entrambi organi di senso, dunque devono produrre qualcosa di simile.» Se descrivessimo l’analogia come appercezione di due dati termini sotto un concetto che li coordina, dichiareremmo normale un procedimento che è solo patologico e che rappresenta le vie traverse per le quali il malato deve passare per sostituire la comprensione normale dell’analogia. «Questa libertà dimostrata dal malato nella scelta di un tertium comparationis è esattamente l’opposto della determinazione intuitiva dell’immagine nel soggetto normale: quest’ultimo coglie una identità specifica nelle strutture concettuali, per lui gli atti viventi del pensiero sono simmetrici e si fanno riscontro. In questo modo egli “acciuffa” l’essenziale dell’analogia, e ci si può sempre chiedere se un soggetto non rimane capace di comprendere anche quando questa comprensione non è adeguatamente espressa dalla formulazione e dall’esplicitazione che egli fornisce.»66 Il pensiero vivente non consiste quindi nel sussumere sotto una categoria. La categoria impone ai termini che riunisce un significato per essi esteriore. Schneider riesce a collegare l’occhio e l’orecchio come «organi di senso» proprio perché attinge al linguaggio costituito e ai rapporti di senso che esso racchiude. Nel pensiero normale l’occhio e l’orecchio sono colti immediatamente secondo l’analogia della loro funzione e il loro rapporto può essere fissato in un «carattere comune» e registrato nel linguaggio solo perché è stato afferrato allo stato nascente nella singolarità della vista e dell’udito. Si risponderà certo che la nostra critica colpisce solo un intellettualismo sommario, il quale assimilasse il pensiero a un’attività semplicemente logica, e che l’analisi riflessiva risale appunto sino al fondamento della predicazione, ritrova dietro al giudizio di inerenza il giudizio di relazione, dietro la sussunzione, come operazione meccanica e formale, l’atto categoriale con il quale il pensiero investe il soggetto del senso che si esprime nel predicato. Così la nostra critica della funzione categoriale condurrebbe solo a rivelare, dietro all’uso empirico della categoria, un uso trascendentale senza il quale il primo è incomprensibile. Tuttavia, più che risolvere la difficoltà, la distinzione fra l’uso empirico e l’uso trascendentale la dissimula. La filosofia criticista sdoppia le operazioni empiriche del pensiero in una attività trascendentale, cui si affida l’incarico di realizzare tutte le sintesi alle quali il pensiero empirico offre la materia. Ma quando penso attualmente qualcosa, la garanzia di una sintesi atemporale non è sufficiente e nemmeno necessaria per fondare il mio pensiero. È ora, nel


presente vivente, che occorre effettuare la sintesi, altrimenti il pensiero sarebbe separato dalle sue premesse trascendentali. Quando penso, non si può dunque dire che mi ricolloco nel soggetto eterno che non ho mai cessato di essere, giacché l’autentico soggetto del pensiero è quello che effettua la conversione e la ripresa attuale, ed è lui a comunicare la sua vita al fantasma atemporale. Dobbiamo dunque comprendere come il pensiero temporale si lega con se stesso e realizza la propria sintesi. Se il soggetto normale capisce immediatamente che il rapporto dell’occhio con la vista è identico a quello dell’orecchio con l’udito, è perché l’occhio e l’orecchio gli sono dati immediatamente come mezzi di accesso a uno stesso mondo, perché quest’ultimo ha l’evidenza antepredicativa di un mondo unico, cosicché l’equivalenza degli «organi di senso» e la loro analogia si legge sulle cose e può essere vissuta prima di essere concepita. Il soggetto kantiano pone un mondo, ma, per poter affermare una verità, il soggetto effettivo deve anzitutto avere un mondo o essere al mondo, cioè portare attorno a sé un sistema di significati le cui corrispondenze, relazioni, partecipazioni, non abbiano bisogno di essere esplicite per essere utilizzate. Quando mi muovo in casa mia, so immediatamente e senza alcun discorso esplicito che camminare verso il bagno significa passare accanto alla camera, che guardare la finestra significa avere il camino alla mia sinistra, e in questo piccolo mondo ogni gesto, ogni percezione si situa immediatamente in rapporto a mille coordinate virtuali. Quando converso con un amico che conosco bene, ciascuna delle sue e delle mie affermazioni racchiude, oltre a ciò che significa per tutti, una moltitudine di riferimenti alle dimensioni principali del suo e del mio carattere, senza che abbiamo bisogno di rievocare le nostre conversazioni precedenti. Questi mondi acquisiti, che danno alla mia esperienza il suo senso secondo, si ritagliano anch’essi in un mondo originario che ne fonda il senso primo. Analogamente, c’è un «mondo dei pensieri», cioè una sedimentazione delle nostre operazioni mentali, che ci permette di contare sui nostri concetti e sui nostri giudizi acquisiti come su cose che sono là e si danno globalmente, senza che in ogni momento abbiamo bisogno di rifarne la sintesi. In tal modo può esserci per noi una specie di panorama mentale, con le sue regioni evidenziate e le sue regioni confuse, una fisionomia dei problemi e delle situazioni intellettuali come la ricerca, la scoperta, la certezza. Ma la parola «sedimentazione» non deve trarci in inganno: questo sapere contratto non è una massa inerte in fondo alla nostra coscienza. Il mio appartamento non è per me una serie di immagini saldamente associate, ma rimane attorno a me come dominio familiare solo se ne ho ancora «nelle mani» o «nelle gambe» le distanze e le direzioni principali, se dal mio corpo si dirama verso di esso una moltitudine di fili intenzionali. Analogamente, i miei pensieri acquisiti non sono un’acquisizione assoluta: in ogni momento si nutrono del mio pensiero presente, mi offrono un senso, ma io glielo restituisco. Di fatto, il patrimonio di acquisizioni di cui disponiamo esprime a ogni istante l’energia della nostra coscienza presente. Talvolta essa si affievolisce, come nella stanchezza, e allora il mio «mondo» di pensiero si impoverisce e si riduce perfino a una o due idee ossessionanti; talvolta, viceversa, io inerisco a tutti i miei pensieri, e ogni parola pronunciata di fronte a me fa allora germinare dei problemi, delle idee, raggruppa e riorganizza il panorama mentale e si offre con una fisionomia precisa. Cosi, l’acquisito è veramente acquisito solo se è ripreso in un nuovo movimento di pensiero, e un pensiero è situato solo se assume esso stesso la sua situazione. L’essenza della coscienza è di darsi uno o più mondi, cioè di far essere di fronte a se stessa i propri pensieri come delle cose, e comprova indivisibilmente il suo vigore delineando a se stessa questi paesaggi e abbandonandoli. La struttura mondo, con il suo duplice momento di sedimentazione e di spontaneità, è al centro della coscienza: potremo comprendere come un livellamento del «mondo» e le turbe intellettuali e le turbe percettive e le turbe motorie di Schneider, senza ridurre le une alle altre. L’analisi classica della percezione 67 distingue in essa dei dati sensibili e il significato che questi


ricevono da un atto intellettivo. Sotto tale punto di vista i disturbi della percezione non potrebbero essere se non deficienze sensoriali o disturbi gnosici. Il caso di Schneider ci mostra invece deficienze che concernono l’unione della sensibilità e del significato e che rivelano il condizionamento esistenziale di entrambi. Se si presenta al malato una penna stilografica, disponendola in modo che il fermaglio non sia visibile, le fasi del riconoscimento sono le seguenti: «È nero, azzurro, chiaro», dice il malato. «C’è una macchia bianca, è lungo. Ha la forma di un bastone. Può essere uno strumento qualsiasi. Brilla. Ha un riflesso. Può anche essere un vetro colorato.» A questo punto si avvicina la penna al malato e si volge il fermaglio verso di lui. Egli prosegue: «Deve essere una matita o un portapenna. (Tocca il taschino del suo vestito.) Si mette qui, per annotare qualcosa.»68 È manifesto che il linguaggio interviene in ogni fase del riconoscimento fornendo significati possibili per ciò che è effettivamente visto, e che il riconoscimento progredisce seguendo le connessioni del linguaggio, da «lungo» a «in forma di bastone», da «bastone» a «strumento», di qui a «strumento per annotare qualcosa» e infine a «penna stilografica». I dati sensibili si limitano a suggerire questi significati come un fatto suggerisce al fisico una ipotesi; al pari dello scienziato il malato verifica mediatamente e precisa l’ipotesi con l’accertamento dei fatti, cammina ciecamente verso quella che li coordina tutti. Tale procedimento mette in evidenza, per contrasto, il metodo spontaneo della percezione normale, quella specie di vita dei significati che rende immediatamente leggibile l’essenza concreta dell’oggetto e lascia apparire solo attraverso di essa le sue «proprietà sensibili». Questa familiarità, questa comunicazione con l’oggetto è qui interrotta. Nell’individuo normale l’oggetto è «parlante» e significativo, la disposizione dei colori «vuol dire» immediatamente qualcosa, mentre nel malato il significato deve essere apportato da altrove in virtù di un autentico atto di interpretazione. - Reciprocamente, nell’individuo normale le intenzioni del soggetto si riflettono immediatamente nel campo percettivo, lo polarizzano o lo contrassegnano con il loro monogramma, o infine vi fanno nascere senza sforzo un’onda significativa. Nel malato il campo percettivo ha perduto questa plasticità. Se gli si chiede di costruire un quadrato con quattro triangoli identici a un triangolo dato, egli risponde che è impossibile e che con quattro triangoli si possono costruire solo due quadrati. Si insiste facendogli vedere che un quadrato ha due diagonali e può sempre essere diviso in quattro triangoli. Il malato risponde: «Si, ma solo perché le parti si adattano necessariamente una all’altra. Quando si divide in quattro un quadrato, se si accostano opportunamente le parti, è pur necessario che ne risulti un quadrato.»69 Pertanto, egli sa che cosa è un quadrato o un triangolo; non gli sfugge neanche il rapporto di questi due significati, per lo meno dopo le spiegazioni del medico, e capisce che ogni quadrato può essere diviso in triangoli; ma non ne conclude che ogni triangolo (rettangolo isoscele) può servire a costruire un quadrato di superficie quadrupla, perché la costruzione di questo quadrato esige che i triangoli dati siano uniti diversamente e che i dati sensibili divengano l’illustrazione di un senso immaginario. In complesso, il mondo non gli suggerisce più nessun significato e reciprocamente i significati che egli si propone non si incarnano più nel mondo dato. Diremo in breve che per il malato il mondo non ha più fisionomia.70 In questo modo divengono comprensibili le peculiarità che il disegno assume in lui. Schneider non disegna mai secondo il modello (nachzeichnen), la percezione non si prolunga direttamente in movimento. Con la mano sinistra egli tasta l’oggetto, riconosce certe particolarità (un angolo, una retta), formula la sua scoperta e infine traccia senza modello una figura corrispondente alla formula verbale.71 La traduzione del percepito in movimento passa attraverso i significati espressi del linguaggio, mentre il soggetto normale penetra nell’oggetto in virtù della percezione, ne assimila la struttura, e attraverso il suo corpo l’oggetto regola direttamente i suoi movimenti.72 Quel


dialogo del soggetto con l’oggetto, quella ripresa da parte del soggetto del senso sparso nell’oggetto e da parte dell’oggetto delle intenzioni del soggetto, che è la percezione fisionomica, dispone attorno al soggetto un mondo che gli parla di se stesso e installa nel mondo i suoi propri pensieri. Se in Schneider questa funzione è compromessa, si può prevedere che a maggior ragione la percezione degli eventi umani e quella dell’altro presenteranno delle deficienze, in quanto presuppongono la medesima ripresa dell’esteriore nell’interiore e dell’interiore da parte dell’esteriore. Infatti, se al malato si racconta una storia, si constata che, anziché coglierla come un insieme melodico con i suoi tempi forti, i suoi tempi deboli, il suo ritmo o il suo corso caratteristico, egli non la ritiene se non come una serie di fatti che vanno annotati a uno a uno. Ecco perché la comprende solamente se nel racconto si interpongono delle pause, utilizzando queste pause per riassumere in una frase l’essenziale di ciò che gli è appena stato raccontato. Quando a sua volta espone la storia, non la espone mai secondo il racconto che gli è stato fatto (nacherzählen); non sottolinea nulla, comprende il progredire della storia solo a mano a mano che la espone e il racconto è come ricostituito parte per parte.73 Nel soggetto normale c’è dunque un’essenza della storia che emerge via via che il racconto procede, senza nessuna analisi espressa, e che poi guida la riproduzione del racconto. Per lui la storia è un certo evento umano, riconoscibile dal suo stile; qui il soggetto «comprende» perché ha il potere di vivere, al di là della sua esperienza immediata, gli avvenimenti indicati dal racconto. Generalmente, per il malato è presente solo ciò che è immediatamente dato. Il pensiero altrui, non avendone egli l’esperienza immediata, non gli sarà mai presente.74 Per lui le parole altrui sono segni che vanno decifrati a uno a uno, anziché essere, come nel soggetto normale, l’involucro trasparente di un senso nel quale egli potrebbe vivere. Al pari degli eventi, le parole non sono per il malato il motivo di una ripresa o di una proiezione, ma solo l’occasione di una interpretazione metodica. Come l’oggetto, l’altro non gli «dice» nulla, e i fantasmi che gli si offrono sono privi non già di quel significato intellettuale che si ottiene con l’analisi, ma di quel significato primordiale che si ottiene con la coesistenza. Le turbe propriamente intellettuali - quelle del giudizio e della significazione -, non potranno essere considerate come deficienze ultime, e a loro volta dovranno essere ricollocate nel medesimo contesto esistenziale. Consideriamo, per esempio, la «cecità per i numeri».75 Si è potuto dimostrare che il malato, capace di contare, di sommare, di sottrarre, di moltiplicare o di dividere a proposito degli oggetti posti di fronte a lui, non può però concepire il numero e che tutti questi risultati sono ottenuti in virtù di espedienti rituali che non hanno con lui nessun rapporto di senso. Egli sa a memoria la serie dei numeri e la recita mentalmente, pur segnando sulle dita gli oggetti da contare, da sommare, da sottrarre, da moltiplicare o da dividere: «per lui il numero non ha più che una appartenenza alla serie dei numeri, non ha nessun significato come grandezza fissa, come gruppo, come misura determinata.»76 Dati due numeri, per lui il maggiore è quello che, nella serie, viene «dopo». Quando gli si dice di effettuare 5+4–4, il malato esegue l’operazione in due tempi, senza «notare nulla di particolare». Ammette solo, se glielo si fa osservare, che il numero 5 «resta». Egli non comprende che «il doppio della metà» di un numero è questo stesso numero.77 Diremo allora che il malato ha perduto il numero come categoria o come schema? Ma, quando scorre con gli occhi gli oggetti da contare «segnando» sulle dita ciascuno di essi, anche se gli accade spesso di confondere gli oggetti già contati con quelli che non lo sono ancora stati, anche se la sintesi è confusa, egli ha evidentemente la nozione di un’operazione sintetica che è appunto la numerazione. E reciprocamente, nel soggetto normale, la serie dei numeri come melodia cinetica quasi priva di senso autenticamente numerico si sostituisce, il più delle volte, al concetto di numero. Il numero non è mai un concetto


puro la cui assenza permetterebbe di definire lo stato mentale di Schneider, ma una struttura di coscienza che comporta il più e il meno. Il vero atto di contare esige dal soggetto che le sue operazioni - man mano che si svolgono e che cessano di occupare il centro della sua coscienza continuino a essergli presenti e costituiscano, per le operazioni ulteriori, un terreno sul quale queste ultime si stabiliscono. La coscienza tiene dietro di sé le sintesi effettuate, esse sono ancora disponibili, potrebbero essere riattivate, e a questo titolo sono riprese e superate nell’atto totale di numerazione. Ciò che si chiama il numero puro o il numero autentico è solo una promozione o una estensione per ricorrenza del movimento costitutivo di ogni percezione. In Schneider la concezione del numero è colpita solo in quanto presuppone eminentemente la capacità di dispiegate un passato per andare verso un avvenire. Molto più che l’intelligenza stessa, è colpita questa base esistenziale dell’intelligenza, giacché, come è stato osservato,78 l’intelligenza generale di Schneider è intatta: le sue risposte sono lente, ma non sono mai insignificanti, sono quelle di un uomo maturo, riflessivo e interessato alle esperienze del medico. Sotto l’intelligenza come funzione anonima o come operazione categoriale, si deve riconoscere un nucleo personale che è l’essere del malato, la sua potenza d’esistere. E proprio qui risiede la malattia. Schneider vorrebbe ancora farsi delle opinioni politiche o religiose, ma sa che è inutile tentare. «Ora egli deve accontentarsi di credenze massicce, senza poterle esprimere.»79 Non gli capita mai80 di cantare o di fischiare spontaneamente. In seguito vedremo che non assume mai iniziative sessuali. Non esce mai per passeggiare, ma sempre per fare una corsa e, quando passa davanti alla casa del prof. Goldstein non la riconosce «perché non è uscito con l’intenzione di andarvi».81 Come ha bisogno di darsi, mediante movimenti preparatori, delle «prese» sul proprio corpo prima di eseguire dei movimenti, quando questi non sono pretracciati in una situazione abituale -, cosi una conversazione con un’altra persona non rappresenta per lui una situazione di per sé significativa, che richiederebbe risposte improvvisate; egli può parlare solo secondo un piano prefissato: «Non può rimettersi all’ispirazione del momento per trovare i pensieri necessari di fronte a una situazione complessa creatasi nella conversazione, e ciò si verifica sia che si tratti di nuovi o di vecchi punti di vista.»82 In tutta la sua condotta c’è qualcosa di meticoloso e di serio, derivante dal fatto che egli è incapace di giocare. Giocare significa porsi per un momento in una situazione immaginaria, significa compiacersi di mutare «ambito». Per contro, il malato non può entrare in una situazione fittizia senza convertirla in situazione reale: non distingue un indovinello da un problema.83 «Nel malato la situazione possibile è in ogni istante cosi ristretta, che, se non hanno per lui qualcosa in comune, due settori del mondo circostante non possono simultaneamente «divenire situazione.»84 Se si chiacchiera con lui, egli non ode il rumore di un’altra conversazione nella stanza attigua; se si porta un piatto sul tavolo, non si chiede mai da dove esso proviene. Dichiara che si vede solo nella direzione in cui si guarda e solamente gli oggetti che si fissano.85 Per lui l’avvenire e il passato non sono altro che prolungamenti «raggrinziti» del presente. Il malato ha perduto «la nostra facoltà di guardare secondo il vettore temporale.»86 Non può sorvolare il suo passato e ritrovarlo senza esitazioni, andando dal tutto alle parti: lo ricostituisce partendo da un frammento che ha conservato il suo senso e che gli serve da «punto d’appoggio».87 Siccome si lamenta del clima, gli si chiede se si sente meglio d’inverno. Risponde: «Ora non posso dirlo. Per il momento non posso dire nulla.»88 Pertanto, tutti i disturbi di Schneider si lasciano si ricondurre all’unità, ma non all’unità astratta della «funzione di rappresentazione»: egli è «legato» all’attuale, «manca di libertà»,89 di quella libertà concreta che consiste nella facoltà generale di mettersi in situazione. Sotto l’intelligenza, come sotto la percezione, scopriamo una funzione più fondamentale, «un vettore che, come un riflettore, si muove in tutte le direzioni e mediante il quale possiamo orientarci verso


qualsiasi cosa, in noi o fuori di noi, e avere un comportamento nei confronti di questo oggetto».90 Va però detto che il paragone con il riflettore non è opportuno, poiché sottintende degli oggetti dati sui quali questo riflettore manda la propria luce, mentre la funzione centrale di cui parliamo, prima di farci vedere o conoscere degli oggetti, li fa esistere più segretamente per noi. Diciamo piuttosto, ricavando questo termine da altri lavori,91 che la vita della coscienza - vita conoscente, vita del desiderio o vita percettiva - è sottesa da un «arco intenzionale» che proietta attorno a noi il nostro passato, il nostro avvenire, il nostro ambiente umano, la nostra situazione fisica, la nostra situazione ideologica, la nostra situazione morale, o meglio, che fa si che noi siamo situati sotto tutti questi rapporti. Tale arco intenzionale costituisce l’unità dei sensi, quella dei sensi e dell’intelligenza, quella della sensibilità e della motilità, mentre nella malattia si «allenta». Lo studio di un caso patologico ci ha dunque permesso di scorgere un nuovo modo di analisi l’analisi esistenziale - che supera le alternative classiche fra l’empirismo e l’intellettualismo, fra la spiegazione e la riflessione. Se la coscienza fosse una somma di fatti psichici, ogni disturbo dovrebbe essere elettivo. Se fosse una «funzione di rappresentazione», una pura facoltà di significare, potrebbe essere o non essere (e con essa tutte le cose), ma non cessare di essere dopo essere stata, o divenire malata, ossia alterarsi. Se infine essa è un’attività di proiezione che dispone attorno a sé gli oggetti come tracce dei propri atti, ma che si appoggia su di essi per passare ad altri atti di spontaneità, ci si spiega il fatto che ogni deficienza dei «contenuti» si ripercuote sull’insieme dell’esperienza cominciandone la disintegrazione e che ogni alterazione patologica interessa l’intera coscienza, - e, correlativamente, il fatto che ogni volta la malattia colpisce la coscienza per un certo «lato», che in tutti i casi alcuni sintomi sono predominanti nel quadro clinico della malattia, e infine che la coscienza è vulnerabile e può ricevere in se stessa la malattia. Colpendo la «sfera visiva», la malattia non si limita a distruggere certi contenuti della coscienza, le «rappresentazioni visive» o la visione in senso proprio; colpisce invece una visione in senso figurato, di cui la prima è solo il modello o l’emblema, e cioè la facoltà di «dominare» (überschauen) le molteplicità simultanee,92 un certo modo di porre l’oggetto o di avere coscienza. Ma, poiché questo tipo di coscienza non è se non la sublimazione della visione sensibile, poiché in ogni momento esso si schematizza nelle dimensioni del campo visivo, impregnandole, è vero, di un senso nuovo, ci si spiega perché questa funzione generale ha le sue radici psicologiche. La coscienza sviluppa liberamente i dati visivi al di là del loro senso proprio, se ne serve per esprimere i suoi atti di spontaneità, come dimostra abbastanza bene l’evoluzione semantica che impregna di un senso sempre più ricco le parole intuizione, evidenza o luce naturale. Ma, reciprocamente, nessuno di questi termini, nel senso finale che hanno ricevuto dalla storia, può essere compreso senza riferimento alle strutture della percezione visiva. Cosicché, non si può dire che l’uomo vede perché è Spirito, né d’altra parte che è Spirito perché vede: vedere come vede un uomo e essere Spirito sono sinonimi. Nella misura in cui la coscienza è coscienza di qualche cosa solo, trascinandosi dietro la propria scia, e in cui, per pensare un oggetto, è necessario basarsi su un «mondo di pensiero» precedentemente costruito, c’è sempre una spersonalizzazione nel cuore della coscienza; con ciò è dato il principio di un intervento estraneo: la coscienza può essere malata, il mondo dei suoi pensieri può disgregarsi, - o piuttosto, poiché i «contenuti» dissociati dalla malattia non figuravano nella coscienza normale a titolo di parti e servivano solo da sostegni a significati che li oltrepassano, vediamo la coscienza tentare di mantenere le sue sovrastrutture anche se il loro fondamento è crollato: essa mima le sue operazioni abituali, ma senza potere ottenere la loro realizzazione intuitiva e senza poter mascherare la deficienza particolare che le priva del loro senso pieno. Il fatto che la malattia psichica sia a sua volta collegata a un fattore organico è spiegabile, in linea di principio, allo stesso modo; la coscienza


si proietta in un mondo fisico e ha un corpo, cosi come si proietta in un mondo culturale e ha degli habitus: perché non può essere coscienza se non agendo su significati dati nel passato assoluto della natura o nel suo passato personale, e perché ogni forma vissuta tende verso una certa generalità, sia poi quella dei nostri habitus oppure quella delle nostre «funzioni corporee». Queste delucidazioni ci permettono infine di comprendere inequivocabilmente la motilità come intenzionalità originale. Originariamente la coscienza non è un «io penso che», ma un «io posso».93 Come il disturbo visivo, anche il disturbo motorio di Schneider non può essere ricondotto a una deficienza della funzione generale di rappresentazione. La visione e il movimento sono modi specifici di riferirci a degli oggetti, e se, attraverso tutte queste esperienze, si esprime una funzione unica, tale funzione è il movimento d’esistenza, che non sopprime la diversità radicale dei contenuti: infatti, non li collega assoggettandoli tutti a un «io penso», ma orientandoli verso l’unità intersensoriale di un «mondo». Il movimento non è il pensiero di un movimento e lo spazio corporeo non è uno spazio pensato o rappresentato. «Ogni movimento volontario si svolge in un contesto, su uno sfondo che è determinato dal movimento stesso ... Noi eseguiamo i nostri movimenti in uno spazio che non è “vuoto” e senza relazione con questi movimenti, ma che viceversa è in un rapporto molto determinato con essi: in verità, movimento e sfondo non sono altro che momenti artificialmente separati da un tutto unico.»94 Nel gesto della mano che si dirige verso un oggetto è racchiuso un riferimento all’oggetto non come oggetto rappresentato, ma come quella cosa molto determinata verso la quale ci proiettiamo, presso alla quale siamo anticipatamente, che stringiamo dappresso.95 La coscienza è l’inerire alla cosa tramite il corpo. Un movimento è imparato quando il corpo l’ha compreso, cioè quando l’ha assimilato al suo «mondo», e muovere il proprio corpo significa protendersi verso le cose attraverso di esso, significa lasciarlo rispondere alla loro sollecitazione che si esercita su di esso senza nessuna rappresentazione. La motilità non è quindi un’ancella della coscienza, che trasporta il corpo nel punto dello spazio che dapprima ci siamo rappresentati. Perché possiamo muovere il nostro corpo verso un oggetto, è anzitutto necessario che l’oggetto esista per esso, e quindi che il nostro corpo non appartenga alla regione dell’«in sé». Gli oggetti non esistono più per il braccio dell’aprassico, ecco perché esso è immobile. I casi di aprassia pura - in cui la percezione dello spazio è intatta e la «nozione intellettuale del gesto da fare» non sembra offuscata, ma in cui il malato non sa copiare un triangolo -,96 i casi di aprassia costruttiva - nei quali il soggetto non manifesta nessun disturbo gnosico, a parte ciò che concerne la localizzazione degli stimoli sul suo corpo, e non è però capace di copiare una croce, una V o una O -,97 dimostrano bene che il corpo ha il suo mondo e che gli oggetti o lo spazio possono essere presenti alla nostra conoscenza senza esserlo al nostro corpo. Pertanto, non si deve dire che il nostro corpo è nello spazio, né d’altra parte che è nel tempo. Esso abita lo spazio e il tempo. Se la mia mano esegue nell’aria uno spostamento complicato, per conoscere la sua posizione finale non devo sommare i movimenti di direzione eguale e sottrarre quelli di direzione contraria. «Ogni mutamento identificabile giunge alla coscienza già pregno delle sue relazioni a ciò che l’ha preceduto, come su un tassametro vediamo la distanza già trasformata in scellini e in pence.»98 In ogni istante le posture e i movimenti precedenti forniscono un campione di misura sempre pronto. Non si tratta del «ricordo» visivo o motorio della posizione della mano alla partenza: talune lesioni cerebrali possono lasciare intatto il ricordo visivo pur sopprimendo la coscienza del movimento e, dal canto suo, il «ricordo motorio» non potrebbe evidentemente determinare la posizione presente della mia mano, se la percezione da cui è sorto non avesse implicato essa stessa una coscienza assoluta del «qui», senza la quale saremmo rimandati di ricordo


in ricordo e non avremmo mai una percezione attuale. Come è necessariamente «qui», il corpo esiste necessariamente «ora»; non può mai divenire «passato», e se nello stato di salute non possiamo conservare il ricordo vivente della malattia, o nell’età adulta quello del nostro corpo quando eravamo fanciulli, tali «lacune della memoria» non fanno altro che esprimere la struttura temporale del nostro corpo. In ogni istante di un movimento, l’istante precedente non è ignorato, ma è come incorporato nel presente e, tutto sommato, la percezione presente consiste nel riprendere, basandosi sulla posizione attuale, la serie delle posizioni anteriori, che si involgono vicendevolmente. Ma anche la posizione imminente è involta nel presente e, attraverso di essa, tutte quelle che verranno sino al termine del movimento. Ogni istante del movimento ne abbraccia l’intera estensione: in particolare il primo momento, l’iniziazione cinetica, inaugura il collegamento di un qui e di un là, di un adesso e di un avvenire che gli altri momenti si limiteranno a sviluppare. In quanto ho un corpo e in quanto agisco nel mondo attraverso questo corpo, lo spazio e il tempo non sono per me una somma di punti giustapposti, né d’altra parte una infinità di relazioni di cui la mia coscienza effettuerebbe la sintesi e nella quale essa implicherebbe il mio corpo; io non sono nello spazio e nel tempo, non penso lo spazio e il tempo: inerisco allo spazio e al tempo, il mio corpo si applica a essi e li abbraccia. L’ampiezza di questa presa misura quella della mia esistenza, ma, in ogni modo, non può mai essere totale: lo spazio e il tempo che io abito hanno sempre, da ambo le parti, orizzonti indeterminati che racchiudono altri punti di vista. Sia la sintesi del tempo che quella dello spazio sono sempre da ricominciare. L’esperienza motoria del nostro corpo non è un caso particolare di conoscenza, ma ci fornisce un modo di accedere al mondo e all’oggetto, una «praktognosia»99 che deve essere riconosciuta come originale e forse come originaria. Il mio corpo ha il suo mondo o comprende il suo mondo senza dover passare attraverso «rappresentazioni», senza subordinarsi a una «funzione simbolica» od «oggettivante». Girti malati possono imitare il movimento del medico e portare la mano destra all’orecchio destro, la mano sinistra al naso, se si collocano accanto al medico e osservano i suoi movimenti in uno specchio, non se gli stanno di fronte. Head spiega il fallimento del malato con l’insufficienza della sua «formulazione»: l’imitazione del gesto sarebbe mediata da una traduzione verbale. In realtà, la formulazione può essere esatta senza che l’imitazione riesca, e viceversa l’imitazione può riuscire senza nessuna formulazione. Gli autori100 fanno allora intervenire, se non il simbolismo verbale, per lo meno una funzione simbolica generale, una capacità di «trasporre» di cui l’imitazione sarebbe solo un caso particolare, come la percezione o il pensiero oggettivo. Ma è evidente che questa funzione generale non spiega l’azione adattata. Infatti, i malati sono capaci non solo di formulare il movimento da compiere, ma anche di rappresentarselo. Sanno benissimo che cosa devono fare e tuttavia, anziché portare la mano destra all’orecchio destro, la mano sinistra al naso, toccano un orecchio con ogni mano o anche il naso e uno degli occhi, o una delle orecchie e uno degli occhi.101 Ciò che è divenuto impossibile, è l’applicazione, l’adattamento al loro proprio corpo della definizione oggettiva del movimento. In altri termini, la mano destra e la mano sinistra, l’occhio e l’orecchio, si presentano ancora a questi malati come posizioni assolute, ma non sono più inseriti in un sistema di corrispondenza che li collega alle parti omologhe del corpo del medico e che li rende utilizzabili per l’imitazione, anche quando il medico sta di fronte al malato. Per potere imitare i gesti di qualcuno che mi sta di fronte, non mi occorre sapere espressamente che «la mano che appare alla destra del mio campo visivo è mano sinistra per colui che mi sta di fronte». È appunto il malato a ricorrere a queste spiegazioni. Nell’imitazione normale, la mano sinistra del soggetto si identifica immediatamente con quella di chi gli sta di fronte, l’azione del soggetto aderisce immediatamente al suo modello, il soggetto si proietta o si irrealizza in lui, si identifica con lui, e il mutamento delle coordinate è eminentemente contenuto in questa operazione esistenziale. Il


fatto è che il soggetto normale ha il suo corpo non solo come sistema di posizioni attuali, ma anche e con ciò stesso come sistema aperto di un’infinità di posizioni equivalenti in altri orientamenti. Ciò che abbiamo chiamato lo schema corporeo è appunto questo sistema di equivalenze, questa invariante immediatamente data in virtù della quale i diversi compiti motori sono istantaneamente trasponibili. Vale a dire che esso non è solo un’esperienza del mio corpo, ma anche un’esperienza del mio corpo nel mondo, e che è proprio questo schema corporeo a dare un senso motorio alle istruzioni verbali. Nei casi di aprassia, la funzione distrutta è dunque una funzione motoria. «In casi di questo genere non è colpita la funzione simbolica o significativa in genere, ma una funzione molto più originaria e di carattere motorio, vale a dire la capacità di differenziazione motoria dello schema corporeo dinamico.»102 Lo spazio in cui si muove l’imitazione normale non è, in antitesi con lo spazio concreto, con le sue posizioni assolute, uno «spazio oggettivo» o uno «spazio di rappresentazione» fondato su un atto di pensiero. Esso è già delineato nella struttura del mio corpo, ne è il correlativo inseparabile. «Già la motilità, considerata allo stato puro, è dotata del potere elementare di dare un senso (Sinngebung).»103 Anche se, successivamente, il pensiero e la percezione dello spazio si liberano dalla motilità e dall’inerenza allo spazio, affinché noi possiamo rappresentarci lo spazio è anzitutto necessario che vi siamo stati introdotti dal nostro corpo e che esso ci abbia fornito il primo modello delle trasposizioni, delle equivalenze, delle identificazioni che fanno dello spazio un sistema oggettivo e permettono alla nostra esperienza di essere una esperienza di oggetti, di sboccare in un «in sé». «La motilità è la sfera primaria nella quale originariamente sorge il senso di tutti i significati (der Sinn alter Signifikationen) nell’ambito dello spazio rappresentato.»104 L’acquisizione dell’abitudine come rimaneggiamento e rinnovamento dello schema corporeo presenta grandi difficoltà per le filosofie classiche, sempre inclini a concepire la sintesi come una sintesi intellettuale. È pur vero che non è una associazione esteriore a riunire nella abitudine i movimenti elementari, le reazioni e gli «stimoli».105 Ogni teoria meccanicistica inciampa nel fatto che il processo di acquisizione è sistematico. Il soggetto non salda movimenti individuali a stimoli individuali, ma acquista la capacità di rispondere con un certo tipo di soluzioni a una certa forma di situazioni: infatti, le situazioni possono differire largamente da un caso all’altro, i movimenti di risposta possono essere affidati ora a un organo effettore, ora all’altro, situazioni e risposte si somigliano nei diversi casi molto meno per l’identità parziale degli elementi che per la comunanza del loro senso. Si deve dunque porre all’origine dell’abitudine un atto intellettivo che ne organizzerebbe gli elementi per poi ritirarsene?106 Per esempio, acquisire l’abitudine di una danza non significa forse trovare per via d’analisi la formula del movimento e ricomporlo, seguendo questo tracciato ideale, per mezzo di movimenti già acquisiti, e cioè quelli del cammino e della corsa? Ma, per integrare a sé certi elementi della motilità generale, la nuova formula della danza deve anzitutto aver ricevuto, per cosi dire, una consacrazione motoria. Come si è detto spesso, è il corpo che «acciuffa» (kapiert) e «comprende» il movimento. L’acquisizione dell’abitudine è sì l’apprensione di un significato, ma è l’apprensione motoria di un significato motorio. Che cosa si vuol dire di preciso con ciò? Senza bisogno di calcoli, una donna mantiene un intervallo di sicurezza fra la piuma del suo cappello e gli oggetti che potrebbero romperla, sente dov’è la piuma cosi come noi sentiamo dove è la nostra mano.107 Se sono abituato a guidare una automobile, le faccio imboccare una strada e vedo che «posso passare» senza confrontare la larghezza della strada a quella dei parafanghi, nello stesso modo in cui passo per una porta senza confrontare la larghezza della porta a quella del mio corpo.108 Il cappello e l’automobile hanno cessato di essere oggetti la cui grandezza e volume si determinerebbero per confronto con gli altri oggetti. Sono divenuti potenze voluminose, l’esigenza di


un certo spazio libero. Correlativamente, la portiera della metropolitana e la strada sono divenute potenze coartanti e appaiono immediatamente come praticabili o impraticabili per il mio corpo con i suoi annessi. Per il cieco, il suo bastone ha cessato di essere un oggetto, non è piò percepito per se stesso, mentre la sua estremità si è trasformata in zona sensibile: il bastone aumenta l’ampiezza e il raggio d’azione del tatto, è divenuto l’analogo di uno sguardo. Nella esplorazione degli oggetti, la lunghezza di tale bastone non interviene espressamente e come termine medio: il cieco la conosce attraverso la posizione degli oggetti più di quanto conosca quest’ultima attraverso di essa. La posizione degli oggetti è data immediatamente dall’ampiezza del gesto che la raggiunge e nella quale è compreso, oltre alla potenza di estensione del braccio, il raggio d’azione del bastone. Se voglio abituarmi a una canna, la provo, tocco qualche oggetto e, dopo un po’ di tempo, l’ho «in mano», vedo quali oggetti sono «a portata» della mia canna o fuori portata. Non si tratta qui di una valutazione rapida e di un confronto tra la lunghezza oggettiva della canna e la distanza oggettiva della meta da raggiungere. I luoghi dello spazio non si definiscono come posizioni oggettive in rapporto alla posizione oggettiva del nostro corpo, ma inscrivono attorno a noi la portata variabile delle nostre intenzioni o dei nostri gesti. Abituarsi a un cappello, a un’automobile o a un bastone, significa installarsi in essi o, viceversa, farli partecipare alla voluminosità del corpo proprio. L’abitudine esprime il potere che noi abbiamo di dilatare il nostro essere al mondo, o di mutare esistenza assimilando nuovi strumenti.109 Si può saper dattilografare senza essere in grado di indicare dove si trovano sulla tastiera le lettere che compongono le parole. Saper dattilografare non è quindi conoscere la posizione di tutte le lettere sulla tastiera, e nemmeno aver acquisito per ognuna di queste lettere un riflesso condizionato che essa attiverebbe quando si presenta al nostro sguardo. Se non è né una conoscenza né un automatismo, che cos’è dunque l’abitudine? Si tratta di un sapere che è nelle mani, che si affida solo allo sforzo corporeo e non può esprimersi con una designazione oggettiva. Il soggetto sa dove si trovano le lettere sulla tastiera cosi come noi sappiamo dove si trova uno dei nostri arti, e ciò in virtù di un sapere di familiarità che non ci dà una posizione nello spazio oggettivo. Lo spostamento delle dita non si dà alla dattilografa come un tragitto spaziale che si possa descrivere, ma solamente come una certa modulazione della motilità, distinta da ogni altra per la sua fisionomia. Spesso il problema viene posto come se la percezione di una lettera scritta sulla carta venisse a risvegliare la rappresentazione della medesima lettera che, a sua volta, desterebbe la rappresentazione del movimento necessario per raggiungerla sulla tastiera. Ma questo linguaggio è mitologico. Quando percorro con gli occhi il testo che mi è stato presentato, non ci sono delle percezioni che risvegliano delle rappresentazioni, ma si compongono attualmente degli insiemi dotati di una fisionomia tipica o familiare. Quando prendo posto di fronte alla mia macchina per scrivere, sotto le mie mani si stende uno spazio motorio nel quale reciterò ciò che ho letto. La parola letta è una modulazione dello spazio visibile, l’esecuzione motoria è una modulazione dello spazio manuale, e tutto il problema consiste nel sapere come una certa fisionomia degli insiemi «visivi» può sollecitare un certo stile delle risposte motorie, come ogni struttura «visiva» si dà infine la sua essenza motoria, senza che ci sia bisogno di compitare la parola o di compitare il movimento per tradurre la parola in movimento. Ma questo potere dell’abitudine non si distingue da quello che in genere abbiamo sul nostro corpo: se mi si ordina di toccare l’orecchio o il ginocchio, porto la mano all’orecchio o al ginocchio per la via più breve, senza aver bisogno di rappresentarmi la posizione della mano alla partenza, quella dell’orecchio o il tragitto dall’una all’altra. In precedenza si è detto che, nell’acquisizione dell’abitudine, è il corpo a «comprendere». Se comprendere significa sussumere un dato sensibile sotto un’idea e se il corpo è un oggetto, quella formula sembrerà assurda. Ma il fenomeno dell’abitudine ci invita appunto a rivedere la nostra nozione del «comprendere» e la


nostra nozione del corpo. Comprendere significa esperire l’accordo fra ciò verso cui tendiamo e ciò che è dato, fra l’intenzione e l’effettuazione -, e il corpo è il nostro ancoraggio in un mondo. Quando porto la mano verso il ginocchio, in ogni attimo del movimento esperisco la realizzazione di una intenzione che non aveva di mira il mio ginocchio come idea o come oggetto, ma come parte presente e reale del mio corpo vivente, cioè come punto di passaggio del mio perpetuo movimento verso un mondo. Quando la dattilografa esegue sulla tastiera i movimenti necessari, questi movimenti sono diretti da un’intenzione, la quale, però, non pone i tasti della macchina come localizzazioni oggettive. È letteralmente vero che il soggetto che impara a dattilografare integra lo spazio della tastiera al suo spazio corporeo. L’esempio degli strumentisti dimostra ancor meglio come l’abitudine non risiede né nel pensiero né nel corpo oggettivo, ma nel corpo come mediatore di un mondo. È noto110 che un organista esperto è capace di servirsi di un organo che egli non conosce e che ha le tastiere pili o meno numerose e i registri disposti diversamente rispetto a quelli del suo strumento abituale. Gli basta un’ora di lavoro per essere in grado di eseguire il suo programma. Un tempo d’apprendimento cosi corto non permette di supporre che nuovi riflessi condizionati si sostituiscano qui ai montaggi già stabiliti, a meno che formino entrambi un sistema e il mutamento sia globale: ma ciò ci fa uscire dalla teoria meccanicistica, poiché allora le reazioni sono mediate da una apprensione globale dello strumento. Diremo dunque che l’organista analizza l’organo, e cioè che si dà e conserva una rappresentazione dei registri, dei pedali, delle tastiere e della loro relazione nello spazio? Ma, durante la breve prova che precede il concerto, egli non si comporta come chi vuole tracciare un piano. Prende posto sul sedile, aziona i pedali, alza o abbassa i registri, misura Io strumento con il suo corpo, assimila le direzioni e le dimensioni, si installa nell’organo come ci si installa in una casa. Per ogni registro e per ogni pedale, egli non apprende delle posizioni nello spazio oggettivo, e non le affida alla sua «memoria». Sia durante la prova che durante l’esecuzione, i registri, i pedali e i tasti gli sono dati solo come le potenze di un certo valore emozionale o musicale e le loro posizioni come i luoghi attraverso cui questo valore appare nel mondo. Fra l’essenza musicale del pezzo cosi come è indicata nella partitura e la musica che effettivamente risuona attorno all’organo, si stabilisce una relazione cosi diretta che il corpo dell’organista e lo strumento non sono più se non il luogo di passaggio di questa relazione. Ormai la musica esiste di per sé e tutto il resto esiste grazie a essa.111 Qui non c’è posto per un «ricordo» della posizione dei registri, l’organista non suona nello spazio oggettivo. In realtà, durante la prova i suoi gesti sono gesti di consacrazione: tendono vettori affettivi, scoprono sorgenti emozionali, creano uno spazio espressivo cosi come i gesti dell’augure delimitano il templum. Tutto il problema dell’abitudine consiste qui nel sapere come il significato musicale del gesto può dissolversi in una certa località in modo tale che, inerendo completamente alla musica, l’organista raggiunga appunto i registri e i pedali che la realizzeranno. Orbene, il corpo è eminentemente uno spazio espressivo. Io voglio prendere un oggetto e già, in un punto dello spazio al quale non pensavo, quella potenza di prensione che è la mia mano si dirige verso l’oggetto. Muovo le gambe non in quanto esse sono nello spazio a ottanta centimetri dalla testa, ma in quanto la loro potenza ambulatoria prolunga verso il basso la mia intenzione motrice. Le regioni principali del mio corpo sono consacrate ad azioni, partecipano al loro valore: sapere perché il senso comune individua nella testa la sede del pensiero e sapere come l’organista distribuisce nello spazio dell’organo i significati musicali è il medesimo problema. Ma il nostro corpo non è solamente uno spazio espressivo fra tutti gli altri, come lo è il corpo costituito; è invece l’origine di tutti gli altri, il movimento stesso d’espressione, ciò che proietta all’esterno i significati assegnando a essi un luogo,


ciò grazie a cui questi significati si mettono a esistere come cose, sotto le nostre mani, sotto i nostri occhi. Pur non imponendoci, come accade nell’animale, istinti definiti sin dalla nascita, per lo meno il nostro corpo dà alla nostra vita la forma delle generalità e prolunga in disposizioni stabili i nostri atti personali. In questo senso la nostra natura non è una vecchia consuetudine, poiché la consuetudine presuppone la forma di passività della natura. Il corpo è il nostro mezzo generale per avere un mondo. Talvolta esso si limita ai gesti necessari per la conservazione della vita, e, correlativamente, pone attorno a noi un mondo biologico; talvolta, giocando su questi primi gesti e passando dal loro senso proprio a un senso figurato, manifesta attraverso di essi un nuovo nucleo di significato: è il caso delle abitudini motorie come la danza. Talvolta, infine, il significato perseguito non può essere raggiunto con i mezzi naturali del corpo; il corpo deve allora costruirsi uno strumento, e proietta attorno a sé un mondo culturale. A tutti i livelli, esso esplica la medesima funzione, la quale consiste nel prestare ai movimenti istantanei della spontaneità «un po’ d’azione rinnovabile e d’esistenza indipendente».112 L’abitudine non è che una modalità di questo potere fondamentale. Si dice che il corpo ha compreso e che l’abitudine è acquisita quando il corpo si è lasciato penetrare da un significato nuovo e ha assimilato un nuovo nucleo significativo. Con lo studio della motilità abbiamo insomma scoperto un nuovo significato della parola «senso». La psicologia intellettualistica e la filosofia idealistica devono la loro forza alla facilità con cui dimostrano che la percezione e il pensiero hanno un senso intrinseco e non possono essere spiegati con l’associazione esteriore di contenuti raggruppati in modo fortuito. Il Cogito era la presa di coscienza di questa interiorità. Ma, con ciò stesso, ogni significazione113 era concepita come un atto di pensiero, come l’operazione di un puro Io, e, pur prevalendo facilmente sull’empirismo, l’intellettualismo era anch’esso incapace di render conto della varietà della nostra esperienza, di dò che in essa è non senso, della contingenza dei contenuti. L’esperienza del corpo ci fa riconoscere una imposizione di senso che non è quella di una coscienza costituente universale, ci fa riconoscere un senso che aderisce a certi contenuti. Il mio corpo è quel nucleo significativo che si comporta come una funzione generale e che nondimeno esiste ed è accessibile alla malattia. In esso impariamo a conoscere quel nodo dell’essenza e dell’esistenza che generalmente ritroveremo nella percezione e che dovremo allora descrivere più compiutamente.


Note

1

Cfr., per esempio, Head, On disturbances of sensations with especial reference to the pain of visceral disease.

2

Ibidem. Abbiamo discusso il concetto di segno locale in La structure du comportement, pp. 102 sgg.

3

Cfr., per esempio, Head, Sensory disturbances front cerebral lesion, p. 189; Pick, Störungen der Orientierung am eigenen Körper, e anche Schilder, Das Körperschema, quantunque Schilder ammetta che «un tale complesso non è la somma delle sue parti, ma un tutto nuovo in rapporto a esse».

4 Come

per esempio Lhermitte, L’image de notre corps.

5 Konrad,

Das Körperschema, eine kritische Studie und der Versuch einer Revision, pp. 365 e 367. Bürger-Prinz e Kaila definiscono lo schema corporeo «il sapere del corpo proprio come termine di insieme e della relazione mutua delle sue membra e delle sue parti». Ibidem, p. 365.

6 Cfr.,

per esempio, Konrad, op. cit.

7 Grünbaum,

Aphasie und Motorik, p. 395

8

Si è già visto (cfr. p. 130) che l’arto fantasma, che è ima modalità dello schema corporeo, va compreso alla luce del movimento generale dell’essere al mondo

9

Cfr. Becker, Beiträge zur phänomenologischen Begründung der Geometrie und ibrer physikdischen Anwendungen

10

Gelb e Goldstein, Über den Einfluss des vollständingen Verlustes des optischen Vorstellungsvermögens auf das taktile Erkennen. - Psychologische Analysen himpathologischer Fälle, cap. II, pp. 157-250.

11

Goldstein, Über die Abhängigkeit der Bewegungen von optischen Vorgängen. Questo secondo lavoro utilizza osservazioni fatte sullo stesso malato, Schneider, due anni dopo quelle raccolte nel lavoro sopra citato.

12 Goldstein, 13 Ibidem.

Zeigen und Greifen, pp. 453-466.

Si tratta di un cerebellare.

14 Goldstein,

Über die Abhängigkeit..., p. 175.


15 J.-P.

Sartre, L’imaginaire, p. 243.

16 Diderot,

Paradoxe sur le comédien.

17 Goldstein, 18

Il problema non consiste dunque nel sapere come l’anima agisca sul corpo oggettivo, giacché non agisce su di esso ma sul corpo fenomenico. Da questo punto di vista, la questione subisce un mutamento. Ora si tratta di sapere perché ci sono due vedute su di me e sul mio corpo - il mio corpo per me e il mio corpo per altri - e come sono compossibili questi due sistemi. Non basta infatti dire che il corpo oggettivo appartiene al «per altri» e il mio corpo fenomenico al «per me», non ci si può esimere dal porre il problema dei loro rapporti, poiché il «per me» e il «per altri» coesistono in uno stesso mondo, come testimonia la mia percezione di un altro che mi riconduce subito alla condizione di oggetto per lui

19 Goldstein, 20 Ibidem, 21

op. cit., pp. 175-176.

Über den Einfluss..., pp. 167-206.

pp. 206-213.

Per esempio, il soggetto passa ripetutamente le dita su un angolo: «le dita» egli dice «procedono in linea retta, poi si fermano, poi ripartono in un altro senso; è un angolo, deve essere un angolo retto.» - «Due, tre, quattro angoli, i lati misurano tutti due centimetri, dunque sono eguali, tutti gli angoli sono retti... È un dado.» Ibidem, p. 195, cfr. pp. 187-206.

22 Goldstein, 23 Come 24 Cfr.,

ibidem, pp. 206-213.

fa Goldstein, ibidem, pp. 167-206.

nel presente volume, la discussione generale dell’«associazione delle idee», pp. 52 sgg.

25 Dobbiamo

questa parola al malato Schneider: mi occorrerebbero, egli dice, delle Anhaltspunkte.

26 Goldstein,

op. cit., pp. 213-222.

27

Goldstein, Über die Abhängigkeit, p. 161: «Bewegung und Hintergrund bestimmen sich wechselseitig, sind eigentlich nur zwei herausgegriffene Momente eines einheitlichen Ganzes.»

28 Ibidem,

p. 161.

29 Ibidem. 30

Goldstein (ibidem, pp. 160 sgg.) si accontenta di dire che lo sfondo del movimento astratto è il corpo, e ciò è vero in quanto nel movimento astratto il corpo non è più soltanto il veicolo e diviene il fine del movimento. Tuttavia, mutando funzione, esso cambia anche modalità esistenziale e passa dall’attuale al virtuale


31 Van Woerkom,

Sur la notion de l’espace (le sens géométrique), pp. 113-119.

32

Cfr., per esempio, H. Le Savoureux, Un philosophe en face de la Psychanalyse, «Nouvelle Revue Francaise», febbraio 1939. «Per Freud il solo fatto di aver collegato i sintomi con relazioni plausibili è una conferma sufficiente per giustificare la fondatezza di una interpretazione psicoanalitica, cioè psicologica. Questo carattere di coerenza logica, proposto come criterio d’esattezza dell’interpretazione, apparenta la dimostrazione freudiana molto più alla deduzione metafisica che alla spiegazione scientifica... In medicina mentale, la verosimiglianza psicologica non vale quasi nulla nella ricerca delle cause» (p. 318).

33

Egli vi riesce solo se gli vengono permessi dei «movimenti imitativi» (nachfahrende Bewegungen) della testa, delle mani o delle dita che ripassano il disegno imperfetto dell’oggetto. Gelb e Goldstein, Zur Psychologie des optischen Wahrnehmuttgs- und Erkennungsvorganges, Psychologische Andysen hirnpathologischer Fälle, cap. I, pp. 20-24.

34

«Ai dati visivi del malato manca una struttura specifica e caratteristica. Le impressioni non hanno una configurazione salda come quelle del soggetto normale, non hanno, per esempio, l’aspetto caratteristico del "quadrato", del "triangolo", del "diritto" e del "curvo". Di fronte a sé egli ha solo delle macchie sulle quali non può cogliere, con la vista, se non caratteri massicci come l’altezza, la larghezza e la loro relazione» (ibidem, p. 77). Un giardiniere che scopa a cinquanta passi di distanza è «una linea lunga, che ha, sopra, qualcosa che va e viene» (p. 108). Per strada il malato distingue gli uomini dalle automobili poiché «gli uomini sono tutti simili: sottili e lunghi, - le automobili sono larghe, non ci si può ingannare, e molto più spesse» (ibidem).

35 Ibidem, 36 Gelb 37

p. 116.

e Goldstein, Über den Einfluss..., pp. 213-222.

È in questo senso che Gelb e Goldstein interpretavano il caso di Schneider nei primi lavori che gli hanno dedicato (Zur Psychologie... e Über den Einfluss...). Si vedrà come in seguito (Über die Abbängigkeit... e soprattutto Zeigen und Greifen e i lavori pubblicati sotto la loro direzione da Benary, Hocheimer e Steinfeld) essi abbiano allargato la loro diagnosi. Il progresso della loro analisi è un esempio particolarmente chiaro dei progressi della psicologia.

38 Zeigen

und Greifen, p. 456.

39 Ibidem,

pp. 458-459.

40 Cfr.

l'Introduzione del presente volume, p. 33.

41 Cfr.

L. Brunschvicg, L'expérience humaine et la causalità physique, I parte.

42 Gelb

e Goldstein, Über den Einfluss..., pp. 227-250.

43 Goldstein,

Über die Abhängigkeit..., pp. 163 sgg.


44 Goldstein, 45

Über den Einfluss..., pp. 224 sgg.

Si tratta qui del caso S., per il quale lo stesso Goldstein, in Über die Abhängigkeit..., istituisce un parallelo con quello di Schneider.

46 Ibidem,

pp. 178-184.

47 Ibidem,

p. 150.

48 Über

den Einfluss..., pp. 227 sgg..

49

Sul condizionamento dei dati sensoriali da parte della motilità cfr. La structure du comportement, p. 41, e le esperienze che dimostrano che un cane legato non percepisce come un cane libero nei suoi movimenti. In Gelb e Goldstein i procedimenti della psicologia classica si mescolano curiosamente all'ispirazione concreta della Gestaltpsychologie. I due autori riconoscono che il soggetto percipiente reagisce come un tutto, ma la totalità è concepita come un miscuglio; dalla sua coesistenza con la vista il tatto non riceve che una «sfumatura qualitativa», mentre, secondo lo spirito della Gestaltpsychologie, due domini sensoriali possono comunicare solo integrandosi come momenti inseparabili a un'organizzazione intersensoriale. Orbene, per costituire con i dati visivi una configurazione di insieme, i dati tattili devono evidentemente realizzare essi stessi, sul loro proprio terreno, una organizzazione spaziale, altrimenti la connessione del tatto e della vista sarebbe una associazione esteriore, e nella configurazione totale i dati tattili rimarrebbero ciò che essi sono quando vengono considerati isolatamente - due conseguenze, queste, egualmente escluse dalla teoria della forma. È giusto aggiungere che, in un altro lavoro («Bericht Über den IX Kongress für experimentelle Psycfaologie in München», Die psychologische Bedeutung pathologischer Störungen der Raumwahrnehmung), lo stesso Gelb mette in rilievo l'insufficienza di ciò che abbiamo analizzato. Non si deve nemmeno parlare, egli dice, di una coalescenza del tatto e della vista nell'individuo normale, e nemmeno distinguere queste due componenti nelle reazioni allo spazio. Sia l'esperienza tattile pura die l'esperienza visiva pura, con il suo spazio di giustapposizione e il suo spazio rappresentato, sono prodotti dell'analisi. C'è un maneggiamento concreto dello spazio al quale tutti i sensi collaborano in una «unità indifferenziata» e il tatto è inidoneo solo alla conoscenza tematica dello spazio. 50 Cfr.

Gelb e Goldstein, Über Farbennatnenamnesie.

51 Gelb

e Goldstein, Zeigen und Greifen, pp. 456-457.

52 Head. 53 Bouman e

Grünbaum.

54 Van Woerkom. 55

Si attribuisce spesso a Husserl il merito di questa distinzione. In realtà, essa si trova già in


Cartesio e in Kant. Secondo noi, l’originalità di Husserl è al di là del concetto di intenzionalità e consiste nell’elaborazione di questo concetto e nella scoperta, sotto l’intenzionalità delle rappresentazioni, di una intenzionalità più profonda, che altri hanno chiamato esistenza. 56

Talvolta Gelb e Goldstein tendono a interpretare i fenomeni in questo sen so. Essi hanno fatto più di qualsiasi altro per superare l’alternativa classica del l’automatismo e della coscienza. Ma non hanno mai dato un nome a questo terzo termine fra lo psichico e il fisiologico, fra il per sé e l’in sé, al quale erano sempre ricondotti dalle loro analisi e che noi chiameremo esistenza. Per questo motivo i loro primi lavori ricadono spesso nella dicotomia classica del corpo e della coscienza: «Il movimento di prensione è determinato molto più immediatamente che l’atto di mostrare dalle relazioni dell’organismo al campo circostante...; più che di reazioni immediate, si tratta di reazioni che si svolgono con coscienza..., con esse d troviamo di fronte a un processo molto più vitale e, in linguaggio biologico, primitivo» (Zeigen und Greifen, p. 459). «L’atto di prensione rimane assolutamente insensibile alle modificazioni che concernono la componente cosciente dell’esecuzione, alle deficienze dell’apprensione simultanea (nella cecità psichica), allo slittamento dello spazio percepito (nei cerebellari), ai disturbi della sensibilità (in certe lesioni corticali), in quanto non si svolge in questa sfera oggettiva. Esso è con servato finché gli eccitamenti periferici bastano ancora a dirigerlo con precisione» (Zeigen und Greifen, p. 460). Gelb e Goldstein mettono si in dubbio l’esistenza di movimenti localizzatori riflessi, ma solo in quanto si vorrebbe considerarli come innati. Infatti, i due autori non rimandano all’idea di una «localizzazione automatica che non comporterebbe nessuna coscienza dello spazio, giacché ha luogo anche nel sonno» (inteso, dunque, come incoscienza assoluta). Essa è si «appresa», nel fanciullo, a partire dalle reazioni globali di tutto il corpo agli eccitanti tattili, - ma questo apprendimento è concepito come l’accumulazione di «residui cineste sia» che, nell’adulto normale, saranno «risvegliati» dall’eccitamento esterno e che l’orienteranno verso le vie d’uscita appropriate (Über den Einfluss..., pp. 167-206). Se Schneider esegue correttamente i movimenti necessari al suo mestiere, è perché ognuno di essi è un tutto abituale e non esige nessuna coscienza dello spazio (ibidem, pp. 221-222). 57

Lo stesso Goldstein che, come si è visto nella nota precedente, tendeva a riferire il Greifen al corpo e lo Zeigen all’atteggiamento categoriale, è costretto a ritornare su questa «spiegazione». L’atto di prensione, egli dice, può «essere eseguito su comando, e il malato vuole afferrare. Per farlo, egli non ha bisogno di avere coscienza del punto dello spazio verso il quale lancia la propria mano, ha però il sentimento di un orientamento nello spazio...» (Zeigen una Greifen, p. 461). L’atto di prensione, cosi come è nel soggetto normale, «esige ancora un atteggiamento categoriale e cosciente» (ibidem, p. 465).

58 «Symbolvermögen schlechthin», 59 «Gemeinsamkeit im Sein, 60 Cfr., 61

Cassirer, Philosophie der symbolischen Forme», III, p. 320.

Gemeinsamkeit ira Sinn», ibidem.

per esempio, Cassirer, ibidem, III, cap. VI, «Pathologie des Symbolbewusstseins».

Infatti, si immagina una interpretazione intellettualistica della schizofrenia che ricondurrebbe la polverizzazione del tempo e la perdita dell’avvenire a una disgregazione dell’atteggiamento


categoriale. 62 La

strutture du comportement, pp. 91 sgg.

63 Traduciamo 64

qui la parola favorita di Husserl: Stiftung.

Cfr. la terza parte del presente volume. - Cassirer si propone evidentemente un fine analogo quando rimprovera a Kant di avere analizzato, perloppiú, solo una «sublimazione intellettuale dell’esperienza» (op. cit., IlI, p. 14), quando cerca di esprimere, attraverso il concetto di pregnanza simbolica, la simultaneità assoluta della materia e della forma o quando fa sua quell’espressione di Hegel secondo la quale lo spirito porta e conserva il suo passato nella sua profondità presente. Ma i rapporti fra le diverse forme simboliche rimangono ambigui. Ci si chiede sempre se la funzione di Darstellung è un momento nel ritorno a sé di una coscienza eterna, l’ombra della funzione di Bedeutung, - o se invece la funzione di Bedeutung è una amplificazione imprevedibile della prima «ondata» costitutiva. Quando riprende la formula kantiana secondo la quale la coscienza potrebbe analizzare solo ciò di cui ha fatto la sintesi, Cassirer ritorna evidentemente all’intellettualismo, nonostante le analisi fenomenologiche e anche esistenziali che il suo libro contiene e di cui dovremo ancora servirci.

65 Benary,

Studien zur Untersuchung der Intelligenz bei einen Fall von Seelenblindheit, p. 262.

66 Ibidem,

p. 263.

67

Riserviamo per la seconda parte uno studio più preciso della percezione e ci limitiamo qui a dirne solo ciò che è necessario per gettar luce sul disturbo fondamentale e sul disturbo motorio di Schneider. Queste anticipazioni e queste ripetizioni sono inevitabili se, come cercheremo di dimostrare, la percezione è l’esperienza del corpo proprio si implicano vicendevolmente.

68 Hocheimer, 69 Benary, 70

op. cit., p. 256.

È questa presa di possesso del «motivo» nel suo senso pieno che Cézanne otteneva dopo ore di meditazione. «Noi germiniamo» egli diceva. E subito dopo: «Tutto cadeva nel modo dovuto.» J. Gasquet, Cézanne, II parte, «Le Motif», pp. 81-83.

73 Benary, 74

op. cit., p. 255.

Schneider può sentir leggere o leggere egli stesso una lettera scritta da lui senza riconoscerla. Egli dichiara inoltre che, qualora mancasse la firma, non si potrebbe sapere di chi è una lettera (Hocheimer, op. cit., p. 12).

71 Benary, 72

Analyse eines Seelenblinden von der Sprache, p. 49.

op. cit., p. 279.

Di una conversazione per lui importante egli ricorda solo il tema generale e la decisione presa alla


fine, ma non le parole del suo interlocutore: «Io so quello che ho detto in una conversazione, basandomi sulle ragioni che avevo di dirlo; quello che ha detto l’altro è più difficile da sapere, in quanto non ho nessuna presa (Anhaltspunkt) per ricordarlo» (Benary, op. cit., p. 214). Del resto si vede che il malato ricostituisce e deduce l’atteggiamento tenuto al tempo della conversazione e che è incapace di «riprendere» direttamente persino i suoi propri pensieri. 75 Benary,

op. cit., p. 224.

76 Ibidem,

p. 223.

77 Ibidem,

p. 240.

78 Ibidem,

p. 284.

79 Ibidem,

p. 213.

80 Hocheimer,

op. cit., p. 37.

81 Ibidem,

p. 56.

82 Benary,

op. cit., p. 213.

83

Così come per lui non ci sono equivoci o giochi di parole: infatti, le parole hanno solo un senso per volta e quello attuale è senza orizzonte di possibilità. Benary, op. cit., p. 283.

84 Hocheimer, 85 Ibidem,

pp. 32-33.

86 «Unseres 87 Benary,

op. cit., p. 52.

Hineinsehen in den Zeitvektor.» Ibidem.

op. cit., p. 213.

88 Hocheimer,

op. cit., p. 33.

89 Ibidem,

p. 32.

90 Ibidem,

p. 69.

91 Cfr.

Fischer, Raum-Zeitstruktur und Denkstörung in der Schizofrenie, p. 250.

92 Cfr.

La structure du comportement, pp. 91 sgg.

93 Il

termine è abituale negli inediti di Husserl.


94 Goldstein, 95

Über die Abhängigkeit..., p. 163.

Non è facile mettere a nudo l’intenzionalità motoria pura: essa si cela dietro il mondo oggettivo che contribuisce a costruire. La storia dell’aprassia dimostrerebbe come la descrizione della Praxis è quasi sempre contaminata e infine resa impossibile dalla nozione di rappresentazione. Liepmann (Über Störungen des Handelns bei Gehirnkranken) distingue rigorosamente l’aprassia dai disturbi gnosici della condotta, in cui l’oggetto non è riconosciuto ma in cui la condotta è conforme alla rappresentazione dell’oggetto, e in generale dai disturbi che concernono la «preparazione ideatoria dell’azione» (oblio del fine, confusione di due fini, esecuzione prematura, rimozione del fine da parte di una percezione intercorrente) (op. cit., pp. 20-31). Nel soggetto di Liepmann (il «Consigliere di Stato») il processo idea-torio è normale, giacché egli può eseguire con la mano sinistra tutto ciò che è impedito alla destra. D’altra parte, la mano non è paralizzata. «Il caso del Consigliere di Stato dimostra che, fra i processi psichici detti superiori e l’innervazione motrice, c’è ancora posto per un’altra deficienza che rende impossibile l’applicazione del progetto (Entwurf) d’azione alla motilità di questo o quel membro... Tutto l’apparato senso-motorio di un arto è per così dire disinserito (exartikuliert) dal processo fisiologico totale» (ibidem, pp. 40-41). Normalmente, nello stesso tempo in cui si offre a noi come una rappresentazione, ogni formula di movimento si offre dunque al nostro corpo come una determinata possibilità pratica. Il malato ha conservato la formula di movimento come rappresentazione, ma essa non ha più senso per la sua mano destra o, anche, la sua mano destra non ha più sfera d’azione. «Egli ha conservato tutto ciò che in un’azione è comunicabile, tutto ciò che essa offre di oggettivo e di percepibile per gli altri. Gli manca invece la capacità di condurre la mano conformemente al piano abbozzato, gli manca qualcosa che non è esprimibile e che non può essere oggetto per una coscienza estranea, cioè un potere, non un sapere ("ein Können, kein Kennen")» (ibidem, p. 47). Ma quando vuole precisare la sua analisi, Liepmann ritorna ai punti di vista classici e scompone il movimento in una rappresentazione (la «formula di movimento» che mi dà, con il fine principale, i fini intermedi) e un sistema di automatismi (che, a ogni fine intermedio, fanno corrispondere le innervazioni convenienti) (ibidem, p. 59). D «potere» di cui si parlava prima diviene una «proprietà della sostanza nervosa» (ibidem, p. 47). Si ritorna alla alternativa della coscienza e del corpo che si credeva di aver superato con la nozione di Bewegungsentwurf, o progetto motorio. Se si tratta di un movimento semplice, la rappresentazione del fine e dei fini intermedi si converte in movimento, in quanto mette in funzione degli automatismi acquisiti una volta per tutte (p. 55), se si tratta di un movimento complesso, essa sollecita «il ricordo cinestesico dei movimenti componenti: come il movimento si compone di atti parziali, cosi il progetto di movimento si compone della rappresentazione delle sue parti o dei fini intermedi; è questa interpretazione che noi abbiamo chiamato formula del movimento» (p. 57). La Praxis è smembrata fra le rappresentazioni e gli automatismi; il caso del Consigliere di Stato diviene inintelligibile, giacché si dovranno riferire i suoi disturbi o alla preparazione ideatoria del movimento, o a qualche deficienza degli automatismi - dò che Liepmann inizialmente escludeva; e l’aprassia motoria si riconduce o all’aprassia ideatoria, cioè a una forma di agnosia, o alla paralisi. Si renderà comprensibile l’aprassia, si farà giustizia alle osservazioni di Liepmann, solo se il movimento da fare può essere anticipato, senza esserlo in virtù di una rappresentazione, e a sua volta ciò è possibile solo se la coscienza è definita non come posizione esplicita dei suoi oggetti, ma più in generale come riferimento a un oggetto sia pratico che teorico, come essere al mondo, se, dal canto suo, il corpo è definito non come un oggetto fra tutti gli altri oggetti, ma come


il veicolo dell’essere al mondo. Finché si definisce la coscienza con la rappresentazione, per essa l’unica operazione possibile consiste nel formare delle rappresentazioni. La coscienza sarà motrice in quanto si dà una «rappresentazione di movimento». Allora il corpo esegue il movimento copiandolo dalla rappresentazione che la coscienza si dà e secondo una formula di movimento che riceve da essa (Cfr. O. Sittig, Über Apraxie, p. 98). Rimane da comprendere l’operazione magica in virtù della quale la rappresentazione di un movimento susciti nel corpo questo movimento stesso. Il problema viene risolto solo se si cessa di distinguere il corpo come meccanismo in sé e la coscienza come essere per sé. 96

Lhermitte, G. Lévy e Kyriako, Les perturbations de la représentation spatiale chez les apraxiques, p. 597.

97

Lhermitte e Trelles, Sur l’apraxie constructive, les troubles de la pensée spatiale et de la somatognosie dans l’apraxie, p. 428. Cfr. Lhermitte, De Massary e Kyriako, Le rôle de la pensée spatiale dans l’apraxie.

98 Head

e Holmes, Sensory disturbances front cerebral lesion, p. 187.

99 Grünbaum,

Aphasie und Motorik.

100 Goldstein,

Van Woerkom, Bouman e Grünbaum.

101 Grünbaum,

op. cit., pp. 386-392.

102 Ibidem,

pp. 397-398.

103 Ibidem,

p. 394.

104 Ibidem,

p. 396.

105 Cfr.

su questo punto La structure du comportement, pp. 125 sgg.

106

Come pensa per esempio Bergson quando definisce l’abitudine come «il residuo fossilizzato di una attività spirituale».

107 Head,

op. cit., p. 188.

108 Grünbaum,

op. cit., p. 395.

109

Cosi essa illumina la natura dello schema corporeo. Quando diciamo che lo schema corporeo ci dà immediatamente la posizione del nostro corpo, noi non vogliamo dire, alla maniera degli empiristi, che esso consiste in un mosaico di «sensazioni estensive». È un sistema aperto sul mondo, correlativo al mondo.

110 Cfr.

Chevalier, L’habitude, pp. 202 sgg.


111

V. Proust, Du Côté de chez Swann, II, «Come se, chi che suonare la piccola frase, gli strumentisti eseguissero i riti che essa esigeva per apparire...» (p. 187). «Le sue grida erano così improvvise che, per raccoglierle, il violinista doveva precipitarsi sul suo archetto» (p. 193).

112 Valéry, 113 Come

Introduction à la méthode de Léonard de Vinci, «Variété», p. 17.

Sinngebung, cioè imposizione di senso. (N. d. T.)


IV. La sintesi del corpo proprio

L’analisi della spazialità corporea ha condotto a risultati che possono essere generalizzati. Per la prima volta constatiamo, a proposito del corpo proprio, ciò che vale per tutte le cose percepite: e cioè che la percezione dello spazio e la percezione della cosa, la spazialità della cosa e il suo essere di cosa non costituiscono due problemi distinti. È quanto ci insegna già la tradizione cartesiana e kantiana, la quale fa delle determinazioni spaziali l’essenza dell’oggetto, mostra nell’esistenza partes extra partes, nella dispersione spaziale l’unico senso possibile dell’esistenza in sé. Ma essa rischiara la percezione dell’oggetto per mezzo della percezione dello spazio, mentre l’esperienza del corpo proprio ci insegna a radicare lo spazio nell’esistenza. L’intellettualismo si rende conto che il «motivo della cosa» e il «motivo dello spazio»1 si intrecciano, ma riduce il primo al secondo. Sotto lo spazio oggettivo, nel quale in definitiva il corpo prende posto, l’esperienza rivela una spazialità primordiale di cui la prima non è se non l’involucro e che si confonde con l’essere stesso del corpo. Come abbiamo visto, essere corpo significa essere legato a un certo mondo, e il nostro corpo non è, originariamente, nello spazio, ma inerisce allo spazio. Gli anosognosici che parlano del loro braccio come di un «serpente» lungo e freddo,2 non ne ignorano, propriamente parlando, i contorni oggettivi; anche quando cerca il suo braccio senza trovarlo o lo lega per non perderlo,3 il malato sa bene dove si trova questo braccio, poiché lo cerca e lo lega proprio qui. Se tuttavia i malati esperiscono lo spazio del loro braccio come qualcosa di estraneo, se in genere io posso sentire enorme o minuscolo lo spazio del mio corpo, nonostante la testimonianza dei sensi, è perché c’è una presenza e un’estensione affettive di cui la spazialità oggettiva non è condizione sufficiente, come dimostra l’anosognosia, e nemmeno condizione necessaria, come dimostra il fenomeno del braccio fantasma. La spazialità del corpo è il dispiegarsi del suo essere di corpo, il modo in cui esso si realizza come corpo. Pertanto, cercando di analizzarla, non facciamo altro che anticipare quanto dobbiamo dire della sintesi corporea in genere. Nell’unità del corpo ritroviamo la struttura di implicazione già descritta a proposito dello spazio. Le diverse parti del mio corpo, i suoi aspetti visivi, tattili e motori non sono semplicemente coordinati. Se sono seduto al tavolo e voglio afferrare il telefono, il movimento della mano verso l’oggetto, l’ergersi del busto, la contrazione dei muscoli delle gambe si implicano vicendevolmente; io voglio un certo risultato, e i compiti si distribuiscono spontaneamente fra i segmenti interessati, le combinazioni possibili essendo date in anticipo come equivalenti: posso rimanere addossato alla poltrona, purché allunghi maggiormente il braccio, o chinarmi in avanti, o anche alzarmi per metà. Tutti questi movimenti sono a nostra disposizione a partire dal loro significato comune. Ecco perché, nei primi tentativi di prensione, i bambini non guardano la mano, ma l’oggetto: i differenti segmenti del corpo sono conosciuti solo nel loro valore funzionale e la loro coordinazione non è appresa. Analogamente, quando sono seduto alla mia scrivania, posso istantaneamente «visualizzare» le parti del mio corpo che essa mi nasconde. Nello stesso tempo in cui contraggo il piede nella scarpa, lo vedo; questo potere mi appartiene anche per le parti del corpo che non ho mai visto. Cosi, molti malati hanno l’allucinazione del proprio volto visto dall’interno.4 È stato possibile dimostrare che non riconosciamo mai la nostra mano in fotografia, che molti soggetti esitano a riconoscere la loro scrittura fra altre, e che, per contro, ognuno riconosce il suo profilo o il suo modo di camminare filmato. Cosi, non riconosciamo con la vista ciò che tuttavia abbiamo visto spesso, mentre


riconosciamo immediatamente la rappresentazione visiva di ciò che nel nostro corpo ci è invisibile.5 Nella allucinazione autoscopica, il duplicato di se stesso che il soggetto vede di fronte a sé non è sempre riconosciuto da certi dettagli visibili, ma il soggetto sente in modo assoluto che si tratta di se stesso e di conseguenza dichiara di vedere il proprio duplicato.6 Ciascuno di noi vede se stesso come attraverso un occhio interiore che, da pochi metri di distanza, ci guarda dalla testa alle ginocchia.7 Cosi, la connessione dei segmenti del nostro corpo e quella fra la nostra esperienza visiva e la nostra esperienza tattile non si realizzano a poco a poco e per accumulazione. Io non traduco «nel linguaggio della vista» i «dati del tatto», o viceversa; non raggruppo le parti del mio corpo a una a una. Questa traduzione e questo raggruppamento sono fatti una volta per tutte in me: sono il mio corpo stesso. Diremo dunque che percepiamo il nostro corpo in virtù della sua legge di costruzione, cosi come conosciamo in anticipo tutte le possibili prospettive di un cubo a partire dalla sua struttura geometrica? Ma, per tacere degli oggetti esterni, il corpo proprio ci insegna un modo d’unità che non è la sussunzione sotto una legge. In quanto è di fronte a me e offre all’osservazione le sue variazioni sistematiche, l’oggetto esterno si presta a essere percorso mentalmente nei suoi elementi e può, per lo meno in prima approssimazione, essere definito come la legge delle loro variazioni. Però, io non sono di fronte al mio corpo, ma sono nel mio corpo, o meglio sono il mio corpo. Né le sue variazioni né la loro invariante possono quindi essere poste espressamente. Noi non contempliamo solamente i rapporti fra i segmenti del nostro corpo e le correlazioni del corpo visivo e del corpo tattile: siamo noi stessi a tenere insieme queste braccia e queste gambe, a vederle e al tempo stesso a toccarle. Per dirla con Leibniz, il corpo è la «legge efficace» dei suoi mutamenti. Se nella percezione del corpo proprio si può ancora parlare di una interpretazione, si dovrà dire che esso interpreta se stesso. Qui i «dati visivi» appaiono solo attraverso il loro senso tattile, i dati tattili solo attraverso il loro senso visivo, ogni movimento locale solo sullo sfondo di una posizione globale, ogni evento corporeo, a prescindere dall’«analizzatore» che lo rivela, solo su uno sfondo significativo in cui le sue ripercussioni più lontane sono per lo meno indicate e la possibilità di una equivalenza intersensoriale immediatamente fornita. A riunire le «sensazioni tattili» della mano e a collegarle alle percezioni visive della stessa mano come alle percezioni degli altri segmenti del corpo, è un certo stile dei gesti della mano, che implica un certo stile dei movimenti delle dita e, d’altra parte, contribuisce a far si che il mio corpo abbia un certo portamento.8 Il corpo non può essere paragonato all’oggetto fisico, ma piuttosto all’opera d’arte. In un quadro o in un brano musicale, l’idea non può comunicarsi se non attraverso il dispiegarsi dei colori e dei suoni. Se non ho visto i suoi quadri, l’analisi dell’opera di Cézanne mi lascia la scelta fra più Cézanne possibili, ed è la percezione dei quadri a darmi l’unico Cézanne esistente, in essa le analisi assumono il loro senso pieno. Lo stesso può dirsi di una poesia o di un romanzo, quantunque siano fatti di parole. È abbastanza noto che, anche se comporta un primo significato, traducibile in prosa, la poesia reca nella mente del lettore una seconda esistenza che la definisce come poesia. Come il parlare significa non solo attraverso le parole, ma anche attraverso l’accento, l’intonazione, i gesti e la fisionomia, e come questo supplemento di senso rivela non già i pensieri di chi parla, ma la sorgente dei suoi pensieri e il suo modo d’essere fondamentale, cosi, se incidentalmente è narrativa e significante, essenzialmente la poesia è una modulazione dell’esistenza. Essa si distingue dal grido perché un grido impiega il nostro corpo così come ce l’ha dato la natura, cioè povero di mezzi espressivi, mentre la poesia si vale del linguaggio, e anche di un linguaggio particolare: così, invece di dissiparsi nell’istante stesso in cui si esprime, la modulazione esistenziale trova nell’apparato poetico il mezzo per eternarsi. Ma, se si stacca dalla nostra gesticolazione vitale, la poesia non si stacca da ogni sostegno materiale, e sarebbe irrimediabilmente


perduta se il suo testo non fosse conservato esattamente; il suo significato non è libero e non risiede nel cielo delle idee, ma è racchiuso fra le parole su qualche fragile foglio. In questo senso, come ogni opera d’arte, la poesia esiste alla maniera di una cosa e non sussiste eternamente alla maniera di una verità. Quantunque il romanzo si lasci riassumere, quantunque il «pensiero» del romanziere si lasci formulare astrattamente, nel caso del romanzo questo significato nozionale è prelevato da un significato più vasto, cosi come i connotati di una persona sono prelevati dall’aspetto concreto della sua fisionomia. Il romanziere non ha il compito di esporre delle idee o anche di analizzare dei caratteri, ma di presentare un evento interumano, di farlo maturare e risaltare senza commento ideologico, in modo tale che ogni cambiamento nell’ordine del racconto o nella scelta delle prospettive modificherebbe il senso romanzesco dell’evento. Un romanzo, una poesia, un quadro, un brano musicale sono individui, cioè esseri in cui non si può distinguere l’espressione dall’espresso, il cui senso è accessibile solo per contatto diretto e che irradiano il loro significato senza abbandonare il proprio posto temporale e spaziale. In questo senso il nostro corpo è paragonabile all’opera d’arte. Esso è un nodo di significati viventi e non la legge di un dato numero di termini covarianti. Una certa esperienza tattile del braccio significa una certa esperienza tattile dell’avambraccio e della spalla, un certo aspetto visivo dello stesso braccio, non perché le differenti percezioni tattili, oppure le percezioni tattili e le percezioni visive, partecipino tutte a un medesimo braccio intelligibile, nello stesso modo in cui le vedute prospettiche di un cubo partecipano all’idea di un cubo, ma perché il braccio visto e il braccio toccato, come i differenti segmenti del braccio, fanno tutti insieme un medesimo gesto. Girne prima l’abitudine motoria illuminava la natura particolare dello spazio corporeo, cosi ora l’abitudine in genere fa comprendere la sintesi generale del corpo proprio. E, come l’analisi della spazialità corporea anticipava quella dell’unità del corpo proprio, così possiamo estendere a tutte le abitudini quanto abbiamo detto a proposito delle abitudini motorie. In verità, ogni abitudine è motoria e al tempo stesso percettiva perché, lo si è già detto, risiede fra la percezione esplicita e il movimento effettivo, in quella funzione fondamentale che delimita tanto il nostro campo di visione quanto il nostro campo d’azione. L’esplorazione degli oggetti con un bastone, da noi presentata come un esempio di abitudine motoria, è parimenti un esempio di abitudine percettiva. Quando il bastone diviene uno strumento familiare, il mondo degli oggetti tattili arretra, non comincia più all’epidermide della mano, ma in fondo al bastone. Si è tentati di dire che, attraverso le sensazioni prodotte dalla pressione del bastone sulla mano, il cieco costruisce il bastone e le sue diverse posizioni, e di aggiungere che, a loro volta, queste ultime mediano un oggetto alla seconda potenza, l’oggetto esterno. La percezione sarebbe sempre una lettura dei medesimi dati sensibili; solamente, si effettuerebbe in modo sempre più rapido su segni sempre più tenui. Ma l’abitudine non consiste nell’interpretare le pressioni del bastone sulla mano come segni di certe posizioni del bastone, e queste ultime come segni di un oggetto esterno: infatti, essa ci dispensa dal farlo. Le pressioni sulla mano e il bastone non sono pili dati, il bastone non è più un oggetto che il cieco percepirebbe, ma uno strumento con il quale egli percepisce. È un’appendice del corpo, un’estensione della sintesi corporea. Correlativamente, l’oggetto esterno non è il geometrale o l’invariante di una serie di prospettive, ma una cosa verso la quale il bastone ci conduce e della quale, secondo l’evidenza percettiva, le prospettive non sono indizi, ma aspetti. L’intellettualismo può concepire il passaggio dalla prospettiva alla cosa stessa, dal segno al significato, solo come un’interpretazione, una appercezione, una intenzione conoscitiva. A ogni livello, i dati sensibili e le prospettive sarebbero dei contenuti colti come (aujgefasst als) manifestazioni di un medesimo nucleo intelligibile.9 Ma questa analisi deforma il segno e al tempo stesso il significato; separa l’uno dall’altro,


oggettivandoli, il contenuto sensibile - che è già «pregnante» di un senso - e il nucleo invariante, che non è una legge ma una cosa; essa occulta il rapporto organico fra il soggetto e il mondo, la trascendenza attiva della coscienza, il movimento con il quale quest’ultima si getta in una cosa e in un mondo per mezzo dei suoi organi e dei suoi strumenti. L’analisi dell’abitudine motoria come estensione dell’esistenza si prolunga quindi in un’analisi della abitudine percettiva come acquisizione di un mondo. Reciprocamente, ogni abitudine percettiva è ancora una abitudine motoria e l’apprensione di un significato si effettua anche qui attraverso il corpo. Quando il bambino si abitua a distinguere l’azzurro dal rosso, si constata che l’abitudine acquisita nei confronti di questa coppia di colori giova a tutte le altre.10 Il bambino ha forse appercepito, attraverso la coppia azzurro-rosso, il significato «colore»? Il momento decisivo dell’abitudine è in questa presa di coscienza, in questo avvento di un «punto di vista del colore», in questa analisi intellettuale che sussume i dati sotto una categoria? Ma, perché il bambino possa appercepire l’azzurro e il rosso sotto la categoria di colore, è necessario che quest’ultima si radichi nei dati, altrimenti nessuna sussunzione potrebbe ravvisarla in essi -, è anzitutto necessario che, sulle tavolette «azzurre» e «rosse» che gli vengono presentate, si manifesti quella particolare maniera di vibrare e di colpire lo sguardo che chiamiamo l’azzurro e il rosso. Con lo sguardo disponiamo di uno strumento naturale paragonabile al bastone del cieco. Lo sguardo ottiene più o meno dalle cose a seconda del modo in cui le interroga, in cui sorvola o si sofferma su di esse. Imparare a vedere i colori significa acquistare un certo stile di visione, un nuovo uso del corpo proprio, significa arricchire e organizzare lo schema corporeo. Sistema di potenze motorie o di potenze percettive, il nostro corpo non è oggetto per un «io penso», ma un insieme di significati vissuti che va verso il proprio equilibrio. Talvolta si forma un nuovo nodo di significati: i nostri vecchi movimenti si integrano a una nuova entità motoria, i primi dati della vista a una nuova entità sensoriale, i nostri poteri naturali raggiungono istantaneamente un significato più ricco che prima era solo indicato nel nostro campo percettivo o pratico, si annunciava nella nostra esperienza esclusivamente attraverso una certa mancanza, e il cui avvento riorganizza istantaneamente il nostro equilibrio e appaga la nostra cieca attesa.


Note

1 Cassirer,

Philosophie der symbolischen Formen, III, parte II, cap. II.

2 Lhermitte,

L’image de notte corps, p. 130.

3 Van Bogaert, 4 Lhermitte, 5 Wolff,

Sur la pathologie de l’image de soi, p. 541.

op. cit., p. 238.

Selbstbeurteilung und Fremdbeurteilung im wissentlichen und unwissentlichen Versuch.

6 Menninger-Lerchental, 7 Lhermitte,

Das Truggebilde der eigenen Gestalt, p. 4.

op. cit., p. 238.

8

La meccanica dello scheletro non può, nemmeno al livello della scienza, render conto delle posizioni e dei movimenti privilegiati del mio corpo. Cfr. La structure du comportement, p. 196.

9

Husserl, per esempio, ha definito pei: molto tempo la coscienza, o l’imposizione di senso, con lo schema Auffassung-Inhalt e come una beseelende Auffassung. Egli fa un passo decisivo riconoscendo, nelle Vorlesungen, che questa operazione ne presuppone un’altra più profonda, in virtù della quale il contenuto stesso è preparato a questa apprensione. «Ogni costituzione non si effettua secondo lo schema Auffassungsinhalt-Auffassung.» Vorlesungen zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstseins, p. 5, nota 1.

10 Koffka,

Growth of the Mind, pp. 174 sgg.


V. Il corpo come essere sessuato

Il nostro fine costante è di mettere in evidenza la funzione primordiale attraverso la quale facciamo esistere per noi, assumiamo lo spazio, l’oggetto o lo strumento, e di descrivere il corpo come il luogo di questa appropriazione. Orbene, finché ci rivolgevamo allo spazio o alla cosa percepita, non era facile riscoprire il rapporto fra il soggetto incarnato e il suo mondo, poiché tale rapporto si trasforma spontaneamente nel puro commercio fra il soggetto epistemologico e l’oggetto. Il mondo naturale si dà infatti come esistente in sé al di là della sua esistenza per me, l’atto di trascendenza, con il quale il soggetto si dischiude a questo mondo, rimuove se stesso e ci troviamo in presenza di una natura che per esistere non ha bisogno di essere percepita. Insomma, se vogliamo mettere in evidenza la genesi dell’essere per noi, dobbiamo considerare il settore della nostra esperienza che manifestamente non ha senso e realtà se non per noi, cioè il nostro ambiente affettivo. Se cercheremo di vedere come un oggetto o un essere si mette a esistere per noi attraverso il desiderio o l’amore, allora comprenderemo meglio come degli oggetti e degli esseri possono esistere in generale. Solitamente si concepisce l’affettività come un mosaico di stati affettivi, piaceri e dolori chiusi in sé, che sfuggono alla comprensione e possono solo essere spiegati dalla nostra organizzazione corporea. Se si ammette che nell’uomo essa si «compenetra di intelligenza», con ciò si vuol dire che semplici rappresentazioni possono trasporre gli stimoli naturali del piacere e del dolore, secondo le leggi dell’associazione delle idee o quelle del riflesso condizionato, che queste sostituzioni legano il piacere o il dolore a circostanze che ci sono naturalmente indifferenti e che, di trasposizione in trasposizione, si costituiscono dei valori secondi o terzi che non hanno rapporto apparente con i nostri piaceri e dolori naturali. Il mondo oggettivo agisce in modo sempre meno diretto sulla tastiera degli stati affettivi «elementari», ma il valore resta una possibilità permanente di piacere e di dolore. Eccetto che nell’esperienza del piacere e del dolore, di cui non c’è nulla da dire, il soggetto si definisce per il suo potere di rappresentazione, l’affettività non è riconosciuta come un modo originale di coscienza. Se questa concezione fosse giusta, ogni deficienza della sessualità dovrebbe ricondursi o alla perdita di certe rappresentazioni, o a un indebolimento del piacere. Vedremo che non è vero nulla. Un malato1 non ricerca pili l’atto sessuale in modo spontaneo. Le immagini oscene, le conversazioni su soggetti sessuali, la percezione di un corpo non fanno nascere in lui nessun desiderio. Egli non bacia quasi mai, e per lui il bacio non ha valore di stimolazione sessuale. Le reazioni sono strettamente locali e non cominciano senza contatto. Se i preliminari sono interrotti, il ciclo sessuale non cerca di proseguire. Nell’atto sessuale, l’intromissio non è mai spontanea. Se l’orgasmo interviene prima nella donna e se essa s’allontana, il desiderio abbozzato scompare. In ogni momento le cose accadono come se il soggetto ignorasse ciò che c’è da fare. Non ci sono movimenti attivi, se non pochi istanti prima dell’orgasmo, che è brevissimo. Le polluzioni sono rare e sempre senza sogni. Tenteremo di spiegare questa inerzia sessuale - come in precedenza la perdita delle iniziative cinetiche - con la scomparsa delle rappresentazioni visive? Ma sarà difficile sostenere che non c’è nessuna rappresentazione tattile degli atti sessuali, e rimarrebbe quindi da comprendere perché, in Schneider, le stimolazioni tattili, e non solo le percezioni visive, hanno perduto molto del loro significato sessuale. Se poi si vuole supporre una deficienza generale della rappresentazione, tanto tattile quanto visiva, rimarrebbe da descrivere l’aspetto concreto che questa deficienza del tutto formale assume nella sfera della sessualità. Infatti, la rarità delle polluzioni, per


esempio, non è spiegabile con la debolezza delle rappresentazioni, le quali ne sono l’effetto piuttosto che la causa, e sembra indicare un’alterazione della stessa vita sessuale. Si supporrà gualche indebolimento dei normali riflessi sessuali o degli stati di piacere? Piuttosto, questo caso sarebbe idoneo a dimostrare che non ci sono riflessi sessuali e che non c’è un puro stato di piacere. Infatti, come ricorderemo, tutti i disturbi di Schneider risultano da una lesione circoscritta nella sfera occipitale. Se nell’uomo la sessualità fosse un apparato riflesso autonomo, se l’oggetto sessuale interessasse qualche organo del piacere anatomicamente definito, la lesione cerebrale dovrebbe avere l’effetto di liberare questi automatismi e manifestarsi con un comportamento sessuale accentuato. La patologia mette in evidenza, fra l’automatismo e la rappresentazione, una zona vitale in cui si elaborano le possibilità sessuali del malato, come prima le sue possibilità motorie, percettive, e anche le sue possibilità intellettuali. È necessario che ci sia, immanente alla vita sessuale, una funzione che ne assicuri il dispiegarsi, e che l’estensione normale della sessualità riposi sulle potenze interne del soggetto organico. Occorre che ci sia un Eros o una Libido che animino un mondo originale, diano valore o significato sessuali agli stimoli esterni e delineino per ogni soggetto l’uso che egli farà del suo corpo oggettivo. In Schneider è alterata la struttura stessa della percezione o dell’esperienza erotica. Nell’individuo normale un corpo non è solamente percepito come un oggetto qualsiasi, questa percezione oggettiva è abitata da una percezione più segreta: il corpo visibile è sotteso da uno schema sessuale, strettamente individuale, che evidenzia le zone erogene, delinea una fisionomia sessuale e richiede i gesti del corpo maschile anch’esso integrato a questa totalità affettiva. Per Schneider, invece, un corpo femminile non ha un’essenza particolare: è soprattutto il carattere, egli dice, a rendere attraente una donna, per quanto riguarda il corpo esse sono tutte simili. Lo stretto contatto corporeo produce solo un «sentimento vago», il «sapere di un qualcosa di indeterminato» che non basta mai a «lanciare» la condotta sessuale e a creare una situazione che richieda un modo definito di risoluzione. La percezione ha perduto la sua struttura erotica, sia secondo lo spazio che secondo il tempo. Nel malato è scomparsa la capacità idi proiettare di fronte a sé un mondo sessuale, di mettersi in situazione erotica, o, una volta abbozzata la situazione, di mantenerla o di darle un seguito fino all’appagamento. La stessa parola «appagamento» non significa più nulla per lui, in mancanza di una intenzione, di una iniziativa sessuale che richieda un ciclo di movimento e di stati, che li «strutturi» e trovi in essi la sua realizzazione. Se gli stimoli tattili, che in altre occasioni il malato utilizza a meraviglia, hanno perduto anch’essi il loro significato sessuale, è perché hanno cessato, per cosi dire, di parlare al suo corpo, di situarlo riguardo alla sessualità, o, in altri termini, perché il malato ha cessato di rivolgere al mondo circostante quella domanda muta e permanente che è la sessualità normale. Schneider e la maggior parte dei soggetti impotenti non «aderiscono a ciò che fanno». Ma la distrazione, le rappresentazioni inopportune non sono cause, sono invece effetti, e se il soggetto percepisce freddamente la situazione, è prima di tutto perché non la vive e non vi è impegnato. Si riconosce qui un modo di percezione distinto dalla percezione oggettiva, un genere di significato distinto dal significato intellettuale, una intenzionalità che non è la pura «coscienza di qualche cosa». La percezione erotica non è una cogitatio che intenziona un cogitatemi attraverso un corpo essa si protende verso un altro corpo, si effettua nel mondo e non in una coscienza. Uno spettacolo ha per me un significato sessuale non quando mi rappresento, anche confusamente, il suo possibile rapporto agli organi sessuali o agli stati di piacere, ma quando esiste per il mio corpo, per questa potenza sempre pronta ad amalgamare gli stimoli dati in una situazione erotica e ad adattarvi una condotta sessuale. C’è una «comprensione» erotica che non appartiene all’ordine dell’intelletto, giacché l’intelletto comprende appercependo un’esperienza sotto un’idea, mentre il desiderio comprende ciecamente collegando un corpo a un


corpo. Anche nel caso della sessualità, che per molto tempo è stata però creduta il prototipo della funzione corporea, non ci troviamo di fronte a un automatismo periferico, ma a una intenzionalità che segue il movimento generale dell’esistenza e declina con essa. Schneider non può più mettersi in situazione sessuale, cosi come in genere non è più in situazione affettiva o ideologica. Per lui i volti non sono né simpatici né antipatici e, sotto questo rispetto, le persone si qualificano solo se Schneider è in relazione diretta con loro e secondo l’atteggiamento adottato verso di lui, l’attenzione e la sollecitudine che gli manifestano. Il sole e la pioggia non sono né lieti né tristi, l’umore dipende esclusivamente da funzioni organiche elementari, il mondo è affettivamente neutro. Schneider non amplia molto il suo ambiente umano e, quando stringe amicizie nuove, talvolta queste amicizie finiscono male: infatti, come risulta dall’analisi, esse non sono mai generate da un movimento spontaneo, ma da una decisione astratta. Egli vorrebbe avere opinioni in materia di politica e di religione, ma non tenta nemmeno, sa che queste regioni non gli sono più accessibili e, come abbiamo visto, in genere non esegue nessun autentico atto di pensiero e sostituisce l’intuizione del numero o l’apprensione dei significati con la manipolazione dei segni e la tecnica dei «punti d’appoggio».2 Riscopriamo la vita sessuale come una intenzionalità originale e al tempo stesso la radice vitale della percezione, della motilità e della rappresentazione facendo riposare tutti questi «processi» su un «arco intenzionale» che nel malato si allenta, mentre nell’individuo normale dà all’esperienza il suo grado di vitalità e di fecondità. La sessualità non è quindi un ciclo autonomo. Essa è internamente legata a tutto l’essere conoscente e agente: questi tre settori del comportamento manifestano una sola struttura tipica, sono in un rapporto di espressione reciproca. Incontriamo qui le più durature acquisizioni della psicoanalisi. A prescindere dalle dichiarazioni di principio di Freud, di fatto le ricerche psicoanalitiche non conducono a spiegare l’uomo con l’infrastruttura sessuale, ma a ritrovare nella sessualità le relazioni e gli atteggiamenti che prima venivano scambiati per relazioni e atteggiamenti di coscienza, il significato della psicanalisi non consiste tanto nel rendere biologica la psicologia, quanto nello scoprire in funzioni ritenute «puramente corporee» un movimento dialettico e nel reintegrare la sessualità all’essere umano. Un allievo dissidente di Freud3 dimostra, per esempio, che la frigidità non è quasi mai legata a condizioni anatomiche o fisiologiche, ma che per lo più traduce il rifiuto dell’orgasmo, della condizione femminile o della condizione d’essere sessuato, rifiuto che a sua volta traduce quello del partner sessuale e del destino che egli rappresenta. Del resto, anche per quanto concerne Freud, si sarebbe nell’errore se si credesse che secondo lui la psicoanalisi esclude la descrizione dei motivi psicologici e si oppone al metodo fenomenologico: per contro, essa ha contribuito (senza saperlo) a sviluppare questo metodo affermando, come ha detto Freud, che ogni atto umano «ha un senso»4 e cercando ovunque di comprendere l’avvenimento anziché collegarlo a condizioni meccaniche. Anche per Freud, il sessuale non è il genitale, la vita sessuale non è un semplice effetto dei processi di cui gli organi genitali sono la sede, la libido non è un istinto, cioè una attività naturalmente orientata verso fini determinati, ma è la capacità generale, propria del soggetto psicofisico, di aderire ad ambienti diversi, di fissarsi attraverso differenti esperienze, di acquisire strutture di condotta. Essa fa sì che un uomo abbia una storia. Se la storia sessuale di un uomo fornisce la chiave della sua vita, è perché nella sessualità dell’uomo si proietta il suo modo di essere nei confronti del mondo, cioè nei confronti del tempo e degli altri uomini. All’origine di tutte le nevrosi ci sono sintomi sessuali: a leggerli bene, questi sintomi simbolizzano tutto un atteggiamento, sia, per esempio, un atteggiamento di conquista, sia un atteggiamento di fuga. Poiché non c’è più interferenza di due causalità e poiché la vita genitale è innestata sulla vita totale del soggetto, tutti i motivi psicologici possono introdursi nella storia sessuale, concepita come


elaborazione di una forma generale di vita. E non si tratta tanto di sapere se la vita umana riposa o meno sulla sessualità, quanto di sapere che cosa si intende per sessualità. La psicoanalisi rappresenta un duplice movimento di pensiero: da una parte insiste sull’infrastruttura sessuale della vita, dall’altra «gonfia» talmente la nozione di sessualità da integrarvi tutta l’esistenza. Ma, proprio per questo motivo, le sue conclusioni, come quelle del nostro paragrafo precedente, rimangono ambigue. Quando si generalizza la nozione di sessualità e si fa di essa una maniera di essere al mondo fisico e interumano, si vuole dire che in definitiva tutta l’esistenza ha un significato sessuale oppure che ogni fenomeno sessuale ha un significato esistenziale? Nella prima ipotesi l’esistenza sarebbe una astrazione, un altro nome per designate la vita sessuale. Ma, poiché la vita sessuale non può più essere circoscritta e non è più una funzione separata e definibile in base alla causalità propria di un apparato organico, non ha più senso dire che, attraverso la vita sessuale, si comprende l’intera esistenza: o meglio, questa proposizione diviene una tautologia. Si deve dunque dire, viceversa, che il fenomeno sessuale non è se non un’espressione del nostro modo generale di progettare il nostro ambiente? Ma la vita sessuale non è un semplice riflesso dell’esistenza: una vita efficace, per esempio nell’ordine politico e ideologico, può essere accompagnata da una sessualità menomata, può anzi beneficiare di questa menomazione. Per contro, la vita sessuale può possedere, per esempio in Casanova, una specie di perfezione tecnica che non corrisponde a un particolare vigore dell’essere al mondo. L’apparato sessuale è si attraversato dalla corrente generale della vita, ma può confiscarla a proprio vantaggio. La vita si particolarizza in correnti separate. O le parole non hanno senso, oppure la vita sessuale designa un settore della nostra vita che è in rapporti particolari con l’esistenza del sesso. È fuori luogo sommergere la sessualità nell’esistenza, come se la sessualità fosse solo un epifenomeno. Proprio se si ammette che le disfunzioni sessuali dei nevrotici esprimono il loro dramma fondamentale e ce ne offrono come l’ingrandimento, rimane da sapere perché l’espressione sessuale di questo dramma è più precoce, più frequente e più vistosa delle altre, e perché la sessualità non è solo un segno, ma anche un segno privilegiato. Ritroviamo qui un problema già incontrato più volte. Con la teoria della forma, dimostravamo che non si può determinare uno strato di dati sensibili che dipenderebbero immediatamente dagli organi di senso: anche il più piccolo dato sensibile non si offre se non integrato a una configurazione e già «strutturato». Ciò non toglie, come dicevamo, che le parole «vedere» e «udire» abbiano un senso. Altrove 5 facevamo notare che le aree specializzate del cervello, per esempio, l’«area visiva», non funzionano mai isolatamente. Ciò non toglie, aggiungevamo, che, a seconda dell’area in cui sono situate le lesioni, l’aspetto visivo o quello uditivo abbia preminenza nel quadro della malattia. Infine, poco fa dicevamo che l’esistenza biologica è innestata sull’esistenza umana e non è mai indifferente al suo ritmo proprio. Ciò non toglie però, aggiungeremo ora, che «vivere» (leben) sia un’operazione primordiale a partire dalla quale diviene possibile «vivere» (erleben) questo o quel mondo, e che noi dobbiamo nutrirci e respirare prima di percepire e di accedere alla vita di relazione, aderire ai colori e alle luci attraverso la vista, ai suoni attraverso l’udito, al corpo altrui attraverso la sessualità, prima di accedere alla vita di relazioni umane. Cosi, la vista, l’udito, la sessualità, il corpo non sono solamente i punti di passaggio, gli strumenti o le manifestazioni dell’esistenza personale: quest’ultima riprende e raccoglie in sé la loro esistenza data e anonima. Quando diciamo che la vita corporea o carnale e lo psichismo si trovano in un rapporto di espressione reciproca o che l’evento corporeo ha sempre un significato psichico, queste formule necessitano dunque di una spiegazione. Atte a escludere il pensiero causale, esse non significano che il corpo sia l’involucro trasparente dello Spirito. Ritornare all’esistenza come all’ambito in cui si comprende la comunicazione fra il corpo e lo spirito, non è ritornare alla Coscienza o allo Spirito, la psicoanalisi esistenziale non deve


servire da pretesto per una restaurazione dello spiritualismo. Lo capiremo meglio precisando le nozioni di «espressione» e di «significato» che appartengono al mondo del linguaggio e del pensiero costituiti, che abbiamo applicato acriticamente alle relazioni fra il corpo e Io psichismo e che l’esperienza deve invece insegnarci a correggere. Una ragazza,6 cui la madre ha vietato di rivedere il giovane che essa ama, perde il sonno, l’appetito e infine l’uso della parola. Nel corso dell’infanzia si trova una prima manifestazione di afonia in seguito a un terremoto, poi un ritorno all’afonia in seguito a una violenta paura. Una interpretazione strettamente freudiana chiamerebbe in causa la fase orale dello sviluppo della sessualità. Tuttavia, ciò che è «fissato» sulla bocca non è solo l’esistenza sessuale, ma sono, più in generale, le relazioni con l’altro di cui la parola è il veicolo. L’emozione sceglie di esprimersi attraverso l’afonia, proprio perché, fra tutte le funzioni del corpo, la parola è quella più strettamente collegata all’esistenza in comune, o, come diremo, alla coesistenza. L’afonia rappresenta quindi un rifiuto della coesistenza, come, in altri soggetti, la crisi nervosa è il mezzo per sfuggire alla situazione. La malata rompe con la vita di relazione nell’ambiente familiare. Più generalmente, tende a rompere con la vita: se non può più deglutire gli alimenti, è perché la deglutizione simbolizza il movimento dell’esistenza che si lascia attraversare dagli avvenimenti e li assimila; la malata, alla lettera, non può «ingoiare» il divieto impostole.7 Nella sua infanzia l’angoscia si era manifestata attraverso l’afonia perché l’imminenza della morte interrompeva violentemente la coesistenza e riconduceva il soggetto al suo destino personale. Il sintomo della afonia riappare perché il divieto materno ripresenta la medesima situazione in senso figurato, e perché, precludendo al soggetto l’avvenire, lo spinge nuovamente verso i suoi comportamenti favoriti. Queste motivazioni metterebbero a profitto una sensibilità particolare della gola e della bocca nel nostro soggetto, sensibilità che potrebbe essere collegata alla storia della sua libido e alla fase orale della sessualità. Cosi, attraverso il significato sessuale dei sintomi, si scopre, disegnato in filigrana, ciò che essi significano più generalmente in rapporto al passato e all’avvenire, all’io e all’altro, cioè in rapporto alle dimensioni fondamentali dell’esistenza. Ma se in ogni momento il corpo esprime le modalità dell’esistenza, vedremo che non le esprime nello stesso modo in cui i galloni significano il grado o in cui un numero designa una casa: qui il segno non indica solo il suo significato, ma è abitato da quest’ultimo, in un certo qual modo è ciò che esso stesso significa, cosi come un ritratto è la quasi presenza di Piero assente8 o come nella magia le figure di cera sono ciò che rappresentano. La malata non mima con il corpo un dramma che si svolgerebbe «nella coscienza». Perdendo la voce, essa non traduce all’esterno imo «stato» interiore, non compie una «manifestazione», come il capo di stato che stringe la mano a un macchinista e abbraccia un contadino, o come un amico che non mi rivolge più la parola. Essere afono non significa tacere: si tace solo quando si può parlare. L’afonia non è certo una paralisi, prova ne sia che, sottoposta a un trattamento psicologico e lasciata libera di rivedere colui che ama, la ragazza ritrova la parola. Tuttavia, l’afonia non è nemmeno un silenzio concertato o voluto. È noto come la teoria dell’isterismo sia stata indotta a superare, con la nozione di pitiatismo, l’alternativa fra la paralisi (o l’anestesia) e la simulazione. Se l’isterico è un simulatore, lo è prima di tutto verso se stesso, cosicché è impossibile istituire un parallelo fra ciò che egli sente o pensa veramente e ciò che esprime all’esterno: il pitiatismo è una malattia del Cogito, è la coscienza divenuta ambivalente, e non un rifiuto deliberato di confessare ciò che si sa. Allo stesso modo, nel caso in questione, la ragazza non cessa di parlare ma «perde» la voce come si perde un ricordo. Ed è anche vero che, come dimostra la psicoanalisi, il ricordo perduto non è perduto per caso, ma lo è solo in quanto appartiene a una certa regione della mia vita che io rifiuto, in quanto ha un certo significato, e, come tutti i significati, anche quest’ultimo non esiste se non per qualcuno. La


dimenticanza è quindi un atto: tengo a distanza questo ricordo allo stesso modo in cui guardo di sbieco una persona che non voglio vedere. Tuttavia, come la psicoanalisi dimostra a meraviglia, se la resistenza presuppone un rapporto intenzionale con il ricordo a cui si resiste, non lo pone però di fronte a noi come un oggetto, non lo rifiuta espressamente. Essa prende di mira una regione della nostra esperienza, una certa categoria, un certo tipo di ricordi. Il soggetto che ha dimenticato in un cassetto un libro che la moglie gli aveva regalato e che, una volta riconciliato con essa,9 lo ritrova, non aveva assolutamente perduto il libro, ma neppure sapeva dove si trovava. Ciò che concerneva sua moglie non esisteva più per lui, l’aveva cancellato dalla propria vita, in un sol tratto aveva posto fuori circuito ogni condotta che si riferisce a lei, e cosi si trovava al di qua del sapere e dell’ignoranza, dell’affermazione e della negazione volontarie. Pertanto, se nell’isteria e nella rimozione possiamo ignorare una certa cosa, pur sapendola, è perché, anziché darsi a noi in atti di coscienza singolari e determinati, i nostri ricordi e il nostro corpo si immergono nella generalità. Attraverso di essa li «abbiamo» ancora, ma solo quanto basta per tenerli lontano da noi. Con ciò scopriamo che i messaggi sensoriali o i ricordi non sono colti espressamente e conosciuti da noi se non a condizione di una adesione generale alla zona del nostro corpo e della nostra vita da cui dipendono. Questa adesione o questo rifiuto pongono il soggetto in una situazione definita e delimitano per lui il campo mentale immediatamente disponibile, cosi come l’acquisizione o la perdita di un organo di senso offre o sottrae alle sue prese dirette un oggetto del campo fisico. Non si può dire che la situazione di fatto cosi creata sia la semplice coscienza di una situazione, giacché sarebbe come dire che il ricordo, il braccio o la gamba «dimenticati» sono dispiegati di fronte alla mia coscienza, mi sono presenti e vicini allo stesso titolo che le regioni «conservate» del mio passato o del mio corpo. Non si può nemmeno dire che l’afonia è voluta. La volontà presuppone un campo di possibili tra i quali io scelgo: ecco Piero, posso parlargli o non rivolgergli la parola. Se invece divengo afono, per me Piero non esiste più come interlocutore desiderato o rifiutato, è l’intero campo di possibilità a disgregarsi, mi privo anche di quel modo di comunicare e di significare che è il silenzio. Naturalmente si potrà parlare qui di ipocrisia o di malafede. Ma allora si dovrà distinguere una ipocrisia psicologica e una ipocrisia metafisica. La prima inganna gli altri uomini nascondendo loro pensieri espressamente conosciuti dal soggetto: è un inconveniente facilmente scongiurabile. La seconda inganna se stessa per mezzo della generalità, in tal modo mette capo a uno stato o a una situazione che non è una fatalità, ma che non è posto e voluto: questa ipocrisia si trova anche nell’uomo «sincero» o «autentico» ogniqualvolta pretende di essere senza restrizioni una qualsiasi cosa. Essa fa parte della condizione umana. Quando la crisi nervosa giunge al parossismo, anche se il soggetto l’ha cercata come il mezzo per sfuggire a una situazione imbarazzante e vi entra come in un rifugio, tale soggetto non ode quasi più, non vede quasi più, è quasi divenuto quella esistenza spasmodica e ansimante che si dibatte su un letto. La vertigine del corruccio è tale da divenire corruccio contro X, corruccio contro la vita, corruccio assoluto. La libertà si degrada e diviene meno probabile a ogni istante che passa. Anche se essa non è mai impossibile e può sempre far abortire la dialettica della malafede, rimane il fatto che una notte di sonno ha il medesimo potere: ciò che può essere vinto da questa forma anonima deve pur avere la sua stessa natura, e quindi si deve per lo meno ammettere che, nella misura in cui durano, il corruccio o l’afonia divengono consistenti come cose, si fanno struttura, e che la decisione che li interromperebbe proviene da una regione più bassa della «volontà». Il malato si separa dalla sua voce cosi come certi insetti recidono la propria zampa. Egli rimane letteralmente senza voce. Correlativamente, la medicina psicologica non agisce sul malato facendogli conoscere l’origine della sua malattia: talvolta un contatto della mano mette fine alle contrazioni muscolari e restituisce la parola al malato;10 in seguito lo stesso


espediente, divenuto rito, basterà a dominare nuovi accessi. Comunque, nei trattamenti psichici la presa di coscienza rimarrebbe puramente cognitiva, il malato non assumerebbe il senso dei disturbi che gli sono stati rivelati senza il rapporto personale instaurato con il medico, senza la fiducia e l’amicizia che questi ci testimonia e il mutamento d’esistenza che risulta da tale amicizia. Sia il sintomo che la guarigione non vengono elaborati al livello della coscienza oggettiva o tetica, ma in una regione sottostante. In quanto situazione, la afonia può anche essere paragonata al sonno: mi stendo nel mio letto, sul lato sinistro, con le ginocchia piegate, chiudo gli occhi, respiro lentamente, allontano da me i miei progetti. Ma il potere della mia volontà o della mia coscienza si ferma qui. Come nei misteri dionisiaci gli iniziati invocano il Dio mimando le scene della sua vita, cosi io sollecito l’intervento del sonno imitando il respiro di chi dorme e la sua positura. Il dio è presente quando gli iniziati non si distinguono più dalla parte che recitano, quando il loro corpo e la loro coscienza cessano di opporgli la loro opacità particolare e si sono interamente fusi nel mito. C’è un momento in cui il sonno «viene», si posa su questa sua imitazione che gli proponevo, e io riesco a divenire ciò che fingevo d’essere: questa massa senza sguardo e quasi senza pensieri, inchiodata in un punto dello spazio, e che non è più nel mondo se non per l’anonimo vigilare dei sensi. Quest’ultimo legame rende possibile il risveglio: le cose rientreranno attraverso tali porte socchiuse e il dormiente ritornerà al mondo. Allo stesso modo, il malato che ha rotto con la coesistenza può ancora percepire l’involucro sensibile dell’altro e concepire astrattamente l’avvenire, per esempio per mezzo di un calendario. In questo senso il dormiente non è mai completamente chiuso in sé, mai del tutto dormiente, il malato non è mai assolutamente separato dal mondo intersoggettivo, mai completamente malato. Ma a render possibile il loro ritorno al mondo vero sono pur sempre funzioni impersonali: gli organi di senso, il linguaggio. Restiamo liberi nei confronti del sonno e della malattia nell’esatta misura in cui rimaniamo sempre impegnati nello stato di veglia e di salute, la nostra libertà poggia sul nostro essere in situazione, ed è essa stessa una situazione. Sonno, risveglio, malattia, salute non sono modalità della coscienza o della volontà, presuppongono un «passo esistenziale».11 L’afonia non rappresenta solamente un rifiuto di parlare, l’anoressia un rifiuto di vivere, ma sono quel rifiuto dell’altro o quel rifiuto dell’avvenire staccati dalla natura transitiva dei «fenomeni interiori», generalizzati, consumati, divenuti situazione di fatto. Il corpo ha la funzione di assicurare questa metamorfosi: trasforma le idee in cose, la mia mimica del sonno in sonno effettivo. Il corpo può simbolizzare l’esistenza proprio perché la realizza e ne è l’attualità. Esso asseconda il suo duplice movimento di sistole e di diastole. Infatti, sotto un certo rispetto, il corpo è la possibilità per la mia esistenza di rinunciare a se stessa, di farsi anonima e passiva, di fissarsi in una scolastica. Nella malata di cui parlavamo, il movimento verso il futuro, verso il presente vivente o verso il passato, la capacità di imparare, di maturare, di entrare in comunicazione con l’altro si sono come bloccati in un sintomo corporeo, l’esistenza si è contratta, il corpo è divenuto «il nascondiglio della vita».12 Per il malato non accade più nulla, nulla prende senso e forma nella sua vita - o, per essere più esatti, accadono solo degli «adesso» sempre simili, la vita rifluisce su se stessa e la storia si dissolve nel tempo naturale. Anche normale, e anche impegnato in situazioni interumane, il soggetto, in quanto ha un corpo, conserva la facoltà di sottrarsi a queste situazioni. Nell’istante stesso in cui vivo nel mondo, in cui mi trovo fra i miei progetti, fra le mie occupazioni, fra i miei amici, io posso chiudere gli occhi, distendermi, ascoltare il sangue che batte alle orecchie, fondermi’ in un piacere o in un dolore, rinchiudermi in questa vita anonima che sottende la mia vita personale. Ma, proprio perché può chiudersi al mondo, il mio corpo è anche ciò che mi apre al mondo e mi mette in situazione. Il movimento dell’esistenza verso l’altro, verso l’avvenire, verso il mondo, può riprendere cosi come un fiume disgela. Il malato ritroverà la propria


voce, non in virtù di uno sforzo intellettuale o di un decreto astratto della volontà, ma in virtù di una conversione nella quale si raccoglie tutto il suo corpo, di un autentico gesto, cosi come noi cerchiamo e ritroviamo un nome dimenticato non «nella nostra mente», ma nella «testa» o «sulle labbra». Il ricordo o la voce sono ritrovati quando il corpo si apre nuovamente all’altro o al passato, quando si lascia attraversare dalla coesistenza e quando nuovamente (in senso attivo) significa al di là di se stesso. C’è di più: pur separato dal circuito dell’esistenza, il corpo non ricade mai completamente su se stesso. Anche se mi immergo nell’esperienza del mio corpo e nella solitudine delle sensazioni, io non riesco a sopprimere ogni riferimento della mia vita a un mondo, in ogni istante qualche intenzione scaturisce di nuovo da me, non fosse che verso gli oggetti che mi circondano e cadono sotto i miei occhi o verso gli istanti che sopraggiungono e respingono nel passato quanto ho appena vissuto. Io non divengo mai completamente una cosa nel mondo, mi manca sempre la pienezza dell’esistenza come cosa, la mia propria sostanza fugge da me internamente, e qualche intenzione si delinea sempre. In quanto porta «organi di senso», l’esistenza corporea non riposa mai in se stessa, è sempre travagliata da un nulla attivo, mi fa continuamente la proposta di vivere, e in ogni istante che avviene il tempo naturale delinea incessantemente la forma vuota dell’autentico avvenimento. Questa proposta rimane inascoltata. L’istante del tempo naturale non stabilisce nulla, è subito da ricominciare ed effettivamente ricomincia in un altro istante, le sole funzioni sensoriali non mi fanno essere al mondo: quando mi immergo nel mio corpo, gli occhi non mi danno se non l’involucro sensibile delle cose e quelli degli altri uomini, le cose stesse sono gravate di irrealtà, i comportamenti si decompongono nell’assurdo, il presente stesso, come nel falso riconoscimento, perde la sua consistenza e tende all’eternità. L’esistenza corporea che defluisce attraverso di me senza la mia complicità è solo l’abbozzo di un’autentica presenza al mondo: ne fonda almeno la possibilità, stabilisce il nostro primo patto con esso. Io posso si assentarmi dal mondo umano e abbandonare l’esistenza personale, ma solo per ritrovare nel mio corpo la medesima potenza, questa volta senza nome, dalla quale sono condannato all’essere. Si può dire che il corpo è «la forma nascosta dell’essere se stessi»13 o, reciprocamente, che l’esistenza personale è la ripresa e la manifestazione di un dato essere in situazione. Se dunque diciamo che in ogni momento il corpo esprime l’esistenza, lo diciamo nel senso in cui la parola esprime il pensiero. Al di qua dei mezzi d’espressione convenzionali - che manifestano all’altro il mio pensiero solo perché già in me come in lui sono dati, per ogni segno, dei significati, e che in questo senso non realizzano una autentica comunicazione - si deve riconoscere, come vedremo, una operazione primordiale di significazione in cui l’espresso non esiste indipendentemente dall’espressione e in cui i segni stessi inducono all’esterno il loro senso. In questa maniera il corpo esprime l’esistenza totale, non perché ne è un accessorio esteriore, ma perché questa esistenza si realizza in esso. Tale senso incarnato è il fenomeno centrale di cui corpo e spirito, segno e significato sono momenti astratti. Cosi inteso, il rapporto dell’espressione con l’espresso o del segno con il significato non è un rapporto a senso unico come quello intercorrente fra il testo originale e la traduzione. Né il corpo né l’esistenza possono essere considerati come l’elemento originale dell’essere umano, giacché entrambi si presuppongono vicendevolmente e il corpo è l’esistenza cristallizzata o generalizzata, e l’esistenza una incarnazione perpetua. In particolare, quando si dice che la sessualità ha un significato esistenziale o che esprime l’esistenza, ciò non va inteso come se in definitiva il dramma sessuale14 fosse solo una manifestazione o un sintomo di un dramma esistenziale. Il medesimo motivo che impedisce di «ridurre» l’esistenza al corpo o alla sessualità, impedisce anche di «ridurre» la sessualità all’esistenza: non si deve dimenticare che l’esistenza non è un ordine di «fatti» (come i fatti «psichici») che si possa ridurre ad altri o al quale si possano ridurre questi ultimi, ma l’ambito


equivoco della loro comunicazione, il punto in cui i loro confini si confondono, o, ancora, la loro trama comune. Non si tratta di far camminare l’esistenza umana «sulla testa». Si deve certo riconoscere che in genere il pudore, il desiderio, l’amore hanno un significato metafisico, e cioè che sono incomprensibili se si tratta l’uomo come una macchina governata da leggi naturali - o anche come un «fascio» di istinti -, e che concernono l’uomo in quanto coscienza e libertà. Solitamente l’uomo non mostra il proprio corpo e, quando lo fa, talvolta lo fa con timore, talvolta nell’intento di affascinare. Gli sembra che il proprio corpo gli venga sottratto dallo sguardo estraneo che lo percorre o che viceversa l’esposizione del proprio corpo costringerà l’altro ad abbandonarglisi senza difesa, e allora sarà l’altro a venir ridotto alla schiavitù. Il pudore e l’impudore rientrano dunque in una dialettica dell’io e dell’altro che è quella del servo e del signore: in quanto ho un corpo, io posso essere ridotto a oggetto sotto lo sguardo dell’altro e per lui non contare pili come persona, o, viceversa, posso divenire il suo signore e guardarlo a mia volta, ma questo primato è un vicolo cieco, poiché, nel momento in cui il mio valore è riconosciuto dal desiderio dell’altro, quest’ultimo non è più la persona da cui io desideravo essere riconosciuto, è un essere affascinato, senza libertà, e che a questo titolo per me non conta più. Dire che ho un corpo è quindi un modo di dire che posso essere visto come un oggetto e che cerco di essere visto come soggetto, che l’altro può essere il mio signore o il mio servo, cosicché il pudore o l’impudore esprimono la dialettica delle pluralità delle coscienze, e hanno un significato metafisico. Ciò potrebbe essere ripetuto a proposito del desiderio sessuale: se esso mal sopporta la presenza di un terzo testimonio, se sente come un segno di ostilità un atteggiamento troppo naturale o certi discorsi troppo distaccati da parte dell’essere desiderato, è perché vuole sedurre e perché il terzo osservatore o l’essere desiderato, se è troppo lucido, sfuggono alla seduzione. Non si cerca quindi di possedere un corpo, ma un corpo animato da una coscienza: come dice Alain, non si ama una pazza, se non in quanto la si è amata prima della sua pazzia. L’importanza annessa al corpo, le contraddizioni dell’amore si collegano quindi a un dramma più generale che dipende dalla struttura metafisica del mio corpo, oggetto per l’altro e al tempo stesso soggetto per me. La violenza del piacere sessuale non sarebbe sufficiente per spiegare il posto che la sessualità occupa nella vita umana e, per esempio, il fenomeno dell’erotismo, se l’esperienza sessuale non fosse un modo «dato a tutti e sempre accessibile» di esperire la condizione umana nei suoi momenti più generali di autonomia e di dipendenza. Non si spiegano quindi le difficoltà e le angoscie della condotta umana collegandola al travaglio sessuale, dal momento che esso le contiene già. Ma, reciprocamente, collegando la sessualità all’ambiguità del corpo, non la si riduce ad altro che a se stessa. Infatti, essendo un oggetto, di fronte al pensiero il corpo non è ambiguo; lo diviene solo nell’esperienza che noi ne abbiamo, particolarmente nell’esperienza sessuale, e per via della sessualità. Trattare la sessualità come una dialettica non significa ricondurla a un processo di conoscenza, né ricondurre la storia di un uomo alla storia della sua coscienza. La dialettica non è una relazione tra pensieri contraddittori e inseparabili, ma la tensione di un’esistenza verso un’altra esistenza che la nega e senza la quale, tuttavia, essa non si sorregge. La metafisica - l’emergere di un al di là della natura - non è localizzata al livello della conoscenza, ma comincia con l’apertura a un «altro», è ovunque, e già nello sviluppo proprio della sessualità. È vero che, con Freud, noi abbiamo generalizzato il concetto di sessualità. Come possiamo quindi parlare di uno sviluppo proprio della sessualità? Come possiamo caratterizzare sessualmente un contenuto di coscienza? In realtà, non possiamo farlo. La sessualità si cela a se stessa sotto una maschera di generalità, tenta incessantemente di sfuggire alla tensione e al dramma che essa istituisce. Ma, ancora, donde ci deriva il diritto di dire che essa si nasconde a se stessa, come se rimanesse il soggetto della nostra vita? Non si deve dire semplicemente che la sessualità è


trascesa e immessa nel dramma più generale dell’esistenza? Vi sono qui due errori da evitare: il primo consiste nel non attribuire all’esistenza altro contenuto che quello manifesto, dispiegato in rappresentazioni distinte, come fanno le filosofie della coscienza; l’altro nello sdoppiare questo contenuto manifesto in un contenuto latente, anch’esso fatto di rappresentazioni, come fanno le psicologie dell’inconscio. La sessualità non è né trascesa nella vita umana, né raffigurata nel suo centro da rappresentazioni inconscie: vi è costantemente presente come un’atmosfera. Chi sogna non comincia col rappresentarsi il contenuto latente del suo sogno, quello che sarà rivelato dal «secondo racconto», per mezzo di immagini adeguate; non comincia con il percepire chiaramente come genitali le eccitazioni di origine genitale, per tradurre poi questo testo in un linguaggio figurato. Ma per il soggetto che sogna - e che si è distaccato dal linguaggio della veglia - una certa eccitazione genitale o un certo impulso sessuale è immediatamente questa immagine di un muro su cui ci si arrampica o di una facciata su cui si sale, immagine che troviamo nel contenuto manifesto. La sessualità si diffonde in immagini che di essa conservano solo alcune relazioni tipiche, una certa fisionomia affettiva. La verga vista in sogno diviene quel serpente che figura nel contenuto manifesto.15 Quanto abbiamo detto a proposito di chi sogna vale anche per quella parte sempre assopita di noi stessi che sentiamo al di qua delle nostre rappresentazioni, per quella bruma individuale attraverso la quale percepiamo il mondo. Vi sono qui forme confuse, relazioni privilegiate, in nessun modo «inconscie» e di cui sappiamo benissimo che sono torbide, che sono in rapporto con la sessualità, senza che la evochino espressamente. Dalla regione corporea che abita più particolarmente, la sessualità irradia come un odore o un suono. Ritroviamo qui la funzione generale di trasposizione tacita che abbiamo già attribuito al corpo studiando lo schema corporeo. Quando porto la mano verso un oggetto, io so implicitamente che il mio braccio si allunga. Quando muovo gli occhi, tengo conto del loro movimento, senza prenderne espressamente coscienza, e attraverso di esso comprendo che lo sconvolgimento del campo visivo è solo apparente. Parimenti, senza essere l’oggetto di un atto di coscienza espresso, la sessualità può motivare le forme privilegiate della mia esperienza. Considerata in questo modo, cioè come atmosfera ambigua, la sessualità è coestensiva alla vita. In altri termini, l’equivoco è essenziale all’esistenza umana, e tutto ciò che noi viviamo o pensiamo ha sempre più di un senso. Uno stile di vita - atteggiamento di fuga e bisogno di solitudine - è forse un’espressione generalizzata di un certo stato della sessualità. Facendosi cosi esistenza, la sessualità si è impregnata di un significato talmente generale, il tema sessuale ha potuto essere per il soggetto l’occasione di tante osservazioni giuste e vere in se stesse, di tante decisioni fondate nella ragione, si è talmente appesantito per via, che è impossibile cercare nella forma della sessualità la spiegazione della forma di esistenza. Rimane il fatto che questa esistenza è la ripresa e l’esplicitazione di una situazione sessuale, e che cosi essa ha sempre almeno due sensi. C’è osmosi fra la sessualità e l’esistenza: ciò significa che, se l’esistenza si diffonde nella sessualità, reciprocamente la sessualità si diffonde nell’esistenza, cosicché è impossibile stabilire quanta parte abbiano, in una data decisione o in una data azione, la motivazione sessuale e le altre motivazioni, impossibile caratterizzare una decisione o un atto come «sessuale» o «non sessuale». Cosi, nell’esistenza umana c’è un principio di indeterminazione, e questa indeterminazione non è soltanto per noi, non deriva da qualche imperfezione della nostra conoscenza, non si deve credere che un Dio possa scrutare i cuori e i reni e delimitare quanto ci proviene dalla natura e quanto ci proviene dalla libertà. L’esistenza è indeterminata in sé, a causa della sua struttura fondamentale, in quanto è l’operazione stessa per la quale ciò che non aveva senso assume un senso, ciò che aveva solo un senso sessuale assume un significato più generale: la contingenza si fa ragione, in quanto l’esistenza è la ripresa di una situazione di fatto. Chiameremo trascendenza quel movimento attraverso il quale l’esistenza assume e


trasforma una situazione di fatto. Appunto perché è trascendenza, l’esistenza non supera mai nulla definitivamente, altrimenti scomparirebbe la tensione che la definisce. L’esistenza non abbandona mai se stessa. Ciò che essa è non le rimane mai esteriore e accidentale, poiché lo riprende in sé. Come il corpo in generale, anche la sessualità non deve quindi essere considerata un contenuto fortuito della nostra esperienza. L’esistenza non ha attributi fortuiti, non ha nessun contenuto che non contribuisca a darle la sua forma, non ammette in se stessa nessun fatto puro perché è il movimento attraverso il quale i fatti sono assunti. Forse si obietterà che l’organizzazione del nostro corpo è contingente, che si può «concepire un uomo senza mani, piedi, testa»16 e a maggior ragione un uomo senza sesso e che si riprodurrebbe per talea o propagginamento. Ma ciò è vero solo se si considerano astrattamente le mani, i piedi, la testa o l’apparato sessuale, cioè come frammenti, di materia, avulsi dalla loro funzione vivente - solo se si forma un concetto di uomo anch’esso astratto, nel quale si fa entrare esclusivamente la Cogitatio. Se viceversa si definisce l’uomo per la sua esperienza, cioè per il suo modo peculiare di plasmare il mondo, e se si reintegrano gli «organi» a questo tutto funzionale nel quale essi sono ritagliati, un uomo senza apparato sessuale è altrettanto inconcepibile che un uomo senza pensiero. Si obietterà ancora che la nostra formulazione cessa di essere paradossale solo divenendo una tautologia: noi affermiamo insomma che l’uomo sarebbe differente da ciò che è, e quindi non sarebbe più uomo, se gli mancasse uno solo dei sistemi di relazione che possiede effettivamente. Secondo tale obiezione, noi definiamo l’uomo mediante l’uomo empirico, cosi come esiste effettivamente, e colleghiamo con una necessità d’essenza e in un a priori umano i caratteri di questa totalità data, i quali non vi sono stati raggruppati se non per l’incontro di molteplici cause e per il capriccio della natura. In verità, noi non immaginiamo, con una illusione retrospettiva, una necessità d’essenza, ma constatiamo una connessione d’esistenza. Giacché, come abbiamo dimostrato prima con l’analisi del caso Schneider, nell’uomo tutte le «funzioni» - dalla sessualità alla motilità e all’intelligenza - sono rigorosamente solidali, è impossibile distinguere nell’essere totale dell’uomo una organizzazione corporea, che verrebbe trattata alla stregua di un fatto contingente, e altri predicati che gli apparterrebbero con necessità. Nell’uomo tutto è necessità e, per esempio, non è una semplice coincidenza il fatto che l’essere ragionevole sia anche quello che sta in posizione eretta o possiede un pollice opponibile alle altre dita: lo stesso modo di esistere si manifesta in entrambe le circostanze.17 Nell’uomo tutto è contingenza, nel senso che questo modo umano di esistere non è garantito a ogni bambino da una qualche essenza ricevuta alla nascita, ma deve costantemente rifarsi in lui attraverso i capricci del corpo oggettivo. L’uomo è un’idea storica e non una specie naturale. In altri termini, nell’esistenza umana non c’è nessun possesso incondizionato, ma neppure nessun attributo fortuito. L’esistenza umana ci costringerà a rivedere la nostra consueta nozione di necessità e contingenza, perché è il mutamento della contingenza in necessità attraverso l’atto di ripresa. Tutto ciò che siamo, noi lo siamo sulla base di una situazione di fatto che facciamo nostra e che trasformiamo incessantemente con una specie di sfuggimento che non è mai una libertà incondizionata. Nessuna spiegazione della sessualità può ridurla a qualcosa di diverso dalla sessualità stessa, giacché essa era già qualcosa di diverso da se stessa, e, se si vuole, il nostro essere intero. La sessualità, si dice, è drammatica poiché noi vi impegniamo tutta la nostra vita personale. Ma, per l’appunto, perché lo facciamo? Il nostro corpo è per noi lo specchio del nostro essere solo in quanto è un io naturale, una data corrente d’esistenza, cosicché non sappiamo mai se le forze che ci sostengono sono le sue o le nostre, o meglio: esse non sono mai del tutto sue o nostre. Non c’è superamento della sessualità, cosi come non c’è sessualità chiusa in se stessa. Nessuno è salvo e nessuno è perduto completamente.


Come non si può liquidare la psicoanalisi condannando le concezioni «riduttrici» e il pensiero causale in nome di un metodo descrittivo e fenomenologico, cosi non lo sì può fare nei confronti del marxismo: infatti, al pari della psicoanalisi, esso non è legato alle formulazioni «casuali» che ne sono state date, e potrebbe essere esposto in un altro linguaggio. Il marxismo consiste tanto nel rendere storica l’economia, quanto nel rendere economica la storia. L’economia sulla quale esso fonda la storia non è, come nella scienza classica, un ciclo chiuso di fenomeni oggettivi, ma un confronto delle forze produttive e delle forme di produzione che giunge al proprio termine solo quando le prime escono dal loro anonimato, prendono coscienza di se stesse e divengono cosi capaci di plasmare l’avvenire. Orbene, la presa di coscienza è evidentemente un fenomeno culturale, e pertanto tutte le motivazioni psicologiche possono introdursi nella trama della storia. Una storia «materialistica» della Rivoluzione del 1917 non consiste nello spiegare ogni impulso rivoluzionario con l’indice dei prezzi di dettaglio al momento considerato, ma nel ricollocarlo nella dinamica delle classi e nei rapporti di coscienza, variabili da febbraio a ottobre, fra il nuovo potere proletario e il vecchio potere conservatore. Più che ridurre la storia all’economia, il «materialismo storico» reintegra l’economia alla storia. Nei lavori che ha ispirato, molte volte esso non è altro che una concezione concreta della storia che non si limita a considerarne il contenuto manifesto (per esempio i rapporti ufficiali dei «cittadini» in ima democrazia), ma risale al suo contenuto latente, cioè alle relazioni interumane cosi come si stabiliscono effettivamente nella vita concreta. Quando la storia «materialistica» caratterizza la democrazia come un regime «formale» e descrive i conflitti che travagliano questo regime, il soggetto reale della storia che essa cerca di ritrovare sotto l’astrazione giuridica del cittadino non è soltanto il soggetto economico, l’uomo come fattore della produzione, ma più in generale il soggetto vivente, l’uomo come produttività, in quanto vuole dar forma alla propria vita, in quanto ama, odia, crea o non crea opere d’arte, in quanto ha figli o non ne ha. Il materialismo storico non è una causalità esclusiva dell’economia. Si sarebbe tentati di dire che esso non fa riposare la storia e i modi di pensare sulla produzione e sulle sue forme, ma più in generale sul modo di esistere e di coesistere, sulle relazioni interumane. Esso non riconduce la storia delle idee alla storia economica, ma le ricolloca nella storia unica che entrambe esprimono e che è quella dell’esistenza sociale. Come dottrina filosofica, il solipsismo non è un effetto della proprietà privata, ma nell’istituzione economica e nella concezione del mondo si proietta un medesimo assunto esistenziale di isolamento e di diffidenza. Tuttavia, questa traduzione del materialismo storico può sembrare equivoca. Noi «gonfiamo» la nozione di economia come Freud gonfia quella di sessualità, vi facciamo entrare, oltreché i processi di produzione e la lotta delle forze economiche contro le forme economiche, la costellazione dei motivi psicologici e morali che concorrono a determinare questa lotta. Ma la parola economia non perde allora ogni senso possibile? Se non sono le relazioni economiche a esprimersi nel modo del Mitsein, non è forse il modo del Mitsein a esprimersi nelle relazioni economiche? Quando riferiamo sia la proprietà privata che il solipsismo a una certa struttura del Mitsein, non facciamo ancora una volta camminare la storia sulla testa? E non si deve forse scegliere fra queste due tesi: o il dramma della coesistenza ha un significato puramente economico, oppure il dramma economico si dissolve in un dramma pili generale e ha solo un significato esistenziale, ciò che reintroduce lo spiritualismo? Se è ben compresa, la nozione di esistenza permette appunto di superare questa alternativa, e ciò che prima abbiamo detto sulla concezione esistenziale dell’«espressione» e del «significato» deve essere applicato anche qui. Una teoria esistenziale della storia è ambigua, ma questa ambiguità non può esserle rimproverata, giacché essa è nelle cose. £ solo nell’imminenza di una rivoluzione che la storia stringe più dappresso l’economia e, come nella vita individuale la malattia assoggetta l’uomo al ritmo vitale del suo corpo, cosi in una situazione rivoluzionaria, per esempio in un movimento di sciopero generale, i rapporti di produzione traspaiono, sono espressamente percepiti come decisivi. Ciononostante, s’è visto prima che l’esito dipende dal modo in cui le forze contrastanti si pensano vicendevolmente. A maggior ragione, nei periodi di ristagno i rapporti economici sono efficaci solo in quanto sono vissuti e ripresi da un soggetto umano, cioè avvolti in lembi ideologici attraverso un processo di mistificazione, o meglio, attraverso un equivoco permanente che fa parte della storia e che ha il suo peso proprio. Né il conservatore né il proletario hanno coscienza di essere impegnati in una lotta solamente economica, e annettono sempre alla loro azione un significato umano. In questo senso non c’è mai causalità economica pura, poiché l’economia non è un sistema chiuso ed è parte nell’esistenza totale e concreta della società. Ma una concezione esistenziale della storia non priva le situazioni economiche del loro potere di motivazione. Se l’esistenza è il movimento permanente attraverso il quale l’uomo riprende per conto suo e assume una certa situazione di fatto, nessuno dei suoi pensieri potrà essere completamente staccato dal contesto storico in cui egli vive e in particolare dalla sua situazione economica. Proprio perché l’economia non è un mondo chiuso e tutte le motivazioni si intrecciano nel cuore della storia, l’esteriore diviene interiore cosi come l’interiore diviene esteriore, e nessuna componente della nostra esistenza può mai essere superata. Sarebbe assurdo considerare la poesia di Valéry come un semplice episodio dell’alienazione economica: la poesia pura può avere un senso eterno. Ma non è assurdo cercare nel dramma sociale ed economico, nel modo del nostro Mitsein, il motivo di questa presa di coscienza. Come tutta la nostra vita respira un’atmosfera sessuale, senza che si possa stabilire un solo contenuto di coscienza che sia «puramente sessuale» o che non lo sia affatto, cosi il dramma economico e sociale fornisce a ogni coscienza un certo sfondo o anche una certa imago che essa decifrerà a modo suo, e, in questo senso, è coestensivo alla storia. L’atto dell’artista o del filosofo è libero, ma non senza motivo. La loro libertà risiede nel potere di equivoco cui accennavamo prima o in quel processo di sfuggimento18 del quale s’è parlato a suo tempo; essa consiste nell’assumere una situazione di fatto assegnandole un senso figurato al di là del suo senso proprio. Cosi Marx, non contento di essere figlio di avvocato e studente di filosofia, pensa la propria situazione come quella di un «intellettuale piccolo borghese» e nella nuova prospettiva della lotta di classe. Analogamente, Valéry trasforma in poesia pura un malessere e una solitudine che per altri sarebbero stati sterili II pensiero è la vita interumana cosi come essa stessa si comprende e si interpreta. In questa ripresa volontaria, in questo passaggio dall’oggettivo al soggettivo, è impossibile dire dove terminano le forze della storia e dove cominciano le nostre, e a rigore questo problema non significa


nulla, giacché non c’è storia se non per un soggetto che la viva e non c’è soggetto che non sia situato storicamente. Non esiste un significato unico della storia, ciò che noi facciamo ha sempre più di un senso, e in questo la concezione esistenziale della storia si distingue tanto dal materialismo quanto dallo spiritualismo. Ma ogni fenomeno culturale ha, fra gli altri, un significato economico: pur non essendo a essa riducibile, la storia non trascende mai per principio l’economia. La concezione del diritto, la morale, la religione, la struttura economica si intersignificano nell’Unità dell’evento sociale cosi come le parti del corpo si implicano vicendevolmente nell’Unità di un gesto o come i motivi «fisiologici», «psicologici» e «morali» si intrecciano nell’Unità di un’azione: pertanto, è impossibile ridurre la vita umana sia alle relazioni economiche, sia ai rapporti giuridici e morali pensati dagli uomini, nello stesso modo in cui è impossibile ridurre la vita individuale sia alle funzioni corporee, sia alla conoscenza che noi abbiamo di questa vita. Ma in ogni caso uno degli ordini di significato può essere considerato come dominante, il tal gesto può essere considerato «sessuale», quest’altro «amoroso», quest’altro ancora «guerriero» e, anche nella coesistenza, il tale periodo storico può essere considerato prevalentemente culturale, politico o economico. Sapere se la storia del nostro tempo ha il suo senso principale nell’economia e se le nostre ideologie ce ne danno solo il senso derivato o secondo, è un problema che non dipende più dalla filosofia, ma dalla politica, e che si risolverà con il cercare quale, fra lo scenario economico o quello ideologico, si attagli meglio ai fatti. La filosofia può soltanto dimostrare che ciò è possibile a partire dalla condizione umana.


Note

1

Si tratta di Schneider, il malato di cui prima abbiamo studiato le deficienze motorie e intellettuali e il cui comportamento affettivo e sessuale è stato analizzato da Steinfeld, Ein Beitrag zur Analyse der Sexualfunktion, pp. 175-180.

2 Cfr. 3 W.

sopra, p. 188.

Steckel, La femme frigide.

4 Freud,

Introduction à la psychanalyse, p. 45. Nelle sue analisi concrete lo stesso Freud abbandona il pensiero causale, quando fa vedere che i sintomi hanno sempre più di un senso o, come egli dice, sono «sovradeterminati». Ciò equivale infatti ad ammettere che, nel momento in cui si stabilisce, un sintomo trova sempre nel soggetto delle ragioni d’essere, cosicché in una vita nessun evento è, propriamente parlando, determinato dall’esterno. Freud paragona l’accidente esterno al corpo estraneo che, per l’ostrica, è solo l’occasione di secernere una perla. Cfr., per esempio, Cinq psychanalyses, cap. I, p. 91, nota

5 La

structure du comportement, pp. 80 sgg

6 Binswanger, 7

Über Psychotherapie, pp. 113 sgg.

Binswanger (ibidem, p. 188) segnala che un malato, nel momento in cui ritrova e comunica al medico un ricordo traumatico, prova un rilassamento dello sfintere.

8 J.-P.

Sartre, L’imaginaire, p. 38.

9 Freud,

Introduction à la psychanalyse, p. 66.

10 Binswanger,

op. cit., pp. 113 sgg.

11 Ibidem,

p. 188.

12 Ibidem,

p. 182.

13 Binswanger, 14

«eine verdeckte Form unseres Selbstseins», ibidem, p. 188.

Assumiamo qui la parola nel suo senso etimologico e senza nessuna risonanza romantica, come faceva già Politzer, Critique des fondements de la psychologie, p. 23.

15 Laforgue, 16 Pascal,

L’échec de Baudelaire, p. 126.

Pensées et opuscules (ed. Brunschvicg), Sezione VI, n. 339, p. 486.


17 Cfr.

La structure du comportement, pp. 160-161.

18 Cfr.

p. 239. (N. d. T.).


VI. Il corpo come espressione e la parola

Abbiamo attribuito al corpo una unità distinta da quella dell’oggetto scientifico. Abbiamo scoperto una intenzionalità e un potere di significazione perfino nella sua «funzione sessuale». Cercando di descrivere il fenomeno della parola e l’atto espresso di significazione, avremo modo di superare definitivamente la dicotomia classica del soggetto e dell’oggetto. Naturalmente, la presa di coscienza della parola come regione originale è tardiva. Qui come ovunque, la relazione d’avere, ancorché visibile nell’etimologia stessa del termine abitudine, è dapprima mascherata dalle relazioni della sfera dell’essere o, si può anche dire, dalle relazioni intramondane e ontiche.1 In un primo tempo il possesso del linguaggio è inteso come la semplice esistenza effettiva di «immagini verbali», cioè di tracce lasciate in noi dalle parole pronunciate o udite. Non ha molta importanza che queste tracce siano corporee o che si depositino in uno «psichismo inconscio», e in entrambi i casi la concezione del linguaggio è caratterizzata dall’assenza di un «soggetto parlante». Sia che gli stimoli attivino, secondo le leggi della meccanica nervosa, gli eccitamenti capaci di provocare l’articolazione della parola, sia che gli stati di coscienza determinino, in virtù delle associazioni acquisite, l’apparizione dell’opportuna immagine verbale, in ambedue le circostanze la parola prende posto in un circuito di fenomeni in terza persona, non c’è nessuno che parla, c’è un flusso di parole che si producono senza che una qualche intenzione di parlare le governi. Si considera il senso delle parole come dato con gli stimoli o con gli stati di coscienza che si tratta di nominare, la configurazione sonora o articolare della parola è data con le tracce cerebrali o psichiche, la parola non è un’azione, non manifesta possibilità interne del soggetto: l’uomo può parlare cosi come la lampada elettrica può divenire incandescente. Se ci sono turbe elettive che colpiscono il linguaggio parlato risparmiando quello scritto, o la scrittura risparmiando la parola, e se il linguaggio può disgregarsi in frammenti, ciò è dovuto al fatto che esso si costituisce attraverso una serie di apporti indipendenti e che, in senso generale, la parola è un essere di ragione. La teoria dell’afasia e del linguaggio sembrò trasformarsi completamente quando si fu indotti a distinguere, al di sopra dell’anartria, che interessa l’articolazione della parola, la afasia vera, che non è mai esente da turbe dell’intelligenza -, al di sopra del linguaggio automatico, che in realtà è un fenomeno motorio in terza persona, un linguaggio intenzionale, l’unico interessato nella maggior parte delle afasie. L’individualità della «immagine verbale» si trovava dissociata. Ciò che il malato ha perduto, ciò che il soggetto normale possiede, non è un certo patrimonio di parole, ma un certo modo di farne uso. La stessa parola che rimane a disposizione del malato sul piano del linguaggio automatico, diviene per lui inaccessibile su quello del linguaggio gratuito -, lo stesso malato che ritrova senza sforzo la parola «no» per sottrarsi alle domande del medico, cioè quando essa significa una negazione attuale e vissuta, non riesce a pronunciarla quando si tratta di un esercizio senza interesse affettivo e vitale. Dietro la parola venivano quindi scoperti un atteggiamento e una funzione della parola che la condizionano. Si distingueva la parola come strumento d’azione e come mezzo di denominazione disinteressata. Se il linguaggio «concreto» rimaneva un processo in terza persona, il linguaggio gratuito, la denominazione autentica diveniva un fenomeno di pensiero, e l’origine di certe afasie andava ricercata in un disturbo del pensiero. Per esempio, l’amnesia dei nomi di colore, ricollocata nel comportamento d’insieme del malato, appariva come una manifestazione particolare di un disturbo più generale. Gli stessi malati i quali non possono nominare i colori che vengono presentati loro, sono egualmente incapaci di classificarli in base a date istruzioni. Se per esempio si


chiede loro di classificare dei campioni secondo la tinta fondamentale, per prima cosa si constata che essi lo fanno più lentamente e minuziosamente di un soggetto normale: avvicinano l’uno all’altro i campioni da confrontare e non vedono con un solo colpo d’occhio quelli che «vanno insieme». Inoltre, dopo aver correttamente riunito molte fettucce azzurre, commettono errori incomprensibili: se, per esempio, l’ultima fettuccia azzurra aveva un tono pallido, essi proseguono aggiungendo al mucchio degli «azzurri» un verde pallido o un rosa pallido -, come se fosse loro impossibile mantenere il principio di classificazione proposto e considerare i campioni dal punto di vista del colore dall’inizio alla fine dell’operazione. Essi sono quindi divenuti incapaci di sussumere i dati sensibili sotto una categoria, di vedere immediatamente i campioni come rappresentanti dell’eidos azzurro. Anche quando, all’inizio della prova, procedono correttamente, a guidarli non è la partecipazione dei campioni a un’idea, ma l’esperienza di una somiglianza immediata, e per questo motivo non possono classificare i campioni se non dopo averli avvicinati l’uno all’altro. La prova della classificazione dei colori mette in evidenza, in questi malati, un disturbo fondamentale di cui l’amnesia dei nomi di colore sarà solo un’altra manifestazione. Infatti, nominare un oggetto significa staccarsi da ciò che ha di individuale e unico per vedere in esso il rappresentante di un’essenza o di una categoria, e se il malato non può nominare i campioni, non è perché abbia perduto l’immagine verbale della parola rosso o della parola azzurro, ma perché ha perduto la facoltà generale di assumere un dato sensibile sotto una categoria, perché è ricaduto dall’atteggiamento categoriale a quello concreto.2 Queste analisi e altre simili ci conducono, così sembra, agli antipodi della storia dell’immagine verbale, poiché ora il linguaggio appare come condizionato dal pensiero. In realtà, ancora una volta vedremo che c’è una affinità fra le psicologie empiristiche o meccanicistiche e quelle intellettualistiche: non si risolve il problema del linguaggio passando dalla tesi all’antitesi. Prima, la riproduzione della parola, la reviviscenza dell’immagine verbale era l’essenziale; ora, essa non è più se non l’involucro della vera denominazione e della parola autentica che è un’operazione interiore. E tuttavia le due concezioni concordano in questo, che per entrambe la parola non ha significato. Ciò è evidente nella prima, perché l’evocazione della parola non è mediata da nessun concetto, perché gli stimoli o gli «stati di coscienza» dati la sollecitano secondo le leggi della meccanica nervosa o quelle dell’associazione, e perché cosi la parola non è portatrice del suo senso, non ha alcuna potenza interiore, ed è solo un fenomeno psichico, fisiologico, o addirittura fisico, giustapposto agli altri e portato alla luce dal gioco di una causalità oggettiva. La stessa cosa si verifica quando sdoppiamo la denominazione in una operazione categoriale. La parola è ancora priva di efficacia propria, questa volta perché è unicamente il segno esteriore di un riconoscimento interiore che potrebbe compiersi senza il suo intervento e al quale essa non contribuisce. La parola non è priva di senso, poiché dietro di essa c’è un’operazione categoriale, ma non ha questo senso, non lo possiede, è il pensiero ad avere un senso e la parola rimane un involucro vuoto. Essa è solo un fenomeno articolare, sonoro, o la coscienza di questo fenomeno, ma in ogni caso il linguaggio non è se non un accessorio esteriore del pensiero. Nella prima concezione siamo al di qua della parola come significativa, nella seconda al di là -, nella prima non c’è nessuno che parla; nella seconda c’è si un soggetto, ma non è il soggetto parlante, è il soggetto pensante. Per quanto concerne la parola stessa, l’intellettualismo differisce appena dall’empirismo e, al pari di quest’ultimo, non può fare a meno di una spiegazione fondata sull’automatismo. Una volta fatta l’operazione categoriale, rimane da spiegare l’apparizione della parola che la conclude, e, poiché la parola è un involucro inerte, lo si farà chiamando nuovamente in causa un meccanismo fisiologico o psichico. Pertanto, con la semplice osservazione che la parola ha un senso si supera tanto l’intellettualismo quanto l’empirismo. Se la parola presupponesse il pensiero, se parlare significasse anzitutto accedere all’oggetto


attraverso un’intenzione di conoscenza o una rappresentazione, non si comprenderebbe perché il pensiero tende all’espressione come al suo punto d’arrivo, perché l’oggetto più familiare ci sembra indeterminato finché non ne abbiamo rintracciato il nome, perché lo stesso soggetto pensante è in una specie di ignoranza dei suoi pensieri finché non li ha formulati per sé o anche detti e scritti, come dimostra l’esempio di molti scrittori i quali cominciano un libro senza sapere di preciso che cosa vi narreranno. Un pensiero che si appagasse di esistere per sé, fuori delle difficoltà della parola e della comunicazione, cadrebbe, non appena apparso, nell’incoscienza, come dire che non esisterebbe nemmeno per sé. Noi diamo il nostro pensiero tramite la parola interiore o esteriore: in questo senso, alla famosa domanda di Kant possiamo rispondere che effettivamente la parola è un’esperienza di pensare. Il pensiero progredisce si istantaneamente e come per folgorazioni, ma poi spetta a noi appropriarcelo, ed esso diviene nostro attraverso l’espressione. La denominazione degli oggetti non viene dopo il riconoscimento, ma è il riconoscimento stesso. Quando fisso un oggetto nella penombra e dico: «È una spazzola», nella mia mente non c’è un concetto della spazzola, sotto il quale sussumerei l’oggetto e che d’altra parte si troverebbe legato, in virtù di un’associazione frequente, con la parola «spazzola», ma la parola è portatrice del senso e, imponendolo all’oggetto, io ho coscienza di cogliere l’oggetto. Come è stato spesso notato,3 per il fanciullo l’oggetto è conosciuto solo quando è nominato, il nome è l’essenza dell’oggetto e risiede in esso allo stesso titolo che il suo colore e la sua forma. Per il pensiero prescientifico nominare l’oggetto significa farlo esistere o modificarlo: Dio crea gli esseri nominandoli e la magia agisce su questi esseri parlando di essi. Questi «errori» sarebbero incomprensibili se la parola riposasse sul concetto, giacché quest’ultimo dovrebbe sempre conoscersi come distinto da essa e conoscerla come un accessorio esteriore. Se si risponde che il fanciullo impara a conoscere gli oggetti attraverso le designazioni del linguaggio, che quindi, dati dapprima come esseri linguistici, gli oggetti non ricevono se non secondariamente l’esistenza naturale, e che infine l’esistenza effettiva di una comunità linguistica dà conto delle credenze infantili, questa spiegazione lascia intatto il problema: infatti, il fanciullo può conoscersi come membro di una comunità linguistica ancor prima di conoscersi come pensiero di una Natura solo a condizione che il soggetto possa ignorarsi come pensiero universale e cogliersi come parola, e che la parola, lungi dall’essere il semplice segno degli oggetti e dei significati, abiti le cose e sia il veicolo dei significati. Cosi, in colui che parla, la parola non traduce un pensiero già fatto, ma lo compie.4 A maggior ragione si dovrà ammettere che chi pensa riceve il pensiero dalla parola stessa. A prima vista si crederebbe che la parola udita non può arrecargli nulla: è l’ascoltatore a dar senso alle parole, alle frasi, e la combinazione stessa delle parole e delle frasi non è un apporto estraneo, poiché non sarebbe compresa se non incontrasse nell’ascoltatore la facoltà di realizzarla spontaneamente. Qui come ovunque, appare anzitutto vero che nella sua esperienza la coscienza può trovare solo ciò che vi ha messo essa stessa. Cosi, l’esperienza della comunicazione sarebbe un’illusione. Una coscienza costruisce - per X - quel macchinismo linguistico che darà a un’altra coscienza l’occasione di effettuare gli stessi pensieri, ma nulla passa realmente dall’una all’altra. Tuttavia, visto che il problema consiste nel sapere come, secondo l’apparenza, la coscienza apprende qualcosa, la soluzione non può consistere nel dire che essa sa tutto in anticipo. Il fatto è che noi abbiamo il potere di comprendere al di là di ciò che pensavamo spontaneamente. Di fronte a noi si può parlare solo un linguaggio che comprendiamo già, ogni parola di un testo difficile desta in noi pensieri che ci appartenevano prima, ma talvolta questi significati si intrecciano in un pensiero nuovo che li rimaneggia tutti, siamo trasportati al centro del libro, raggiungiamo la sorgente. Non c’è qui nulla di paragonabile alla soluzione di un problema, in cui si scopre un termine ignoto attraverso il suo rapporto con termini noti. Infatti, il problema può essere risolto solo se è determinato, cioè se la


verifica dei dati assegna all’incognita uno o più valori definiti. Nella comprensione dell’altro il problema è sempre indeterminato,5 poiché solo la soluzione del problema farà apparire retrospettivamente i dati come convergenti, solo il motivo centrale di una filosofia, una volta inteso, dà ai testi del filosofo il valore di segni adeguati. C’è dunque una ripresa del pensiero altrui attraverso la parola, una riflessione nell’altro, una facoltà di pensare in base all’altro, 6 la quale arricchisce i nostri propri pensieri. È pur necessario che qui il senso delle parole sia alla fine indotto dalle parole stesse o, per essere più precisi, che il loro significato concettuale si formi per prelevamento su un significato gestuale, che, a sua volta, è immanente alla parola. E come, in un paese straniero, comincio a capire il senso delle parole dal loro posto in un contesto d’azione e partecipando alla vita comune, cosi un testo filosofico ancora mal compreso mi rivela per lo meno un certo «stile» - uno stile spinoziano, criticistico o fenomenologico - che è il primo abbozzo del suo senso, comincio a comprendere una filosofia introducendomi nel modo di esistere di questo pensiero, riproducendo il tono, l’accento del filosofo. Insomma, ogni linguaggio si insegna da sé e convoglia il suo senso nella mente dell’ascoltatore. Se davvero dice qualcosa, una musica o una pittura dapprima incompresa finisce per crearsi anch’essa il suo pubblico, cioè per secernere anch’essa il suo significato. Nel caso della prosa o della poesia la potenza della parola è meno evidente poiché abbiamo l’illusione di possedere già in noi, con il senso comune delle parole, quanto è necessario per comprendere qualsiasi testo, mentre ovviamente i colori della tavolozza o i suoni bruti degli strumenti, cosi come ce li dà la percezione naturale, non sono sufficienti per formare il senso musicale di una musica, il senso pittorico di una pittura. Ma, in verità, il senso di un’opera letteraria è fatto del senso comune delle parole meno di quanto contribuisca a modificarlo. Sia in chi ascolta o legge, sia in chi parla o scrive, c’è quindi un pensiero nella parola che l’intellettualismo non sospetta. Se vogliamo tenerne conto, dobbiamo ritornare al fenomeno della parola e rimettere in questione le descrizioni consuete, le quali irrigidiscono sia il pensiero che la parola e non ammettono tra di essi se non relazioni esteriori. In primo luogo si deve riconoscere che nel soggetto parlante il pensiero non è una rappresentazione, e cioè che esso non pone espressamente oggetti o relazioni. L’oratore non pensa prima di parlare, nemmeno mentre parla; la sua parola è il suo pensiero. Allo stesso modo, ciò che l’ascoltatore concepisce non è semplicemente occasionato dai segni. Il «pensiero» dell’oratore è vuoto mentre egli parla, e, quando si legge un testo di fronte a noi, se l’espressione è riuscita non abbiamo un pensiero al margine del testo stesso, le parole occupano tutta la nostra mente, vengono ad appagare esattamente la nostra attesa e noi avvertiamo la necessità del discorso, ma non saremmo capaci di prevederlo e non siamo posseduti da esso. La fine del discorso o del testo sarà la fine di un incantesimo. A questo punto potranno sopraggiungere i pensieri concernenti il discorso o il testo, mentre prima il discorso era improvvisato e il testo compreso senza un solo pensiero, il senso era presente ovunque, ma in nessun luogo posto per se stesso. Come non pensa il senso di ciò che dice, cosi il soggetto parlante non si rappresenta le parole che impiega. Sapere una parola o una lingua, lo ripetiamo, non significa disporre di montaggi nervosi prestabiliti. Ma non per questo significa conservare della parola qualche « ricordo puro», qualche percezione indebolita. L’alternativa bergsoniana fra la memoria-abitudine e il ricordo puro non dà conto della presenza prossima delle parole che so: esse sono dietro di me, come gli oggetti dietro la mia spalla o come l’orizzonte della città intorno alla mia casa, io faccio i conti con esse o conto su di esse, ma non ho nessuna «immagine verbale». Nel loro persistere in me assomigliano piuttosto alla Imago freudiana, la quale è molto meno la rappresentazione di una percezione trascorsa che una essenza emozionale molto precisa e generale staccata dalle sue origini empiriche. Della parola appresa mi


resta il suo stile articolare e sonoro. Dell’immagine verbale si deve dire quanto dicevamo, prima, della «rappresentazione del movimento»: non ho bisogno di rappresentarmi lo spazio esterno e il mio proprio corpo per muovere l’uno nell’altro. È sufficiente che essi esistano per me e costituiscano un certo campo d’azione teso attorno a me. Analogamente, non ho bisogno di rappresentarmi la parola per saperla e per pronunciarla. Basta che ne possieda l’essenza articolare e sonora come una delle modulazioni, uno degli usi possibili del mio corpo. Io mi riporto alla parola come la mia mano si dirige verso il luogo del corpo che viene punto, la parola è in un certo luogo del mio mondo linguistico, fa parte della mia costituzione; e io ho un solo mezzo per rappresentarla, ossia quello di pronunciarla, allo stesso modo in cui l’artista ha un solo mezzo per rappresentarsi l’opera alla quale lavora: deve farla. Quando immagino Piero assente, io non ho coscienza di contemplare un Piero in immagine numericamente distinto da Piero stesso; per lontano che egli sia, io lo intenziono nel mondo, e la mia facoltà di immaginare non è se non il persistere del mio mondo attorno a me.7 Dire che io immagino Piero equivale a dire che mi procuro una pseudo-presenza di Piero mettendo in azione la «condotta di Piero». Come Piero immaginato è solo una delle modalità del mio essere al mondo, così l’immagine verbale è solo una delle modalità della mia gesticolazione fonetica, data con molte altre nella coscienza globale del mio corpo. È evidentemente ciò che vuole dire Bergson quando parla di un «contesto motorio» dell’evocazione: ma se delle rappresentazioni pure del passato vengono a inserirsi in tale contesto, non si vede perché mai avrebbero bisogno di esso per ridivenire attuali. La funzione del corpo nella memoria può essere compresa solo se la memoria non è la coscienza costituente del passato, ma uno sforzo per riaprire il tempo a partire dalle implicazioni del presente, e se il corpo, essendo il nostro mezzo permanente per «assumere atteggiamenti» e per fabbricarci così degli pseudo-presenti, è il mezzo della nostra comunicazione sia con il tempo che con lo spazio.8 La funzione del corpo nella memoria è quella stessa funzione di proiezione già incontrata nella iniziazione cinetica: poiché è un potere d’espressione naturale, il corpo converte in vociferazione una certa essenza motoria, dispiega in panorama del passato l’atteggiamento trascorso che riprende, proietta in movimento effettivo una intenzione di movimento. Queste osservazioni ci consentiranno di restituire all’atto di parlare la sua vera fisionomia. In primo luogo la parola non è il «segno» del pensiero, se con ciò si intende un fenomeno che ne annuncia un altro come il fumo annuncia il fuoco. La parola e il pensiero ammetterebbero questa relazione esteriore solo se fossero entrambi tematicamente dati; in realtà essi si avvolgono vicendevolmente, il senso è preso nella parola e la parola è l’esistenza esteriore del senso. Non potremo nemmeno ammettere, come si fa di solito, che la parola sia un semplice mezzo di fissazione, o anche l’involucro e il vestito del pensiero. Perché mai sarebbe più facile ricordare parole o frasi che ricordare pensieri, se ogni volta le pretese immagini verbali hanno bisogno di essere ricostruite? E perché mai il pensiero cercherebbe di raddoppiare o di rivestirsi di una serie di vociferazioni, se queste ultime non portassero e non contenessero in se stesse il loro senso? Le parole non possono essere le «fortezze del pensiero», e il pensiero può cercare l’espressione solo se le parole sono di per se stesse un testo comprensibile e se il parlare possiede un potere significante che gli sia proprio. È necessario che, in un modo o nell’altro, la parola e il parlare cessino di essere una maniera di designare l’oggetto o il pensiero, per divenire la presenza di questo pensiero nel mondo sensibile, e non il suo vestito, ma il suo emblema o il suo corpo. Deve esserci, come dicono gli psicologi, un «concetto linguistico» (Sprachbegriff)9 o un concetto verbale, (Wortbegriff), una «esperienza interna centrale, specificamente verbale, grazie alla quale il suono udito, pronunciato, letto o scritto diviene un fatto linguistico».10 Certi malati possono leggere un testo «dando l’intonazione» senza però


comprenderlo. Il fatto è che il parlare o le parole portano un primo strato di significato che aderisce a essi e che dà il pensiero come stile, come significato affettivo, come mimica esistenziale, piuttosto che come enunciato concettuale. Sotto il significato concettuale delle parole scopriamo qui un significato esistenziale, che non è solamente tradotto da esse, ma che le abita e ne è inseparabile. Il più grande beneficio dell’espressione non consiste nel consegnare in uno scritto certi pensieri che potrebbero andare perduti, uno scrittore non rilegge quasi mai i propri lavori, e alla prima lettura le grandi opere depositano in noi tutto ciò che in seguito attingeremo da esse. Quando è riuscita, l’operazione espressiva non lascia al lettore o allo scrittore stesso solamente un promemoria, ma fa esistere il significato come una cosa nel cuore stesso del testo, lo fa vivere in un organismo di parole, lo installa nello scrittore o nel lettore come un nuovo organo di senso, dischiude un nuovo campo o una nuova dimensione alla nostra esperienza. Questa potenza dell’espressione è ben nota nell’atte, e per esempio nella musica. Il significato musicale della sonata è inseparabile dai suoni che la compongono: nessuna analisi ci permette di indovinarla prima di averla ascoltata; una volta terminata l’esecuzione, nelle nostre analisi intellettuali della musica potremo solo riportarci al momento dell’esperienza; durante l’esecuzione, i suoni non sono unicamente i «segni» della sonata, ma essa è là attraverso di essi, discende in essi.11 Analogamente, l’attrice diviene invisibile ed è Fedra ad apparire. Il significato divora i segni, e Fedra si è talmente impossessata della Berma che la sua estasi in Fedra ci sembra l’apice della naturalezza e della facilità.12 L’espressione estetica conferisce l’esistenza in sé a ciò che esprime, lo installa nella natura come una cosa percepita accessibile a tutti, o viceversa strappa i segni stessi - la persona dell’attore, i colori e la tela del pittore - dalia loro esistenza empirica e li rapisce in un altro mondo. Nessuno oserà negare che qui l’operazione espressiva realizza o effettua il significato e non si limita a tradurlo. Nonostante l’apparenza, lo stesso può dirsi dell’espressione dei pensieri tramite la parola. Il pensiero non è nulla di «interiore», non esiste fuori del mondo e fuori delle parole. A ingannarci in proposito, a farci credere a un pensiero che esisterebbe per sé prima dell’espressione, sono i pensieri già costituiti e già espressi che possiamo richiamare a noi silenziosamente, e in virtù dei quali ci diamo l’illusione di una vita interiore. Ma in realtà questo preteso silenzio è ronzante di parole, questa vita interiore è un linguaggio interiore. Il pensiero «puro» si riduce a un certo vuoto della coscienza, a un voto istantaneo. La nuova intenzione significante conosce se stessa solo ricoprendosi di significati già disponibili, risultato di precedenti atti d’espressione. I significati disponibili si intrecciano subito secondo una legge ignota, e, una volta per tutte, un nuovo essere culturale ha cominciato a esistere. Il pensiero e l’espressione si costituiscono quindi simultaneamente, quando il nostro patrimonio culturale si mobilita al servizio ci questa legge ignota, cosi come il nostro corpo si presta immediatamente a un gesto nuovo nell’acquisizione dell’abitudine. La parola è un autentico gesto e contiene il proprio senso allo stesso modo in cui il gesto contiene il suo. È ciò che rende possibile la comunicazione. Perché io comprenda le parole dell’altro, è necessario, evidentemente, che il suo vocabolario e la sua sintassi mi siano «già noti». Ma ciò non significa che le parole agiscano suscitando in me delle «rappresentazioni», le quali sarebbero associate a esse e la cui unione finirebbe con il riprodurre in me la «rappresentazione» originale di colui che parla. Io non comunico primamente con delle «rappresentazioni» o con un pensiero, ma con un soggetto parlante, con un certo stile d’essere e con il «mondo» a cui esso tende. Come l’intenzione significante che ha suscitato la parola altrui non è un pensiero esplicito, ma una certa mancanza che cerca di colmarsi, cosi la ripresa che io effettuo di questa intenzione non è una operazione del mio pensiero, ma una modulazione sincronica della mia propria esistenza, una trasformazione del mio essere. Noi viviamo in un mondo in cui la parola è istituita. Per tutte queste parole banali, possediamo in noi stessi


significati già formati. Esse non suscitano in noi se non pensieri secondi: a loro volta questi si traducono in altre parole che non esigono da noi nessun autentico sforzo d’espressione e non chiederanno ai nostri ascoltatori nessuno sforzo di comprensione. Cosi, il linguaggio e la comprensione del linguaggio sembrano ovvietà. Il mondo linguistico e intersoggettivo non ci sorprende più, non lo distinguiamo più dal mondo stesso, ed è all’interno di un mondo già parlato e parlante che noi riflettiamo. Perdiamo coscienza di ciò che vi è di contingente nell’espressione e nella comunicazione, sia nel fanciullo che impara a parlare, sia nello scrittore che dice e pensa per la prima volta qualche cosa, infine in tutti coloro che trasformano in parola un certo silenzio. Tuttavia, non si può negare che la parola costituita, quale agisce nella vita quotidiana, presuppone come compiuto il passo decisivo dell’espressione. La nostra visione dell’uomo rimarrà superficiale finché non risaliremo a questa origine, finché non ritroveremo, sotto il brusio delle parole, il silenzio primordiale, finché non descriveremo il gesto che rompe questo silenzio. La psicologia moderna13 ha dimostrato che lo spettatore non cerca in se stesso e nella sua esperienza intima il senso dei gesti di cui è testimone. Prendiamo un gesto di collera o di minaccia: per comprenderlo, io non ho bisogno di ricordare i sentimenti che ho provato quando eseguivo per conto mio i medesimi gesti. Conosco malissimo, dall’interno, la mimica della collera, e quindi all’associazione per somiglianza o al ragionamento per analogia mancherebbe un elemento decisivo; del resto, non percepisco la collera o la minaccia come un fatto psichico nascosto dietro il gesto, leggo la collera nel gesto, il gesto non mi fa pensare alla collera, ma è la collera stessa. Con tutto ciò il senso del gesto non è percepito come lo è, per esempio, il colore del tappeto. Se esso mi fosse dato come una cosa, non potremmo spiegarci perché la mia comprensione dei gesti si limiti perlopiù ai gesti umani. Io non «comprendo» la mimica sessuale del cane, tanto meno quella del maggiolino o della mantide religiosa. Non comprendo nemmeno l’espressione delle emozioni nel primitivo o in ambienti troppo diversi dal mio. Un fanciullo può comprendere una scena sessuale, di cui per caso è stato testimonio, senza avere l’esperienza del desiderio e degli atteggiamenti corporei che lo traducono, ma la scena sessuale sarà solo uno spettacolo inconsueto e inquietante, non avrà senso, se il fanciullo non ha ancora raggiunto il grado di maturità sessuale in cui questo comportamento diviene per lui possibile. È vero che spesso la conoscenza dell’altro illumina la conoscenza di sé: lo spettacolo esterno rivela al fanciullo il senso dei suoi propri impulsi proponendo a questi uno scopo. Ma l’esempio passerebbe inosservato se non si incontrasse con le possibilità interne del fanciullo. Il senso dei gesti non è dato ma compreso, cioè riafferrato da un atto dello spettatore. Tutta la difficoltà consiste nel concepire opportunamente questo atto e nel non confonderlo con una operazione conoscitiva. La comunicazione o la comprensione dei gesti è resa possibile dalla reciprocità delle mie intenzioni e dei gesti altrui, dei miei gesti e delle intenzioni leggibili nella condotta altrui. Tutto avviene come se l’intenzione dell’altro abitasse il mio corpo o come se le mie intenzioni abitassero il suo. Il gesto di cui io sono testimone traccia come il disegno punteggiato di un oggetto intenzionale. Questo oggetto diviene attuale ed è pienamente compreso quando i poteri del mio corpo vi si conformano e combaciano con esso. Il gesto è di fronte a me come un quesito, mi indica certi punti sensibili del mondo, ove mi invita a raggiungerlo. La comunicazione si compie quando la mia condotta trova in questo cammino il suo proprio cammino. Cosi, io confermo l’altro e l’altro conferma me. È qui necessario restituire l’esperienza dell’altro deformata dalle analisi intellettualistiche, allo stesso modo in cui dovremo restituire l’esperienza percettiva della cosa. Quando percepisco una cosa - per esempio un camino -, non è la concordanza dei suoi diversi aspetti a farmi dedurre l’esistenza del camino come geometrale e significato comune di tutte queste prospettive, ma viceversa io percepisco la cosa nella sua evidenza propria e ciò mi dà la certezza di


ottenerne, tramite lo svolgimento dell’esperienza percettiva, una serie indefinita di vedute concordanti. L’identità della cosa attraverso l’esperienza percettiva non è se non un altro aspetto dell’identità del corpo proprio durante i movimenti di esplorazione, e quindi le è congenere: come lo schema corporeo, cosi il camino è un sistema di equivalenze che non è fondato sul riconoscimento di qualche legge, ma sull’esperienza di una presenza corporea. Con il mio corpo io mi impegno fra le cose, esse coesistono con me in quanto soggetto incarnato, e questa vita nelle cose non ha nulla in comune con la costruzione degli oggetti scientifici. Parimenti, io non comprendo i gesti dell’altro mediante un atto di interpretazione intellettuale, la comunicazione delle coscienze non è fondata sul senso comune delle loro esperienze, ma, in egual misura, lo fonda: si deve riconoscere come irriducibile il movimento mediante il quale io mi presto allo spettacolo, cui accedo in una specie di riconoscimento cieco che precede la definizione e l’elaborazione intellettuale del senso. Intere generazioni «comprendono» e compiono i gesti sessuali, per esempio il gesto della carezza, prima che il filosofo14 ne definisca il significato intellettuale, consistente nel racchiudere in se stesso il corpo passivo, nel mantenerlo nel sonno del piacere, nell’interrompere il movimento continuo grazie al quale esso si proietta nelle cose e verso gli altri. Io comprendo l’altro tramite il mio corpo, come tramite questo corpo percepisco delle «cose». Il senso del gesto cosi «compreso» non è dietro di esso, ma si confonde con la struttura del mondo che il gesto delinea e che io riprendo per mio conto, si diffonde sul gesto stesso; analogamente, nell’esperienza percettiva, il significato del camino non è al di là dello spettacolo sensibile e del camino stesso, quale lo trovano nel mondo i miei sguardi e i miei movimenti. Al pari di tutti gli altri, il gesto linguistico delinea da sé il suo senso. Di primo acchito questa idea ci lascia sorpresi, eppure siamo costretti ad accoglierla se vogliamo comprendere l’origine del linguaggio, problema sempre pressante, ancorché gli psicologi e i linguisti siano d’accordo nel rifiutarlo in nome del sapere positivo. Sulle prime sembra impossibile assegnare un significato immanente sia alle parole che ai gesti: infatti, il gesto si limita ad indicare un certo rapporto fra l’uomo e il mondo sensibile, questo mondo è dato allo spettatore dalla percezione naturale, e cosi l’oggetto intenzionale è offerto al testimone contemporaneamente al gesto stesso. Viceversa, la gesticolazione verbale ha di mira un paesaggio mentale che dapprima non è dato a tutti e che essa deve appunto comunicare. Ma è la cultura a fornire qui ciò che la natura non dà. I significati disponibili, ossia i precedenti atti d’espressione, stabiliscono fra i soggetti parlanti un mondo comune al quale la parola attuale e nuova si riferisce cosi come il gesto si riferisce al mondo sensibile. E il senso della parola non è altro che il modo in cui essa manipola tale mondo linguistico o in cui modula su questa tastiera i significati acquisiti. Io lo colgo in un atto indiviso, breve quanto un grido. È vero che il problema è solo rimandato: come si sono costituiti questi stessi significati disponibili? Una volta formatosi il linguaggio, non si ha difficoltà ad ammettere che sullo sfondo mentale comune la parola può significare come un gesto. Ma le forme sintattiche e quelle del vocabolario, qui presupposte, portano forse in se stesse il loro senso? È facile vedere quanto c’è di comune fra il gesto e il suo senso, per esempio fra l’espressione delle emozioni e le emozioni stesse: il sorriso, il volto disteso, l’allegria dei gesti contengono realmente il ritmo d’azione, il modo d’essere al mondo, che sono la gioia stessa. Viceversa, il nesso fra il segno verbale e il suo significato non è forse totalmente fortuito, come dimostra abbastanza bene l’esistenza di più linguaggi? E la comunicazione degli elementi del linguaggio fra il «primo uomo che abbia parlato» e il secondo non è stata necessariamente eterogenea rispetto alla comunicazione mediante gesti? È quanto si esprime di solito dicendo che il gesto o la mimica emozionale sono «segni naturali», la parola un «segno convenzionale». Ma le convenzioni sono un modo tardivo di relazione fra gli


uomini, presuppongono una comunicazione preliminare e si deve ricollocare il linguaggio in questa corrente comunicativa. Se consideriamo solamente il senso concettuale e terminale delle parole, è vero che la forma verbale - eccettuate le desinenze -sembra arbitraria. Le cose cambierebbero se considerassimo il senso emozionale della parola (ciò che prima abbiamo chiamato il suo senso gestuale) che, per esempio, è essenziale nella poesia. Allora ci si renderebbe conto che le parole, le vocali, i fenomeni sono altrettanti modi di cantare il mondo e che sono destinati a rappresentare gli oggetti, non in ragione di una somiglianza oggettiva, come credeva l’ingenua teoria delle onomatopee, ma perché ne estraggono e, nel senso proprio del termine, ne esprimono l’essenza emozionale. Se da un vocabolario si potesse defalcare ciò che è dovuto alle leggi meccaniche della fonetica, alle contaminazioni delle lingue straniere, alla razionalizzazione dei grammatici, all’imitazione della lingua per se stessa, si scoprirebbe certo, all’origine di ogni lingua, un sistema d’espressione abbastanza ridotto, ma tale, per esempio, che non sia arbitrario chiamare luce la luce se si chiama notte la notte. La preponderanza delle vocali in una lingua, delle consonanti in un’altra, i sistemi di costruzione e di sintassi non rappresenterebbero altrettante convenzioni arbitrarie per esprimere il medesimo pensiero, ma pia modi per il corpo umano di celebrare il mondo e, in definitiva, di viverlo. Da ciò dipenderebbe il fatto che il senso pieno di una lingua non è mai traducibile in un’altra. Possiamo parlare varie lingue, ma una di esse resta quella in cui viviamo. Per assimilare completamente una lingua, si dovrebbe assumere il mondo che essa esprime, e non si appartiene mai contemporaneamente a due mondi.15 Se c’è un pensiero universale, lo si ottiene riprendendo lo sforzo d’espressione e di comunicazione cosi come è stato tentato da una lingua assumendo tutti gli equivoci, tutti gli slittamenti di senso di cui una tradizione linguistica è fatta e che danno la misura esatta della sua potenza espressiva. Un algoritmo convenzionale - che del resto ha senso solo se riferito al linguaggio - non esprimerà mai altro che la Natura senza l’uomo. A rigore non ci sono quindi segni convenzionali, semplice annotazione di un pensiero puro e chiaro per se stesso, ci sono solo parole nelle quali si condensa la stona di tutta una lingua e che compiono la comunicazione senza alcuna garanzia, in mezzo a incredibili vicissitudini linguistiche. Se ci sembra sempre che il linguaggio è più trasparente della musica, ciò è dovuto al fatto che perloppiú rimaniamo nel linguaggio costituito, ci diamo dei significati disponibili e, come il dizionario, nelle nostre definizioni ci limitiamo a indicare delle equivalenze tra di essi. Il senso di una frase ci sembra intelligibile da cima a fondo, distaccabile da questa frase stessa e definito in un mondo intelligibile, poiché presupponiamo come date tutte le partecipazioni che essa deve alla storia della lingua e che contribuiscono a determinarne il senso. Nella musica non è invece presupposto nessun vocabolario, il senso appare legato alla presenza empirica dei suoni, e per questo motivo la musica ci sembra muta. Ma in realtà, come abbiamo detto, la chiarezza del linguaggio si stabilisce su uno sfondo oscuro, e se spingiamo la ricerca abbastanza lontano, troveremo infine che anche il linguaggio non esprime null’altro che se stesso, o che il suo senso non è da esso separabile. I primi abbozzi del linguaggio andrebbero quindi cercati nella gesticolazione emozionale, mediante la quale l’uomo sovrappone al mondo dato il mondo secondo l’uomo. Non vi è qui nulla di simile alle celebri concezioni naturalistiche che riconducono il segno artificiale al segno naturale e tentano di ridurre il linguaggio all’espressione delle emozioni. Il segno artificiale non è riconducibile al segno naturale perché nell’uomo non ci sono segni naturali, e, accostando il linguaggio alle espressioni emozionali, non si compromette ciò che esso ha di specifico, se è vero che già l’emozione, in quanto variazione del nostro essere al mondo, è contingente rispetto ai dispositivi meccanici contenuti nel nostro corpo, e manifesta quello stesso potere di strutturazione degli stimoli e delle situazioni che raggiunge il suo apice al livello del linguaggio. Si potrebbe parlare di «segni naturali» se, a dati «stati di coscienza»,


l’organizzazione anatomica del nostro corpo facesse corrispondere gesti definiti. Orbene, di fatto la mimica della collera o quella dell’amore non è la medesima in un giapponese e in un occidentale. Per essere più precisi, la differenza delle mimiche nasconde una differenza delle emozioni stesse. Non solo il gesto è, contingente rispetto all’organizzazione corporea, ma lo è pure il modo stesso di accogliere la situazione e di viverla. Il giapponese in collera sorride, l’occidentale arrossisce e batte il piede, oppure impallidisce e parla con voce stridente. Non è sufficiente che due soggetti coscienti abbiano gli stessi organi e lo stesso sistema nervoso perché le medesime emozioni si diano in entrambi i medesimi segni. Ciò che importa è il modo in cui essi fanno uso del loro corpo, è la strutturazione simultanea del loro corpo e del loro mondo nell’emozione. La costituzione psicosomatica lascia aperte moltissime possibilità e, come nella sfera degli istinti, anche qui non c’è una natura umana data definitivamente. L’uso che un uomo farà del suo corpo è trascendente rispetto a questo corpo in quanto essere semplicemente biologico. Gridare nella collera o baciare nell’amore16 non è più naturale o meno convenzionale che chiamare tavolo un tavolo. I sentimenti e i comportamenti passionali sono inventati come le parole. Anche quelli che, come la paternità, sembrano inscritti nel corpo umano, in realtà sono istituzioni.17 Nell’uomo è impossibile sovrapporre un primo strato di comportamenti che chiameremmo «naturali» e un mondo culturale o spirituale fabbricato. In lui tutto è fabbricato e tutto è naturale, nel senso che non c’è una parola, una condotta la quale non debba qualcosa all’essere semplicemente biologico - la quale, al tempo stesso, non si sottragga alla semplicità della vita animale, non allontani dal loro senso i comportamenti vitali, grazie a una specie di sfuggimento e a un genio dell’equivoco che potrebbero servire a definire l’uomo. Già la semplice presenza di un essere vivente trasforma il mondo fisico, fa apparire qui dei «cibi», altrove un «nascondiglio», dà agli «stimoli» un senso che essi non avevano. A maggior ragione la presenza di un uomo nel mondo animale. I comportamenti creano significati che sono trascendenti rispetto al dispositivo anatomico, e tuttavia immanenti al comportamento come tale poiché esso viene comunicato e compreso. Non si può fare l’inventario di questa potenza irrazionale che crea i significati e li comunica. La parola ne è solo un caso particolare. Tutt’al più, si può dire a ragione - giustificando così la posizione particolare che di solito si riconosce al linguaggio - che, unica fra tutte le operazioni espressive, la parola è capace di sedimentare e di costituire una acquisizione intersoggettiva. Non si spiega questo fatto notando che la parola può essere registrata sulla carta, mentre i gesti e i comportamenti non si trasmettono se non attraverso l’imitazione diretta. Infatti, anche la musica può essere scritta e, quantunque ci sia in musica qualcosa come una iniziazione tradizionale - quantunque sia forse impossibile accedere alla musica atonale senza passare per la musica classica -,ogni artista riprende il lavoro dall’inizio, ha un nuovo mondo da portare alla luce, mentre nell’ordine della parola ogni scrittore è cosciente di aver di mira lo stesso mondo di cui si occupavano già gli altri scrittori: il mondo di Balzac e il mondo di Stendhal non sono come pianeti senza comunicazione, la parola installa in noi l’idea di verità come limite presuntivo del suo sforzo. Essa dimentica se stessa come fatto contingente, riposa su se stessa, e, come abbiamo visto, è ciò a darci l’ideale di un pensiero senza parola, mentre l’idea di una musica senza suoni è assurda. Anche se questa è un’idea-limite e un controsenso, anche se il senso di una parola non può mai essere liberato dalla sua inerenza a qualche parola, rimane il fatto che, nel caso della parola, l’operazione espressiva può essere reiterata indefinitamente, che si può parlare sulla parola, mentre non si può dipingere sulla pittura, e che infine ogni filosofo ha pensato a una parola che le terminasse tutte, mentre il pittore o il musicista non spera di dar fondo a ogni pittura o ogni musica possibile. C’è quindi un privilegio della Ragione. Ma appunto per comprenderlo bene, è necessario cominciare con il ricollocare il pensiero fra i fenomeni d’espressione.


Questa concezione del linguaggio prolunga le migliori e più recenti analisi dell’afasia che in precedenza abbiamo utilizzato solo in parte. All’inizio abbiamo visto che, dopo un periodo empiristico, la teoria dell’afasia, a cominciare da Pierre Marie, sembrava passare all’intellettualismo, abbiamo visto che, nei disturbi del linguaggio, tale teoria chiamava in causa la «funzione di rappresentazione» (Darstellungsfunktion), o l’attività «categoriale»,18 facendo riposare la parola sul pensiero. In realtà, essa non si avvia verso un nuovo intellettualismo. Che lo sappiano o meno, gli autori cercano di formulare ciò che noi chiameremo una teoria esistenziale dell’afasia, cioè una teoria che tratti il pensiero e il linguaggio oggettivo come due manifestazioni dell’attività fondamentale attraverso la quale l’uomo si proietta verso un «mondo».19 Prendiamo, per esempio, l’amnesia dei nomi di colore. Con le prove di assortimento si dimostra che il malato ha perduto la capacità generale di sussumere i colori sotto una categoria, e si ricollega la deficienza verbale a questa stessa causa. Ma se ci rifacciamo alle descrizioni complete, vediamo che, prima di essere un pensiero o una conoscenza, l’attività categoriale è un certo modo di riferirsi al mondo, e, correlativamente, uno stile o una configurazione dell’esperienza. In un soggetto normale la percezione del mucchietto di campioni si organizza in funzione delle istruzioni impartite: «I colori che appartengono alla medesima categoria del campione modello si staccano sullo sfondo degli altri»,20 tutti i rossi, per esempio, costituiscono un insieme e il soggetto deve solo smembrare questo insieme per riunire tutti i campioni che ne fanno parte. Per contro, nel caso del malato, ogni campione è confinato nella sua esistenza individuale. Alla costituzione di un insieme secondo un principio dato questi campioni oppongono una specie di viscosità o di inerzia. Quando due colori oggettivamente simili sono presentati al malato, non appaiono necessariamente simili: può accadere che nell’uno domini il tono fondamentale, nell’altro il grado di chiarezza o di calore.21 Possiamo ottenere un’esperienza di questo tipo ponendoci di fronte a un mucchietto di campioni in un atteggiamento di percezione passiva: i colori identici si raggruppano sotto il nostro sguardo, ma tra i colori semplicemente simili si instaurano relazioni incerte, «il mucchietto sembra instabile, si muove, constatiamo un mutamento incessante, una specie di lotta fra vari raggruppamenti possibili di colori secondo diversi punti di vista».22 Siamo ridotti all’esperienza immediata delle relazioni (Kohärenzerlebnis, Erlebnis des Passens) e tale è senza dubbio la situazione del malato. Avevamo torto quando dicevamo che egli non può attenersi a un dato principio di classificazione e che va dall’uno all’altro: in realtà, non ne adotta mai nessuno.23 Il disturbo concerne «il modo in cui i colori si raggruppano per l’osservatore, il modo in cui il campo visivo si articola dal punto di vista dei colori».24 Non è in causa solamente il pensiero o la conoscenza, ma l’esperienza normale comporta «circoli» o «vortici» all’interno dei quali ogni elemento è rappresentativo di tutti gli altri e porta come dei «vettori» che lo collegano a essi. Nel malato «... questa vita si riduce entro limiti più angusti e, confrontata al mondo percepito dal soggetto normale, si muove in circoli più piccoli e ristretti. Un movimento che nasce alla periferia del vortice non si propaga più in modo istantaneo sino al suo centro, ma rimane, per così dire, all’interno della zona eccitata o si trasmette solo alle zone immediatamente circostanti. Unità di senso maggiormente comprensive non possono piò essere costruite all’interno del mondo percepito ... Anche qui, ogni impressione sensibile è investita da un “vettore di senso”, ma questi vettori non hanno più una direzione comune, non si orientano più verso determinati centri principali, divergono molto di più che nel soggetto normale».25 Tale è il disturbo del «pensiero» che si scopre in fondo all’amnesia; appare chiaro che esso concerne meno il giudizio che il contesto d’esperienza nel quale nasce il giudizio, meno la spontaneità che le prese di questa spontaneità sul mondo sensibile e il nostro potere di configurare in tale mondo una intenzione


qualsiasi. In termini kantiani: il disturbo colpisce meno l’intelletto che l’immaginazione produttiva. L’atto categoriale non è quindi un fatto ultimo, ma si costituisce in un certo «atteggiamento» (Einstellung). Su questo atteggiamento è fondata anche la parola, cosicché sarebbe assurdo far riposare il linguaggio sul pensiero. «Il comportamento categoriale e il possesso del linguaggio significativo esprimono un solo e medesimo comportamento fondamentale. Nessuno dei due potrebbe essere causa o effetto.»26 In primo luogo il pensiero non è un effetto del linguaggio. È vero che alcuni malati,27 incapaci di raggruppare i colori confrontandoli con un dato campione, ci riescono con la mediazione del linguaggio: essi nominano il colore del modello e in seguito riuniscono tutti i campioni ai quali conviene lo stesso nome, senza guardare il modello. È vero, anche, che certi fanciulli anormali28 classificano insieme dei colori, anche differenti, se si è insegnato loro a designarli con lo stesso nome. Ma questi sono appunto procedimenti anormali che esprimono non il rapporto essenziale fra il linguaggio e il pensiero, ma il rapporto patologico o accidentale fra un linguaggio e un pensiero egualmente astratti dal loro senso vivente. In realtà, molti malati sono capaci di ripetere i nomi dei colori senza però poterli classificare. Nei casi di afasia amnesica «non può quindi essere la semplice mancanza della parola a rendere difficile o impossibile il comportamento categoriale. Le parole devono aver perduto qualcosa che normalmente posseggono e che le rende idonee a essere impiegate in rapporto al comportamento categoriale.»29 Che cos’hanno dunque perduto? Forse il loro significato nozionale? Si deve dire che il concetto si è ritirato da esse e, di conseguenza, fare del pensiero la causa del linguaggio? Ma è manifesto che, quando perde il suo senso, la parola si modifica perfino nel suo aspetto sensibile, si svuota.30 L’amnesico a cui si fornisce un nome di colore, pregandolo di scegliere un campione corrispondente, ripete il nome come se da ciò s’attendesse qualcosa. Ma il nome non gli serve più a nulla, non gli dice più nulla, è estraneo e assurdo, come per noi i nomi che ripetiamo troppe volte.31 Talvolta, quei malati per i quali le parole hanno perduto il loro senso, conservano al grado più elevato la capacità di associare le idee.32 Il nome non è quindi staccato dalle vecchie «associazioni», ma si è alterato esso stesso, come un corpo inanimato. Il nesso intercorrente fra la parola e il suo senso vivente non è un nesso esteriore d’associazione, il senso abita la parola, e il linguaggio «non è un accessorio esteriore dei processi intellettuali».33 Come dicevamo prima, si è quindi indotti a riconoscere un significato gestuale o esistenziale della parola. Il linguaggio ha si un’interiorità, ma questa interiorità non è un pensiero chiuso in sé e autocosciente. Se non esprime dei pensieri, che cosa esprime quindi il linguaggio? Esso presenta o piuttosto è la presa di posizione del soggetto nel mondo dei suoi significati. Il termine «mondo» non è qui un modo di dire, ma significa che la vita «mentale» o culturale deriva dalla vita naturale le proprie strutture e che il soggetto pensante deve essere fondato sul soggetto incarnato. Il gesto fonetico realizza, per il soggetto parlante e per coloro che l’ascoltano, una certa strutturazione dell’esperienza, una certa modulazione dell’esistenza, proprio come, per me e per l’altro, un comportamento del mio corpo investe di un certo significato gli oggetti che mi circondano. Il senso del gesto non è contenuto nel gesto come fenomeno fisico o fisiologico. Il senso della parola non è contenuto nella parola come suono. Ma il corpo umano è definito dalla sua appropriazione, in una serie indefinita di atti discontinui, di nuclei significativi che eccedono e trasfigurano i suoi poteri naturali. Questo atto di trascendenza lo incontriamo dapprima nell’acquisizione di un comportamento, poi nella comunicazione muta del gesto: è in virtù della medesima potenza che il corpo si dischiude a una condotta nuova e la fa comprendere a testimoni esterni. In entrambi i casi un sistema di poteri definiti si decentra istantaneamente, si rompe e si riorganizza sotto una legge che il soggetto o il testimonio esterno ignorano e che si rivela a essi in


quel momento stesso. Per esempio, raggrottamento delle sopracciglia, che secondo Darwin ha la funzione di proteggere l’occhio dal sole, o la convergenza degli occhi, destinata a permettere la visione nitida, divengono delle componenti dell’atto umano di meditazione e lo significano allo spettatore. A sua volta, il linguaggio non pone altri problemi: una contrazione della gola, una emissione di aria sibilante fra la lingua e i denti, una certa maniera di fruire del nostro corpo si lasciano subito investire da un senso figurato e lo significano fuori di noi. Ciò non è né più né meno miracoloso che l’emergere dell’amore nel desiderio o quello del gesto nei movimenti non coordinati dell’inizio della vita. Perché il miracolo si realizzi, è necessario che la gesticolazione fonetica utilizzi un alfabeto di significati già acquisiti, che il gesto verbale venga eseguito in un certo panorama comune agli interlocutori, come la comprensione degli altri gesti presuppone un mondo percepito comune a tutti ove il gesto si svolge e dispiega il suo senso. Ma questa condizione non basta: se è parola autentica, la parola fa sorgere un senso nuovo, allo stesso modo in cui, se è un gesto di iniziazione, il gesto dà per la prima volta un senso umano all’oggetto. Del resto, è pur necessario che i significati ora acquisiti siano stati significati nuovi. Si deve quindi riconoscere come un fatto ultimo questo potere aperto e indefinito di significare - cioè di cogliere e al tempo stesso di comunicare un senso -, in virtù del quale l’uomo si trascende verso un comportamento nuovo, o verso l’altro, o verso il suo proprio pensiero tramite il, suo corpo e la sua parola. Quando gli autori cercano di concludere l’analisi dell’afasia con una concezione generale del linguaggio,34 li si vede abbandonare in modo ancora più chiaro la terminologia intellettualistica che avevano adottato sulla scorta di Pierre Marie e per reazione contro le concezioni di Broca. Non possiamo dire né che la parola è una «operazione dell’intelligenza», né che è un «fenomeno motorio»: essa è per intero motilità e per intero intelligenza. La sua inerenza al corpo è attestata dal fatto che le affezioni del linguaggio non possono essere ridotte all’unità e che il disturbo primario concerne ora il corpo della parola, lo strumento materiale dell’espressione verbale, ora la fisionomia della parola, l’intenzione verbale, quella sorta di piano di insieme in base al quale riusciamo a dire o a scrivere una parola, ora il senso immediato della parola, ciò che gli autori tedeschi chiamano il concetto verbale, ora, infine, la struttura dell’intera esperienza, e non solo dell’esperienza linguistica, come nel caso di afasia amnesica che abbiamo analizzato prima. La parola riposa quindi su una stratificazione di poteri relativamente isolabili. Ma, al tempo stesso, in nessun luogo ci è dato di trovare un disturbo del linguaggio che sia «puramente motorio» e che in una certa misura non interessi il senso del linguaggio. Se, nell’alessia pura, il soggetto non può più riconoscere le lettere di una parola, ciò è dovuto alla sua incapacità di strutturare i dati visivi, di costituire la struttura della parola, di afferrarne il significato visivo. Nell’afasia motoria, l’elenco delle parole perdute e conservate non corrisponde ai loro caratteri oggettivi (lunghezza o complessità), ma al loro valore per il soggetto: il malato è incapace di pronunciare isolatamente una lettera o una parola all’interno di una serie motoria familiare, proprio perché non riesce a differenziare «figura» e «sfondo» e a conferire liberamente alla tal parola o alla tal lettera il valore di figura. La correzione articolare e la correzione sintattica sono sempre inversamente proporzionali: ciò dimostra che l’articolazione di una parola non è un fenomeno semplicemente motorio e fa appello alle medesime energie che organizzano l’ordine sintattico. A maggior ragione, quando si tratta di disturbi dell’intenzione verbale, come nella parafasia letterale (nella quale alcune lettere sono omesse, spostate o aggiunte e il ritmo della parola alterato), non si tratta evidentemente di una distruzione degli engrammi, ma di un livellamento della figura e dello sfondo, di un’incapacità di strutturare la parola e di coglierne la fisionomia articolare.35 Se vogliamo riassumere queste due serie di osservazioni, dovremo dire che ogni operazione linguistica presuppone l’apprensione di un senso, ma che in entrambi i casi il senso è


come specializzato; vi sono diversi strati di significato: dal significato visivo della parola sino a quello concettuale passando per il concetto verbale. Queste due idee non verranno mai comprese insieme se si continua a oscillare fra la nozione di «motilità» e quella di «intelligenza», e se non si scopre una terza nozione che permetta di integrarle, una funzione, identica a tutti i livelli, che sia all’opera tanto nelle preparazioni occulte della parola quanto nei fenomeni articolari, che sostenga tutto l’edificio del linguaggio e che però si stabilizzi in processi relativamente autonomi. Avremo modo di riconoscere questa potenza essenziale alla parola nei casi in cui né il pensiero, né la «motilità» sono sensibilmente colpiti, e in cui, tuttavia, la «vita» del linguaggio è alterata. Accade che il vocabolario, la sintassi, il corpo del linguaggio risultino intatti, salvo che vi predominano le preposizioni principali. Ma il malato non usa questi materiali come il soggetto normale. Se non lo si interroga, egli non parla quasi mai, o, se assume spontaneamente l’iniziativa di una domanda, si tratta sempre esclusivamente di domande stereotipate, come quelle che pone quotidianamente ai figli quando tornano da scuola. Egli non ricorre mai al linguaggio per esprimere una situazione semplicemente possibile, e le proposizioni false (il cielo è nero) sono per lui prive di senso. Egli può parlare solo se ha preparato le sue frasi.36 Non si può dire che in lui il linguaggio sia divenuto automatico, non c’è nessun segno di un indebolimento dell’intelligenza generale e le parole sono pur sempre organizzate in virtù del loro senso. Ma questo senso è come cristallizzato. Schneider non avverte mai il bisogno di parlare, la sua esperienza non tende mai verso la parola, non suscita mai in lui una questione, non perde mai quella specie di evidenza e di sufficienza del reale che soffoca ogni interrogazione, ogni riferimento al possibile, ogni stupore, ogni improvvisazione. Per contrasto, riconosciamo l’essenza del linguaggio normale: l’intenzione di parlare non può trovarsi se non in un’esperienza aperta, e appare, come l’ebollizione in un liquido, quando delle zone di vuoto si costituiscono nello spessore dell’essere e si spostano verso l’esterno. «Non appena l’uomo si vale del linguaggio per stabilire una relazione vivente con se stesso o con i suoi simili, il linguaggio non è più uno strumento, un mezzo, ma una manifestazione, una rivelazione dell’essere intimo e del legame psichico che ci unisce al mondo e ai nostri simili. Per quanto riveli molto sapere e sia utilizzabile per attività determinate, il linguaggio del malato manca totalmente di quella produttività che costituisce l’essenza più profonda dell’uomo e che in nessuna creazione della civiltà si rivela forse con tanta evidenza come nella creazione del linguaggio stesso.»37 Riprendendo una celebre distinzione, si potrebbe dire che i linguaggi, cioè i sistemi di vocabolario e di sintassi costituiti, i «mezzi d’espressione» che esistono empiricamente, sono il deposito e la sedimentazione degli atti di parola nei quali il senso inespresso non solo ha modo di tradursi all’esterno, ma pure acquista l’esistenza per se stesso, ed è autenticamente creato come senso. O ancora, si potrebbe distinguere una parola parlante e una parola parlata. La prima è quella nella quale l’intenzione significante si trova allo stato nascente. Qui l’esistenza si polarizza in un certo «senso» che non può essere definito da nessun oggetto naturale. È al di là dell’essere che essa cerca di ricongiungersi ed ecco perché crea la parola come sostegno empirico del suo proprio non-essere. La parola è l’eccedere della nostra esistenza sull’essere naturale. Ma l’atto d’espressione costituisce un mondo linguistico e un mondo culturale, fa ricadere nell’essere ciò che si protendeva oltre. Di qui la parola parlata che fruisce dei significati disponibili come di un patrimonio acquisito. Sulla base di queste acquisizioni divengono possibili altri atti di espressione autentica - quelli dello scrittore, dell’artista o del filosofo. Tale apertura sempre ricreata nella pienezza dell’essere è ciò che condiziona la prima parola del fanciullo come la parola dello scrittore, la costruzione della parola come quella dei concetti. Ecco la funzione che indoviniamo attraverso il linguaggio, che si ripete, poggia su se stessa, o che, come un’onda, si raccoglie e si riprende per proiettarsi al di là di se stessa.


Ancora meglio delle nostre osservazioni sulla spazialità e sull’unità corporee, l’analisi della parola e dell’espressione ci fa riconoscere la natura enigmatica del corpo proprio. Esso non è un aggregato di particelle ciascuna delle quali rimarrebbe in sé, o anche un intreccio di processi definiti una volta per tutte - esso non è dove è, non è ciò che è -, poiché lo vediamo secernere in se stesso un «senso» che non gli giunge da nessun luogo, proiettarlo sul suo mondo circostante fatto di materia e comunicarlo agli altri soggetti incarnati. Si è sempre notato che il gesto o la parola trasfigurano il corpo, ma ci si accontentava di dire che essi sviluppano o manifestano un’altra potenza, pensiero o anima. Non si vedeva che, per poterla esprimere, in ultima analisi il corpo deve divenire il pensiero o l’intenzione che esso ci significa. È il corpo a mostrare, è il corpo a parlare, ecco quanto abbiamo appreso in questo capitolo. Cézanne diceva di un ritratto: «Se dipingo tutti i piccoli blu e tutti i piccoli marrone, lo faccio guardare come guarda ... Al diavolo chi non capisce come, sposando un verde sfumato a un rosso, si rattristi una bocca o si faccia sorridere una guancia.»38 Questa rivelazione di un senso immanente o nascente nel corpo vivente si estende, come vedremo, a tutto il mondo sensibile, e il nostro sguardo, ammaestrato dall’esperienza del corpo proprio, ritroverà il miracolo dell’espressione in tutti gli altri «oggetti». In Peau de Chagrin Balzac descrive una «tovaglia bianca come una coltre di neve caduta di fresco e sulla quale si elevavano simmetricamente le posate coronate da panini biondi». «Per tutta la mia giovinezza» diceva Cézanne «ho voluto dipingere questa coltre di neve fresca ... Ora so che si deve voler dipingere solo il “si elevano simmetricamente le posate”, e il “panini biondi”. Se dipingo il “coronati”, sono spacciato, capite? E se veramente equilibro e sfumo le mie posate e i miei panini come dal vero, siate certi che ci saranno le corone, la neve e un sacco di altre cose.»39 II problema del mondo, e per cominciare quello del corpo proprio, consiste in ciò: che tutto vi rimane. La tradizione cartesiana ci ha abituati a separarci dall’oggetto: l’atteggiamento riflessivo purifica simultaneamente il concetto comune di corpo e quello di anima, definendo il corpo come una somma di parti senza interiorità e l’anima come un essere completamente presente a se stesso senza distanza. Queste definizioni correlative stabiliscono la chiarezza in noi e fuori di noi: trasparenza di un oggetto senza recessi, trasparenza di un soggetto il quale è solo ciò che pensa di essere. L’oggetto è oggetto da cima a fondo e la coscienza è coscienza da cima a fondo. Il termine esistere ha due significati, e due soltanto: si esiste come cosa o si esiste come coscienza. Per contro, l’esperienza del corpo proprio ci rivela un modo d’esistenza ambiguo. Se tento di pensarlo come un fascio di processi in terza persona - «vista», «motilità», «sessualità» -, mi accorgo che queste «funzioni» non possono essere collegate tra di esse e al mondo esterno da rapporti di causalità, ma sono tutte confusamente riprese e coinvolte in un dramma unico. Il corpo non è quindi un oggetto. Per lo stesso motivo, la coscienza che io ne ho non è un pensiero, vale a dire che non posso scomporlo e ricomporlo per formarne una idea chiara. La sua unità è sempre implicita e confusa. Esso è sempre altro da ciò che è, sempre sessualità nello stesso tempo che libertà, radicato nella natura nel medesimo istante in cui si trasforma mediante la cultura, mai chiuso in sé e mai superato. Sia che si tratti del corpo altrui o del mio proprio corpo, ho un solo modo di conoscere il corpo umano: viverlo, e cioè far mio il dramma che lo attraversa e confondermi con esso. Io sono dunque il mio corpo, per lo meno nella misura in cui ho un’esperienza, e reciprocamente il mio corpo è come un soggetto naturale, come un abbozzo provvisorio del mio essere totale. Cosi, l’esperienza del corpo proprio si oppone al movimento riflessivo che libera l’oggetto dal soggetto e il soggetto dall’oggetto, che ci dà esclusivamente il pensiero del corpo o il corpo in idea, e non l’esperienza del corpo o il corpo in realtà. Cartesio lo


sapeva bene, visto che in una celebre lettera a Elisabetta distingue il corpo quale è concepito dall’uso della vita, dal corpo quale è concepito dall’intelletto.40 Ma per lui, questo sapere singolare che noi abbiamo del nostro corpo solo perché siamo un corpo, rimane subordinato alla conoscenza per idee, giacché, dietro l’uomo quale è realmente, si trova Dio come artefice razionale della nostra situazione di fatto. Forte di questa garanzia trascendente, Cartesio può accettare serenamente la nostra condizione irrazionale: non siamo noi il fondamento della ragione e, una volta che l’abbiamo riconosciuta in fondo alle cose, non ci resta più che agire e pensare nel mondo.41 Ma se la nostra unione con il corpo è sostanziale, come potremmo esperire in noi stessi una anima pura, e di accedere qui a uno Spirito assoluto? Prima di porre questa domanda, vediamo bene tutto ciò che è implicito nella riscoperta del corpo proprio. Non è solo un oggetto fra tutti a resistere alla riflessione e a rimanere, per cosi dire, incollato al soggetto. L’oscurità si propaga per l’intero mondo percepito.


Note

1

Tale distinzione fra l’avere e l’essere non coincide con quella di G. Marcel (Etre et Avoir), quantunque non la escluda. Marcel attribuisce all’avere il senso debole che esso ha quando designa una relazione di proprietà (io ho una casa, ho un cappello) e all’essere il senso esistenziale di inerire a... o di assumere (io sono il mio corpo, sono la mia vita). Noi preferiamo tener conto dell’uso che annette al termine essere il senso debole dell’esistenza come cosa o della predicazione (il tavolo è o è grande) e, con la parola avere, designa il rapporto del soggetto con il termine nel quale esso si proietta (io ho un’idea, ho voglia, ho paura). Per questo motivo il nostro «avere» corrisponde press’a poco all’essere di Marcel e il nostro «essere» al suo avere.

2 Gelb 3 Per 4

e Goldstein, Über Farbennamenamnesie.

esempio Piaget, La représentation du monde chez l’enfant, pp. 60 sgg.

Naturalmente è opportuno distinguere una parola autentica, che formula per la prima volta, e una espressione seconda, una parola su parole, cioè quella che troviamo solitamente nel linguaggio empirico. Solo la prima è identica al pensiero.

5 Ancora

una volta, quanto diciamo qui si applica esclusivamente alla parola originaria, - quella del fanciullo che pronuncia la sua prima parola, dell’innamorato che scopre il proprio sentimento, quella del «primo uomo che abbia parlato», o quella dello scrittore e del filosofo che, al di qua delle tradizioni, risvegliano l’esperienza primordiale.

6 Nachdenken, 7 Sartre, 8

nachvollziehen di Husserl, Ursprung der Geometrie, pp. 212 sgg.

L’imagination, p. 148.

«...quando mi svegliavo cosi, mentre l’essere mio si agitava per cercar di sapere dove fossi, senza riuscirvi, tutto girava attorno a me nel buio: le cose, i paesi, gli anni. Il mio corpo, troppo intorpidito per muoversi, cercava secondo la natura della sua stanchezza di ritrovare la posizione delle proprie membra per dedurne la direzione della parete, il posto dei mobili, per ricostruire e dare un nome alla dimora dov’era. La memoria di sé, la memoria delle proprie costole, dei ginocchi, delle spalle, gli metteva dinanzi successivamente molte delle camere dove aveva dormito, e frattanto gli invisibili muri, mutando di posto a seconda della forma della stanza immaginata, gli turbinavano attorno nelle tenebre ... e il mio corpo, il fianco su cui riposavo, custodi fedeli di un passato che la mia mente non avrebbe dimenticato mai, mi ricordavano la fiamma della lampada di vetro di Boemia, dalla forma di urna, appesa al soffitto per mezzo di catenelle, il camino di marmo di Siena, nella mia camera a Combray, dai nonni, in giorni lontani che in quel momento mi figuravano presenti senza rappresentarmeli con precisione...» Proust, D«Côté de chez Swann, I, pp. 15-16 (trad. it. di N. Ginzburg, Torino 1963, pp. 8-9)

9 Cassirer,

Philosophie der symbolischen Formen, III, p. 383.


10 Goldstein,

L’analyse de l’aphasie et l’essence du langage, p. 459.

11 Proust,

op. cit., II, p. 192.

12 Proust,

Le Côté des Guermantes.

13 Per

esempio M. Scheler, Nature et formes de la sympathie, pp. 347 sgg.

14 Qui

J.-P. Sartre, L’Etre et le Néant, pp. 453 sgg.

15

«Nel mio caso, lo sforzo di anni per vivere come gli arabi e imitare la loro mentalità, mi spogliò della mia personalità inglese, e mi mostrò l’occidente e le sue convenzioni sotto un aspetto nuovo che lo distrusse completamente ai miei occhi. Ma allo stesso tempo non seppi arabizzarmi completamente; la mia era soltanto una affettazione. È facile per un uomo diventare un infedele; difficile convertirsi a una fede nuova. Mi ero spogliato di una forma senza assumerne un’altra, riducendomi come la bara di Maometto nella leggenda ... Un simile distacco si impadroniva a volte dell’uomo esaurito da uno sforzo fisico prolungato e da una vita di isolamento. Il suo corpo procedeva meccanicamente, abbandonato dalla mente, che dal di fuori l’osservava critica, chiedendosi come e perché agisse quel futile ammasso di argilla. Qualche volta queste personalità astratte si incontravano nel vuoto; in quei momenti la pazzia mi era molto vicina - credo che sarebbe venuta a chiunque vedesse le cose contemporaneamente attraverso il velo di due usanze, di due educazioni, di due ambienti.» Th. E. Lawrence, I sette pilastri della saggezza (trad. it. di E. Linder, Milano, Bompiani, 1963, pp. 26-27).

16 È

noto come il bacio non è in uso nei costumi tradizionali del Giappone.

17

Fra gli indigeni delle isole Tropbriand la paternità non è conosciuta. I fanciulli sono allevati sotto l’autorità dello zio materno. Tornando da un lungo viaggio, un marito si rallegra di trovare nuovi bambini nella sua casa. Egli se ne prende cura, veglia su di essi e li ama come i propri figli. Malinowski, The father in primitive psychology, citato da Bertrand Russell, Le mariage et la morale, Gallimard, 1930, p. 22.

18

Concetti di questo genere si trovano nei lavori di Head, Van Woerkom, Bouman e Grünbaum, e Goldstein.

19

Grünbaum, per esempio, dimostra (Aphasie und Motorik) che i disturbi afasici sono generali e al tempo stesso motori; in altri termini, egli fa della motilità un modo originale di intenzionalità o di significazione (cfr. sopra p. 197), ciò che, in ultima analisi, equivale a definire l’uomo non come coscienza ma come esistenza.

20 Gelb

e Goldstein, Über Farbennamenamnesie, p. 151.

21 Ibidem,

p. 149.

22 Ibidem,

pp. 151-152.


23 Ibidem,

p. 150.

24 Ibidem,

p. 162.

25 E.

Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen, t. III, p. 258.

26 Gelb

e Goldstein, op. cit., p. 158.

27 Ibidem. 28 Ibidem. 29 Ibidem. 30 Ibidem, 31 Ibidem 32

In presenza di un dato campione (rosso) li vediamo evocare il ricordo di un oggetto dello stesso colore (fragola) e, di qui, ritrovare il nome del colore (rosso fragola, rosso). Ibidem, p. 177.

33 Ibidem, 34 Cfr. 35

p. 158.

Goldstein, L’analyse de l’aphasie et l’essence du langage.

Goldstein, ibidem, p. 460. Goldstein è qui d’accordo con Grünbaum (Aphasie una Motorik) nel superare l’alternativa della concezione classica (Broca) e dei lavori moderni (Head). Grünbaum rimprovera ai moderni di «non mettere in primo piano l’esteriorizzazione motoria, e le strutture psicofisiche sulle quali essa riposa, come una sfera fondamentale che domina il quadro dell’afasia» (p. 386).

36 Benary,

Analyse eines Seelettblindes von der Sprache aus. Si tratta anche qui del caso Schneider, che noi abbiamo analizzato sotto il rapporto della motilità e della sessualità.

37 Goldstein, 38 J.

Gasquet, Cézanne, p. 117.

39 Ibidem, 40 A 41

ibidem, p. 496. Il corsivo è nostro.

pp. 123 sgg.

Elisabetta, 28 giugno 1643, AT, t. IlI, p. 690.

«Infine, poiché credo che è assai necessario aver ben compreso, una volta nella propria vita, i principi della metafisica, essendo questi principi a darci la conoscenza di Dio e della nostra anima, io credo anche che sarebbe assai nocivo tenere occupato sovente il proprio intelletto a


meditarli, giacché esso non potrebbe attendere bene alle funzioni dell’immaginazione e dei sensi. Pertanto, credo che la cosa migliore sia accontentarsi di ritenere nella propria memoria e nella propria fede le conclusioni che si sono tratte una volta, quindi impiegare il resto del tempo disponibile per lo studio ai pensieri nei quali l’intelletto agisce con l’immaginazione e con i sensi.» Ibidem.


PARTE SECONDA IL MONDO PERCEPITO


Il corpo proprio è nel mondo come il cuore nell’organismo: mantiene continuamente in vita lo spettacolo visibile, lo anima e lo alimenta internamente, forma con esso un sistema. Quando cammino nel mio appartamento, i diversi aspetti sotto i quali esso mi si offre non potrebbero apparirmi come i profili di una medesima cosa, se io non sapessi che ciascuno di essi rappresenta l’appartamento visto da qui o da li, se non avessi coscienza del mio proprio movimento, e del mio corpo come identico attraverso le fasi di questo movimento. Evidentemente, posso sorvolare con il pensiero l’appartamento, immaginarlo o disegnarne la pianta su un foglio, ma anche allora non potrei cogliere l’unità dell’oggetto senza la mediazione dell’esperienza corporea, giacché ciò che io chiamo una pianta non è se non una prospettiva più ampia: è l’appartamento «visto dall’alto», e se posso riassumere in essa tutte le prospettive abituali, lo posso a condizione di sapere che un medesimo soggetto incarnato può vedere, di volta in volta, da posizioni diverse. Si risponderà forse che ricollocando l’oggetto nell’esperienza corporea come uno dei poli di questa esperienza, lo priviamo di ciò che costituisce appunto la sua oggettività. Dal punto di vista del mio corpo io non vedo mai eguali le sei facce del cubo, anche se è di vetro, e tuttavia la parola «cubo» ha un senso, e il cubo stesso, il cubo in verità, al di là delle sue apparenze sensibili, ha le sue sei facce eguali. Man mano che giro attorno a esso, vedo la faccia frontale, che era un quadrato, deformarsi, poi scomparire, mentre appaiono le altre superna, ciascuna delle quali diviene, a vicenda, un quadrato. Ma per me lo svolgimento di questa esperienza è solo l’occasione di pensare il cubo totale con le sue sei facce eguali e simultanee, la struttura intelligibile che ne dà ragione. Inoltre, perché la mia deambulazione attorno al cubo motivi il giudizio «ecco un cubo», è necessario che i miei spostamenti siano anch’essi individuati nello spazio oggettivo e, escludendo che l’esperienza del movimento proprio condizioni la posizione di un oggetto, si affermerà viceversa che io posso decifrare l’apparenza percettiva e costruire il cubo vero, proprio con il pensare il mio corpo stesso come un oggetto mobile. Pertanto, l’esperienza del movimento proprio sarebbe solo una circostanza psicologica della percezione e non contribuirebbe a determinare il senso dell’oggetto. L’oggetto e il mio corpo formerebbero si un sistema, ma si tratterebbe di un fascio di correlazioni oggettive, e non, come dicevamo prima, di un insieme di corrispondenze vissute. L’unità dell’oggetto sarebbe pensata, e non esperita come il correlato di quella del nostro corpo. Ma l’oggetto può forse essere separato in questo modo dalle condizioni effettive sotto le quali ci è dato? Si può riunire discorsivamente la nozione di numero 6, quella di «lato» e quella di eguaglianza e collegarle in una formula che è la definizione del cubo. Ma, più che offrirci qualcosa da pensare, questa definizione ci pone un problema. Non si esce dal pensiero cieco e simbolico se non appercependo il singolo essere spaziale che assomma in sé tali predicati. Si tratta di delineare nel pensiero quella forma particolare che racchiude un frammento di spazio fra sei facce eguali. Orbene, se le parole «racchiudere» e «fra» hanno un senso per noi, lo hanno proprio perché lo derivano dalla nostra esperienza di soggetti incarnati. Nello spazio stesso, e senza la presenza di un soggetto psicofisico, non c’è nessuna direzione, nessun dentro, nessun fuori. Uno spazio è «racchiuso» fra i lati di un cubo cosi come noi siamo chiusi fra le pareti della nostra camera. Per poter pensare il cubo, noi prendiamo posizione nello spazio, ora sulla sua superficie, ora in esso, ora fuori di esso, e da quel momento lo vediamo in prospettiva. Il cubo dalle sei facce eguali è non solo invisibile, ma anche impensabile; è il cubo quale sarebbe per se stesso; ma il cubo non è per se stesso, giacché è un oggetto. C’è un primo dogmatismo, da cui ci libera l’analisi riflessiva,


consistente nell’affermare che l’oggetto è in sé o assolutamente, senza chiedersi che cos’è. Ma ce ne è un altro consistente nell’affermare il significato presuntivo dell’oggetto, senza chiedersi come esso entri nella nostra esperienza. L’analisi riflessiva sostituisce all’esistenza assoluta dell’oggetto il pensiero di un oggetto assoluto, e, volendo sorvolare l’oggetto, pensarlo senza punti di vista, essa ne distrugge la struttura interna. Se per me c’è un cubo dalle sei facce eguali e se posso accedere all’oggetto, non è perché io lo costituisca dall’interno, ma perché mi immergo nello spessore del mondo grazie all’esperienza percettiva. Il cubo dalle sei facce eguali è l’idea limite con la quale esprimo la presenza carnale del cubo che è là, sotto i miei occhi, sotto le mie mani, nella sua evidenza percettiva. I lati del cubo non ne sono proiezioni, ma appunto lati. Quando li appercepisco uno dopo l’altro e secondo l’apparenza prospettica, io non costruisco l’idea del geometrale che rende ragione di queste prospettive, ma il cubo è già là di fronte a me e si svela attraverso questi lati. Io non ho bisogno di ricorrere a una veduta oggettiva del mio proprio movimento e di tener conto di questo movimento per ricostruire la forma vera dell’oggetto dietro l’apparenza: il conto è già fatto, già la nuova apparenza è entrata in composizione con il movimento vissuto e si è offerta come apparenza di un cubo. La cosa e il mondo mi sono dati con le parti del mio corpo, non in virtù di una «geometria naturale», ma in una connessione vivente paragonabile o piuttosto identica a quella intercorrente fra le parti del mio corpo stesso. La percezione esterna e la percezione del corpo proprio variano insieme perché sono le due facce di un medesimo atto. Da molto tempo si è tentato di spiegare la famosa illusione di Aristotele con l’ammettere che l’insolita posizione delle dita rende impossibile la sintesi delle loro percezioni. Per solito il lato destro del medio e quello sinistro dell’indice non «lavorano» insieme, e se sono toccati entrambi contemporaneamente, devono allora esserci due biglie. In realtà, le percezioni delle due dita non sono solo disgiunte, ma anche invertite: il soggetto attribuisce all’indice ciò che è toccato dal medio e viceversa, come si può dimostrare applicando alle dita due stimoli distinti, per esempio una punta e una palla.1 L’illusione d’Aristotele è prima di tutto una perturbazione dello schema corporeo. A rendere impossibile la sintesi delle due percezioni tattili in un oggetto unico, non è tanto il fatto che la posizione delle dita è insolita o statisticamente rara, quanto il fatto che il lato destro del medio e quello sinistro dell’indice non possono concorrere a una esplorazione sinergica dell’oggetto, il fatto che Pincrocicchiamento delle dita, come movimento forzato, eccede le possibilità motorie delle dita stesse e non può essere perseguito in un progetto di movimento. Qui la sintesi dell’oggetto si realizza dunque attraverso la sintesi del corpo proprio, ne è la replica o il correlato: percepire una sola biglia e disporre delle due dita come di un organo unico è letteralmente la stessa cosa. La perturbazione dello schema corporeo può anche tradursi direttamente nel mondo esterno senza l’intervento di nessuno stimolo. Nell’allucinazione autoscopica, prima di vedere se stesso, il soggetto passa sempre per uno stato di sogno, di immaginazione sfrenata o d’angoscia, e l’immagine di se stesso che gli appare all’esterno è solo l’altra faccia di questa spersonalizzazione.2 Il malato si sente nel duplicato che è fuori di lui come, in un ascensore che sale e si ferma bruscamente, io sento la sostanza del mio corpo fuggire da me attraverso la mia testa e oltrepassare i limiti del mio corpo oggettivo. È nel suo proprio corpo che il malato sente la vicinanza di questo Altro che egli non ha mai visto con i suoi occhi, allo stesso modo in cui il soggetto normale riconosce da un certo bruciore della nuca che qualcuno dietro di lui lo guarda.3 Reciprocamente, una certa forma di esperienza esterna implica e induce una certa coscienza del corpo proprio. Molti malati parlano di un «sesto senso» che darebbe loro le allucinazioni. Il soggetto di Stratton, il cui campo visivo è stato oggettivamente invertito, vede dapprima gli oggetti capovolti; nel terzo giorno dell’esperienza, quando gli oggetti cominciano a riprendere k loro posizione diritta, egli è pervaso


«dalla strana impressione di guardare il fuoco con la parte posteriore della testa».4 Il fatto è che c’è una equivalenza immediata fra l’orientamento del campo visivo e la coscienza del corpo proprio come potenza di questo campo, cosicché la perturbazione sperimentale può indifferentemente tradursi nel capovolgimento degli oggetti fenomenici o in una ridistribuzione nel corpo delle funzioni sensitive. Se l’occhio di un soggetto si accomoda per vedere a grande distanza, questo oggetto ha una immagine doppia del proprio dito come di tutti gli oggetti vicini. Se lo si tocca o lo si punge, egli percepisce un contatto o una puntura doppia.5 La diplopia si prolunga quindi in uno sdoppiamento del corpo. Ogni percezione esterna è immediatamente sinonimo di una percezione del mio corpo allo stesso modo in cui ogni percezione del mio corpo si esplicita nel linguaggio della percezione esterna. Se ora, come abbiamo visto, il corpo non è un oggetto trasparente e non ci è dato, come il circolo al geometra, dalla sua legge di costituzione, se è una unità espressiva che possiamo imparare a conoscere solo con l’assumerla, questa struttura si comunicherà al mondo sensibile. La teoria dello schema corporeo è implicitamente una teoria della percezione. Abbiamo reimparato a sentire il nostro corpo, abbiamo ritrovato sotto il sapere oggettivo e distante del corpo quest’altro sapere che ne abbiamo perché esso è sempre con noi e perché noi siamo corpo. Ugualmente si dovrà risvegliare l’esperienza del mondo cosi come ci appare in quanto noi siamo al mondo in virtù del nostro corpo, in quanto percepiamo il mondo con il nostro corpo. Ma riprendendo cosi contatto con il corpo e con il mondo, ritroveremo anche noi stessi, giacché, se si percepisce con il proprio corpo, il corpo è un io naturale e come il soggetto della percezione.


Note

1 Tastevin, 2

Czermak, Schilder, citati da Lhermitte, L’image de notre corps, pp. 36 sgg.

Lhermitte, op. cit., pp. 136-188. Cfr. p. 191: «Durante la durata dell’auto-scopia il soggetto è pervaso da un sentimento di tristezza la cui estensione si irradia in modo tale da penetrare la stessa immagine di sé, la quale sembra essere animata da vibrazioni affettive identiche a quelle sentite dall’originale» ; «la sua coscienza sembra uscita fuori di se stessa.» E Menninger-Lerchenthal, Dos Truggebilde der eigenen Gestalt, p. 180: «Improvvisamente ho avuto l’impressione di essere fuori del mio corpo.»

3 Jaspers,

citato da Menninger-Lerchenthal, ibidem, p. 76.

4 Stratton,

Vision without inversion of the retine image, p. 350.

5 Lhermitte,

ibidem, p. 39.


I. Il sentire

Il pensiero oggettivo ignora il soggetto della percezione. Esso si dà infatti il mondo bell’e fatto, come contesto di ogni evento possibile, e tratta la percezione come uno di questi eventi. Per esempio, il filosofo empirista considera un soggetto X nell’atto di percepire e cerca di descrivere ciò che accade: ci sono sensazioni che sono degli stati o modi di essere del soggetto e, a questo titolo, vere e proprie cose mentali. Il soggetto percipiente è il luogo di queste cose e il filosofo descrive le sensazioni e il loro sostrato come si descrive la fauna di un paese lontano - senza rendersi conto che egli stesso percepisce, senza accorgersi di essere il soggetto percipiente e che la percezione, cosi come viene vissuta da lui, smentisce tutto ciò che egli dice della percezione in generale. Infatti, vista dall’interno, la percezione non deve nulla a ciò che per altra via sappiamo sul mondo, sugli stimoli quali li descrive la fisica e sugli organi di senso quali li descrive la biologia. Anzitutto essa non si dà come un evento nel mondo, al quale si possa applicare, per esempio, la categoria di causalità, ma come una ricreazione o una ricostituzione del mondo in ogni momento. Se crediamo a un passato del mondo, a un mondo fisico, agli stimoli, all’organismo quale ce lo rappresentano i nostri libri, è perché abbiamo un campo percettivo presente e attuale, una superficie di contatto con il mondo o un radicamento perpetuo in esso, perché il mondo viene incessantemente ad aggredire e investire le soggettività come le onde circondano un relitto sulla spiaggia. Tutto il sapere si installa negli orizzonti aperti dalla percezione. Non ha senso descrivere la percezione stessa come uno dei fatti che accadono nel mondo, giacché, nel quadro del mondo, non possiamo mai cancellare quella lacuna che noi siamo e attraverso la quale esso viene a esistere per qualcuno, giacché la percezione è il «difetto» di questo «grande diamante». L’intellettualismo rappresenta certo un progresso nella presa di coscienza: quel luogo fuori del mondo, che il filosofo empirista sottintendeva e in cui si poneva tacitamente per descrivere l’evento della percezione, ora riceve un nome, figura nella descrizione. È l’Ego trascendentale. Con ciò, tutte le tesi dell’empirismo si trovano capovolte: lo stato di coscienza diviene la coscienza di uno stato, la passività posizione di una passività. Il mondo diviene il correlato di un pensiero del mondo e non esiste più se non per un soggetto costituente. Eppure, resta vero che anche l’intellettualismo si dà il mondo bell’e fatto. La costituzione del mondo, così come la concepisce l’intellettualismo, è infatti una semplice clausola di stile: a ogni termine della descrizione empiristica si aggiunge il coefficiente «coscienza di...». Si subordina tutto il sistema dell’esperienza - mondo, corpo proprio e io empirico - a un pensatore universale sul quale devono fondarsi le relazioni fra i tre termini. Ma, siccome esso non vi è impegnato, tali termini rimangono ciò che erano nell’empirismo: relazioni di causalità collocate sul piano degli accadimenti cosmici. Orbene, se il corpo proprio e l’io empirico non sono altro che elementi nel sistema dell’esperienza, oggetti fra altri oggetti sotto lo sguardo dell’autentico Io, come possiamo mai confonderci con il nostro corpo, come abbiamo potuto credere di vivere con gli occhi ciò che in realtà cogliamo grazie a una ispezione dello spirito? Perché il mondo non è di fronte a noi perfettamente esplicito, perché si dispiega solo a poco a poco e mai «per intero»? Infine, come accade che noi percepiamo? Lo comprenderemo solo se l’io empirico e il corpo non sono immediatamente oggetti e non lo divengono mai del tutto, se ha un certo senso dire che vedo il pezzo di cera con i miei occhi, e se, correlativamente, quella possibilità d’assenza, quella dimensione di fuga e di libertà che la riflessione apre in fondo a noi e che chiamiamo l’Io trascendentale non sono dati primamente e non sono mai assolutamente acquisiti, se io non posso mai dire «Io» assolutamente e se ogni atto di


riflessione, ogni presa di posizione volontaria si stabilisce sullo sfondo e sulla proposta di una vita di coscienza prepersonale. Il soggetto della percezione rimarrà ignorato finché non sapremo evitare l’alternativa fra il naturato e il naturante, fra la sensazione come stato di coscienza e la sensazione come coscienza di uno stato, fra l’esistenza in sé e l’esistenza per sé. Ritorniamo quindi alla sensazione e guardiamola tanto da vicino che essa ci mostri il rapporto di colui che percepisce con il suo corpo e con il suo mondo. La psicologia induttiva ci aiuterà a cercare uno statuto nuovo per la percezione con il dimostrare che essa non è né uno stato o una qualità, né la coscienza di uno stato o di una qualità. Effettivamente, ciascuna delle pretese qualità - il rosso, il blu, il colore, il suono - è inserita in una certa condotta. Nell’individuo normale, un eccitamento sensoriale ( soprattutto quelli creati in laboratorio, che per lui non hanno quasi mai un significato vitale) modifica appena la motilità generale. Ma le malattie del cervelletto o della corteccia frontale mettono in evidenza quale potrebbe essere l’influenza degli eccitamenti sensoriali sul tono muscolare, se tali eccitamenti non fossero integrati a una situazione d’insieme e se, nel soggetto normale, il tono non fosse regolato in vista di certi compiti privilegiati. Il gesto di alzare il braccio, che possiamo considerare come un indizio della perturbazione motoria, è diversamente modificato nella sua ampiezza e nella sua direzione da un campo visivo, rosso, giallo, blu o verde. In particolare, il rosso e il giallo favoriscono i movimenti continui, il blu e il verde quelli discontinui, il rosso applicato all’occhio destro, per esempio, favorisce un movimento di estensione del braccio corrispondente verso l’esterno, il verde un movimento di flessione e di ripiegamento verso il corpo.1 La posizione privilegiata del braccio - quella in cui il soggetto sente il braccio in equilibrio o in riposo -, che nel malato è più lontana dal corpo di quanto lo sia nell’individuo normale, è modificata dalla presentazione dei colori: il verde la riconduce in vicinanza del corpo.2 Il colore del campo visivo rende più o meno esatte le reazioni del soggetto, sia che si tratti di eseguire un movimento di una data ampiezza o di mostrare con il dito una lunghezza determinata. Con un campo visivo verde la valutazione è esatta, con un campo visivo rosso è inesatta per eccesso. Il movimento verso l’esterno è accelerato dal verde e rallentato dal rosso. La localizzazione degli stimoli sulla pelle è modificata, nel senso della abduzione, dal rosso. Il giallo e il rosso accentuano gli errori nella valutazione del peso e del tempo, mentre nei cerebellari il blu e soprattutto il verde li compensano. In queste diverse esperienze ogni colore agisce sempre nel medesimo senso, cosicché gli si può attribuire un valore motorio definito. Nell’insieme, il rosso e il giallo sono favorevoli alla abduzione, il blu e il verde alla adduzione. Orbene, generalmente l’adduzione significa che l’organismo si volge verso lo stimolo ed è attirato dal mondo - l’abduzione che si distoglie dallo stimolo e si ritrae verso il proprio centro.3 Pertanto, anziché ridursi all’esperienza di un certo stato o di un certo quale indicibile, le sensazioni, le «qualità sensibili» si offrono con una fisionomia motoria, sono avvolte da un significato vitale. Da molto tempo è noto che c’è un «accompagnamento motorio» delle sensazioni, che gli stimoli determinano «movimenti nascenti» i quali si associano alla sensazione o alla qualità e formano un alone attorno a essa, che l’«aspetto percettivo» e l’«aspetto motorio» del comportamento sono in comunicazione. Ma per lo più si procede come se questa relazione non mutasse in nulla i termini fra i quali si instaura. Infatti, negli esempi citati, non si tratta di una relazione esteriore di causalità che lascerebbe intatta la sensazione stessa. Le reazioni motorie provocate dal blu, la «condotta del blu», non sono effetti, nel corpo oggettivo, del colore definito da una certa lunghezza d’onda e da una certa intensità: un blu ottenuto per contrasto, e al quale non corrisponde quindi nessun fenomeno fisico, è circondato dal medesimo alone motorio.4 La fisionomia motoria del colore non si costituisce nel mondo del fisico e


per effetto di un qualche processo recondito. Si costituisce allora «nella coscienza», e si deve dire che l’esperienza del blu come qualità sensibile suscita una certa modificazione del corpo fenomenico? Ma non si capisce perché mai la presa di coscienza di un dato quale modificherebbe la mia valutazione delle grandezze, e del resto l’effetto sentito del colore non corrisponde sempre esattamente all’influenza che questo colore esercita sul comportamento: il rosso può esagerare le mie reazioni senza che io me ne accorga.5 Il significato motorio dei colori può essere compreso solo se essi cessano di essere degli stati chiusi in sé o delle qualità indescrivibili offerte alla constatazione di un soggetto pensante, se raggiungono in me un certo montaggio generale in virtù del quale io mi adatto al mondo, se mi invitano a una nuova maniera di valutarlo, e se d’altra parte la motilità cessa di essere la semplice coscienza dei miei cambiamenti di luogo presenti o prossimi per divenire la funzione che, in ogni momento, stabilisce i miei campioni di grandezza, l’ampiezza variabile del mio essere al mondo. Il blu è ciò che sollecita da me un certo modo di guardare, ciò che si lascia tastare da un movimento definito del mio sguardo. È un certo campo o una certa atmosfera offerta alla potenza dei miei occhi e di tutto il mio corpo. Qui l’esperienza del colore conferma e fa comprendere le correlazioni stabilite dalla psicologia induttiva. Comunemente il verde passa per un colore «riposante». «Fa si che io mi raccolga in me stessa e mi ispira un senso di quiete», dice una malata.6 «Non ci chiede nulla e non ci sollecita a nulla», dice Kandinsky. Il blu sembra «cedere al nostro sguardo», dice Goethe. Per contro, il rosso «sprofonda nell’occhio», dice ancora Goethe.7 Il rosso «lacera», il giallo è «pungente», afferma un malato di Goldstein. Generalmente, da una parte si ha, con il rosso e il giallo, «l’esperienza di un distacco, di un movimento che si allontana dal centro», dall’altra, con il blu e il verde, quella del «riposo e della concentrazione».8 Si può evidenziare lo sfondo vegetativo e motorio, il significato vitale delle qualità impiegando stimoli deboli o brevi. Prima di essere visto, il colore si annuncia allora con l’esperienza di un certo atteggiamento del corpo che si confà solo a questo colore e lo determina con precisione: «Nel mio corpo c’è uno scivolamento dall’alto in basso, non può dunque essere un verde, ma può essere solamente un blu; in realtà, però, non vedo nessun blu»,9 dice il soggetto. E un altro: «Ho stretto i denti, e da ciò so che è un giallo.»10 Se, partendo da un valore subliminale, si fa crescere gradatamente uno stimolo luminoso, dapprima c’è esperienza di una certa disposizione del corpo e a un tratto la sensazione raggiunge la sfera visiva e «vi si propaga».11 Come, guardando attentamente la neve, scompongo la sua «bianchezza» apparente che si risolve in un mondo di riflessi e trasparenze, cosi all’interno del suono si può scoprire una «micromelodia», e l’intervallo sonoro non è se non la strutturazione finale di una certa tensione dapprima esperita in tutto il corpo.12 Si rende possibile la rappresentazione di un colore in soggetti che l’hanno perduta con l’esporre di fronte a loro un qualsiasi colore reale. Il colore reale produce nel soggetto una «concentrazione dell’esperienza colorata» che gli permette di «riunire i colori nel suo occhio».13 Cosi, prima di essere uno spettacolo oggettivo, la qualità si lascia riconoscere da un tipo di comportamento che cerca di coglierla nella sua essenza: ecco perché, non appena il mio corpo adotta l’atteggiamento del blu, io ottengo una quasi-presenza del blu. Non ci si deve quindi chiedere come e perché il rosso significa lo sforzo o la violenza, il verde il riposo e la pace, ma si deve reimparare a vivere questi colori come li vive il nostro corpo, cioè come concrezioni di pace o di violenza. Quando diciamo che il rosso aumenta l’ampiezza delle nostre reazioni, non bisogna credere che si tratti qui di due fatti distinti, una sensazione di rosso e alcune reazioni motorie, ma si deve comprendere che, in virtù della sua testura che il nostro sguardo segue e sposa, il rosso è già l’amplificazione del nostro essere motorio. Il soggetto della sensazione non è né un pensatore che annota una qualità, né un ambito inerte che sarebbe colpito o modificato da essa,


bensì una potenza che co-nasce a un certo contesto d’esistenza o si sincronizza con esso. I rapporti fra il senziente e il sensibile sono paragonabili a quelli fra il dormiente e il suo sonno: il sonno viene quando un certo atteggiamento volontario riceve improvvisamente dall’esterno la conferma che attendeva. Io respiravo lentamente e profondamente per chiamare il sonno, e a un tratto si direbbe che la mia bocca comunica con qualche immenso polmone esterno che attira e respinge il mio respiro: un certo ritmo respiratorio, poco fa voluto da me, diviene il mio essere stesso, e il sonno, finora perseguito come significato, improvvisamente si fa situazione. Allo stesso modo io presto orecchio o guardo nell’attesa di una situazione, e di colpo il sensibile prende il mio orecchio o lo sguardo, io abbandono una parte del mio corpo, o anche il mio corpo intero, a quella maniera di vibrare o di riempire lo spazio che è il blu o il rosso. Come il sacramento non solo simbolizza, sotto delle qualità sensibili, una operazione della Grazia, ma è anche la presenza reale di Dio, la fa risiedere in un frammento di spazio e la comunica a coloro che mangiano il pane consacrato, purché siano interiormente preparati, - cosi il sensibile ha non solo un significato motorio e vitale, ma non è altro che un certo modo di essere al mondo che ci viene proposto da un punto dello spazio e che il nostro corpo, se ne è capace, riprende e assume: la sensazione è alla lettera una comunione. Da questo punto di vista, diviene possibile restituire al concetto di «senso» un valore che l’intellettualismo gli nega. La mia sensazione e la mia percezione, afferma l’intellettualismo, non possono essere designabili, e quindi essere per me, se non essendo sensazione o percezione di qualcosa - per esempio sensazione di blu o di rosso, percezione del tavolo o della sedia. Orbene, il blu e il rosso non sono quella esperienza indicibile che io vivo quando coincido con essi, il tavolo o la sedia non è quella apparenza effimera alla mercé del mio sguardo; l’oggetto si determina solo come un essere identificabile attraverso una serie aperta di esperienze possibili, ed esiste esclusivamente per un soggetto che effettui questa identificazione. L’essere non è se non per qualcuno che sia capace di prendere distanza nei suoi confronti e sia quindi esso stesso assolutamente fuori dell’essere. In questo modo lo spirito diviene il soggetto della percezione e la nozione di «senso» diviene impensabile. Se vedere o udire significasse staccarsi dall’impressione per investirla col pensiero, se significasse cessare di essere per conoscere, sarebbe assurdo dire che vedo con gli occhi o che odo con le orecchie, giacché i miei occhi, le mie orecchie sono ancora degli esseri del mondo, incapaci, a questo titolo, di disporre al di qua di esso la zona di soggettività dalla quale sarà visto o udito. Non posso nemmeno riservare ai miei occhi o alle mie orecchie un qualche potere conoscitivo facendo di essi degli strumenti della mia percezione; infatti, questa nozione è ambigua, essi sono strumenti solo dell’eccitamento corporeo e non della percezione stessa. Fra l’in sé e il per sé non c’è via di mezzo, e i miei sensi - che sono molteplici e che quindi non sono me stesso possono essere solo oggetti. Dico che i miei occhi vedono, che la mia mano tocca, che il mio piede soffre, ma queste espressioni ingenue non traducono la mia autentica esperienza: me ne danno già una interpretazione che la stacca dal suo soggetto originario. Giacché so che la luce colpisce gli occhi, che i contatti vengono effettuati mediante la pelle, che la scarpa ferisce il piede, io disperdo net mio corpo le percezioni appartenenti alla mia anima, metto la percezione nel percepito. Ma questa è solo l’appendice spaziale e temporale degli atti di coscienza. Se li considero dall’interno, trovo un’unica conoscenza senza luogo, un’anima senza parti, e non c’è nessuna differenza fra pensare e percepire cosi come fra vedere e udire. - Possiamo attenerci a questa prospettiva? Se è vero che non vedo con gli occhi, come ho potuto ignorare questa verità? - Non sapevo che cosa dicevo, non avevo riflettuto? Ma come potevo non riflettere? Come ha potuto essermi celata l’ispezione dello spirito, l’operazione del mio proprio pensiero, giacché, per definizione, il mio pensiero è per se stesso? Se vuole giustificarsi come riflessione, cioè come progresso verso la verità, la riflessione non deve limitarsi a


sostituire una visione del mondo con un’altra, ma deve mostrarci come la visione ingenua del mondo è compresa e superata nella visione riflessiva. La riflessione deve gettar luce sull’irriflesso al quale succede e mostrarne la possibilità, per poter comprendere se stessa come cominciamento. Evidentemente, dire che sono ancora io a pensarmi come situato in un corpo e come dotato di cinque sensi, è semplicemente una soluzione verbale, perché io che rifletto non posso riconoscermi in questo Io incarnato, perché l’incarnazione rimane dunque, per principio, una illusione e perché, infine, la possibilità di tale illusione rimane incomprensibile. Dobbiamo rimettere in questione l’alternativa fra il per sé e l’in sé che relegava i «sensi» nel mondo degli oggetti e liberava la soggettività, come nonessere assoluto, da ogni inerenza corporea. È quanto facciamo definendo la sensazione come coesistenza o come comunione. La sensazione di blu non è la conoscenza o la posizione di un quale identificabile attraverso tutte le esperienze che ne ho, allo stesso modo in cui il cerchio del geometra è il medesimo a Parigi e a Tokyo. Essa è certo intenzionale, vale a dire che non riposa in sé come una cosa, ma si protende e significa al di là di se stessa. Tuttavia, il termine intenzionato è riconosciuto solo ciecamente in virtù della familiarità che il mio corpo ha con esso, non è costituito in piena chiarezza, ma ricostituito o ripreso da un sapere che rimane latente e che gli lascia la sua opacità e la sua ecceità. La sensazione è intenzionale perché io trovo nel sensibile la proposta di un certo ritmo d’esistenza - abduzione o adduzione -, e perché, dando seguito a questa proposta, introducendomi nella forma di esistenza che mi è cosi suggerita, io mi riferisco a un essere esterno, sia per aprirmi che per chiudermi a esso. Se le qualità irradiano attorno a sé un certo modo di esistenza, se hanno un potere ammaliante e ciò che prima chiamavamo un valore sacramentale, è perché il soggetto senziente non le pone come oggetti, ma simpatizza con esse, le fa sue e trova in esse la sua legge momentanea. Precisiamo. Il senziente e il sensibile non stanno di fronte come due termini esteriori e la sensazione non è una irruzione del sensibile nel senziente. È il mio sguardo a sottendere il colore, è il movimento della mia mano a sottendere la forma dell’oggetto: o meglio, il mio sguardo si accoppia con il colore, la mia mano con il duro e il molle, e in questo scambio fra il soggetto della sensazione e il sensibile non si può dire che l’uno agisca e l’altro patisca, che l’uno dia senso all’altro. Senza l’esplorazione del mio sguardo o della mia mano e prima che il mio corpo si sincronizzi con esso, il sensibile non è altro che una vaga sollecitazione. «Se un soggetto tenta di esperire un colore determinato, per esempio un azzurro, cercando di dare al suo corpo l’atteggiamento che si confà al rosso, ne risulta una lotta interiore, una sorta di spasmo che cessa non appena egli adotta l’atteggiamento corporeo che corrisponde all’azzurro.»14 Cosi, un sensibile che sta per essere sentito pone al mio corpo una specie di problema confuso. È necessario che io trovi l’atteggiamento che gli darà modo di determinarsi e di divenire un azzurro, che trovi la risposta per una domanda mal formulata. E tuttavia, io lo faccio solo dietro la sua sollecitazione, il mio atteggiamento non basta mai per farmi vedere veramente un azzurro o toccare veramente una superficie dura. Il sensibile mi restituisce ciò che gli ho prestato, ma è dal sensibile stesso che io lo derivavo. Io che contemplo l’azzurro del cielo, non sono, di fronte a questo azzurro, un soggetto acosmico, non lo possiedo nel pensiero, non dispiego innanzi a esso un’idea dell’azzurro che me ne scioglierebbe il segreto, ma mi abbandono a esso, mi immergo in questo mistero, esso «si pensa in me», io sono il cielo stesso che si riunisce, si raccoglie e si mette a esistere per sé, la mia coscienza è satura di questo azzurro illimitato. - Ma il cielo non è spirito: non è allora privo di senso dire che esso esiste per sé? - Certamente, il cielo del geografo o dell’astronomo non esiste per sé. Ma del cielo percepito o sentito, sotteso dal mio sguardo che lo percorre e lo abita, mezzo in cui si propaga una certa vibrazione vitale che il mio corpo adotta, si può dire che esiste per sé in questo senso: che esso non è fatto di parti esteriori, che ogni parte dell’insieme è «sensibile» a ciò che accade in tutte


le altre e le «conosce dinamicamente».15 Dal canto suo, il soggetto della sensazione non ha bisogno di essere un puro nulla privo di qualsiasi peso terrestre. Ciò sarebbe necessario solo se, come la coscienza costituente, esso dovesse essere presente ovunque nello stesso tempo, coestensivo all’essere, e pensare la verità dell’universo. Ma lo spettacolo percepito non è puro essere. Preso esattamente come lo vedo, esso è un momento della mia storia individuale: essendo una ricostituzione, la sensazione presuppone in me i sedimenti di una costituzione preliminare; io sono, come soggetto senziente, colmo di poteri naturali di cui mi stupisco per primo. Non sono quindi, come dice Hegel, un «buco nell’essere», ma una fessura, una piega che si è fatta e può disfarsi.16 Insistiamo su questo punto. Come abbiamo potuto sfuggire all’alternativa fra il per sé e l’in sé, come la coscienza percettiva può essere saturata dal suo oggetto, come possiamo distinguere la coscienza sensibile dalla coscienza intellettuale? In merito, va detto che: 1 ) Ogni percezione si effettua in una atmosfera di generalità e ci si dà come anonima. Non posso dire che io vedo l’azzurro del cielo nel senso in cui dico che comprendo un libro o che decido di dedicare la mia vita alla matematica. La mia percezione, anche vista dall’interno, esprime una situazione data: vedo un azzurro perché sono sensibile ai colori, - per contro, gli atti personali ne creano una: sono matematico perché ho deciso di esserlo. Cosicché, se volessi tradurre esattamente l’esperienza percettiva, dovrei dire che si percepisce in me e non che io percepisco. Ogni sensazione comporta un germe di sogno o di spersonalizzazione: ciò che possiamo esperire grazie a quella specie di stupore in cui essa ci immerge quando viviamo veramente al suo livello. Certamente, la conoscenza mi insegna che non ci sarebbe sensazione senza un adattamento del mio corpo, per esempio che non ci sarebbe contatto determinato senza un movimento della mano. Ma questa attività si svolge alla periferia del mio essere, io non ho coscienza di essere il vero soggetto della mia sensazione più di quanto abbia coscienza di essere il vero soggetto della mia nascita o della mia morte. Né la mia nascita né la mia morte possono apparirmi come esperienze mie, giacché, se le pensassi cosi, mi supporrei preesistente o sopravvissuto a me stesso per poterle esperire, e pertanto non penserei veramente la mia nascita o la mia morte. Posso quindi cogliermi solo come «già nato» e «ancora vivo», - cogliere la mia nascita e la mia morte unicamente come orizzonti prepersonali: so che si nasce e che si muore, ma non posso conoscere la mia nascita e la mia morte. Essendo a rigore la prima, l’ultima e l’unica della sua specie, ogni sensazione è una nascita e una morte. Il soggetto che l’esperisce comincia e finisce con essa, e, poiché egli non può precedersi né sopravvivere a se stesso, necessariamente la sensazione si rivela a se stessa in un ambito di generalità, viene dal di qua di me stesso, dipende da una sensibilità che l’ha preceduta e le sopravviverà, cosi come la mia nascita e la mia morte appartengono a una natalità e a una mortalità anonime. In virtù della sensazione, io colgo al margine della mia vita personale e dei miei atti propri una vita di coscienza anonima dalla quale essi emergono, la vita dei miei occhi, delle mie mani, delle mie orecchie che sono altrettanti Io naturali. Ogniqualvolta provo una sensazione, sento che essa concerne non il mio essere proprio, quello di cui sono responsabile e di cui decido, ma un altro io che ha già preso partito per il mondo, che si è già aperto a certi suoi aspetti e sincronizzato con essi. Fra la mia sensazione e me c’è sempre lo spessore di una acquisizione originaria che impedisce alla mia esperienza di essere chiara per se stessa. Io esperisco la sensazione come modalità di una esistenza generale, già votata a un mondo fisico e che defluisce attraverso di me senza che io ne sia l’autore. 2) La sensazione può essere anonima solo perché è parziale. Colui che vede e colui che tocca non è esattamente me stesso perché il mondo visibile e il mondo tangibile non sono il mondo intero. Quando vedo un oggetto, sento sempre che c’è ancora dell’essere al di là di ciò che vedo attualmente, non solo dell’essere visibile, ma anche dell’essere tangibile o udibile - e non solo dell’essere sensibile, ma anche una profondità


dell’oggetto che nessun prelevamento sensoriale potrà esaurire. Correlativamente, io non sono per intero in queste operazioni, esse restano marginali, si effettuano al di là di me, l’io che vede o l’io che ode è in un certo qual modo un io specializzato, che ha familiarità con un solo settore dell’essere, ed è appunto a questo prezzo che lo sguardo e la mano sono capaci di indovinare il movimento che preciserà la percezione e possono dar prova di quella prescienza in virtù della quale assumono l’apparenza dell’automatismo. - Possiamo riassumere queste due idee dicendo che ogni sensazione appartiene a un certo campo. Dire che ho un campo visivo, equivale a dire che per posizione io ho accesso e apertura a un sistema di esseri, gli esseri visibili, che essi sono a disposizione del mio sguardo in virtù di una specie di contratto primordiale e grazie a un dono della natura, senza nessuno sforzo da parte mia; equivale quindi a dire che la visione è prepersonale - e, in pari tempo, che essa è sempre limitata, che attorno alla mia visione attuale c’è sempre un orizzonte di cose non viste o anche non visibili. La visione è un pensiero assoggettato a un certo campo: ecco ciò che si chiama un senso. Quando dico che ho dei sensi e che essi mi fanno accedere al mondo, io non sono vittima di una confusione, non mescolo il pensiero causale e la riflessione, ma esprimo solo la seguente verità, da cui una riflessione integrale non può prescindere: che per connaturalità io sono capace di trovare un senso a certi aspetti dell’essere senza che io stesso glielo abbia dato con una operazione costituente. Con la distinzione fra i sensi e l’intellezione si trova giustificata quella dei diversi sensi. L’intellettualismo non parla dei sensi poiché per esso sensazioni e sensi appaiono solo «quando io ritorno sull’atto concreto di conoscenza per analizzarlo. Vi distinguo allora una materia contingente e una forma necessaria, ma la materia è solo un momento ideale e non un elemento separabile dall’atto totale. Non ci sono quindi i sensi, ma solo la coscienza. Per esempio, l’intellettualismo si rifiuta di porre il famoso problema del loro contributo all’esperienza dello spazio, giacché le qualità sensibili e i sensi, come materiali della conoscenza, non possono possedere in proprio lo spazio, che in generale è la forma dell’oggettività e in particolare il mezzo grazie al quale diviene possibile una coscienza di qualità. Una sensazione non sarebbe tale se non fosse sensazione di qualcosa; inoltre, nella massa confusa delle impressioni si delineano delle «cose» - nel senso pili generale del termine, per esempio certe qualità definite -, solo se questa massa è messa in prospettiva e coordinata dallo spazio. Pertanto, per farci accedere a una qualsiasi forma dell’essere, cioè per essere dei sensi, tutti i sensi devono essere spaziali. E, per la stessa necessità, essi devono sboccare tutti nel medesimo spazio, altrimenti gli esseri sensoriali, con i quali ci fanno comunicare, esisterebbero solo per i sensi da cui dipendono - come i fantasmi si manifestano unicamente di notte -, sarebbero privi della pienezza dell’essere e noi non potremmo averne veramente coscienza, cioè porli come esseri veri. L’empirismo tenterebbe invano di contrapporre dei fatti a questa deduzione. Se, per esempio, si vuole dimostrare che di per se stesso il tatto non è spaziale, si tenti di trovare nei ciechi o nei casi di cecità psichica una esperienza tattile pura e di dimostrare che essa non è articolata secondo lo spazio: orbene, queste prove sperimentali presuppongono ciò che si presume stabiliscano. Come sapere, infatti, se la cecità e la cecità psichica si sono limitate a sottrarre, dall’esperienza del malato, i «dati visivi» e se non hanno colpito anche la struttura della sua esperienza tattile? L’empirismo dà per scontata la prima ipotesi: a questa condizione il fatto può passare per cruciale, ma per ciò stesso postula la separazione dei sensi che si tratta appunto di dimostrare. Più precisamente: se ammetto che lo spazio appartiene originariamente alla vista e che di qui passa al tatto e agli altri sensi, allora, poiché nell’adulto si riscontra una percezione tattile dello spazio, devo almeno ammettere che i «dati tattili puri» sono rimossi e ricoperti da una esperienza di origine visiva, che si integrano a una esperienza totale nella quale sono infine indiscernibili. Ma allora, con quale diritto si distingue, in


questa esperienza dell’adulto, un apporto «tattile»? Il preteso «tattile» puro che tento di ritrovare rivolgendomi ai ciechi non è forse un tipo particolarissimo d’esperienza, che non ha nulla in comune con il funzionamento del tatto integrato e che non può servire ad analizzare l’esperienza integrale? Non si può decidere della spazialità dei sensi con il metodo induttivo e producendo «fatti» - per esempio, un tatto senza spazio nel cieco -, perché questo fatto ha bisogno di essere interpretato, perché lo si considererà appunto come un fatto significativo e che rivela una natura propria del tatto o come un fatto accidentale e che esprime le proprietà particolari del tatto morboso in base all’idea che ci si fa dei sensi in generale e della loro relazione nella coscienza totale. Il problema dipende dunque dalla riflessione e non dall’esperienza nel senso empiristico della parola, che è anche quello in cui la assumono gli scienziati quando sognano una oggettività assoluta. Si è quindi autorizzati a dire a priori che tutti i sensi sono spaziali e che il problema di sapere quale di questi sensi ci dà lo spazio va considerato inintelligibile, se si riflette su che cos’è un senso. Tuttavia, sono qui possibili due tipi di riflessione. Una - ed è la riflessione intellettualistica - tematizza l’oggetto e la coscienza e, per riprendere una espressione kantiana, li «conduce al concetto». L’oggetto diviene allora ciò che è e di conseguenza ciò che è per tutti e per sempre (foss’anche a titolo di episodio effimero, ma di cui sarà vero per sempre che è esistito nel tempo oggettivo). La coscienza, tematizzata dalla riflessione, è l’esistenza per sé. E, grazie a questa idea della coscienza e a questa idea dell’oggetto, si dimostra agevolmente che ogni qualità sensibile è pienamente oggetto solo nel contesto delle relazioni d’universo, e che la sensazione non può essere se non a condizione di esistere per un Io centrale e unico. Se si volesse interrompere il movimento riflessivo e parlare, per esempio, di una coscienza parziale o di un oggetto isolato, si avrebbe una coscienza che, per taluni aspetti, non conoscerebbe se stessa, e che quindi non sarebbe coscienza, un oggetto che non sarebbe accessibile da ogni parte e che, in questa misura, non sarebbe oggetto. Ma possiamo sempre chiedere all’intellettualismo donde ricava questa idea o questa essenza della coscienza e dell’oggetto. Se il soggetto è puro per sé, «l’Io penso deve poter accompagnare tutte le nostre rappresentazioni». «Perché un mondo possa essere pensato», è necessario che la qualità lo contenga in germe. Ma, prima di tutto, che cosa ci fa credere che c’è un per sé puro e che il mondo deve poter essere pensato? Si risponderà forse che questa è la definizione del soggetto e del mondo e che, se non li si intende cosi, non si sa più di che cosa si parla parlando di essi. Ed effettivamente, al livello della parola costituita, tale è appunto il significato del mondo e del soggetto. Ma da dove ricavano il loro senso le parole stesse? La riflessione radicale è quella che mi coglie nell’atto di formare e di formulare l’idea del soggetto e l’idea dell’oggetto e che porta alla luce la sorgente di queste due idee, è riflessione non solo operante, ma anche cosciente di se stessa nel suo operare. Forse si risponderà ancora che l’analisi riflessiva non coglie solo il soggetto e l’oggetto «in idea», ma è un’esperienza; che riflettendo io mi ricolloco in quel soggetto infinito che ero già e ricolloco l’oggetto nelle relazioni che già lo sottendevano; infine, che non c’è motivo di chiedere donde ricavo questa idea del soggetto e questa idea dell’oggetto perché esse sono la semplice formulazione delle condizioni senza le quali non ci sarebbe niente per nessuno. Ma l’Io riflesso differisce dall’Io irriflesso per lo meno in questo, che è stato tematizzato. Come lo stesso Kant osserva acutamente, ciò che è dato non è né la coscienza né l’essere puro, ma l’esperienza, ossia, in altri termini, la comunicazione di un soggetto finito con un essere opaco da cui questo soggetto emerge, ma in cui rimane ancorato. È «l’esperienza pura e per cosi dire ancora muta che ora, per la prima volta, deve essere portata all’espressione pura del suo senso proprio».17 Noi abbiamo l’esperienza di un mondo, non nel senso di un sistema di relazioni che determinano interamente ogni evento, ma nel senso di una totalità aperta la cui sintesi è interminabile. Abbiamo l’esperienza di un Io, non nel senso di una soggettività assoluta, ma indivisibilmente disfatto e rifatto dal fluire del


tempo. L’unità del soggetto o quella dell’oggetto non è una unità reale, ma una unità presuntiva all’orizzonte dell’esperienza, ed è necessario ritrovare, al di qua dell’idea del soggetto e dell’idea dell’oggetto, il fatto della mia soggettività e l’oggetto allo stato nascente, il sostrato primordiale dal quale nascono sia le idee che le cose. Quando si tratta della coscienza, posso formarne la nozione solo riportandomi preliminarmente a quella coscienza che io sono, e in particolare non devo anzitutto definire i sensi, ma riprendere contatto con la sensorialità che io vivo dall’interno. Non siamo costretti a investire a priori il mondo delle condizioni senza le quali esso non potrebbe essere pensato, giacché, per poter essere pensato, esso deve prima non essere ignorato, esistere per me, cioè essere dato, e l’estetica trascendentale si confonderebbe con l’analitica trascendentale solo se io fossi un Dio che pone il mondo e non un uomo che vi si trova gettato e che, in tutti i sensi della parola, «gli è attaccato». Non dobbiamo quindi seguire Kant nella sua deduzione di uno spazio unico. Questo spazio è la condizione senza la quale non si può pensare la pienezza dell’oggettività, ed è pur vero che, se tento di tematizzare più spazi, essi si riconducono all’unità, dal momento che ciascuno di tali spazi si trova in un certo rapporto di posizione con gli altri e fa quindi tutt’uno con essi. Ma chi ci dice che l’oggettività piena può essere pensata? Che tutte le prospettive sono compossibili? Che possono mai essere tematizzate tutte insieme? Chi ci dice che l’esperienza tattile e l’esperienza visiva possono congiungersi in modo rigoroso senza un’esperienza intersensoriale? Che la mia esperienza e quella dell’altro possono essere collegate in un sistema unico dall’esperienza intersoggettiva? Sia in ogni esperienza sensoriale, sia in ogni coscienza, ci sono forse dei «fantasmi» che nessuna razionalità può ridurre. Tutta la Deduzione Trascendentale dipende dall’affermazione di un sistema integrale della verità. Se si vuole riflettere, si deve appunto risalire alle sorgenti di questa affermazione. In tal senso, si può dire con Husserl18 che, in intenzione, Hume si è spinto più avanti di chiunque altro nella riflessione radicale, poiché ha veramente voluto ricondurci ai fenomeni di cui abbiamo l’esperienza. In particolare, l’idea di uno spazio unico e di un tempo unico, poggiando su quella di una sommazione dell’essere che Kant ha appunto criticato nella Dialettica Trascendentale, deve essere messa tra parentesi e produrre la sua genealogia’ a partire dalla nostra esperienza effettiva. In altri termini, questa nuova concezione della riflessione, che è la concezione fenomenologica, consiste nel dare una nuova definizione dell’a priori. Kant ha già dimostrato che l’a priori non è conoscibile prima dell’esperienza, cioè fuori del nostro orizzonte di fatticità, e che è assurdo distinguere due elementi reali della conoscenza, uno dei quali sarebbe a priori e l’altro a posteriori. Nella sua filosofia l’a priori conserva il carattere di ciò che deve essere, in contrapposizione a ciò che esiste di fatto e come determinazione antropologica, solo nella misura in cui egli non ha seguito sino in fondo il suo programma, che si proponeva di definire le nostre facoltà conoscitive mediante la nostra condizione di fatto e che doveva obbligarlo a ricollocare ogni essere concepibile sullo sfondo di questo mondo. A partire dal momento in cui l’esperienza - cioè l’apertura al nostro mondo di fatto - è riconosciuta come il cominciamento della conoscenza, non c’è più modo di distinguere un piano delle verità a priori e un piano delle verità di fatto, ciò che il mondo deve essere e ciò che esso è effettivamente. L’unità dei sensi, che passava per verità a priori, non è più se non l’espressione formale di una contingenza fondamentale: il fatto che siamo al mondo; - la diversità dei sensi, che era considerata come data a posteriori, anche nella forma concreta che essa assume in un soggetto umano, appare necessaria a questo mondo, cioè al solo mondo che possiamo pensare in modo conseguente: diviene dunque una verità a priori. Ogni sensazione è spaziale, abbiamo accettato questa tesi non perché la qualità come oggetto può essere pensata solo nello spazio, ma perché, come contatto primordiale con l’essere, come ripresa da parte del soggetto senziente di una forma indicata dal sensibile, come coesistenza del senziente e del sensibile, è essa stessa costitutiva di un ambito di


coesistenza, ossia di uno spazio. Diciamo a priori che nessuna sensazione è puntuale, che ogni sensorialità presuppone un certo campo, quindi delle coesistenze, e, contro Lachelier, ne concludiamo che il cieco ha l’esperienza di uno spazio. Ma tali verità a priori non sono altro che l’esplicitazione di un fatto: il fatto dell’esperienza sensoriale come ripresa di una forma d’esistenza. Questa ripresa implica altresì che in ogni momento io possa farmi, quasi per intero, tatto o visione, e che anzi non possa mai vedere o toccare senza che in una certa misura la mia coscienza si saturi e perda qualcosa della sua disponibilità. Cosi, l’unità e la diversità dei sensi sono verità dello stesso ordine. L’a priori è il fatto compreso, esplicitato e seguito in tutte le conseguenze della sua logica tacita, l’a posteriori è il fatto isolato e implicito. Sarebbe contraddittorio dire che il tatto è senza spazialità, ed è a priori impossibile toccare senza toccare nello spazio, giacché la nostra esperienza è l’esperienza di un mondo. Questo inserimento della prospettiva tattile in un essere universale non esprime però nessuna necessità che sia esteriore al tatto, ma si produce spontaneamente nella stessa esperienza tattile, secondo il suo modo proprio. La sensazione, cosi come ce la offre l’esperienza, non è più una materia indifferente e un momento astratto, ma è una delle nostre superfici di contatto con l’essere, una struttura di coscienza: anziché avere uno spazio unico, condizione universale di tutte le qualità, con ciascuna di esse abbiamo una maniera particolare di inerire allo spazio e, in un certo qual senso, di fare dello spazio. Non è né contraddittorio né impossibile che ogni senso costituisca un piccolo mondo all’interno di quello grande; anzi, è in ragione della sua particolarità che ogni senso è necessario al tutto e sbocca in esso. Insomma, una volta cancellate le distinzioni fra Fa priori e l’empirico, fra la forma e il contenuto, i fatti sensoriali divengono momenti concreti di una configurazione globale che è lo spazio unico, e la facoltà di accedere a esso non è disgiungibile da quella di staccarsene nella separazione di un senso. Quando, nella sala da concerto, riapro gli occhi, lo spazio visibile mi sembra angusto rispetto a quell’altro spazio in cui poco fa si dispiegava la musica, e anche se tengo aperti gli occhi mentre viene eseguito il pezzo, mi sembra che la musica non sia veramente contenuta in questo spazio preciso e meschino. Attraverso lo spazio visibile essa insinua una nuova dimensione in cui dilaga: allo stesso modo, negli allucinati, lo spazio chiaro delle cose percepite si sdoppia misteriosamente in uno «spazio buio» in cui sono possibili altre presenze. Come per me la prospettiva altrui sul mondo, cosi il dominio spaziale di ogni senso è per gli altri sensi un inconoscibile assoluto e limita la loro spazialità. Queste descrizioni, che per una filosofia criticistica offrono solo delle curiosità empiriche e non intaccano le certezze a priori, per noi riacquistano una importanza filosofica, poiché l’unità dello spazio non solo operante, ma anche cosciente di se stessa nel suo operare, non può essere trovata se non nell’interrelazione dei domini sensoriali. Ecco ciò che rimane vero nelle famose descrizioni empiristiche di una percezione non spaziale. L’esperienza dei ciechi dalla nascita operati di cataratta non ha mai provato e non potrebbe mai provare che per essi lo spazio comincia con la visione. Ma il malato non cessa di meravigliarsi di questo spazio visivo cui ha fatto accesso, e nei confronti del quale l’esperienza tattile gli sembra cosi povera che confesserebbe volentieri di non avere mai avuto, prima dell’operazione, l’esperienza dello spazio.19 Lo stupore del malato, le sue esitazioni nel nuovo mondo visivo in cui entra, dimostrano che il tatto non è spaziale come la visione. «Dopo l’operazione, si dice,20 la forma quale è data dalla vista, è, per i malati, qualcosa di assolutamente nuovo che essi non mettono in rapporto con la loro esperienza tattile», «il malato afferma di vedere ma non sa che cosa vede... Egli non riconosce mai la propria mano come tale, ma parla solo di una macchia bianca in movimento».21 Per distinguere con la vista un circolo da un rettangolo, egli deve seguire con gli occhi il bordo della figura, come farebbe con la mano,22 e tende


sempre ad afferrare gli oggetti che vengono presentati al suo sguardo.23 Qual è la conclusione? Che l’esperienza tattile non prepara alla percezione dello spazio? Ma se essa non fosse affatto spaziale, il soggetto tenderebbe la mano verso l’oggetto che gli viene mostrato? Questo gesto presuppone che il tatto sbocchi in un ambito per lo meno analogo a quello dei dati visivi. I fatti dimostrano soprattutto che la visione non è nulla senza un certo uso dello sguardo. Dapprima i malati «vedono i colori come noi sentiamo un odore: esso ci bagna, agisce su di noi, senza però riempire di una data estensione una forma determinata».24 In un primo tempo tutto è mescolato e tutto sembra in movimento. La segregazione delle superfici colorate, la percezione corretta del movimento, vengono solamente dopo, quando il soggetto ha compreso «che cos’è vedere»,25 cioè quando dirige e muove lo sguardo come uno sguardo, e non più come una mano. Ciò dimostra che ogni organo di senso interroga l’oggetto a modo suo, che è l’agente di un certo tipo di sintesi, ma, a meno di riservare per definizione nominale la parola spazio alla sintesi visiva, non si può negare al tatto la spazialità, nel senso di apprensione delle coesistenze. Il fatto stesso che la visione vera e propria si prepari nel corso di una fase di transizione e in virtù di una specie di tatto con gli occhi, non sarebbe comprensibile se non ci fosse un campo tattile quasi spaziale, in cui possano inserirsi le prime percezioni visive. La vista non comunicherebbe mai direttamente con il tatto, come fa nell’adulto normale, se il tatto, anche artificialmente isolato, non fosse organizzato in modo da rendere possibili le coesistenze. Lungi dall’escludere l’idea di uno spazio tattile, i fatti dimostrano viceversa l’esistenza di uno spazio cosi strettamente tattile che dapprima le sue articolazioni non sono in un rapporto di sinonimia con quelle dello spazio visivo: anzi, non lo saranno mai. Le analisi empiristiche pongono confusamente un autentico problema. Il fatto che il tatto, per esempio, non possa abbracciare simultaneamente se non una debole estensione - quella del corpo e dei suoi strumenti -, non concerne solo la presentazione dello spazio tattile, ma ne modifica il senso. Per l’intelligenza - o almeno per una certa intelligenza che è quella della fisica classica, - la simultaneità è la medesima, sia che abbia luogo fra due punti contigui o fra due punti distanti, e in ogni caso si può costruire a poco a poco, con delle simultaneità a breve distanza, una simultaneità a grande distanza. Per l’esperienza, però, lo spessore di tempo che viene cosi introdotto nell’operazione ne modifica il risultato: di qui un certo «mosso» nella simultaneità dei punti estremi; in questa misura, per il cieco operato l’ampiezza delle prospettive visive sarà una autentica rivelazione, giacché, per la prima volta, procurerà l’esibizione anche della simultaneità lontana. Gli operati dichiarano che ogni oggetto tattile non è un autentico tutto spaziale, che l’apprensione dell’oggetto è qui un semplice «sapere della relazione reciproca delle parti», che il circolo e il quadrato non sono veramente percepiti dal tatto, ma riconosciuti in base a certi «segni» - presenza o assenza di «punte».26 Comprendiamo cosi che il campo tattile non ha mai l’ampiezza di quello visivo, che l’oggetto tattile non è mai presente per intero in ogni sua parte, come lo è invece l’oggetto visivo: insomma, che toccare non è vedere. Certamente, il cieco e il soggetto normale conversano, ed è forse impossibile trovare una sola parola, anche nel vocabolario dei colori, alla quale il cieco non riesca a dare un senso per lo meno schematico. Un cieco di dodici anni definisce benissimo le dimensioni della visione: «Chi vede, egli dice, è in relazione con me in virtù di un senso ignoto che mi avvolge interamente a distanza, mi segue, mi attraversa e dal mattino alla sera mi tiene, per cosi dire, sotto il suo dominio (mich gewissermassen beherrscht).»27 Ma per il cieco queste indicazioni rimangono nozionali e problematiche. Pongono un quesito al quale potrebbe rispondere solamente la visione. Ecco perché il cieco operato trova il mondo diverso da quanto s’aspettava,28 cosi come noi, quando conosciamo un uomo, lo troviamo sempre diverso da ciò che sapevamo su di lui. Il mondo del cieco


e quello del soggetto normale differiscono non solo per la quantità dei materiali di cui dispongono, ma anche per la struttura dell’insieme. Un cieco sa con molta esattezza, in virtù del tatto, cosa sono alberi e foglie, un braccio e le dita della mano. Dopo l’operazione egli si meraviglia di trovare «tanta differenza» fra un albero e un corpo umano.29 È evidente che la vista non si è limitata ad aggiungere nuovi dettagli alla conoscenza dell’albero. Si tratta di un modo di presentazione e di un tipo di sintesi nuovi che trasfigurano l’oggetto. Per esempio, la struttura illuminazione-oggetto illuminato trova, nella sfera tattile, solo analogie piuttosto vaghe. Ecco perché, dopo diciotto anni di cecità, un malato operato tenta di toccare un raggio di sole.30 Il significato totale della nostra vita - di cui il significato nozionale non è mai se non un estratto - sarebbe diverso, se fossimo privi della visione. C’è una funzione generale di sostituzione e di surrogamento che ci permette di accedere al significato astratto delle esperienze che non abbiamo vissuto, e, per esempio, di parlare di ciò che non abbiamo visto. Ma, come nell’organismo le funzioni suppletive non sono mai l’equivalente esatto delle funzioni lese e danno solo la parvenza dell’integrità, cosi, fra esperienze differenti, l’intelligenza non assicura che una comunicazione apparente: pertanto, nel cieco dalla nascita operato, la sintesi del mondo visivo e di quello tattile, la costituzione di un mondo intersensoriale deve effettuarsi sul terreno sensoriale stesso, la comunanza di significato fra le due esperienze non è sufficiente per assicurare la loro saldatura in una esperienza unica. I sensi sono distinti l’uno dall’altro e distinti dall’intellezione, in quanto ciascuno di essi porta con sé una struttura d’essere che non è mai esattamente trasferibile. Possiamo riconoscerlo perché abbiamo respinto il formalismo della coscienza e fatto del corpo il soggetto della percezione. E possiamo riconoscerlo senza compromettere l’unità dei sensi. Infatti, i sensi comunicano. La musica non è nello spazio visivo, ma lo corrode, lo investe, lo sposta, e quegli ascoltatori troppo composti, che assumono l’aria di giudici e scambiano parole o sorrisi, senza accorgersi che sotto di loro il terreno si scuote, sono, poco dopo, come un equipaggio sballottato da una tempesta. I due spazi si distinguono solo sullo sfondo di un mondo comune e non possono entrare in rivalità se non perché aspirano entrambi all’essere totale. Si uniscono nel momento stesso in cui si oppongono. Se voglio chiudermi in uno dei miei sensi, e se, per esempio, mi proietto interamente nei miei occhi e mi abbandono all’azzurro del cielo, ben presto io non ho più coscienza di guardare, e, nel momento in cui voglio farmi per intero visione, il cielo cessa di essere una «percezione visiva» per divenire il mio mondo del momento. L’esperienza sensoriale è instabile ed è estranea alla percezione naturale, la quale si effettua con il nostro corpo tutto insieme e sbocca in un mondo intersensoriale. Come quella della qualità sensibile, l’esperienza dei «sensi» separati ha luogo solo in un atteggiamento particolarissimo e non può servire all’analisi diretta della coscienza. Sono seduto nella mia camera e guardo i fogli di carta bianca disposti sulla scrivania, gli uni illuminati dalla finestra, gli altri nell’ombra. Se non analizzo la mia percezione e se mi attengo allo spettacolo globale, dirò che tutti i fogli mi appaiono egualmente bianchi. Tuttavia, taluni di essi sono nell’ombra del muro. Come mai non sono meno bianchi degli altri? Decido di guardare meglio. Fisso lo sguardo su di essi, e cioè limito il mio campo visivo. Posso anche osservarli attraverso una scatola di cerini che li separa dal resto del campo o attraverso uno «schermo riduttore» nel quale sia stata praticata una apertura. Sia che impieghi uno di questi dispositivi o che mi accontenti di osservare a occhio nudo, ma nell’«atteggiamento analitico»,31 l’aspetto dei fogli muta: non è più carta bianca ricoperta da un’ombra, ma una sostanza grigia o azzurrognola, spessa e mal localizzata. Se considero di nuovo l’insieme dello spettacolo, noto che i fogli coperti d’ombra non erano, non sono mai stati identici ai fogli illuminati, né, d’altra parte, oggettivamente diversi da essi. Il bianco della carta coperta


d’ombra non si lascia classificare con precisione nella serie nero-bianco.32 Esso non era nessuna qualità definita, e io ho fatto apparire la qualità fissando gli occhi su una porzione del campo visivo: allora e soltanto allora mi sono trovato in presenza di un dato quale, in cui il mio sguardo affonda. Orbene, che cos’è fissare? Dalla parte dell’oggetto, è separare la regione fissata dal resto del campo, è interrompere la vita totale dello spettacolo che assegnava a ogni superficie visibile una colorazione determinata, tenuto conto dell’illuminazione; dalla parte del soggetto, è sostituire alla visione globale, nella quale il nostro sguardo si presta a tutto lo spettacolo e si lascia penetrare da esso, una osservazione, cioè una visione locale che esso governa a modo suo. Lungi dall’essere coestensiva alla percezione, la qualità sensibile è il prodotto particolare di un atteggiamento di curiosità o di osservazione. Essa appare quando, anziché abbandonare al mondo tutto il mio sguardo, io mi volgo verso questo sguardo stesso e mi chiedo che cosa vedo esattamente; essa non figura nel commercio naturale della mia visione con il mondo, ma è la risposta a un certo quesito del mio sguardo, il risultato di una visione seconda o critica che cerca di conoscersi nella sua particolarità, di una «attenzione al visivo puro»,33 che esercito o quando temo di essermi ingannato, o quando voglio intraprendere uno studio scientifico della visione. Questo atteggiamento fa scomparire lo spettacolo: i colori che io vedo attraverso lo schermo riduttore o quelli che il pittore ottiene strizzando gli occhi non sono più colori-oggetti ( il colore dei muri o il colore della carta ), ma zone colorate non prive di spessore e tutte vagamente localizzate su un medesimo piano fittizio.34 Così, c’è un atteggiamento naturale della visione in cui io faccio causa comune con il mio sguardo e, attraverso di esso, mi abbandono allo spettacolo: allora le parti del campo sono collegate in una organizzazione che le rende riconoscibili e identificabili. La qualità, la sensorialità separata si produce quando io rompo questa strutturazione totale della mia visione, quando cesso di aderire al mio proprio sguardo e quando, anziché vivere la visione, mi interrogo su di essa, voglio saggiare le mie possibilità, sciolgo il legame fra la mia visione e il mio mondo, fra me stesso e la mia visione, per sorprenderla e descriverla. In questo atteggiamento, nello stesso tempo in cui il mondo si polverizza in qualità sensibili l’unità naturale del soggetto percipiente è rotta, e io vengo cosi a ignorarmi come soggetto di un campo visivo. Orbene, come, all’interno di ogni senso, si deve ritrovare l’unità naturale, cosi faremo apparire uno «strato originario» del sentire che precede la divisione dei sensi.35 A seconda che io fissi un oggetto, o che lasci divergere i miei occhi, o infine che mi abbandoni completamente all’evento, lo stesso colore mi appare come colore superficiale (Oberflächenfarbe) - è in un luogo definito dello spazio, si stende su un oggetto - e diviene colore atmosferico (Raumfarbe) e diffuso attorno all’oggetto; oppure lo sento nel mio occhio come una vibrazione dello sguardo; oppure, infine, comunica a tutto il mio corpo una stessa maniera d’essere, mi riempie e non merita più il nome di colore. Ugualmente, c’è un suono oggettivo che risuona fuori di me nello strumento, un suono atmosferico che è fra l’oggetto e il mio corpo, un suono che vibra in me «come se io fossi divenuto il flauto o il pendolo»; e infine c’è un ultimo stadio in cui l’elemento sonoro scompare e diviene l’esperienza, del resto molto precisa, di una modificazione di tutto il mio corpo.36 L’esperienza sensoriale non dispone se non di un margine ristretto: o il suono e il colore, in virtù della loro disposizione propria, delineano un oggetto, il portacenere, il violino, e questo oggetto parla immediatamente a tutti i sensi; oppure, all’altra estremità dell’esperienza, il suono e il colore sono ricevuti nel mio corpo, e diviene difficile limitare la mia esperienza a un solo registro sensoriale: essa si riversa spontaneamente verso tutti gli altri. Nel terzo stadio, prima descritto, l’esperienza sensoriale si specifica solo per un «accento» che indica piuttosto la direzione del suono o quella del colore.37 A questo livello, l’ambiguità dell’esperienza è tale che un ritmo sonoro fa fondere delle


immagini cinematografiche e dà luogo a una percezione di movimento, mentre, senza sottofondo sonoro, la stessa successione di immagini sarebbe troppo lenta per provocare il movimento stroboscopico.38 I suoni modificano le immagini consecutive dei colori: un suono più forte li intensifica, l’interruzione del suono li fa vacillare, un suono basso rende il blu più carico o più profondo.39 L’ipotesi di costanza, 40 che stabilisce per ogni stimolo una e una sola sensazione, è tanto meno verificata quanto più ci si avvicina alla percezione naturale. «È nella misura in cui la condotta è intellettuale e imparziale (sachlicher) che l’ipotesi di costanza diviene accettabile per quanto concerne la relazione fra lo stimolo e la specifica risposta sensoriale, e che lo stimolo sonoro, per esempio, si limita alla sfera specifica, qui la sfera uditiva.»41 Poiché compromette l’atteggiamento imparziale e abbandona il soggetto alla sua vitalità, l’intossicazione da mescalina dovrà quindi favorire le sinestesie. In realtà, sotto l’effetto della mescalina, un suono di flauto dà un colore bluverde, il rumore di un metronomo si traduce, nell’oscurità, in macchie grigie: gli intervalli spaziali della visione corrispondono agli intervalli temporali dei suoni, la grandezza della macchia grigia all’intensità del suono, la sua altezza nello spazio all’altezza del suono.42 Sotto l’effetto della mescalina, un soggetto trova un pezzo di ferro, lo percuote sul davanzale dicendo «Ecco la magia»: gli alberi divengono più verdi.43 L’abbaiare di un cane attira l’illuminazione in modo indescrivibile e risuona nel piede destro.44 Tutto avviene come se talvolta si vedessero «cadere le barriere stabilite fra i sensi nel corso dell’evoluzione».45 Nella prospettiva del mondo oggettivo, con le sue qualità opache, e del corpo oggettivo, con i suoi organi separati, il fenomeno delle sinestesie è paradossale. Si cerca quindi di spiegarlo senza modificare il concetto di sensazione: si dovrà, per esempio, supporre che gli eccitamenti solitamente circoscritti in una regione del cervello - area visiva o area uditiva - divengano capaci di intervenire fuori di questi limiti, e che cosi alla qualità specifica si trovi associata una qualità non specifica. Sia o meno confortata dalla fisiologia cerebrale,46 questa spiegazione non dà conto dell’esperienza sinestesica, che diviene cosi un’occasione per rimettere in questione il concetto di sensazione e il pensiero oggettivo. Infatti, il soggetto non ci dice solo di avere contemporaneamente un suono e un colore: è il suono stesso che egli vede nel punto in cui si formano i colorì.47 Questa formula è letteralmente priva di senso se si definisce la visione mediante il quale visivo, il suono mediante il quale sonoro. Ma spetta a noi costruire le nostre definizioni in modo da trovargliene uno, dal momento che la visione dei suoni o l’audizione dei colori esistono come fenomeni. E non sono nemmeno fenomeni eccezionali. La percezione sinestesica è la regola e, se non ce ne accorgiamo, è perché il sapere scientifico rimuove l’esperienza, perché abbiamo disimparato a vedere, a udire e, in generale, a sentire, per dedurre dalla nostra organizzazione corporea e dal mondo quale lo concepisce il fisico ciò che dobbiamo vedere, udire e sentire. La visione, si dice, non può darci se non colori o luci, e con essi forme, che sono i contorni dei colori, e movimenti, che sono i mutamenti di posizione delle macchie di colore. Ma come situare nella scala dei colori la trasparenza o i colori «torbidi»? Di fatto, in ciò che ha di più intimo, ogni colore non è che la struttura interna della cosa manifestata all’esterno. La lucidità dell’oro ci presenta sensibilmente la sua composizione omogenea, il colore spento del legno la sua composizione eterogenea.48 I sensi comunicano tra di essi aprendosi alla struttura della cosa. Si vede la rigidità e la fragilità del vetro, e quando esso si rompe con un suono cristallino, questo suono è vibrato dal vetro visibile.49 Si vede l’elasticità dell’acciaio, la duttilità dell’acciaio rovente, la durezza della lama di una pialla, la mollezza dei trucioli. La forma degli oggetti non è il loro contorno geometrico, ma ha un certo rapporto con la loro natura propria e, mentre parla alla vista, parla a tutti i nostri sensi. La forma di una piega in un tessuto di lino o di cotone ci fa vedere la


morbidezza o la secchezza della fibra, la freddezza o il tepore del tessuto. Infine, il movimento degli oggetti visibili non è il semplice spostamento delle macchie di colore che corrisponde a essi nel campo visivo. Nel movimento del ramo da cui un uccello ha spiccato il volo si legge la sua flessibilità o la sua elasticità, ed è cosi che possiamo distinguere immediatamente un ramo di melo e un ramo di betulla. Si vede il peso di un blocco di ghisa che affonda nella sabbia, la fluidità dell’acqua, la viscosità dello sciroppo.50 Parimenti, odo la durezza e l’irregolarità della strada nel rumore di un veicolo, e si parla a ragione di un rumore «molle», «sbiadito» o «secco». Se si può dubitare che l’udito ci dia delle vere e proprie «cose», è per lo meno certo che, al di là dei suoni nello spazio, esso ci offre qualcosa che «fa rumore», e con ciò comunica con gli altri sensi.51 Infine, se con gli occhi chiusi piego un’asta d’acciaio e un ramo di tiglio, fra le due mani percepisco la testura più segreta del metallo e del legno. Pertanto, considerati come qualità incomparabili, i «dati dei diversi sensi» dipendono da altrettanti mondi separati, dal momento che ciascuno di essi è, nella sua essenza particolare, una maniera di modulare la cosa: ciò non toglie che comunichino tutti in virtù del loro nucleo significativo. Si deve solo precisare la natura del significato sensibile, altrimenti ricadremmo nell’analisi intellettualistica che prima abbiamo respinto. È lo stesso tavolo quello che tocco e che vedo. Ma, si deve aggiungere, come del resto è stato fatto: è la stessa sonata che ascolto e che Helen Keller esegue, è lo stesso uomo che vedo e che un pittore cieco dipinge?52 Poco alla volta non ci sarebbe più nessuna differenza tra la sintesi percettiva e la sintesi intellettuale. L’unità dei sensi apparterrebbe al medesimo ordine dell’unità degli oggetti di scienza. Quando tocco e guardo contemporaneamente un oggetto, l’oggetto unico sarebbe la ragione comune di queste apparenze, come Venere è la ragione comune della Stella del Mattino e della Stella della Sera, e la percezione sarebbe una scienza ai suoi albori.53 Orbene, se la nostra percezione riunisce le nostre esperienze sensoriali in un mondo unico, non le riunisce nello stesso modo in cui la scienza collega oggetti o fenomeni, ma nello stesso modo in cui la visione binoculare coglie un solo oggetto. Descriviamo dappresso questa «sintesi». Quando il mio sguardo fissa l’infinito, io ho un’immagine sdoppiata degli oggetti vicini. Quando a loro volta li fisso, vedo le due immagini avvicinarsi simultaneamente a ciò che sarà l’oggetto unico e scomparire in esso. Non si deve dire qui che la sintesi consiste nel pensarle insieme come immagini di un solo oggetto; se si trattasse di un atto spirituale o di una appercezione, io dovrei subito notare l’identità delle due immagini, mentre in realtà l’unità dell’oggetto si fa attendere molto più a lungo: fino al momento in cui la fissazione le fa sparire. L’oggetto unico non è un certo modo di pensare le due immagini, giacché queste cessano di essere date nel momento in cui esso appare. La «fusione delle immagini» è stata dunque ottenuta in virtù di qualche dispositivo innato del sistema nervoso, e vogliamo dire che, in fin dei conti, se non alla periferia, per lo meno al centro, abbiamo un solo eccitamento mediato dai due occhi? Ma la semplice esistenza di un centro visivo non può spiegare l’oggetto unico, giacché talvolta si produce la diplopia, come del resto la semplice esistenza delle due retine non può spiegare la diplopia, visto che quest’ultima non è costante.54 Per comprendere tanto la diplopia quanto l’oggetto unico nella visione normale, non dobbiamo ricondurci alla disposizione anatomica dell’apparato visivo, ma al suo funzionamento e all’uso che ne fa il soggetto psicofisico. Diremo allora che la diplopia si produce perché i nostri occhi non convergono verso l’oggetto e perché tale oggetto forma sulle due retine immagini asimmetriche? Che le due immagini si fondono in una perché la fissazione le riporta in punti omologhi delle due retine? Ma la divergenza e la convergenza degli occhi sono la causa oppure l’effetto della diplopia e della visione normale? Nei ciechi dalla nascita operati di cataratta,


non si potrebbe dire se, durante il periodo successivo all’operazione, è l’assenza di coordinazione degli occhi a impedire la visione oppure la confusione del campo visivo a favorire quella assenza -, se essi non vedono perché non fissano, o se non fissano perché non hanno qualcosa da vedere. Quando guardo all’infinito e, per esempio, un mio dito posto accanto agli occhi proietta la sua immagine su punti asimmetrici delle retine, la disposizione dell’immagine sulle retine non può essere l a causa del movimento di fissazione che porrà termine alla diplopia. Infatti, come è stato osservato,55 la disparazione delle immagini, in sé, non esiste. Il mio dito forma la sua immagine su una certa area della retina sinistra e su un’area della retina destra che non è simmetrica alla prima. Ma anche l’area simmetrica della retina destra è riempita di eccitazioni visive; la distribuzione degli stimoli sulle due retine non è «asimmetrica» se non rispetto a un soggetto che confronta le due costellazioni e le identifica. Sulle retine stesse, considerate come oggetti, vi sono solo due insiemi di stimoli incomparabili. Forse si risponderà che, a meno che intervenga un movimento di fissazione, questi due insiemi non possono sovrapporsi, né dar luogo alla visione di qualcosa, e che, in questo senso, la loro sola presenza crea uno stato di squilibrio. Ma ciò equivale appunto ad ammettere quanto cerchiamo di dimostrare: che la visione di un oggetto unico non è un semplice risultato della fissazione, che essa è anticipata nell’atto stesso di fissazione o che, come si è detto, la fissazione dello sguardo è una «attività prospettica».56 Per riportarsi sugli oggetti vicini e concentrare gli occhi su di essi, il mio sguardo deve avvertire57 la diplopia come uno squilibrio o come una visione imperfetta, deve orientarsi verso l’oggetto unico come verso la soluzione di questa tensione e il compimento della visione. «Si deve “guardare” per vedere.»58 L’unità dell’oggetto nella visione binoculare non risulta quindi da qualche processo in terza persona che produrrebbe infine una immagine unica fondendo le due immagini monoculari. Quando si passa dalla diplopia alla visione normale, l’oggetto unico sostituisce le due immagini e, manifestamente, non ne è la semplice sovrapposizione: è di un altro ordine e incomparabilmente più solido di esse. Le due immagini della diplopia non sono amalgamate in una sola nella visione binoculare e l’unità dell’oggetto è intenzionale. Tuttavia - ed eccoci al punto cui volevamo giungere - non è una unità nozionale. Si passa dalla diplopia all’oggetto unico non in virtù di una ispezione dello spirito, ma quando i due occhi cessano di funzionare ciascuno per proprio conto e sono utilizzati come un solo organo da uno sguardo unico. Non è il soggetto epistemologico a effettuare la sintesi, ma il corpo quando si strappa dalla sua dispersione, si riunisce, si porta con tutti i mezzi verso un termine unico del suo movimento, e quando una intenzione unica scaturisce in esso grazie al fenomeno di sinergia. Noi non neghiamo la sintesi al corpo oggettivo se non per attribuirla al corpo fenomenico, e cioè al corpo in quanto proietta attorno a sé un certo «ambiente»,59 in quanto ognuna delle sue «parti» conosce dinamicamente l’altra e i suoi recettori si dispongono in modo da rendere possibile, in virtù della loro sinergia, la percezione dell’oggetto. Dicendo che questa intenzionalità non è un pensiero, vogliamo dire che essa non si effettua nella trasparenza di una coscienza e che assume come acquisito tutto il sapere che il mio corpo ha di se stesso. Addossata all’unità prelogica dello schema corporeo, la sintesi percettiva non possiede il segreto dell’oggetto più di quanto possegga quello del corpo proprio: ecco perché l’oggetto percepito si offre sempre come trascendente, perché la sintesi sembra farsi sull’oggetto stesso, nel mondo, e non in quel punto metafisico che è il soggettò pensante, perché, infine, la sintesi percettiva si distingue dalla sintesi intellettuale; quando passo dalla diplopia alla visione normale, io non ho solo coscienza di vedere con i due occhi lo stesso oggetto, ma ho coscienza di progredire verso l’oggetto stesso e di avere infine la sua presenza carnale. Le immagini monoculari vagavano dinnanzi alle cose, non avevano posto nel mondo, e tutt’a un tratto si ritirano


verso un certo luogo del mondo e vi si inabissano, come i fantasmi, alla luce del giorno, tornano a quella fenditura della terra dalla quale erano venuti. L’oggetto binoculare assorbe le immagini monoculari ed è in esso che viene effettuata la sintesi, è nella sua chiarezza che le immagini monoculari sono infine riconosciute come apparenze di tale oggetto. La serie delle mie esperienze si dà come concordante e la sintesi ha luogo non in quanto tali esperienze esprimono tutte una certa invariante e nell’unità dell’oggetto, ma in quanto sono tutte raccolte dall’ultima di esse e nella ipseità della cosa. Naturalmente, l’ipseità non è mai raggiunta: ogni aspetto della cosa che cade sotto la nostra percezione non è che un invito a percepire oltre e una pausa momentanea nel processo percettivo. Se raggiungessimo la cosa stessa, l’avremmo ormai dispiegata di fronte a noi, priva di misteri. Essa cesserebbe d’esistere come cosa nel momento stesso in cui crederemmo di possederla. Pertanto, ciò che fa la «realtà» della cosa è proprio ciò che la sottrae al nostro possesso. La aseità della cosa, la sua presenza irrecusabile e l’assenza perpetua nella quale si trincera, sono due aspetti inseparabili della trascendenza. L’intellettualismo li ignora entrambi, e se vogliamo render conto della cosa come termine trascendente di una serie aperta d’esperienze, dobbiamo dare al soggetto della percezione l’unità stessa, aperta e indefinita, dello schema corporeo. Ecco ciò che la sintesi della visione binoculare ci insegna. Applichiamolo al problema dell’unità dei sensi. Per comprenderla, non dobbiamo ricondurci alla loro sussunzione sotto una coscienza originaria, ma alla loro integrazione, mai compiuta, in un solo organismo conoscente. L’oggetto intersensoriale sta all’oggetto visivo come quest’ultimo alle immagini monoculari della diplopia,60 e i sensi comunicano nella percezione nello stesso modo in cui i due occhi collaborano nella visione. La visione dei suoni o l’audizione dei colori si realizzano così come si realizza l’unità dello sguardo attraverso i due occhi: e cioè in quanto il mio corpo non è una somma di organi giustapposti, ma un sistema sinergico - tutte le funzioni del quale sono riprese e collegate nel movimento generale dell’essere al mondo -, in quanto esso è l’immagine coagulata dell’esistenza. Ha senso dire che vedo dei suoni o che odo dei colori se la visione o l’audizione non è il semplice possesso di un quale opaco, ma l’esperienza di una modalità dell’esistenza, la sincronizzazione del mio corpo con essa, e il problema delle sinestesie si avvia verso la soluzione se l’esperienza della qualità è quella di un certo modo di movimento o di una condotta. Quando dico di vedere un suono, voglio dire che faccio eco alla vibrazione del suono con tutto il mio essere sensoriale e in particolare con quel settore di me stesso preposto alla percezione dei colori. Il movimento, inteso non come movimento oggettivo e spostamento nello spazio, ma come progetto di movimento o «movimento virtuale»,61 è il fondamento dell’unità dei sensi. È abbastanza noto che il cinema sonoro non si limita ad aggiungere allo spettacolo un accompagnamento sonoro, ma modifica il tenore dello spettacolo stesso. Quando assisto alla proiezione di un film doppiato in francese, non constato solo il disaccordo fra la parola e l’immagine, ma mi sembra subito che laggiù si dica qualcosa d’altro, e, mentre la sala e le mie orecchie sono riempite dal testo doppiato, tale testo non ha per me nemmeno un’esistenza acustica e io ho orecchio solo per quell’altra parola silenziosa che proviene dallo schermo. Quando un guasto al sonoro lascia improvvisamente senza voce il personaggio che continua a gesticolare sullo schermo, ciò che immediatamente mi sfugge non è solo il senso del suo discorso: anche lo spettacolo è mutato. Il volto, prima animato, si ispessisce e si irrigidisce come quello di un uomo interdetto, e l’interruzione del suono invade lo schermo sotto forma di una specie di stupore. Nello spettatore, i gesti e le parole non sono sussunti sotto un significato ideale, ma la parola riprende il gesto e il gesto riprende la parola, essi comunicano attraverso il mio corpo, così come gli aspetti sensoriali del mio corpo sono immediatamente simbolici l’uno dell’altro perché il mio corpo è appunto un sistema già fatto di equivalenze e di trasposizioni intersensoriali. I sensi si traducono vicendevolmente senza


aver bisogno di un interprete, si comprendono vicendevolmente senza dover passare attraverso l’idea. Queste osservazioni permettono di dare tutto il suo senso all’espressione di Herder: «L’uomo è un perpetuo sensorio comune, che ora è toccato da una parte, ora dall’altra.»62 Con la nozione di schema corporeo, non è solo l’unità del corpo a essere descritta in modo nuovo, ma anche, attraverso di essa, l’unità dei sensi e l’unità dell’oggetto. Il mio corpo è il luogo, o meglio l’attualità stessa del fenomeno d’espressione (Ausdruck), in esso l’esperienza visiva e l’esperienza auditiva, per esempio, sono l’una pregnante dell’altra, il loro valore espressivo fonda l’unità antepredicativa del mondo percepito e, attraverso di essa, l’espressione verbale (Darstellung) e il significato intellettuale (Bedeutung).63Il mio corpo è la testura comune di tutti gli oggetti ed è, per lo meno nei confronti del mondo, lo strumento generale della mia «comprensione». È il corpo a dare un senso non solo all’oggetto naturale, ma anche a oggetti culturali come le parole. Se a un soggetto si presenta ima parola in uno spazio di tempo troppo breve perché egli possa decifrarla, la parola «caldo», per esempio, induce una specie d’esperienza del calore che circonda la parola stessa come di un alone significativo.64 La parola «duro»65 suscita una specie di rigidità della schiena e del collo, e solo secondariamente si proietta nel campo visivo o uditivo e assume la sua figura di segno o di vocabolo. Prima di essere l’indice di un concetto, tale parola è anzitutto un evento che si impadronisce del mio corpo, e le sue prese su tale corpo circoscrivono la zona di significato alla quale essa si riferisce. Un soggetto dichiara che, alla presentazione della parola «umido» (feucht) avverte, oltre a una sensazione di umidità e di freddo, tutto un rimaneggiamento dello schema corporeo, come se la parte interna del corpo venisse alla periferia e come se la realtà del corpo, prima riunita nelle braccia e nelle gambe, cercasse di darsi un nuovo centro. La parola non è allora distinta dall’atteggiamento che induce ed è solo quando la sua presenza si prolunga che essa appare come immagine esteriore e il suo significato come pensiero. Le parole posseggono una fisionomia perché nei loro confronti, come nei confronti di ogni persona, noi abbiamo una certa condotta che appare istantaneamente non appena esse ci sono date. «Tento di cogliere la parola rot (rosso) nella sua espressione vivente; ma, in un primo tempo, per me essa è solo periferica, non è che un segno con il sapere del suo significato. Non è il rosso stesso. Tutto a un tratto, però, noto che la parola si apre un varco nel mio corpo. La sensazione - difficile da descrivere - di una specie di pienezza attutita pervade il mio corpo e, in pari tempo, dà alla mia cavità orale una forma sferica. E, proprio in questo momento, noto che la parola sulla carta riceve il suo valore espressivo, mi si fa innanzi in un alone rosso scuro, mentre la lettera o presenta intuitivamente quella cavità sferica che prima ho sentito nella mia bocca.»66 Questa condotta della parola fa comprendere, in particolare, come la parola sia indissolubilmente qualcosa che si dice, si ascolta e si vede. «La parola letta non è una struttura geometrica in un segmento di spazio visivo, ma la presentazione di un comportamento e di un movimento linguistico nella sua pienezza dinamica.»67 Sia che si tratti di percepire delle parole o, più in generale, degli oggetti, «c’è un certo atteggiamento corporeo, un modo specifico di tensione dinamica che è necessario per strutturare l’immagine; in quanto totalità dinamica e vivente, l’uomo deve strutturare se stesso per tracciare una figura nel suo campo visivo come parte dell’organismo psico-fisico».68 Insomma, il mio corpo non è solo un oggetto fra tutti gli altri oggetti, un complesso di qualità sensibili fra altre, ma un oggetto sensibile a tutti gli altri, che risuona per tutti i suoni, vibra per tutti i colori, e che fornisce alle parole il loro significato primordiale in virtù del modo in cui le accoglie. Non si tratta qui di ridurre il significato della parola «caldo» a sensazioni di calore, secondo le formule empiristiche. Infatti, il calore che sento leggendo la parola «caldo» non è un calore effettivo. È semplicemente il mio corpo che si appresta al calore e che, per cosi dire, ne delinea la forma. Parimenti, quando di fronte a me si


nomina una parte del mio corpo o quando me la rappresento, trovo nel punto corrispondente una quasi-sensazione di contatto che è solo l’emergere di questa parte del mio corpo nello schema corporeo totale. Noi non riduciamo quindi il significato della parola e nemmeno il significato del percepito a una somma di «sensazioni corporee», ma diciamo che il corpo, in quanto ha dei «comportamenti» è quello strano oggetto che utilizza le sue proprie parti come simbolica generale del mondo e attraverso il quale, perciò, noi possiamo «frequentare» questo mondo, «comprenderlo» e trovargli un significato. Tutto ciò, si dirà, ha senza dubbio un certo valore come descrizione dell’apparenza. Ma come ci può interessare, se, in fin dei conti, queste descrizioni non vogliono dire nulla che possa essere pensato e se la riflessione dimostra il loro non senso? Al livello dell’opinione, il corpo proprio è oggetto costituito e insieme costituente nei confronti degli altri oggetti. Ma se si vuole sapere di che cosa si parla, si deve scegliere, e, in ultima analisi, ricollocarlo dalla parte dell’oggetto costituito. Infatti, una delle due: o mi considero in mezzo al mondo, inserito in esso grazie al mio corpo che si lascia investire dalle relazioni di causalità, e allora «i sensi» e «il corpo» sono apparati materiali e non conoscono un bel nulla; l’oggetto forma sulle retine un’immagine, e nel centro ottico l’immagine retinica si raddoppia di un’altra immagine, ma non ci sono qui se non cose da vedere e nessuno che veda, siamo indefinitamente rinviati da una tappa corporea all’altra, nell’uomo supponiamo un «piccolo uomo», e in quest’ultimo un altro senza mai arrivare alla visione; - oppure voglio veramente comprendere come c’è visione, ma allora devo uscire dal costituito, da ciò che è in sé, e cogliere attraverso la riflessione un essere per il quale l’oggetto possa esistere. Orbene, perché l’oggetto possa esistere nei confronti del soggetto, non è sufficiente che tale «soggetto» l’abbracci con lo sguardo o lo afferri come la mia mano afferra questo pezzo di legno, ma è altresì necessario che egli sappia di afferrarlo o di guardarlo, che si conosca nell’atto di afferrare o di guardare, che il suo atto sia interamente dato a se stesso e che infine questo soggetto sia esclusivamente ciò che ha Coscienza di essere, altrimenti avremmo si un afferramento dell’oggetto o uno sguardo sull’oggetto per un terzo testimonio, ma il preteso soggetto, mancandogli l’autocoscienza, si disperderebbe nel suo atto e non avrebbe coscienza di nulla. Perché ci sia visione dell’oggetto o percezione tattile dell’oggetto, ai sensi mancherà sempre quella dimensione di assenza, quella irrealtà in virtù della quale il soggetto può essere sapere di sé e l’oggetto esistere per lui. La coscienza del collegato presuppone la coscienza del collegante e del suo atto di collegamento, la coscienza dell’oggetto presuppone l’autocoscienza, o meglio, esse sono sinonime. Pertanto, c’è coscienza di qualcosa proprio perché il soggetto non è assolutamente niente, e le «sensazioni», la «materia» della conoscenza non sono momenti o abitanti della coscienza, ma sono dalla parte del costituito. Che cosa possono le nostre descrizioni contro queste evidenze? Come potrebbero sfuggire a tale alternativa? Ritorniamo all’esperienza percettiva. Io percepisco questo tavolo sul quale scrivo. Ciò significa, tra l’altro, che il mio atto di percezione mi occupa, e mi occupa quanto basta perché, mentre percepisco effettivamente il tavolo, io non possa cogliermi nell’atto di percepirlo. Quando voglio farlo cesso, per cosi dire, di immergermi nel tavolo con lo sguardo, mi volgo verso me che percepisco, e mi accorgo allora che la mia percezione ha dovuto attraversare certe apparenze soggettive e interpretare certe mie «sensazioni»: infine, essa appare nella prospettiva della mia storia individuale. A partire dal collegato io ho secondariamente coscienza di un’attività di collegamento, quando, assumendo l’atteggiamento analitico, scompongo la percezione in qualità e in sensazioni, e quando, per passare da esse all’oggetto in cui prima ero gettato, sono costretto a supporre un atto di sintesi che non è se non la contropartita della mia analisi. Il mio atto di percezione, considerato nella sua ingenuità, non effettua esso stesso questa sintesi, ma beneficia di un lavoro già fatto, di una sintesi generale


costituita una volta per tutte; è quanto esprimo dicendo che percepisco con il mio corpo o con i miei sensi, il mio corpo e i miei sensi essendo appunto questo sapere abituale del mondo, questa scienza implicita o sedimentata. Se la mia coscienza costituisse attualmente il mondo che percepisce, tra i due non ci sarebbe nessuna distanza e nessuno scarto possibile, la coscienza penetrerebbe il mondo sin nelle sue articolazioni più segrete, l’intenzionalità ci trasporterebbe nel cuore dell’oggetto, e nello stesso tempo il percepito non avrebbe lo spessore di un presente, la coscienza non si perderebbe, non rimarrebbe invischiata in esso. Viceversa, abbiamo coscienza di un oggetto inesauribile e siamo sprofondati in esso poiché, tra tale oggetto e noi, c’è quel sapere latente che il nostro sguardo utilizza, di cui presumiamo solo che è possibile svilupparlo razionalmente, e che rimane sempre al di qua della nostra percezione. Se, come dicevamo, ogni percezione ha qualcosa di anonimo, è perché riprende un patrimonio di acquisizioni che non mette in questione. Colui che percepisce non è dispiegato di fronte a se stesso come deve esserlo una coscienza, ma ha uno spessore storico, riprende una tradizione percettiva ed è confrontato con un presente. Nella percezione noi non pensiamo l’oggetto e non ci pensiamo come pensanti tale oggetto, ma ineriamo all’oggetto e ci confondiamo con questo corpo che ne sa pili di noi sul mondo, sui motivi e sui mezzi che abbiamo per farne la sintesi. Ecco perché abbiamo detto con Herder che l’uomo è un sensorio comune. In questo strato originario del sentire che ritroviamo a condizione di coincidere veramente con l’atto percettivo e di abbandonare l’atteggiamento critico, io vivo l’unità del soggetto e l’unità intersensoriale della cosa, non li penso come faranno l’analisi riflessiva e la scienza. - Ma che cos’è il collegato senza il collegamento, che cosa è questo oggetto che non è ancora oggetto per qualcuno? La riflessione psicologica, che pone il mio atto percettivo come un accadimento della mia storia, può certo essere seconda. Ma la riflessione trascendentale, che mi scopre come il pensatore atemporale dell’oggetto, non introduce in esso nulla che non ci sia già: si limita a formulare ciò che dà un senso al «tavolo», alla «sedia», ciò che forma la loro struttura stabile e rende possibile la mia esperienza dell’oggettività. Infine, che cos’è vivere l’unità dell’oggetto o del soggetto, se non farla? Anche se si presuppone che essa appaia con il fenomeno del mio corpo, non è forse necessario che io la pensi in esso per trovarvela e che faccia la sintesi di questo fenomeno per averne l’esperienza? - Noi non cerchiamo di ricavare il per sé dall’in sé, non ritorniamo a una forma qualsiasi d’empirismo, e il corpo che deputiamo alla sintesi del mondo percepito non è un puro dato, una cosa passivamente ricevuta. Ma la sintesi percettiva è per noi una sintesi temporale, la soggettività, al livello della percezione, non è altro che la temporalità: ciò ci permette di lasciare al soggetto della percezione la sua opacità e la sua storicità. Io apro gli occhi sul tavolo, la mia coscienza è satura di colori e di riflessi confusi, si distingue appena da ciò che le si offre e, attraverso il suo corpo, si colloca nello spettacolo che non è ancora spettacolo di qualcosa. Tutto a un tratto fisso il tavolo che non è ancora li, guardo a distanza anche se non c’è ancora profondità, il mio corpo si centra su un oggetto ancora virtuale e dispone le sue superfici sensibili in modo da renderlo attuale. Posso cosi rimandare al suo posto nel mondo il qualcosa che mi toccava, poiché, inoltrandomi nell’avvenire, posso rimandare nel passato immediato il primo attacco del mondo sui miei sensi e orientarmi verso l’oggetto determinato come verso un avvenire prossimo. L’atto dello sguardo è indivisibilmente prospettivo, 69 poiché l’oggetto è al termine del mio movimento di fissazione, e retrospettivo, poiché l’oggetto si darà come anteriore alla sua apparizione, come lo «stimolo», il motivo o il primo motore di tutto il processo sin dal suo inizio. La sintesi spaziale e la sintesi dell’oggetto sono fondate su questo dispiegarsi del tempo. In ogni movimento di fissazione, il mio corpo riunisce un presente, un passato e un avvenire, secerne del tempo, o meglio, diviene quel luogo della natura in cui, per la prima volta, anziché spingersi vicendevolmente nell’essere, gli accadimenti proiettano attorno al presente un duplice


orizzonte di passato e di avvenire e ricevono un orientamento storico. Qui c’è si l’invocazione, ma non l’esperienza di un naturante eterno. Il mio corpo prende possesso del tempo, fa esistere un passato e un avvenire per un presente, non è una cosa, fa il tempo anziché subirlo. Ma ogni atto di fissazione deve essere rinnovato, altrimenti cade nell’incoscienza. L’oggetto resta nitido di fronte a me solo se io lo percorro con gli occhi, la volubilità è una proprietà essenziale dello sguardo. La presa che esso ci dà su un segmento di tempo, la sintesi che effettua, sono esse stesse fenomeni temporali, fluiscono e possono sussistere solo se ricuperate in un nuovo atto anch’esso temporale. La pretesa all’oggettività di ogni atto percettivo è ripresa da quello successivo, ancora delusa e di nuovo ripresa. Questo continuo scacco della coscienza percettiva era prevedibile sin dal suo inizio. Se io posso vedere l’oggetto solamente allontanandolo nel passato, è perché, come il primo attacco dell’oggetto sui miei sensi, la percezione che gli succede occupa o oblitera anch’essa la mia coscienza, è perché, quindi, essa passerà a sua volta, perché il soggetto della percezione non è mai una soggettività assoluta ed è destinato a divenire oggetto per un Io ulteriore. La percezione è sempre nel modo del «Si». Non è un atto personale, in virtù del quale darei io stesso un senso nuovo alla mia vita. Chi, nell’esplorazione sensoriale, dà un passato al presente e lo orienta verso un avvenire, non sono io come soggetto autonomo, ma io in quanto ho un corpo e so «guardare». Più che essere una autentica storia, la percezione attesta e rinnova in noi una «preistoria». E anche questo è essenziale al tempo; non ci sarebbe il presente, cioè il sensibile con il suo spessore e la sua ricchezza inesauribile, se la percezione, per parlare con Hegel, non conservasse un passato nella sua profondità presente e non lo contraesse in sé. Essa non effettua attualmente la sintesi del suo oggetto, non perché lo riceva passivamente, alla maniera empiristica, ma perché l’unità dell’oggetto appare attraverso il tempo, e perché il tempo sfugge a se stesso man mano che si riafferra. Io ho sì, grazie al tempo, un incorporamento e una ripresa delle esperienze precedenti nelle esperienze successive, ma non posso mai possedermi assolutamente, giacché il vuoto dell’avvenire si riempie sempre di un nuovo presente. Non c’è oggetto collegato senza collegamento e senza soggetto, non c’è unità senza unificazione, ma ogni sintesi è distesa e al tempo stesso rifatta dal tempo che, con un sol atto, la mette in questione e la conferma perché produce un nuovo presente che ritiene il passato. L’alternativa fra il naturato e il naturante si trasforma quindi in una dialettica del tempo costituito e del tempo costituente. Se vogliamo risolvere il problema che abbiamo posto - quello della sensorialità, cioè della soggettività finita -, dobbiamo riflettere sul tempo e mostrare come esso non è se non per una soggettività, giacché senza di essa non ri sarebbe tempo, il passato in sé non essendo più e l’avvenire in sé non essendo ancora, - ma dobbiamo mostrare anche come questa soggettività è il tempo stesso, come si può dire con Hegel che il tempo è l’esistenza dello spirito, o parlare con Husserl di una autocostituzione del tempo. Per il momento, le descrizioni precedenti e quelle imminenti ci rendono familiare un nuovo genere di descrizione da cui attendiamo la soluzione dei nostri problemi. Per l’intellettualismo, riflettere significa allontanare od oggettivare la sensazione e far apparire di fronte a essa un soggetto vuoto che possa percorrere questo diverso (divers) e per il quale esso possa esistere. Nella misura stessa in cui purifica la coscienza svuotandola di ogni opacità, l’intellettualismo fa della hyle una autentica cosa: cosi, l’apprensione dei contenuti concreti, l’incontro di questa cosa e dello spirito diviene impensabile. Se si risponde che la materia della conoscenza è un risultato dell’analisi e che non deve essere trattata come un elemento reale, si deve ammettere che, correlativamente, anche l’unità sintetica dell’appercezione è una formulazione nozionale dell’esperienza, che essa non deve ricevere un valore originario e, insomma, che la teoria della conoscenza è da ricominciare. Per quanto ci riguarda, conveniamo che la materia e la forma della conoscenza sono risultati dell’analisi.


Io pongo una materia della conoscenza quando, rompendo con la fede originaria della percezione, adotto nei suoi confronti un atteggiamento critico e mi domando «che cosa vedo veramente». Il compito di una riflessione radicale, cioè di una riflessione che vuole comprendere se stessa, consiste paradossalmente nel ritrovare l’esperienza irriflessa del mondo, per ricollocare in essa l’atteggiamento di verificazione e le operazioni riflessive, e per fare apparire la riflessione come una delle possibilità del mio essere. Che cosa abbiamo dunque all’inizio? Non una data molteplicità con una appercezione sintetica che la percorre e la attraversa da capo a fondo, ma un certo campo percettivo sullo sfondo del mondo. Nulla qui è tematizzato. Né l’oggetto, né il soggetto sono posti. Nel campo originario non si ha un mosaico di qualità, ma una configurazione totale che distribuisce i valori funzionali in base all’esigenza dell’insieme e, per esempio, come abbiamo visto, un foglio «bianco» nell’ombra non è bianco nel senso di una qualità oggettiva, ma vale come bianco. Ciò che chiamiamo sensazione non è se non la percezione più semplice e, in quanto modalità dell’esistenza, non può, al pari di ogni percezione, separarsi da uno sfondo, che in definitiva è il mondo. Correlativamente, ogni atto percettivo si rivela come prelevato da un’adesione globale al mondo. Al centro di questo sistema c’è la facoltà di sospendere la comunicazione vitale, o per lo meno di restringerla, appoggiando il nostro sguardo su una parte dello spettacolo e dedicandogli tutto il campo percettivo. Come si è visto, non dobbiamo realizzare nell’esistenza primordiale le determinazioni che saranno ottenute nell’atteggiamento critico, né di conseguenza parlare di una sintesi attuale laddove il molteplice non è ancora dissociato. Si deve quindi respingere l’idea di sintesi e quella di una materia della conoscenza? Diremo che la percezione rivela gli oggetti allo stesso modo in cui una luce li illumina nella notte, dobbiamo far nostro quel realismo che, come diceva Malebranche, immagina che l’anima esca dagli occhi e visiti gli oggetti nel mondo? Ciò non ci libera nemmeno dall’idea di sintesi, giacché, per percepire una superficie, per esempio, non basta visitarla, ma è necessario ritenere i momenti del percorso e collegare i punti della superficie. Ma abbiamo visto che la percezione originaria è un’esperienza non tetica, preoggettiva e precosciente. Diciamo quindi provvisoriamente che c’è una materia della conoscenza unicamente possibile. Da ogni punto del campo primordiale partono delle intenzioni, vuote e determinate; effettuando queste intenzioni, l’analisi perverrà all’oggetto di scienza, alla sensazione come fenomeno privato e al soggetto puro che li pone entrambi. Questi tre termini non sono se non all’orizzonte dell’esperienza primordiale. È nell’esperienza della cosa che si fonderà l’ideale riflessivo del pensiero tetico. La riflessione stessa coglie quindi il suo senso pieno solo se menziona il contenuto irriflesso che presuppone, di cui beneficia, e che per essa costituisce come un passato originario, un passato che non è mai stato presente.


Note

1 Goldstein e

Rosenthal, Zur Problem der Wirkung der Farben auf den Organismus, pp. 3-9.

2 Ibidem. 3 La

structure du comportement.

4 Goldstein e

Rosenthal, op. cit., p. 23.

5 Ibidem. 6 Ibidem. 7

Kandinsky, Form und Farbe in der Molerei; Goethe, Farbenlehre, in particolare Abs. 293; citati da Goldstein e Rosenthal.

8 Goldstein e 9 Werner,

Rosenthal, op. cit., pp. 23-25.

Untersuchungen über Empfindung und Empfinden, I, p. 158.

10 Ibidem. 11 Ibidem,

p. 159.

12 Werner,

Über die Ausprägung von Tongestalten.

13 Werner,

Untersuchungen über Empfindung und Empfinden, I, p. 160.

14 Ibidem,

p. 158.

15 Koehler, 16

Die physischen Gestalten, p. 180.

Altrove abbiamo mostrato che, vista dall’esterno, la coscienza non poteva essere un per sé puro (La structure du comportement, pp. 168 sgg.). Ora si comincia a vedere che ciò vale anche per la coscienza vista dall’interno.

17 Husserl,

Meditazioni cartesiane, trad. it. cit, p. 85.

18 Formale

und transzendentale Logik, per esempio p. 226.

19

Un soggetto dichiara che le nozioni spaziali che egli credeva di avere prima dell’operazione non gli davano un’autentica rappresentazione dello spazio e non erano che un «sapere acquisito grazie


al lavoro del pensiero» (Von Senden, Raumund Gestaltauffassung bei operierten Blindgeboren vor und nach der Operation, p. 23). L’acquisizione della vista comporta una riorganizzazione generale dell’esistenza che interessa anche il tatto. Il centro del mondo si sposta, lo schema tattile viene dimenticato, il riconoscimento mediante il tatto è meno sicuro, la corrente esistenziale passa ormai per la visione ed è di questo tatto indebolito che il malato parla. 20 Ibidem,

p. 36.

21 Ibidem,

p. 93.

22 Ibidem,

pp. 102-104.

23 Ibidem,

p. 124.

24 Ibidem,

p. 113.

25 Ibidem,

p. 123.

26 Ibidem,

p. 29.

27 Ibidem,

p. 45.

28 Ibidem. 29 Ibidem,

pp. 50 sgg.

30 Ibidem,

p. 186.

31 Gelb,

Die Farbenkonstanz der Sehdinge, p. 600.

32 Ibidem,

p. 613.

33 «Einstellung auf reine

Optik», Katz citato da Gelb, op. cit., p. 600.

34 Ibidem. 35 Werner,

Untersuchungen über Empfindung und Empfinden, I, p. 155.

36 Ibidem,

p. 157.

37 Ibidem,

p. 162.

38 Zietz e

Werner, Die dynamische Struktur der Bewegung.

39 Werner,

op. cit., p. 163.


40 Cfr.

il presente volume, introduzione, paragrafo primo.

41 Werner, 42 Stein,

op. cit., p. 154.

Pathologie der Wahrnehmung, p. 422.

43 Mayer-Gross

e Stein, Über einige Abänderungen der Sinnesfätigkeit im Meskalinrausch, p. 385.

44 Ibidem. 45 Ibidem. 46

Sotto l’effetto della mescalina è possibile, per esempio, osservare una modificazione delle cronassie. Ciò non costituirebbe in nessun modo una spiegazione delle sinestesie fondata sul corpo oggettivo: infatti, come dimostreremo, la giustapposizione di più qualità sensibili è incapace di farci comprendere l’ambivalenza percettiva quale e data nell’esperienza sinestesica. Il cambiamento delle cronassie non potrebbe essere la causa delle sinestesie, ma l’espressione oggettiva o il segno di un evento globale e più profondo che non ha la sua sede nel corpo oggettivo e che interessa il corpo fenomenico come veicolo dell’essere al mondo.

47 Werner,

op. cit., p. 163.

48 Schapp,

Beiträge zur Phänomenologie der Wahrnehmung, pp. 23 sgg.

49 Ibidem,

p. 11.

50 Ibidem,

pp. 21 sgg.

51 Ibidem,

pp. 32-33.

52

Specht, Zur Phänomenologie und Morphologie der pathologischen Wahrnehmungstäuschungen, p. 11.

53 Alain, 54

Quatre-vingt-un chapitres sur l’esprit et les passions, p. 38.

«La convergenza dei conduttori, quale esiste di fatto, non condiziona la indistinzione delle immagini nella visione binoculare semplice, poiché la rivalità di quelle monoculari può prodursi. Parimenti, la separazione delle retine non rende conto della loro eventuale distinzione giacché normalmente, dal momento che tutto rimane eguale nel recettore e nei conduttori, questa distinzione non si verifica.» R. Déjean, Étude psychologique de la distarne dans la vision, p. 74,

55 Koffka, 56

Some problems of space perception, p. 179.

R. Déjean, op. cit., pp. 110-111. L’autore dice: «una attività prospettica dello spirito» e si vedrà che su questo punto noi non lo seguiamo.


57

È noto che la Gestalttheorie fa riposare questo processo orientato su qualche fenomeno fisico nella «zona di combinazione». Altrove abbiamo detto che è contraddittorio richiamare lo psicologo alla varietà dei fenomeni o delle strutture e spiegarli tutti con alcuni di essi, qui le forme psichiche. Come forma temporale, la fissazione non è un fatto fisico o fisiologico, per la semplice ragione che tutte le forme appartengono al mondo fenomenico. Cfr. su questo punto La structure du comportement, pp. 175 sgg., 191 sgg.

58 R.

Déjean, ibidem.

59

In quanto esso ha una Umweltintentionalität, Buytendijk e Plessner, Die Deutung des mimischen Ausdrucks, p. 81.

60

È vero che i sensi non devono essere messi sullo stesso piano, come se fossero tutti egualmente capaci di oggettività e permeabili all’intenzionalità. L’esperienza non ce li dà come equivalenti: mi sembra che l’esperienza visiva sia più vera dell’esperienza tattile, raccolga in se stessa la sua verità e la accresca, in quanto la sua struttura più ricca mi presenta delle modalità dell’essere insospettabili per il tatto. L’unità dei sensi si realizza trasversalmente, a motivo della loro struttura propria. Ma si ritrova qualcosa di analogo nella visione binoculare, se è vero che abbiamo un «occhio direttore» che subordina l’altro. Questi due fatti - la ripresa delle esperienze sensoriali nell’esperienza visiva e quella delle funzioni di un occhio da parte dell’altro - provano che l’unità dell’esperienza non è una unità formale, ma una organizzazione autoctona.

61 Palagyi, 62 Citato 63

Stein.

da Werner, op. cit. p. 152.

La distinzione fra Ausdruck, Darstellung e Bedeutung è fatta da Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen, III.

64 Werner, 65 O,

op. cit., pp. 160 sgg.

in ogni caso, la parola tedesca hart.

66

Werner, Untersuchungen über Empfindung und Empfinden, II, Die Rolle der Sprachempfindung im Prozess der Gestaltung ausdrucksmässig erlebter Wörter, p. 238.

67

Ibidem, p. 239. Quanto abbiamo detto della parola vale, a maggior ragione, anche per la frase. Ancor prima di aver letto interamente la frase noi possiamo dire che è «di stile giornalistico» o che è «una proposizione incidentale» (ibidem, pp. 251-253). Si può comprendere una frase o per lo meno darle un certo senso andando dal tutto alle parti. Non perché noi formiamo una «ipotesi» a proposito delle prime parole, come dice Bergson, ma perché abbiamo un organo del linguaggio che sposa la configurazione linguistica che gli viene presentata, cosi come i nostri organi di senso si orientano sullo stimolo e si sincronizzano con esso.

68 Ibidem,

p. 230.


69

Il termine «prospettivo» (prospectif) è qui costruito sul modello di «retrospettivo» (retrospectif), cui è appunto collegato. (N. d. T.).


II, Lo spazio

Abbiamo riconosciuto che l’analisi non ha il diritto di porre come momento idealmente separabile una materia della conoscenza e che questa materia, nel momento in cui la realizziamo con un atto espresso di riflessione, si riferisce già al mondo. La riflessione non ripercorre a ritroso un cammino già percorso dalla costituzione, e il riferimento naturale della materia al mondo ci conduce a una nuova concezione della intenzionalità, giacché la concezione classica,1 che tratta l’esperienza del mondo come un atto puro della coscienza costituente, non riesce a farlo se non nell’esatta misura in cui definisce la coscienza come non-essere assoluto e, correlativamente, respinge i contenuti in un «sostrato hyletico» consistente di essere opaco. Dobbiamo ora accostarci più direttamente a questa nuova intenzionalità con l’esaminare la nozione simmetrica di una forma della percezione e, in particolare, la nozione di spazio. Kant ha tentato di tracciare una rigida linea di demarcazione fra lo spazio come forma dell’esperienza esterna e le cose date in questa esperienza. Naturalmente non si tratta di un rapporto fra contenente e contenuto, giacché questo rapporto esiste solo fra oggetti, e nemmeno di un rapporto di inclusione logica come quello intercorrente fra l’individuo e la classe, giacché lo spazio precede le sue cosiddette parti, le quali sono sempre ritagliate in esso. Lo spazio non è l’ambito (reale o logico) in cui le cose si dispongono, ma il mezzo in virtù del quale diviene possibile la posizione delle cose. Ciò equivale a dire che, anziché immaginarlo come una specie di etere nel quale sono immerse tutte le cose o concepirlo astrattamente come un carattere che sia comune a esse, dobbiamo pensarlo come la potenza universale delle loro connessioni. Pertanto, o non rifletto, vivo nelle cose e considero vagamente lo spazio ora come l’ambito delle cose, ora come il loro attributo comune, - oppure rifletto, riafferro lo spazio alla sua fonte, penso attualmente le relazioni che sono sotto questa parola e mi accorgo allora che esse non vivono se non in virtù di un soggetto che le descrive e le sostiene, passo dallo spazio spazializzato allo spazio spazializzante. Nel primo caso il mio corpo e le cose, le loro relazioni concrete secondo l’alto e il basso, la destra e la sinistra, il vicino e il lontano, possono apparirmi come una molteplicità irriducibile, nel secondo scopro una capacità unica e indivisibile di descrivere lo spazio. Nel primo caso, ho a che fare con lo spazio fisico, con le sue regioni diversamente qualificate; nel secondo, ho a che fare con lo spazio geometrico, le cui dimensioni sono sostituibili, ho la spazialità omogenea e isotropa, posso per lo meno pensare un puro mutamento di luogo che non modificherebbe in nulla il mobile, e perciò una pura posizione distinta dalla situazione dell’oggetto nel suo contesto concreto. È noto come questa distinzione si offuschi, al livello dello stesso sapere scientifico, nelle moderne concezioni dello spazio. Vorremmo qui confrontarla non con gli strumenti tecnici che la fisica moderna ha elaborato, ma con la nostra esperienza dello spazio, ultima istanza, secondo lo stesso Kant, di tutte le conoscenze circa lo spazio. È forse vero che siamo di fronte a questa alternativa: o percepire delle cose nello spazio, oppure (se riflettiamo e se vogliamo sapere che cosa significano le nostre proprie esperienze) pensare lo spazio come il sistema indivisibile degli atti di collegamento che uno spirito costituente compie? L’esperienza dello spazio non ne fonda l’unità in virtù di una sintesi di ben altro tipo? Consideriamola prima di ogni elaborazione nozionale. Prendiamo, per esempio, la nostra esperienza dell’«alto» e del «basso». Non potremmo coglierla nel corso consueto della vita, giacché sarebbe allora dissimulata sotto le sue proprie acquisizioni. Dobbiamo rivolgerci a qualche caso eccezionale in cui essa si disfa e si rifà sotto i nostri occhi, per esempio nel caso di visione senza


inversione retinica. Se facciamo portare ad un soggetto degli occhiali che correggono le immagini retiniche, dapprima l’intero paesaggio sembra irreale e capovolto; al secondo giorno dell’esperienza, la percezione normale comincia a ristabilirsi, salvo che il soggetto ha la sensazione che il proprio corpo è capovolto.2 Nel corso di una seconda serie di esperienze,3 che dura otte giorni, dapprima gli oggetti appaiono capovolti, ma meno irreali della prima volta. Il secondo giorno, il paesaggio non è più capovolto, ma il corpo è sentito in posizione anormale. Dal terzo al settimo giorno, il corpo si riassesta progressivamente e alla fine sembra essere in posizione normale, soprattutto quando il soggetto è attivo. Quando è disteso immobile su un divano, il corpo si presenta ancora sullo sfondo del vecchio spazio e, per le parti invisibili del corpo, la destra e la sinistra conservano la vecchia localizzazione sino alla fine dell’esperienza. Gli oggetti esterni hanno sempre più l’aspetto della «realtà». Dal quinto giorno in poi, i gesti che in un primo tempo si lasciavano ingannare dal nuovo modo di visione e che andavano corretti conformemente al perturbamento visivo, raggiungono il loro scopo senza errori. Le nuove apparenze visive che all’inizio erano isolate su uno sfondo di vecchio spazio, si circondano di un orizzonte orientato come esse, prima (terzo giorno) grazie a uno sforzo volontario, poi (settimo giorno) senza nessuno sforzo. Al settimo giorno, la localizzazione dei suoni è corretta se l’oggetto sonoro è visto nello stesso tempo in cui è udito. Essa rimane incerta, con doppia rappresentazione, o anche scorretta, se l’oggetto sonoro non appare nel campo visivo. Alla fine dell’esperienza, quando vengono ritirati gli occhiali, gli oggetti sembrano non certo capovolti, ma «bizzarri» e le reazioni motorie sono invertite: il soggetto tende la mano destra quando dovrebbe tendere la sinistra. In un primo tempo lo psicologo è tentato di dire4 che, dopo l’imposizione degli occhiali, il mondo visivo è dato al soggetto proprio come se avesse ruotato di 180° e di conseguenza è per lui capovolto. Nello stesso modo in cui le illustrazioni di un libro ci appaiono alla rovescia se qualcuno si è divertito a mettere il libro «a testa in giù» mentre noi guardavamo altrove, la massa delle sensazioni che costituiscono il panorama è stata capovolta, posta anch’essa «a testa in giù». Nel frattempo, quell’altra massa di sensazioni che è il mondo tattile è rimasta «dritta»; essa non può più coincidere con il mondo visivo e, in particolare, il soggetto ha due rappresentazioni inconciliabili del proprio corpo, una datagli dalle sensazioni tattili e dalle «immagini visive» che egli ha potuto conservare dal periodo precedente all’esperienza, l’altra, quella della visione presente, che gli mostra il suo corpo «a piedi in su». Questo conflitto di immagini può finire solo se scompare uno dei due antagonisti. Sapere come si ristabilisce una situazione normale equivale allora a sapere come la nuova immagine del mondo e del corpo proprio può far «impallidire»5 o «rimuovere»6 l’altra. Si nota che essa ci riesce tanto meglio, quanto più il soggetto è attivo: per esempio, sin dal secondo giorno, quando questi si lava le mani.7 Sarebbe dunque l’esperienza del movimento controllato dalla vista a insegnare al soggetto come armonizzare i dati visivi e i dati tattili: egli si accorgerebbe, per esempio, che il movimento necessario per raggiungere le gambe, che prima era un movimento verso «il basso», nel nuovo spettacolo visivo è rappresentato da un movimento verso quello che prima era «l’alto». Simili constatazioni permetterebbero anzitutto di correggere i gesti inadatti assumendo i dati visivi come semplici segni da decifrare e traducendoli nel linguaggio del vecchio spazio. Una volta divenute «abituali»8 esse creerebbero tra le direzioni vecchie e quelle nuove delle «associazioni»9 stabili che, infine, sopprimerebbero le prime a beneficio delle seconde, quest’ultime essendo preponderanti in quanto fornite dalla vista. Dal momento che l’«alto» del campo visivo, in cui dapprima appaiono le gambe, è stato frequentemente identificato con quello che è il «basso» per il tatto, ben presto il soggetto non ha più bisogno della mediazione di un movimento controllato per


passare da un sistema all’altro, le gambe vengono a trovarsi in quello che egli chiamava l’«alto» del campo visivo, ed egli non solo ce le «vede», ma anche ce le «sente»:10 infine, «quello che una volta era l’”alto” del campo visivo comincia a dare un’impressione molto simile a quella che apparteneva al “basso” e viceversa».11 Nel momento in cui il corpo tattile si ricongiunge al corpo visivo, la regione del campo visivo in cui apparivano i piedi del soggetto cessa di definirsi come «l’alto». Tale designazione compete alla regione in cui appare la testa, quella dei piedi torna a essere il basso. Ma questa interpretazione non è intelligibile. Si spiega il capovolgimento del paesaggio, poi il ritorno alla visione normale, presupponendo che l’alto e il basso si confondano e mutino con la direzione apparente della testa e dei piedi dati nell’immagine e che, per cosi dire, siano fissati nel campo sensoriale dalla distribuzione effettiva delle sensazioni. Ma in nessun caso - sia all’inizio dell’esperienza, quando il mondo è «capovolto», sia alla fine, quando si «raddrizza» - l’orientamento del campo può essere dato dai contenuti, testa e piedi, che vi appaiono. Infatti, per poterla dare al campo, questi contenuti dovrebbero avere essi stessi una direzione. «Capovolto» in sé, «dritto» in sé non significano evidentemente nulla. Si risponderà: dopo l’imposizione degli occhiali, il campo visivo appare capovolto in rapporto al campo tattilo-corporeo o in rapporto al campo visivo ordinario, di cui diciamo, per definizione nominale, che sono «dritti». Ma lo stesso problema si pone a proposito di questi campi di riferimento: la loro semplice presenza non basta a dare una qualsiasi direzione. Nelle cose, sono sufficienti due punti per definire una direzione. Ma noi non siamo nelle cose, abbiamo solamente dei campi sensoriali che non sono agglomerati di sensazioni posti di fronte a noi, ora a «testa in su», ora «a testa in giù», ma sistemi d’apparenze il cui orientamento varia nel corso dell’esperienza, anche senza mutamenti nella costellazione degli stimoli: si tratta appunto di sapere che cosa avviene quando, tutto a un tratto, queste apparenze fluttuanti si ancorano e si situano sotto il rapporto dell’«alto» e del «basso», sia all’inizio dell’esperienza, quando il campo tattilocorporeo sembra «dritto» e il campo visivo «capovolto», sia nel proseguimento, quando il primo si capovolge mentre il secondo si raddrizza, sia, infine, al termine, quando sono entrambi press’a poco «dritti». Non possiamo assumere il mondo e lo spazio orientato come dati con i contenuti dell’esperienza sensibile o con il corpo in sé, giacché l’esperienza dimostra appunto che gli stessi contenuti possono, di volta in volta, essere orientati in un senso o nell’altro, e che i rapporti oggettivi, registrati sulla retina dalla posizione dell’immagine fisica, non determinano la nostra esperienza dell’«alto» e del «basso»; si tratta proprio di sapere come un oggetto può apparirci «dritto» o «capovolto» e che cosa significano queste parole. Il problema non si impone solo a una psicologia empiristica che tratta la percezione dello spazio come la recezione in noi di uno spazio reale, l’orientamento fenomenico degli oggetti come un riflesso del loro orientamento nel mondo, ma parimenti a una psicologia intellettualistica per la quale il «dritto» e il «capovolto» sono relazioni e dipendono dai punti di riferimento cui ci si rapporta. Poiché l’asse di coordinate scelto, quale che sia, non è ancora situato nello spazio se non dai suoi rapporti con un altro punto di riferimento, e cosi via, il collocamento del mondo è indefinitamente differito, l’«alto» e il «basso» perdono ogni senso assegnabile, a meno che, in virtù di una contraddizione impossibile, non si riconosca a certi contenuti la facoltà di installarsi spontaneamente nello spazio, ciò che reintroduce l’empirismo e le sue difficoltà. È facile dimostrare che una direzione non può essere se non per un soggetto che la descrive, e uno spirito costituente ha per eccellenza il potere di tracciare tutte le direzioni nello spazio, ma non ha attualmente nessuna direzione e, di conseguenza, nessuno spazio, in mancanza di un effettivo punto di partenza, di un qui assoluto che possa a poco a poco dare un senso a tutte le determinazioni spaziali. Al pari dell’empirismo, l’intellettualismo rimane al di qua del problema dello spazio orientato, dal momento che non può nemmeno porre la questione: con l’empirismo, si


trattava di sapere come l’immagine del mondo, che in sé è capovolta, può raddrizzarsi per me. L’intellettualismo non può neanche ammettere che dopo l’imposizione degli occhiali l’immagine del mondo sia capovolta. Infatti, per uno spirito costituente non c’è nulla che distingua le due esperienze prima e dopo l’imposizione degli occhiali, o, ancora, nulla che renda incompatibili l’esperienza visiva del corpo «capovolto» e l’esperienza tattile del corpo «dritto», poiché esso non considera lo spettacolo da nessun luogo e poiché tutte le relazioni oggettive fra il corpo e il mondo circostante sono conservate nel nuovo spettacolo. Il problema sta dunque in questi termini: l’empirismo stabilirebbe volentieri, con l’orientamento effettivo della mia esperienza corporea, quel punto fisso di cui necessitiamo se vogliamo comprendere come per noi ci siano delle direzioni -, ma l’esperienza, contemporaneamente alla riflessione, dimostra che nessun contenuto è di per sé orientato. L’intellettualismo muove da questa relatività dell’alto e del basso, ma non ne può uscire per rendere conto di una percezione effettiva dello spazio. Non possiamo quindi comprendere l’esperienza dello spazio né attraverso la considerazione dei contenuti, né attraverso quella di una pura attività di collegamento: siamo in presenza di quella terza spazialità che facevamo prevedere poco fa, che non è né quella delle cose nello spazio, né quella dello spazio spazializzante, e che, a questo titolo, sfugge alla analisi kantiana ed è da essa presupposta. Abbiamo bisogno di un assoluto nel relativo, di uno spazio che non passi sopra le apparenze, che si ancori in esse e si faccia solidale con esse, ma che però non sia dato con esse alla maniera realista e possa, come dimostra l’esperienza di Stratton, sopravvivere al loro perturbamento. Dobbiamo ricercare l’esperienza originaria dello spazio al di qua della distinzione tra la forma e il contenuto. Se facciamo in modo che un soggetto veda la camera in cui si trova solo per il tramite di uno specchio che la riflette con una inclinazione di 45° rispetto alla verticale, dapprima il soggetto vede «obliqua» la camera. Un uomo che si muove in essa sembra camminare inclinato lateralmente. Un pezzo di cartone che cade lungo lo stipite della porta sembra cadere secondo una direzione obliqua. L’insieme è «strano». Dopo pochi minuti, interviene un cambiamento improvviso: i muri, l’uomo che si muove nella stanza, la direzione di caduta del cartone divengono verticali.12 Tale esperienza, analoga a quella di Stratton, ha il vantaggio di evidenziare una ridistribuzione istantanea dell’alto e del basso, senza nessuna esplorazione motoria. Sapevamo già che è privo di senso dire che l’immagine obliqua (o capovolta) porta con sé una nuova localizzazione dell’alto e del basso di cui prenderemmo conoscenza mediante l’esplorazione motoria del nuovo spettacolo. Ma ora vediamo che questa esplorazione non è nemmeno necessaria e che perciò l’orientamento è costituito da un atto globale del soggetto percipiente. Diciamo che, prima dell’esperienza, la percezione ammetteva un certo livello spaziale, in rapporto al quale lo spettacolo sperimentale appare dapprima obliquo e che, durante l’esperienza, questo spettacolo induce un altro livello in rapporto al quale l’insieme del campo visivo può nuovamente apparire dritto. Tutto avviene come se certi oggetti (i muri, le porte e il corpo dell’uomo nella camera), determinati come obliqui in rapporto a un livello dato, pretendessero, di per sé, dì fornire le direzioni privilegiate, attirassero dalla loro parte la verticale, esplicassero la funzione di «punti d’ancoraggio»13 e imprimessero una oscillazione al livello precedentemente stabilito. Noi non cadiamo qui nell’errore realista, che consiste nel darsi delle direzioni nello spazio con lo spettacolo visivo, giacché lo spettacolo sperimentale è per noi orientato (obliquamente) solo in rapporto a un certo livello e non ci dà quindi di per sé la nuova direzione dell’alto e del basso. Rimane da sapere che cos’è di preciso questo livello che precede sempre se stesso, dal momento che ogni costituzione di un livello presuppone un altro livello prestabilito, - in quale modo i «punti d’ancoraggio», dal cuore di un certo spazio al quale devono la loro stabilità, ci invitano a costituirne un altro, e infine che cosa sono l’«alto» e il «basso», se non sono semplici nomi


per designare un orientamento in sé dei contenuti sensoriali. Noi riteniamo che il «livello spaziale» non si confonde con l’orientamento del corpo proprio. Se la coscienza del corpo proprio contribuisce certo alla costituzione del livello - un soggetto, con la testa inclinata, colloca in posizione obliqua un cordone mobile che gli si chiede di collocare verticalmente -,14 fa ciò in concorrenza con gli altri settori dell’esperienza, e la verticale tende a seguire la direzione della testa solo se il campo visivo è vuoto, e se mancano i «punti d’ancoraggio», per esempio quando si opera nell’oscurità. Come massa di dati tattili, labirintici, cinestesia, il corpo non ha un orientamento definito più di quanto l’abbiano gli altri contenuti, e riceve anch’esso questo orientamento dal livello generale dell’esperienza. L’osservazione di Wertheimer dimostra appunto come il campo visivo possa imporre un orientamento che non è quello del corpo. Ma se il corpo, come mosaico di sensazioni date, non definisce nessuna direzione, viceversa, come agente, esplica una funzione essenziale nella costituzione di un livello. Anche con un campo visivo pieno, le variazioni del tono muscolare modificano a tal punto la verticale apparente che il soggetto inclina la testa per disporla parallelamente a questa verticale deviata.15 Si sarebbe tentati di dire che la verticale è la direzione definita dall’asse di simmetria del nostro corpo come sistema sinergico. Eppure, il mio corpo può muoversi senza trarre con sé l’alto e il basso, come quando mi sdraio per terra, e l’esperienza di Wertheimer dimostra che la direzione oggettiva del mio corpo può formare un angolo rilevante con la verticale apparente dello spettacolo. Agli effetti dell’orientamento dello spettacolo non interessa il mio corpo cosi come è di fatto, come cosa nello spazio oggettivo, ma il mio corpo come sistema di azioni possibili, un corpo virtuale il cui «luogo» fenomenico è definito dal suo compito e dalla sua situazione. Il mio corpo è là dove c’è qualcosa da fare. Nel momento in cui il soggetto di Wertheimer prende posto nel dispositivo preparato per lui, l’area delle sue azioni possibili - come camminare, aprire un armadio, utilizzare un tavolo, sedersi - delinea di fronte a lui un habitat possibile, anche se ha gli occhi chiusi. Il fatto che lo specchio offra dapprima l’immagine di una camera diversamente orientata sta a significare che il soggetto non è in presa con gli utensili che questa camera racchiude, non la abita, non coabita con l’uomo che vede andare e venire. Dopo pochi minuti, e a condizione che il soggetto non rinsaldi il suo ancoraggio iniziale dirigendo gli occhi fuori dallo specchio, si verifica un prodigio: la camera riflessa evoca un soggetto capace di viverci. Questo corpo virtuale rimuove il corpo reale a tal punto che il soggetto non si sente più nel mondo in cui è effettivamente: anziché le sue gambe o le sue braccia vere e proprie, egli si sente le gambe e le braccia che sarebbe necessario avere per camminare e per agire nella camera riflessa, abita lo spettacolo. È allora che il livello spaziale compie un’oscillazione e si stabilisce nella sua nuova posizione. Esso è quindi un certo possesso del mondo da parte del mio corpo, una certa presa del mio corpo sul mondo. Proiettato, in assenza di punti d’ancoraggio, dal solo atteggiamento del mio corpo (come nelle esperienze di Nagel), determinato invece, quando il corpo è assopito, dalle sole esigenze dello spettacolo (come nell’esperienza di Wertheimer), normalmente il livello spaziale appare quando le mie intenzioni motorie e il mio campo percettivo si congiungono, quando il mio corpo effettivo viene a coincidere con il corpo virtuale richiesto dallo spettacolo e lo spettacolo effettivo con l’ambiente che il mio corpo proietta attorno a sé. Esso si installa quando, fra il mio corpo come potenza di certi gesti, come esigenza di certi piani privilegiati, e lo spettacolo percepito come invito ai medesimi gesti e teatro delle medesime azioni, si stabilisce un patto che mi fa usufruire dello spazio e che, in pari tempo, dà alle cose un potere diretto sul mio corpo. La costituzione di un livello spaziale è solo uno dei mezzi della costituzione di un mondo pieno: il mio corpo è in presa sul mondo quando la mia percezione mi offre uno spettacolo il più possibile vario e chiaramente articolato, quando le mie intenzioni motorie, dispiegandosi, ricevono dal mondo le risposte che attendono. Questo maximum di nitidezza nella


percezione e nell’azione definisce un terreno percettivo, uno sfondo della mia vita, un contesto generale per la coesistenza del mio corpo e del mondo. Con la nozione di livello spaziale e di corpo come soggetto dello spazio, divengono comprensibili quei fenomeni che Stratton ha descritto senza renderne conto. Se il «raddrizzamento» dei campo risultasse da una serie di associazioni tra le posizioni nuove e quelle vecchie, in che modo l’operazione potrebbe avere un andamento sistematico e in che modo interi lembi dell’orizzonte percettivo verrebbero ad aggiungersi d’un sol tratto agli oggetti già «raddrizzati»? Se il nuovo orientamento risultasse invece da un’operazione del pensiero e consistesse in un mutamento di coordinate, in che modo il campo visivo o tattile potrebbe resistere alla trasposizione? Sarebbe necessario che il soggetto costituente fosse, per assurdo, diviso da se stesso e capace di ignorare qui ciò che fa altrove.16 Se la trasposizione è sistematica, e nondimeno parziale e progressiva, lo è perché io vado da un sistema di posizioni all’altro senza avere la chiave di entrambi, nello stesso modo in cui, senza nessuna conoscenza musicale, un uomo canta in un altro tono un’aria che ha ascoltato. Il possesso di un corpo comporta la facoltà di cambiare livello e di «comprendere» lo spazio, come il possesso della voce quello di cambiar tono. Il campo percettivo si raddrizza e alla fine dell’esperienza lo identifico senza concetti perché vivo in esso, perché mi porto per intero nel nuovo spettacolo e vi colloco, per cosi dire, il mio centro di gravità.17 All’inizio dell’esperienza, il campo visivo sembra capovolto e al tempo stesso irreale perché il soggetto non vive in esso e non è in presa con esso. Nel corso dell’esperienza, si constata una fase intermedia in cui il corpo tattile sembra capovolto e il paesaggio dritto perché, vivendo già nel paesaggio, con ciò stesso lo percepisco come dritto e perché il perturbamento sperimentale viene imputato al corpo proprio che è quindi non una massa di sensazioni effettive, ma il corpo necessario per percepire un dato spettacolo. Tutto ci rinvia alle relazioni organiche fra il soggetto o lo spazio, a quella presa del soggetto sul suo mondo che è all’origine dello spazio. Ma l’analisi si spingerà più oltre. Perché, ci si chiederà, la percezione nitida e l’azione sicura non sono possibili se non in uno spazio fenomenico orientato? Ciò è evidente solo se si presuppone il soggetto della percezione e dell’azione a confronto con un mondo in cui ci sono già direzioni assolute, di modo che egli debba adeguare le dimensioni del proprio comportamento a quelle del mondo. Ma noi ci collochiamo all’interno della percezione e ci chiediamo appunto come essa può accedere a direzioni assolute, che non possiamo quindi presupporre come date nella genesi della nostra esperienza spaziale. L’obiezione ribadisce quanto andiamo dicendo fin dall’inizio: che la costituzione di un livello presuppone sempre un altro livello dato, che lo spazio precede sempre se stesso. Ma questa osservazione non è la semplice constatazione di un fallimento. Essa ci indica l’essenza dello spazio e l’unico metodo che permetta di comprenderlo. È essenziale allo spazio di essere sempre «già costituito», e non lo comprenderemo mai ritirandoci in una percezione senza mondo. Non ci si deve chiedere perché l’essere è orientato, perché l’esistenza è spaziale, perché, per esprimerci come prima, il nostro corpo non è in presa sul mondo in tutte le posizioni e perché la sua coesistenza con il mondo polarizza l’esperienza e fa sorgere una direzione. La questione potrebbe essere posta solo se questi fatti fossero accidentali, se riguardassero un soggetto e un oggetto indifferenti allo spazio. L’esperienza percettiva ci dimostra, invece che essi sono presupposti nel nostro incontro primordiale con l’essere e che l’essere è sinonimo d’essere situato. Per il soggetto pensante, un volto visto «dal diritto» e il medesimo visto «dal rovescio» sono indiscernibili. Per il soggetto della percezione, il volto visto «dal rovescio» è irriconoscibile. Se qualcuno è disteso su un letto e se lo guardo collocandomi dalla parte della testiera, per un momento questo volto è normale. C’è si un certo disordine nei lineamenti ed io stento a comprendere il sorriso come sorriso, ma sento che potrei fare il giro del letto e vederlo con gli occhi di uno spettatore posto all’altra estremità. Se


continua, lo spettacolo muta improvvisamente aspetto: il volto diviene mostruoso, le sue espressioni orrende, le ciglia e le sopracciglia assumono un’aria di materialità che non ho mai riscontrato in esse. Per la prima volta vedo veramente tale viso capovolto come se questa fosse la sua positura «naturale»: ho di fronte a me una testa puntuta e senza capelli, che porta in fronte un orifizio sanguigno e pieno di denti, che ha, al posto della bocca, due globi mobili circondati da crini lucidi e sottolineati da setole dure. Si dirà certo che, fra tutti gli aspetti possibili di un viso, il viso «dritto» è quello che mi viene offerto più frequentemente e che il viso capovolto non Io vedo se non raramente. Ma i volti non si offrono spesso in posizione rigorosamente verticale, non c’è nessun privilegio statistico in favore del volto «dritto», e si tratta appunto di sapere perché in queste condizioni esso mi è dato più spesso che un altro. Se si ammette che la mia percezione gli garantisce un privilegio e si riferisce a esso come a una norma per ragioni di simmetria, ci si chiederà perché, al di là di una certa obliquità, il «raddrizzamento» non si effettua. È necessario che il mio sguardo, che percorre il volto e che ha le sue direzioni di marcia favorite, non riconosca il volto se non incontrandone i dettagli in un certo ordine irreversibile, è necessario che il senso stesso dell’oggetto - qui il volto e le sue espressioni -, sia legato al suo orientamento, come dimostra abbastanza bene la duplice accezione della parola «senso». Capovolgere un oggetto significa privarlo del suo significato. Il suo essere d’oggetto non è quindi un essere-per-il-soggetto-pensante, ma un essere-per-lo-sguardo che Io incontra sotto una certa angolatura e non lo riconosce diversamente. Ecco perché ogni oggetto ha il «suo» alto e il «suo» basso che indicano, per un dato livello, il suo luogo «naturale», quello che esso «deve» occupare. Vedere un volto non significa formare l’idea di una certa legge di costituzione che l’oggetto rispetterebbe invariabilmente in tutti i suoi orientamenti possibili, ma avere su di esso una certa presa, poter seguire sulla sua superficie un certo itinerario percettivo con le sue salite e le sue discese: se lo percorro a ritroso, tale itinerario è irriconoscibile, cosi come lo è la montagna, su cui prima salivo a stento, allorché la ridiscendo a grandi passi. In generale la nostra percezione non comporterebbe né contorni, né figure, né sfondi, né oggetti, non sarebbe perciò percezione di nulla e infine non esisterebbe, se il soggetto della percezione non fosse quello sguardo che ha presa sulle cose solo per un certo orientamento delle cose stesse, e l’orientamento nello spazio non è un carattere contingente dell’oggetto, ma il mezzo grazie al quale io lo riconosco e ho coscienza di esso come di un oggetto. Certamente, posso avere coscienza del medesimo oggetto in orientamenti diversi, e, come dicevamo prima, posso anche riconoscere un viso capovolto. Ma sempre a condizione di assumere di fronte a esso, nel pensiero, un atteggiamento definito: come facciamo, per esempio, quando incliniamo la testa per guardare una fotografia che il nostro vicino tiene davanti a sé. Cosi, poiché ogni essere concepibile si riferisce direttamente o indirettamente al mondo percepito e poiché il mondo percepito non è colto se non attraverso l’orientamento, non possiamo dissociare l’essere dall’essere orientato, non c’è motivo di «fondare» lo spazio o chiedere qual è il livello di tutti i livelli. Il livello primordiale è all’orizzonte di ogni nostra percezione, ma un orizzonte che per principio non può mai essere raggiunto e tematizzato in una percezione espressa. Ognuno dei livelli nei quali di volta in volta viviamo appare quando gettiamo l’ancora in un «ambiente» che ci si offre. Questo stesso ambiente non è spazialmente definito se non per un livello preliminarmente dato. Cosi, nella serie delle nostre esperienze, a partire dalla prima, ognuna trasmette all’altra una spazialità già acquisita. A sua volta, la nostra prima percezione ha potuta essere spaziale solo riferendosi a un orientamento che l’abbia preceduta. È quindi necessario che essa si trovi già all’opera in un mondo. Tuttavia, non può essere un certo mondo, un certo spettacolo, giacché ci siamo collocati all’origine di tutti. Il primo livello spaziale non può trovare in nessun luogo i suoi punti d’ancoraggio, dal momento che, per essere determinati nello spazio, questi ultimi necessiterebbero di un livello


anteriore al primo. E poiché esso non può essere orientato «in sé», occorre che la mia prima percezione e la mia prima presa sul mondo mi appaia come l’esecuzione di un patto pili antico concluso fra X e il mondo in generale, che la mia storia sia il proseguimento di una preistoria di cui utilizza i risultati acquisiti, la mia esistenza personale la ripresa di una tradizione prepersonale. Sotto di me c’è quindi un altro soggetto, per il quale un mondo esiste prima che ci sia io e che in questo modo stabiliva il mio posto. Questo spirito prigioniero o naturale, è il mio corpo, non il corpo momentaneo che è lo strumento delle mie scelte personali e si fissa su questo o quel mondo, ma il sistema di «funzioni» anonime che avvolgono ogni fissazione particolare in un progetto generale. E questa cieca adesione al mondo, questo partito preso in favore dell’essere non interviene solo all’inizio della mia vita. Esso dà un senso a ogni ulteriore percezione dello spazio, è ricominciato in ogni momento. Lo spazio e in generale la percezione denotano nel cuore del soggetto il fatto della sua nascita, l’apporto perpetuo della sua corporeità, una comunicazione con il mondo piò vecchia del pensiero. Ecco perché saturano la coscienza e sono opachi per la riflessione. La labilità dei livelli dà non solo l’esperienza intellettuale dei disordine, ma l’esperienza vitale della vertigine e della nausea,18 che è la coscienza e l’orrore della nostra contingenza. La posizione di un livello è l’oblio di questa contingenza; lo spazio riposa sulla nostra fatticità. Non è né un oggetto, né un atto di collegamento del soggetto, non si può osservarlo - poiché è presupposto in ogni osservazione -, né vederlo uscire da una operazione costituente - poiché gli è essenziale essere già costituito -, ed è cosi che esso può dare magicamente al paesaggio le sue determinazioni spaziali, senza mai apparire di persona. Le concezioni classiche sono concordi nel negare che la profondità sia visibile. Berkeley dimostra che essa non potrebbe essere data alla vista non essendo in condizione di essere registrata, giacché le nostre retine ricevono solo una proiezione sensibilmente piana dello spettacolo. Se gli si obiettasse che, dopo la critica della «ipotesi di costanza», non possiamo giudicare di ciò che vediamo ricorrendo alle immagini retiniche, Berkeley risponderebbe certo che, a prescindere dall’immagine retinica, la profondità non può essere vista poiché non si dispiega sotto il nostro sguardo e non gli appare se non di scorcio. Per l’analisi riflessiva la profondità non è visibile per una ragione di principio: anche se essa potesse inscriversi sui nostri occhi, l’impressione sensoriale offrirebbe solo una molteplicità in sé da percorrere; pertanto, come tutte le altre relazioni spaziali, la distanza non esiste se non per un soggetto che ne faccia la sintesi e che la pensi. Per opposte che siano, le due dottrine presuppongono la medesima rimozione della nostra esperienza effettiva. In entrambi i casi, la profondità è tacitamente assimilata alla larghezza considerata di profilo, e ciò la rende invisibile. Se lo si esplicita fino in fondo, il ragionamento di Berkeley è press’a poco questo. Ciò che io chiamo profondità è in realtà una giustapposizione di punti paragonabili alla larghezza. Semplicemente, sono in una posizione sfavorevole per vederla. La vedrei se fossi al posto di uno spettatore laterale, il quale può abbracciare con lo sguardo la serie degli oggetti disposti di fronte a me, mentre per me essi si nascondono l’un l’altro - o vedere la distanza del mio corpo dal primo oggetto, mentre per me questa distanza è raccolta in un punto. Ciò che rende la profondità invisibile per me è proprio ciò che la rende visibile, sotto l’aspetto della larghezza, per lo spettatore: la giustapposizione dei punti simultanei su una sola direzione che è quella del mio sguardo. La profondità che si dichiara invisibile è quindi una profondità già identificata con la larghezza e, senza questa condizione, il ragionamento non avrebbe nemmeno una parvenza di attendibilità. Parimenti, se l’intellettualismo può far apparire nell’esperienza della profondità un soggetto pensante che ne faccia la sintesi, lo può solo perché riflette su una profondità realizzata, su una giustapposizione di punti


simultanei che non è la profondità così come si offre a me, ma la profondità per uno spettatore situato lateralmente, e cioè, in definitiva, la larghezza.19 Assimilando immediatamente l’uria all’altra, le due filosofie assumono come ovvio il risultato di un lavoro costitutivo di cui noi dobbiamo invece ritracciare le fasi. Per trattare la profondità come una larghezza considerata di profilo, per giungere a uno spazio isotropo, è necessario che il soggetto abbandoni il suo posto, il suo punto di vista sul mondo e si pensi in una sorta di ubiquità. Per Dio, che è ovunque, la larghezza è immediatamente equivalente alla profondità. L’intellettualismo e l’empirismo non ci danno un ragguaglio dell’esperienza umana del mondo; dicono di esso ciò che potrebbe pensarne Dio. Ed è certo il mondo stesso che ci invita a sostituire le dimensioni e a pensarlo senza punti di vista. Tutti gli uomini ammettono senza bisogno di speculazioni l’equivalenza della profondità e della larghezza; essa fa parte dell’evidenza di un mondo intersoggettivo, e ciò fa si che, come gli altri uomini, i filosofi possano dimenticare l’originalità della profondità. Ma noi non sappiamo ancora nulla del mondo e dello spazio oggettivi, cerchiamo di descrivere il fenomeno del mondo, cioè la sua nascita per noi in quel campo in cui ci ricolloca ogni percezione, in cui siamo ancora soli, in cui gli altri appariranno solamente più tardi, in cui il sapere e in particolare la scienza non hanno ancora ridotto e livellato la prospettiva individuale. È attraverso questa nascita, è in virtù di essa che dobbiamo accedere a un mondo. Pertanto, è anzitutto necessario descriverla. Più direttamente che le altre dimensioni dello spazio, la profondità ci costringe a respingere il pregiudizio del mondo e a ritrovare l’esperienza primordiale nella quale il mondo scaturisce; fra tutte le dimensioni, essa è, per cosi dire, quella più «esistenziale», poiché - ed è quanto c’è di vero nel ragionamento di Berkeley - non si imprime sull’oggetto stesso, ma appartiene, del tutto evidentemente, alla prospettiva e non già alle cose. La profondità non può quindi né essere ricavata dalle cose, né essere posta in esse dalla coscienza, ma annuncia un certo legame indissolubile fra le cose e me, in virtù del quale io sono situato di fronte a esse, mentre, a prima vista, la larghezza può passare per una relazione fra le cose stesse in cui il soggetto percipiente non è implicato. Ritrovando la visione della profondità, cioè una profondità che non è ancora oggettivata e costituita di punti esterni l’uno all’altro, supereremo ancora una volta le alternative classiche e preciseremo il rapporto fra il soggetto e l’oggetto. Ecco il mio tavolo e, più lontano, il piano o il muro. E ancora: una automobile ferma di fronte a me viene messa in moto e si allontana. Che cosa significano queste parole? Per risvegliare l’esperienza percettiva, partiamo dal resoconto superficiale che ce ne dà il pensiero ossessionato dal mondo e dall’oggetto. Queste parole, esso dice, significano che fra la tavola e me c’è un intervallo, fra l’automobile e me un intervallo crescente che non posso vedere dal luogo in cui mi trovo, ma che si segnala a me in virtù della grandezza apparente dell’oggetto. È la grandezza apparente del tavolo, del piano e del muro che, confrontata alla loro grandezza reale, li colloca nello spazio. Quando l’automobile si alza lentamente verso l’orizzonte rimpicciolendosi, per render conto di questa apparenza io costruisco uno spostamento secondo la larghezza, quale lo percepirei se osservassi dall’alto di un aeroplano: in ultima analisi, tutto il senso della profondità risiede in questo spostamento. Ma ho ancora altri segni della distanza. Man mano che un oggetto si avvicina, i miei occhi che lo fissano convergono sempre di più. La distanza è l’altezza di un triangolo di cui mi sono dati20 la base e gli angoli alla base, e, quando dico che vedo a distanza, voglio dire che l’altezza del triangolo è determinata dalle sue relazioni con queste grandezze date. Secondo le concezioni classiche, l’esperienza della profondità consiste nel decifrare certi fatti dati - la convergenza degli occhi, la grandezza apparente dell’immagine - ricollocandoli nel contesto di relazioni oggettive che li spiegano. Ma, se posso risalire dalla grandezza apparente al suo significato, lo posso solo a condizione di sapere che c’è un mondo di oggetti indeformabili, che il mio corpo è di fronte a questo mondo come uno specchio e


che, al pari dell’immagine speculare, quella che si forma sul corpo schermo è esattamente proporzionale all’intervallo che la separa dall’oggetto. Parimenti, posso comprendere la convergenza come un segno della distanza, solo se mi rappresento i miei sguardi, analogamente ai due bastoni del cieco, tanto più inclinati l’uno sull’altro quanto più è vicino l’oggetto;21 in altri termini, solo se inserisco i miei occhi, il mio corpo e l’esterno in un medesimo spazio oggettivo. I «segni» che, per ipotesi, dovrebbero introdurci all’esperienza dello spazio possono quindi significare lo spazio solamente se sono già presi nello spazio stesso e se esso è già noto. Poiché la percezione è l’iniziazione al mondo e poiché, come è stato detto con acutezza, «prima di essa non c’è nulla che sia spirito»,22 non possiamo collocare in essa relazioni oggettive che non sono ancora costituite al suo livello. Ecco perché i cartesiani parlavano di una «geometria naturale». Il significato della grandezza apparente e della convergenza, vale a dire la distanza, non può ancora essere dispiegato e tematizzato. La grandezza apparente e la convergenza non possono essere date, esse stesse, come elementi in un sistema di relazioni oggettive. La «geometria naturale» o il «giudizio naturale» sono miti, nel senso platonico, destinati a raffigurare l’involgimento o l’«implicazione», in segni che non sono ancora posti e pensati, di un significato che non Io è a sua volta, ed è questo che dobbiamo comprendere ritornando all’esperienza percettiva. È necessario descrivere la grandezza apparente e la convergenza non come le conosce il sapere scientifico, ma come noi le cogliamo dall’interno. La psicologia della Forma23 ha messo in evidenza che, nella percezione stessa, esse non sono esplicitamente conosciute - quando percepisco, io non ho coscienza espressa della convergenza dei miei occhi o della grandezza apparente, esse non sono di fronte a me come fatti percepiti -, ma che nondimeno intervengono nella percezione della distanza, come dimostrano abbastanza bene le stereoscopie o le illusioni prospettiche. Gli psicologi ne concludono che esse non sono segni, ma condizioni o cause della profondità. Noi constatiamo che l’organizzazione in profondità appare quando una certa grandezza dell’immagine retinica o un certo grado di convergenza si producono oggettivamente nel corpo; è questa una legge paragonabile alle leggi della fisica: c’è solo da registrarla e basta. Ma qui lo psicologo si sottrae al proprio compito: quando riconosce che la grandezza apparente e la convergenza non sono presenti nella percezione stessa come fatti oggettivi, egli ci richiama alla descrizione pura dei fenomeni che precedono il mondo oggettivo, ci fa intravedere la profondità vissuta fuori di ogni geometria. E a questo punto interrompe la descrizione per ricollocarsi nel mondo e derivare l’organizzazione in profondità da una concatenazione di fatti oggettivi. Si può cosi limitare la descrizione e, una volta riconosciuto l’ordine fenomenico come un ordine originale, rimettere a una alchimia cerebrale, di cui l’esperienza registrerebbe solamente il risultato, la produzione della profondità fenomenica? Una delle due: o, con il behaviorismo, si nega ogni senso alla parola esperienza, e si tenta di costruire la percezione come un prodotto del mondo della scienza, oppure si ammette che anche l’esperienza ci fa accedere all’essere, e allora non la si può trattare come un sottoprodotto dell’essere. O l’esperienza non è nulla, oppure deve essere totale. Tentiamo di rappresentarci che cosa potrebbe essere un’organizzazione in profondità prodotta dalla fisiologia cerebrale. Data una certa grandezza apparente e una certa convergenza, in qualche luogo del cervello apparirebbe una struttura funzionale omologa all’organizzazione in profondità. Ma si tratterebbe comunque di una profondità data, di una profondità di fatto, e rimarrebbe da prenderne coscienza. Esperire una struttura non significa riceverla passivamente in sé, ma viverla, riprenderla, assumerla, ritrovarne il senso immanente. Un’esperienza non può quindi essere collegata a certe condizioni di fatto come alla propria causa24 e, se la coscienza della distanza si produce per un dato valore della convergenza e per una data grandezza dell’immagine retinica, tale coscienza può


dipendere da questi fattori solo nella misura in cui figurano in essa. Giacché non ne abbiamo alcuna esperienza espressa, dobbiamo concludere che ne abbiamo un’esperienza non tetica. Convergenza e grandezza apparente non sono né segni né cause della profondità: esse sono presenti nell’esperienza della profondità cosi come il motivo, anche quando non è articolato e posto a parte, è presente nella decisione. Che cosa si intende per motivo e che cosa si vuole dire quando si afferma, per esempio, che un viaggio è motivato? Si vuol dire che questo fatto ha la sua origine in certi fatti dati, non perché tali fatti abbiano, da soli, il potere fisico di produrlo, ma in quanto offrono ragioni per intraprenderlo. Il motivo è un antecedente che agisce solo in virtù del suo senso, e si deve altresì aggiungere che è la decisione ad affermare questo senso come valido e a dargli la sua forza e la sua efficacia. Motivo e decisione sono due elementi di una situazione: il primo è la situazione come fatto; il secondo la situazione assunta. Cosi, un evento luttuoso motiva il mio viaggio perché è una situazione in cui è richiesta la mia presenza, sia per riconfortare una famiglia addolorata, sia per rendere al morto gli «estremi onori»: decidendo di fare tale viaggio, convalido questo motivo che si propone, assumo questa situazione. La relazione fra il motivante e il motivato è quindi reciproca. Orbene, tale è il rapporto intercorrente fra l’esperienza della convergenza, o della grandezza apparente, e quella della profondità. Infatti, la convergenza degli occhi o la grandezza apparente non producono miracolosamente, a titolo di «cause», l’organizzazione in profondità, ma la motivano tacitamente in quanto la racchiudono già nel loro senso e sono già entrambe una certa maniera di guardare a distanza. Prima abbiamo visto che la convergenza degli occhi non è causa della profondità e che presuppone essa stessa un orientamento verso l’oggetto a distanza. Insistiamo ora sul concetto di grandezza apparente. Se guardiamo a lungo un oggetto illuminato che lascia dopo di sé un’immagine consecutiva e se poi fissiamo degli schermi posti a differenti distanze, l’immagine consecutiva si proietta su di essi con un diametro apparente tanto più grande quanto più è lontano lo schermo.25 Per molto tempo si è spiegata l’enormità della luna all’orizzonte con il grande numero di oggetti frapposti che renderebbero più sensibile la distanza e di conseguenza aumenterebbero il diametro apparente. Ciò significa che il fenomeno «grandezza apparente» e il fenomeno distanza sono due momenti di una organizzazione globale del campo, che tra i due non intercorre il rapporto intercorrente fra il segno e fra il significato, oppure fra la causa e l’effetto, e che, come il motivante e il motivato, essi comunicano in virtù del loro senso. Anziché essere il segno o l’indice di una profondità in se stessa invisibile, la grandezza apparente vissuta non è se non un modo di esprimere la nostra visione della profondità. La teoria della forma ha appunto contribuito a dimostrare che la grandezza apparente di un oggetto che si allontana non varia come l’immagine retinica, e che la forma apparente di un disco che ruota attorno a uno dei suoi diametri non varia, come ci si attenderebbe, secondo la prospettiva geometrica. L’oggetto che si allontana diminuisce meno rapidamente, quello che si avvicina aumenta meno rapidamente, per la mia percezione, che l’immagine fisica sulla mia retina. Ecco perché, al cinema, il treno che viene verso di noi ingrandisce molto più di quanto farebbe nella realtà. Ecco perché una collina che ci sembrava alta diviene insignificante in fotografia. Ecco perché, infine, un disco posto obliquamente in rapporto al nostro volto resiste alla prospettiva geometrica, come Cézanne e altri pittori hanno dimostrato rappresentando di profilo una fondina il cui interno rimane visibile. Si ha ragione di dire che, se le deformazioni prospettiche ci fossero date espressamente, non dovremmo imparare la prospettiva. Ma la teoria della forma si esprime come se la deformazione del piatto obliquo fosse un compromesso fra la forma del piatto visto di fronte e la prospettiva geometrica, come se la grandezza apparente dell’oggetto che si allontana fosse un compromesso fra la sua grandezza apparente a distanza di tatto e quella, molto piò debole, che gli assegnerebbe la prospettiva geometrica. Si parla come se la costanza della forma o della grandezza


fosse una costanza reale, come se ci fosse, oltre all’immagine fisica dell’oggetto sulla retina, una «immagine psichica» del medesimo oggetto che rimarrebbe relativamente costante quando la prima varia. In realtà, l’«immagine psichica» di questo portacenere non è né pili grande, né meno grande che l’immagine fisica del medesimo oggetto sulla mia retina: non c’è una immagine psichica, che, come una cosa, possa essere confrontata con l’immagine fisica, che abbia, in rapporto a quest’ultima una grandezza determinata e che faccia schermo fra me e la cosa. La mia percezione non fa capo a un contenuto di coscienza, ma al portacenere stesso. La grandezza apparente del portacenere percepito non è una grandezza misurabile. Quando mi si chiede sotto quale diametro lo vedo, non posso rispondere alla domanda finché tengo aperti i due occhi. Spontaneamente, chiudo un occhio, prendo uno strumento di misura, per esempio una matita tenuta alla distanza di un braccio, fisso sulla matita la grandezza intercettata dal portacenere. Orbene, non si deve dire solamente che, facendo ciò, ho ridotto la prospettiva percepita alla prospettiva geometrica, che ho mutato le proporzioni dello spettacolo, che ho rimpicciolito l’oggetto se è lontano, che l’ho ingrandito se è vicino - piuttosto, si deve dire che, smembrando il campo percettivo, isolando il portacenere, ponendolo per se stesso, ho fatto apparire la grandezza in ciò che fino ad allora ne era privo. La costanza della grandezza apparente in un oggetto che si allontana non è la permanenza effettiva di una certa immagine psichica dell’oggetto che resisterebbe alle deformazioni prospettiche, come un oggetto rigido alla pressione. La costanza della forma circolare in un piatto non è una resistenza del circolo all’appiattimento prospettico: ecco perché il pittore, che può raffigurarla solo mediante un tracciato reale su una tela reale, stupisce il pubblico, quantunque cerchi di restituire la prospettiva vissuta. Quando guardo una strada di fronte a me che fugge verso l’orizzonte, non si deve dire né che i bordi della strada mi sono dati come convergenti, né che mi sono dati come paralleli: sono paralleli in profondità. L’apparenza prospettica non è posta, ma nemmeno il parallelismo. Io inerisco alla strada stessa, attraverso la sua deformazione virtuale, e la profondità è questa stessa intenzione che non pone né la proiezione prospettica della strada, né la strada «vera». - Tuttavia, un uomo a duecento passi non è forse più piccolo che un uomo a cinque passi? - Egli lo diviene solo se lo isolo dal contesto percepito e se misuro la grandezza apparente. Altrimenti, non è né più piccolo, né del resto eguale in grandezza: è al di qua dell’eguaglianza, è lo stesso uomo visto da più lontano. Si può solamente dire che l’uomo a duecento passi è una figura molto meno articolata, che egli offre al mio sguardo delle prese meno numerose e meno precise, che è meno strettamente innestato nel mio potere d’esplorazione. Si può ancora dire che egli occupa meno completamente il mio campo visivo, purché ci si ricordi che il campo visivo non è esso stesso un’area misurabile. Affermare che l’oggetto occupa poco posto nel campo visivo, equivale ad affermare, in ultima analisi, che esso non offre una configurazione sufficientemente ricca per dar fondo al mio potere di visione netta. Il mio campo visivo non ha una capienza definita e può contenere più o meno cose, appunto, a seconda che io le veda «da lontano» o «da vicino». La grandezza apparente non è quindi definibile separatamente dalla distanza: è implicata da essa nella stessa misura in cui la implica. Convergenza, grandezza apparente e distanza si leggono l’una nell’altra, si simbolizzano o si significano naturalmente in modo reciproco, sono gli elementi astratti di una situazione nella quale sono sinonime l’una dell’altra, non perché il soggetto della percezione ponga tra di esse rapporti oggettivi, ma viceversa perché non le pone separatamente e non ha quindi bisogno di collegarle espressamente. Prendiamo le diverse «grandezze apparenti» dell’oggetto che si allontana: non è necessario collegarle in una sintesi, se nessuna di esse costituisce l’oggetto di una tesi. Noi «abbiamo» l’oggetto che si allontana, non cessiamo di «tenerlo» e di aver presa su di esso, e la distanza crescente non è, come sembra esserlo la larghezza, una esteriorità che s’accresce, ma si limita a esprimere che la cosa comincia a sfuggire alla presa del nostro sguardo e


che gli aderisce meno strettamente. La distanza è ciò che distingue questa presa abbozzata dalla presa completa o prossimità. Noi la definiamo quindi nello stesso modo in cui prima abbiamo definito il «dritto» e l’«obliquo»: mediante la situazione dell’oggetto nei confronti del potere di presa. Sono soprattutto le illusioni intorno alla profondità che ci hanno abituati a considerarla come una costruzione dell’intelletto. È possibile provocarle imponendo agli occhi un certo grado di convergenza, come allo stereoscopio, o presentando al soggetto un disegno prospettico. Poiché credo di vedere qui la profondità mentre in realtà non ce n’è, non si deve forse credere che i segni ingannatori sono stati l’occasione di una ipotesi e che, in generale, la pretesa visione della distanza è sempre una interpretazione dei segni? Ma il postulato è manifesto; si presuppone che non sia possibile vedere ciò che non è, si definisce quindi la visione mediante l’impressione sensoriale, non si coglie il rapporto originale di motivazione e lo si sostituisce con un rapporto di significazione. Abbiamo visto che la disparazione delle immagini retiniche, che suscita il movimento di convergenza, non esiste in sé; c’è disparazione solo per un soggetto che cerca di fondere i fenomeni monoculari di medesima struttura e che tende alla sinergia. L’unità della visione binoculare, e con essa la profondità - senza di cui tale unità non è realizzabile -, sussiste quindi sin dal momento in cui le immagini monoculari si danno come «disparate». Quando mi metto allo stereoscopio, mi si propone un insieme in cui si delinea già l’ordine possibile e si abbozza la situazione. La mia risposta motoria assume questa situazione. Cézanne diceva che, di fronte al suo «motivo», il pittore «congiungerà le mani erranti della natura».26 Allo stereoscopio, il movimento di fissazione è anch’esso una risposta al quesito posto dai dati, e questa risposta è racchiusa nel quesito. È il campo stesso a orientarsi verso la simmetria più perfetta possibile, e la profondità non è altro che un momento della fede percettiva in una cosa unica. Il disegno prospettico non è dapprima percepito come disegno su un piano, poi organizzato in profondità. Le linee che fuggono verso l’orizzonte non sono dapprima date come oblique, poi pensate coinè orizzontali. L’insieme del disegno cerca il suo equilibrio incavandosi secondo la profondità. Il pioppo sulla strada, che è disegnato più piccolo di un uomo, non riesce a divenire davvero un albero se non arretrando verso l’orizzonte. È il disegno stesso a tendere verso la profondità, cosi come una pietra che cade va verso il basso. Se la simmetria, la pienezza, la determinazione possono essere ottenute in vari modi, l’organizzazione non sarà stabile, come vediamo nei disegni ambigui.

È quanto constatiamo a proposito della fig. 5, che possiamo percepire sia come un cubo visto dal basso con la faccia ABCD anteposta, sia come un cubo visto dall’alto con la faccia EFGH anteposta, sia, infine, come un mosaico di cucina composto da dieci triangoli e un quadrato. Viceversa la fig. 6 sarà vista, quasi inevitabilmente, come un cubo, giacché è questa l’unica organizzazione che la metta


in simmetria perfetta.27 La profondità nasce sotto il mio sguardo perché esso cerca di vedere qualcosa. Ma qual è questo genio percettivo, all’opera nel nostro campo visivo, che tende sempre alla maggiore determinazione? Non ritorniamo forse al realismo? Consideriamo un esempio. L’organizzazione in profondità è distrutta se aggiungo al disegno ambiguo non delle linee qualsiasi (la fig. 7 rimane pur sempre un cubo), ma delle linee che disgiungono gli elementi di un medesimo piano e congiungono quelli di piani diversi.28 Che cosa vogliamo dire quando affermiamo che sono proprio queste linee a distruggere la profondità? Non parliamo come l’associazionismo? Però, noi non vogliamo dire che, agendo come una causa, la linea EH disgrega il cubo in cui viene introdotta, ma che induce una percezione d’insieme che non è piò la percezione in profondità. È ovvio che la stessa linea EH possiede una individualità solo se la percepisco come tale, se la percorro e la traccio io stesso. Ma questa percezione e questo percorso non sono arbitrari. Sono indicati o raccomandati dai fenomeni. La richiesta non è qui categorica, in quanto si tratta appunto di una figura ambigua, ma, in un campo visivo normale, la segregazione dei piani e dei contorni è irresistibile, e, per esempio, quando passeggio in un viale, non giungo a vedere come cose gli intervalli fra gli alberi e come sfondo gli alberi stessi. Sono certo io a esperire il paesaggio, ma in questa esperienza ho coscienza di assumere una situazione di fatto, di raccogliere un senso sparso nei fenomeni e di dire ciò che essi stessi vogliono dire. Anche nei casi in cui l’organizzazione è ambigua e in cui posso farla variare, non ci riesco direttamente; una delle facce del cubo passa in primo piano solo se la guardo per prima, se il mio sguardo muove da essa per seguire gli spigoli e trovare infine la seconda faccia come uno sfondo indeterminato. Posso vedere nella fig. 5 un mosaico di cucina unicamente a condizione di portare prima il mio sguardo al centro, poi di distribuirlo uniformemente sull’intera figura. Allo stesso modo in cui Bergson attende che la zolla di zucchero si sia sciolta, talvolta io sono costretto ad attendere che l’organizzazione si effettui. A maggior ragione, nella percezione normale il senso del percepito mi appare come istituito in esso e non costituito da me, e lo sguardo come una specie di macchina per conoscere, che prende le cose dal lato in cui esse vanno prese per divenire spettacolo, o che le ritaglia secondo le loro articolazioni naturali. Certamente, la retta EH può valere come retta solo se io la scorro, ma non si tratta di una ispezione dello spirito, bensì di una ispezione dello sguardo: il mio atto non è insomma originario o costituente, ma sollecitato o motivato. Ogni fissazione è sempre fissazione di qualche cosa che si offre come qualcosa da fissare. Quando fisso la faccia ABCD del cubo, ciò non significa solo che la faccio passare allo stato di visione nitida, ma anche che la faccio valere come figura e come pili vicina a me dell’altra faccia, in breve che organizzo il cubo; lo sguardo è quel genio percettivo al di sotto del soggetto pensante che sa dare alle cose la risposta giusta che esse attendono per esistere di fronte a noi. - Insomma, che cos’è vedere un cubo? È, dice l’empirismo, associare all’aspetto effettivo del disegno una serie di altre apparenze, quelle che esso offrirebbe visto da più vicino, visto di profilo, visto sotto differenti angoli. Ma, quando vedo un cubo, io non trovo in me nessuna di queste immagini, esse sono la materia di una percezione della profondità che le rende possibili e non deriva da esse. Qual è dunque quell’atto unico grazie a cui io colgo la possibilità di tutte le apparenze? È, dice l’intellettualismo, il pensiero del cubo come solido fatto di sei facce eguali e di dodici spigoli eguali che si intersecano ad angolo retto, - e la profondità non è altro che la coesistenza delle facce e degli spigoli eguali. Ma anche qui si dà come definizione della profondità ciò che ne è solo una conseguenza. Tutto il senso della profondità non è esauribile nelle sei facce e nei dodici spigoli eguali e, per contro, tale definizione non ha senso senza la profondità. Le sei facce e i dodici spigoli possono coesistere e al tempo stesso rimanere eguali per me solo se si dispongono in profondità. L’atto che corregge le apparenze, che dà agli angoli acuti od ottusi valore d’angoli retti, ai lati deformati valore di quadrato,


non è il pensiero delle relazioni geometriche di eguaglianza e dell’essere geometrico al quale esse appartengono, ma l’investimento dell’oggetto da parte del mio sguardo che lo penetra, lo anima, e fa valere immediatamente le facce laterali come «quadrati visti di sbieco», a tal punto che non li vediamo nemmeno sotto il loro aspetto prospettico di rombi. Questa presenza simultanea a esperienze che nondimeno si escludono, questo implicarsi dell’una nell’altra, questa contrazione in un solo atto percettivo di tutto un processo possibile costituiscono l’originalità della profondità. La profondità è la dimensione secondo la quale le cose o gli elementi delle cose si avvolgono vicendevolmente, mentre larghezza e altezza sono le dimensioni secondo le quali si giustappongono. Non si può quindi parlare di una sintesi della profondità, giacché una sintesi presuppone, o per lo meno, come la sintesi kantiana, pone dei termini discreti, mentre la profondità non pone la molteplicità delle apparenze prospettiche che l’analisi espliciterà e l’intravede solo sullo sfondo della cosa stabile. Questa quasi-sintesi si rischiara se la comprendiamo come temporale. Quando dico che vedo un oggetto a distanza, voglio dire che lo tengo già o lo tengo ancora, esso è nell’avvenire o nel passato nello stesso tempo in cui è nello spazio.29 Si dirà forse che vi è solo per me: in sé la lampada che percepisco esiste contemporaneamente a me, la distanza è fra oggetti simultanei, e questa simultaneità è inclusa nel senso stesso della percezione. Certamente. Ma la coesistenza, che definisce lo spazio, non è estranea al tempo: è l’appartenenza di due fenomeni alla stessa onda temporale. Dal canto suo, il rapporto fra l’oggetto percepito e la mia percezione non li lega nello spazio e fuori del tempo: essi sono contemporanei. L’«ordine dei coesistenti» non può essere separato dall’ ordine dei successivi», o meglio, il tempo non è solo la coscienza di una successione. La percezione mi dà un «campo di presenza»30 in senso lato che si estende secondo due dimensioni: la dimensione qui-là e la dimensione passato-presente-futuro. La seconda fa comprendere la prima. Io «tengo», «ho» l’oggetto distante senza posizione esplicita della prospettiva spaziale (grandezza e forma apparenti), cosi come «tengo ancora in pugno»31 il passato recente senza nessuna deformazione, senza interposizione di «ricordi». Se si vuole ancora parlare di sintesi, si dovrà parlare, come afferma Husserl, di una «sintesi di transizione», che non collega delle prospettive discrete, ma che effettua il «trapasso» dall’una all’altra. La psicologia si è invischiata in difficoltà senza fine quando ha voluto fondare, la memoria sul possesso di certi contenuti o ricordi, ossia di tracce presenti (nel corpo o nell’inconscio) del passato abolito: infatti, a partire da queste tracce non si può mai cogliere il riconoscimento del passato come passato. Parimenti, non si comprenderà mai la percezione della distanza se si parte da contenuti dati in una specie di equidistanza, i quali sono una proiezione piana del mondo allo stesso modo in cui i ricordi sono una percezione del passato nel presente. E, se si può comprendere la memoria solo come un possesso diretto del passato senza interposizione di contenuti, cosi si può comprendere la percezione della distanza solo come un inerire al lontano che lo raggiunge là dove esso appare. La memoria è via via fondata sul trapasso continuo di un istante nell’altro e sull’incorporamento di ogni istante, con tutto il suo orizzonte, nello spessore di quello successivo. In virtù della stessa transizione continua, l’oggetto quale è laggiù, con la sua grandezza «reale», e quale lo vedrei se gli fossi accanto, è implicato nella percezione che ne ho da qui. Come non c’è da istituire una discussione sulla «conservazione dei ricordi», ma solamente una certa maniera di guardare il tempo che rende manifesto il passato in quanto dimensione inalienabile della coscienza, così non c’è un problema della distanza: la distanza è immediatamente visibile, a condizione che sappiamo ritrovare il presente vivente in cui essa si costituisce. Come indicavamo all’inizio, sotto la profondità come relazione fra cose o anche fra piani, che è la profondità oggettivata, astratta dall’esperienza e trasformata in larghezza, si deve riscoprire una


profondità primordiale che dà senso alla prima e che è lo spessore di un medium senza cosa. Quando ci lasciamo essere al mondo senza assumerlo attivamente, o nelle malattie che favoriscono questo atteggiamento, i piani non si distinguono più l’uno dall’altro, i colori non si condensano più in colori superficiali, ma si diffondono attorno agli oggetti e divengono colori atmosferici: per esempio, il malato che scrive su un foglio di carta deve attraversare con la penna un certo spessore di bianco prima di giungere al foglio. Questa voluminosità varia con il colore considerato ed è come l’espressione della sua essenza qualitativa.32 C’è quindi una profondità che non si instaura ancora fra degli oggetti, che, a maggior ragione, non valuta ancora la distanza fra l’uno e l’altro e che è la semplice apertura della percezione a un fantasma di cosa appena qualificato. Anche nella percezione normale la profondità non si applica primamente alle cose. L’alto e il basso, la destra e la sinistra non sono dati al soggetto con i contenuti percepiti e, in ogni momento, sono costituiti con un livello spaziale in rapporto al quale le cose si situano: analogamente, le cose hanno una profondità e una grandezza in quanto si situano in rapporto a un livello delle distanze e delle grandezze33 che, prima di ogni oggetto-riferimento, definisce il lontano e il vicino, il grande e il piccolo. Quando diciamo che un oggetto è gigantesco o minuscolo, che è lontano o vicino, lo diciamo spesso senza ricorrere a un confronto, anche implicito, con un altro oggetto o con la grandezza e la posizione oggettiva del nostro proprio corpo, ma solo in rapporto a una certa «portata» dei nostri gesti, a una certa «presa» del corpo fenomenico sul suo mondo circostante. Se non volessimo riconoscere questo radicamento delle grandezze e delle distanze, saremmo rinviati da un oggetto-riferimento a un altro senza comprendere come per noi possano mai esserci grandezze o distanze. Mutando la grandezza apparente di tutti gli oggetti del campo, l’esperienza patologica della micropsia o della macropsia non lascia sussistere nessun termine di riferimento in rapporto al quale gli oggetti possano apparire più grandi o più piccoli del solito: essa non è quindi comprensibile se non in rapporto a un campione preoggettivo delle distanze e delle grandezze. Così, la profondità non può essere intesa come pensiero di un soggetto acosmico, ma come possibilità di un soggetto impegnato. Questa analisi della profondità si congiunge con quella che abbiamo tentato di fare dell’altezza e della larghezza. Se in questo paragrafo abbiamo cominciato con il contrapporre la profondità alle altre dimensioni, lo abbiamo fatto solamente perché, di primo acchito, esse sembrano concernere i rapporti intercorrenti fra le cose, mentre la profondità rivela immediatamente il legame fra il soggetto e lo spazio. Abbiamo però visto che, in definitiva, anche la verticale e l’orizzontale si definiscono per la migliore presa del nostro corpo sul mondo. Come relazione fra oggetti, larghezza e altezza sono derivate e, nel loro senso originario, sono anch’esse dimensioni «esistenziali». Non ci si deve limitare a dire, con Lagneau e Alain, che l’altezza e la larghezza presuppongono la profondità, poiché uno spettacolo su un solo piano presuppone l’equidistanza di tutte le sue parti dal piano del mio viso: questa analisi concerne solo la larghezza, l’altezza e la profondità già oggettivate, e non l’esperienza che ci apre queste dimensioni. La verticale e l’orizzontale, il vicino e il lontano sono designazioni astratte per un solo essere in situazione e presuppongono lo stesso «star di fronte» del soggetto e del mondo. Anche se non può essere definito cosi, il movimento è uno spostamento o un cambiamento di posizione. Come prima abbiamo incontrato un pensiero della posizione che la definisce in base a rapporti nello spazio oggettivo, cosi c’è una concezione oggettiva del movimento che lo definisce in base a relazioni intramondane, assumendo come acquisita l’esperienza del mondo. Inoltre, come abbiamo dovuto ritrovare l’origine della posizione spaziale nella situazione o nella località


preoggettiva del soggetto che si fissa al suo ambiente, cosi, sotto il pensiero oggettivo del movimento, dovremo riscoprire una esperienza preoggettiva dalla quale essa deriva il suo senso e in cui il movimento, ancora legato a colui che lo percepisce, è una variazione della presa del soggetto sul suo mondo. Quando vogliamo pensare il movimento, fare la filosofia del movimento, ci poniamo subito nell’atteggiamento critico o atteggiamento di verificazione, ci chiediamo che cosa ci è dato di preciso nel movimento, ci apprestiamo a respingere le apparenze per giungere alla verità del movimento, e non ci accorgiamo che è appunto questo atteggiamento a ridurre il fenomeno e a impedirci di coglierlo nella sua originalità, in quanto introduce, con la nozione di verità in sé, presupposti capaci di nascondermi la nascita del movimento per me. Lancio una pietra. Essa attraversa il mio giardino. Per un istante diviene un bolide confuso e torna a essere pietra cadendo in terra a una certa distanza. Se voglio pensare «chiaramente» il fenomeno, devo scomporlo. La pietra stessa, dirò, non è in realtà modificata dal movimento. È la medesima pietra che tenevo in mano e che ritrovo in terra alla fine della corsa, è quindi la medesima pietra che ha attraversato l’aria. Il movimento è solo un attributo accidentale del mobile e, in un certo qual modo, non viene visto nella pietra. Esso non può essere altro che un cambiamento verificatosi nei rapporti tra la pietra e il mondo circostante. Possiamo parlare di cambiamento solamente se è la medesima pietra che persiste sotto i diversi rapporti con il mondo circostante. Se viceversa suppongo che la pietra si annienti al punto P e che un’altra pietra identica sorga dal nulla al punto P, vicino quanto si vuole al primo, non abbiamo più un movimento unico, ma due movimenti. Non c’è quindi movimento senza un mobile che lo porti ininterrottamente dal punto di partenza sino al punto di arrivo. Non essendo nulla di inerente al mobile e consistendo per intero nei suoi rapporti con il mondo circostante, il movimento non può prescindere da un punto esterno di riferimento, e infine si è nell’impossibilità di attribuirlo in proprio al «mobile» piuttosto che al punto di riferimento. Una volta distinti il mobile e il movimento, non c’è quindi movimento senza mobile, non c’è movimento senza un punto oggettivo di riferimento e non c’è movimento assoluto. Tuttavia, questo pensiero del movimento è di fatto una negazione del movimento; distinguere rigidamente il movimento dal mobile equivale a dire che, a rigore, il «mobile» non si muove. Se, in un certo modo, non è qualcosa di diverso dalla pietra in riposo, la pietra-in-movimento non è mai in movimento (né del resto in quiete). Non appena introduciamo l’idea di un mobile che resti il medesimo attraverso il proprio movimento, gli argomenti di Zenone tornano a essere validi. Si obietterebbe invano che non si deve considerare il movimento come una serie di posizioni discontinue occupate successivamente in una serie di istanti discontinui, e che lo spazio e il tempo non derivano dalla riunione di elementi discreti. Infatti, anche se si considerano due istanti-limite e due posizioni-limite la cui differenza possa decrescere al di sotto di ogni quantità data e la cui differenziazione sia allo stato nascente, l’idea di un mobile identico attraverso le fasi del movimento esclude, come semplice apparenza, il fenomeno del «mosso» e implica l’idea di una posizione spaziale e temporale sempre identificabile in sé, anche se non lo è per noi, dunque l’idea di una pietra che è sempre e non passa mai. Anche se si inventasse uno strumento matematico che permettesse di calcolare una molteplicità indefinita di posizioni e di istanti, in un mobile identico non sarebbe concepibile l’atto stesso di transizione, che è sempre fra due istanti e due posizioni, per quanto vicini li scegliamo. Cosicché, per pensare distintamente il movimento, non riesco a comprendere come esso possa mai cominciare per me ed essermi dato come fenomeno.


Eppure io cammino, esperisco il movimento nonostante le esigenze e le alternative del pensiero distinto, e ciò fa si, contro ogni ragione, che io percepisca dei movimenti senza mobile identico, senza un punto esterno di riferimento e senza nessuna relatività. Se presentiamo alternativamente a un soggetto due linee luminose A e B, il soggetto vede «un movimento continuo da A a B, poi da B ad A, poi ancora da A a B e così via; senza che nessuna posizione intermedia e le posizioni estreme siano date per se stesse, si ha un’unica linea che va e viene incessantemente. Per contro, è possibile far apparire distintamente le posizioni estreme accelerando o rallentando la cadenza della presentazione.

Il movimento stroboscopico tende allora a dissociarsi: la linea appare dapprima trattenuta nella posizione A, poi se ne libera improvvisamente e balza nella posizione B. Se si continua ad accelerare o a rallentare la cadenza, il movimento stroboscopico termina e si hanno due linee simultanee o due linee successive.34 La percezione delle posizioni è quindi inversamente proporzionale a quella del movimento. Si può anche dimostrare che il movimento non è mai l’occupazione successiva da parte di un mobile di tutte le posizioni situate fra le due estreme. Se per il movimento stroboscopico si utilizzano figure colorate o bianche su sfondo nero, lo spazio sul quale si estende il movimento non è mai illuminato o colorato da esso. Se fra le posizioni estreme A e B si interpone un trattino C, il trattino non è mai completato dal movimento che passa. «Non si ha un “passaggio della linea”, ma un puro “passaggio”.» Se si opera con un tachistoscopio, il soggetto percepisce spesso un movimento senza poter dire di che cosa c’è movimento. Quando si tratta di movimenti reali, la situazione non è diversa. Se guardo degli operai che scaricano un autocarro e si lanciano dei mattoni, vedo il braccio dell’operaio nella sua posizione iniziale e in quella finale, non lo vedo in nessuna posizione intermedia, e tuttavia ho una percezione viva del suo movimento. Se faccio passare rapidamente una matita di fronte a un foglio di carta su cui ho fissato un punto di riferimento, non ho mai coscienza che la matita si trovi sopra il punto di riferimento, non vedo nessuna delle posizioni intermedie e ciononostante esperisco il movimento. Reciprocamente, se rallento il movimento e se riesco a non perdere di vista la matita, in questo stesso istante l’impressione di movimento scompare.35 Il movimento scompare proprio quando è più conforme alla definizione che ne dà il pensiero oggettivo. Cosi, si possono ottenere dei fenomeni in cui il “mobile non appare se non preso nel movimento. Muoversi non è, per il mobile, passare via via attraverso una serie indefinita di posizioni, esso è dato solo come iniziarne, proseguente o terminante il proprio


movimento. Di conseguenza, anche nei casi in cui un mobile è visibile, nei suoi confronti il movimento non è una denominazione estrinseca, una relazione tra questo mobile e l’esterno, e potremmo avere dei movimenti senza un punto di riferimento. Di fatto, se si proietta l’immagine consecutiva di un movimento su un campo omogeneo senza nessun oggetto e senza nessun contorno, il movimento prende possesso di tutto lo spazio, è l’intero campo visivo a muoversi, come, in fiera, nella Casa Incantata. Se proiettiamo sullo schermo l’immagine consecutiva di una spirale che ruota attorno al proprio centro, in assenza di qualsiasi contesto fisso è lo spazio stesso a vibrare e a dilatarsi dal centro alla periferia.36 Infine, poiché il movimento non è più un sistema di relazioni esteriori al mobile stesso, nulla ci impedisce ora di riconoscere dei movimenti assoluti, come la percezione ce ne dà effettivamente in ogni istante. Ma si può sempre obiettare che questa descrizione non significa nulla. Lo psicologo rifiuta l’analisi razionale del movimento e, quando gli si fa notare che, per essere movimento, ogni movimento deve essere movimento di qualcosa, risponde che «dal punto di vista della descrizione psicologica ciò non è fondato».37 Ma se lo psicologo descrive un movimento, è necessario che esso sia riferito a un qualcosa di identico che si muove. Se depongo l’orologio sul tavolo della mia camera e se improvvisamente esso scompare per riapparire dopo pochi istanti sul tavolo della camera attigua, non dirò che c’è stato movimento:38 infatti, c’è movimento solo se le posizioni intermedie sono state effettivamente occupate dall’orologio. Lo psicologo può si dimostrare che il movimento stroboscopico si produce senza stimolo intermedio fra le posizioni estreme, e anche che la linea luminosa A non viaggia nello spazio che la separa da B, che nessuna luce è percepita tra A e B durante il movimento stroboscopico, e infine che non vedo la matita o il braccio dell’operaio fra le due posizioni estreme: in un modo o nell’altro è però necessario, affinché il movimento appaia, che il mobile sia stato presente in ogni punto del tragitto, e se non vi è presente sensibilmente è perché vi è pensato. Quanto abbiamo detto a proposito del movimento è applicabile al cambiamento: quando dico che il fachiro trasforma un uovo in fazzoletto o che il mago si trasforma in uccello sul tetto del suo palazzo,39 non voglio dire soltanto che un oggetto o un essere è scomparso ed è stato istantaneamente sostituito da un altro. È necessario un rapporto interno fra ciò che si annienta e ciò che nasce; è necessario che siano entrambi due manifestazioni o due apparizioni, due tappe di un medesimo qualcosa che si presenta successivamente sotto queste due forme.40 Parimenti, è necessario che l’arrivo del movimento in un punto non faccia tutt’uno con la sua partenza dal punto «contiguo», e ciò si verifica solo se c’è un mobile che d’un sol tratto abbandona un punto e ne occupa un altro. «Un qualcosa che è colto come cerchio cesserebbe di valere per noi come cerchio non appena il momento di “rotondità” o l’identità di tutti i diametri, che è essenziale al cerchio, cessasse di esservi presente. Non ha importanza che il cerchio sia percepito o pensato; comunque, è necessaria la presenza di una determinazione comune che, in entrambi i casi, ci costringa a caratterizzare come cerchio ciò che ci si presenta e a distinguerlo da ogni altro fenomeno.»41 Analogamente, quando si parla di una sensazione di movimento, o di una coscienza sui generis del movimento, o, come la teoria della forma, di un movimento globale, di un fenomeno φ in cui non sarebbero dati nessun mobile e nessuna posizione particolare, si fanno solo delle parole se non si dice come «ciò che è dato in questa sensazione o in questo fenomeno o ciò che è colto attraverso di essi si segnala (dokumentiert) immediatamente come movimento».42 La percezione del movimento può essere percezione del movimento e riconoscerlo come tale solo se lo coglie con il suo significato di movimento e con tutti i momenti che ne sono costitutivi, in particolare con l’identità del mobile. Il movimento, risponde lo psicologo, è «uno di quei “fenomeni psichici” che, allo stesso titolo dei contenuti sensibili dati -


colore e forma -, sono riferiti all’oggetto, appaiono come oggettivi e non soggettivi, ma che, a differenza degli altri dati psichici, non sono di natura statica bensì dinamica. Per esempio, il “passaggio” caratterizzato e specifico è la carne e il sangue del movimento, il quale non può essere formato per composizione a partire dagli ordinari contenuti visivi.»43 Infatti, non è possibile comporre il movimento mediante percezioni statiche. Ma non si tratta di ciò, non si pensa a spiegare il movimento con la quiete. Anche l’oggetto in quiete necessita di identificazione: non può essere detto in quiete se in ogni istante è dissolto e ricreato, se non permane attraverso le sue diverse presentazioni istantanee. L’identità di cui parliamo è quindi anteriore alla distinzione fra il movimento e la quiete. Il movimento non è nulla senza un mobile che lo descriva e che ne costituisca l’unità. La metafora del fenomeno dinamico inganna qui lo psicologo: ci sembra che una forza assicuri da sé la propria unità, ma è perché presupponiamo sempre qualcuno che la identifichi nel dispiegarsi dei suoi effetti. I «fenomeni dinamici» derivano la loro unità da me che li vivo, li percorro e ne faccio la sintesi. Cosi, passiamo da un pensiero del movimento che lo distrugge a un’esperienza del movimento che cerca di fondarlo, ma anche da questa esperienza a un pensiero senza il quale, a rigore, essa non significa nulla. Pertanto, non si può dar ragione né allo psicologo né al logico, o meglio, si deve dar ragione a tutti e due e trovare il modo di riconoscere la tesi e l’antitesi come vere entrambe. Il logico ha ragione quando esige una costituzione del «fenomeno dinamico» stesso e una descrizione del movimento fondata sull’osservazione del mobile nel suo tragitto -, ma ha torto quando presenta l’identità del mobile come una identità espressa, ed egli stesso è costretto ad ammetterlo. Dal canto suo, quando descrive più dappresso i fenomeni, lo psicologo è indotto, suo malgrado, a introdurre nel movimento un mobile, ma torna ad avere il sopravvento grazie al modo concreto in cui concepisce questo mobile. Nella discussione che abbiamo seguito e di cui ci siamo serviti per illustrare la perpetua disputa fra la psicologia e la logica, che cosa vuol dire in fondo Wertheimer? Questo: che la percezione del movimento non è seconda in rapporto alla percezione del mobile, che non si ha una percezione del mobile qui, poi là, e in seguito una identificazione che collegherebbe queste posizioni nella successione,44 che la loro diversità non è sussunta sotto una unità trascendente e che infine l’identità del mobile emana direttamente «dall’esperienza».45 In altri termini, quando parla del movimento come di un fenomeno che abbraccia il punto di partenza A e il punto d’arrivo B (AB), lo psicologo non intende dire che non c’è un soggetto del movimento, ma che in nessun caso il soggetto del movimento è un oggetto A dato dapprima come presente nel suo luogo e stazionario: in quanto c’è movimento, il mobile è preso nel movimento. Lo psicologo ammetterebbe certo che in ogni movimento c’è, se non un mobile, per lo meno un movente, a condizione che non si confonda questo movente con una delle figure statiche che possiamo ottenere fermando il movimento in un punto qualsiasi del tragitto. Ed è qui che egli ha il sopravvento sul logico. Infatti, per non aver ripreso contatto con l’esperienza del movimento al di là di ogni pregiudizio circa il mondo, il logico non parla se non del movimento in sé, pone il problema del movimento in termini d’essere, ciò che in definitiva lo rende insolubile. Consideriamo, egli dice, le diverse apparizioni (Erscheinungen) del movimento in differenti punti del tragitto: esse saranno apparizioni di un medesimo movimento solo se sono apparizioni di un medesimo mobile, di un medesimo Erscheinende, di un medesimo qualcosa che si presenta (darstellt) attraverso tutte queste apparizioni. Ma il mobile ha bisogno di essere posto come un essere a parte solo se le sue apparizioni in diversi punti del percorso sono state realizzate esse stesse come prospettive discrete. Per principio, il logico non conosce se non la coscienza tetica, ed è questo postulato, questa presupposizione di un mondo interamente determinato, di un essere puro, a compromettere la sua concezione del molteplice e perciò la sua concezione della sintesi. Il


mobile, o meglio, come abbiamo detto, il movente, non è identico sotto le fasi del movimento, ma è identico in esse. Se credo all’identità della pietra durante il movimento, non è perché ritrovo in terra la medesima pietra. Viceversa, è perché l’ho percepita come identica durante il movimento - di una identità implicita e che rimane da descrivere -, che vado a raccoglierla e che la ritrovo. Non dobbiamo realizzare nella pietra-in-movimento tutto ciò che sappiamo della pietra per altra via. Se quello che percepisco è un cerchio, dice il logico, tutti i suoi diametri sono eguali. Ma a questa stregua sarebbe anche necessario introdurre nel cerchio percepito tutte le proprietà che il geometra ha potuto e potrà scoprirvi. Orbene, è il cerchio come cosa del mondo a possedere anticipatamente e in sé tutte le proprietà che l’analisi vi scoprirà. I tronchi d’albero circolari avevano già, prima di Euclide, le proprietà che questi ha scoperto. Ma nel cerchio come fenomeno, quale appariva ai greci prima di Euclide, il quadrato della tangente non era eguale al prodotto dell’intera secante per la sua parte esterna: questo quadrato e questo prodotto non figuravano nel fenomeno, come pure non vi figuravano necessariamente i raggi eguali. Il mobile, come oggetto di una serie indefinita di percezioni esplicite e concordanti, ha delle proprietà, mentre il movente ha solo uno stile. Ciò che è impossibile, è che il cerchio percepito abbia dei diametri diseguali o che il movimento sia senza movenze. Ma, ciononostante, il cerchio percepito non ha dei diametri eguali, poiché non ha affatto diametri: esso si segnala a me, si fa riconoscere e distinguere da ogni altra figura per la sua fisionomia circolare, e non per una delle «proprietà» che il pensiero tetico potrà scoprirvi successivamente. Ugualmente, il movimento non presuppone necessariamente un mobile, cioè un oggetto definito da un insieme di qualità determinate, ma è sufficiente che racchiuda un «qualcosa che si muove», tutt’al più un «qualcosa di colorato» o «di luminoso» senza colore o luce effettivi. Il logico esclude questa terza ipotesi: è necessario che i raggi del cerchio siano eguali o diseguali, che il movimento abbia o non abbia un mobile. Ma non può farlo se non prendendo il cerchio come cosa o il movimento in sé. Orbene, abbiamo visto che, in fin dei conti, ciò equivale a rendere impossibile il movimento. Il logico non avrebbe nulla da pensare, nemmeno un’apparenza di movimento, se non esistesse un movimento anteriore al mondo oggettivo che sia la fonte di tutte le nostre affermazioni circa il movimento, se non ci fossero dei fenomeni anteriori all’essere che si possano riconoscere, identificare, e di cui si possa parlare, in breve, che abbiano un senso, quantunque non siano ancora tematizzati.46 È a questo sostrato fenomenico che lo psicologo ci riconduce. Non diremo che esso è irrazionale o antilogico. Solo la posizione di un movimento senza mobile lo sarebbe. Solo la negazione esplicita del mobile sarebbe contraria al principio del terzo escluso. Ci si deve limitare a dire che il sostrato fenomenico è, alla lettera, prelogico e lo resterà sempre. La nostra immagine del mondo può consistere solo parzialmente d’essere, in essa dobbiamo far posto al fenomeno, che circonda l’essere da ogni parte. Non si chiede al logico di prendere in considerazione delle esperienze che, per la ragione, siano prive di senso o contradditorie, ma si vuole semplicemente estendere i limiti di ciò che ha senso per noi e ricollocare la ristretta zona del senso tematico in quella del senso non tematico che l’abbraccia. La tematizzazione del movimento mette capo alla identità del mobile e alla relatività del movimento, e cioè lo distrugge. Se vogliamo prendere sul serio il fenomeno del movimento, dobbiamo concepire un mondo che non sia fatto soltanto di cose, ma anche di pure transizioni. Il qualcosa in transito che abbiamo riconosciuto come necessario alla costituzione di un cambiamento, non si definisce se non per il suo modo particolare di «passare». Per esempio, l’uccello che attraversa il mio giardino, non è, nel momento stesso del movimento, se non una potenza grigiastra di volare, e, in generale, vedremo che le cose si definiscono originariamente in virtù del loro «comportamento» e non in virtù di «proprietà» statiche. Non sono io a riconoscere in ciascuno dei punti e degli istanti attraversati il medesimo uccello definito da caratteri espliciti, è


l’uccello che, volando, forma Punita del movimento, è l’uccello che si sposta, è questo tumulto di piume ancora qui che è già laggiù in una specie di ubiquità, come la cometa con la sua coda. L’essere pre-oggettivo, il movente non tematizzato non pone altri problemi che lo spazio e il tempo d’implicazione di cui abbiamo già parlato. S’è detto che le parti dello spazio, secondo la larghezza, l’altezza o la profondità, non sono giustapposte, ma che coesistono perché sono tutte avvolte nella presa unica del nostro corpo sul mondo, e questa relazione si è già rischiarata quando abbiamo dimostrato che è temporale prima di essere spaziale. Le cose coesistono nello spazio perché sono presenti al medesimo soggetto percipiente e avvolte in una medesima onda temporale. Ma l’unità e l’individualità di ogni onda temporale è possibile solo se essa è stretta fra quella precedente e quella seguente, se la medesima pulsazione temporale che la fa sorgere ritiene ancora quella precedente e tiene in anticipo quella seguente. È il tempo oggettivo che è fatto di momenti successivi. Il presente vissuto racchiude nel suo spessore un passato e un avvenire. Il fenomeno del movimento non fa altro che manifestare in modo più sensibile l’implicazione spaziale e temporale. Noi conosciamo un movimento e un movente senza nessuna coscienza delle posizioni oggettive, come conosciamo un oggetto a distanza e la sua vera grandezza senza nessuna interpretazione, e come in ogni momento conosciamo il posto di un evento nello spessore del nostro passato senza nessuna evocazione espressa. Il movimento è una modulazione di un ambiente già familiare e ci riconduce, ancora una volta, al nostro problema centrale, consistente nel sapere come si costituisca questo ambiente che serve da sfondo a ogni atto di coscienza.47 Il porre un mobile identico metteva capo alla relatività del movimento. Ora che l’abbiamo reintrodotto nel mobile, il movimento va interpretato in un solo senso: è nel mobile che comincia ed è di là che si dispiega nel campo. Non sono padrone di vedere immobile la pietra e di vedere in movimento il giardino e me stesso. Il movimento non è una ipotesi la cui probabilità è commisurata come quella della teoria fisica - al numero di fatti che coordina. Ciò darebbe solo un movimento possibile. Il movimento è un fatto. La pietra non è pensata, ma vista in movimento. Infatti, l’ipotesi «è la pietra a muoversi» non avrebbe nessun significato proprio, non si distinguerebbe in nulla dall’ipotesi «è il giardino a muoversi», se, in verità e per la riflessione, il movimento si riconducesse a un semplice mutamento di relazioni. Esso abita quindi la pietra. Daremo peraltro ragione al realismo dello psicologo? Introdurremo il movimento nella pietra come una qualità? Esso non presuppone nessun riferimento a un oggetto espressamente percepito e rimane possibile in un campo perfettamente omogeneo. Tuttavia, ogni mobile è dato in un campo. Oltreché di un movente, il movimento necessita di uno sfondo. Si era nel torto quando si diceva che i contorni del campo visivo forniscono sempre un punto oggettivo di riferimento.48 Ancora una volta, il contorno del campo visivo non è una linea reale. Il nostro campo visivo non è ritagliato nel nostro mondo oggettivo, non ne è un frammento dai contorni netti come il paesaggio che si incornicia nella finestra. Nel campo visivo vediamo tanto lontano quanto si estende la presa del nostro sguardo sulle cose, molto al di là della zona di visione chiara e anche dietro di noi. Quando si giunge ai limiti del campo visivo non si passa dalla visione alla non-visione: il giradischi che suona nella camera attigua e che non vedo espressamente conta ancora per il mio campo visivo; reciprocamente, ciò che noi vediamo è sempre, per certi aspetti, non visto: devono esserci dei lati nascosti delle cose e delle cose «dietro di noi», perché ci siano un «davanti» delle cose, delle cose «davanti a noi» e infine una percezione. I limiti del campo visivo sono un movimento necessario dell’organizzazione del mondo e non un contorno oggettivo. Ma infine è pur vero che un oggetto percorre il nostro campo visivo, che vi si sposta e che il movimento non ha senso fuori di questo rapporto. Una qualsiasi parte del campo ci appare in movimento o in quiete a seconda che le diamo valore di figura o valore di sfondo. Se ci troviamo su


una nave che procede lungo la costa, è ben vero, come diceva Leibniz, che possiamo vedere la costa sfilare di fronte a noi oppure prenderla come punto fisso e sentire la nave in movimento. Diamo quindi ragione al logico? Assolutamente no, giacché dire che il movimento è un fenomeno di struttura non equivale a dire che è «relativo». La relazione molto particolare che è costitutiva del movimento non è tra oggetti, e questa relazione lo psicologo non la ignora, ma la descrive molto meglio del logico. La costa sfila sotto i nostri occhi se teniamo gli occhi fissi sul parapetto, mentre è la nave a muoversi se guardiamo la costa. Quando nell’oscurità osserviamo due punti luminosi, di cui uno immobile e l’altro in movimento, è quello che fissiamo ad apparire in movimento.49 La nube vola sopra il campanile e il fiume scorre sotto il ponte se guardiamo la nube e il fiume, ma se viceversa guardiamo il campanile o il ponte, il campanile cade attraverso il cielo e il ponte scivola su un fiume immobile. Ciò che dà a una parte del campo valore di mobile e a un’altra valore di sfondo, è il modo in cui stabiliamo i nostri rapporti con esse attraverso l’atto dello sguardo. La pietra vola nell’aria: che cosa significano queste parole se non che il nostro sguardo installato e ancorato nel giardino è sollecitato dalla pietra e, per cosi dire, leva le proprie ancore? La relazione del mobile con il suo sfondo passa per il nostro corpo. Come concepire questa mediazione del corpo? Per quale motivo le relazioni degli oggetti con esso possono determinare tali oggetti come mobili o in quiete? Il nostro corpo non è forse un oggetto e non ha anch’esso bisogno di essere determinato sotto il rapporto della quiete e del movimento? Si dice spesso che, nel movimento degli occhi, gli oggetti rimangono immobili per noi perché teniamo conto dello spostamento dell’occhio e perché, trovandolo esattamente proporzionale al cambiamento delle apparenze, deduciamo l’immobilità degli oggetti. Di fatto, se non abbiamo coscienza dello spostamento dell’occhio, come nel movimento passivo, l’oggetto sembra muoversi; se, come nella paresi dei muscoli oculo-motori, abbiamo l’illusione di un movimento dell’occhio senza che la relazione degli oggetti con il nostro occhio sembri cambiare, noi crediamo di vedere un movimento dell’oggetto. Poiché la relazione dell’oggetto con il nostro occhio, quale si fissa sulla retina, è data alla coscienza, dapprima sembra che otteniamo per sottrazione la quiete o il grado di movimento degli oggetti introducendo nel calcolo lo spostamento o l’immobilità dell’occhio. In realtà, questa analisi è del tutto artificiale e ci nasconde il vero rapporto del corpo con lo spettacolo. Quando trasporto il mio sguardo da un oggetto su un altro, io non ho nessuna coscienza del mio occhio come oggetto, come globo sospeso nell’orbita, del suo spostamento o della, sua immobilità nello spazio oggettivo, né di ciò che ne risulta sulla retina. Gli elementi del presunto calcolo non mi sono dati. L’immobilità della cosa non è dedotta dall’atto dello sguardo, ma è rigorosamente simultanea; i due fenomeni si implicano vicendevolmente: non sono due elementi di una somma algebrica, ma due momenti di una organizzazione che li ingloba. Il mio occhio è per me un certo potere di raggiungere le cose e non uno schermo in cui esse si proiettano. La relazione fra il mio occhio e l’oggetto non mi è data sotto forma di proiezione geometrica dell’oggetto nell’occhio, ma come una certa presa del mio occhio sull’oggetto, ancora vaga nella visione marginale, più serrata e precisa quando fisso l’oggetto. Nel movimento passivo dell’occhio non mi manca la rappresentazione oggettiva del suo spostamento nell’orbita, che non mi è data in nessun caso, ma l’innestamento preciso del mio sguardo sugli oggetti, mancando il quale gli oggetti non sono più capaci di fissità né, d’altra parte, di movimenti veri: infatti, quando esercito una pressione sul globo oculare, non percepisco un movimento vero, non sono le cose stesse a spostarsi, ma solo una sottile pellicola sulla loro superficie. Infine, nella paresi dei muscoli oculo-motori, non spiego la costanza dell’immagine retinica con un movimento dell’oggetto, ma sento che la presa del mio sguardo sull’oggetto non si allenta, il mio sguardo lo porta con sé e lo sposta con sé. Cosi, nella percezione il mio occhio non è mai un oggetto. In nessun caso si può parlare di movimento senza mobile come nel


caso del corpo proprio. Il movimento del mio occhio verso ciò che sta per fissare non è lo spostamento di un oggetto in rapporto a un altro oggetto, ma un cammino verso il reale. Il mio occhio è in movimento o immobile rispetto a una cosa cui esso si avvicina o che lo fugge. Se il corpo fornisce alla percezione del movimento il terreno o lo sfondo di cui essa necessita per costituirsi, lo fa come potenza percipiente, in quanto è stabilito in un certo dominio e innestato su un mondo. Quiete e movimento appaiono fra un oggetto che di per sé non è determinato secondo la quiete e il movimento, e il mio corpo che, come oggetto, a sua volta non lo è; appaiono quando il mio corpo si àncora in certi oggetti. Come l’alto e il basso, il movimento è un fenomeno di livello, ogni movimento presuppone un certo ancoraggio che può variare. Ecco ciò che si vuol dire di valido quando si parla confusamente della relatività del movimento. Orbene, che cos’è di preciso l’ancoraggio? Come costituisce uno sfondo in riposo? Esso non è una percezione esplicita. I punti di ancoraggio, quando ci fissiamo su di essi, non sono oggetti. Il campanile si mette in movimento solo quando lascio il cielo in visione marginale. Per i pretesi punti di riferimento del movimento è essenziale non essere posti in una conoscenza attuale ed essere sempre «già là». Essi non si offrono alla percezione di fronte, ma l’aggirano e la investono in virtù di una operazione precosciente i cui risultati ci appaiono come già fatti. I casi di percezione ambigua, nei quali possiamo scegliere a piacimento il nostro ancoraggio, sono quelli in cui la nostra percezione è artificialmente separata dal suo contesto e dal suo passato, in cui noi percepiamo con tutto il. nostro essere, in cui giochiamo con il nostro corpo e con quella generalità che gli permette sempre di rompere ogni impegno storico e di funzionare per conto suo. Ma se possiamo rompere con un mondo umano, non possiamo impedirci di fissare lo sguardo - e ciò significa che, finché viviamo, rimaniamo impegnati se non in un ambiente umano, per lo meno in un ambiente fisico -, e per una data fissazione dello sguardo, la percezione non è facoltativa. Essa lo è ancora meno quando la vita del corpo è integrata alla nostra esistenza concreta. Se non faccio nulla o se mi interrogo sulle illusioni del movimento, posso vedere in movimento tanto il mio treno quanto quello vicino, a seconda di come m’aggrada. Ma «quando gioco a carte nel mio scompartimento, vedo muoversi il treno vicino, anche se in realtà è il mio che parte; quando guardo l’altro treno e vi cerco qualcuno, allora è il mio proprio treno che si avvia».50 Lo scompartimento in cui abbiamo eletto domicilio è «in quiete», le sue pareti sono «verticali» e il paesaggio sfila di fronte a noi, in una salita gli abeti visti attraverso il finestrino ci sembrano obliqui. Se però ci affacciamo al finestrino, rientriamo nel grande mondo al di là del nostro piccolo mondo, gli abeti si raddrizzano e rimangono immobili, il treno si inclina a seconda della pendenza e fugge attraverso la campagna. La relatività del movimento si riduce al nostro potere di cambiare dominio all’interno del grande mondo. Una volta impegnati in un ambiente, vediamo apparire di fronte a noi il movimento come un assoluto. A condizione di tener conto non solo di atti di conoscenza esplicita, di cogitationes, ma anche dell’atto pili segreto e sempre al passato in virtù del quale ci siamo dati un mondo, a condizione di riconoscere una coscienza non-tetica, possiamo ammettere ciò che lo psicologo chiama un movimento assoluto senza cadere nelle difficoltà del realismo, e comprendere il fenomeno del movimento senza che la nostra logica lo distrugga. Finora abbiamo considerato, come fanno la filosofia e la psicologia classiche, solo la percezione dello spazio, e cioè la conoscenza che un soggetto disinteressato potrebbe acquisire delle relazioni spaziali fra gli oggetti e dei loro caratteri geometrici. E tuttavia, anche analizzando questa funzione astratta, che è ben lungi dall’esaurire tutta la nostra esperienza dello spazio, siamo stati indotti a far apparire come condizione della spazialità la fissazione del soggetto in un ambiente e infine la sua inerenza al mondo: altrimenti detto, abbiamo dovuto riconoscere che la percezione spaziale è un fenomeno di struttura ed è comprensibile solo all’interno di un campo percettivo che contribuisce per


intero a motivarla proponendo al soggetto concreto un ancoraggio possibile. Il problema classico della percezione dello spazio e, in generale, della percezione deve essere reintegrato in un problema più vasto. Chiedersi come è possibile, in un atto espresso, determinare delle relazioni spaziali e degli oggetti con le loro «proprietà», significa porre una questione seconda, dare come originario un atto che appare solo sullo sfondo di un mondo già familiare, confessare che non si è ancora preso coscienza dell’esperienza del mondo. Nell’atteggiamento naturale io non ho delle percezioni, non pongo questo oggetto accanto a quest’altro e le loro relazioni oggettive, ho un flusso di esperienze che si implicano e si esplicano vicendevolmente tanto nella simultaneità quanto nella successione. Parigi non è per me un oggetto dalle mille sfaccettature, una somma di percezioni, né del resto la legge di tutte queste percezioni. Come un essere manifesta la medesima essenza affettiva nei gesti della sua mano, nel suo portamento e nel- suono della sua voce, cosi nel mio viaggio attraverso Parigi ogni percezione espressa - i caffè, i volti delle persone, i pioppi del lungofiume, le sinuosità della Senna - è ritagliata nell’essere totale di Parigi, non fa altro che confermare un certo stile o un certo senso di Parigi. E quando ci sono arrivato per la prima volta, le prime vie che ho visto all’uscita della stazione non sono state, analogamente alle prime parole di uno sconosciuto, che le manifestazioni di una essenza ancora ambigua ma già incomparabile. Noi non percepiamo quasi nessun oggetto, cosi come non vediamo gli occhi di un volto familiare, ma il suo sguardo e la sua espressione. C’è qui un senso latente, diffuso attraverso il paesaggio o la città, che ritroviamo in una evidenza specifica senza avere bisogno di definirlo. Sole, emergono come atti espressi le percezioni ambigue, cioè quelle a cui noi stessi diamo un senso in virtù dell’atteggiamento assunto o che rispondono a domande che ci poniamo. Esse non possono servire per l’analisi del campo percettivo: infatti, sono prelevate da esso, lo presuppongono e noi le otteniamo appunto utilizzando i montaggi che abbiamo acquisito nella frequentazione del mondo. Una prima percezione senza sfondo è inconcepibile. Ogni percezione presuppone un certo passato del soggetto che percepisce; la funzione astratta di percezione, come incontro degli oggetti, implica un atto più segreto in virtù del quale elaboriamo il nostro ambiente. Sotto l’effetto della mescalina accade che gli oggetti che si avvicinano sembrano rimpicciolirsi. Un arto o una parte del corpo, mano, bocca o lingua, appare enorme, e il resto del corpo non è più se non la sua appendice.51 I muri della camera distano centocinquanta metri l’uno dall’altro e al di là di essi c’è solo l’immensità deserta. La mano distesa è alta come il muro. Lo spazio esterno e quello corporeo si disgiungono a tal punto che il soggetto ha l’impressione di mangiare «da una dimensione nell’altra».52 In certi istanti il movimento non è più visto e le persone si trasportano da un punto all’altro in modo magico.53 Il soggetto è solo e abbandonato a uno spazio vuoto, «si lamenta di vedere bene esclusivamente lo spazio fra le cose, e questo spazio è vuoto. In un certo qual modo gli oggetti sono ancora là, ma non come dovrebbero...».54 Gli uomini hanno l’aspetto di bambole e i loro movimenti sono di una lentezza magica. Le foglie degli alberi perdono la loro struttura e la loro organizzazione: ogni punto della foglia ha il medesimo valore che tutti gli altri.55 Uno schizofrenico dice: «Un uccello cinguetta nel giardino. Ascolto l’uccello e so che cinguetta, ina che sia un uccello e che cinguetti, le due cose sono così lontane l’una dall’altra... C’è un abisso... Come se l’uccello e il cinguettio non avessero nessun rapporto.»56 Un altro schizofrenico non riesce più a «comprendere» il pendolo, cioè il passaggio delle lancette da una posizione a un’altra e soprattutto la connessione di questo movimento con l’impulso dato dal meccanismo, il «cammino» del pendolo.57 Questi disturbi non interessano la percezione come conoscenza del mondo: le parti enormi del corpo, gli oggetti vicini troppo piccoli non sono posti come tali; per il malato i muri della camera non distano l’uno dall’altro come, per un


soggetto normale, le due estremità di un campo di football. Il malato sa bene che i cibi e il suo proprio corpo risiedono nel medesimo spazio, giacché prende i cibi con la mano. Lo spazio è «vuoto», e nondimeno tutti gli oggetti di percezione sono là. Il disturbo non riguarda le indicazioni che si possono ricavare dalla percezione e, sotto la «percezione», mette in evidenza una vita più profonda della coscienza. Anche quando c’è impercezione, come accade nei confronti del movimento, la deficienza percettiva sembra essere solo un caso limite di un disturbo più generale che concerne l’articolarsi dei fenomeni gli uni sugli altri. C’è un uccello e c’è un cinguettio, ma l’uccello non cinguetta più. C’è un movimento delle lancette e una molla, ma il pendolo non «cammina» più. Allo stesso modo, certe parti del corpo si sono smisuratamente ingrandite e gli oggetti vicini sono troppo piccoli poiché l’insieme non forma più un sistema. Orbene, se il mondo si polverizza o si disunisce, è perché il corpo proprio ha cessato di essere corpo conoscente, di avvolgere tutti gli oggetti in una presa unica, e questa degradazione del corpo in organismo deve venire essa stessa rapportata allo scadimento del tempo, il quale non si leva più verso un avvenire e ricade su se stesso. «Una volta ero un uomo, con un’anima e un corpo vivente (Leib) e ora non sono più che un essere (Wesen)... Adesso è rimasto solo l’organismo (Körper) e l’anima è morta... Odo e vedo, ma non so più nulla, per me la vita è divenuta un problema... Sopravvivo nell’eternità... I rami degli alberi dondolano, gli altri vanno e vengono nella sala, ma per me il tempo non scorre... Il pensiero è cambiato, non c’è più stile... Che cos’è l’avvenire? Non si può raggiungerlo... Tutto è punto interrogativo... Tutto è cosi monotono, al mattino, a mezzogiorno, alla sera, passato, presente, avvenire. Tutto ricomincia sempre.» 58 La percezione dello spazio non è una classe particolare di «stati di coscienza» o di atti, e le sue modalità esprimono sempre la vita totale del soggetto, l’energia con la quale esso si protende verso un avvenire attraverso il suo corpo e il suo mondo.59 Ci troviamo quindi indotti a estendere la nostra ricerca: una volta rapportata l’esperienza della spazialità alla nostra fissazione nel mondo, ci sarà una spazialità originale per ogni modalità di questa fissazione. Quando, per esempio, il mondo degli oggetti chiari e articolati si trova abolito, il nostro essere percettivo amputato del suo mondo delinea una spazialità senza cose. È ciò che accade nella notte. Essa non è un oggetto di fronte a me, ma mi avvolge, penetra attraverso tutti i miei sensi, soffoca i miei ricordi, cancella quasi la mia identità personale. Io non sono più trincerato nel mio posto percettivo per vedere, da li, sfilare a distanza i profili degli oggetti. La notte è senza profili, è la notte stessa che mi tocca, e la sua unità è l’unità mistica del matta. Anche delle grida o una luce lontana la popolano solo vagamente, essa si anima tutta quanta, è una profondità pura senza piani, senza superfici, senza distanza da me.60 Per la riflessione ogni spazio è fondato su un pensiero che ne collega le parti, ma tale pensiero non si forma in nessun luogo. Per contro, mi unisco allo spazio notturno dal cuore di questo stesso spazio. Per i neuropatici la notte è motivo di angoscia in quanto ci fa sentire la nostra contingenza, il movimento gratuito e infaticabile attraverso il quale cerchiamo di ancorarci e di trascenderci nelle cose, senza nessuna garanzia di trovarle sempre. - Ma la notte non è ancora la nostra esperienza più sorprendente dell’irreale: in essa posso conservare il montaggio realizzato durante il giorno, come quando avanzo a tastoni nel mio appartamento. In ogni caso, la notte si situa nel contesto generale della natura, c’è qualcosa di rassicurante e di terrestre persino nello spazio buio. Nel sonno, invece, conservo presente il mondo solo per tenerlo a distanza, mi volgo verso le fonti soggettive della mia esistenza, e i fantasmi del sogno rivelano ancora meglio la spazialità generale in cui sono incrostati lo spazio chiaro e gli oggetti osservabili. Consideriamo, per esempio, i temi dell’innalzamento e della caduta cosi frequenti nei sogni, come del resto nei miti e nella poesia. È noto che la comparsa di questi temi, nel sogno può essere messa in rapporto con delle concomitanti respiratorie o degli impulsi sessuali, e riconoscere il significato vitale e sessuale


dell’alto e del basso è già un primo passo. Ma queste spiegazioni non vanno lontano, giacché l’innalzamento e la caduta sognati non sono nello spazio visibile come le percezioni deste del desiderio e dei movimenti respiratori. È necessario comprendere perché, a un dato momento, colui che sogna si presta per intero ai fatti corporei della respirazione e del desiderio, e cosi infonde in essi un significato generale e simbolico, tanto da non vederli apparire nel sogno se non sotto forma di immagine - per esempio, l’immagine di un immenso uccello che si libra in aria e che, colpito da una fucilata, cade e si riduce a un mucchietto di carta annerita. È necessario comprendere come gli eventi respiratori o sessuali, che hanno il loro posto nello spazio oggettivo, se ne distacchino nel sogno e si stabiliscano su un altro teatro. Non ci si riuscirà se non si riconoscerà al corpo, anche nello stato di veglia, un valore emblematico. Fra le nostre emozioni, i nostri desideri e i nostri atteggiamenti corporei non c’è solo una connessione contingente o anche una relazione d’analogia: se dico che la delusione mi butta a terra, non lo dico solo perché essa è accompagnata da gesti di prostrazione in virtù delle leggi della meccanica nervosa, o perché scopro fra l’oggetto del mio desiderio e il mio desiderio stesso il medesimo rapporto che intercorre fra un oggetto posto in alto e il mio gesto verso di esso; il movimento verso l’alto come direzione nello spazio fisico e quello del desiderio verso il proprio scopo sono simbolici l’uno dell’altro, perché esprimono entrambi la medesima struttura essenziale del nostro essere come essere situato in rapporto con un ambiente, e, come si è già visto, solo questa struttura dà un senso alle direzioni dell’alto e del basso nel mondo fisico. Quando si parla di un morale alto o basso, non si estende allo psichico una relazione che avrebbe un senso pieno solo nel mondo fisico, ma si utilizza «una direzione di significato che, per cosi dire, attraversa le differenti sfere regionali e riceve in ciascuna un significato particolare (spaziale, uditivo, spirituale, fisico, ecc. )».61 I fantasmi del sogno, quelli del mito, le immagini favorite di ogni uomo o infine l’immagine poetica non sono legati al loro senso dal rapporto che unisce segno e significato, e che intercorre, per esempio, fra un numero telefonico e il nome dell’abbonato: essi racchiudono veramente il loro senso, che non è un senso nozionale, ma una direzione della nostra esistenza. Quando sogno di volare o di cadere, l’intero senso del sogno è contenuto in questo volo o in questa caduta, se non li riduco alla loro apparenza fisica nel mondo della veglia e se li assumo con tutte le loro implicazioni esistenziali. L’uccello che si libra in aria, cade e diviene un pugno di cenere, non vola e non cade nello spazio fisico, ma si alza e si abbassa con la marea esistenziale che lo attraversa o, ancora, è la pulsazione della mia esistenza, la sua sistole e la sua diastole. Il livello di questa marea determina in ogni momento uno spazio dei fantasmi, come, durante la veglia, il nostro commercio con il mondo che si propone determina uno spazio delle realtà. C’è una determinazione dell’alto e del basso, e in generale del luogo, che precede la «percezione». La vita e la sessualità abitano il loro mondo e il loro spazio. Nella misura in cui vivono nel mito, i primitivi non oltrepassano questo spazio esistenziale, e ciò spiega perché per essi i sogni contino quanto le percezioni. C’è uno spazio mitico nel quale le direzioni e le posizioni sono determinate dalla presenza di grandi entità affettive. Per un primitivo, sapere dove si trova l’accampamento del clan non significa localizzarlo in rapporto a qualche oggetto assunto come punto di riferimento: esso è il punto di riferimento cui fanno capo tutti gli altri -, significa tendere verso di esso come il luogo naturale di una certa pace o di una certa gioia, allo stesso modo in cui, per me, sapere dov’è la mia mano significa congiungermi a questa potenza agile momentaneamente assopita, ma che posso assumere e ritrovare come mia. Per l’augure, la destra e la sinistra sono le fonti da cui scaturiscono il fasto e il nefasto, cosi come per me la mano destra e la mano sinistra sono le incarnazioni della mia abilità e della mia inettitudine. Nel sogno come nel mito, veniamo a conoscere dove si trova il fenomeno sentendo verso che cosa va il nostro desiderio, che cosa il nostro cuore teme, da che cosa


dipende la nostra vita. Anche durante la veglia le cose non stanno diversamente. Arrivo in un paese per le vacanze, felice di abbandonare i miei lavori e il mio ambiente consueto. Mi installo nel paese. Esso diviene il centro della mia vita. La magra del fiume, la raccolta del granturco o delle noci sono per me degli avvenimenti. Ma se un amico viene a trovarmi e mi porta delle notizie da Parigi, o se la radio e i giornali mi fanno sapere che ci sono minacce di guerre, allora in questo paese mi sento esiliato, escluso dalla vita autentica, confinato lontano da tutto. Il nostro corpo e la nostra percezione ci sollecitano sempre ad assumere come centro del mondo il paesaggio che ci offrono. Ma questo paesaggio non è necessariamente quello della nostra vita. Io posso «essere altrove» pur rimanendo qui, e se mi si tiene lontano da ciò che amo, mi sento eccentrico alla vera vita. Il bovarismo e talune forme di nostalgia della propria terra sono esempi di vita decentrata. Viceversa, il maniaco si centra ovunque: «Il suo spazio mentale è largo e luminoso, il suo pensiero sensibile a tutti gli oggetti che si presentano, vola da uno all’altro ed è trascinato nel loro movimento.»62 Oltre alla distanza fisica o geometrica che esiste tra me e tutte le cose, una distanza vissuta mi collega alle cose che contano ed esistono per me e le collega tra di esse. Questa distanza misura in ogni momento l’«ampiezza» della mia vita.63 Talora tra me e gli avvenimenti c’è un certo gioco (Spielraum) che ha cura della mia libertà senza che essi cessino di toccarmi. Talora, viceversa, la distanza vissuta è troppo corta e al tempo stesso troppo grande: la maggior parte degli avvenimenti cessa di contare per me, mentre i più vicini mi ossessionano. Essi mi avvolgono come la notte, mi privano dell’individualità e della libertà. Non posso letteralmente più respirare. Sono ossessionato.64 In pari tempo, gli avvenimenti si agglomerano fra di essi. Un malato sente delle ventate gelide, un odore di caldarroste e la freschezza della pioggia. Forse, egli dice, «in quel preciso momento una persona sofferente di suggestioni come me passava sotto la pioggia di fronte a un venditore di caldarroste».65 Uno schizofrenico di cui si occupa Minkowski, e di cui si occupa pure il parroco del paese, è convinto che essi si siano incontrati per parlare di lui.66 Una vecchia schizofrenica crede che una persona che somiglia a un’altra l’ha conosciuta.67 La contrazione dello spazio vissuto, che non lascia più al malato nessun margine, non fa più posto al caso. Come lo spazio, la causalità è fondata sulla mia relazione alle cose ancor prima di essere una relazione fra gli oggetti. Tanto i «cortocircuiti» 68 della causalità delirante, quanto le lunghe catene causali del pensiero metodico esprimono dei modi di esistere:69 «l’esperienza dello spazio è intrecciata... con tutti gli altri modi di esperienza e tutti gli altri dati psichici».70 Lo spazio chiaro, questo bravo spazio in cui tutti gli oggetti hanno la medesima importanza e il medesimo diritto di esistere, è non solo circondato, ma anche compenetrato di un’altra spazialità che le variazioni morbose rivelano. In montagna, uno schizofrenico si ferma di fronte a un paesaggio. Un istante dopo si sente come minacciato. Nasce in lui un interesse speciale per tutto ciò che lo circonda, come se dall’esterno gli fosse posta una domanda alla quale egli non può dar risposta. Tutto a un tratto il paesaggio è rapito da una forza estranea. È come se un secondo cielo buio, sconfinato, penetrasse il cielo azzurro della sera. Questo nuovo cielo è vuoto, «fine, invisibile, spaventevole». Talvolta egli si muove nel paesaggio d’autunno, talvolta anche il paesaggio si muove. Mentre accade ciò, dice il malato, «un interrogativo permanente mi si impone; è come un ordine di riposarmi o di morire, o di andare più lontano».71 Questo secondo spazio che si estende attraverso lo spazio visibile è quello che il nostro modo proprio di proiettare il mondo compone in ogni momento, e il disturbo dello schizofrenico consiste semplicemente nel fatto che questo progetto perpetuo si dissocia dal mondo oggettivo quale è ancora offerto dalla percezione, e si ritira, per cosi dire, in se stesso. Lo schizofrenico non vive più nel mondo comune, ma in un mondo privato, non va più fino allo spazio geografico: rimane nello «spazio di paesaggio»,72 e questo stesso


paesaggio, una volta separato dal mondo comune, è considerevolmente impoverito. Di qui l’interrogazione schizofrenica: tutto è sorprendente, assurdo o irreale, poiché il movimento dell’esistenza verso le cose non ha pili la sua energia e si manifesta nella sua contingenza, poiché il mondo non è più ovvio. Se lo spazio naturale di cui parla la psicologia classica è invece rassicurante ed evidente, lo è proprio perché l’esistenza precipita in esso e vi si ignora. La descrizione dello spazio antropologico potrebbe proseguire indefinitamente.73 Non è difficile scorgere ciò che il pensiero oggettivo le obietterà sempre: le descrizioni hanno valore filosofico? Ossia: insegnano forse qualcosa che concerne la struttura stessa della coscienza, oppure ci danno solo dei contenuti dell’esperienza umana? Lo spazio del sogno, lo spazio mitico, lo spazio schizofrenico sono spazi veri e propri, possono esistere ed essere pensati per se stessi, oppure non presuppongono come condizione della loro possibilità lo spazio geometrico e, con esso, la pura coscienza costituente che lo dispiega? La sinistra, regione della sventura e presagio nefasto per il primitivo - o, nel mio corpo, la sinistra come lato della mia inettitudine - si determina come direzione solo se prima io sono capace di pensare la sua relazione con la destra, e in definitiva è questa relazione a dare un senso spaziale ai termini tra i quali si stabilisce. In un certo qual modo, non è con la sua angoscia o con la sua gioia che il primitivo tende verso uno spazio, cosi come non è con il dolore che so dov’è il mio piede ferito: l’angoscia, la gioia, i dolori vissuti sono riferiti a un luogo dello spazio oggettivo in cui si trovano le loro condizioni empiriche. Senza questa coscienza agile, libera nei confronti di tutti i contenuti e che li dispiega nello spazio, i contenuti non sarebbero mai in nessun luogo. Se riflettiamo sull’esperienza mitica dello spazio e se ci chiediamo che cosa essa significa, scopriremo necessariamente che tale esperienza riposa sulla coscienza dello spazio oggettivo e unico, giacché uno spazio che non fosse oggettivo e che non fosse unico non sarebbe uno spazio: non è forse essenziale allo spazio essere il «fuori» assoluto, correlato ma anche negazione della soggettività, e non gli è forse essenziale abbracciare ogni essere che si possa rappresentare, poiché tutto ciò che si vorrebbe porre fuori di esso sarebbe perciò stesso in rapporto con esso, dunque in esso? Il sognatore sogna, ecco perché i suoi movimenti respiratori e i suoi impulsi sessuali non sono presi per ciò che sono, rompono gli ormeggi che li legano al mondo e fluttuano di fronte a lui sotto forma di sogno. Ma, in definitiva, che cosa vede di preciso? Lo crederemo sulla parola? Se vuole sapere ciò che vede e comprendere egli stesso il suo sogno, dovrà svegliarsi. In un attimo la sessualità raggiungerà allora il suo antro genitale, l’angoscia e i suoi fantasmi torneranno a essere ciò che sono sempre stati: qualche difficoltà di respirazione in un punto della gabbia toracica. Lo spazio buio che invade il mondo dello schizofrenico non può giustificarsi come spazio ed esibire i suoi titoli di spazialità se non ricollegandosi allo spazio chiaro. Se il malato afferma che attorno a lui c’è un secondo spazio, chiediamogli: dove è dunque? Cercando di localizzare questo fantasma, egli lo farà scomparire come fantasma. E poiché, come confessa egli stesso, gli oggetti sono sempre là, con lo spazio chiaro il malato conserva sempre il mezzo di esorcizzare i fantasmi e di ritornare al mondo comune. I fantasmi sono residui del mondo chiaro e derivano da esso tutto il prestigio che possono avere. Parimenti, quando cercheremo di fondare lo spazio geometrico, con le sue relazioni intramondane, sulla spazialità originaria dell’esistenza, ci si risponderà che il pensiero conosce solo se stesso o delle cose, che una spazialità del soggetto non è pensabile e che pertanto la nostra istanza è rigorosamente priva di senso. Essa non ha, ribatteremo, senso tematico o esplicito, e si dissolve di fronte al pensiero oggettivo. Ma ha un senso non tematico o implicito che non è certo secondario, giacché lo stesso pensiero oggettivo si nutre dell’irriflesso e si offre come una esplicitazione della vita di coscienza irriflessa, cosicché la riflessione radicale non può consistere nel tematizzare parallelamente il mondo o lo spazio e il soggetto atemporale che li pensa, ma deve riafferrare questa


stessa tematizzazione con gli orizzonti di implicazione che le danno il suo senso. Se riflettere è ricercare l’originario, se è ciò grazie a cui il resto può essere ed essere pensato, la riflessione non può chiudersi nel pensiero oggettivo, ma deve pensare appunto gli atti di tematizzazione del pensiero oggettivo e restituirne il contesto. Altrimenti detto, il pensiero oggettivo rifiuta i pretesi fenomeni del sogno, del mito e, in generale, dell’esistenza, perché li trova impensabili e perché non vogliono dire nulla che esso possa tematizzare. Rifiuta il fatto o il reale in nome del possibile e dell’evidenza. Ma esso non vede che l’evidenza stessa è fondata su un fatto. L’analisi riflessiva crede di sapere, meglio del sognatore o dello schizofrenico stesso, che cosa essi vivono; ma c’è di più: il filosofo è convinto che la riflessione gli permetta di sapere che cosa egli percepisce ancor più di quanto glielo permetta la percezione stessa. E solo a questa condizione egli può respingere gli spazi antropologici come apparenze confuse dello spazio vero, unico e oggettivo. Ma dubitando di ciò che l’altro testimonia su se stesso o di ciò che la propria percezione testimonia su se stessa, egli si nega il diritto di affermare come assolutamente vero ciò che coglie con evidenza, anche se, in questa evidenza, ha coscienza di comprendere in modo eminente il sognatore, il pazzo o la percezione. Una delle due: o colui che vive qualcosa sa in pari tempo che cosa vive, e allora il pazzo, il sognatore o il soggetto della percezione devono essere creduti sulla parola e ci si deve solamente sincerare che il loro linguaggio esprima bene ciò che vivono; oppure colui che vive qualcosa non è giudice di ciò che vive, e allora la prova dell’evidenza può essere una illusione. Per destituire l’esperienza mitica, quella del sogno o quella della percezione di ogni valore positivo, per reintegrare gli spazi allo spazio geometrico, si deve insomma negare che si sogni mai, che si sia mai pazzi o che si percepisca mai sul serio. Finché si ammette il sogno, la follia o la percezione, almeno come assenze della riflessione - e come non farlo, se si vuole garantire un valore alla testimonianza della coscienza, senza la quale nessuna verità è possibile? - non si ha il diritto di livellare tutte le esperienze in un solo mondo, tutte le modalità della esistenza in una sola coscienza. Per farlo, si dovrebbe disporre di una istanza superiore a cui si possa sottomettere la coscienza percettiva e la coscienza fantastica, di un Io che sia più intimo a me stesso di me, che pensi il mio sogno o la mia percezione laddove io mi limito a sognare o a percepire, che possegga la vera sostanza del mio sogno e della mia percezione mentre io ne ho solo l’apparenza. Ma questa distinzione stessa tra l’apparenza e il reale non è fatta né nel mondo del mito, né in quello del malato e del fanciullo. Il mito tiene l’essenza nell’apparenza, il fenomeno mitico non è una rappresentazione, ma una autentica presenza. Il demone della pioggia è presente in ogni goccia che cade dopo lo scongiuro, cosi come l’anima è presente in ogni parte del corpo. Ogni «apparizione» (Erscheinung) è qui un’incarnazione,74 e gli esseri non sono tanto definiti da «proprietà», quanto da caratteri fisionomici. Ecco cosa si vuol dire di valido parlando di un animismo infantile e primitivo: non perché il fanciullo e il primitivo percepiscano degli oggetti che essi cercherebbero di spiegare, come diceva Comte, con intenzioni o coscienze - infatti, la coscienza, come l’oggetto, appartiene al. pensiero tetico -, ma perché le cose sono prese per l’incarnazione di ciò che esprimono, perché il loro significato umano si dissolve in esse e si offre letteralmente come ciò che esse vogliono dire. Un’ombra che passa, il frusciare di un albero hanno un senso; ci sono ovunque degli avvertimenti senza nessuno che avverta.75 Poiché la coscienza mitica non ha ancora la nozione di cosa o quella di una verità oggettiva, come potrebbe fare la critica di ciò che pensa di esperire, dove troverebbe un punto fisso per fermarsi, in quale modo potrebbe cogliere se stessa come pura coscienza e appercepire, al di là dei fantasmi, il mondo vero? Uno schizofrenico sente che una spazzola posta vicino alla finestra gli si avvicina e entra nella sua testa, e tuttavia non cessa mai di sapere che la spazzola è laggiù.76 Se guarda verso la finestra, la vede ancora. La spazzola, in quanto termine identificabile di una percezione espressa, non è nella testa del malato come una massa materiale. Ma


la testa non è per lui quell’oggetto che tutti possono vedere e che egli stesso vede in uno specchio: è quel posto d’ascolto e di vedetta che egli sente in cima al corpo, quel potere di unirsi a tutti gli oggetti attraverso la visione e l’audizione. Parimenti, la spazzola che cade sotto i sensi non è se non un involucro o un fantasma; la vera spazzola, l’essere rigido e pungente che si incarna sotto queste apparenze, è agglomerata allo sguardo, ha abbandonato la finestra e vi ha lasciato solo la sua spoglia inerte. Nessun appello alla percezione esplicita può destare il malato da questo sogno, poiché egli non contesta la percezione esplicita e si limita ad affermare che essa non prova nulla contro ciò che egli esperisce. «Non udite le mie voci?» dice una malata a un medico; e conclude tranquillamente: «Sono quindi sola a udirle.»77 Ciò che garantisce l’uomo sano contro il delirio o l’allucinazione non è la sua critica, ma la struttura del suo spazio: gli oggetti rimangono di fronte a lui, conservano la loro distanza e, come Malebranche diceva a proposito di Adamo, lo toccano solo con rispetto. Sia l’allucinazione che il mito consistono nella contrazione dello spazio vissuto, nel radicamento delle cose nel nostro corpo, nella vertiginosa prossimità dell’oggetto, nella solidarietà dell’uomo e del mondo che è non abolita, ma rimossa dalla percezione quotidiana o dal pensiero oggettivo, e che la coscienza filosofica ritrova. Certamente, se rifletto sulla coscienza delle posizioni e delle direzioni nel mito, nel sogno e nella percezione, se le pongo e le fisso secondo i metodi del pensiero oggettivo, ritrovo in esse le relazioni dello spazio geometrico. Non si deve concluderne che esse vi fossero già, ma viceversa che non è quella l’autentica riflessione. C’è un solo mezzo per sapere che cosa significa lo spazio mitico o schizofrenico: e cioè risvegliare in noi, nella nostra percezione attuale, la relazione fra il soggetto e il suo mondo che l’analisi riflessiva fa scomparire. Prima degli «atti di significazione» (Bedeutungsgebende Akten) del pensiero teorico e tetico, dobbiamo riconoscere le «esperienze espressive» (Ausdruckserlebnisse), prima del senso significato (Zeichen-Sinn), il senso espressivo (Ausdrucks-Sinn), prima della sussunzione del contenuto sotto la forma, la «pregnanza» simbolica78 della forma nel contenuto. Ciò significa forse dar ragione allo psicologismo? Poiché ci sono altrettanti spazi che esperienze spaziali distinte, e poiché non ci arroghiamo il diritto di realizzare in anticipo, nell’esperienza infantile, morbosa o primitiva, la configurazione dell’esperienza adulta, normale e civilizzata, non rinchiudiamo ogni tipo di soggettività e al limite ogni coscienza nella sua vita privata? Al cogito razionalistico, che ritrova in me una coscienza costituente universale, non abbiamo forse sostituito il cogito della psicologia, che rimane nell’incomunicabile esperienza della propria vita? Non definiamo la soggettività mediante la coincidenza di ciascuno con essa? La ricerca dello spazio e, in generale, dell’esperienza allo stato nascente, prima che si siano oggettivati, la decisione di chiedere all’esperienza stessa il suo proprio senso, in breve la fenomenologia, non finisce forse con il negare l’essere e il senso? Sotto il nome di fenomeno non reintroduce forse l’apparenza e l’opinione? Non pone all’origine del sapere esatto una decisione altrettanto poco giustificabile di quella che rinchiude il pazzo nella sua follia, e l’istanza ultima di questa saggezza non è forse di ricondurre all’angoscia della soggettività oziosa e separata? Sono questi gli equivoci che dobbiamo ancora dissipare. Nella loro differenza, la coscienza mitica od onirica, la follia, la percezione non sono chiuse in sé, non sono isolotti di esperienza senza comunicazione e da cui non si potrebbe uscire. Abbiamo rifiutato di riconoscere lo spazio geometrico come immanente allo spazio mitico e, in generale, di subordinare ogni esperienza a una coscienza assoluta di questa esperienza che la situerebbe nell’insieme della verità: infatti, l’unità dell’esperienza così intesa ne rende incomprensibile la varietà. Ma la coscienza mitica sbocca in un orizzonte di oggettivazioni possibili. Il primitivo vive i suoi miti su uno sfondo percettivo articolato abbastanza chiaramente perché siano possibili gli atti della vita quotidiana, la pesca, la caccia, i rapporti con gli uomini civili. Per diffuso che sia, il mito stesso ha un senso


identificabile per il primitivo, poiché forma appunto un mondo, cioè una totalità in cui ogni elemento ha rapporti di senso con gli altri. Certamente, la coscienza mitica non è coscienza di cosa: ciò significa, dal lato soggettivo, che è un flusso, che non si fissa e non conosce se stessa; dal lato oggettivo, che non pone di fronte a sé dei termini definiti da un certo numero di proprietà isolabili e articolate l’una sull’altra. Ma essa non risolve se stessa in ognuna delle sue pulsazioni, altrimenti non sarebbe coscienza di niente. Non prende distanza nei confronti dei suoi noemi, ma se passasse con ciascuno di essi, se non abbozzasse il movimento di oggettivazione, non si cristallizzerebbe in miti. Abbiamo cercato di sottrarre la coscienza mitica alle razionalizzazioni premature che, come in Comte, per esempio, rendono incomprensibile il mito perché vi cercano una spiegazione del mondo e una anticipazione della scienza, mentre esso è una proiezione dell’esistenza e un’espressione della condizione umana. Ma comprendere il mito non è credere al mito, e se tutti i miti sono veri, lo sono in quanto possono essere ricollocati in una fenomenologia dello spirito che indichi la loro funzione nella presa di coscienza e che, in definitiva, fondi il loro senso proprio sul loro senso per il filosofo. Allo stesso modo, è vero che chiedo il racconto del sogno al sognatore che io sono stato questa notte, ma, in ultima analisi, il sognatore stesso non racconta nulla e chi racconta è desto. Senza il risveglio i sogni sarebbero solo modulazioni istantanee e per noi non esisterebbero nemmeno. Nel sogno stesso noi non abbandoniamo il mondo: lo spazio del sogno si separa dallo spazio chiaro, ma ne utilizza tutte le articolazioni, il mondo ci assilla persino nel sonno, è sul mondo che sogniamo. Allo stesso modo la follia gravita attorno al mondo. Per tacere delle fantasticherie morbose o dei deliri che tentano di fabbricarsi un dominio privato con i residui del macrocosmo, gli stati melanconici più avanzati, in cui il malato si installa nella morte e vi colloca per cosi dire la sua dimora, per far ciò utilizzano ancora le strutture dell’essere al mondo e traggono da esso la quantità d’essere necessaria per negarlo. Questo legame tra la soggettività e l’oggettività, che esiste già nella coscienza mitica o infantile e che sussiste sempre nel sonno o nella follia, lo ritroviamo, a maggior ragione, nell’esperienza normale. Io non vivo mai interamente negli spazi antropologici, sono sempre radicato in uno spazio naturale e inumano. Mentre attraverso Place de la Concorde e mi credo preso per intero da Parigi, posso fissare gli occhi su una pietra del muro delle Tuileries: allora la Concorde scompare, e non c’è più che questa pietra senza storia; posso ancora perdere il mio sguardo in questa superficie granosa e giallastra, e la pietra stessa scompare, resta solo un gioco di luce su una materia indefinita. La mia percezione totale non è fatta di queste percezioni analitiche, ma può sempre dissolversi in esse, e il corpo, che attraverso i miei habitus assicura il mio inserimento nel mondo umano, non lo fa appunto se non proiettandomi anzitutto in un mondo naturale che traspare sempre sotto l’altro, come la tela sotta il quadro, e gli dà un aspetto di fragilità. Anche se c’è una percezione di ciò che è desiderato dal desiderio, amato dall’amore, odiato dall’odio, questa percezione si forma sempre attorno a un nucleo sensibile, per esiguo che sia, e trova la sua verifica e la sua pienezza nel sensibile. Abbiamo detto che lo spazio è esistenziale; avremmo potuto dire altrettanto propriamente che l’esistenza è spaziale, e cioè che, per una necessità interna, essa sbocca in un «fuori», a tal punto che si può parlare di uno spazio mentale e di un «mondo dei significati e degli oggetti di pensiero che si costituiscono in essi».79 Gli spazi antropologici si offrono essi stessi come costruiti sullo spazio naturale, gli «atti non oggettivanti», per esprimerci come Husserl, sugli «atti oggettivanti».80 La novità della fenomenologia non consiste nel negare l’unità dell’esperienza, ma nel fondarla diversamente dal razionalismo classico. Infatti, gli atti oggettivanti non sono rappresentazioni. Lo spazio naturale e primordiale non è lo spazio geometrico, e correlativamente l’unità dell’esperienza non è garantita da un pensatore universale che ne dispiegherebbe di fronte a me i contenuti e mi assicurerebbe, nei suoi confronti, ogni scienza e ogni potere. Essa è solo indicata dagli orizzonti di


oggettivazione possibile, non mi libera da ogni ambiente particolare se non perché mi lega al mondo della natura o dell’ in sé che li include tutti. Si dovrà comprendere in che modo l’esistenza possa proiettare attorno a sé dei mondi che mi mascherano l’oggettività e in pari tempo assegnare questa oggettività come fine alla teleologia della coscienza, staccando tali «mondi» sullo sfondo di un unico mondo naturale. Perché il mito, il sogno, l’illusione, siano possibili, l’apparente e il reale devono rimanere ambigui nel soggetto come nell’oggetto. Si è detto spesso che, per definizione, la coscienza non ammette la separazione fra l’apparenza e la realtà, e con ciò si intendeva dire che, nella conoscenza di noi stessi, l’apparenza sarebbe realtà: se penso di vedere o di sentire, io vedo o sento in modo tale da non dubitarne, a prescindere dall’oggetto esterno. Qui la realtà appare per intero, essere reale e apparire fanno tutt’uno, non c’è altra realtà che l’apparizione. Se ciò è vero, si deve escludere che l’illusione e la percezione abbiano una medesima apparenza, che le mie illusioni siano percezioni senza oggetto o le mie percezioni allucinazioni vere. La verità della percezione e la falsità dell’illusione devono essere denotate in esse da qualche carattere intrinseco: che altrimenti, divenendo a sua volta incerta la testimonianza degli altri sensi, dell’esperienza successiva o dell’altro - testimonianza che rimarrebbe l’unico criterio possibile -, non avremmo mai coscienza di una percezione o di una illusione come tali. Se tutto l’essere della mia percezione e tutto l’essere della mia illusione è nel loro modo di apparire, è necessario che mi appaiano anche la verità che definisce l’una e la falsità che definisce l’altra. Tra di esse ci sarà quindi una differenza di struttura. La percezione vera sarà, del tutto semplicemente, una vera percezione. L’illusione non sarà tale, la certezza dovrà estendersi dalla visione o dalla sensazione in quanto pensate alla percezione come costitutiva di un oggetto. La trasparenza della coscienza comporta l’immanenza e l’assoluta certezza dell’oggetto. Tuttavia, la peculiarità dell’illusione consiste proprio nel non darsi come illusione, ed è qui necessario che io possa, se non percepire un oggetto irreale, per lo meno perdere di vista la sua irrealtà; è necessario che ci sia almeno incoscienza dell’impercezione, che l’illusione non sia ciò che sembra essere e che, per una volta, la realtà di un atto di coscienza sia al di là della sua apparenza. Separeremo dunque, nel soggetto, l’apparenza dalla realtà? Ma, una volta fatta, la rottura è irreparabile: anche l’apparenza più chiara può ormai essere illusoria, e ora è il fenomeno della verità a divenire impossibile. - Non dobbiamo scegliere tra una filosofia della immanenza o un razionalismo che rende conto solo della percezione della verità, e una filosofia della trascendenza o dell’assurdo che rende conto solo dell’illusione o dell’errore. Sappiamo che ci sono degli errori solo perché abbiamo delle verità, in nome delle quali correggiamo gli errori e li conosciamo come errori. Reciprocamente, il riconoscimento espresso di una verità è molto di più che la semplice esistenza in noi di una idea incontestata, la fede immediata in ciò che si presenta: esso presuppone interrogazione, dubbio, rottura con l’immediato, è la correzione di un errore possibile. Ogni razionalismo ammette almeno una assurdità, e cioè che esso debba formularsi in tesi. Ogni filosofia dell’assurdo riconosce un senso per lo meno all’affermazione dell’assurdo. Posso restare nell’assurdo solo se sospendo ogni affermazione, se, come Montaigne o come lo schizofrenico, mi confino in una interrogazione che non si dovrà nemmeno formulare: formulandola ne farei una domanda che, come ogni domanda determinata, implicherebbe una risposta, - se, infine, oppongo alla verità non la negazione della verità, ma un semplice stato di non verità o di equivoco, l’opacità effettiva della mia esistenza. Parimenti, posso rimanere nell’evidenza assoluta solo se mi astengo da ogni affermazione, se per me nulla è più ovvio, se, come vuole Husserl, mi stupisco di fronte al mondo81 e cesso di essere in complicità con esso per far apparire il flusso delle motivazioni che mi spingono in esso, per risvegliare ed esplicitare interamente la mia vita. Quando voglio passare da


questa interrogazione a una affermazione e, a fortiori, quando voglio esprimermi, faccio cristallizzare in un atto di coscienza un insieme indefinito di motivi, rientro nell’implicito, cioè nell’equivoco e nel gioco del mondo.82 Il contatto assoluto di me con me, l’identità dell’essere e dell’apparire non possono essere posti, ma soltanto vissuti al di qua di ogni affermazione. È dunque, da ambo le parti, il medesimo silenzio e il medesimo vuoto. L’esperienza dell’assurdo e quella dell’evidenza assoluta si implicano vicendevolmente e sono anzi indiscernibili. Il mondo appare assurdo solo se un’esigenza di coscienza dissocia in ogni momento i significati di cui esso brulica, e reciprocamente tale esigenza è motivata dal conflitto di questi significati. L’evidenza assoluta e l’assurdo sono equivalenti, non solo come affermazioni filosofiche, ma anche come esperienze. Il razionalismo e lo scetticismo si nutrono di una vita effettiva della coscienza che entrambi sottintendono ipocritamente, senza la quale essi non possono essere né pensati, né vissuti, e nella quale non si può dire che lutto abbia un senso o che tutto sia non senso, ma solamente che c’è del senso. Come dice Pascal, le dottrine, per poco che le svisceriamo, brulicano di contraddizioni: eppure avevano un’aria di chiarezza, hanno un senso a prima vista. Una verità su sfondo d’assurdità, una assurdità che la teleologia della coscienza presume di poter convertire in verità, questo è il fenomeno originario. Dire che, nella coscienza, apparenza e realtà fanno tutt’uno o dire che sono separate, significa rendere impossibile la coscienza di qualsiasi cosa, anche a titolo di apparenza. Orbene - ed ecco il vero cogito - c’è coscienza di qualcosa, qualcosa si mostra, c’è fenomeno. La coscienza non è né autoposizione, né ignoranza di sé, ma è non dissimulata a se stessa, vale a dire che in essa non c’è nulla che in un certo qual modo non le si annunci, quantunque essa non abbia bisogno di conoscerlo espressamente. Nella coscienza l’apparire non è essere, ma fenomeno. Poiché è al di qua della verità e dell’errore svelati, questo nuovo cogito li rende possibili entrambi. Il vissuto è si vissuto da me, io non ignoro i sentimenti che rimuovo, e in questo senso non c’è inconscio. Ma posso vivere più cose di quante me ne rappresento, il mio essere non si riduce alla parte di me stesso che mi appare espressamente. Ciò che è solo vissuto è ambivalente; vi sono in me sentimenti ai quali non dò nome e anche false felicità in cui non sono immerso per intero. La differenza fra l’illusione e la percezione è intrinseca, e la verità della percezione può essere letta solo nella percezione stessa. Se in una strada incassata credo di vedere per terra, in lontananza, un sasso largo e piatto, che in realtà è una macchia di sole, non posso dire di vedere il sasso piatto nel senso in cui vedrò la macchia di sole avvicinandomi. Come tutte le cose lontane, il sasso piatto appare solo in un campo dalla struttura confusa, nel quale le connessioni non sono ancora nettamente articolate. In questo senso, l’illusione, come l’immagine, non è osservabile, vale a dire che il mio corpo non è in presa su di essa e che non posso dispiegarla di fronte a me con movimenti d’esplorazione. Eppure, io sono capace di omettere questa distinzione, sono capace di illusione. Non è vero che, se mi attengo a ciò che vedo veramente, io non mi inganno mai e che almeno la sensazione è indubitabile. Ogni sensazione è già impregnata di un senso, inserita in una configurazione confusa o chiara, e non c’è nessun dato sensibile che rimanga immutato quando io passo dal sasso illusorio alla macchia di sole vera. L’evidenza della sensazione comporterebbe quella della percezione e renderebbe impossibile l’illusione. Io vedo il sasso illusorio nel senso che tutto il mio campo percettivo e motorio dà alla macchia chiara il significato di «sasso sulla strada». E mi appresto già a sentire sotto al mio piede questa superficie liscia e solida. Infatti, la visione corretta e la visione illusoria non si distinguono come il pensiero adeguato e il pensiero inadeguato; cioè come un pensiero assolutamente pieno e un pensiero lacunoso. Dico che percepisco correttamente quando il mio corpo ha una presa netta sullo spettacolo, ma ciò non significa che la mia presa sia mai totale; lo sarebbe solo se avessi potuto ridurre allo stato di percezione articolata tutti gli orizzonti interni ed


esterni dell’oggetto, ciò che per principio è impossibile. Nell’esperienza di una verità percettiva, presumo che la concordanza sinora esperita resisterebbe a una osservazione più dettagliata; ho fiducia nel mondo. Percepire significa impegnare d’un sol tratto un avvenire di esperienze in un presente che a rigore non lo garantisce mai, significa credere a un mondo. Questa apertura a un mondo rende possibile la verità percettiva, la realizzazione effettiva di una WahrNehmung, e ci permette di «cancellare» l’illusione precedente, di considerarla nulla e non avvenuta. In margine al mio campo visivo e a una certa distanza vedevo una grande ombra in movimento, volgo lo sguardo da questa parte, il fantasma rimpicciolisce e si localizza: si trattava solo di una mosca vicina all’occhio. Avevo coscienza di vedere un’ombra e ora ho coscienza di aver visto soltanto una mosca. La mia adesione al mondo mi permette di compensare le oscillazioni del cogito, di rimuovere un cogito a beneficio di un altro e di raggiungere la verità del mio pensiero al di là della sua apparenza. Tale correzione mi era data come possibile nel momento stesso dell’illusione perché anche l’illusione utilizza la medesima credenza nel mondo, si contrae in apparenza solida solo grazie a questo complemento, e perché cosi, sboccando sempre in un orizzonte di verificazioni presuntive, essa non mi separa dalla verità. Ma, per lo stesso motivo, io non sono garantito contro l’errore, giacché il mondo che ho di mira attraverso ogni apparenza e che le dà, a torto o a ragione, il peso della verità, non esige mai necessariamente questa apparenza. V’è certezza assoluta del mondo in generale, ma non di qualcosa in particolare. La coscienza è lontana dall’essere e dal suo essere proprio, e in pari tempo unita a essi dallo spessore del mondo. L’autentico cogito non è il colloquio intimo del pensiero con il pensiero di questo pensiero: essi si ricongiungono solo attraverso il mondo. La coscienza del mondo non è fondata sull’autocoscienza, ma esse sono rigorosamente contemporanee: per me c’è un mondo perché non mi ignoro; io sono non dissimulato a me stesso perché ho un mondo. Resterà da analizzare questo possesso precosciente del mondo nel cogito preriflessivo.


Note

1

Intendiamo qui sia quella di un kantiano come P. Lachièze-Rey (L’idéalisme kantien), sia quella di Husserl nel secondo periodo della sua filosofia (periodo delle Ideen).

2 Stratton,

Some preliminary experiments on vision without inverno» of the retine, image.

3 Ibidem. 4 È,

almeno implicitamente, l’interpretazione di Stratton.

5 Stratton,

op. cit., p. 350.

6 Stratton,

ibidem, p. 617.

7 Stratton,

ibidem, p. 346.

8 Stratton,

The spatial harmony of touch and sight, pp. 492-505.

9 Ibidem. 10 Stratton,

Some preliminary experiments..., p. 614.

11 Stratton,

ibidem, p. 350.

12 Wertheimer, 13 Ibidem, 14 Nagel, 15 La

Experimentelle Studien über das Sehen von Bewegung, p. 258.

p. 253.

citato da Wertheimer, ibidem, p. 257.

structure du comportement, p. 199.

16

Nei fenomeni sonori è molto difficile ottenere il mutamento di livello. Se, per mezzo di uno pseudofono, si fa in modo che i suoni provenienti da sinistra giungano all’orecchio destro prima che al sinistro, si ottiene un rovesciamento del campo uditivo paragonabile a quello del campo visivo nell’esperienza di Stratton. Orbene, nonostante una lunga assuefazione, non si riesce a «raddrizzare» il campo uditivo. La localizzazione dei suoni per mezzo del solo udito rimane scorretta sino alla fine dell’esperienza. Essa è corretta, e il suono sembra giungere dall’oggetto situato a sinistra, solo se l’oggetto è visto oltreché udito. P. T. Young, Auditor) localization with acoustical transposition of the ears.

17

Nelle esperienze sull’inversione uditiva il soggetto può dare l’illusione di una localizzazione


corretta quando vede l’oggetto sonoro, giacché inibisce i suoi fenomeni acustici e «vive» nel visiva P. T. Young, ibidem. 18

Stratton, Vision..., primo giorno dell’esperienza. Wertheimer parla di una «vertigine visiva» (op. cit., pp. 257-259). Noi stiamo eretti non per la meccanica dello scheletro, né per la regolazione nervosa del tono, ma perché siamo impegnati in un mondo. Se questo impegno vien meno, il corpo si disgrega e ridiviene oggetto.

19

La distinzione fra la profondità delle cose in rapporto a me e la distanza fra due oggetti è fatta da Paliard, L’illusion de Sinnsteden et le problème de l’implication perceptive, p. 400, e da E. Straus, Vom Sinn der Sinne, pp. 267-269.

20 Malebranche,

Recherche de la vérité, Libro I, cap. ix.

21 Ibidem. 22 Paliard,

op. cit., p. 383.

23 Koffka,

Some problemi of space percepiton. Guillaume, Traité de Psychologie, cap. ix.

24

In altri termini: un atto di coscienza non può avere nessuna causa. Ma noi preferiamo non introdurre il concetto di coscienza - che la psicologia della forma potrebbe contestare e che, per quanto ci riguarda, noi non accettiamo senza riserve -, e ci atteniamo alla nozione incontestabile di esperienza.

25 Quercy, 26 J.

Études sur l’hallucination, II, La clinique, pp. 154 sgg.

Gasquet, Cézanne, p. 81.

27 Koffka,

op. cit., pp. 164 sgg.

28 Koffka,

ibidem.

29 L’idea

di profondità come dimensione spazio-temporale è indicata da Straus: Vom Sititi der Sinne, pp. 302 e 306.

30 Husserl,

Präsenzfeld. Esso è definito in Zeitbewusstsein, pp. 32-35.

31 Ibidem. 32 Gelb

e Goldstein, Über den Wegfall der Wahrnehmung von Oberflächenfarben.

33 Wertheimer, 34 Ibidem,

op. cit., in appendice, pp. 259-261.

pp. 212-214.


35 Ibidem,

pp. 221-233.

36 Ibidem,

pp. 254-255.

37 Ibidem,

p. 245.

38 Linke,

Phänomenologie und Experiment in der Frage der Bewegungsauffassung, p. 653.

39 Ibidem,

pp. 656-57.

40 Ibidem. 41 Ibidem,

p. 660

42 Ibidem,

p. 661.

43 Wertheimer,

op. cit., p. 227.

44

L’identità del mobile non è, dice Wertheimer, ottenuta in virtù di una congettura: «Qui, là deve essere Io stesso oggetto.» Ibidem, p. 87.

45

A dire il vero, Wertheimer non dice positivamente che la percezione del movimento racchiude questa identità immediata. Egli lo dice solo implicitamente, quando rimprovera a una concezione intellettualistica, che riferisce il movimento a un giudizio, di darci una identità che «fliesst nicht direkt aus dem Erlebnis». Ibidem, p. 187.

46

Linke finisce per riconoscere (op. cit., pp. 664-665) che il soggetto del movimento può essere indeterminato (per esempio, quando, allo stroboscopio, si vede un triangolo muoversi verso un cerchio e trasformarsi in esso), che il mobile non ha bisogno di essere posto da un atto di percezione esplicita, che esso è solo «cointenzionato» o «co-afferrato» nella percezione del movimento, che è visto come il retro degli oggetti o come lo spazio dietro di me, e che infine tanto l’identità del mobile quanto l’unità della cosa percepita è colta da una percezione categoriale (Husserl) in cui la categoria è operante senza essere pensata per se stessa. Ma il concetto di percezione categoriale rimette in questione tutta l’analisi precedente. Infatti, essa porta a introdurre nella percezione del movimento la coscienza non tetica, ossia a respingere non soltanto l’a priori come necessità, ma anche il concetto kantiano di sintesi. L’opera di Linke appartiene tipicamente al secondo periodo della fenomenologia husserliana, transizione fra il metodo eidetico o il logicismo iniziali e l’esistenzialismo dell’ultimo periodo.

47

Non si può porre questo problema senza superare già il realismo e, per esempio, le celebri descrizioni di Bergson. Questi oppone alla molteplicità di giustapposizione delle cose esterne la «molteplicità di fusione e di interpenetrazione» della coscienza. Egli procede per diluizione. Parla della coscienza come di un liquido in cui si fondono gli istanti e le posizioni. Cerca in essa un elemento in cui la loro dispersione sia realmente abolita. Il gesto indiviso del mio braccio che si sposta mi dà il movimento che non trovo nello spazio esterno, poiché, ricollocato nella mia vita


interiore, il movimento vi ritrova l’unità dell’inesteso. Il vissuto che Bergson contrappone al pensato e per lui constatato, è un «dato» immediato. - Ciò equivale a cercare una soluzione nell’equivoco. Non si fa comprendere il movimento, Io spazio e il tempo scoprendo uno strato «interiore» dell’esperienza in cui la loro molteplicità si cancelli e sì abolisca realmente. Infatti, se cosi fosse, non rimarrebbe più né spazio, né tempo, né movimento. Se è veramente uno stato di coscienza indiviso, la coscienza del mio gesto non è più in nessun modo coscienza di un movimento, ma una qualità ineffabile che non può ragguagliarci sul movimento. Come diceva Kant, l’esperienza esterna è necessaria a quella interna, che è si ineffabile, ma in quanto non vuol dir nulla. Se, in virtù del principio di continuità, il passato è ancora un che di presente e il presente è già un che di passato, non c’è più né passato né presente; se la coscienza si avvolge su se stessa «come una palla di neve», come la palla di neve e come ogni altra cosa essa è per intero nel presente. Se le fasi del movimento vengono via via identificandosi, in nessun luogo c’è movimento. L’unità del tempo, dello spazio e del movimento non può essere ottenuta per commistione e non sarà compresa in virtù di nessuna operazione reale. Se la coscienza è molteplicità, chi raccoglierà questa molteplicità per viverla appunto come molteplicità? Se la coscienza è fusione, come potrà conoscere la molteplicità dei momenti che essa fonde? Contro il realismo di Bergson è valida l’idea kantiana di sintesi e, come agente di questa sintesi, la coscienza non può essere confusa con nessuna cosa, anche fluente. Primo e immediato è per noi un flusso che non si sparge come un liquido, che, nel senso attivo, si sussegue e che quindi non può far ciò senza sapere di farlo e senza raccogliersi nel medesimo atto in virtù del quale si sussegue, - è il «tempo che non passa», di cui parla Kant. Per noi l’unità del movimento non è dunque una unità reale. Ma non lo è nemmeno la molteplicità, e all’idea di sintesi, cosi come viene elaborata in Kant o in taluni testi kantiani di Husserl, rimproveriamo appunto di presupporre, almeno idealmente, una molteplicità reale che essa ha da superare. Coscienza originaria non è per noi un Io trascendentale che pone liberamente di fronte a se stesso una molteplicità in sé e che la costituisce da capo a fondo, ma un Io che domina il diverso solo grazie al tempo e per il quale la libertà stessa è un destino, cosicché io non ho mai coscienza di essere l’autore assoluto del tempo, di comporre il movimento che vivo, mentre mi sembra che è il movente stesso a spostarsi e a effettuare il passaggio da una posizione o da un istante all’altro. Questo Io relativo e prepersonale che fonda il fenomeno del movimento, e in generale il fenomeno del reale, esige evidentemente delle delucidazioni. Per il momento limitiamoci a dire che alla nozione di sintesi noi preferiamo quella di sinossi, la quale non indica ancora una posizione esplicita del diverso. 48 Wertheimer, 49

op. cit., pp. 255-256.

Le leggi del fenomeno andrebbero quindi precisate: è comunque certo che vi sono delle leggi e che, anche quando è ambigua, la percezione del movimento non è facoltativa e dipende dal punto di fissazione. Cfr. Duncker, Über induzierte Bewegung.

50 Koffka,

op. cit., p. 578.

51 Mayer-Gross 52 Ibidem,

e Stein, Über einige Abänderungen der Sinnestätigkeit im Meskalinrausch, p. 375.

p. 377.


53 Ibidem,

p. 381.

54 Fischer,

Zeitstruktur und Schizofrenie, p. 572.

55 Mayer-Gross

e Stein, op. cit., p. 380.

56 Fischer,

op. cit., pp. 558-559.

57 Fischer,

Raum-Zeitstruktur und Denkstörung in der Schizofrenie, pp. 247 sgg.

58 Fischer,

Zeitstruktur und Schizofrenie, p. 560.

59

«Il sintomo dello schizofrenico non è mai altro che una strada verso la persona dello schizofrenico.» Kronfeld, citato da Fischer, Zur Klinik und Psychologie des Raumerlebens, p. 61.

60 Minkowski,

Le temps vécu, p. 394.

61 Binswanger,

Traum und Existenz, p. 674.

62 Binswanger,

Über Ideenflucht, pp. 78 sgg.

63

Minkowski, Les notions de distance vécue et d’ampleur de la vie et leur application en psychopathologie. Cfr. Minkowski, op. cit., cap. vii.

64

«...per strada c’è come un mormorio che l’avvolge per intero; parimenti, egli si sente privo di libertà, come se attorno a lui fosse sempre presente qualcuno; al caffè c’è come qualcosa di nebuloso attorno a lui ed egli sente un tremito; e quando le voci sono particolarmente frequenti e numerose, l’atmosfera attorno a lui è come satura di fuoco, e ciò determina una specie di oppressione all’interno del cuore e dei polmoni, una specie di nebbia attorno alla testa.» Minkowski, Le probleme des ballucinations et le probleme de l’espace, p. 69.

65 Ibidem. 66 Minkowski,

Le temps vécu, p. 376.

67 Ibidem,

p. 379.

68 Ibidem,

p. 381.

69

Ecco perché si può dire con Scheler (Idealismus-Recdismus, p. 298) che lo spazio di Newton traduce il «vuoto del cuore»

70 Fischer,

Zur Klinik und Psychologie des Raumerlebens, p. 70.

71 Fischer,

Raum-Zeitstruktur und Denkstörung in der Schizofrenie, p. 253.


72 E. 73

Straus, Vom Sinn der Sinne, p. 290.

Si potrebbe dimostrare, per esempio, che a sua volta la percezione estetica apre una nuova spazialità, che, come opera d’arte, il quadro non è nello spazio in cui abita come cosa fisica e come tela colorata, - che la danza si svolge in uno spazio senza mete e senza direzioni, che è una sospensione della nostra storia, che, in essa, il soggetto e il suo mondo non si oppongono più, non si staccano più l’uno sull’altro, che perciò le parti del corpo non sono piò messe in evidenza, come nell’esperienza naturale; il tronco non è pili il fondo da cui si innalzano i movimenti e in cui essi si immergono una volta compiuti; è il tronco a dirigere la danza e i movimenti della membra sono al suo servizio.

74 Cassirer, 75 Ibidem,

Philosophie der symbolischen Formen, t. III, p. 80.

p. 82.

76 Binswanger, 77 Minkowski, 78 Cassirer,

Le problème des hallucinations et le problème de l’espace, p. 64.

op. cit., p. 80.

79 Binswanger, 80 Logische 81 Fink, 82 Il

Dos Raumproblem in der Psychopathologie, p. 630.

op. cit., p. 617.

Untersuchungen, t. II, V Unters., pp. 387 sgg.

Die phänomenologische Philosophie Husserls in der gegenwärtigen Kritik, p. 350.

problema dell’espressione è indicato da Fink, ibidem, p. 382.


III. La cosa e il mondo naturale

Anche se non può essere definita cosi, una cosa ha «caratteri» o «proprietà» stabili, e ci accosteremo al fenomeno di realtà studiando le costanti percettive. Prima di tutto una cosa ha la sua grandezza e la sua forma proprie, sotto le variazioni prospettiche che sono solo apparenti. Noi non ascriviamo queste apparenze all’oggetto: sono un prodotto accidentale delle nostre relazioni con esso, non concernono l’oggetto stesso. Che cosa vogliamo dire con ciò? In base a che cosa giudichiamo dunque che una forma o una grandezza sono la forma e la grandezza dell’oggetto? Per ogni oggetto, dirà lo psicologo, ci sono date delle grandezze e delle forme sempre variabili a seconda della prospettiva, e noi conveniamo di considerare come vere la grandezza che otteniamo a distanza di tatto o la forma che l’oggetto assume quando è in un piano parallelo al piano frontale. Esse non sono più vere di altre, ma poiché questa distanza e questo orientamento tipico sono definiti per mezzo del nostro corpo, punto di riferimento sempre dato, abbiamo sempre modo di riconoscerle, ed esse stesse ci forniscono un punto di riferimento in rapporto al quale possiamo infine fissare le apparenze sfuggenti, distinguerle l’una dall’altra e in una parola costruire una oggettività: il quadrato visto obliquamente, che press’a poco è un rombo, si distingue dal rombo vero e proprio solo se si tiene conto dell’orientamento, se, per esempio, si sceglie l’apparenza in presentazione frontale come unica apparenza decisiva e si riferisce ogni apparenza data a ciò che essa diverrebbe in queste condizioni. Ma tale ricostituzione psicologica della grandezza o della forma dà per acquisito ciò che si dovrebbe spiegare: e cioè una gamma di grandezze e di forme determinate fra le quali sarebbe sufficiente sceglierne una, che diventerebbe la grandezza o la forma reale. Come abbiamo già detto, per un medesimo oggetto che si allontana o che gira su se stesso, io non ho una serie di «immagini psichiche» sempre più piccole, sempre più deformate, tra le quali possa fare una scelta convenzionale. Se rendo conto della percezione in questi termini, è perché vi introduco già il mondo con le sue grandezze e le sue forme oggettive. Non si tratta solamente di sapere come, fra tutte le grandezze o forme apparenti, una grandezza o una forma è ritenuta costante, ma il problema è molto più radicale: si deve comprendere come una determinata forma o grandezza - vera o anche apparente - possa mostrarsi di fronte a me, cristallizzarsi nel flusso delle mie esperienze e infine essermi data: in breve, come ci sia un oggettivo. Almeno a prima vista esisterebbe un modo di eludere il problema: ammettere cioè che, in definitiva, la grandezza e la forma non sono mai percepite come gli attributi di un oggetto individuale, che sono solo nomi per designare le relazioni tra le parti del campo fenomenico. La costanza della grandezza o della forma reale attraverso le variazioni prospettiche non sarebbe altro che la costanza delle relazioni fra il fenomeno e le condizioni della sua presentazione. Per esempio, la grandezza vera del mio calamaio non è come una qualità inerente a una certa mia percezione del calamaio, essa non è data o constatata in una percezione, come il rosso, il caldo o il dolce; se rimane costante, non è perché io conservi il ricordo di una esperienza anteriore in cui l’avrei constatata. Essa è l’invariante o la legge delle variazioni correlative dell’apparenza visiva e della sua distanza apparente. La realtà non è un’apparenza privilegiata che rimarrebbe sotto le altre, è l’ossatura di relazioni alle quali soddisfano tutte le apparenze. Se tengo il calamaio vicino agli occhi e se esso mi nasconde quasi tutto il paesaggio, la sua grandezza reale resta mediocre, poiché questo calamaio che nasconde tutto è anche un calamaio visto da vicino, e poiché questa condizione, sempre menzionata nella mia percezione, riconduce l’apparenza a proporzioni mediocri. Il quadrato che mi viene presentato


obliquamente rimane un quadrato non perché, a proposito di questo rombo apparente, io evochi la forma ben nota del quadrato visto frontalmente, ma perché l’apparenza rombo con presentazione obliqua è immediatamente identica all’apparenza quadrato in presentazione frontale, perché, con ognuna di queste configurazioni, mi è dato l’orientamento dell’oggetto che la rende possibile e perché esse si offrono in un contesto di relazioni che rendono equivalenti a priori le diverse presentazioni prospettiche. Il cubo che ha i lati deformati dalla prospettiva rimane egualmente un cubo non perché io immagini l’aspetto che, una dopo l’altra, le sei facce assumerebbero se lo facessi girare nella mia mano, ma perché le deformazioni prospettiche non sono dati bruti, cosi come non lo è la forma perfetta del lato che mi sta di fronte. Ogni elemento del cubo - a condizione che se ne sviluppi tutto il senso percepito - menziona il punto di vista attuale che l’osservatore ha su di esso. Una forma o una grandezza soltanto apparente è quella non ancora situata nel sistema rigoroso che i fenomeni e il mio corpo formano insieme. Non appena vi prende posto, essa ritrova la propria verità, la deformazione prospettica non è più subita, ma compresa. L’apparenza è ingannevole ed è apparenza in senso proprio solo quando è indeterminata. Se vogliamo sapere come per noi ci siano delle forme o delle grandezze vere, oggettive o reali, dobbiamo chiederci come per noi ci siano forme determinate. Si risponderà che ci sono forme determinate - qualcosa come «un quadrato», «un rombo», una configurazione spaziale effettiva - perché il nostro corpo, come punto di vista sulle cose, e le cose, come elementi astratti di un unico mondo, formano un sistema in cui ogni momento è immediatamente significativo di tutti gli altri. Un certo orientamento del mio sguardo in rapporto all’oggetto significa una certa apparenza dell’oggetto e una certa apparenza degli oggetti vicini. In tutte le sue apparizioni l’oggetto conserva caratteri invariabili, rimane esso stesso invariabile ed è oggetto, perché tutti i valori possibili che esso può assumere in grandezza e in forma sono racchiusi anticipatamente nella formula dei suoi rapporti con il contesto. Ciò che affermiamo con l’oggetto come essere definito è in realtà una facies totius universi che non muta, e in essa si fonda l’equivalenza di tutte le sue apparizioni e l’identità del suo essere. Seguendo la logica della grandezza e della forma oggettiva, vedremo con Kant che essa rinvia alla posizione di un mondo come sistema rigorosamente collegato, che noi non siamo mai chiusi nell’apparenza e che infine solo l’oggetto può apparire pienamente. Cosi, ci collochiamo immediatamente nell’oggetto, ignoriamo i problemi dello psicologo: ma li abbiamo veramente superati? Quando si dice che la grandezza o la forma vera non sono altro che la legge costante secondo la quale variano l’apparenza, la distanza e l’orientamento, si sottintende che esse possono venire trattate come delle variabili o delle grandezze misurabili, e quindi che sono già determinate, mentre il problema consiste appunto nel sapere come esse lo divengano. Kant ha ragione nel dire che la percezione è di per sé polarizzata verso l’oggetto. Ma nella sua filosofia è l’apparenza come apparenza che diviene incomprensibile. Poiché le vedute prospettiche dell’oggetto sono immediatamente ricollocate nel sistema oggettivo del mondo, più che percepire il soggetto pensa la sua percezione e la verità della sua percezione. La coscienza percettiva non ci dà la percezione come una scienza, la grandezza e la forma dell’oggetto come leggi, e le determinazioni numeriche della scienza seguono la trama di una costituzione del mondo già realizzata prima di esse. Al pari dello scienziato, Kant assume come acquisiti i risultati di questa esperienza prescientifica e può passarla sotto silenzio solo in quanto utilizza questi risultati. Quando guardo di fronte a me i mobili della mia camera, il tavolo con la sua forma e la sua grandezza non è per me una legge o una regola dello svolgimento dei fenomeni, una relazione invariabile: se per ogni mutamento della distanza o dell’orientamento, io presumo un mutamento correlativo della grandezza e della forma, è perché percepisco il tavolo con la sua grandezza e la sua forma definita - e non l’inverso. La cosa non si riduce certo a delle relazioni costanti, ma viceversa la costanza delle relazioni è fondata


nell’evidenza della cosa. Per la scienza e per il pensiero oggettivo, un oggetto visto a cento passi sotto una debole grandezza apparente è indiscernibile dal medesimo oggetto visto a dieci passi sotto un angolo maggiore e, per l’appunto, l’oggetto non è altro che questo prodotto costante della distanza per la grandezza apparente. Ma per me che percepisco, l’oggetto a cento passi non è presente e reale nel senso in cui lo è a dieci passi, e io identifico l’oggetto in tutte le sue posizioni, a tutte le distanze, sotto tutte le apparenze, in quanto tutte le prospettive convergono verso la percezione che ottengo a una certa distanza e un certo orientamento tipico. Questa percezione privilegiata assicura l’unità del processo percettivo e raccoglie in sé tutte le altre apparenze. Come per ogni quadro in una galleria di pittura, cosi per ogni oggetto c’è una distanza ottimale dalla quale esso chiede di essere visto, un orientamento sotto il quale si offre in maggior misura: al di qua e al di là abbiamo solo una percezione confusa per eccesso o per difetto, tendiamo allora verso il massimo di visibilità, cerchiamo, come al microscopio, una messa a fuoco migliore,1 ed essa è ottenuta in virtù di un certo equilibrio dell’orizzonte interno e dell’orizzonte esterno: visto troppo dappresso e senza nessuno sfondo sul quale si stacchi, un corpo vivente non è più un corpo vivente, ma una massa materiale altrettanto strana che i paesaggi lunari, come si può notare guardando un segmento di epidermide con una lente di ingrandimento; - visto da troppo lontano perde ancora il valore di vivente, non è più che una bambola o un automa. Il corpo vivente stesso appare quando la sua microstruttura non è né troppo, né troppo poco visibile, e questo momento determina anche la sua forma e la sua grandezza reali. La mia distanza dall’oggetto non è una grandezza che aumenta o decresce, ma una tensione che oscilla attorno a una norma; l’orientamento obliquo dell’oggetto in rapporto a me non è misurato dall’angolo che esso forma con il piano del mio volto, ma esperito come uno squilibrio, come una distribuzione non uniforme delle sue influenze su di me; le variazioni dell’apparenza non sono mutamenti di grandezza in più o in meno, distorsioni reali: semplicemente, ora le parti si mescolano e si confondono, ora si articolano nettamente una sull’altra e svelano le loro ricchezze. C’è un punto di maturazione della mia percezione che soddisfa contemporaneamente a queste tre norme e verso il quale tende tutto il processo percettivo. Se avvicino a me l’oggetto o se lo rigiro fra le dita per «vederlo meglio», lo faccio perché per me ogni atteggiamento del mio corpo è immediatamente potenzialità di un certo spettacolo, perché ogni spettacolo è per me ciò che esso è in una certa situazione cinestesica, perché, in altri termini, il mio corpo è permanentemente posto in stazione di fronte alle cose per percepirle, mentre per me le apparenze sono sempre avvolte in un certo atteggiamento corporeo. Se conosco la relazione delle apparenze alla situazione cinestesica, non la conosco quindi in virtù di una legge e di una formula, ma in quanto ho un corpo e sono, attraverso questo corpo, in presa su un mondo. Se gli atteggiamenti percettivi non sono conosciuti da me a uno a uno, ma implicitamente dati come tappe nel gesto che conduce all’atteggiamento ottimale, correlativamente le prospettive a essi corrispondenti non sono poste di fronte a me una dopo l’altra, e si offrono unicamente come punti di passaggio verso la cosa stessa con la sua grandezza e la sua forma. Come Kant ha ben visto, non è un problema sapere in che modo, nella mia esperienza, appaiano forme e grandezze determinate, poiché altrimenti essa non sarebbe esperienza di nulla e poiché ogni esperienza interna non è possibile se non sullo sfondo dell’esperienza esterna. Ma Kant ne concludeva che io sono una coscienza la quale investe e costituisce il mondo e, in questo movimento riflessivo, passava oltre il fenomeno del corpo e quello della cosa. Se viceversa vogliamo descriverli, dobbiamo dire che la mia esperienza sbocca nelle cose e si trascende in esse: infatti, si effettua sempre nel quadro di un certo montaggio rispetto al mondo che è la definizione del mio corpo. Le grandezze e le forme non fanno altro che modalizzare questa presa globale sul mondo. La cosa è grande se il mio sguardo non può abbracciarla, piccola se invece l’abbraccia largamente, e


le grandezze medie si distinguono l’una dall’altra a seconda che, a distanza eguale, dilatino più o meno il mio sguardo o lo dilatino egualmente a distanze diverse. L’oggetto è circolare se, equidistante da me in tutte le sue parti, non impone al movimento del mio sguardo nessun mutamento di curvatura, o se quelli che gli impone sono imputabili alla presentazione obliqua, a seconda della scienza del mondo che mi è data con il mio corpo.2 È quindi ben vero che ogni percezione di una cosa, di una forma o di una grandezza come reale, ogni costanza percettiva rinvia alla posizione di un mondo e di un sistema dell’esperienza in cui il mio corpo e i fenomeni siano rigorosamente collegati. Tuttavia, il sistema dell’esperienza non è dispiegato di fronte a me come se io fossi Dio, ma vissuto da me da un certo punto di vista, io non ne sono lo spettatore, ma ne sono parte, e la mia inerenza a un punto di vista rende possibile la finitezza della mia percezione e in pari tempo la sua apertura al mondo totale come orizzonte di ogni percezione. Se so che un albero all’orizzonte rimane quello che è nella percezione ravvicinata, conserva la sua forma e la sua grandezza reali, lo so unicamente in quanto questo orizzonte è orizzonte di ciò che mi circonda immediatamente, in quanto mi è garantito a poco a poco il possesso percettivo delle cose che esso racchiude: in altri termini, le esperienze percettive si connettono, si motivano e si implicano vicendevolmente, la percezione del mondo non è altro che una dilatazione del mio campo di presenza, non ne trascende le strutture essenziali, e in questo campo il corpo rimane agente senza mai divenire oggetto. Il mondo è una unità aperta e indefinita in cui io sono situato, come Kant indica nella Dialettica Trascendentale, ma come sembra dimenticare nella Analitica. Le qualità della cosa, per esempio il suo colore, la sua durezza, il suo peso, ci ragguagliano su di essa molto di più che le sue proprietà geometriche. Il tavolo è e rimane marrone attraverso tutti i giochi di luce e tutte le illuminazioni. Che cos’è dunque, tanto per cominciare, questo colore reale? Come vi accediamo? Si sarà tentati di rispondere che è il colore sotto il quale vedo più spesso il tavolo, quello che esso assume alla luce del giorno, a breve distanza, nelle condizioni «normali», cioè più frequenti. Quando la distanza è troppo grande o l’illuminazione ha un colore proprio, come al tramonto o sotto la luce elettrica, io rimuovo il colore effettivo a beneficio di un colore del ricordo,3 che è preponderante perché impresso in me da numerose esperienze. La costanza del colore sarebbe quindi una costanza reale. Ma abbiamo qui solo una ricostruzione artificiale del fenomeno; infatti, se consideriamo la percezione stessa, non possiamo dire che il marrone del tavolo si offre sotto tutte le illuminazioni come il medesimo marrone, come la medesima qualità effettivamente data dal ricordo. Un foglio bianco nell’ombra, che riconosciamo come tale, non è puramente e semplicemente un bianco, «non si lascia situare in modo soddisfacente nella serie nerobianco».4 Prendiamo un muro bianco nell’ombra e una carta grigia alla luce: non possiamo dire che il muro rimane bianco e la carta grigia; la carta impressiona maggiormente lo sguardo,5 è piò luminosa, più chiara, il muro è più scuro e più opaco, e, per così dire, è solo la «sostanza del colore» che permane sotto le variazioni di illuminazione.6 La pretesa costanza dei colori non impedisce «un incontestabile mutamento durante il quale continuiamo a ricevere nella nostra visione la qualità fonda-mentale e, per cosi dire, quanto c’è di sostanziale in essa».7 Questa stessa ragione non ci dissuaderà dal trattare la costanza dei colori come una costanza ideale e dal riferirla al giudizio. Infatti, un giudizio che, nell’apparenza data, distinguesse la parte spettante all’illuminazione non potrebbe concludersi se non con una identificazione del colore proprio dell’oggetto, ma abbiamo visto che esso non rimane identico. La debolezza comune all’empirismo e all’intellettualismo consiste nel non riconoscere altri colori che le qualità cristallizzate che appaiono in un atteggiamento riflessivo, mentre nella percezione vivente il colore è una introduzione alla cosa. Si deve abbandonare l’illusione, alimentata


dalla fisica, che il mondo percepito sia fatto di colori-qualità. Come hanno notato i pittori, nella natura ci sono pochi colori. Nel fanciullo la percezione dei colori è tardiva, e comunque molto posteriore alla costituzione di un mondo. I maori hanno tremila nomi di colore, non perché ne percepiscano molti, ma viceversa perché non li identificano quando appartengono a oggetti di struttura diversa.8 Come ha detto Scheler, la percezione va direttamente alla cosa senza passare per i colori, così come può cogliere l’espressione di uno sguardo senza porre il colore degli occhi. Potremo comprendere la percezione solo adducendo un colore-finzione, che può persistere anche quando l’apparenza qualitativa è alterata. Dico che la mia penna stilografica è nera e la vedo nera sotto i raggi del sole. Ma questo nero è molto meno la qualità sensibile del nero che una potenza tenebrosa irradiante dall’oggetto, anche quando esso è ricoperto di riflessi, e non è visibile se non nel senso in cui lo è la nerezza morale. Il colore reale permane sotto le apparenze come lo sfondo continua sotto la figura, e cioè non titolo di qualità vista o pensata, ma in una presenza non sensoriale. La fisica e anche la psicologia danno del colore una definizione arbitraria che in realtà si addice esclusivamente a uno dei suoi modi di apparizione e che per molto tempo ci ha occultato tutti gli altri. Hering chiede che, nello studio e nel confronto dei colori, si impieghi solo il colore puro, - che si tengano lontane tutte le circostanze esterne. deve operare «non sui colori che appartengono a un oggetto determinato, ma su un quale (e non importa che sia piano o che riempia lo spazio), che sussista per sé senza un portatore determinato».9 I colori dello spettro soddisfano press’a poco tali condizioni. Ma questi colori pellicolari (Flächenfarben) sono in realtà solo una delle strutture possibili del colore, e già il colore di un foglio o colore di superficie (Oberflächenfarbe) non obbedisce più alle medesime leggi. Le soglie differenziali sono più basse nei colori di superficie che nei colori pellicolari.10 Questi ultimi sono localizzati a distanza, ma in modo impreciso; hanno un aspetto spugnoso, mentre i colori di superficie sono spessi e fermano lo sguardo sulla loro superficie; sono sempre paralleli al piano frontale, mentre i colori di superficie possono presentare tutti gli orientamenti; infine, sono sempre vagamente piani e non possono sposare una forma particolare, apparire come curvi o come stesi su una superficie, senza perdere la loro qualità di colore pellicolare.11 Tuttavia, questi due modi di apparizione del colore figurano entrambi nelle esperienze degli psicologi, nelle quali, del resto, sono spesso confusi. Ma ce ne sono molti altri di cui gli psicologi non hanno parlato per lungo tempo: il colore dei corpi trasparenti, che occupa le tre dimensioni dello spazio (Raumfarbe) - il riflesso (Glanz) - il colore acceso (Glühen) -il colore raggiante (Leuchten) e in generale il colore dell’illuminazione, il quale si confonde cosi poco con quello della fonte luminosa che il pittore può rappresentare il primo con la distribuzione delle ombre e delle luci sugli oggetti senza rappresentare il secondo.12 Il pregiudizio consiste nel credere che si tratti qui di diversi assestamenti di una percezione del colore in se stessa invariabile, di diverse forme date a una medesima materia sensibile. In realtà, si hanno diverse funzioni del colore in cui la pretesa materia scompare assolutamente, giacché la strutturazione è ottenuta in virtù di un mutamento delle stesse proprietà sensibili. In particolare, la distinzione fra l’illuminazione e il colore proprio dell’oggetto non risulta da un’analisi intellettuale, non è l’imposizione a una materia sensibile di significati nozionali, ma è una certa organizzazione del colore stesso, lo stabilirsi di una struttura illuminazione-cosa illuminata, che dobbiamo descrivere più dappresso se vogliamo comprendere la costanza del colore proprio.13 Alla luce del gas una carta blu appare blu. Eppure, se la consideriamo al fotometro, ci accorgiamo con stupore che essa invia all’occhio la medesima mescolanza di raggi che una carta marrone alla luce diurna.14 Un muro bianco debolmente illuminato, che nella visione libera appare


come bianco (con le riserve precedentemente formulate), appare invece grigio-azzurrognolo se lo guardiamo attraverso l’apertura praticata in uno schermo atto a nasconderci la sorgente luminosa. Il pittore ottiene senza schermo il medesimo risultato e riesce a vedere i colori cosi come li determinano la quantità e la qualità di luce riflessa, a condizione di isolarli dal contesto, per esempio socchiudendo gli occhi. Questo mutamento d’aspetto è inseparabile da un mutamento di struttura nel colore: nel momento in cui interponiamo lo schermo fra il nostro occhio e lo spettacolo, nel momento in cui socchiudiamo gli occhi, liberiamo i colori dall’oggettività delle superfici corporee e li riconduciamo alla semplice condizione di zone luminose. Non vediamo più dei corpi reali, il muro, la carta, con un colore determinato e al loro posto nel mondo, ma vediamo delle macchie colorate che sono tutte situate su un medesimo piano «fittizio».15 Come agisce di preciso lo schermo? Lo comprenderemo meglio osservando il medesimo fenomeno in altre condizioni. Se attraverso un oculare guardiamo in modo alternato l’interno di due grandi scatole dipinte una in bianco e l’altra in nero, e illuminate l’una debolmente e l’altra fortemente, cosicché la quantità di luce ricevuta dall’occhio sia identica in ambedue i casi, e se si fa in modo che all’interno delle scatole non ci siano ombre e che il colore sia steso in modo uniforme, queste scatole sono allora indiscernibili e in entrambe non si vede se non uno spazio vuoto in cui si diffonde del grigio. Tutto cambia se si introduce un pezzo di carta bianca nella scatola nera o un pezzo di carta nera nella scatola bianca. Immediatamente, la prima appare come nera e violentemente illuminata, l’altra come bianca e debolmente illuminata. Perché la struttura illuminazione - oggetto illuminato sia data, occorrono quindi due superfici il cui potere di riflessione sia diverso.16 Se si fa in modo che il fascio di una lampada ad arco cada esattamente su un disco nero e se si mette in movimento il disco per eliminare l’influenza delle rugosità che esso ha sempre alla superficie, il disco appare, come il resto della stanza, debolmente illuminato, e il fascio di luce è un solido biancastro di cui il disco costituisce la base. Se di fronte al disco collochiamo un pezzo di carta bianca «nello stesso istante vediamo il disco “nero”, la carta “bianca” ed entrambi violentemente illuminati».17 La trasformazione è cosi completa che si ha l’impressione di veder apparire un nuovo disco. Queste esperienze in cui lo schermo non interviene fanno comprendere quelle in cui invece interviene: il fattore decisivo nel fenomeno di costanza, che lo schermo mette fuori gioco e che viceversa può agire nella visione libera, è l’articolazione dell’insieme del campo, la ricchezza e la finezza delle strutture che esso comporta. Quando guarda attraverso l’apertura praticata in uno schermo, il soggetto non può più «dominare» (überschauen) i rapporti di illuminazione, cioè percepire nello spazio visibile degli insiemi subordinati con le loro chiarezze proprie che si staccano l’una sull’altra.18 Quando socchiude gli occhi, il pittore distrugge l’organizzazione in profondità nel campo e con essa i contrasti precisi dell’illuminazione, non ci sono più cose determinate con i loro colori propri. Se si ricomincia l’esperienza della carta bianca nell’ombra e della carta grigia illuminata, e se si proiettano su uno schermo le immagini consecutive negative delle due percezioni, si nota che il fenomeno di costanza non vi si mantiene, come se la costanza e la struttura illuminazione-oggetto illuminato potessero prodursi solo nelle cose e non nello spazio diffuso delle immagini consecutive.19 Ammettendo che queste strutture dipendano dall’organizzazione del campo, si comprendono simultaneamente tutte le leggi empiriche del fenomeno di costanza:20 che esso sia proporzionale alla grandezza dell’area retinica sulla quale si proietta lo spettacolo, che sia tanto più netto quanto più esteso e più riccamente articolato è il frammento del mondo che si proietta nello spazio retinico chiamato in causa, - che sia meno perfetto nella visione periferica che nella visione centrale, nella visione monoculare che nella visione binoculare, nella visione breve che nella visione prolungata, che si attenui a lunga distanza,


che vari con’ gli individui e secondo la ricchezza del loro mondo percettivo, che infine sia meno perfetto per illuminazioni colorate - le quali cancellano la struttura superficiale degli oggetti e livellano il potere di riflessione delle differenti superfici - che per illuminazioni incolori le quali rispettano queste differenze strutturali.21 La connessione del fenomeno di costanza, dell’articolazione del campo e del fenomeno di illuminazione può quindi essere considerato come un fatto stabilito. Ma questa relazione funzionale non ci fa ancora comprendere né i termini che collega, né quindi il loro collegamento concreto, e andrebbe perduto il maggior beneficio della scoperta se noi ci attenessimo alla semplice constatazione di una variazione correlativa dei tre termini assunti nel loro senso ordinario. In quale senso si deve dire che il colore dell’oggetto rimane costante? Che cos’è l’organizzazione dello spettacolo e il campo in cui esso si organizza? Che cos’è infine una illuminazione? L’induzione psicologica rimane cieca se noi non riusciamo a riunire in un solo fenomeno le tre variabili che essa connota, e se non ci conduce come per mano a una intuizione in cui le pretese «cause» o «condizioni» del fenomeno di costanza appariranno come momenti di questo fenomeno e in un rapporto di essenza con esso.22 Riflettiamo quindi sui fenomeni che ci si sono rivelati e tentiamo di vedere come si motivano vicendevolmente nella percezione totale. Consideriamo anzitutto quel modo di apparizione particolare della luce e del colore che chiamiamo una illuminazione. Che cosa c’è di particolare? Che cosa accade nel momento in cui una certa macchia di luce è presa come illuminazione anziché contare per sé? Sono stati necessari secoli di pittura prima che si vedesse sull’occhio quel riflesso senza il quale esso rimane spento e cieco come nei quadri dei primitivi.23 Il riflesso non è visto per se stesso, giacché ha potuto passare inosservato cosi a lungo, eppure esso ha la sua funzione nella percezione, in quanto la sola assenza del riflesso priva della vita e dell’espressione sia gli oggetti che i volti. Il riflesso è visto solo con la coda dell’occhio. Non si offre come un fine alla nostra percezione, ne è l’ausiliario o il mediatore. Non è visto esso stesso, ma fa vedere il resto. In fotografia i riflessi e le illuminazioni sono spesso resi male perché vengono trasformati in cose e se, per esempio, in un film un personaggio entra in una cantina con una lampada in mano, noi non vediamo il fascio di luce come un essere immateriale che fruga nell’oscurità e fa apparire degli oggetti, ma questo fascio si solidifica e non è più capace di mostrarci l’oggetto alla sua estremità, il passaggio della luce su un muro produce unicamente delle pozze di chiarore abbagliante che non si localizzano sul muro, ma sulla superficie dello schermo. L’illuminazione e il riflesso esplicano quindi la loro funzione solo se scompaiono come intermediari discreti e se conducono il nostro sguardo anziché trattenerlo.24 Ma che cosa si deve intendere con ciò? Quando, in un appartamento che non conosco, mi si conduce verso il padrone di casa, c’è qualcuno che sa in mia vece, per il quale lo svolgimento dello spettacolo visivo offre un senso, va verso una meta, e io mi rimetto o mi presto a questo sapere che non ho. Quando mi si fa vedere in un paesaggio un dettaglio che non ho saputo distinguere da solo, c’è lì qualcuno che ha già visto, che sa già dove ci si deve collocare o dove si deve guardare per vedere. L’illuminazione conduce il mio sguardo e mi fa vedere l’oggetto, come dire che in un certo senso essa sa e vede l’oggetto. Se immagino un teatro senza spettatori, in cui il sipario si alza su uno scenario illuminato, mi sembra che lo spettacolo sia in se stesso visibile o pronto a essere visto, e che la luce che fruga nei piani, che delinea le ombre e penetra lo spettacolo da parte a parte realizzi prima di noi una specie di visione. Reciprocamente, la nostra propria visione non fa altro che riprendere per conto suo e proseguire l’investimento dello spettacolo attraverso i percorsi che l’illuminazione le traccia, così come, udendo una frase, si ha la sorpresa di trovare la traccia di un pensiero estraneo. Noi percepiamo in base alla luce, allo stesso modo in cui nella comunicazione verbale pensiamo in base all’altro. E


come la comunicazione presuppone (pur superandolo e arricchendolo nel caso di una parola nuova e autentica) un certo montaggio linguistico in virtù del quale le parole sono abitate da un senso, così la percezione presuppone in noi un apparato capace di rispondere alle sollecitazioni della luce secondo il loro senso ( cioè secondo la loro direzione e in pari tempo secondo il loro significato, che fanno tutt’uno), di concentrare la visibilità sparsa, di portare a compimento ciò che è abbozzato nello spettacolo. Questo apparato è lo sguardo, in altri termini la correlazione naturale delle apparenze e dei nostri svolgimenti cinestesia, non conosciuta in una legge, ma vissuta come l’impegno del nostro corpo nelle strutture tipiche di un mondo. L’illuminazione e la costanza della cosa illuminata, che ne è il correlato, dipendono direttamente dalla nostra situazione corporea. Se in una stanza vivamente illuminata osserviamo un disco bianco posto in una parte in ombra, la costanza del bianco è imperfetta. Essa migliora quando ci avviciniamo alla zona d’ombra in cui si trova il disco. Diviene perfetta quando vi entriamo.25 L’ombra diventa veramente ombra ( e correlativamente il disco vale come bianco ) solo quando cessa di essere davanti a noi come qualcosa da vedere, quando ci avvolge, quando diviene il nostro ambiente e noi ci collochiamo in essa. Si può comprendere questo fenomeno solo se lo spettacolo, lungi dall’essere una somma di oggetti, un mosaico di qualità dispiegate di fronte a un soggetto acosmico, circuisce il soggetto e gli propone un patto. L’illuminazione non è dalla parte dell’oggetto, ma è ciò che assumiamo, ciò che prendiamo per norma, mentre la cosa illuminata si stacca davanti a noi e ci fronteggia. In se stessa l’illuminazione non è né colore, né luce, ma è al di qua della distinzione dei colori e delle luminosità. Ecco perché essa tende sempre a divenire «neutra» per noi. La penombra in cui rimaniamo diviene per noi cosi naturale che non è più nemmeno percepita come penombra. L’illuminazione elettrica che ci sembra gialla nel momento in cui abbandoniamo la luce diurna, cessa ben presto di avere per noi un colore definito, e, se un residuo di luce diurna penetra nella stanza, è questa luce «oggettivamente neutra» che ci appare tinta di azzurro.26 Non si deve dire che, poiché l’illuminazione gialla dell’elettricità è percepita come gialla, noi ne teniamo conto nel valutare le apparenze e ritroviamo cosi idealmente il colore proprio degli oggetti. Non si deve dire che, man mano che si generalizza, la luce gialla è vista sotto l’aspetto della luce diurna e che in questo modo il colore degli altri oggetti rimane realmente costante. Si deve dire che, assumendo la funzione di illuminazione, la luce gialla tende a situarsi al di qua di ogni colore, tende verso lo zero del colore, e che, correlativamente, gli oggetti si distribuiscono i colori dello spettro in base al grado e al modo della loro resistenza a questa nuova atmosfera. Ogni colore-quale è quindi mediato da un colore-funzione, si determina in rapporto a un livello che è variabile. Il livello si stabilisce - e con esso tutti i valori colorati che ne dipendono -, quando incominciamo a vivere nell’atmosfera dominante e ridistribuiamo sugli oggetti i colori dello spettro in funzione di questa convenzione fondamentale. Il nostro insediamento in un certo ambiente colorato è - insieme con la trasposizione che esso comporta di tutti i rapporti di colori un’operazione corporea, che non posso compiere se non entrando nell’atmosfera nuova: infatti, il mio corpo è il mio potere generale di abitare tutti gli ambienti del mondo, la chiave di tutte le trasposizioni e di tutte le equivalenze che lo mantengono costante. Cosi, l’illuminazione non è altro che un momento in una struttura complessa: gli altri momenti sono l’organizzazione del campo, cosi come la realizza il nostro corpo, e la cosa illuminata nella sua costanza. Le correlazioni funzionali che possiamo scoprire fra questi tre fenomeni non sono se non una manifestazione della loro «coesistenza essenziale».27 Dimostriamolo meglio insistendo sugli ultimi due. Che cosa si deve intendere con organizzazione del campo? Abbiamo visto che, se si introduce un foglio bianco nel fascio luminoso di una lampada ad arco, fino a quel momento fuso con il disco sul quale cade e percepito come un solido conico -,


subito il fascio luminoso e il disco si dissociano e l’illuminazione si qualifica come illuminazione. L’introduzione del foglio nel fascio luminoso, imponendo con evidenza la «non solidità» del cono luminoso, ne muta il senso nei confronti del disco sul quale esso si appoggia e lo fa valere come illuminazione. Tutto avviene come se ci fosse una incompatibilità vissuta tra la visione del foglio illuminato e quella del cono solido, e come se il senso di una parte dello spettacolo inducesse un rimaneggiamento nel senso dell’insieme. Ugualmente, abbiamo visto che, nelle diverse parti del campo considerate isolatamente, non si può discernere il colore proprio dell’oggetto e quello dell’illuminazione, ma che, nell’insieme del campo visivo, attraverso una specie di azione reciproca in cui ogni parte beneficia della configurazione delle altre, emerge una illuminazione generale che restituisce a ogni colore locale il suo valore «vero». Anche in questo caso tutto avviene come se i frammenti dello spettacolo - ciascuno dei quali non è in grado, da solo, di suscitare la visione di una azione - la rendessero possibile in virtù della loro riunione, e come se, attraverso i valori colorati sparsi nel campo, qualcuno leggesse la possibilità di una trasformazione sistematica. Se intende rappresentare un oggetto brillante, un pittore ottiene questo effetto non tanto ponendo sull’oggetto un colore vivo, quanto distribuendo opportunamente i riflessi e le ombre sugli oggetti circostanti.28 Se per un momento si riesce a vedere come rilievo un motivo inciso a incavo, per esempio un sigillo, si ha subito l’impressione di una illuminazione che proviene dall’interno dell’oggetto. Il fatto è che i rapporti delle luci e delle ombre sul sigillo sono allora invertiti rispetto a ciò che dovrebbero essere, tenuto conto della illuminazione del luogo. Se si fa girare una lampada attorno a un busto tenendola a distanza costante, anche quando la lampada stessa è invisibile noi percepiamo la rotazione della sorgente luminosa nel complesso dei mutamenti di illuminazione e di colore, che sono gli unici a essere dati.29 C’è quindi una «logica dell’illuminazione»30 o una «sintesi dell’illuminazione»,31 una compossibilità delle parti del campo visivo, che può anche esplicitarsi in proposizioni disgiuntive per esempio se il pittore vuole giustificare il suo quadro di fronte al critico d’arte -, ma che dapprima è vissuta come consistenza del quadro o realtà dello spettacolo. Di più: c’è una logica totale del quadro o dello spettacolo, una coerenza esperita dei colori, delle forme spaziali e del senso dell’oggetto. Visto alla distanza opportuna, un quadro di una galleria ha la sua illuminazione interna che dà a ciascuna delle macchie di colore non solo il suo valore colorante, ma anche un certo valore rappresentativo. Visto troppo dappresso, esso cade sotto l’illuminazione dominante nella galleria, e allora i colori «non agiscono più rappresentativamente, non ci danno più l’immagine di certi oggetti, ma agiscono come vernice su una tela».32 Se, di fronte a un paesaggio di montagna, assumiamo l’atteggiamento critico che isola una parte del campo, il colore stesso muta: questo verde, che era un verde di-prato, perde il suo spessore, il suo colore e il suo valore rappresentativo, se viene separato dal contesto.33 Un colore non è mai semplicemente colore, ma colore di un certo oggetto, e l’azzurro di un tappeto non sarebbe il medesimo azzurro se non fosse un azzurro lanoso. Come abbiamo visto prima, i colori del campo visivo formano un sistema ordinato attorno a una dominante che è l’illuminazione assunta come livello. Nell’organizzazione del campo intravediamo ora un senso più profondo: non sono solamente i colori, ma anche i caratteri geometrici, tutti i dati sensoriali e il significato degli oggetti che formano un sistema; la nostra percezione è animata per intero da una logica che assegna a ogni oggetto tutte le sue determinazioni in funzione di quelle degli altri, e che «cancella» come irreale ogni dato aberrante, essa è completamente sottesa dalla certezza del mondo. Da questo punto di vista si scorge infine il vero significato delle costanze percettive. La costanza del colore non è altro che un momento astratto della costanza delle cose, e la costanza delle cose è fondata sulla coscienza primordiale del mondo come orizzonte di tutte le nostre esperienze. Pertanto,


se credo a delle cose, non è perché percepisco colori costanti sotto la varietà delle illuminazioni, e la cosa non sarà una somma di caratteri costanti: viceversa, io ritrovo dei colori costanti nella misura in cui la mia percezione è di per sé aperta su un mondo e su delle cose. Il fenomeno di costanza è generale. Si è potuto parlare di una costanza dei suoni,34 delle temperature, dei pesi35 e infine dei dati tattili in senso stretto, mediata anch’essa da certe strutture, da certi «modi di apparizione» dei fenomeni in ciascuno di questi campi sensoriali. La percezione dei pesi rimane la medesima a prescindere dai muscoli che vi concorrono e dalla posizione iniziale di questi muscoli. Quando si solleva un oggetto con gli occhi chiusi, il suo peso non è diverso, e non importa che la mano sia o meno caricata di un peso supplementare (e che questo peso agisca esso stesso per pressione sul dorso della mano o per trazione sul palmo), che si muova liberamente o che al contrario sia legata in modo tale da far lavorare solamente le dita, che un solo dito o più dita eseguiscano il compito, che si sollevi l’oggetto con la mano o con la testa, con il piede o con i denti, e infine che si sollevi l’oggetto nell’aria o nell’acqua. Cosi l’impressione tattile è «interpretata» in base alla natura e al numero degli apparati messi in gioco e anche delle circostanze fisiche nelle quali appare; ed è cosi che impressioni in sé molto diverse, come una pressione sulla pelle della fronte e una pressione sulla mano, mediano la medesima percezione di peso. È qui impossibile supporre che l’interpretazione sia fondata su una induzione esplicita e che, nell’esperienza precedente, il soggetto abbia potuto misurare l’incidenza di queste diverse variabili sul peso effettivo dell’oggetto: è certo che egli non ha mai avuto l’occasione di interpretare delle pressioni frontali in termini di peso o di aggiungere, per ritrovare la scala ordinaria dei pesi, all’impressione locale delle dita il peso del braccio parzialmente soppresso dall’immersione nell’acqua. Ammettiamo pure che, grazie all’uso del proprio corpo, il soggetto ha acquisito a poco a poco un prontuario delle equivalenze di peso e imparato che la tale impressione fornita dai muscoli delle dita è equivalente alla tale impressione fornita dalla mano intera, induzioni simili, essendo applicate alle parti del corpo che non sono mai servite a sollevare dei pesi, devono per lo meno svolgersi nell’ambito di un sapere globale del corpo che ne abbraccia sistematicamente tutte le parti. La costanza del peso non è una costanza reale, ossia la permanenza in noi di una «impressione di peso» fornita dagli organi impiegati più spesso e ricondotta per associazione negli altri casi. Il peso dell’oggetto sarà quindi una invariante ideale? La percezione di peso sarà un giudizio mediante il quale - mettendo sempre in rapporto l’impressione con le condizioni corporee e fisiche in cui essa appare - noi discerniamo, in virtù di una fisica naturale, una relazione costante tra queste due variabili? Ma questo può essere solo un modo di dire: noi non conosciamo il nostro corpo, la potenza, il peso e la portata dei nostri organi come un ingegnere conosce la macchina che ha costruito pezzo per pezzo. E quando confrontiamo il lavoro della mano a quello delle dita, essi si distinguono o si identificano sullo sfondo di una potenza globale del nostro arto anteriore, è nell’unità di un «io posso» che le operazioni di diversi organi appaiono equivalenti. Correlativamente, le «impressioni» fornite da ciascuno di essi non sono realmente distinte e collegate soltanto da una interpretazione esplicita, ma si danno immediatamente come diverse manifestazioni del peso «reale», l’unità preoggettiva della cosa è il correlato dell’unità preoggettiva del corpo. Cosi, il peso appare come la proprietà identificabile di una cosa sullo sfondo del nostro corpo in quanto sistema di gesti equivalenti. Questa analisi della percezione del peso getta luce su tutta la percezione tattile: il movimento del corpo proprio è per il tatto ciò che l’illuminazione è per la visione.36 Nello stesso tempo in cui sbocca in una «proprietà» oggettiva, ogni percezione tattile comporta una componente corporea: per esempio, la localizzazione tattile di un oggetto situa questo oggetto in rapporto ai punti cardinali dello schema corporeo. Questa proprietà che, a prima vista, distingue in modo assoluto il tatto dalla visione,


permette invece di accostarli. L’oggetto visibile è certo davanti a noi e non sul nostro occhio, ma abbiamo visto che in definitiva la posizione, la grandezza o la forma visibili si determinano in virtù dell’orientamento, dell’ampiezza e della presa su di esse del nostro sguardo. Il tatto passivo (per esempio il tatto all’interno dell’orecchio o del naso e, in generale, in tutte le parti del corpo che di solito sono coperte) ci dà quasi sempre solo lo stato del nostro proprio corpo, senza fornire pressoché nulla che interessi l’oggetto. Anche nelle parti più sensibili della nostra superficie tattile, una pressione senza movimento non dà che un fenomeno appena identificabile.37 Ma c’è altresì una visione passiva, senza sguardo, come quella di una luce abbagliante, che non dispiega più di fronte a noi uno spazio oggettivo e in cui la luce cessa di essere luce per divenire dolorosa e invadere il nostro stesso occhio. E, come lo sguardo di esplorazione della visione vera e propria, il «tatto conoscente»38 ci getta fuori del nostro corpo attraverso il movimento. Quando una delle mani tocca l’altra, la mano mobile funge da soggetto e l’altra da oggetto.39 Ci sono fenomeni tattili, pretese qualità tattili, come il ruvido e il liscio/che scompaiono assolutamente se vengono privati del movimento d’esplorazione. Il movimento e il tempo non sono solamente una condizione oggettiva del tatto conoscente, ma una componente fenomenica dei dati tattili. Essi effettuano la strutturazione dei fenomeni tattili, cosi come la luce delinea la configurazione di una superficie visibile.40 Il liscio non è una somma di pressioni simili, ma il modo in cui una superficie utilizza il tempo della nostra esplorazione tattile o modula il movimento della mano. Lo stile di queste modulazioni definisce altrettanti modi di apparizione del fenomeno tattile, i quali non sono riducibili l’uno all’altro e non possono essere dedotti da una sensazione tattile elementare. Ci sono «fenomeni tattili di superficie» (Oberflächentastungen) in cui un oggetto tattile a due dimensioni si offre al tatto e si oppone più o meno fermamente alla penetrazione -, ci sono ambienti tattili a tre dimensioni, paragonabili ai colori pellicolari, per esempio una corrente d’aria o una corrente d’acqua in cui lasciamo andare la nostra mano -, c’è una trasparenza tattile (durchtastete Flächen), L’umidiccio, l’untuoso, l’appiccicoso appartengono a uno strato di strutture più complesse.41 In un legno scolpito che tocchiamo, noi distinguiamo immediatamente la fibra del legno che ne è la struttura naturale, e la struttura artificiale che gli è stata data dallo scultore, come l’orecchio distingue un suono in mezzo a dei rumori.42 Ci sono qui diverse strutture del movimento di esplorazione, e non possiamo trattare i fenomeni corrispondenti come un aggregato di impressioni tattili elementari, giacché le cosiddette impressioni componenti non sono nemmeno date al soggetto: se tocco un panno di lino o una spazzola, fra le setole della spazzola o fra i fili del lino non c’è un nulla tattile, ma uno spazio tattile senza materia, uno sfondo tattile.43 Se non è realmente scomponibile, per le stesse ragioni il fenomeno tattile complesso non lo sarà nemmeno idealmente, e se volessimo definire il duro o il molle, il ruvido o il liscio, la sabbia o il miele come altrettante leggi o regole nello svolgimento dell’esperienza tattile, dovremmo ancora introdurre in essa il sapere degli elementi che la legge coordina. Chi tocca e riconosce il ruvido o il liscio, non pone i loro elementi né i rapporti fra questi elementi, non li pensa da capo a fondo. Non è la coscienza che tocca o che tasta, è la mano, e, come dice Kant, la mano è un «cervello esteriore dell’uomo».44 Nell’esperienza visiva, che spinge l’oggettivazione più lontano di quanto lo faccia l’esperienza tattile, non possiamo, almeno a prima vista, illuderci di costituire il mondo, poiché essa ci presenta uno spettacolo dispiegato davanti a noi a distanza, ci dà l’illusione di essere presenti ovunque e di non essere situati in nessun luogo. Ma l’esperienza tattile aderisce alla superficie del nostro corpo, non possiamo dispiegarla di fronte a noi, essa non diviene interamente oggetto. Correlativamente, come soggetto del tatto, io non posso illudermi di essere ovunque e in nessun luogo, non posso dimenticare che vado al mondo attraverso il mio corpo: l’esperienza tattile


si effettua «oltre» di me e non è centrata in me. Non sono io a toccare, ma il mio corpo; quando tocco io non penso un diverso, le mie mani ritrovano uh certo stile che fa parte delle loro possibilità motorie, ed è quanto si vuole dire quando si parla di un campo percettivo: io posso toccare efficacemente solo se il fenomeno trova in me una eco, se si accorda con una certa natura della mia conoscenza, se l’organo che gli si fa incontro è sincronizzato con esso. L’unità e l’identità del fenomeno tattile non si realizzano nel concetto in virtù di una sintesi di ricognizione, ma sono fondate sull’unità e l’identità del corpo come insieme sinergico. «A partire dal giorno in cui il fanciullo si serve della mano come di uno strumento unico di prensione, essa diviene anche uno strumento unico del tatto.»45 Non soltanto io ricorro alle dita e al corpo intero come a un sol organo, ma anche, grazie a questa unità del corpo, le percezioni tattili ottenute mediante un organo sono immediatamente tradotte nel linguaggio degli altri organi; per esempio, il contatto della schiena o del petto con il lino o la lana rimane nel ricordo sotto forma di contatto manuale46 e, più generalmente, nel ricordo possiamo toccare un oggetto con parti del nostro corpo che non l’hanno mai toccato effettivamente.47 Ogni contatto di un oggetto con una parte del nostro corpo oggettivo è quindi, in realtà,- contatto con la totalità del corpo fenomenico attuale o possibile. Ecco come può realizzarsi la costanza di un oggetto tattile attraverso le sue diverse manifestazioni. È una costanza-per-il-mio-corpo, una invariante del suo comportamento totale. Il corpo si fa incontro all’esperienza tattile con tutte le sue superna e con tutti i suoi organi insieme, porta con sé una certa tipica del «mondo» tattile. Ora siamo in grado di affrontare l’analisi della cosa intersensoriale. La cosa visiva (il disco livido della luna) o la cosa tattile (il mio cranio così come lo sento palpandolo), che per noi rimane la medesima attraverso una serie di esperienze, non è né un quale che sussiste effettivamente, né la nozione o la coscienza di una data proprietà oggettiva, ma è ciò che viene ritrovato o ripreso dal nostro sguardo o dal nostro movimento, un quesito cui essi rispondono esattamente. L’oggetto che si offre allo sguardo o alla palpazione risveglia una certa intenzione motoria che mira non ai movimenti del corpo proprio, ma alla cosa stessa, alla quale essi sono come appesi. E se la mia mano conosce il duro e il molle, se il mio sguardo conosce la luce lunare, si tratta, per cosi dire, di un certo modo di unirmi al fenomeno e di comunicare con esso. Nel nostro ricordo, il duro e il molle, il granoso e il liscio, la luce della luna e del sole si danno non come contenuti sensoriali, ma anzitutto come un certo tipo di simbiosi, una certa maniera di penetrarci propria dell’esterno, una certa maniera che noi abbiamo di accoglierlo, e qui il ricordo non fa altro che portare alla luce l’ossatura della percezione donde è sorto. Se le costanti di ogni senso vengono intese in questo modo, non ci sarà motivo di definire la cosa intersensoriale, in cui esse si uniscono, mediante un insieme di attributi stabili o la nozione di questo insieme. Le «proprietà» sensoriali di una cosa costituiscono insieme una medesima cosa, cosi come il mio sguardo, il mio tatto e tutti i miei altri sensi sono insieme le potenze di uno stesso corpo integrate in una sola azione. La superficie che riconoscerò come superficie del tavolo, quando la guardo vagamente mi invita già a una messa a punto e sollecita i movimenti di fissazione che le daranno il suo aspetto «vero». Allo stesso modo, ogni oggetto dato a un senso richiama su di sé l’operazione concordante di tutti gli altri. Vedo un colore di superficie perché ho un campo visivo e perché la disposizione del campo conduce il mio sguardo sino a quel colore, - percepisco una cosa perché ho un campo d’esistenza e perché ogni fenomeno apparso polarizza verso di sé tutto il mio corpo come sistema di potenze percettive. Io attraverso le apparenze, arrivo al colore o alla forma reale, quando la mia esperienza ha raggiunto il suo più alto grado di chiarezza, e Berkeley può anche obiettarmi che una mosca vedrebbe diversamente il medesimo oggetto o che un microscopio più forte


lo trasformerebbe: queste diverse apparenze sono per me apparenze di un certo spettacolo vero, quello in cui la configurazione percepita giunge, a condizione di una sufficiente nitidezza, alla sua massima ricchezza.48 Ho degli oggetti visivi perché ho un campo visivo in cui la ricchezza e la nitidezza sono inversamente proporzionali e perché, una volta riunite, queste due esigenze - che, considerate isolatamente, andrebbero all’infinito - determinano nel processo percettivo un certo punto di maturazione e un maximum. Analogamente, io chiamo esperienza della cosa o della realtà non più solamente di una realtà-per-la-vista o per-il-tatto, ma di una realtà assoluta - la mia piena coesistenza con il fenomeno, il momento in cui esso disporrebbe, sotto tutti i rapporti, della massima articolazione, e i «dati dei diversi sensi» sono orientati verso questo polo unico come le mie osservazioni al microscopio oscillano attorno a una osservazione privilegiata. Non chiamerò cosa visiva un fenomeno che, come i colori pellicolari, non offre nessun maximum di visibilità attraverso le varie esperienze che ne ho, o che, come il cielo, lontano e sottile all’orizzonte, mal localizzato e diffuso allo zenit, si lascia contaminare dalle strutture più vicine, alle quali non oppone nessuna configurazione propria. Se un fenomeno - prendiamo, per esempio, un riflesso o un leggero alitare del vento - si offre solamente a uno dei miei sensi, allora è un fantasma, e si avvicinerà all’esistenza reale unicamente se diviene capace di parlare agli altri miei sensi, come per esempio il vento quando è violento e si fa visibile nello sconvolgimento del paesaggio. Cézanne diceva che un quadro contiene in sé persino l’odore del paesaggio.49 Egli voleva dire che la distribuzione del colore sulla cosa (e sul quadro, purché colga totalmente la cosa) esprime da sola tutte le risposte che emergerebbero dall’interrogazione degli altri sensi, voleva dire che una cosa non avrebbe questo colore se non avesse anche questa forma, queste proprietà tattili, questa sonorità, questo odore, e che la cosa è la pienezza assoluta che la mia esistenza indivisa proietta di fronte a se stessa. Al di là di tutte le sue proprietà cristallizzate, l’unità della cosa non è un sostrato, un X vuoto, un soggetto di inerenza, ma quell’unico accento che si ritrova in ciascuna, quell’unico modo di esistere di cui esse sono una espressione seconda. Se un malato vede il diavolo, vede anche il suo odore, le sue fiamme e il suo fumo, poiché l’unità significativa diavolo è questa essenza acre, sulfurea e bruciante. Nelle cose c’è una simbolica che collega ogni qualità sensibile alle altre. Il calore si dà all’esperienza come una specie di vibrazione della cosa, dal canto suo il colore è come un’uscita della cosa fuori di sé ed è a priori necessario che un oggetto caldissimo divenga rosso, è l’eccesso della sua vibrazione che lo fa rifulgere.50 Lo svolgimento dei dati sensibili sotto il nostro sguardo o sotto le nostre mani è come un linguaggio che si insegna da sé, in cui il significato è secreto dalla struttura stessa dei segni: ecco perché si può dire alla lettera che i nostri sensi interrogano le cose e che esse rispondono. «L’apparenza sensibile è ciò che rivela (kundgibt), essa esprime come tale ciò che essa stessa non è.»51 Noi comprendiamo la cosa come comprendiamo un comportamento nuovo, e cioè non attraverso una operazione di sussunzione, ma riprendendo per conto nostro il modo di esistenza che i segni osservabili abbozzano davanti a noi. Un comportamento delinea un certo modo di trattare il mondo. Parimenti, nella interazione delle cose, ciascuna di queste si caratterizza grazie a una specie di a priori che essa rispetta in tutti i suoi incontri con l’esterno. Il senso di una cosa abita questa cosa come l’anima abita il corpo: non è dietro le apparenze; il senso del portacenere (per lo meno il suo senso totale e individuale, cosi come si dà nella percezione) non è una certa idea del portacenere che ne coordina gli aspetti sensoriali e che sarebbe accessibile al solo intellettto, ma anima il portacenere, si incarna in esso con evidenza. Ecco perché diciamo che nella percezione la cosa ci è data «in persona» o «in carne e ossa». Prima dell’Altro, la cosa realizza questo miracolo dell’espressione: un interiore che si rivela all’esterno, un significato che discende nel mondo, che si


mette a esistere in esso e che non si può comprendere pienamente se non cercandolo con lo sguardo là ove si trova. La cosa è dunque il correlato del mio corpo e, più in generale, della mia esistenza, della quale il mio corpo è solo la struttura stabilizzata. La cosa si costituisce nella presa del mio corpo su di essa, non è anzitutto un significato per l’intelletto, ma una struttura accessibile all’ispezione del corpo, e se vogliamo descrivere il reale cosi come ci appare nell’esperienza percettiva, lo troviamo carico di predicati antropologici. Poiché le relazioni fra le cose o fra gli aspetti delle cose sono sempre mediate dal nostro corpo, l’intera natura è la messa in scena della nostra propria vita o il nostro interlocutore in una sorta di dialogo. Ecco perché, in ultima analisi, non possiamo concepire una cosa che non sia percepita o percepibile. Come diceva Berkeley, anche un deserto inviolato ha per lo meno uno spettatore cioè noi stessi quando lo pensiamo, quando facciamo l’esperienza mentale di percepirlo. La cosa non può mai essere separata da qualcuno che la percepisca, non può mai essere effettivamente in sé perché le sue articolazioni sono quelle stesse della nostra esistenza e perché essa si pone al termine di uno sguardo o al termine di una esplorazione sensoriale che l’investe di umanità. In questa misura, ogni percezione è una comunicazione o una comunione, la ripresa o il compimento da parte nostra di una intenzione estranea, o viceversa è la realizzazione all’esterno delle nostre potenze percettive e come un accoppiamento del nostro corpo con le cose. Se non è stato possibile accorgercene prima, è perché la presa di coscienza del mondo percepito era ostacolata dai pregiudizi del pensiero oggettivo. Tale pensiero ha costantemente la funzione di ridurre tutti i fenomeni che attestano l’unione del soggetto e del mondo e di sostituire a essi l’idea chiara dell’oggetto come in sé e del soggetto come pura coscienza. Esso recide quindi i legami che riuniscono la cosa e il soggetto incarnato; per comporre il nostro mondo, lascia sussistere unicamente le qualità sensibili, tranne i modi di apparizione che abbiamo descritto, e preferibilmente le qualità visive: infatti, esse hanno una parvenza di autonomia, si collegano meno direttamente al corpo e, più che introdurci in un’atmosfera, presentano un oggetto. Ma in realtà tutte le cose sono concrezioni di un ambiente, e ogni percezione esplicita di una cosa vive di una comunicazione preliminare con una certa atmosfera. Noi non siamo «un aggregato di occhi, di orecchie, di organi tattili con le loro proiezioni cerebrali ... Come tutte le opere letterarie ... sono solo casi particolari nelle possibili permutazioni dei suoni che costituiscono il linguaggio e dei loro segni letterali, cosi le qualità o sensazioni rappresentano gli elementi di cui è fatta la grande poesia del nostro mondo (Umwelt). E se è certo che chi conoscesse solamente i suoni e le lettere non conoscerebbe affatto la letteratura e non ne coglierebbe l’essere ultimo, o meglio, non ne coglierebbe assolutamente nulla, è altrettanto certo che il mondo non è dato, e nulla di esso è accessibile a coloro ai quali le “sensazioni” sono date.»52 II percepito non è necessariamente un oggetto presente davanti a me come termine da conoscere, ma può essere una «unità di valore» che mi è presente solo praticamente. Se in una stanza in cui abitiamo è stato tolto un quadro, possiamo percepire un cambiamento senza sapere quale. È percepito tutto ciò che fa parte del mio ambiente, e il mio ambiente comprende «tutto ciò la cui esistenza o inesistenza, natura o alterazione conta praticamente per me»:53 il temporale che non è ancora scoppiato, di cui non potrei nemmeno enumerare i segni e che non prevedo, ma per il quale sono «predisposto»; la periferia del campo visivo che l’isterico non coglie espressamente, ma che tuttavia co-determina i suoi movimenti e il suo orientamento; il rispetto degli altri uomini o una certa amicizia fedele, di cui non mi accorgevo nemmeno più, ma che erano pur sempre là per me, poiché, quando si dissolvono, mi lasciano senza sostegno.54 L’amore è nei mazzi di fiori che Felix de Vandenesse prepara per Madame de Mortsauf altrettanto chiaramente che in una carezza: «Pensai che i colori e le foglie avevano un’armonia, una poesia che si facevano luce nell’intelletto affascinando lo sguardo, come delle frasi musicali destano mille ricordi ai cuori


amanti e amati. Se è luce organizzata, il colore non deve forse avere un senso come le combinazioni dell’aria hanno il loro?... L’amore ha il suo blasone e la contessa lo decifrò segretamente. Mi gettò uno di quegli sguardi incisivi che somigliano al grido di un malato toccato nella sua piaga: essa era a un tempo vergognosa e incantata. » Il mazzo di fiori è, con ogni evidenza, un mazzo d’amore; eppure, è impossibile dire che cosa in esso esprime l’amore: per questo motivo Madame de Mortsauf può accettarlo senza violare i propri giuramenti. Non c’è altro modo di comprenderlo se non il guardarlo, ma allora esso dice ciò che vuole dire. Il suo significato è la traccia di una esistenza, leggibile e comprensibile per un’altra esistenza. La percezione naturale non è una scienza, non pone le cose che percepisce, non le allontana per osservarle, ma vive con esse, è l’«opinione» o la «fede originaria» che ci lega a un mondo come alla nostra patria, l’essere del percepito è l’essere antepredicativo verso il quale è polarizzata la nostra esistenza totale. Ciononostante, non abbiamo esaurito il senso della cosa definendola come il correlato del nostro corpo e della nostra vita. Dopo tutto non cogliamo l’unità del nostro corpo se non in quella della cosa, ed è a partire dalle cose che le nostre mani, i nostri occhi, tutti i nostri organi di senso ci appaiono come altrettanti strumenti sostituibili. Il corpo per se stesso, il corpo in riposo è solo una massa oscura, lo percepiamo come un essere preciso e identificabile quando si muove verso una cosa, in quanto si proietta intenzionalmente verso l’esterno, e del resto non lo percepiamo mai se non con la coda dell’occhio e al margine della coscienza, il cui centro è occupato dalle cose e dal mondo. Non si può, dicevamo, concepire una cosa percepita senza qualcuno che la percepisca. Ma è altresì vero che la cosa si presenta, a colui stesso che la percepisce, come cosa in sé e che essa pone il problema di un autentico in-sé-per-noi. Di solito non ce ne accorgiamo perché, nel contesto delle nostre occupazioni, la percezione si pone sulle cose quanto basta per ritrovare la loro presenza familiare, ma non abbastanza per riscoprire ciò che vi si cela di inumano. Eppure la cosa ci ignora, riposa in sé. Lo vedremo se mettiamo in sospeso le nostre occupazioni, se portiamo su di essa un’attenzione metafisica e disinteressata. Essa è allora ostile ed estranea, non è più per noi un interlocutore, ma un Altro risolutamente silenzioso, un Sé che ci sfugge quanto l’intimità di una coscienza estranea. La cosa e il mondo, dicevamo, si offrono alla comunicazione percettiva come un volto familiare di cui comprendiamo subito l’espressione. Ma, per l’appunto, un volto non esprime qualcosa se non in virtù della disposizione dei colori e delle luci che lo compongono, il senso di un certo sguardo non è dietro gli occhi, ma su di essi, e al pittore basta una pennellata in più o in meno per trasformare Io sguardo di un ritratto. Nelle sue opere giovanili Cézanne cercava anzitutto di dipingere l’espressione, e proprio per questo non ci riusciva. A poco a poco egli ha imparato che l’espressione è il linguaggio della cosa stessa e nasce dalla sua configurazione. La sua pittura è un tentativo di ottenere la fisionomia delle cose e dei volti attraverso la restituzione integrale della loro configurazione sensibile. È ciò die la natura fa senza sforzo in ogni momento. Ecco perché i paesaggi di Cézanne sono «quelli di un pre-mondo in cui non c’erano ancora uomini».55 Prima la cosa d appariva come il termine di una teleologia corporea, la norma del nostro montaggio psicofisiologico. Ma si trattava solo di una definizione psicologica che non esplicita l’intero senso del definito e che riduce la cosa alle esperienze nelle quali la incontriamo. Ora scopriamo il nucleo di realtà: una cosa è cosa perché, a prescindere da dò che d dice, essa ce lo dice attraverso l’organizzazione stessa dei suoi aspetti sensibili. Il «reale» è quel contesto in cui ogni momento è non solo inseparabile dagli altri, ma in un certo qual modo sinonimo degli altri, in cui gli «aspetti» si significano vicendevolmente in una equivalenza assoluta; è la pienezza insuperabile: impossibile descrivere completamente il colore di un tappeto senza dire che è un tappeto, un tappeto di lana, e senza implicare in questo colore un certo valore tattile, un certo peso, una certa resistenza al suono. La cosa


è quel genere d’essere nel quale la definizione completa di un attributo esige quella dell’intero soggetto e nel quale, perdo, il senso non si distingue dall’apparenza totale. È ancora Cézanne a dire: «Il disegno e il colore non sono più distinti; a mano a mano che si dipinge, che si disegna, più il colore si armonizza, più il disegno si fa preciso... quando il colore giunge alla sua ricchezza, la forma giunge alla sua pienezza.»56 Con la struttura illuminazione-illuminato possono esserci dei piani. Con l’apparizione della cosa possono infine esserci forme e posizioni univoche. Il sistema delle apparenze, i campi prespaziali, si ancorano e infine divengono uno spazio. Ma non sono solamente i caratteri geometria a confondersi con il colore. Il senso stesso della cosa si costruisce sotto i nostri occhi, un senso che nessuna analisi verbale può esaurire e che si confonde con l’esibizione della cosa nella sua evidenza. Come diceva E. Bernard, ogni pennellata di Cézanne deve «contenere l’aria, la luce, l’oggetto, il piano, il carattere, il disegno, lo stile».57 Ogni frammento di uno spettacolo visibile soddisfa a un numero infinito di condizioni, e la peculiarità del reale consiste nel contrarre in ciascuno dei suoi momenti un’infinità di relazioni. Al pari della cosa, il quadro è da vedere e non da definire, ma, essendo come un piccolo mondo che si apre nell’altro, esso non può aspirare alla medesima solidità, e noi sentiamo bene che è fabbricato intenzionalmente, che in esso il senso precede l’esistenza e si avvolge del minimo di materia che gli è necessario per comunicarsi. Viceversa, il prodigio del mondo reale è che in esso il senso fa tutt’uno con l’esistenza e che lo vediamo installarsi davvero in quest’ultima. Nell’immaginario, credo già di aver visto non appena ho concepito l’intenzione di vedere. L’immaginario è senza profondità, non risponde ai nostri sforzi per variare i nostri punti di vista, non si presta alla nostra osservazione.58 Noi non siamo mai in presa su di esso. Per contro, in ogni percezione è la materia stessa che prende senso e forma. Se attendo qualcuno alla porta di una casa, in una via male illuminata, ogni persona che sbuca dalla porta appare per un istante sotto una forma confusa. È qualcuno che esce, e io non so ancora se posso riconoscere in lui la persona che aspetto. La sagoma ben nota nascerà da questa nebbia come la terra dalla sua nebulosa. Il reale si distingue dalle nostre finzioni perché in esso il senso investe e penetra profondamente la materia. Una volta lacerato il quadro, fra le mani non abbiamo altro che pezzi di tela verniciata. Se rompiamo una pietra e poi i frammenti di questa pietra, i pezzi, che ne otteniamo sono ancora dei pezzi di pietra. Il reale si presta a una esplorazione infinita, è inesauribile. Ecco perché gli oggetti umani, gli utensili ci appaiono come posti sul mondo, mentre le cose sono radicate in un fondo di natura inumana. Per la nostra esistenza la cosa è molto meno un polo d’attrazione che un polo di repulsione. Noi ci ignoriamo in essa, ed è appunto ciò a farne una cosa. Non cominciamo con il conoscere gli aspetti prospettici della cosa; essa non è mediata dai nostri sensi, dalle nostre sensazioni, dalle nostre prospettive, ma andiamo direttamente a essa, e solo secondariamente ci accorgiamo dei limiti della nostra conoscenza e di noi stessi come conoscenti. Ecco un dado, consideriamolo cosi come si offre nell’atteggiamento naturale a un soggetto che non si è mai interrogato sulla percezione e che vive nelle cose. Il dado è li, riposa nel mondo; se il soggetto gli gira attorno, non sono dei segni, ma dei lati del dado ad apparire, egli non percepisce delle proiezioni o anche dei profili del dado, ma vede il dado stesso ora da qui, ora da lì, le apparenze che non sono ancora cristallizzate comunicano vicendevolmente, passano l’una nell’altra, irradiano tutte da una «cubicità» centrale (Würfelbaftigkeit)59 che è il loro legame mistico. Una serie di riduzioni interviene non appena prendiamo in considerazione il soggetto percipiente. In primo luogo, noto che questo dado non è se non per me. Dopo tutto i miei vicini forse non lo vedono, e questa semplice osservazione gli fa già perdere qualcosa della sua realtà; esso cessa di essere in sé per divenire il polo di una storia personale. In seguito, noto che a rigore il dado mi è dato solo dalla vista, e cosi


non mi rimane che l’involucro del dado totale, esso perde la propria materialità, si svuota, si riduce a una struttura visiva, forma e colore, ombre e luci. Almeno la forma, il colore, le ombre, le luci non sono nel vuoto, ma hanno ancora un punto d’appoggio: la cosa visiva. In particolare, la cosa visiva ha ancora una struttura spaziale che annette alle sue proprietà qualitative un valore particolare: se mi si insegna che questo dado è solo un’apparenza fallace, d’un sol tratto il suo colore muta e non possiede più la medesima maniera di modulare lo spazio. Tutte le relazioni spaziali che possiamo trovare nel dado attraverso l’esplicitazione - per esempio la distanza della sua faccia anteriore dalla sua faccia posteriore, il valore «reale» degli angoli, la direzione «reale» dei lati - sono indivise nel suo essere di dado visibile. Si passa dalla cosa visiva all’aspetto prospettico grazie a una terza riduzione: noto che tutte le facce del dado non possono cadere sotto i miei occhi, che alcune di esse subiscono delle deformazioni. In virtù di un’ultima riduzione arrivo infine alla sensazione, la quale non è più una proprietà della cosa e nemmeno dell’aspetto prospettico, ma una modificazione del mio corpo.60 L’esperienza della cosa non passa attraverso tutte queste mediazioni, e perciò la cosa non si offre a uno spirito che coglierebbe ogni strato costitutivo come rappresentativo dello strato superiore e la costruirebbe da capo a fondo. Essa è anzitutto nella sua evidenza, e ogni tentativo per definire la cosa sia come polo della mia vita corporea, sia come possibilità permanente di sensazioni, sia come sintesi delle apparenze, sostituisce alla cosa stessa nel suo essere originario una ricostituzione imperfetta della cosa che si vale di frammenti soggettivi. Come comprendere che la cosa è il correlato del mio corpo conoscente e che al tempo stesso lo nega? Ciò che è dato, non è solamente la cosa, ma l’esperienza della cosa, una trascendenza in una scia di soggettività, una natura che traspare attraverso una storia. Se, d’accordo con il realismo, si volesse fare della percezione una coincidenza con la cosa, non si comprenderebbe più che cos’è l’evento percettivo, come il soggetto può assimilarsi la cosa, come, dopo aver coinciso con essa, può portarla nella sua storia, giacché per ipotesi non possiederebbe nulla di essa. Per percepire le cose noi dobbiamo viverle. D’altro canto noi respingiamo l’idealismo della sintesi, poiché deforma anch’esso la nostra relazione vissuta con le cose. Se il soggetto percipiente fa la sintesi del percepito, è necessario che domini e pensi una materia della percezione, che organizzi e colleghi esso stesso dall’interno tutti gli aspetti della cosa, ossia che la percezione perda la sua inerenza a un soggetto individuale e a un punto di vista, che la cosa perda la sua trascendenza e la sua opacità. Vivere una cosa non è né coincidere con essa, né pensarla da capo a fondo. Ecco qual è dunque il nostro problema. Bisogna che il soggetto percipiente, senza abbandonare il suo posto e il suo punto di vista, nell’opacità del sentire, si protenda verso cose di cui non ha anticipatamente la chiave e di cui porta però in se stesso il progetto, si apra a un Altro assoluto che egli prepara dal più profondo di se stesso. La cosa non è un blocco, e se gli aspetti percettivi, il flusso delle apparenze, non sono esplicitamente posti, per lo meno sono pronti a essere percepiti e dati in coscienza nontetica, proprio quanto basta perché io possa fuggirli nella cosa. Quando percepisco un ciottolo, io non ho espressamente coscienza di conoscerlo solo attraverso gli occhi, di averne unicamente certi aspetti prospettici: eppure, se la faccio, questa analisi non mi sorprende. Io sapevo sordamente che la percezione globale attraversava e utilizzava il mio sguardo, il ciottolo mi appariva in piena luce di fronte alle tenebre dense di organi del mio corpo. Perché indovinassi delle fenditure possibili nel blocco solido della cosa era appena necessario che per un istante chiudessi un occhio o pensassi alla prospettiva. In questo senso è giusto dire che la cosa si costituisce in un flusso di apparenze soggettive. Eppure io non la costituivo attualmente, e cioè non ponevo attivamente e in virtù di una ispezione dello spirito le relazioni fra tutti i profili sensoriali e quelle che esse hanno con i miei apparati sensoriali. È quanto abbiamo espresso dicendo che percepisco con il mio corpo. La cosa


visiva appare quando, seguendo le indicazioni dello spettacolo e raccogliendo le luci e le ombre che vi sono sparse, il mio sguardo mette capo alla superficie illuminata come a ciò che la luce manifesta. Il mio sguardo «sa» che cosa significa la tal macchia di luce nel tale contesto, comprende la logica dell’illuminazione. Più in generale, c’è una logica del mondo che il mio corpo intero sposa e attraverso la quale delle cose intersensoriali divengono possibili per noi. In quanto è capace di sinergia, il mio corpo sa che cosa significa per l’insieme della mia esperienza il tale colore in più o in meno, ne coglie immediatamente l’incidenza sulla presentazione e sul senso dell’oggetto. Avere dei sensi, per esempio avere la vista, significa possedere quel montaggio generale, quella tipica delle possibili relazioni visive mediante la quale siamo capaci di assumere ogni costellazione visiva data. Avere un corpo significa possedere un montaggio universale, una tipica di tutti gli sviluppi percettivi e di tutte le corrispondenze intersensoriali al di là del segmento del mondo che percepiamo effettivamente. Una cosa non è quindi effettivamente data nella percezione, ma è ripresa interiormente da noi, ricostituita e vissuta da noi in quanto è legata a un mondo di cui portiamo con noi le strutture fondamentali e di cui essa non è altro che una delle concrezioni possibili. Vissuta da noi, una cosa è pur sempre trascendente rispetto alla nostra vita poiché il corpo umano, con i suoi habitus che delineano attorno a esso un ambiente umano, è attraversato da un movimento verso il mondo stesso. Il comportamento animale si protende verso un ambiente (Umwelt) animale e dei centri di resistenza (Widerstand). Quando si vuole sottometterlo a stimoli naturali privi di significato concreto, si provocano delle nevrosi.61 Il comportamento umano si apre a un mondo (Welt) e a un oggetto (Gegenstand) al di là degli utensili che esso si costruisce, può anche trattare il corpo proprio come un oggetto. La vita umana si definisce per il potere che essa ha di negarsi nel pensiero oggettivo, potere che le deriva dal suo attaccamento primordiale al mondo stesso. La vita umana «comprende» non soltanto il tale ambiente definito, ma un’infinità di ambienti possibili, e comprende se stessa, poiché è gettata in un mondo naturale. Dobbiamo quindi rischiarare questa comprensione originaria del mondo. Il mondo naturale, dicevamo, è la tipica dei rapporti intersensoriali. Noi non intendiamo, alla maniera kantiana, che sia un sistema di relazioni invariabili alle quali ogni esistente va assoggettato per poter essere conosciuto. Esso non è come un cubo di cristallo le cui possibili presentazioni si lasciano tutte concepire in virtù della sua legge di costruzione e che anzi permette di vedere i suoi lati nascosti nella sua trasparenza attuale. Il mondo ha la sua unità senza che lo spirito sia giunto a collegare le sue sfaccettature e a integrarle nella concezione di un geometrale. Tale unità è paragonabile a quella di un individuo che io riconosco in una evidenza irrecusabile ancor prima di essere riuscito a dare la formula del suo carattere, poiché egli conserva il medesimo stile in ogni suo discorso e in tutta la sua condotta, anche se muta ambiente o idee. Uno stile è una certa maniera di trattare le situazioni che io identifico o comprendo in un individuo o in uno scrittore riprendendola per conto mio grazie a una sorta di mimetismo, anche se non sono in grado di definirla, e la cui definizione, per corretta che possa essere, non fornisce mai l’equivalente esatto e ha interesse solo per chi ne ha già l’esperienza. Esperisco l’unità del mondo come riconosco uno stile. Eppure lo stile di una persona, di una città, non rimane costante per me. Dopo dieci anni d’amicizia e senza tener conto dei mutamenti dell’età, mi sembra di aver a che fare con un’altra persona, dopo dieci anni di residenza mi sembra di aver a che fare con un altro quartiere. Viceversa, è solo la conoscenza delle cose a variare. Quasi insignificante al mio primo sguardo, essa si trasforma grazie allo sviluppo della percezione. Il mondo stesso resta il medesimo mondo attraverso tutta la mia vita, poiché è appunto l’essere permanente all’interno del quale io effettuo tutte le correzioni della conoscenza, che non è raggiunto da esse nella


sua unità, e la cui evidenza polarizza il movimento verso la verità attraverso l’apparenza e l’errore. Esso è ai confini della prima percezione del fanciullo come una presenza ancora ignota, ma irrecusabile, che successivamente la conoscenza determinerà e riempirà. Io mi inganno, devo rivedere le mie incertezze e respingere dall’essere le mie illusioni, ma nemmeno per un istante metto in dubbio che, in se stesse, le cose siano state compatibili e compossibili, poiché sin dall’origine io sono in comunicazione con un solo essere, un immenso individuo dal quale vengono prelevate le mie esperienze e che rimane all’orizzonte della mia vita cosi come il rumore di una grande città serve da sfondo a tutto ciò che noi facciamo in essa. Si dice che i suoni o i colori appartengono a un campo sensoriale, poiché, una volta percepiti, dei suoni non possono essere seguiti se non da altri suoni, o dal silenzio, che non è un nulla uditivo, ma assenza di suoni, e che quindi mantiene la nostra comunicazione con l’essere sonoro. Se rifletto e se nel frattempo cesso di udire, nel momento in cui riprendo contatto con i suoni, questi mi appaiono come già là, ritrovo un filo che avevo lasciato cadere e che non è rotto. Il campo è un montaggio che io ho per un certo tipo di esperienze e che, una volta stabilito, non può essere annullato. Il nostro possesso del mondo è dello stesso genere, tranne in ciò: che si può concepire un soggetto senza campo uditivo e non un soggetto senza mondo.62 Come, nel soggetto che ascolta, l’assenza di suoni non rompe la comunicazione con il mondo sonoro, cosi, in un soggetto sordo e cieco dalla nascita, l’assenza del mondo visivo e del mondo uditivo non rompe la comunicazione con il mondo in generale, c’è sempre qualcosa di fronte a lui, dell’essere da decifrare, una omnitudo reditatis, e questa possibilità è fondata per sempre dalla prima esperienza sensoriale, per angusta o imperfetta che sia. Non abbiamo altro modo di sapere che cos’è il mondo se non quello di riprendere tale affermazione che in ogni istante si fa in noi, e ogni definizione del mondo si ridurrebbe a una serie di connotati astratti che non ci direbbero nulla se non avessimo già accesso al definito, se non lo conoscessimo per il solo fatto che siamo. Tutte le nostre operazioni logiche di significazione devono fondarsi sull’esperienza del mondo, e il mondo stesso non è quindi un certo significato, comune a tutte le nostre esperienze, che noi leggeremmo attraverso di esse, un’idea che verrebbe ad animare la materia della conoscenza. Noi non abbiamo del mondo una serie di profili che una coscienza dentro di noi collegherebbe. Certo, il mondo si profila, in primo luogo spazialmente: vedo solo il lato sud del viale, se attraversassi la strada ne vedrei il lato nord; vedo solo Parigi, la campagna che ho lasciato da poco è ricaduta in una specie di vita latente; più profondamente, i profili spaziali sono anche temporali: un altrove è sempre qualcosa che si è visto o che si potrebbe vedere, e anche se lo percepisco come simultaneo con il presente è perché esso appartiene alla medesima onda di durata. La città a cui mi avvicino muta aspetto, ed è ciò che esperisco quando per un istante la lascio con gli occhi e la guardo di nuovo. Ma i profili non si succedono o non si giustappongono davanti a me. In questi diversi momenti la mia esperienza si congiunge con se stessa in modo tale che io non ho differenti vedute prospettiche collegate dalla concezione di un invariante. Il corpo percipiente non occupa di volta in volta diversi punti di vista sotto lo sguardo di una coscienza senza luogo che li pensa. È la riflessione a oggettivare, i punti di vista o le prospettive, nella percezione io inerisco, attraverso il mio punto di vista, al mondo intero, e non conosco nemmeno i limiti del mio campo visivo. È solo una variazione impercettibile, un certo «mosso» dell’apparenza a farci sospettare la diversità dei punti di vista. Se i profili successivi si distinguono realmente, come nel caso in cui mi avvicino in automobile a una città e la guardo solo in modo intermittente, non c’è più percezione della città, mi trovo improvvisamente di fronte a un altro oggetto senza comune misura con il precedente. Alla fine giudico: «È certo Chartres», saldo insieme le due apparenze, ma in quanto sono entrambe prelevate da una sola percezione del mondo, che di conseguenza non può ammettere la medesima discontinuità. Non si può costruire la percezione della


cosa e del mondo a partire dà profili distinti più di quanto si possa costruire la visione binoculare di un oggetto a partire dalle due immagini monoculari, e le mie esperienze del mondo si integrano a un solo mondo come l’immagine doppia scompare nella cosa unica, quando il mio dito cessa di comprimere il globo oculare. Non ho una veduta prospettica, poi un’altra, e tra di esse un collegamento d’intelletto, ma ogni prospettiva passa nell’altra e, se si può ancora parlare di sintesi, si tratta di una «sintesi di transizione». In particolare, la visione attuale non è limitata a ciò che il mio campo visivo mi offre effettivamente, e la stanza vicina, il paesaggio dietro questa collina, l’interno o il retro di questo oggetto non è evocato o rappresentato. Il mio punto di vista è per me molto meno una limitazione della mia esperienza che un modo di introdurmi nel mondo intero. Quando guardo l’orizzonte, esso non mi fa pensare a quell’altro paesaggio che vedrei se vi fossi situato, quest’ultimo a un terzo paesaggio e cosi via, io non mi rappresento nulla, ma tutti i paesaggi sono già là nella concatenazione concordante e nella infinità aperta delle loro prospettive. Quando guardo il verde brillante di un vaso di Cézanne, questo verde non mi fa pensare alla ceramica, ma me la presenta, essa è là, con la sua crosta sottile e liscia e il suo interno poroso, nella maniera particolare in cui si modula il verde. Nell’orizzonte interno ed esterno della cosa o del paesaggio c’è una co-presenza o una co-esistenza dei profili che si intreccia attraverso lo spazio e il tempo. Il mondo naturale è l’orizzonte di tutti gli orizzonti, lo stile di tutti gli stili, che, al di sotto di tutte le rotture della mia vita personale e storica, garantisce alle mie esperienze una unità data e non voluta, e il cui correlato è in me l’esistenza data, generale e prepersonale delle mie funzioni sensoriali in cui abbiamo trovato la definizione del corpo. Ma in che modo posso avere l’esperienza del mondo come di un individuo esistente in atto, se nessuna delle vedute prospettiche che assumo nei suoi confronti lo esaurisce, se gli orizzonti sono sempre aperti e se d’altra parte nessun sapere, nemmeno quello scientifico, ci dà la formula invariabile di una facies totius universi? In che modo una cosa può mai presentarsi a noi per davvero, se la sua sintesi non è mai compiuta, se posso sempre aspettarmi di vederla dissolversi e decadere al rango di semplice illusione? Tuttavia, c’è qualcosa e non niente. C’è determinazione, almeno in un certo grado di relatività. Anche se in definitiva non conosco questa pietra assolutamente, anche se la conoscenza, in ciò che la concerne, va via via all’infinito e non si compie mai, è pur sempre vero che la pietra percepita è là, che la riconosco, che l’ho nominata e che noi ci intendiamo su un certo numero di enunciazioni nei suoi confronti. Così, sembra che siamo condotti a una contraddizione: la credenza alla cosa e al mondo non può significare se non la presunzione di una sintesi compiuta -, e tuttavia questo compimento è reso impossibile dalla natura stessa delle prospettive da collegare, giacché, attraverso i propri orizzonti, ciascuna di esse rinvia indefinitamente ad altre prospettive. In realtà c’è contraddizione finché operiamo nell’essere, ma, se operiamo nel tempo e se riusciamo a comprendere il tempo come misura dell’essere, la contraddizione cessa, o meglio, si generalizza, si collega alle condizioni ultime della nostra esistenza, si confonde con la possibilità di vivere e di pensare. La sintesi di orizzonti è essenzialmente temporale, vale a dire che non è assoggettata al tempo, non lo subisce, non deve superarlo, ma si confonde con il movimento stesso in virtù del quale il tempo passa. Grazie al mio campo percettivo con i suoi orizzonti spaziali, io sono presente al mio mondo circostante, coesisto con tutti gli altri paesaggi che si estendono al di là, e tutte queste prospettive formano insieme una sola onda temporale, un istante del mondo; grazie al mio campo percettivo con i suoi orizzonti temporali, io sono presente al mio presente, a tutto il passato che l’ha preceduto e a un avvenire. E al tempo stesso questa ubiquità non è effettiva, ma è, in modo manifesto, solo intenzionale. Il paesaggio che ho sotto gli occhi può si annunciarmi la configurazione di quello che è celato dietro la collina, ma


non lo fa se non in un certo grado di indeterminazione: qui ci sono dei prati, laggiù ci saranno forse dei boschi e, in ogni caso, so soltanto che, al di là dell’orizzonte prossimo, ci sarà la terra o il mare, al di là ancora il mare libero o il mare gelato, al di là ancora l’ambiente terrestre o l’aria, e, ai confini dell’atmosfera terrestre, so soltanto che c’è da percepire qualcosa in generale: di queste lontananze io non possiedo più se non lo stile astratto. Parimenti - quantunque a poco a poco ogni passato venga racchiuso per intero nel passato più recente che gli è succeduto immediatamente, grazie al reciproco incorporarsi delle intenzionalità -, il passato si degrada, e i miei primi anni si perdono nell’esistenza generale del mio corpo, del quale so soltanto che era già di fronte a colori, a suoni e a una natura simile a quella che vedo ora. Il mio possesso del lontano e del passato, come quello dell’avvenire, non è dunque tale se non in linea di principio: la mia vita mi sfugge da tutte le parti, è circoscritta da zone impersonali. La contraddizione che riscontriamo tra la realtà del mondo e la sua incompiutezza è la contraddizione fra l’ubiquità della coscienza e la sua inerenza a un campo di presenza. Ma, se guardiamo più dappresso, si tratta proprio di una contraddizione e di una alternativa? Dopo tutto, è per transizione insensibile che si passa dal presente al passato, dal vicino al lontano, ed è impossibile separare rigorosamente il presente da ciò che è soltanto presentificato: di conseguenza, se dico che sono chiuso nel mio presente, la trascendenza dei lontani intacca il mio presente e introduce un sospetto di irrealtà persino nelle esperienze con le quali credo di coincidere. Se sono qui e ora, non sono né qui né ora. Se invece considero i miei rapporti intenzionali con il passato e con l’altrove come costitutivi del passato e dell’altrove, se voglio sottrarre la coscienza a ogni località e a ogni temporalità, se sono ovunque mi conducano la mia percezione e la mia memoria, non posso abitare nessun tempo e, con la realtà privilegiata che definisce il mio presente attuale, scompare quella dei miei presenti trascorsi o dei miei presenti eventuali. Se la sintesi potesse essere effettiva, se la mia esperienza formasse un sistema chiuso, se la cosa e il mondo potessero essere definiti una volta per tutte, se gli orizzonti spazio-temporali potessero, anche idealmente, essere esplicitati e il mondo pensato senza punti di vista, allora non esisterebbe nulla, io sorvolerei il mondo, e, anziché diventare simultaneamente reali, tutti i luoghi e tutti i tempi cesserebbero di esserlo perché io non ne abiterei nessuno e mancherei sempre di inerenza. Se sono sempre e ovunque, non sono mai e in nessun luogo. Cosi, non c’è da scegliere fra l’incompiutezza del mondo e la sua esistenza, fra l’inerenza e l’ubiquità della coscienza, fra la trascendenza e l’immanenza, giacché, quando è affermato da solo, ciascuno di questi termini fa apparire quello che lo contraddice. Dobbiamo comprendere che la medesima ragione mi rende presente qui e ora e presente altrove e sempre, assente da qui e da ora e assente da ogni luogo e da ogni tempo. Questa ambiguità non è una imperfezione della coscienza o dell’esistenza, ma ne è la definizione. Il tempo in senso lato, cioè l’ordine delle coesistenze quanto l’ordine delle successioni, è un ambito al quale non si può accedere e che non si può comprendere se non occupandovi una situazione e cogliendolo per intero attraverso gli orizzonti di questa situazione. Il mondo, che è il nucleo del tempo, sussiste unicamente in virtù di quel movimento unico che disgiunge il presentificato dal presente e in pari tempo li compone, e la coscienza, che è considerata come il luogo della chiarezza, è viceversa il luogo stesso dell’equivoco. In queste condizioni si può anche dire, se si vuole, che nulla esiste assolutamente, e in realtà sarebbe più esatto dire che nulla esiste e che tutto si temporalizza. Ma la temporalità non è un’esistenza diminuita. L’essere oggettivo non è l’esistenza piena. Il suo modello ci è fornito da quelle cose di fronte a noi che al primo sguardo paiono assolutamente determinate: la tal pietra è bianca, dura, tiepida, il mondo pare cristallizzarsi in essa, sembra che questa pietra non abbia bisogno di tempo per esistere, che si dispieghi interamente nell’istante, che ogni aggiunta di esistenza sia per essa una nuova nascita, e si sarebbe tentati di credere per un momento che il mondo,


se è qualcosa, non può essere altro che una somma di cose analoghe a questa pietra, il tempo una somma di istanti perfetti. Tali sono il mondo e il tempo cartesiani, ed è ben vero che questa concezione dell’essere è come inevitabile, poiché io ho un campo visivo con oggetti circoscritti, un presente sensibile, e poiché ogni «altrove» si dà come un altro qui, ogni passato e ogni avvenire come un presente trascorso o futuro. La percezione di una sola cosa fonda per sempre l’ideale di conoscenza oggettiva o esplicita che la logica classica sviluppa. Ma non appena ci si appoggia su queste certezze, non appena si risveglia la vita intenzionale che le genera, ci si accorge che l’essere oggettivo ha le sue radici nelle ambiguità del tempo. Io non posso concepire il mondo come una somma di cose, né il tempo come una somma di «adesso» puntuali: infatti, ogni cosa può offrirsi con le sue determinazioni piene solo se le altre cose si ritirano nella indeterminatezza dei lontani, ogni presente può offrirsi nella sua realtà solo escludendo la presenza simultanea dei presenti anteriori e posteriori, e pertanto una somma di cose o una somma di presenti è un non senso. Le cose e gli istanti non possono articolarsi uno sull’altro per formare un mondo se non attraverso quell’essere ambiguo che chiamiamo una soggettività, non possono divenire co-presenti se non da un certo punto di vista e in intenzione. Il tempo oggettivo che scorre ed esiste parte per parte non sarebbe nemmeno ipotizzato, se non fosse avvolto in un tempo storico che si proietta dal presente evidente verso un passato e verso un avvenire. La pretesa pienezza dell’oggetto e dell’istante sorge solo di fronte all’imperfezione dell’essere intenzionale. Un presente senza avvenire o un eterno presente è esattamente la definizione della morte, il presente vivente è lacerato fra un passato che esso riprende e un avvenire che proietta. Alla cosa e al mondo è dunque essenziale presentarsi come «aperti», rinviarci al di là delle loro manifestazioni determinate, promettere sempre «altro da vedere». È quanto talvolta si esprime dicendo che la cosa e il mondo sono misteriosi. In realtà, essi lo sono appena non ci si limita al loro aspetto oggettivo e li si ricolloca nell’ambito della soggettività. Sono anzi un mistero assoluto che non è suscettibile di essere illuminato, non per una carenza provvisoria della nostra conoscenza, che allora si ridurrebbe a un semplice problema, ma perché non è riconducibile al pensiero oggettivo, nel quale esistono delle soluzioni. Non c’è nulla da vedere al di là dei nostri orizzonti, se non ancora altri paesaggi e altri orizzonti, nulla all’interno della cosa, se non altre cose più piccole. L’ideale del pensiero oggettivo è fondato e insieme distrutto dalla temporalità. Il mondo, nel senso pieno della parola, non è un oggetto, ha si un involucro di determinazioni oggettive, ma anche delle spaccature, delle lacune attraverso le quali le soggettività si introducono in esso, o meglio: queste spaccature, queste lacune sono le soggettività stesse. Ora comprendiamo perché le cose, che devono al mondo il loro senso, non sono significati offerti all’intelligenza, ma strutture opache, e perché il loro senso ultimo rimane confuso. La cosa e il mondo non esistono se non vissuti da me o da soggetti come me, poiché sono la concatenazione delle nostre prospettive, ma trascendono tutte le prospettive poiché questa concatenazione è temporale e incompiuta. Mi sembra che il mondo viva se stesso fuori di me, come i paesaggi assenti continuano a vivere se stessi al di là del mio campo visivo e come una volta il mio passato ha vissuto se stesso al di qua del mio presente. L’allucinazione disintegra il reale sotto i nostri occhi, gli sostituisce una quasi-realtà; in entrambi i modi il fenomeno allucinatorie ci riconduce ai fondamenti prelogici della nostra conoscenza e conferma ciò che abbiamo detto sulla cosa e sul mondo. Il fatto capitale è che i malati distinguono, il più delle volte, le loro allucinazioni e le loro percezioni. Schizofrenici che hanno allucinazioni tattili di punture o di «corrente elettrica» sussultano quando si fa loro una iniezione di cloruro di etile o si applica al loro corpo una vera e propria corrente elettrica: «Questa volta, dicono al medico, siete voi, è per operarmi...» Un altro schizofrenico, che diceva di vedere nel giardino un uomo fermo sotto


la propria finestra e indicava il luogo, il vestito, l’atteggiamento, rimane stupefatto quando si colloca effettivamente qualcuno nel giardino nel luogo indicato, con lo stesso abbigliamento e nella medesima postura. Egli guarda attentamente: «È vero, c’è qualcuno, è un altro.» Rifiuta di contare due uomini nel giardino. Una malata che non ha mai dubitato delle voci da lei udite, quando le si fanno ascoltare al grammofono delle voci analoghe alle sue, interrompe il lavoro, alza la testa senza girarsi, vede apparire un angelo bianco, come accade ogni volta che sente le sue voci, ma non annovera questa esperienza fra le «voci» udite durante il giorno: questa volta non è la stessa cosa, è una voce «diretta», forse quella del medico. Una demente senile che si lamenta di trovare della polvere nel proprio letto, sobbalza quando vi trova veramente un sottile strato di polvere di riso: «Che cos’è? Questa polvere è umida, l’altra è secca.» In un delirio da alcoolismo, il soggetto che vede la mano del medico come un porcellino d’India nota subito che nell’altra mano è stato collocato un vero e proprio porcellino d’India.63 Se i malati dicono cosi spesso che si parla loro per telefono o per radio, è appunto per esprimere che il mondo morboso è fittizio e che gli manca qualcosa per essere una «realtà». Le voci sono voci di persone grossolane o «di persone che si fingono tali», è un giovane a simulare la voce di un vecchio, è «come se un tedesco tentasse di parlare yiddish».64 «È come quando una persona dice qualcosa senza che l’espressione giunga fino al suono.»65 Queste confessioni non pongono fine a tutte le discussioni sull’allucinazione? Poiché l’allucinazione non è un contenuto sensoriale, resta solo da considerarla come un giudizio, come una interpretazione o come una credenza. Ma anche se i malati non credono all’allucinazione nello stesso senso in cui si crede agli oggetti percepiti, una teoria intellettualistica dell’allucinazione è egualmente impossibile. Alain cita il detto di Montaigne sui pazzi «che credono di vedere ciò che in realtà non vedono».66 Ma, per l’appunto, i pazzi non credono di vedere o, per poco che li si interroghi, correggono quanto hanno detto in proposito. L’allucinazione non è un giudizio o una credenza temeraria per quegli stessi motivi che le impediscono di essere un contenuto sensoriale: il giudizio o la credenza non potrebbero consistere se non nel porre l’allucinazione come vera, ed è appunto ciò che i malati non fanno. Sul piano del giudizio essi distinguono l’allucinazione e la percezione, in ogni caso argomentano contro le proprie allucinazioni: dei topi non possono uscire dalla bocca e rientrare nello stomaco,67 un medico che ode delle voci sale in barca e rema verso il largo per persuadersi che nessuno gli parla veramente.68 Quando sopraggiunge la crisi allucinatoria, il topo e le voci sono ancora là. Perché l’empirismo e l’intellettualismo non riescono a comprendere l’allucinazione? Quale altro metodo ci permetterà invece di comprenderla? L’empirismo tenta di spiegare l’allucinazione come la percezione: per effetto di certe cause fisiologiche, per esempio l’irritazione dei centri nervosi, certi dati sensibili apparirebbero come appaiono nella percezione in seguito all’azione degli stimoli fisici sugli stessi centri nervosi. A prima vista non c’è nulla che apparenti queste ipotesi fisiologiche e la concezione intellettualistica. In realtà, come vedremo, c’è questo di comune: che entrambe le dottrine presuppongono la priorità del pensiero oggettivo, non dispongono se non di un unico modo di essere, l’essere oggettivo, e cercano di introdurvi forzatamente il fenomeno allucinatorio. Pertanto esse lo falsano, non ne colgono il modo proprio di certezza e il senso immanente, giacché, secondo il malato stesso, l’allucinazione non ha posto nell’essere oggettivo. Per l’empirismo l’allucinazione è un evento nella catena di eventi che va dallo stimolo allo stato di coscienza. Nell’intellettualismo si cerca di liberarsi dell’allucinazione, di costruirla, di dedurre ciò che essa può essere a partire da una certa idea della coscienza. Il cogito ci insegna che l’esistenza della coscienza si confonde con la coscienza di esistere, che quindi in essa non può esserci nulla senza che essa stessa lo sappia, che, reciprocamente, tutto ciò che sa con certezza, essa lo trova in se stessa, che perciò la verità o la


falsità di un’esperienza non devono consistere nel suo rapporto con un reale esterno, ma essere leggibili in essa a titolo di denominazioni intrinseche, altrimenti non potrebbero mai essere riconosciute. Così, le percezioni false non sono vere percezioni. L’allucinato non può udire o vedere nel senso pregnante di queste parole. Egli giudica, crede di vedere o di udire, ma in realtà non vede e non sente. Questa conclusione non salva nemmeno il cogito: infatti, resterebbe da sapere come un soggetto può credere di udire mentre non ode effettivamente. Se si dice che questa credenza è semplicemente assertoria, che è una conoscenza di primo genere, una di quelle apparenze fluttuanti alle quali non si crede nel senso pieno del termine e che sussistono solo in mancanza di critica, in breve, se si dice che è un semplice stato di fatto della nostra conoscenza, si tratterà allora di sapere come una coscienza può trovarsi, senza saperlo, in questa condizione di incompletezza o, se lo sa, come può aderirvi.69 Il cogito intellettualistico non lascia di fronte a sé se non un cogitatum purissimo che esso possiede e costituisce da capo a fondo. È una difficoltà insormontabile comprendere come questo cogito può ingannarsi su un oggetto che costituisce. Pertanto, è proprio la riduzione della nostra esperienza a degli oggetti, la priorità del pensiero Oggettivo che, anche qui, distoglie lo sguardo dal fenomeno allucinatorio. Fra la spiegazione empiristica e la riflessione intellettualistica corre una profonda parentela che è la loro comune ignoranza dei fenomeni. Entrambe costruiscono il fenomeno allucinatorie anziché viverlo. Anche ciò che v’è di nuovo e di valido nell’intellettualismo - la differenza di natura che esso stabilisce fra percezione e allucinazione - è compromesso dalla priorità del pensiero oggettivo: se il soggetto allucinato conosce oggettivamente o pensa la sua allucinazione come tale, in che modo è possibile l’impostura allucinatoria? Tutto deriva dal fatto che il pensiero oggettivo, la riduzione delle cose vissute in oggetti, della soggettività alla cogitatio, ignora l’adesione equivoca del soggetto a fenomeni preoggettivi. La conseguenza è quindi chiara. Non si deve più costruire l’allucinazione né, in generale, la coscienza in base a una certa essenza o idea della coscienza stessa che costringe a definirla come una adeguazione assoluta e rende impensabili i suoi arresti di sviluppo. Si impara a conoscere la coscienza come qualsiasi altra cosa. Quando l’allucinato dice di vedere e di udire, non si deve crederlo,70 giacché egli dice anche il contrario, ma si deve comprenderlo. Non dobbiamo attenerci alle opinioni della coscienza sana sulla coscienza allucinata e considerarci come unici giudici del senso proprio dell’allucinazione. A questa osservazione si risponderà certo che io non posso cogliere l’allucinazione cosi come è per se stessa. Chi pensa l’allucinazione o l’altro o il suo proprio passato non coincide mai con l’allucinazione, con l’altro, con il proprio passato quale è stato. La conoscenza non può mai oltrepassare questo limite della fatticità. D’accordo, ma ciò non deve servire a giustificare le costruzioni arbitrarie. È vero che non si parlerebbe di nulla se si dovesse parlare soltanto delle esperienze con le quali si coincide, giacché la parola è già una separazione. Inoltre, non c’è esperienza senza parola, e nella vita parlante dell’uomo il puro vissuto non esiste nemmeno. Ma il senso primo della parola è nondimeno in quel testo di esperienza che essa tenta di proferire. Ciò che cerchiamo non è una coincidenza chimerica di me con l’altro, dell’io presente con il suo passato, del medico con il malato; non possiamo assumere la situazione dell’altro, rivivere il passato nella sua realtà, la malattia cosi come è vissuta dal malato. La coscienza altrui, il passato, la malattia, non si riconducono mai, nella loro esistenza, a ciò che io ne so. Ma, in quanto esiste e in quanto si impegna, nemmeno la mia propria coscienza si riconduce a ciò che io ne so. Se il filosofo si procura delle allucinazioni per mezzo di una iniezione di mescalina, o cede all’insorgere dell’allucinazione, e allora la vivrà senza conoscerla, o conserva qualcosa del suo potere riflessivo e si potrà sempre rifiutare la sua testimonianza, che non è quella di un allucinato «impegnato» nella allucinazione. La conoscenza di sé non è quindi privilegiata, e l’altro non è mai più impenetrabile di me stesso. Non è che ci sia io e al lato opposto l’altro, che ci sia il


mio presente e al lato opposto il mio passato, la coscienza sana con il suo cogito e al lato opposto la coscienza allucinata, la prima essendo l’unico giudice della seconda ed essendo ridotta, in ciò che la concerne, alle sue congetture interne - ma ci sono io con l’altro, c’è il mio passato all’orizzonte del presente, il medico con il malato. Io deformo il mio passato evocandolo al presente, ma posso tener conto anche di queste deformazioni, esse mi sono indicate dalla tensione che sussiste fra il passato abolito che ho di mira e le mie interpretazioni arbitrarie. Mi inganno sull’altro perché lo vedo dal mio punto di vista, ma lo sento protestare e infine ho l’idea dell’altro come di un centro di prospettive. All’interno della mia propria situazione mi appare quella del malato che interrogo e, in questo fenomeno a due poli, imparo a conoscermi nella stessa misura in cui imparo a conoscere l’altro. Dobbiamo ricollocarci nella situazione effettiva in cui delle allucinazioni e del «reale» si offrono a noi, e cogliere la loro differenziazione concreta nel momento in cui essa si effettua nella comunicazione con il malato. Sono seduto di fronte al mio soggetto e chiacchiero con lui, egli tenta di descrivermi ciò che «vede» e ciò che «ode»; non si tratta né di crederlo sulla parola, né di ridurre le sue esperienze alle mie, né di coincidere con lui, né di attenermi al mio punto di vista, ma di esplicitare la mia esperienza e la sua esperienza quale si indica nella mia, la sua credenza allucinatoria e la mia credenza reale, di comprendere l’una attraverso l’altra. Se classifico le voci e le visioni del mio interlocutore fra le allucinazioni, lo faccio perché non trovo nulla di simile nel mio mondo visivo o uditivo. Io ho dunque coscienza di cogliere con l’udito e soprattutto con la vista un sistema di fenomeni che non costituisce soltanto uno spettacolo privato, ma che è l’unico possibile per me e anche per l’altro: questo è ciò che chiamiamo il reale. Il mondo percepito non è solamente il mio mondo, in esso io vedo delinearsi i comportamenti altrui e anche tali comportamenti tendono verso di esso: questo mondo è il correlato non solo della mia coscienza, ma anche di ogni coscienza che posso incontrare. Ciò che vedo con i miei occhi esaurisce per me le possibilità della visione. Naturalmente io lo vedo solo sotto un certo angolo, e ammetto che uno spettatore diversamente disposto vede ciò che io mi limito a indovinare. Ma questi altri spettacoli sono attualmente implicati nel mio cosi come la parte posteriore o inferiore degli oggetti è percepita contemporaneamente alla loro faccia visibile, o come la stanza vicina preesiste alla percezione che ne avrei effettivamente se mi d recassi; le esperienze altrui o quelle che otterrò muovendomi non fanno altro che sviluppare ciò che è indicato dagli orizzonti della mia esperienza attuale e non vi aggiungono nulla. La mia percezione fa coesistere un numero indefinito di catene percettive che la confermerebbero in ogni punto e concorderebbero con essa. Il mio sguardo e la mia mano sanno che ogni spostamento effettivo susciterebbe una risposta sensibile esattamente conforme alla mia attesa; io sento pullulare sotto il mio sguardo la massa infinita delle percezioni più dettagliate che posseggo in anticipo e sulle quali ho presa. Ho quindi coscienza di percepire un contesto che non «tollera» nulla di pili di dò che è scritto o indicato nella mia percezione, comunico nel presente con una pienezza insuperabile.71 L’allucinato non crede a tanto: il fenomeno allucinatorio non fa parte del mondo, dò significa che non è accessibile, che non c’è un tracciato definito che conduca da questo fenomeno a tutte le altre esperienze del soggetto allucinato o all’esperienza dei soggetti sani. «Non udite le mie voci?» dice il malato «Sono quindi l’unico a sentirle.»72 Le allucinazioni si svolgono su una scena diversa da quella del mondo percepito, sono come in sovrimpressione: «Ecco, dice un malato, mentre stiamo parlando mi si dice questo e quello, e quale potrebbe essere l’origine di questa voce?»73 Se l’allucinazione non prende posto nel mondo stabile e intersoggettivo, è perché le manca la pienezza, l’articolazione interna, le quali fanno si che la cosa vera riposi «in sé», agisca ed esista per se stessa. La cosa allucinatoria non è, come la cosa vera, densa di piccole percezioni che la facciano esistere. È un significato implicito e inarticolato. Di fronte alla cosa vera il nostro


comportamento si sente motivato da «stimoli» che ne riempiono e ne giustificano l’intenzione. Se si tratta di un fantasma, l’iniziativa viene da noi, non ha una rispondenza all’esterno.74 La cosa allucinatoria non è, come la cosa vera, un essere profondo che contrae in se stesso uno spessore di durata, e l’allucinazione non è, come la percezione, la mia presa concreta sul tempo in un presente vivente. Essa sorvola sul tempo come sul mondo. La persona che mi parla in sogno non ha nemmeno aperto bocca, il suo pensiero mi viene comunicato magicamente, io so ciò che essa mi dice ancor prima che abbia detto qualcosa. L’allucinazione non è nel mondo, ma «davanti» a esso, giacché il corpo dell’allucinato ha perduto il suo inserimento nel sistema delle apparenze. «È come se udissi con la bocca.» «Colui che parla se ne sta sulle mie labbra»,75 dicono i malati. Nei «sentimenti di presenza» (leibhaften Bewusstheiten) i malati avvertono immediatamente accanto a sé, dietro di sé o su di sé, la presenza di qualcuno che non vedono mai, lo sentono avvicinarsi o allontanarsi. Una schizofrenica ha continuamente l’impressione di essere vista nuda e di schiena. George Sand ha un duplicato di se stessa che essa non ha mai visto, ma che la vede continuamente, e la chiama per nome con la sua propria voce.76 La spersonalizzazione e il perturbamento dello schema corporeo si traducono immediatamente in un fantasma esteriore, poiché per noi è la stessa cosa percepire il nostro corpo e percepire la nostra situazione in un certo ambiente fisico e umano, poiché il nostro corpo non è altro che questa situazione stessa in quanto è realizzata ed effettiva. Nell’allucinazione extracampina il malato crede di vedere un uomo dietro di sé, crede di vedere da tutte le parti attorno a sé, crede di poter guardare attraverso una finestra che si trova dietro la sua schiena.77 L’illusione di vedere è quindi molto meno la presentazione di un oggetto illusorio che il dispiegamento e, per cosi dire, l’impazzimento di una potenza visiva ormai senza contropartita sensoriale. Ci sono allucinazioni perché, attraverso il corpo fenomenico, abbiamo una relazione costante con un ambiente in cui esso si proietta e perché, staccato dall’ambiente effettivo, il corpo rimane capace di evocare mediante i propri montaggi una pseudo-presenza di tale ambiente. In questa misura la cosa allucinatoria non è mai vista né visibile. Sotto l’effetto della mescalina, un soggetto percepisce la vite di un apparecchio come un’ampolla di vetro o come una protuberanza in un pallone di gomma. Ma che cosa vede di preciso? «Percepisco un mondo pieno di rigonfiamenti... È come se improvvisamente si cambiasse la chiave della mia percezione e mi si facesse percepire in chiave di rigonfiamento, come si suona un pezzo in do o in si bemolle... In quell’istante tutta la mia percezione si trasformò e per un attimo percepii una ampolla di gomma. Ciò significa forse che non vidi nulla di più? No, ma mi sentivo “predisposto” in modo tale che non potevo percepire diversamente. Mi pervase la credenza che il mondo è tale... Poi si verificò un altro mutamento... Tutto mi apparve pastoso e al tempo stesso squamoso, come certi grossi serpenti che ho visto avvolgersi nelle loro spire allo Zoo di Berlino. In quel momento temetti di essere su un isolotto circondato da serpenti.»78 L’allucinazione non mi dà i ringofiamenti, le squame, le parole come realtà pesanti che a poco a poco rivelano il loro senso. Essa riproduce solo la maniera in cui queste realtà mi colpiscono nel mio essere sensibile e nel mio essere linguistico. Quando il malato rifiuta un cibo come «avvelenato», dobbiamo comprendere che per lui questo termine non ha il senso che avrebbe per un chimico:79 il malato non crede che nel corpo oggettivo l’alimento possieda effettivamente delle proprietà tossiche. Il veleno è qui una entità affettiva, una presenza magica come quella della malattia e della disgrazia. La maggior parte delle allucinazioni non sono cose sfaccettate, ma fenomeni effimeri, punture, scosse, scoppi, correnti d’aria, ondate di freddo o di caldo, scintille, punti brillanti, bagliori, profili.80 Quando si tratta di vere e proprie cose, come per esempio un topo, queste cose sono rappresentate solo per il loro stile o per la loro fisionomia. Tali fenomeni inarticolati non sono suscettibili di


essere collegati da rapporti di causalità precisa. Il loro unico rapporto è un rapporto di coesistenza una coesistenza che ha sempre un senso per il malato, poiché la coscienza del fortuito presuppone delle serie causali precise e distinte, mentre qui ci troviamo fra gli avanzi di un mondo distrutto. «Il gocciolamento del naso diviene un gocciolamento particolare, il fatto di sonnecchiare nel metrò acquista un significato singolare,»81 Le allucinazioni sono collegate a un certo dominio sensoriale solo in quanto ogni campo sensoriale offre particolari possibilità d’espressione all’alterazione dell’esistenza. Lo schizofrenico ha soprattutto allucinazioni uditive e tattili perché il mondo dell’udito e del tatto, a motivo della sua struttura naturale, può, meglio di un altro, raffigurare un’esistenza ossessionata, esposta, livellata. L’alcolizzato ha soprattutto allucinazioni visive perché l’attività delirante trova nella vista la possibilità di evocare un avversario o un compito ai quali far fronte.82 L’allucinato non vede e non ode nel senso del soggetto normale, si vale dei propri campi sensoriali e del proprio inserimento naturale in un mondo per fabbricarsi, con gli avanzi di questo mondo, un ambiente fittizio conforme all’intenzione totale del suo essere. Ma se non è sensoriale, l’allucinazione è ancor meno un giudizio, non è data al soggetto come una costruzione, non prende posto nel «mondo geografico», cioè nell’essere che conosciamo e di cui giudichiamo, nel tessuto dei fatti regolati da leggi, ma nel «paesaggio»83 individuale attraverso il quale il mondo ci tocca e attraverso il quale noi siamo in comunicazione vitale con esso. Una malata afferma che al mercato qualcuno l’ha guardata, che ha sentito questo sguardo come un colpo senza poter dire da dove veniva. Essa non vuol dire che, nello spazio visibile per tutti, c’era una persona in carne e ossa che ha volto gli occhi verso di lei - ecco perché gli argomenti che possiamo opporle non tengono conto di lei. Per la malata non si tratta di ciò che accade nel mondo oggettivo, ma di ciò che essa incontra, di ciò che la tocca o la colpisce. Il cibo che l’allucinato rifiuta è avvelenato solamente per lui, ma lo è in modo inconfutabile. L’allucinazione non è una percezione, però vale come realtà, essa sola conta per l’allucinato. Il mondo percepito ha perduto la sua forza espressiva84 e il sistema allucinatorio l’ha usurpata. Quantunque l’allucinazione non sia una percezione, c’è una impostura allucinatoria, ed è ciò che non comprenderemo mai se trasformiamo l’allucinazione in una operazione intellettuale. È necessario che, per differente che sia da una percezione, l’allucinazione possa soppiantarla ed esistere per il malato più delle sue proprie percezioni. Ciò è possibile solamente se allucinazione e percezione sono modalità di una unica funzione primordiale, grazie alla quale disponiamo attorno a noi un ambiente dotato di una struttura definita, e ci collochiamo ora in pieno mondo, ora in margine al mondo. L’esistenza del malato è decentrata, non si compie più nel commercio con un mondo aspro, resistente e indocile che ci ignora, ma si esaurisce nella costituzione solitaria di un ambiente fittizio. Tuttavia, questa finzione non può valere come realtà se non perché nel soggetto normale la realtà stessa è colta in una operazione analoga. In quanto ha dei campi sensoriali e un corpo, anche il soggetto normale porta quella ferita aperta attraverso la quale può introdursi l’illusione, la sua rappresentazione del mondo è vulnerabile. Se crediamo a ciò che vediamo, è prima di ogni verifica, e il torto delle teorie classiche della percezione è di introdurre nella percezione stessa delle operazioni intellettuali e una critica delle testimonianze sensoriali, alle quali facciamo ricorso solo quando la percezione diretta si invischia nell’ambiguità. Nel soggetto normale, senza nessuna verifica espressa, l’esperienza privata si collega a se stessa e alle esperienze estranee, il paesaggio sbocca in un mondo geografico, tende verso la pienezza assoluta. Il soggetto normale non gode della soggettività, ma la fugge, è davvero al mondo, ha sul tempo una presa schietta e ingenua, mentre l’allucinato approfitta dell’essere al mondo per approntarsi un ambito privato nel mondo comune e urta sempre contro la trascendenza del tempo. Sotto gli atti espressi, attraverso i


quali io pongo di fronte a me un oggetto alla distanza dovuta, in una relazione definita con gli altri oggetti e dotato di caratteri definiti che possiamo osservare, sotto le percezioni propriamente dette, c’è quindi, per sottenderle, una funzione più profonda, senza la quale agli oggetti percepiti mancherebbe l’indice di realtà, come manca nello schizofrenico, e in virtù della quale essi contano o valgono per noi. Questa funzione è il movimento che ci porta al di là della soggettività, che ci installa nel mondo prima di ogni scienza e di ogni verifica, grazie a una specie di «fede» o di «opinione primordiale» -85 o che, viceversa, si arena nelle nostre apparenze private. In questa sfera dell’opinione originaria, l’illusione allucinatoria è possibile (quantunque l’allucinazione non sia mai una percezione e il mondo vero sia sempre presunto dal malato nel momento stesso in cui se ne distoglie) perché noi siamo ancora nell’essere antepredicativo e perché la connessione dell’apparenza e dell’esperienza totale è solo implicita e presuntiva, anche nel caso della percezione vera. Il fanciullo ascrive al mondo sia i suoi sogni che le sue percezioni, crede che il sogno si svolga nella sua camera, ai piedi del letto e che semplicemente sia visibile solo per coloro che dormono.86 Il mondo è ancora il luogo vago di tutte le esperienze. Esso raccoglie alla rinfusa gli oggetti veri e i fantasmi individuali e istantanei, in quanto è un individuo che abbraccia tutto e non un insieme di oggetti collegati da rapporti di casualità. Avere allucinazioni e, in genere, immaginare significa mettere a profitto questa tolleranza del mondo antepredicativo e la nostra vertiginosa vicinanza con tutto l’essere nell’esperienza sincretica. Non si riesce quindi a render conto dell’impostura allucinatoria se non togliendo alla percezione la certezza apodittica e alla coscienza percettiva il pieno autopossesso. L’esistenza del percepito non è mai necessaria, poiché la percezione presume una esplicitazione che andrebbe all’infinito e che, del resto, non potrebbe guadagnare da una parte senza perdere dall’altra e senza esporsi al rischio del tempo. Ma non dobbiamo concluderne che il percepito è solo possibile o probabile e, per esempio, che è riconducibile a una possibilità permanente di percezione. Possibilità e probabilità presuppongono l’esperienza preliminare dell’errore e corrispondono alla situazione del dubbio. Nonostante ogni educazione critica, il percepito è e rimane al di qua del dubbio e della dimostrazione. Il sole si «leva» per lo scienziato come per l’ignorante; le nostre rappresentazioni scientifiche del sistema solare rimangono dei si-dice, come i paesaggi lunari: non ci crediamo mai nel senso in cui crediamo al sorgere del sole. Il sorgere del sole e, in generale, il percepito è «reale», lo ascriviamo immediatamente al mondo. Anche se può sempre essere «cancellata» e venire annoverata fra le illusioni, ogni percezione non scompare se non per far posto a un’altra percezione che la corregge. Ogni cosa può si, a cose fatte, apparire incerta, ma almeno è certo per noi che ci sono delle cose, cioè un mondo. Chiedersi se il mondo è reale equivale a non intendere ciò che si dice, giacché il mondo non è una somma di cose, che potremmo sempre revocare in dubbio, ma il serbatoio inesauribile donde sono ricavate le cose. Il percepito, considerato per intero, con l’orizzonte mondiale che annuncia la sua disgiunzione possibile e al tempo stesso la sua sostituzione eventuale per opera di un’altra percezione, non ci inganna assolutamente. Non potrebbe esserci errore dove non c’è ancora verità, ma realtà, non necessità ma fatticità. Correlativamente, dobbiamo negare alla coscienza percettiva il pieno autopossesso e l’immanenza che escluderebbe ogni illusione. Perché le allucinazioni siano possibili, è pur necessario che in certi momenti la coscienza cessi di sapere che cosa fa, altrimenti essa avrebbe coscienza di costituire un’illusione, non vi aderirebbe e quindi non ci sarebbe più illusione - e se, come abbiamo detto, la cosa illusoria e la cosa vera non hanno una medesima struttura, per accettare l’illusione il malato deve dimenticare o rimuovere il mondo vero, deve cessare di riferirvisi e avere almeno il potere di ritornare alla indistinzione primitiva del vero e del falso. Eppure, noi non separiamo la coscienza da


se stessa, ciò che impedirebbe ogni progresso del sapere al di là dell’opinione originaria come fondamento di tutto il sapere. È solo necessario che la coincidenza di me con me, quale si compie nel cogito, non sia mai una coincidenza reale e sia soltanto una coincidenza intenzionale e presuntiva. Di fatto, fra me stesso che ho appena pensato ciò e me che penso di averlo pensato si frappone già uno spessore di durata, e posso sempre mettere in dubbio che questo pensiero già passato fosse proprio cosi come lo vedo ora. Poiché, del resto, non ho altra testimonianza sul mio passato se non queste testimonianze presenti, e poiché ho pur sempre l’idea di un passato, non ho ragioni per opporre l’irriflesso come un inconoscibile alla riflessione che io faccio convergere su di esso. Ma la mia fiducia nella riflessione consiste in definitiva nell’assumere il fatto della temporalità e il fatto del mondo come contesto invariabile di ogni illusione e di ogni disillusione: io non mi conosco se non nella mia inerenza al tempo e al mondo, cioè nell’ambiguità.


Note

1 Schapp, 2

Beiträge zur Phanomenologie der Wahrnehmung, pp. 59 sgg.

La costanza delle forme e delle grandezze nella percezione non è quindi una funzione intellettuale, ma una funzione esistenziale, vale a dire che essa deve venire riferita all’atto prelogico in virtù del quale il soggetto si installa nel suo mondo. Ponendo un soggetto umano al centro di una sfera sulla quale sono fissati dei dischi di diametro eguale, si constata che la costanza è molto più perfetta secondo l’orizzontale che secondo la verticale. La luna enorme all’orizzonte e piccolissima allo zenith è soltanto un caso particolare della stessa legge. Per le scimmie la costanza secondo la verticale è invece eccellente: infatti per esse lo spostamento verticale sugli alberi è naturale quanto per noi lo spostamento orizzontale sulla terra. Koffka, Principles of Gestalt Psychology, pp. 94 sgg.

3 Gedächtnisfarbe 4 Gelb, 5 Esso

di Hering.

Die Farbenkonstanz der Sehdinge, p. 613.

è eindringlicher.

6 Stumpf,

citato da Gelb, op. cit., p. 598.

7 Gelb,

op. cit., p. 671.

8 Katz,

Ber Aufbau der Farbwelt, pp. 4-5.

9 Citato

da Katz, ibidem, p. 67.

10 Ackermann, 11 Katz, 12

Farbschwelle una Feldstruktur.

op. cit., pp. 8-21.

Ibidem, pp. 47-48. L’illuminazione è un dato fenomenico altrettanto immediato che il colore di superficie. Il fanciullo la percepisce come una linea di forza che attraversa il campo visivo, e per questo motivo l’ombra che le corrisponde dietro gli oggetti è immediatamente posta in un rapporto vivente con essa: il fanciullo dice che l’ombra «fugge la luce». Piaget, La causalité physique chez l’enfant, cap. viii, p. 213.

13 A dire

il vero si è dimostrato che si può incontrare la costanza dei colori in soggetti che non hanno più né il colore delle superfici, né la percezione delle illuminazioni (Gelb e Goldstein, Psychologische Analysen hirnpathologischer Fälle, Über den Wegfall der Wahrnehmung von Oberflächenfarben). La costanza sarebbe un fenomeno molto più rudimentale. La ritroviamo in animali dotati di apparati sensoriali più semplici dell’occhio. La struttura illuminazione - oggetto


illuminato è quindi un tipo di costanza speciale e altamente organizzato. Ma essa rimane necessaria per una costanza oggettiva e precisa e per una percezione delle cose (Gelb, Die Farbenkonstanz der Sehdinge, p. 677). 14 L’esperienza 15 Gelb,

è già riferita da Hering, Grundzüge der Lehre voti Lichtsinn, p. 15.

op. cit., p. 600.

16 Ibidem,

p. 673.

17 Ibidem,

p. 674.

18 Ibidem,

p. 675.

19 Ibidem,

p. 677.

20 Sono

le leggi di Katz, op. cit.

21 Gelb,

op. cit., p. 677.

22

In realtà, per positivo che voglia rimanere, lo psicologo stesso sente che tutto il pregio delle ricerche induttive consiste nei guidarci a una veduta dei fenomeni: perciò egli non resiste mai completamente alla tentazione di indicare almeno questa nuova presa di coscienza. Cosi, esponendo le leggi della costanza dei colori, P. Guillaume (Tratte de psychologie, p. 175) scrive che l’occhio «tien conto della illuminazione». In un certo senso le nostre ricerche non fanno altro che sviluppare questa breve frase. Sul piano della rigida positività essa non significa nulla. L’occhio non è lo spirito, ma un organo materiale. Come potrebbe mai «tener conto» di alcunché? Lo può fare solo se, accanto al corpo oggettivo, introduciamo il corpo fenomenico, se ne facciamo un corpo-conoscente e se, infine, come soggetti della percezione, sostituiamo la coscienza con l’esistenza, cioè l’essere al mondo attraverso un corpo.

23 Schapp, 24

op. cit., p. 91.

Per descrivere la funzione essenziale dell’illuminazione, Katz deriva dai pittori il termine Lichtführung (op. cit., pp. 379-381)..

25 Gelb,

op. cit., p. 633.

26 Koffka,

op. cit., pp. 255 sgg. Cfr. La structure du comportement, pp. 108 sgg.

27 Wesenskoexistenz, 28 Katz,

Gelb, op. cit., p. 671.

op. cit., p. 36.

29 Ibidem,

pp. 379-381.


30 Ibidem,

p. 213.

31 Ibidem,

p. 456.

32 Ibidem,

p. 382.

33 Ibidem,

p. 261.

34 Von Hornbostel, 35

Dos räumliche Hören.

Werner, Grundfragen der Intensitätspsychologie, pp. Transformationerscheinungen bei Gewicbtshebungen, pp. 342 sgg.

36 V.

68

sgg.

-

Fischel,

Katz, Ber Aufbau der Tastwelt, p. 58.

37 Ibidem,

p. 62.

38 Ibidem,

p. 20.

39 Ibidem. 40 Ibidem,

p. 58.

41 Ibidem,

pp. 24-35.

42 Ibidem,

pp. 38-39.

43 Ibidem,

p. 42.

44 Citato

senza riferimento da Katz, ibidem, p. 4.

45 Ibidem,

p. 160.

46 Ibidem,

p. 46.

47 Ibidem,

p. 51.

48 Schapp,

op. cit., pp. 59 sgg.

49 J. 50

Gasquet, Cézanne, p. 81.

Questa unità delle esperienze sensoriali riposa sulla loro integrazione in una sola vita, di cui esse divengono cosi la testimonianza visibile e l’emblema. Il mondo percepito è non soltanto una simbolica di ogni senso nei termini degli altri sensi, ma anche una simbolica della vita umana, come provano le «fiamme» della passione, la «luce» dello spirito e numerose altre metafore o


miti. (H. Conrad-Martius, Realontologie, p. 302.). 51

H. Conrad-Martius, ibidem, p. 196. Lo stesso autore (Zur Ontologie und Erscheinungslebre der realen Aussenwelt) parla di una Selbstkundgabe dell’oggetto, p. 371.

52 Scheler,

Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertetbik, pp. 149-151.

53 Ibidem,

p. 140.

54 Ibidem. 55 F.

Novotny, Dos Problem des Menschen Cézanne im Verhältnis zu seiner Kunst, p. 275.

56 Gasquet, 57 E.

op. cit., p. 123.

Bernard, La méthode de Cézanne, p. 298.

58 J.-P.

Sartre, L’imaginaire, p. 19.

59 Scheler,

op. cit., p. 52.

60 Ibidem,

pp. 51-54.

61 V. 62

La structure du comportement, pp. 72 sgg.

E. Stein, Beiträge zur phänomenologischen Begründung der Psychologie und der Geisteswissenschaften, pp. 10 sgg.

63 Zucker,

Experimentelles über Sinnestäuschungen, pp. 706-764.

64 Minkowski, 65 Schöder, 66 Système 67

Dos Halluzinieren, p. 606.

des Beaux-Arts, p. 15.

Specht, Zur Phanomenologie und Morphologie der pathologischen Wahrnehmungstäuschungen, p. 15.

68 Jaspers, 69

Le problème des ballucinations et le problème de l’espace, p. 66.

Über Trugwahrnehmungen, p. 471.

Di qui le esitazioni di Alain: se la coscienza si conosce sempre, è necessario che essa distingua immediatamente il percepito dall’immaginario, e si dirà che l’immaginario non è visibile (Système des Beaux-Arts, pp. 15 sgg.). Ma se c’è una impostura allucinatoria, occorre che l’immaginario possa passare per percepito, e si dirà che il giudizio porta con sé la visione (Quatre-vingt-un


chapitres sur l’esprit et les passions, p. 18). 70 È

quanto Alain rimprovera agli psicologi.

71 Minkowski,

op. cit., p. 66.

72 Ibidem,

p. 64.

73 Ibidem,

p. 66.

74

Ecco perché Palàgyi poteva dire che la percezione è un «fantasma diretto», l’allucinazione un «fantasma inverso». Schorsch, Zur Theorie der Halluzinationen, p. 64.

75 Schöder,

op. cit., p. 606.

76 Menninger-Lerchenthal, 77 Ibidem,

p. 147.

78 Auto-osservazione 79 Straus,

inedita di J.-P. Sartre.

Vom Sin» der Strine, p. 290.

80 Minkowski, 81 Ibidem, 82 Straus,

Das Truggebilde der eigenen Gestalt, pp. 76 sgg.

op. cit., p. 67.

p. 68.

op. cit., p. 288.

83 Ibidem.

Il malato «vive nell’orizzonte del suo paesaggio, dominato da impressioni univoche, senza motivo e senza fondamento, che non sono più inserite nell’ordine universale del mondo delle cose e nei rapporti universali di senso del linguaggio. Le cose che i malati designano con i nomi che ci sono familiari, non sono più per loro le stesse cose che sono per noi. Essi hanno conservato e introdotto nel loro paesaggio solo alcuni avanzi del nostro mondo, e tuttavia questi avanzi rimangono ciò che erano come parti del tutto.» Le cose dello schizofrenico sono cristallizzate e inerti, mentre quelle del delirante sono più parlanti e viventi delle nostre. «Se la malattia progredisce, la disgiunzione dei pensieri e la scomparsa della parola rivelano la perdita dello spazio geografico, lo scadimento dei sentimenti rivela l’impoverimento del paesaggio.» (Straus, op. cit., p. 291).

84

L’allucinazione, dice Klages, presuppone una «Verminderung des Ausdrucksgehaltes der äusseren Erscheinungswelt», citato da Schorsch, op. cit., p. 71.

85 Urdoxa

o Urglaube, di Husserl.


86 Piaget,

La reprÊsentation du monde chez l’enfant, pp. 69 sgg.


IV. L’altro e il mondo umano

Io sono gettato in una natura, e la natura non appare solamente fuori di me, negli oggetti senza storia, ma è visibile al centro della soggettività. Le decisioni teoriche e pratiche della vita personale possono si cogliere a distanza il mio passato e il mio avvenire, dare al mio passato con tutti i suoi eventi casuali un senso definito facendolo seguire da un certo avvenire di cui si dirà, a cose fatte, che esso era la preparazione, introdurre nella mia vita la storicità: tale ordine ha sempre qualcosa di fittizio. È ora che comprendo i miei primi venticinque anni come una infanzia prolungata, che doveva essere seguita da uno svezzamento difficile per mettere capo, infine, all’autonomia. Se mi riconduco a questi anni, quali li ho vissuti e li porto in me, la loro felicità non si lascia spiegare con l’atmosfera protetta dell’ambiente familiare, ma era il mondo a essere più bello, erano le cose a essere più attraenti, e io non posso mai essere sicuro di comprendere il mio passato meglio di quanto esso comprendesse se stesso quando l’ho vissuto, né far tacere la sua protesta. L’interpretazione che ne do ora è legata alla mia fiducia nella psicoanalisi; domani, con maggior esperienza e accortezza, la comprenderò forse in altro modo, e di conseguenza costruirò diversamente il mio passato. In ogni caso interpreterò a loro volta le mie interpretazioni presenti, ne scoprirò il contenuto latente e, per coglierne infine il valore di verità, dovrò tener conto di queste scoperte. Le mie prese sul passato e sull’avvenire sono sfuggevoli, il possesso che ho del mio tempo è sempre differito fino al momento in cui mi comprenderei interamente, e quel momento non può giungere, giacché sarebbe pur sempre un momento, circondato da un orizzonte d’avvenire, e a sua volta avrebbe bisogno di sviluppi per essere compreso. La mia vita volontaria e razionale si sa quindi mescolata a un’altra potenza che le impedisce di compiersi e le dà sempre l’aspetto di un abbozzo. Il tempo naturale è sempre là. La trascendenza dei momenti del tempo fonda e insieme compromette la razionalità della mia storia: la fonda perché mi apre un avvenire assolutamente nuovo in cui potrò riflettere su ciò che v’è di opaco nel mio presente, la compromette perché, da questo avvenire, non potrò mai cogliere il presente che vivo con una certezza apodittica, perché cosi il vissuto non è mai del tutto comprensibile, ciò che comprendo non aderisce mai esattamente alla mia vita, e perché infine non faccio mai tutt’uno con me stesso. Ecco la sorte di un essere che è nato, ossia di un essere che, una volta e per sempre, è stato dato a se stesso come qualcosa da comprendere. Giacché il tempo naturale rimane al centro della mia storia, io mi vedo anche circondato da esso. Se i miei primi anni sono dietro di me come una terra sconosciuta, ciò non è dovuto a una fortuita debolezza della memoria e alla mancanza di una esplorazione completa: non c’è nulla da conoscere in queste terre inesplorate. Per esempio, nella vita intrauterina non è stato percepito nulla, ecco perché non c’è nulla da ricordare. Non c’è stato altro che l’abbozzo di un io naturale e di un tempo naturale. Questa vita anonima non è se non il limite della dispersione temporale che minaccia sempre il presente storico. Per indovinare tale esistenza informe che precede la mia storia e la terminerà, io devo solo guardare in me questo tempo che funziona da solo e che la mia vita personale utilizza senza mascherarlo del tutto. Poiché sono portato nell’esistenza personale da un tempo che non costituisco, tutte le mie percezioni si profilano su uno sfondo di natura. Mentre percepisco, e anche senza nessuna conoscenza delle condizioni organiche della mia percezione, io ho coscienza di integrare delle «coscienze» distratte e disperse, la vista, l’udito, il tatto, con i loro campi che sono anteriori e rimangono estranei alla mia vita personale. L’oggetto naturale è la traccia di questa esistenza generalizzata. E, in quanto è destinato a entrare nella mia vita, ogni oggetto sarà anzitutto, sotto un certo rispetto, un oggetto naturale, sarà fatto di


colori, di qualità tattili e sonore. Come la natura penetra sino al centro della mia vita personale e si intreccia con essa, cosi i comportamenti discendono nella natura e vi si depositano sotto forma di un mondo naturale. Io non ho solamente un mondo fisico, non vivo solamente in mezzo alla terra, all’aria e all’acqua, ma ho attorno a me strade, piantagioni, villaggi, vie, chiese, utensili, un campanello, un cucchiaio, una pipa. Ciascuno di questi oggetti porta inciso il marchio dell’azione umana alla quale serve. Ciascuno emette un’atmosfera di umanità che può essere poco determinata, se si tratta solo di qualche traccia di passi sulla sabbia, o viceversa molto determinata, se visito da capo a fondo una casa evacuata da poco. Orbene, se non è sorprendente che le funzioni sensoriali e percettive depositino di fronte a sé un mondo naturale, giacché esse sono prepersonali, ci si può stupire che gli atti spontanei, in virtù dei quali l’uomo ha plasmato la propria vita, si sedimentino all’esterno e vi conducano l’esistenza anonima delle cose. La civiltà alla quale partecipo esiste per me con evidenza negli utensili che essa si dà. Se si tratta di una civiltà ignota o straniera, sulle rovine, sugli strumenti infranti che ritrovo o sul paesaggio che percorro, possono porsi svariati modi d’essere o di vivere. Il mondo culturale è allora ambiguo, ma è già presente. C’è qui una società da conoscere. Uno Spirito Oggettivo abita le vestigia e i paesaggi. Come è possibile ciò? Nell’oggetto culturale io esperisco la presenza prossima dell’altro sotto un velo di anonimato. Si usa la pipa per fumare, il cucchiaio per mangiare, il campanello per chiamare, e la percezione di un mondo culturale potrebbe essere verificata mediante quella di un atto umano o di un altro uomo. In che modo un’azione o un pensiero umano può essere colto nel modo del «si», giacché, per principio, è un’operazione in prima persona, inseparabile da un Io? È facile rispondere che il pronome indefinito non è qui se non una formula vaga per designare una molteplicità di Io o anche un Io in generale. Io ho, si dirà, l’esperienza di un certo ambiente culturale e dei comportamenti che vi corrispondono; di fronte alle vestigia di una civiltà scomparsa concepisco per analogia la specie d’uomo che ha vissuto in essa. Ma in primo luogo si dovrebbe sapere come posso avere l’esperienza del mio proprio mondo culturale, della mia civiltà. Si risponderà ancora che vedo gli altri uomini attorno a me fare un certo uso degli utensili che mi circondano, che interpreto la loro condotta grazie all’analogia con la mia e grazie alla mia esperienza intima, che mi insegna il senso e l’intenzione dei gesti percepiti. In fin dei conti, le azioni degli altri sarebbero sempre comprese mediante le mie; il «si» o il «noi» mediante l’Io. Ma il problema è appunto questo: come la parola Io può essere messa al plurale, come si può formare un’idea generale dell’Io, come posso parlare di un altro Io che non sia il mio, come posso sapere che ci sono altri Io, come la coscienza che, per principio e in quanto autoconoscenza, è nel modo dell’Io, può essere colta nel modo del Tu e quindi nel mondo del «Si»? Il corpo altrui, come portatore di un comportamento, è il primo degli oggetti culturali e quello in virtù del quale essi esistono tutti. Sia che si tratti delle vestigia o del corpo altrui, il problema consiste nel sapere in che modo un oggetto nello spazio può divenire la traccia parlante di un’esistenza, in che modo, viceversa, una intenzione, un pensiero, un progetto possono staccarsi dal soggetto personale e divenire visibili fuori di esso nel suo corpo, nell’ambiente che questo soggetto si costruisce. La costituzione dell’altro non illumina interamente la costituzione della società, la quale non è una esistenza a due o anche a tre, ma la coesistenza con un numero indefinito di coscienze. Tuttavia, l’analisi della percezione dell’altro incontra la difficoltà di principio che il mondo culturale solleva, giacché deve risolvere il paradosso di una coscienza vista dal di fuori, di un pensiero che risiede nell’esteriorità, e che pertanto, nei confronti del mio, è già senza soggetto e anonimo. Quanto abbiamo detto sul corpo ci avvia verso la soluzione di questo problema. L’esistenza dell’altro costituisce una difficoltà e uno scandalo per il pensiero oggettivo. Se, come dice Lachelier,


gli eventi del mondo sono un intreccio di proprietà generali e si trovano all’intersezione delle relazioni funzionali che permettono, in linea di principio, di compierne l’analisi, se il corpo è in verità una provincia del mondo, se è quell’oggetto di cui mi parla il biologo, quella congiunzione di processi la cui analisi è contenuta nelle opere di fisiologia, quell’aggregato di organi di cui trovo la descrizione nelle tavole anatomiche, allora la mia esperienza non potrebbe essere null’altro che il dialogo fra una coscienza nuda e il sistema di correlazioni oggettive che essa pensa. Il corpo altrui, come il mio proprio corpo, non è abitato, è oggetto davanti alla coscienza che lo pensa o lo costituisce, gli uomini - con essi io stesso in guanto essere empirico - non sono se non meccanismi fatti a molla, il vero soggetto è unico: una coscienza che si celasse in un pezzo di carne sanguigna sarebbe la più assurda delle qualità occulte, e la mia coscienza, essendo coestensiva a ciò che può essere per me, ossia al correlato dell’intero sistema dell’esperienza, non può incontrarvi un’altra coscienza, la quale farebbe immediatamente apparire nel mondo il sottofondo, a me ignoto, dei suoi propri fenomeni. Ci sono due modi d’essere e due soltanto: l’essere in sé, che è quello degli oggetti dispiegati nello spazio, e l’essere per sé che è quello della coscienza. Orbene, l’altro starebbe di fronte a me come un in sé e tuttavia esisterebbe per sé, per essere percepito esigerebbe da me una operazione contraddittoria, giacché dovrei distinguerlo da me stesso, dunque situarlo nel mondo degli oggetti, e al tempo stesso pensarlo come coscienza, cioè come quella specie di essere senza esterno e senza parti al quale ho accesso solo perché egli è me e perché in lui si confondono colui che pensa e colui che viene pensato. Nel pensiero oggettivo non c’è quindi posto per l’altro e per una pluralità delle coscienze. Se costituisco il mondo, io non posso pensare un’altra coscienza, giacché sarebbe necessario che anch’essa lo costituisse e, per lo meno nei confronti di quest’altro punto di vista sul mondo, io non sarei costituente. Anche se riuscissi a pensarla come costituente il mondo, sarei ancora io a costituirla come tale e, di nuovo, solamente io sarei costituente. Ma, per l’appunto, noi abbiamo imparato a revocare in dubbio il pensiero oggettivo, e, al di qua delle rappresentazioni scientifiche del mondo e del corpo, abbiamo preso contatto con una esperienza del corpo e del mondo che tali rappresentazioni non riescono a riassorbire. Il mio corpo e il mondo non sono più oggetti coordinati da relazioni funzionali simili a quelle stabilite dalla fisica. Il sistema dell’esperienza nel quale essi comunicano non è più dispiegato di fronte a me e percorso da una coscienza costituente. Io ho il mondo come individuo incompiuto attraverso il mio corpo come potenza di questo mondo, e ho la posizione degli oggetti tramite quella del mio corpo, o viceversa la posizione del mio corpo tramite quella degli oggetti, non in una implicazione logica, non nello stesso modo in cui si determina una incognita in base alle sue relazioni oggettive con grandezze date, ma in una implicazione reale, e perché il mio corpo è movimento verso il mondo, perché il mondo è punto d’appoggio del mio corpo. L’ideale del pensiero oggettivo - il sistema dell’esperienza come fascio di correlazioni fisicomatematiche - è fondato sulla mia percezione del mondo come individuo che concorda con se stesso, e quando la scienza cerca di integrare il mio corpo alle relazioni del mondo oggettivo, lo fa perché a modo suo tenta di tradurre la sutura del mio corpo fenomenico sul mondo primordiale. Nello stesso tempo in cui il corpo si ritira dal mondo oggettivo e viene a formare un terzo genere d’essere fra il puro soggetto e l’oggetto, il soggetto perde la sua purezza e la sua trasparenza. Degli oggetti sono di fronte a me, formano sulla mia retina una certa proiezione di se stessi e io li percepisco. Non ci sarà più motivo di isolare, nella mia rappresentazione fisiologica del fenomeno, le immagini retiniche e il loro corrispondente cerebrale dal campo totale, attuale e virtuale in cui questi oggetti appaiono. L’evento fisiologico non è se non il disegno astratto dell’evento percettivo. 1 Allo stesso modo, non potremo realizzare sotto il nome di immagini psichiche delle vedute prospettiche discontinue che corrisponderebbero alle immagini retiniche successive, né infine introdurre una «ispezione dello


spirito» che restituisca l’oggetto al di là delle prospettive deformanti. Dobbiamo concepire le prospettive e il punto di vista come il nostro inserimento nel mondo-individuo, e la percezione non più come una costituzione dell’oggetto vero, ma come la nostra inerenza alle cose. Con i campi sensoriali e con il mondo come campo di tutti i campi la coscienza scopre in se stessa l’opacità di un passato originario. Se esperisco questo inerire della mia coscienza al suo corpo e al suo mondo, la percezione dell’altro e la pluralità delle coscienze non presentano più difficoltà. Se, per me che rifletto sulla percezione, il soggetto percipiente appare fornito di un montaggio primordiale nei confronti del mondo, se appare trascinante dietro di sé questa cosa corporea senza la quale per lui non ci sarebbero altre cose, perché mai gli altri corpi che percepisco non dovrebbero, a loro volta, essere abitati da coscienze? Se la mia coscienza ha un corpo, perché gli altri corpi non «avrebbero» delle coscienze? Evidentemente, ciò presuppone che il concetto di corpo e quello di coscienza vengano profondamente trasformati. Per quanto concerne il corpo, e anche il corpo altrui, dobbiamo imparare a distinguerlo dal corpo oggettivo quale lo descrivono i libri di fisiologia. Quest’ultimo non può essere abitato da una coscienza. Dobbiamo cogliere sui corpi visibili i comportamenti che vi si delineano, che vi fanno la loro apparizione, ma che non vi sono realmente contenuti.2 Non si riuscirà mai a spiegare come il significato e l’intenzionalità possano abitare degli edifici di molecole o degli ammassi di cellule, e in ciò il cartesianismo ha ragione. Ma non si tratta certo di accingerci a un’impresa cosi assurda. Si tratta solo di riconoscere che, come edificio chimico o insieme di tessuti, il corpo è formato per impoverimento a partire da un fenomeno primordiale del corpo-per-noi, del corpo dell’esperienza umana o del corpo percepito, che il pensiero oggettivo investe, ma di cui non ha da postulare l’analisi compiuta. Per quanto concerne la coscienza, dobbiamo concepirla non più come una coscienza costituente e come un puro essere-per-sé, ma come una coscienza percettiva, come il soggetto di un comportamento, come essere al mondo o esistenza, giacché solamente cosi l’altro potrà apparirmi al culmine del suo corpo fenomenico e ricevere una specie di «località». A queste condizioni, le antinomie del pensiero oggettivo scompaiono. Grazie alla riflessione fenomenologica io trovo la visione, non come «pensiero di vedere», secondo l’espressione di Cartesio, ma come sguardo in presa su un mondo visibile: ecco perché per me può esserci uno sguardo altrui, perché quello strumento espressivo che chiamiamo un volto può essere portatore di un’esistenza nello stesso modo in cui la mia esistenza è portata dall’apparato conoscitivo che è il mio corpo. Quando mi volgo verso la mia percezione e quando passo dalla percezione diretta al pensiero di questa percezione, io la ri-effettuo, ritrovo un pensiero più vecchio di me all’opera nei miei organi percettivi e del quale essi non sono altro che la traccia. Nello stesso modo io comprendo l’altro. Anche qui, ho solo la traccia di una coscienza che mi sfugge nella sua attualità e, quando il mio sguardo incrocia un altro sguardo, io ri-effettuo l’esistenza estranea in una specie di riflessione. Non vi è qui nulla di simile a un «ragionamento per analogia». Come Scheler ha detto, il ragionamento per analogia presuppone ciò che deve spiegare. L’altra coscienza può essere dedotta solo se le espressioni emozionali dell’altro e quelle mie sono confrontate e identificate, se vengono riconosciute delle correlazioni precise tra la mia mimica e i miei «fatti psichici». Orbene, la percezione dell’altro precede e rende possibili tali constatazioni, esse non ne sono costitutive. Un bambino di quindici mesi apre la bocca se per gioco prendo un suo dito tra i miei denti e fingo di morderlo. E tuttavia egli non ha quasi mai guardato il suo volto in uno specchio, i suoi denti non assomigliano ai miei. Il fatto è che la sua propria bocca e i suoi denti, cosi come egli li sente dall’interno, sono immediatamente per lui degli apparati atti a mordere, e la mia mascella, cosi come la vede dall’esterno, è immediatamente per lui capace delle medesime intenzioni. Per il bambino il «morso» ha immediatamente un significato intersoggettivo. Egli percepisce le sue intenzioni nel suo


corpo, il mio corpo con il suo e di qui le mie intenzioni nel suo corpo. Le correlazioni osservate fra le mie mimiche e quelle altrui, fra le mie intenzioni e le mie mimiche, possono si fornire un filo conduttore nella conoscenza metodica dell’altro e quando la percezione diretta fallisce, ma non mi insegnano l’esistenza altrui. Fra la mia coscienza e il mio corpo quale lo vivo, fra questo corpo fenomenico e quello altrui come lo vedo dall’esterno, esiste una relazione interna che fa apparire l’altro come il coronamento del sistema. L’evidenza dell’altro è possibile perché io non sono trasparente per me stesso e perché la mia soggettività si trascina dietro il suo corpo. Prima dicevamo: in quanto risiede nel mondo, in quanto vi è visibile e fa parte del mio campo, l’altro non è mai un Ego nel senso in cui io lo sono per me stesso. Per pensarlo come un autentico Io, io dovrei pensarmi come semplice oggetto per lui, ciò che mi è precluso dal sapere che ho di me stesso. Ma se il corpo altrui non è per me un oggetto, se il mio non lo è per lui, se sono entrambi dei comportamenti, la posizione dell’altro non mi riduce alla condizione di oggetto nel suo campo, la mia percezione dell’altro non lo riduce alla condizione di oggetto nel mio campo. L’altro non è mai completamente un essere personale se io stesso lo sono in modo assoluto, se mi colgo in una evidenza apodittica. Ma se in virtù della riflessione trovo in me stesso, con il soggetto percipiente, un soggetto prepersonale, dato a se stesso, se le mie percezioni rimangono eccentriche in rapporto a me come centro di iniziative e di giudizi, se il mondo percepito rimane in uno stato di neutralità - né oggetto verificato, né sogno riconosciuto come tale -, allora tutto ciò che appare nel mondo non è subito dispiegato di fronte a me e il comportamento dell’altro può figurarvi. Questo mondo può rimanere indiviso fra la mia percezione e la sua, l’io che percepisce non ha privilegi particolari che rendano impossibile un io percepito, ed entrambi non sono cogitationes chiuse nella loro immanenza, ma esseri che vengono oltrepassati dal loro mondo e che di conseguenza possono certo oltrepassarsi vicendevolmente. L’affermazione di una coscienza estranea di fronte alla mia trasformerebbe immediatamente la mia esperienza in uno spettacolo privato, giacché essa non sarebbe più coestensiva all’essere. Il cogito altrui destituisce di ogni valore il mio proprio cogito e mi fa perdere la sicurezza, che avevo nella solitudine, di accedere all’unico essere per me concepibile, all’essere così come viene intenzionato e costituito da me. Ma nella percezione individuale noi abbiamo imparato a non realizzare le nostre vedute prospettiche separatamente l’una dall’altra; sappiamo che esse scivolano l’una nell’altra e sono raccolte nella cosa. Parimenti, dobbiamo imparare a ritrovare la comunicazione delle coscienze in un medesimo mondo. In realtà, l’altro non è chiuso nella mia prospettiva sul mondo poiché questa prospettiva stessa non ha limiti definiti e scivola spontaneamente in quella altrui, poiché sono entrambe raccolte in un unico mondo al quale noi tutti partecipiamo come soggetti anonimi della percezione. In quanto ho delle funzioni sensoriali, un campo visivo uditivo, tattile, io comunico già con gli altri, considerati anch’essi come soggetti psicofisici. Il mio sguardo cade su un corpo vivente in atto d’agire, subito gli oggetti che lo circondano ricevono un nuovo strato di significato: non sono più ciò che io stesso potrei farne, ma sono ciò che questo comportamento ne farà. Attorno al corpo percepito si crea un vortice nel quale il mio mondo è attirato e come aspirato: in questa misura, esso non è più soltanto mio, non mi è più soltanto presente, ma è presente a X, a quest’altra condotta che comincia a delinearsi in lui. Già l’altro corpo non è piò un semplice frammento del mondo, ma il luogo di una certa elaborazione e, per cosi dire, di una certa «veduta» del mondo. Laggiù si effettua un certo trattamento delle cose che prima erano mie. Qualcuno si serve dei miei oggetti familiari. Ma chi? Io dico che è un altro, un secondo me stesso e in primo luogo lo so perché questo corpo vivente ha la medesima struttura del mio. Esperisco il mio corpo come potenza di certi comportamenti e di un certo mondo, non sono dato a me stesso se non come una certa presa sul mondo; orbene, è appunto il


mio corpo a percepire il corpo dell’altro: esso vi trova come un prolungamento miracoloso delle sue proprie intenzioni, una maniera familiare di trattare il mondo. Ormai, come le parti del mio corpo formano insieme un sistema, così il corpo altrui e il mio sono un tutto unico, il rovescio e il diritto di un solo fenomeno; l’esistenza anonima, di cui il mio corpo è in ogni momento la traccia, abita contemporaneamente questi due corpi.3 Ciò costituisce soltanto un altro vivente e non ancora un altro uomo. Ma questa vita estranea, come la mia con la quale comunica, è una vita aperta. Essa non si esaurisce in un certo numero di funzioni biologiche o sensoriali, ma si annette degli oggetti naturali sottraendoli al loro senso immediato, si costruisce degli utensili, degli strumenti, si proietta nell’ambiente in oggetti culturali. Nascendo, il fanciullo li trova attorno a sé come aeroliti provenienti da un altro pianeta. Ne prende possesso, impara a servirsene come se ne servono gli altri: infatti, lo schema corporeo assicura la corrispondenza immediata fra ciò che vede fare e ciò che fa, e in questo modo l’utensile viene precisandosi come un manipulandum determinato e l’altro come un centro d’azione umana. In particolare, c’è un oggetto culturale che esplicherà una funzione essenziale nella percezione dell’altro: il linguaggio. Nell’esperienza del dialogo, si costituisce un terreno comune fra l’altro e me, il mio pensiero e il suo formano un tessuto unico, le mie parole e quelle dell’interlocutore sono sollecitate dalla situazione della discussione, si inseriscono in una operazione comune di cui nessuno di noi è il creatore. C’è qui un essere a due, e per me l’altro non è più un semplice comportamento nel mio campo trascendentale, né d’altra parte io lo sono nel suo, ma siamo l’uno per l’altro collaboratori in una reciprocità perfetta, le nostre prospettive scivolano l’una nell’altra, coesistiamo attraverso un medesimo mondo. Nel dialogo presente io vengo svincolato da me stesso, i pensieri dell’altro sono certo pensieri suoi, non sono io a formarli, anche se li colgo non appena nati o anche se li anticipo; inoltre l’obiezione che l’interlocutore mi rivolge mi strappa dei pensieri che non sapevo di possedere, cosicché, se io gli presto dei pensieri, in compenso egli mi fa pensare. È soltanto a cose fatte, quando mi sono ritirato dal dialogo e me ne ricordo, che posso reintegrarlo alla mia vita, farne un episodio della mia storia privata, e che l’altro rientra nella sua assenza, o, nella misura in cui mi rimane presente, è sentito come una minaccia per me. La percezione dell’altro e il mondo intersoggettivo costituiscono un problema solo per gli adulti. Il fanciullo vive in un mondo che crede immediatamente accessibile a tutti coloro che lo circondano, non ha nessuna coscienza di se stesso, né d’altronde degli altri, come soggettività private, non sospetta che siamo tutti limitati a un certo punto di vista sul mondo e che egli stesso lo è. Ecco perché non sottopone alla critica né i suoi pensieri, ai quali crede man mano che si presentano e senza cercare di collegarli, né le nostre parole. Egli non ha la scienza dei punti di vista. Per lui gli uomini sono teste vuote puntate su un unico mondo evidente nel quale si svolge tutto: anche i sogni, che sono, cosi egli crede, nella sua camera, anche il pensiero, non essendo distinto dalle parole. Per lui gli altri sono sguardi che ispezionano le cose, hanno una esistenza quasi materiale, tanto che un fanciullo si chiede come mai, incrociandosi, gli sguardi non si rompano.4 Verso i dodici anni, dice Piaget, il fanciullo effettua il cogito e accede alle verità del razionalismo. Egli si scoprirebbe come coscienza sensibile e in pari tempo come coscienza intellettuale, come punto di vista sul mondo e come sollecitato a superare questo punto di vista, a costruire una oggettività al livello del giudizio. Piaget conduce il fanciullo sino all’età della ragione, come se i pensieri dell’adulto fossero autosufficienti e rimuovessero ogni contraddizione. Ma, affinché per l’adulto ci sia un mondo unico e intersoggettivo, è necessario che in un certo qual modo i fanciulli abbiano ragione contro gli adulti o contro Piaget, e che i pensieri barbari della prima età rimangano come un’acquisizione indispensabile sotto quelli dell’età adulta. La coscienza che io ho di costruire una verità oggettiva non mi darebbe mai altro che una verità oggettiva per me, il mio più grande sforzo di imparzialità non mi farebbe oltrepassare la soggettività,


come Cartesio esprime cosi bene con l’ipotesi del genio maligno, se io non avessi, sotto i miei giudizi, la certezza primordiale di toccare l’essere stesso, se, prima di ogni presa di posizione volontaria, non mi trovassi già situato in un mondo intersoggettivo, se la scienza non poggiasse su questa δόξa originaria. Con il cogito comincia la lotta delle coscienze, ciascuna delle quali, come dice Hegel, persegue la morte dell’altra. Perché la lotta possa cominciare, perché ogni coscienza possa presumere le presenze estranee che nega, è necessario che esse abbiano un terreno comune, che ricordino la loro tranquilla coesistenza nel mondo del fanciullo. Ma in questo modo otteniamo proprio l’altro? Insomma, noi livelliamo l’Io e il Tu in una esperienza a più, introduciamo l’impersonale nel centro della soggettività, cancelliamo l’individualità delle prospettive, ma, in questa confusione generale, non abbiamo forse fatto scomparire con l’Ego anche l’alter Ego? Prima dicevamo che essi si escludono vicendevolmente. Ma ciò è possibile proprio perché hanno le medesime pretese e perché l’alter Ego segue tutte le variazioni dell’Ego: se è veramente un Io, l’Io che percepisce non può percepirne un altro; se il soggetto che percepisce è anonimo, lo è anche l’altro che esso percepisce, e quando vorremo far apparire, in questa coscienza collettiva, la pluralità delle coscienze, ritroveremo le difficoltà alle quali pensavamo di esserci sottratti. Io percepisco l’altro come comportamento, per esempio percepisco il cordoglio o la collera dell’altro nella sua condotta, sul suo volto e sulle sue mani, senza riferimento a una esperienza «interna» della sofferenza o della collera: infatti, cordoglio e collera sono variazioni dell’essere al mondo, indivise fra il corpo e la coscienza, che si pongono tanto sulla condotta dell’altro, visibile nel suo corpo fenomenico, quanto sulla mia propria condotta quale mi si offre. Ma, in definitiva, il comportamento dell’altro e anche le sue stesse parole non sono l’altro. Il suo cordoglio e la sua collera non hanno mai esattamente lo stesso senso per lui e per me. Per lui sono situazioni vissute, per me situazioni appresentate. Oppure, se in uno slancio di amicizia posso partecipare a questo cordoglio e a questa collera, essi restano il cordoglio e la collera del mio amico Paolo: Paolo soffre poiché ha perduto la moglie o è in collera poiché gli è stato rubato l’orologio, io soffro perché Paolo soffre, sono in collera perché egli è in collera, le situazioni non sono sovrapponibili. E se infine facciamo qualche progetto in comune, questo progetto non è un unico progetto, e non si offre sotto i medesimi aspetti per me e per Paolo, non ne siamo interessati in egual misura, né comunque nello stesso modo, per il solo fatto che Paolo è Paolo e io sono io. Per quanto le nostre coscienze si sforzino di costruire, attraverso le nostre situazioni proprie, una situazione comune nella quale comunicare, è dal fondo della sua soggettività che ognuno proietta questo mondo «unico». Le difficoltà della percezione dell’altro non dipendevano tutte dal pensiero oggettivo, non cessano tutte con la scoperta del comportamento, o meglio, il pensiero oggettivo e l’unicità del cogito che ne è la conseguenza non sono finzioni, ma fenomeni ben fondati di cui dovremo ricercare il fondamento. Il conflitto fra me e l’altro non comincia solamente quando si cerca di pensare l’altro e non scompare se si reintegra il pensiero alla coscienza non tetica e alla vita irriflessa: esso è già presente se cerco di vivere l’altro, per esempio nell’accecamento del sacrificio. Concludo un patto con l’altro, mi sono deciso a vivere in un intermondo in cui faccio tanto posto all’altro quanto a me stesso. Ma tale intermondo è ancora un progetto mio e sarei un ipocrita se credessi di volere il bene dell’altro come il mio, giacché questo stesso attaccamento al bene altrui deriva ancora da me. Senza reciprocità non c’è alter Ego, poiché il mondo dell’uno avvolge allora quello dell’altro e l’uno si sente alienato a beneficio dell’altro. È quanto accade in una coppia in cui l’amore non è egualmente ripartito: l’uno si impegna in questo amore e mette in gioco la propria vita, l’altro rimane libero, per lui questo amore non è se non un modo contingente di vivere. Il primo sente fuggire il proprio essere e la propria sostanza in questa libertà che rimane integra davanti a lui. E anche se il secondo, per


fedeltà alle promesse o per generosità, vuole a sua volta ridursi a semplice fenomeno nel mondo del primo, vedersi con gli occhi dell’altro, è ancora in virtù di una dilatazione della propria vita che egli ci riesce: pertanto, nega in ipotesi l’equivalenza dell’altro e di sé che vorrebbe affermare in tesi. In ogni caso la coesistenza deve essere vissuta da ognuno. Se nessuno di noi due è una coscienza costituente, al momento di comunicare e di trovare un mondo comune, ci si chiede chi comunica e per chi esiste questo mondo. E se qualcuno comunica con qualcuno, se l’intermondo non è un in sé inconcepibile, se deve esistere per noi due, allora la comunicazione si spezza di nuovo e ciascuno di noi opera nel suo mondo privato cosi come due giocatori muovono le pedine su due scacchiere che distano cento chilometri. Ma per lo meno i giocatori possono, per telefono o per corrispondenza, comunicarsi le loro decisioni, e ciò equivale a dire che essi fanno parte dello stesso mondo. Viceversa, a rigore io non ho nessun terreno comune con l’altro, la posizione dell’altro con il suo mondo e la posizione di me stesso con il mio mondo costituiscono un’alternativa. Una volta posto l’altro, una volta che lo sguardo dell’altro su di me, inserendomi nel suo campo, mi ha spogliato di una parte del mio essere, è facile comprendere come io non possa ricuperarla se non stringendo delle relazioni con l’altro, facendomi riconoscere liberamente da lui, e come la mia libertà esiga per gli altri la medesima libertà. Ma in primo luogo si dovrebbe sapere in che modo ho potuto porre l’altro. In quanto sono nato, in quanto ho un corpo e un mondo naturale, io posso trovare in questo mondo altri comportamenti con i quali il mio si intreccia, come abbiamo spiegato prima. Ma parimenti, in quanto sono nato, in quanto la mia esistenza si trova già all’opera, si sa data a se stessa, tale esistenza rimane sempre al di qua degli atti in cui vuole impegnarsi, che non sono per sempre se non modalità sue, casi particolari della sua insuperabile generalità. È questo sfondo di esistenza data che il cogito constata: ogni affermazione, ogni impegno, e anche ogni negazione, ogni dubbio prende posto in un campo preliminarmente aperto, attesta un sé che si tocca prima degli atti particolari nei quali perde contatto con se stesso. Questo sé, testimone di ogni comunicazione effettiva, e senza il quale essa non si saprebbe e quindi non sarebbe comunicazione, sembra precludere ogni soluzione del problema dell’altro. C’è qui un solipsismo vissuto che non è superabile. Io non mi sento certo costituente né del mondo naturale né del mondo culturale: in ogni percezione, in ogni giudizio, faccio intervenire sia delle funzioni sensoriali, sia dei montaggi culturali che non sono attualmente miei. Superato da ogni parte dai miei propri atti, sprofondato nella generalità, io sono però colui dal quale essi sono vissuti, con la mia prima percezione è stato inaugurato un essere insaziabile che si appropria di tutto ciò che può incontrare, al quale nulla può essere puramente e semplicemente dato: infatti, questo essere ha ricevuto la sua parte di mondo e porta quindi in se stesso il progetto di ogni essere possibile, perché è stato sigillato una volta per tutte nel proprio campo di esperienze. La generalità del corpo non ci farà comprendere come l’Io indeclinabile possa alienarsi a beneficio dell’altro, giacché è esattamente compensata dalla generalità della mia soggettività inalienabile. Come potrei trovare altrove, nel mio campo percettivo, una tale autopresenza? Diremo che l’esistenza dell’altro è per me un semplice fatto? Ma in ogni caso è un fatto per me, e, per potere valere come fatto, deve appartenere al numero delle mie possibilità proprie e in un certo qual modo deve essere compreso o vissuto da me. Non potendo limitare il solipsismo dall’esterno, tenteremo di superarlo dall’interno? Io non posso riconoscere altro che un Ego, ma, come soggetto universale, cesso di essere un io finito, divengo uno spettatore imparziale di fronte al quale l’altro e io stesso in quanto essere empirico ci troviamo su un piede di parità, senza nessun privilegio in mio favore. La coscienza che scopro per riflessione e davanti alla quale tutto è oggetto non può essere identificata con me: il mio io è dispiegato davanti a essa come qualsiasi altra cosa, essa lo costituisce, non vi è racchiusa e pertanto


può costituire senza difficoltà altri io. In Dio io posso avere coscienza dell’altro come di me stesso, amare l’altro come me stesso. - Ma la soggettività con la quale ci siamo scontrati non si lascia chiamare Dio. Se la riflessione mi rivela a me stesso come soggetto infinito, è pur necessario riconoscere, almeno a titolo d’apparenza, l’ignoranza in cui ero di questo io più me stesso di me. Forse si risponderà che lo conoscevo in quanto percepivo l’altro e me stesso, tale percezione essendo possibile solo in virtù di quel soggetto infinito. Ma, se lo conoscevo già, tutti i libri di filosofia sono inutili. Orbene, la verità ha bisogno di essere rivelata. È quindi quell’io finito e ignorante che ha riconosciuto Dio in se stesso, mentre, dietro i fenomeni, Dio si pensava da sempre. È attraverso quest’ombra che la luce vana viene a illuminare qualcosa: pertanto, è definitivamente impossibile riassorbire l’ombra nella luce, io non posso mai riconoscermi come Dio senza negare in ipotesi ciò che voglio affermare in tesi. In Dio potrei amare l’altro come me stesso, ma sarebbe pur sempre necessario che il mio amore per Dio non venisse da me e che in realtà fosse, come diceva Spinoza, l’amore con cui Dio ama se stesso attraverso di me. Cosicché, in ultima analisi, non ci sarebbe in nessun luogo né amore dell’altro né l’altro, ma un unico amore di sé che si intreccerebbe su se stesso al di là delle nostre vite, che non ci riguarderebbe in nulla e al quale non potremmo accedere. Il movimento di riflessione e di amore che conduce a Dio rende impossibile il Dio al quale vorrebbe condurre. Ci troviamo cosi riportati al solipsismo, e ora il problema appare in tutta la sua difficoltà. Io non sono Dio, non ho che una pretesa alla divinità. Sfuggo a ogni impegno e oltrepasso l’altro in quanto ogni situazione e ogni altro deve essere vissuto da me per essere ai miei occhi. E tuttavia l’altro ha per me almeno un senso iniziale. Come gli dei del politeismo, io devo fare i conti con altri dei, o anche, come il dio di Aristotele, polarizzo un mondo che non creo. Le coscienze cadono nel paradosso di un solipsismo a più: ecco la situazione che occorre comprendere. Poiché viviamo questa situazione, deve esserci modo di esplicitarla. La solitudine e la comunicazione non devono essere i due termini di un’alternativa, ma due momenti di un unico fenomeno, giacché di fatto l’altro esiste per me. Dell’esperienza dell’altro dobbiamo dire ciò che altrove s’è detto della riflessione: che il suo oggetto non può sfuggirle assolutamente, poiché ne abbiamo nozione solo per merito suo. È pur necessario che in un certo qual modo la riflessione dia l’irriflesso, altrimenti non avremmo nulla da opporle ed essa non diventerebbe un problema per noi. Ugualmente è pur necessario che in un certo qual modo la mia esperienza dia l’altro, poiché, se non lo facesse, io non parlerei nemmeno di solitudine e non potrei nemmeno dichiarare inaccessibile l’altro. Ciò che è dato e vero inizialmente è una riflessione aperta sull’irriflesso, la ripresa riflessiva dell’irriflesso - ed è, allo stesso modo, la tensione della mia esperienza verso un altro, l’esistenza del quale è incontestata all’orizzonte della mia vita, anche quando la conoscenza che ho di lui è imperfetta. Tra i due problemi c’è più che un’analogia vaga, in entrambi i casi si tratta di sapere come io possa fare una puntata fuori di me stesso e vivere l’irriflesso come tale. In che modo posso, io che percepisco e che perciò stesso mi affermo come soggetto universale, percepire un altro che mi nega immediatamente questa universalità? Il fenomeno centrale, che fonda la mia soggettività e in pari tempo la mia trascendenza verso l’altro, consiste in ciò: che io sono dato a me stesso. Io sono dato, vale a dire che mi trovo già situato e impegnato in un mondo fisico e sociale; sono dato a me stesso, vale a dire che questa situazione non mi è mai dissimulata, non è mai attorno a me come una necessità estranea e io non vi sono mai effettivamente chiuso come un oggetto in una scatola. La mia libertà, il potere fondamentale che ho di essere il soggetto di tutte le mie esperienze, non è distinta dal mio inserimento nel mondo. Per me è un destino essere libero, non potermi ridurre a nulla di ciò che vivo, conservare nei confronti di ogni situazione di fatto la facoltà di prendere distanza, e questo destino è stato suggellato


nell’istante in cui il mio campo trascendentale è stato aperto, in cui sono nato come visione e sapere, in cui sono stato gettato nel mondo. Contro il mondo sociale io posso sempre ricorrere alla mia natura sensibile, chiudere gli occhi, tapparmi le orecchie, vivere da estraneo nella società, trattare l’altro, le cerimonie e i monumenti come semplici disposizioni di colori e di luci, destituirli del loro significato umano. Contro il mondo naturale posso sempre far ricorso a una natura pensante e revocare in dubbio ogni percezione considerata separatamente. Questa è la verità del solipsismo. Ogni esperienza mi apparirà sempre come una particolarità che non esaurisce la generalità del mio essere, e, come diceva Malebranche, io ho sempre la facoltà di andar oltre. Ma non posso fuggire l’essere se non nell’essere: per esempio, fuggo la società nella natura o il mondo reale in un immaginario che è fatto degli avanzi del reale. Il mondo fisico e sociale funge sempre da stimolo delle mie reazioni, che siano positive o negative. Io non revoco in dubbio la tale percezione se non in nome di una percezione più vera che la correggerebbe; se posso negare ogni cosa, è sempre affermando che c’è qualcosa in generale, e per questo motivo diciamo che il pensiero è una natura pensante, una affermazione dell’essere attraverso la negazione degli esseri. Posso costruire una filosofia solipsistica, ma, nel far ciò, presuppongo una comunità di uomini parlanti e mi rivolgo a essa. Anche il «rifiuto indefinito di essere alcunché» 5 presuppone qualcosa che venga rifiutato e in rapporto a cui il soggetto si distanzi. Si dice che si deve scegliere fra l’altro e me. Ma si sceglie l’uno contro l’altro, e cosi li si afferma entrambi. Si dice che l’altro mi trasforma in oggetto e mi nega, che io trasformo l’altro in oggetto e lo nego. In realtà, lo sguardo dell’altro mi trasforma in oggetto, e il mio sguardo lo trasforma in oggetto, solo se ci ritiriamo entrambi in fondo alla nostra natura pensante, se ci facciamo entrambi sguardo inumano, se ciascuno sente le proprie azioni non riprese e comprese, ma osservate come quelle di un insetto. È ciò che accade, per esempio, quando subisco lo sguardo di uno sconosciuto. Ma, anche allora, l’oggettivazione di ciascuno effettuata dallo sguardo dell’altro è sentita come penosa solo perché prende il posto di una comunicazione possibile. Lo sguardo che un cane mi rivolge non mi dà quasi mai soggezione. Il rifiuto di comunicare è ancora un modo di comunicazione. La libertà proteiforme, la natura pensante, il fondo inalienabile, l’esistenza non qualificata, che in me e nell’altro stabilisce i limiti di ogni simpatia, sospende sf la comunicazione, ma non la distrugge. Se ho a che fare con uno sconosciuto che non ha ancora detto una sola parola, posso credere che egli vive in un altro mondo in cui le mie azioni e i miei pensieri non sono degni di figurare: Ma perché cessi di trascendermi, basta che egli dica una parola, o semplicemente che abbia un gesto di impazienza: è dunque questa la sua voce, sono questi i suoi pensieri, ecco il dominio che credevo inaccessibile. Ogni esistenza non trascende definitivamente le altre se non quando resta oziosa e fondata sulla sua differenza naturale. Anche la meditazione universale che separa il filosofo dalla sua nazione, dalle sue amicizie, dalle sue convinzioni, dal suo essere empirico, in una parola dal mondo, e che sembra lasciarlo assolutamente solo, è in realtà atto, parola e perciò dialogo. A rigore, si potrebbe parlare di solipsismo solo a proposito di un soggetto che riuscisse a costituire tacitamente la sua esistenza senza essere nulla e senza far nulla, e questo è certo impossibile, giacché esistere significa essere al mondo. Appartandosi nella sua riflessione, il filosofo non può fare a meno di condurre con sé gli altri, perché, nell’oscurità del mondo, egli ha imparato per sempre a trattarli come consortes, e perché tutta la sua scienza è edificata su questo dato dell’opinione. La soggettività trascendentale è una soggettività rivelata - a se stessa e all’altro -, e a questo titolo è una intersoggettività. L’esistenza cade sotto la percezione non appena si raccoglie e si impegna in una condotta. Girne ogni altra percezione, anche quest’ultima afferma più di quanto colga: quando dico che vedo il portacenere e che esso è là, presuppongo compiuto uno sviluppo dell’esperienza che andrebbe all’infinito, impegno tutto un avvenire percettivo. Ugualmente, quando


dico che conosco qualcuno o che l’amo, io mi protendo al di là delle sue qualità verso un fondo inesauribile che un giorno potrà dissolvere l’immagine che mi facevo di lui. A questo prezzo ci sono per noi delle cose e degli «altri», non in virtù di un’illusione, ma in virtù di un atto violento che è la percezione stessa. Dopo il mondo naturale, dobbiamo quindi riscoprire il mondo sociale, non come oggetto o somma di oggetti, ma come campo permanente o dimensione d’esistenza: io posso si distogliermene, ma non cessare di essere situato in rapporto a esso. Come la nostra relazione con il mondo, la nostra relazione con il sociale è più profonda di ogni percezione espressa o di ogni giudizio. Collocarci nella società come un oggetto in mezzo ad altri oggetti è altrettanto falso che porre la società in noi come oggetto di pensiero: in entrambi i casi l’errore consiste nel trattare il sociale come un oggetto. Dobbiamo ritornare al sociale, con il quale siamo in contatto pel solo fatto di esistere e che portiamo aderente a noi prima di ogni oggettivazione. La coscienza oggettiva e scientifica del passato e delle civiltà sarebbe impossibile se, attraverso la mediazione della mia società, del mio mondo culturale e dei loro orizzonti, io non avessi con essi una comunicazione per lo meno virtuale, se il posto della repubblica ateniese e dell’impero romano non fosse stabilito in qualche luogo ai confini della mia propria storia, se essi non vi fossero installati come altrettanti individui da conoscere, indeterminati ma preesistenti, se io non trovassi nella mia vita le strutture fondamentali della storia. Il sociale è già là quando lo conosciamo o lo giudichiamo. Una filosofia individualistica o sociologistica è una certa percezione della coesistenza sistematizzata ed esplicitata. Prima della presa di coscienza il sociale esiste sordamente e come sollecitazione. Alla fine di Notre Patrie Péguy ritrova una voce sepolta che non aveva mai cessato di parlare, cosi come al risveglio noi sappiamo bene che gli oggetti non hanno cessato di essere durante la notte o che da molto tempo si bussa alla nostra porta. Nonostante le differenze di cultura, di morale, di lavoro e di ideologia, nel 1917 i contadini russi si uniscono nella lotta agli operai di Pietroburgo e di Mosca, poiché sentono che il loro destino è il medesimo; la classe è vissuta concretamente prima di divenire l’oggetto di una volontà deliberata. Originariamente, il sociale non esiste come oggetto e in terza persona. Volerlo trattare da oggetto è l’errore comune del curioso, del «grand’uomo» e dello storico. Fabrizio vorrebbe vedere la battaglia di Waterloo come si vede un paesaggio, ma non trova altro che episodi confusi. Sulla sua carta, l’Imperatore la vede veramente? Ma per lui essa si riduce a uno schema non privo di lacune: perché questo reggimento non va avanti? Perché non arrivano le riserve? Lo storico, che non è impegnato nella battaglia e la vede da tutti i luoghi, che riunisce una quantità di testimonianze e che sa come si è conclusa, crede infine di coglierla nella sua verità. Ma egli ce ne dà soltanto una rappresentazione, non coglie la battaglia stessa, giacché, nel momento in cui si è svolta, il suo esito era contingente, mentre non lo è più quando lo storico la racconta, giacché, nell’evento singolo di Waterloo, le cause profonde della sconfitta e gli incidenti fortuiti che hanno permesso a queste cause di agire erano determinanti allo stesso titolo, e perché lo storico ricolloca il singolo evento nella linea generale del declino dell’Impero. La vera Waterloo non è né in ciò che vede Fabrizio, né in ciò che vede l’Imperatore, né in ciò che vede lo storico, non è un oggetto determinabile, ma ciò che avviene ai confini di tutte le prospettive e ciò da cui esse sono tutte prelevate.6 Lo storico e il filosofo cercano una definizione oggettiva della classe o della nazione: la nazione è fondata sulla lingua comune o sulle concezioni della vita? La classe è fondata sull’ammontare dei redditi o sulla posizione nel circuito della produzione? È noto che, in realtà, nessuno di questi criteri permette di riconoscere se un individuo dipende da una nazione e da una classe. In tutte le rivoluzioni ci sono dei privilegiati che si uniscono alla classe rivoluzionaria e degli oppressi che si schierano per i privilegiati. E ogni nazione ha i suoi traditori. Il fatto è che la nazione o la classe non sono né fatalità che assoggettano


l’individuo dall’esterno, né d’altra parte valori che egli pone dall’interno. Sono modi di coesistenza che lo sollecitano. In periodo di calma, la nazione e la classe sono presenti come stimoli ai quali rivolgo solo risposte distratte e confuse, sono latenti. Una situazione rivoluzionaria o una situazione di pericolo nazionale trasforma in presa di posizione cosciente i rapporti precoscienti con la classe e la nazione che prima erano solamente vissuti, l’impegno tacito diviene esplicito. Ma esso si manifesta a se stesso come anteriore alla decisione. Il problema della modalità esistenziale del sociale si unisce qui a tutti i problemi di trascendenza. Che si parli del mio corpo, del mondo naturale, del passato, della nascita o della morte, si tratta sempre di sapere come io posso essere aperto a fenomeni che mi oltrepassano e che nondimeno esistono solo nella misura in cui io li riprendo e li vivo, come la presenza a me stesso (Ur-präsenz) che mi definisce e condiziona ogni presenza estranea è in pari tempo de-presentuazione (Entgegenwärti-gung)7 e mi getta fuori di me.8 L’idealismo, che fa l’esteriore immanente a me, e il realismo, che mi sottomette a una azione causale, falsificano i rapporti di motivazione che intercorrono fra l’esteriore e l’interiore e rendono incomprensibile questo rapporto. Il nostro passato individuale, per esempio, non può esserci dato né dalla sopravvivenza effettiva degli stati di coscienza o delle tracce cerebrali, né da una coscienza del passato che lo costituirebbe e lo coglierebbe immediatamente: in entrambi i casi ci mancherebbe il senso del passato, giacché, propriamente parlando, il passato ci sarebbe presente. Per noi c’è un passato solo a condizione che esso si dia in una presenza ambigua, prima di ogni evocazione espressa, come un campo sul quale abbiamo sbocco: è necessario che esso esista per noi anche quando non ci pensiamo e che tutte le nostre evocazioni siano prelevate da questa massa opaca. Parimenti, se avessi il mondo solo come una somma di cose e la cosa come una somma di proprietà, io non avrei certezze, ma soltanto delle probabilità, non avrei una realtà irricusabile, ma soltanto delle verità condizionate. Se esistono, il passato e il mondo devono avere un’immanenza di principio - possono essere solo ciò che io vedo dietro di me o attorno a me -, e una trascendenza di fatto - esistono nella mia vita prima di apparire come oggetti dei miei atti espressi. Inoltre, la mia nascita e la mia morte non possono essere per me oggetti di pensiero. Installato nella mia vita, addossato nella mia natura pensante, conficcato in questo campo trascendentale che si è aperto sin dalla mia prima percezione e nel quale ogni assenza non è se non il rovescio di una presenza, ogni silenzio una modalità dell’essere sonoro, io ho una specie di ubiquità e di eternità di principio, mi sento votato a un flusso di vita inesauribile di cui non posso pensare né l’inizio né la fine: infatti, sono ancora io vivente a pensarli e cosi la mia vita si precede e sopravvive sempre. Tuttavia, questa stessa natura pensante che mi satura d’essere mi apre il mondo attraverso una prospettiva, con essa ricevo il sentimento della mia contingenza, l’angoscia di essere oltrepassato, cosicché, anche se non penso la mia morte, io vivo in un’atmosfera di morte in generale, c’è come un’essenza della morte che è sempre all’orizzonte dei miei pensieri. Infine, poiché l’istante della mia morte è per me un avvenire inaccessibile, io sono ben certo di non vivere mai la presenza dell’altro a se stesso. Eppure ogni altro esiste per me a titolo di stile o di ambito di coesistenza irrecusabile, e la mia vita ha un’atmosfera sociale cosi come ha un sapore mortale. Con il mondo naturale e quello sociale abbiamo scoperto l’autentico trascendentale, che non è l’insieme delle operazioni costitutive con le quali un mondo trasparente, senza ombre e senza opacità, si dispiegherebbe di fronte a uno spettatore imparziale, ma la vita ambigua in cui si effettua l’Ursprung delle trascendenze, che, per una contraddizione fondamentale, mi mette in comunicazione con esse e su questo sfondo rende possibile la conoscenza.9 Si dirà forse che una contraddizione non può essere messa al centro della filosofia e che, non essendo in definitiva pensabili, tutte le nostre descrizioni non significano un bel nulla. L’obiezione sarebbe valida se ci limitassimo a ritrovare


sotto il nome di fenomeno o di campo fenomenico uno strato di esperienze prelogiche o magiche. Infatti, si dovrebbe allora scegliere o di credere alle descrizioni e di rinunciare a pensare, o di sapere ciò che si dice e di rinunciare alle descrizioni. Queste descrizioni devono essere per noi l’occasione di definire una comprensione e una riflessione più radicali del pensiero oggettivo. Alla fenomenologia intesa come descrizione diretta deve aggiungersi una fenomenologia della fenomenologia. Dobbiamo ritornare al cogito per cercarvi un Logos più fondamentale di quello del pensiero oggettivo, che ne riconosca la validità relativa e in pari tempo lo riconduca al posto che gli compete. Sul piano dell’essere non si comprenderà mai come il soggetto sia insieme naturante e naturato, infinito e finito. Ma se sotto il soggetto ritroviamo il tempo, e se ricolleghiamo al paradosso del tempo quelli del corpo, del mondo, della cosa e dell’altro, comprenderemo che al di là non c’è nulla da comprendere.


Note

1 La 2È 3

strutture du comportement, p. 125.

quanto abbiamo tentato di fare altrove (La strutture du comportement, capp. i e ii).

Ecco perché si possono rivelare dei perturbamenti dello schema corporeo pregando il soggetto di indicare sul corpo del medico il punto del proprio corpo che viene toccato.

4 Piaget,

La représentation du monde chez l’enfant, p. 21.

5 Valéry,

Introduction à la méthode de Léonard de Vinci, «Variété», p. 200.

6

Ci sarebbe quindi da scrivere una storia al presente. È ciò che ha fatto, per esempio, Jules Romains i n Verdun. Naturalmente, se il pensiero oggettivo è incapace di esaurire una situazione storica presente, non bisogna concluderne che noi dobbiamo vivere la storia a occhi chiusi, come una avventura individuale, sottrarci a ogni messa in prospettiva e gettarci nell’azione senza filo conduttore. Fabrizio non riesce a cogliere Waterloo, ma il reporter è già più vicino all’evento. Lo spirito d’avventura ce ne allontana ancora di più che il pensiero oggettivo. C’è un pensiero a contatto dell’evento che ne cerca la struttura concreta. Se è veramente nel senso della storia, una rivoluzione può essere pensata nello stesso tempo in cui è vissuta.

7

Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, III.

8

Merleau-Ponty riprende qui la terminologia husserliana dei manoscritti del gruppo C. Sulla base della traduzione italiana di questi manoscritti (Gerd Brand, Mondo, lo e Tempo nei manoscritti inediti di Husserl, trad. di E. Filippini, Milano, Bompiani, 1960, pp. 152-158) si è ritenuto opportuno rendere con de-presentuazione il termine tedesco Entgegenwärtigung che MerleauPonty traduce in francese con dé-présentation. Inoltre, va ricordato che il termine Ur-präsenz è tradotto in italiano con presenza originaria. (N. d. T.).

9

Nella sua ultima filosofia Husserl ammette che ogni riflessione deve cominciare con il ritornare alla descrizione del mondo della vita (Lebenswelt). Ma egli aggiunge che, grazie a una seconda «riduzione», le strutture del mondo della vita devono a loro volta essere ricollocate nel flusso trascendentale di una costituzione universale in cui tutte le oscurità del mondo verrebbero rischiarate. È però manifesto che qui ci troviamo di fronte a una alternativa: o la costituzione rende trasparente il mondo, e allora non si vede perché la riflessione avrebbe bisogno di passare per il mondo della vita, oppure essa ne conserva qualcosa, non spogliando mai il mondo della sua opacità. Pur attraverso molte reminiscenze del periodo logicista, il pensiero di Husserl si muove sempre più in questa direzione, - come si vede quando egli fa della razionalità un problema, quando ammette significati che in ultima analisi siano «fluenti» (Erfahrung und Urteil, p. 428), quando fonda la conoscenza su una ???a originaria.


PARTE TERZA L’ESSERE PER SÉ E L’ESSERE AL MONDO


I. Il cogito

Penso al Cogito cartesiano, voglio terminare questo lavoro, sento la freschezza della carta sotto la mia mano, percepisco gli alberi del viale attraverso la finestra. In ogni momento la mia vita precipita in cose trascendenti, trascorre interamente all’esterno. Il Cogito è o quel pensiero che si è formato tre secoli fa nella mente di Cartesio, o il senso dei testi che egli ci ha lasciato, o infine una verità eterna che traspare attraverso di essi: in ogni modo è un essere culturale, e, più che abbracciarlo, il mio pensiero si protende verso di esso, cosi come in un ambiente familiare il mio corpo si orienta e cammina fra gli oggetti senza che io debba rappresentarmeli espressamente. Questo libro cominciato non è un certo aggregato di idee, ma costituisce per me una situazione aperta di cui non potrei dare la formula complessa e in cui mi dibatto ciecamente finché, come per miracolo, i pensieri e le parole si organizzano da sé. A maggior ragione, gli esseri sensibili che mi circondano, la carta sotto la mia mano, gli alberi sotto i miei occhi, non mi confidano il loro segreto, la mia coscienza si fugge e si ignora in essi. Ecco la situazione iniziale di cui il realismo tenta di render conto affermando la trascendenza effettiva e l’esistenza in sé del mondo e delle idee. Tuttavia, non si tratta di dar ragione al realismo, e nel ritorno cartesiano delle cose o delle idee all’io vi è una verità definitiva. L’esperienza stessa delle cose trascendenti è possibile solo se io ne porto e ne trovo in me il progetto. Quando dico che le cose sono trascendenti, ciò significa che non le posseggo, che non ne faccio il giro, ma esse sono trascendenti nella misura in cui ignoro ciò che sono e in cui ne affermo ciecamente l’esistenza nuda. Orbene, che senso c’è ad affermare l’esistenza di non si sa che? Se in questa affermazione può esserci qualche verità, è perché io intravedo la natura o l’essenza che essa concerne, perché, per esempio, la mia visione dell’albero come estasi muta in una cosa individuale involge già un certo pensiero di vedere e un certo pensiero dell’albero, infine perché non incontro l’albero, non sono semplicemente messo a confronto con esso e perché ritrovo in questo esistente di fronte a me una certa natura di cui formo attivamente la nozione. Se trovo attorno a me delle cose, non è certo perché esse vi sono effettivamente, giacché, per ipotesi, io non so nulla di questa esistenza di fatto. Sono però capace di riconoscerla in quanto il contatto effettivo della cosa desta in me una scienza primordiale di tutte le cose, in quanto le mie percezioni finite e determinate sono le manifestazioni parziali di un potere di conoscenza che è coestensivo al mondo e che lo dispiega da capo a fondo. Se si immagina uno spazio in sé, con il quale il soggetto percipiente verrebbe a coincidere, per esempio se immagino che la mia mano percepisce la distanza di due punti aderendovi, in che modo l’angolo che le mie dita formano, e che è caratteristico di questa distanza, potrebbe essere valutato, se non fosse come ritracciato interiormente da una potenza che non risiede né in un oggetto, né nell’altro, e che perciò stesso diviene capace di conoscere o meglio di effettuare la loro relazione? Se si vuole che la «sensazione del mio pollice» e quella del mio indice siano per lo meno i «segni» della distanza, in che modo queste sensazioni avrebbero in se stesse quanto occorre per significare la relazione dei punti nello spazio, se non si situassero già su un tragitto che va dall’uno all’altro, e se a sua volta questo tragitto fosse soltanto percorso dalle mie dita quando si aprono, ma non preso di mira dal mio pensiero nel suo disegno intelligibile? «In che modo lo spirito potrebbe conoscere il senso di un segno che non ha esso stesso costituito come segno?»1 All’immagine della conoscenza che ottenevamo descrivendo il soggetto situato nel mondo, si deve, a quanto pare, sostituirne una seconda in base alla quale esso costruisce o costituisce questo mondo stesso, e tale immagine è più autentica dell’altra, giacché il commercio del soggetto con le cose


circostanti è possibile solo se prima esso le fa esistere per sé, le dispone attorno a sé e le estrae dal proprio fondo. A maggior ragione ciò si verifica negli atti di pensiero spontaneo. Il Cogito cartesiano che costituisce il tema delle mie riflessioni è sempre al di là di ciò che io mi rappresento attualmente, ha un orizzonte di senso, fatto di una quantità di pensieri che mi sono venuti mentre leggevo Cartesio e che non sono attualmente presenti, e di altri pensieri che presagisco, che potrei avere e che non ho mai sviluppato. Ma infine, se è sufficiente che queste tre sillabe vengano pronunciate davanti a me affinché io mi orienti subito verso un certo ordine di idee, è perché in un certo qual modo tutte le esplicitazioni possibili mi sono presenti in un sol tratto. Colui che vorrà limitare la luce spirituale alla attualità rappresentata urterà sempre nel problema socratico: «E in qual modo, o Socrate, cercherai quello che ignori affatto cos’è? Quale delle cose che ignori ti proporrai ad oggetto della ricerca? e dato che tu l’azzecchi, come saprai che è quella, se non la conosci?» (Menone, 80d).2 Un pensiero che fosse veramente superato dai suoi oggetti li vedrebbe moltiplicarsi sotto i propri passi senza essere mai capace di coglierne i rapporti e di penetrarne la verità. Sono io a ricostituire il Cogito storico, a leggere il testo di Cartesio, a riconoscervi una verità imperitura, e in fin dei conti il Cogito cartesiano non ha senso se non in virtù del mio proprio Cogito, io non ne penserei nulla se non avessi in me stesso tutto ciò che occorre per inventarlo. Sono io ad assegnare al mio pensiero il compito di riprendere il movimento del Cogito, sono io a verificare in ogni momento l’orientamento del mio pensiero verso questa meta, è dunque necessario che il mio pensiero vi preceda se stesso e che abbia già trovato ciò che cerca, altrimenti non lo cercherebbe. Esso va definito per il suo strano potere di anticiparsi e di lanciarsi da sé, di trovarsi ovunque presso di sé, in una parola per la sua autonomia. Se non mettesse spontaneamente nelle cose ciò che poi vi troverà, il pensiero sarebbe senza presa sulle cose, non le penserebbe, sarebbe una «illusione di pensiero».3 Una percezione sensibile o un ragionamento non possono essere dei fatti che si producono in me e che io constato. Quando li considero a cose fatte, essi si distribuiscono e si disperdono ciascuno al proprio posto. Ma questa è solo la scia del ragionamento e della percezione i quali, considerati nella loro attualità, per non disgregarsi dovevano abbracciare in un sol tratto tutto quanto era necessario alla loro realizzazione e quindi essere presenti a se stessi senza distanza, in una intenzione indivisa. Ogni pensiero di qualcosa è al tempo stesso autocoscienza, altrimenti non potrebbe avere un oggetto. Alla radice di tutte le nostre esperienze e di tutte le nostre riflessioni troviamo quindi un essere che riconosce immediatamente se stesso - essendo il sapere di sé e di tutte le cose - e che conosce la sua propria esistenza non per constatazione e come un fatto dato, o per inferenza a partire da un’idea di se stesso, ma in virtù di un contatto diretto con essa. L’autocoscienza è l’essere stesso dello spirito in funzione. È necessario che l’atto mediante il quale io ho coscienza di qualcosa sia colto anch’esso nell’istante in cui si compie, altrimenti si dissolverebbe. Pertanto, non è concepibile che tale atto possa venire sollecitato o provocato da una cosa qualsiasi, ma occorre che esso sia causa sui.4 Ritornare con Cartesio dalle cose al pensiero delle cose, significa o ridurre l’esperienza a una somma di eventi psicologici di cui l’Io non sarebbe altro che il nome comune o la causa ipotetica ma allora non si vede come la mia esperienza potrebbe essere più certa di quella di una cosa, poiché non è più immediata, salvo che in un istante inafferrabile -, oppure riconoscere al di qua degli eventi un campo e un sistema di pensieri che non sia assoggettato né al tempo né ad alcuna limitazione, un modo di esistenza che non debba nulla all’evento e che sia l’esistenza come coscienza, un atto spirituale che colga a distanza e contragga in se stesso tutto ciò verso cui è diretto, un «io penso» che sia, per se stesso e senza nessuna aggiunta, un «io sono».5 «La dottrina cartesiana del Cogito doveva quindi condurre logicamente all’affermazione della atemporalità dello spirito e all’ammissione di


una coscienza dell’eterno: experimur nos aeternos esse.»6 L’eternità intesa come il potere di abbracciare e di anticipare gli sviluppi temporali in un’unica intenzione sarebbe la definizione stessa della soggettività.7 Prima di mettere in questione questa interpretazione eternitaria del Cogito, vediamone bene le conseguenze, le quali faranno emergere la necessità di una correzione, Se il Cogito mi rivela un nuovo modo di esistenza che non deve nulla al tempo, se io mi scopro come il costituente universale di ogni essere che mi sia accessibile, e come un campo trascendentale senza pieghe e senza esteriorità, non dobbiamo dire soltanto che il mio spirito, «quando si tratta della forma di tutti gli oggetti dei sensi..., è il Dio di Spinoza»,8 - infatti, la distinzione fra la forma e la materia non può più ricevere un valore ultimo e non si vede come, riflettendo su se stesso, lo spirito potrebbe in ultima analisi trovare un qualche senso alla nozione di ricettività e pensarsi validamente come oggetto di una affezione: se è lo spirito a pensarci come oggetto di una affezione, allora non si pensa cosi, giacché afferma di nuovo la sua attività nel momento in cui sembra limitarla; se è lo spirito a collocarsi nel mondo, allora non è in esso e l’autoposizione è una illusione. Dobbiamo quindi dire senza restrizioni che il mio spirito è Dio. Non si vede come Lachièze-Rey, per esempio, potrebbe evitare questa conseguenza. «Se ho cessato di pensare e se ricomincio a pensare, io rivivo, ricostituisco nella sua indivisibilità e nel suo luogo d’origine il movimento che prolungo ... Cosi, ogniqualvolta pensa, il soggetto trova in se stesso il suo punto di appoggio, si pone, al di là delle sue diverse rappresentazioni e dietro di esse, in quella unità che, principio di ogni riconoscimento, non deve essere riconosciuta e ridiviene l’assoluto poiché lo è eternamente.»9 Ma come potrebbero esserci più assoluti? Come, in primo luogo, potrei mai riconoscere altri Io? Se l’unica esperienza del soggetto è quella che ottengo coincidendo con esso, se per definizione lo spirito si sottrae allo «spettatore estraneo» e non può essere riconosciuto se non interiormente, allora il mio Cogito è unico per principio, non è, nei confronti di un altro, «partecipabile». Si dirà che è «trasferibile» agli altri?10 Ma come potrebbe essere mai motivata una simile trasposizione? Quale spettacolo potrà mai indurmi validamente a porre fuori di me stesso quel modo di esistenza il cui senso esige che sia colto interiormente? Se non imparo a riconoscere in me stesso l’unione del per sé e dell’in sé, nessuno di quei meccanismi che sono gli altri corpi potrà mai animarsi, se non ho una esteriorità gli altri non hanno una interiorità. La pluralità delle coscienze è impossibile qualora io abbia coscienza assoluta di me stesso. Dietro l’assoluto del mio pensiero è anzi impossibile indovinare un assoluto divino. Se è perfetto, il contatto del mio pensiero con se stesso mi chiude in me stesso e mi impedisce di sentirmi superato, non c’è apertura o «aspirazione»11 a un Altro per questo Io che costruisce la totalità dell’essere e la sua propria presenza nel mondo, che è caratterizzato dall’«autopossesso»12 e che all’esterno trova solo ciò che vi ha messo. Questo io ben chiuso non è più un io finito. «Non c’è ... coscienza dell’universo se non grazie alla coscienza preliminare dell’organizzazione, nel senso attivo della parola, e perciò, in ultima analisi, se non in virtù di una comunione interiore con l’operazione stessa della divinità.»13 In definitiva, il Cogito mi fa coincidere con Dio. Se, quando la riconosco nel Cogito, la struttura intelligibile e identificabile della mia esperienza mi fa uscire dall’evento e mi stabilisce nell’eternità, nello stesso tempo tale struttura mi libera da tutte le limitazioni e da quell’evento fondamentale che è la mia esperienza privata; le stesse ragioni che obbligano a passare dall’evento all’atto, dai pensieri all’Io, costringono a passare dalla molteplicità degli Io a una coscienza costituente solitaria e, per salvare in extremis la finitezza del soggetto, mi vietano di definirlo come «monade».14 La coscienza costituente è per principio unica e universale. Se si vuole sostenere che in ciascuno di noi essa costituisce solo un microcosmo, se si conserva al


Cogito il senso di una «esperienza esistenziale»,15 se esso mi rivela non la trasparenza assoluta di un pensiero che si possiede per intero, ma l’atto cieco in virtù del quale io riprendo il mio destino di natura pensante e lo proseguo, allora si tratta di un’altra filosofia che non ci fa uscire dal tempo. Constatiamo qui la necessità di trovare una strada fra l’eternità e il tempo spezzettato dell’empirismo, e di riprendere l’interpretazione del Cogito e quella del tempo. Noi abbiamo riconosciuto una volta per tutte chele nostre relazioni con le cose non possono essere relazioni esterne, né la nostra autocoscienza la semplice annotazione di eventi psichici. Percepiamo un mondo solo se, prima di essere dei fatti constatati, questo mondo e questa percezione sono pensieri nostri. Rimane da comprendere precisamente l’appartenenza del soggetto a se stesso, quella cogitatio che rende possibile l’esperienza, la nostra presa sulle cose e sui nostri «stati di coscienza». Vedremo che essa non è indifferente all’evento e al tempo, che è anzi il modo fondamentale dell’evento e della Geschichte, di cui gli eventi oggettivi e impersonali sono forme derivate, e infine che il ricorso all’eternità non è reso necessario se non da una concezione oggettiva del tempo. Pertanto, è indubitabile che io penso. Io non sono sicuro che ci sia lì un portacenere o una pipa, ma sono sicuro che penso di vedere un portacenere o una pipa. Dissociare queste due affermazioni e mantenere, fuori di ogni giudizio concernente la cosa vista, l’evidenza del mio «pensiero di vedere» è cosi facile come si crede? È invece impossibile. La percezione è appunto quel genere d’atto in cui sarebbe fuori luogo separare l’atto stesso dal suo oggetto. La percezione e il percepito hanno necessariamente la medesima modalità esistenziale, giacché non si potrebbe separare dalla percezione la coscienza che essa ha, o meglio, che essa è di cogliere la cosa stessa. Non c’è motivo di conservare la certezza della percezione rifiutando quella della cosa percepita. Se vedo un portacenere nel senso pieno della parola vedere, allora li deve esserci un portacenere, e io non posso reprimere questa affermazione. Vedere significa vedere qualcosa. Vedere un rosso significa vedere un rosso esistente in atto. Si può ricondurre la visione alla semplice presunzione di vedere, solo se la si rappresenta come la contemplazione di un quale fluttuante e senza ancoraggio. Ma se, come abbiamo detto prima, nella sua trama specifica la qualità stessa è il suggerimento che ci viene fatto di una certa maniera di esistere - al quale rispondiamo in quanto abbiamo dei campi sensoriali , e se la percezione di un colore dotato di una struttura definita (colore superficiale o colore pellicolare) in un luogo o a una distanza precisi o vaghi, presuppone la nostra apertura a un reale o a un mondo, come potremmo allora dissociare la certezza della nostra esistenza percipiente da quella del suo partner esterno? Alla mia visione è essenziale riferirsi non solo a un ipotetico visibile, ma anche a un essere attualmente visto. Reciprocamente, se formo un dubbio sulla presenza della cosa, tale dubbio coinvolge la visione stessa; se non c’è li un rosso o un blu, dico che non ho veramente visto uno di questi colori, convengo che in nessun momento si è verificata quella adeguazione delle mie intenzioni visive e del visibile che è la visione in atto. Si deve quindi scegliere: o non ho nessuna certezza circa le cose stesse, ma allora non posso nemmeno essere certo della mia propria percezione, considerata come semplice pensiero, giacché, anche cosi, essa involge l’affermazione di una cosa; oppure colgo con certezza il mio pensiero, ma ciò presuppone che nello stesso tempo io assuma le esistenze che esso ha di mira. Quando Cartesio ci dice che l’esistenza delle cose visibili è dubbia, ma che la nostra visione, considerata come semplice pensiero di vedere, non lo è, questa posizione non è sostenibile. Infatti, il pensiero di vedere può avere due sensi. In primo luogo si può intenderlo nel senso limitativo di visione ipotetica o «impressione di vedere»: allora abbiamo qui solo la certezza di un possibile o di un probabile, e il «pensiero di vedere» implica che in taluni casi abbiamo avuto l’esperienza di una visione autentica o effettiva alla quale il «pensiero di vedere» somiglia e nella quale fosse questa volta inclusa la certezza della cosa. La certezza di una possibilità


non è altro che la possibilità di una certezza, il pensiero di vedere non è altro che una visione in idea, e noi non l’avremmo se per altra via non avessimo la visione in realtà. Possiamo ora intendere per «pensiero di vedere» la coscienza che avremmo del nostro potere costitutivo. A prescindere dalla loro verità o dalla loro falsità, le nostre percezioni empiriche sarebbero possibili solo se fossero abitate da uno spirito capace di riconoscere, identificare e mantenere di fronte a noi il loro oggetto intenzionale. Ma se questo potere costitutivo non è un mito, se veramente la percezione è il semplice prolungamento di un dinamismo interiore con il quale io posso coincidere, la mia certezza delle premesse trascendentali del mondo deve estendersi sino al mondo stesso e, poiché la mia visione è da capo a fondo pensiero di vedere, la cosa vista in se stessa è ciò che io ne penso, e l’idealismo trascendentale è un realismo assoluto. Sarebbe contraddittorio affermare16 che il mondo è costituito da me e in pari tempo che, di questa operazione costitutiva, non posso cogliere se non il disegno e le strutture essenziali; è necessario che, al termine del lavoro di costituzione, io veda apparire il mondo esistente e non soltanto il mondo in idea, altrimenti avrò solo una costruzione astratta, non una coscienza concreta del mondo. Cosi, in qualsiasi senso lo si assuma, il «pensiero di vedere» è certo unicamente se lo è anche la visione effettiva. Quando ci dice che, ridotta a se stessa, la sensazione è sempre vera e che l’errore si introduce attraverso l’interpretazione trascendente che il giudizio ne dà, Cartesio fa qui una distinzione illusoria: sapere se ho sentito qualcosa non è per me meno difficile che sapere se c’è lì qualcosa, e l’isterico sente e non conosce ciò che sente, come percepisce oggetti esterni senza rendersi conto di questa percezione. Quando invece sono sicuro di aver sentito, la certezza di una cosa esterna è racchiusa nella maniera stessa in cui la sensazione si articola e si sviluppa davanti a me: è un dolore della gamba o è un rosso, e per esempio un rosso opaco su un solo piano o viceversa un’atmosfera rossastra a tre dimensioni. L’«interpretazione» che io do delle mie sensazioni deve pur essere motivata, e può esserlo solo dalla struttura stessa di queste sensazioni, cosicché si può dire indifferentemente che non c’è interpretazione trascendente e giudizio che non scaturisca dalla configurazione stessa dei fenomeni -, e che non c’è sfera dell’immanenza e dominio in cui la mia coscienza sia presso di sé e assicurata contro ogni rischio di errore. Gli atti dell’Io sono di una natura tale che oltrepassano se stessi e che non c’è intimità della coscienza. La coscienza è da capo a fondo trascendenza, non trascendenza subita - abbiamo detto che una simile trascendenza sarebbe il ristagno della coscienza -, ma trascendenza attiva. La coscienza che ho di vedere o di sentire non è l’annotazione passiva di un evento psichico chiuso in sé e che mi lascerebbe incerto circa la realtà della cosa vista o sentita; non è nemmeno il dispiegarsi di un potere costitutivo che conterrebbe eminentemente ed eternamente in se stesso ogni visione o sensazione possibile e che raggiungerebbe l’oggetto senza doversi lasciare, ma è l’effettuazione stessa della visione. Mi accerto di vedere vedendo questo o quello, o per lo meno risvegliando attorno a me un contesto visivo, un mondo visibile che in definitiva non è attestato se non dalla visione di una cosa particolare. La visione è un’azione, cioè non un’operazione eterna - l’espressione è contraddittoria -, ma un’operazione che mantiene più di quanto promettesse, che va sempre oltre le sue premesse ed è preparata interiormente solo dalla mia apertura a un campo di trascendenze, cioè ancora da un’estasi. La visione coglie se stessa e si raggiunge nella cosa vista. Le è si essenziale cogliersi, e se non lo facesse non sarebbe visione di nulla, ma le è essenziale cogliersi in una specie di ambiguità e di oscurità, giacché essa non si possiede e anzi si cela a se stessa nella cosa vista. Ciò che scopro e riconosco attraverso il Cogito non è l’immanenza psicologica, l’inerenza di tutti i fenomeni a degli «stati di coscienza privati», il contatto cieco della sensazione con se stessa -, non è nemmeno l’immanenza trascendentale, l’appartenenza di tutti i fenomeni a una coscienza costituente, l’autopossesso del pensiero chiaro -, ma è il movimento profondo di trascendenza che è il mio essere


stesso, il contatto simultaneo con il mio essere e con l’essere del mondo. Tuttavia, il caso della percezione non è forse particolare? Essa mi apre a un mondo, non può farlo se non superandomi e superandosi, bisogna che la «sintesi» percettiva sia incompiuta. La percezione può offrirmi un «reale» solo esponendosi al rischio dell’errore, è assolutamente necessario che la cosa, se deve essere una cosa, abbia per me dei lati nascosti; ecco perché la distinzione fra l’apparenza e la realtà ha immediatamente il suo posto nella «sintesi» percettiva. A quanto pare, la coscienza riacquista invece i propri diritti e l’autopossesso se considero la mia coscienza dei «fatti psichici». Per esempio, l’amore e la volontà sono operazioni interiori; essi si fabbricano i loro oggetti ed è comprensibile come nel far ciò possano distogliersi dal reale e, in questo senso, ingannarci, mentre sembra impossibile che ci ingannino su se stessi: a partire dal momento in cui provo amore, gioia, tristezza, è vero che amo, che sono lieto o triste, anche se l’oggetto non ha, di fatto, ossia per altri o per me stesso in un momento diverso, il valore che gli attribuisco ora. L’apparenza è realtà in me, l’essere della coscienza è di manifestarsi a se stessa. Che cos’è volere se non avere coscienza di un oggetto come valido (o come valido appunto in quanto non è valido, nel caso della volontà perversa), che cos’è amare se non avere coscienza di un oggetto come amabile? E poiché la coscienza di un oggetto involge necessariamente un sapere di se stessa, senza di che sfuggirebbe a se stessa e non coglierebbe nemmeno il suo oggetto, volere e sapere che si vuole, amare e sapere che si ama sono un sol atto, l’amore è coscienza di amare, la volontà coscienza di volere. Un amore o una volontà che non fosse autocosciente sarebbe un amore che non ama, una volontà che non vuole, come un pensiero inconscio sarebbe un pensiero che non pensa. La volontà o l’amore sarebbero gli stessi indipendentemente dal fatto che il loro oggetto sia fittizio o reale e, considerati senza riferimento al loro oggetto, costituirebbero una sfera di certezza assoluta in cui la verità non può sfuggirci. Nella coscienza tutto sarebbe verità. Non ci sarebbe mai illusione se non nei confronti dell’oggetto esterno. Un sentimento, considerato in se stesso, sarebbe sempre vero, dal momento che è sentito. Tuttavia, cerchiamo di approfondire la nostra indagine. In primo luogo è manifesto che possiamo distinguere in noi sentimenti «veri» e sentimenti «falsi», che tutto ciò che sentiamo in noi stessi non per questo si trova collocato su un unico piano di esistenza o è vero allo stesso titolo, e che in noi vi sono gradi di realtà cosi come fuori di noi ci sono «riflessi», «fantasmi» e «cose». Accanto all’amore vero c’è un amore falso o illusorio. Quest’ultimo caso deve essere distinto dagli errori di interpretazione e da quelli in cui, in malafede, ho dato il nome di amore a emozioni che non lo meritavano. Che allora non c’è mai stata nemmeno una parvenza di amore, non ho creduto nemmeno per un momento che la mia vita fosse impegnata in questo sentimento, ho subdolamente evitato di formulare la domanda per evitare la risposta che già conoscevo, il mio «amore» non era fatto se non di compiacenza o di malafede. Viceversa, nell’amore falso o illusorio, io mi sono unito volontariamente con la persona amata e per un certo tempo essa ha mediato veramente i miei rapporti con il mondo. Quando dicevo che l’amavo, io non «interpretavo», e la mia vita si era veramente impegnata in una forma che, come una melodia, esigeva un seguito. È vero che, dopo la delusione ( dopo la rivelazione della mia illusione su me stesso ) e quando tenterò di comprendere ciò che mi è accaduto, ritroverò sotto questo preteso amore qualcosa di diverso dall’amore: la somiglianza della donna «amata» con un’altra persona, la noia, l’abitudine, una comunanza di interessi o di convinzioni, ed è anzi ciò che mi permetterà di parlare di illusione. Amavo solo delle qualità (questo sorriso che assomiglia a un altro sorriso, questa bellezza che si impone come un fatto, questa giovinezza dei gesti e della condotta) e non la singola maniera di esistere che è la persona stessa. E correlativamente io non ero preso per intero, talune regioni della mia vita trascorsa e della mia vita futura rimanevano refrattarie a questo amore, conservavo in me dei


posti riservati per altre cose. Allora, si dirà, o non lo sapevo, e in tal caso non si tratta di un amore illusorio, ma di un amore vero che termina - oppure lo sapevo, e in tal caso non c’è mai stato amore, neanche «finto». Ma il problema non può essere posto in questi termini. Non si può dire che, mentre esisteva, questo amore sia stato indiscernibile da un amore vero e che sia divenuto «finto amore» quando l’ho visto sconfessato. Non si può dire che una crisi mistica a quindici anni sia in se stessa priva di senso e divenga, a seconda del valore che le do nel seguito della mia vita, incidente di pubertà o primo segno di una vocazione religiosa. Anche se costruisco tutta la mia vita su un incidente di pubertà, questo incidente conserva il suo carattere contingente ed è la mia vita intera ad essere «falsa». Nella crisi mistica stessa, cosi come l’ho vissuta, si deve trovare qualche carattere che distingua la vocazione dall’incidente: nel primo caso l’atteggiamento mistico si inserisce nella mia relazione fondamentale con il mondo e con gli altri; nel secondo è, all’interno del soggetto, un comportamento impersonale e senza necessità intrinseca: «la pubertà». Parimenti, l’amore vero evoca a sé tutte le risorse del soggetto e lo interessa per intero, mentre il finto amore non concerne che uno dei suoi personaggi, «l’uomo di quarant’anni», se si tratta di un amore tardivo, «il viaggiatore», se si tratta di un amore esotico, «il vedovo», se il finto amore è tenuto in vita da un ricordo, «il fanciullo», se è tenuto in vita dal ricordo della madre. Un amore vero termina quando io cambio, o quando cambia la persona amata; un amore falso si rivela falso quando io ritorno in me. La differenza è intrinseca. Ma, poiché essa concerne il posto del sentimento nel mio intero essere al mondo, poiché il finto amore interessa il personaggio che credo di essere nel momento in cui lo vivo, e poiché, per rilevarne la falsità, avrei bisogno di una conoscenza di me stesso che appunto otterrò solo in virtù della disillusione, l’ambiguità rimane e proprio per questo motivo l’illusione è possibile. Consideriamo ancora l’esempio dell’isterico. Non si è certo indugiato a trattarlo come un simulatore; tuttavia, prima di ogni altro egli inganna se stesso, e questa plasticità pone di nuovo il problema che si vorrebbe negare: in che modo l’isterico può non sentire ciò che sente e sentire ciò che non sente? Egli non finge il dolore, la tristezza, la collera, e ciononostante i suoi «dolori», le sue «tristezze», le sue «collere» si distinguono da un dolore, da una tristezza e da una collera «reali» perché egli non vi è calato per intero; al centro dell’isterico stesso permane una zona di calma. I sentimenti illusori o immaginari sono si vissuti, ma per così dire con la periferia di noi stessi.17 Il fanciullo e molti uomini sono dominati da «valori di situazione» che celano a essi i loro sentimenti effettivi, - contenti perché è stato fatto loro un regalo, tristi perché assistono a un funerale, lieti o tristi a seconda del paesaggio, e, al di qua di tali sentimenti, indifferenti e vuoti. «Noi sentiamo si il sentimento stesso, ma in modo inautentico. È come l’ombra di un sentimento autentico.» Il nostro atteggiamento naturale non consiste nel provare i nostri propri sentimenti o nell’aderire ai nostri propri piaceri, ma nel vivere secondo le categorie sentimentali dell’ambiente. «La ragazza innamorata non proietta i suoi sentimenti in Isotta o Giulietta, ma prova i sentimenti di questi fantasmi poetici e li introduce nella propria vita. Solo in seguito, forse, un sentimento personale e autentico romperà la trama dei fantasmi sentimentali.»18 Ma, finché non nasce questo sentimento, la ragazza non ha modo di svelare ciò che v’è di illusorio e letterario nel suo amore. Sarà la verità dei suoi sentimenti futuri a far emergere la falsità dei suoi sentimenti presenti, questi ultimi sono quindi vissuti, la ragazza si «irrealizza»19 in essi come l’attore nella sua parte, e abbiamo qui non delle rappresentazioni o delle idee che provocherebbero emozioni reali, ma emozioni fittizie e sentimenti immaginari. Cosi, noi non ci possediamo in ogni momento in tutta la nostra realtà, e si ha il diritto di parlare di una percezione interiore, di un senso intimo, di un «analizzatore» fra noi e noi stessi, che, in ogni momento, penetra più o meno a fondo nella conoscenza della nostra vita e del nostro essere. Ciò che rimane al di qua della percezione interiore e non impressiona il senso intimo non è un


inconscio. «La mia vita», il mio «essere totale», non sono qui, come l’«io profondo» di Bergson, costruzioni contestabili, ma fenomeni che si danno con evidenza alla riflessione. Si tratta solo di ciò che facciamo. Scopro che sono innamorato. Forse non mi era sfuggito nessuno di quei fatti che ora costituiscono per me una prova: né il movimento più vivo del mio presente verso il mio avvenire, né l’emozione che mi lasciava senza parole, né la fretta di arrivare al giorno di un incontro. Ma, in definitiva, io non ne avevo fatto la somma, o, se l’avevo fatta, non pensavo che si trattasse di un sentimento cosi importante, mentre ora scopro che non concepisco più la mia vita senza questo amore. Rievocando i giorni e i mesi precedenti constato che le mie azioni e i miei pensieri erano polarizzati, ritrovo le tracce di una organizzazione, di una sintesi che si faceva. Non posso pretendere di aver sempre saputo ciò che so ora e realizzare nei mesi passati una conoscenza di me stesso che ho acquisito da poco. In generale non posso negare di avere molte cose da imparare circa me stesso, porre al centro di me stesso una conoscenza di me in cui sia anticipatamente contenuto tutto ciò che saprò di me stesso in seguito, dopo aver letto libri e attraversato eventi che ora non sospetto nemmeno. L’idea di una coscienza che sarebbe trasparente per se stessa e la cui esistenza si ricondurrebbe alla coscienza che essa ha di esistere, non è poi cosi diversa dalla nozione di inconscio: in entrambi i casi è la medesima illusione retrospettiva, si introduce in me a titolo di oggetto esplicito tutto ciò che in seguito verrò a sapere di me stesso. L’amore che attraverso di me proseguiva la sua dialettica e che ho appena scoperto non è, sin dall’inizio, una cosa celata in un inconscio, e nemmeno un oggetto di fronte alla mia coscienza, ma il movimento con il quale mi sono volto verso qualcuno, la conversione dei miei pensieri e dei miei comportamenti, - non lo ignoravo poiché ero io a vivere ore di noia prima di un incontro e a provare gioia quando tale incontro si avvicinava: insomma, esso era integralmente vissuto, ma non conosciuto. L’innamorato è paragonabile al sognatore. Il «contenuto latente» e il «senso sessuale» del sogno sono si presenti al sognatore, poiché è lui a sognare il suo sogno. Ma, proprio perché la sessualità è l’atmosfera generale del sogno, essi non sono tematizzati come sessuali, mancando uno sfondo non sessuale sul quale staccarsi. Quando ci si chiede se il sognatore è o non è cosciente del contenuto sessuale del suo sogno, si formula male il problema. Come abbiamo spiegato prima, la sessualità è uno dei nostri modi di riferirci al mondo: pertanto, quando il nostro essere meta-sessuale si eclissa, come accade nel sogno, essa è ovunque e in nessun luogo, è di per sé ambigua e non può specificarsi come sessualità. L’incendio che compare nel sogno non è per il sognatore una maniera di mascherare sotto un simbolo accettabile un impulso sessuale, ma diviene un simbolo solo per l’uomo desto; nel linguaggio onirico l’incendio è l’emblema dell’impulso sessuale, poiché il sognatore, distaccato dal mondo fisico e dal rigido contesto della vita desta, non impiega le immagini se non a motivo del loro valore affettivo. Il significato sessuale del sogno non è inconscio e nemmeno «cosciente», poiché il sogno non «significa», come la vita desta, riferendo un ordine di fatti a un altro, e ci si ingannerebbe ugualmente facendo cristallizzare la sessualità in «rappresentazioni inconscie» e collocando in fondo al sognatore una coscienza che chiama il sogno con il suo nome. Parimenti, per l’innamorato che lo vive, l’amore non ha nome, non è una cosa che si possa delimitare e designare, non è il medesimo amore di cui parlano i libri e i giornali, giacché è il modo in cui egli stabilisce i suoi rapporti con il mondo, è un significato esistenziale. Il criminale non vede il proprio delitto, il traditore il proprio tradimento, non perché essi esistano in fondo a lui a titolo di rappresentazioni o tendenze inconscie, ma perché sono altrettanti mondi relativamente chiusi, altrettante situazioni. Se siamo in situazione, noi siamo raggirati, non possiamo essere trasparenti per noi stessi, ed è necessario che il nostro contatto con noi stessi si effettui solo nell’equivoco. Ma non abbiamo forse perduto il senso della misura? Se l’illusione è talvolta possibile nella


coscienza, non lo sarà sempre? Dicevamo che ci sono sentimenti immaginari in cui siamo impegnati quanto basta perché siano vissuti, ma non quanto basta perché siano autentici. Ma vi sono forse impegni assoluti? Non è essenziale all’impegno lasciar sussistere l’autonomia di chi si impegna e, in questo senso, non essere mai totale? Non ci viene perciò negato ogni mezzo per qualificare certi sentimenti come autentici? Definire il soggetto mediante l’esistenza, cioè con un movimento in cui egli si supera, non significa nello stesso tempo votarlo all’illusione, dal momento che egli non potrà mai essere nulla? Pel fatto di non avere, nella coscienza, definito la realtà con l’apparenza, non abbiamo reciso i legami fra noi e noi stessi e ridotto la coscienza alla condizione di semplice apparenza di una realtà inafferrabile? Non ci troviamo di fronte all’alternativa di una coscienza assoluta o di un dubbio interminabile? E con il respingere la prima soluzione, non abbiamo reso impossibile il Cogito? - L’obiezione ci conduce al punto essenziale. Non è vero che la mia esistenza si possegga, cosi come non è vero che sia estranea a se stessa: infatti, essa è un atto o un fare e, per definizione, un atto è il passaggio violento da ciò che ho a ciò verso cui tendo, da ciò che sono a ciò che ho intenzione di essere. Io posso effettuare il Cogito e avere la sicurezza di volere, di amare o di credere veramente, solo se prima voglio, amo o credo effettivamente e se compio la mia propria esistenza. Se non lo facessi, un dubbio invincibile si estenderebbe sul mondo, ma anche sui miei propri pensieri. Mi chiederei senza fine se i miei «gusti», le mie «volontà», i miei «voti», le mie «avventure» sono veramente miei, essi mi sembrerebbero sempre fittizi, irreali e mancati. Ma, non essendo dubbio effettivo, questo dubbio stesso non potrebbe più nemmeno metter capo alla certezza di dubitare.20 Si esce da questo intoppo, si giunge alla «sincerità» solo prevenendo questi scrupoli e gettandosi nel «fare» a occhi chiusi. Cosi, non è perché io pensi di essere che sono certo di esistere, ma viceversa la certezza che ho dei miei pensieri deriva dalla loro esistenza effettiva. Il mio amore, il mio odio, la mia volontà non sono certi come semplici pensieri di amare, di odiare o di volere: per contro, tutta la certezza di questi pensieri discende da quella degli atti di amore, di odio o di volontà di cui sono sicuro perché li faccio. Ogni percezione interiore è inadeguata poiché io non sono un oggetto che si possa percepire, poiché faccio la mia realtà e non mi raggiungo se non nell’atto. «Io dubito»: non c’è altro modo di dissolvere ogni dubbio nei confronti di questa proposizione se non quello di dubitare effettivamente, di impegnarsi nell’esperienza del dubbio e quindi di far essere questo dubbio come certezza di dubitare. Dubitare è sempre dubitare di qualcosa, anche se si «dubita di tutto». Io sono certo di dubitare perché assumo questa o quella cosa, o anche ogni cosa e la mia propria esistenza, appunto come dubitabili. È nel mio rapporto con delle «cose» che mi conosco, la percezione interiore viene dopo, e non sarebbe possibile se non io avessi preso contatto con il mio dubbio vivendolo fin nel suo oggetto. Della percezione interiore possiamo dire ciò che si è detto a proposito della percezione esteriore: che implica l’infinito, che è una sintesi mai compiuta e che si afferma, quantunque sia incompiuta. Se voglio verificare la mia percezione del portacenere, andrò all’infinito, essa presume più di quanto so per scienza esplicita. Parimenti, se voglio verificare la realtà del mio dubbio, andrò all’infinito, sarà necessario mettere in questione il mio pensiero di dubitare, il pensiero di questo pensiero e cosi via. La certezza deriva dal dubbio stesso come atto e non da questi pensieri, cosi come la certezza della cosa e del mondo precede la conoscenza tetica delle loro proprietà. Sapere è si, come è stato detto, sapere che si sa, non perché questa elevazione al quadrato del sapere fondi il sapere stesso, ma viceversa perché esso la fonda. Io non posso ricostruire la cosa, eppure vi sono cose percepite; parimenti, io non posso mai coincidere con la mia vita che fugge da se stessa, eppure vi sono percezioni interiori. La stessa ragione mi rende capace di illusioni e di verità nei confronti di me stesso: vale a dire che ci sono atti nei quali mi raccolgo per superarli. Il Cogito è il riconoscimento di questo fatto fondamentale. Nella proposizione «Io penso,


Io sono», le due affermazioni sono si equivalenti, altrimenti non ci sarebbe Cogito. È però necessario intendersi sul senso di questa equivalenza: non è l’Io penso a contenere eminentemente l’Io sono, non è la mia esistenza a venire ricondotta alla coscienza che ne ho, ma viceversa l’Io penso a essere reintegrato al movimento di trascendenza dell’Io sono e la coscienza all’esistenza. È vero che sembra necessario ammettere una assoluta coincidenza di me con me, se non nel caso della volontà e del sentimento, per lo meno negli atti di «pensiero puro». Se cosi fosse, tutto ciò che abbiamo detto verrebbe rimesso in questione: il pensiero non apparirebbe certo come un modo di esistere, anzi, noi non dipenderemmo veramente che da esso. È quindi necessario che ora consideriamo l’intelletto. Io penso il triangolo, lo spazio a tre dimensioni al quale si presuppone che esso appartenga, il prolungamento di uno dei suoi lati, la retta passante per un vertice e parallela al lato opposto, e vedo che questo vertice e queste linee formano una somma di angoli eguale alla somma degli angoli del triangolo ed eguali, d’altro canto, a due retti. Sono certo del risultato, che considero come dimostrato. Ciò significa che la mia costruzione grafica non è, come le linee che il fanciullo aggiunge arbitrariamente al suo disegno e che ogni volta sconvolgono il significato («è una casa, no, è una barca, no, è un pupazzo»), un insieme di linee nate in modo fortuito sotto la mia mano. Si tratta del triangolo dall’inizio alla fine dell’operazione. La genesi della costruzione non è solamente una genesi reale, ma una genesi intelligibile, io costruisco secondo delle regole: faccio apparire sulla figura delle proprietà, cioè delle relazioni che appartengono all’essenza del triangolo, e non, come il fanciullo, tutte quelle suggerite dalla figura non definita che esiste di fatto sul foglio. Ho coscienza di dimostrare poiché colgo un legame necessario fra l’insieme dei dati che costituiscono l’ipotesi e la conclusione che ne traggo. È questa necessità a darmi la certezza di poter ripetere l’operazione su un numero indefinito di figure empiriche, ed essa stessa deriva dal fatto che, in ogni fase della mia dimostrazione e ogniqualvolta introducevo nuovi rapporti, rimanevo cosciente del triangolo come di una struttura stabile che essi determinano e non cancellano. Ecco perché si può dire, se si vuole, che la dimostrazione consiste nel far entrare in due costellazioni differenti la somma di angoli costruita, e nel vederla ora come eguale alla somma degli angoli del triangolo, ora come eguale a due retti.21 Bisogna però aggiungere22 che non abbiamo qui solamente due configurazioni che si succedono e si elidono vicendevolmente (come nel disegno del fanciullo sognatore): la prima sussiste per me mentre la seconda si stabilisce, la somma di angoli che eguaglio a due retti è la stessa che d’altro canto eguaglio alla somma degli angoli del triangolo, e ciò è possibile solo se supero l’ordine dei fenomeni o delle apparizioni per accedere a quello dell’eidos o dell’essere. La verità sembra impossibile senza un assoluto autopossesso nel pensiero attivo, in quanto non riuscirebbe a svilupparsi in una serie di operazioni successive e a costruire un risultato valido per sempre. Non ci sarebbe pensiero e verità senza un atto in virtù del quale io superi la dispersione temporale delle fasi del pensiero e la semplice esistenza fattuale dei miei eventi psichici, ma l’importante è comprendere bene questo atto. La necessità della dimostrazione non è una necessità analitica: la costruzione che permetterà di concludere non è realmente contenuta nell’essenza del triangolo, a partire da questa essenza è soltanto possibile. Non c’è una definizione del triangolo che racchiuda anticipatamente le proprietà che in seguito verranno dimostrate e gli elementi che fungeranno da intermediari ai fini di questa dimostrazione. Prolungare un lato, tracciare da un vertice una parallela al lato opposto, far intervenire il teorema concernente le parallele e la loro secante, tutto ciò è possibile solo se considero il triangolo stesso disegnato sul foglio, sulla lavagna o nell’immaginario, la sua fisionomia, la disposizione concreta delle sue linee, la sua Gestalt. Non è appunto questa l’essenza o l’idea del triangolo? - Cominciamo con lo scartare l’idea di una essenza formale del triangolo. A prescindere da ciò che si pensa dei tentativi di formalizzazione, è comunque


certo che essi non pretendono di fornire una logica dell’invenzione e che non si può costruire una definizione logica del triangolo che eguagli in fecondità la visione della figura e ci permetta, attraverso una serie di operazioni formali, di giungere a conclusioni che non sarebbero state stabilite preliminarmente per mezzo dell’intuizione. Si obietterà forse che ciò concerne unicamente le circostanze psicologiche della scoperta: se, a cose fatte, è possibile stabilire tra l’ipotesi e la conclusione un nesso che non debba nulla all’intuizione, è perché quest’ultima non è la necessaria mediatrice del pensiero e non ha posto in logica. Ma il fatto che la formalizzazione sia sempre retrospettiva comprova che essa non è mai completa se non in apparenza e che il pensiero formale vive del pensiero intuitivo. Essa svela gli assiomi non formulati sui quali diciamo che si fonda il ragionamento, sembra renderlo più rigoroso e mettere a nudo i fondamenti della nostra certezza, ma in realtà il luogo in cui si forma la certezza e in cui appare una verità è sempre il pensiero intuitivo, quantunque i principi vi siano tacitamente assunti o proprio per questo motivo. Non ci sarebbe prova della verità e nulla porrebbe fine alla «volubilità del nostro spirito», se pensassimo vi formae e se dapprima le relazioni formali non si offrissero a noi cristallizzate in qualcosa di particolare. Non saremmo nemmeno capaci di fissare una ipotesi per dedurne le conseguenze se non cominciassimo con il ritenerla vera. Una ipotesi è ciò che si suppone vero, e il pensiero ipotetico presuppone una esperienza della verità di fatto. La costruzione si riferisce quindi alla configurazione del triangolo, al modo in cui esso occupa lo spazio, alle relazioni che si esprimono nelle parole «su», «passante per», «prolungare». Queste relazioni costituiscono forse una specie di essenza materiale del triangolo? Se le parole «su», «passante per», ecc., conservano un senso, lo conservano perché io opero su un triangolo sensibile o immaginario, cioè situato almeno virtualmente nel mio campo percettivo, orientato in rapporto all’«alto» e al «basso», alla «destra» e alla «sinistra», e cioè, come abbiamo mostrato prima, implicato nella mia presa generale sul mondo. La costruzione esplicita le possibilità del triangolo considerato, non secondo la sua definizione e come idea, ma secondo la sua configurazione e come polo dei miei movimenti. La conclusione deriva dall’ipotesi in modo necessario poiché, nell’atto di costruire, il geometra ha esperito la possibilità della transizione. Cerchiamo di descrivere meglio questo atto. Abbiamo visto che evidentemente esso non è soltanto una operazione manuale, lo spostamento effettivo della mia mano e della mia penna sul foglio, altrimenti non vi sarebbe differenza tra una costruzione e un disegno, qualsiasi e nessuna dimostrazione risulterebbe dalla costruzione. La costruzione è un gesto, vale a dire che il tracciato effettivo esprime all’esterno una intenzione. Ma che cos’è questa intenzione? Io «considero» il triangolo, esso è per me un sistema di linee orientate e se parole come «angolo» o «direzione» hanno per me un senso, lo hanno in quanto io mi situo in un punto e da li tendo verso un altro punto, in quanto il sistema delle posizioni spaziali è per me un campo di movimenti possibili. In questo modo io colgo l’essenza completa del triangolo, che non è un insieme di «caratteri» oggettivi, ma la formula di un atteggiamento, una certa modalità della mia presa sul mondo, una struttura. Costruendo, io la faccio entrare in un’altra struttura, la struttura «parallele e secante». Come è possibile ciò? Lo è perché la mia percezione del triangolo non era, per così dire, cristallizzata e morta, il disegno del triangolo sul foglio ne era solamente l’involucro, era percorso da linee di forza, da ogni parte sorgevano in esso direzioni non tracciate e possibili. In quanto era implicito nella mia presa sul mondo, il triangolo si gonfiava di possibilità indefinite di cui la costruzione realizzata è solo un caso particolare. Essa ha un valore dimostrativo poiché io la faccio scaturire dalla formula motoria del triangolo; esprime la mia facoltà di far apparire gli emblemi sensibili di una certa presa sulle cose che è la mia percezione della struttura del triangolo. È un atto dell’immaginazione produttiva e non un ritorno all’idea eterna del triangolo. Come, secondo lo stesso Kant, la localizzazione degli oggetti


nello spazio non è una operazione solamente spirituale, ma utilizza la motilità del corpo -23 giacché il movimento dispone le sensazioni nel punto della propria traiettoria in cui esso si trova quando tali sensazioni si producono -, cosi lo studioso di geometria, che in definitiva studia le leggi oggettive della localizzazione, conosce le relazioni che lo interessano solo descrivendole almeno virtualmente con il proprio corpo. Il soggetto della geometria è un soggetto motorio. Ciò significa prima di tutto che il nostro corpo non è un oggetto, né il suo movimento un semplice spostamento nello spazio oggettivo, altrimenti il problema sarebbe solo differito e il movimento del corpo proprio non apporterebbe nessun chiarimento al problema della localizzazione delle cose, visto che ne sarebbe una esso stesso. È necessario che ci sia, come ammetteva Kant, un «movimento generatore dello spazio», che è il nostro movimento intenzionale, distinto dal «movimento nello spazio»24 che è quello delle cose e del nostro corpo passivo. Ma c’è di più: se il movimento è generatore dello spazio, è da escludersi che la motilità del corpo sia soltanto uno «strumento»25 per la coscienza costituente. Se c’è una coscienza costituente, il movimento corporeo non è movimento se non in quanto questa coscienza lo pensa come tale;26 la potenza costruttiva ritrova in esso solo ciò che vi ha messo, e nei suoi confronti il corpo non è nemmeno uno strumento: è un oggetto fra gli oggetti. Non c’è psicologia in una filosofia della coscienza costituente, o per lo meno alla psicologia non rimane più nulla di valido da dire: può solo applicare i risultati dell’analisi riflessiva a ogni contenuto particolare, del resto falsandoli, giacché li priva del loro significato trascendentale. Il movimento del corpo può esplicare una funzione nella percezione del mondo solo se è esso stesso una intenzionalità originale, una maniera di riferirsi all’oggetto distinta dalla conoscenza. Il mondo deve essere attorno a noi, non come un sistema di oggetti di cui facciamo la sintesi, ma come un insieme aperto di cose verso le quali ci proiettiamo. Il «movimento generatore dello spazio» non dispiega la traiettoria da qualche punto metafisico senza posto nel mondo, ma da un certo qui verso un certo là, del resto sostituibili per principio. Il progetto di movimento è un atto, e cioè traccia la distanza spazio-temporale superandola. Nella misura in cui si fonda necessariamente su questo atto, il pensiero del geometra non coincide quindi con se stesso: è la trascendenza stessa. Se, per mezzo di una costruzione, posso far apparire alcune proprietà del triangolo, se la figura così trasformata non cessa di essere la stessa figura dalla quale sono partito e se infine posso operare una sintesi che conserva il carattere della necessità, non è perché la mia costruzione sia sottesa da un concetto del triangolo in cui sarebbero incluse tutte le sue proprietà, e perché, uscito dalla coscienza percettiva, io giunga all’eidos: è perché effettuo la sintesi della nuova proprietà per mezzo del corpo. Infatti, esso mi inserisce istantaneamente nello spazio, mentre il suo movimento autonomo mi permette di raggiungere, attraverso una serie di fasi precise, questa veduta globale dello spazio. Il pensiero geometrico non trascende certo la coscienza percettiva: viceversa, è dal mondo della percezione che io derivo la nozione di essenza. Io credo che il triangolo ha sempre avuto e avrà sempre una somma di angoli eguale a due retti e tutte le altre proprietà meno visibili che la geometria gli attribuisce, poiché ho l’esperienza di un triangolo reale e poiché, come cosa fisica, esso ha necessariamente in se stesso tutto ciò che ha potuto o potrà manifestare. Se la cosa percepita non avesse fondato in noi per sempre l’ideale dell’essere che è ciò che è, non ci sarebbe fenomeno dell’essere e il pensiero matematico ci apparirebbe come una creazione. Ciò che chiamo l’essenza del triangolo non è altro che quella presunzione di una sintesi compiuta con la quale abbiamo definito la cosa. In quanto muove se stesso, ossia in quanto è inseparabile da una veduta del mondo ed è questa veduta stessa realizzata, il nostro corpo è la condizione di possibilità non solo della sintesi geometrica, ma anche di tutte le operazioni espressive e di tutte le acquisizioni che costituiscono il


mondo culturale. Quando si dice che il pensiero è spontaneo, ciò non significa che esso coincide con se stesso, ma viceversa che si supera, e la parola è appunto l’atto con il quale esso si eterna in verità. Infatti, è manifesto che la parola non può essere considerata come un semplice vestito del pensiero, né l’espressione come la traduzione di un significato già chiaro per sé in un sistema arbitrario di segni. Si è soliti ripetere che di per se stessi i suoni e i fonemi non vogliono dire nulla e che nel linguaggio la nostra coscienza può trovare solo ciò che vi ha messo. Ne conseguirebbe che il linguaggio non può insegnarci nulla, e che tutt’al più può suscitare in noi nuove combinazioni di significati che possediamo già. Ma l’esperienza del linguaggio smentisce tutto ciò. È vero che la comunicazione presuppone un sistema di corrispondenze come quello fornito dal dizionario, ma essa va oltre: è la frase a dar senso a ogni parola, è per essere stata impiegata in diversi contesti che, a poco a poco, la parola si impregna di un senso che non è possibile fissare in modo assoluto. Una parola importante, un buon libro impongono il loro senso. Essi lo portano dunque in sé in un certo modo. E, per quanto riguarda il soggetto che parla, è pur necessario che l’atto espressivo permetta anche a lui di superare ciò che pensava prima e che egli trovi nelle sue proprie parole più di quanto pensasse di mettervi, altrimenti non si vedrebbe il pensiero, anche solitario, cercare con tanta perseveranza l’espressione. La parola è quindi quell’operazione paradossale nella quale, per mezzo di parole il cui senso è dato e di significati già disponibili, tentiamo di raggiungere un’intenzione che per principio va oltre, modifica e, in ultima analisi, fissa da sé il senso delle parole che la traducono. Nell’operazione espressiva il linguaggio costituito esplica una funzione analoga a quella dei colori nella pittura: se non avessimo occhi o in generale sensi, per noi non ci sarebbe pittura, e tuttavia il quadro «dice» più di quanto possa insegnarci la semplice attività dei nostri sensi. Al di là dei dati sensibili, al di là di quelli del linguaggio costituito, il quadro e la parola devono dunque avere per se stessi una virtù significante, senza riferimento a un significato che esiste per sé, nella mente dello spettatore o dell’ascoltatore. «Per mezzo delle note, vogliamo costituire, partendo da uno spettacolo o da una emozione o anche da un’idea astratta, una sorta di equivalente o di specie solubile nello spirito. Qui l’espressione diviene la cosa principale. Informiamo il lettore, lo facciamo partecipare alla nostra azione creatrice o poetica, poniamo nella bocca segreta del suo spirito una enunciazione del tale oggetto o del tale sentimento.»27 Nel pittore o nel soggetto parlante, il quadro e la parola non sono l’illustrazione di un pensiero già fatto, ma l’appropriazione di questo pensiero stesso. Ecco perché siamo stati indotti a distinguere una parola secondaria, che traduce un pensiero già acquisito, e una parola originaria che anzitutto lo fa esistere per noi come per l’altro. Orbene, tutte le parole che sono divenute i semplici indici di un pensiero univoco hanno potuto farlo solo perché dapprima hanno funto da parole originarie, e noi possiamo ancora ricordare l’aspetto prezioso che avevano, come un paesaggio sconosciuto, quando le «acquisivamo», quando esse esercitavano ancora la funzione primordiale dell’espressione. Cosi l’autopossesso, la coincidenza con sé non è la definizione del pensiero: è invece un risultato dell’espressione ed è sempre un’illusione, nella misura in cui la chiarezza di ciò che è acquisito riposa sull’operazione fondamentalmente oscura grazie alla quale abbiamo eternato in noi un momento di vita fugace. Sotto il pensiero che fruisce delle proprie acquisizioni e che è solamente una pausa nel processo indefinito dell’espressione, siamo invitati a ritrovare un pensiero che cerca di stabilirsi e che vi riesce solo piegando a un uso inedito le risorse del linguaggio costituito. Questa operazione deve venire considerata come un fatto ultimo, giacché ogni spiegazione che si vorrebbe dare di essa - sia la spiegazione empiristica la quale riconduce i significati nuovi ai significati dati, sia la spiegazione idealistica che pone un sapere assoluto immanente alle prime forme del sapere - tutto sommato consisterebbe nel negarla. Il linguaggio ci oltrepassa, non soltanto perché l’uso della parola presuppone sempre un gran numero di pensieri che


non sono attuali e che ogni parola riassume, ma anche per un altro motivo, più profondo: e cioè che, nella loro attualità, nemmeno questi pensieri sono mai stati «puri» pensieri, in essi il significato eccedeva già il significante e c’era già il medesimo sforzo del pensiero pensato per eguagliare il pensiero pensante, la stessa unione provvisoria di entrambi che costituisce tutto il mistero dell’espressione. Ciò che chiamiamo idea è necessariamente collegato a un atto di espressione e gli deve la sua apparenza di autonomia. È un oggetto culturale come la chiesa, la strada, la matita o la Nona Sinfonia. Si risponderà che la chiesa può bruciare, che la strada e la matita possono essere distrutte, e che, se tutte le partiture della Nona Sinfonia e tutti gli strumenti musicali fossero ridotti in cenere, essa sopravviverebbe per pochi anni e solo nella memoria di coloro che l’hanno ascoltata, mentre l’idea del triangolo e le sue proprietà sono imperiture. In realtà, l’idea del triangolo con le sue proprietà e quella dell’equazione di secondo grado hanno la loro area storica e geografica, e se la tradizione dalla quale le riceviamo, gli strumenti culturali che le trasmettono venissero distrutti, per farle apparire nel mondo occorrerebbero nuovi atti di espressione creatrice. È vero soltanto che, una volta data l’apparizione iniziale, le «apparizioni» successive non aggiungono nulla, se sono riuscite, e non tolgono nulla, se sono mancate, all’equazione di secondo grado, la quale rimane tra di noi come un bene inesauribile. Ma possiamo dire altrettanto della Nona Sinfonia, che sussiste nel suo luogo intelligibile, come ha detto Proust, a prescindere dalla qualità della sua esecuzione, o meglio, che conduce la sua esistenza in un tempo più segreto del tempo naturale. Il tempo delle idee non si confonde con quello in cui i libri appaiono e scompaiono, in cui le musiche rimangono impresse o si cancellano: un libro che era sempre stato ristampato cessa un giorno di essere letto, una musica di cui rimanevano solo pochi esemplari è improvvisamente ricercata, l’esistenza dell’idea non si confonde con l’esistenza empirica dei mezzi d’espressione, ma le idee permangono o passano, il cielo intelligibile muta colore. Abbiamo già distinto la parola empirica, la parola come fenomeno sonoro, il fatto che tale parola è detta nel tale momento dalla tale persona, che può prodursi senza pensiero e la parola trascendentale o autentica, quella in virtù della quale un’idea comincia a esistere. Ma se non ci fosse stato un uomo con organi di fonazione o di articolazione e un apparato respiratorio - o per lo meno con un corpo e la capacità di muoversi da sé - non ci sarebbe stata nessuna parola e non ci sarebbero state idee. È inoltre vero che, meglio che nella musica o nella pittura, nella parola il pensiero sembra potersi staccare nei suoi strumenti materiali e valere eternamente. In un certo qual modo tutti i triangoli che la causalità fisica porrà in essere avranno sempre una somma di angoli eguali a due retti, anche se gli uomini hanno disimparato la geometria e se non ne rimane nemmeno uno che la sappia. Ma il fatto è che, in questo caso, la parola si applica a una natura, mentre la musica e la pittura, come la poesia, si creano il loro proprio oggetto, e, non appena sono abbastanza coscienti di se stesse, si rinchiudono deliberatamente nel mondo culturale. La parola prosaica, e in particolare la parola scientifica, è un essere culturale che ha la pretesa di tradurre una verità della natura in sé. È noto che le cose non stanno cosi, e la critica moderna delle scienze ha dimostrato ciò che queste hanno di costruttivo. I triangoli «reali», cioè i triangoli «percepiti», non hanno necessariamente, da tempo immemorabile, una somma di angoli eguale a due retti, se è vero che lo spazio vissuto è rapportabile alle geometrie non euclidee non meno che a quella euclidea. Cosi, non c’è differenza fondamentale fra i modi d’espressione, non si può privilegiare uno di essi come se esprimesse una verità in sé. La parola è muta quanto la musica, la musica parlante quanto la parola. L’espressione è ovunque creatrice e l’espresso è sempre inseparabile da essa. Non c’è analisi che possa render chiaro il linguaggio e dispiegarlo dinnanzi a noi come un oggetto. L’atto di parola è chiaro solo per colui che effettivamente parla o ascolta, diviene oscuro non appena vogliamo esplicitare le ragioni che ci hanno fatto comprendere cosi e non altrimenti. Di esso possiamo dire ciò


che abbiamo detto della percezione e che Pascal dice delle opinioni: nei tre casi è lo stesso prodigio di una chiarezza a prima vista che scompare non appena vogliamo ridurla in quelli che, secondo noi, sono gli elementi che la compongono. Io parlo e, senza nessuna ambiguità, mi comprendo e sono compreso, riafferro la mia vita e gli altri la riafferrano. Dico che «attendo da molto tempo» o che qualcuno «è morto», e credo di sapere che cosa dico. Tuttavia, se mi interrogo sul tempo o sull’esperienza della morte, che erano implicati nel mio discorso, nella mia mente non c’è piò che oscurità. Infatti, io ho voluto parlare sulla parola, ripetere l’atto d’espressione che ha dato un senso alla parola morte e alla parola tempo, estendere la presa sommaria che esse mi assicurano sulla mia esperienza, e questi atti di espressione seconda o terza, come gli altri, hanno si in ogni caso la loro chiarezza convincente, ma senza che io possa mai dissolvere l’oscurità fondamentale dell’espresso, né annullare la distanza del mio pensiero da se stesso. Ne dobbiamo concludere28 che, nato e sviluppato nell’oscurità, e tuttavia capace di chiarezza, il linguaggio è solo il rovescio di un Pensiero infinito e il suo messaggio affidato a noi? Ciò significherebbe perdere contatto con l’analisi che abbiamo appena fatto e capovolgere, al momento della conclusione, ciò che abbiamo stabilito nel corso di essa. Il linguaggio ci trascende, e ciononostante noi parliamo. Se ne concludiamo che c’è un pensiero trascendente che le nostre parole compitano, presupponiamo terminato un tentativo di espressione che, come abbiamo appena visto, non lo è mai, invochiamo un pensiero assoluto proprio quando dimostriamo che esso è per noi inconcepibile. È il principio dell’apologetica pascaliana, ma, quanto più si dimostra che l’uomo è privo di poteri assoluti, tanto più si rende, non già probabile, ma viceversa sospetta l’affermazione di un assoluto. Di fatto, l’analisi non dimostra che dietro il linguaggio c’è un pensiero trascendente, ma che il pensiero si trascende nella parola, che la parola stessa fa quella concordanza di me con me e di me con l’altro sulla quale la si vuole fondare. Il fenomeno del linguaggio, nella duplice accezione di fatto primo e di prodigio, non è spiegato, ma abolito, se lo sdoppiamo in un pensiero trascendente, giacché esso consiste in ciò: che, per essere stato espresso, un atto di pensiero ha ormai il potere di sopravvivere. Non che la formula verbale, come si dice spesso, ci serva da mezzo mnemotecnico: scritta sulla carta o affidata alla memoria, essa non servirebbe a nulla se non avessimo acquisito una volta per tutte la facoltà interiore di interpretarla. Esprimere non è sostituire al pensiero nuovo un sistema di segni stabili ai quali siano collegati dei pensieri sicuri, ma è accertarsi, mediante l’impiego di parole già usate, che l’intenzione nuova riprenda l’eredità del passato, è, in un sol gesto, incorporare il passato al presente e saldare questo presente a un avvenire, aprire tutto un ciclo di tempo in cui il pensiero «acquisito» rimarrà presente a titolo di dimensione, senza che ormai abbiamo bisogno di evocarlo o di riprodurlo. Ciò che nel pensiero chiamiamo l’atemporale, è ciò che, per aver così ripreso il passato e impegnato l’avvenire, è presuntivamente di tutti i tempi e quindi non è affatto trascendente al tempo. L’atemporale è l’acquisito. Il tempo stesso ci offre il primo modello di questa acquisizione per sempre. Se è la dimensione secondo la quale gli eventi si elidono vicendevolmente, il tempo è anche quella secondo la quale ciascuno di essi riceve un posto inalienabile. Dire che un evento ha luogo equivale a dire che sarà vero per sempre che esso ha avuto luogo. Secondo la sua essenza stessa, ogni momento del tempo pone un’esistenza contro la quale gli altri momenti del tempo non possono nulla. Dopo la costruzione, la relazione geometrica è acquisita; anche se dimentico i dettagli della dimostrazione, il gesto matematico fonda una tradizione. La pittura di Van Gogh è installata in me per sempre, ho compiuto un passo sul quale non posso ritornare, e, anche se non conservo nessun ricordo preciso dei quadri che ho visto, ormai tutta la mia esperienza estetica sarà quella di uno che ha conosciuto la pittura di Van Gogh, proprio come un borghese divenuto operaio rimane per sempre, persino nel suo modo di


essere operaio, un borghese-divenuto-operaio, o come un atto ci qualifica per sempre, anche se poi lo sconfessiamo e cambiamo opinione. L’esistenza assume sempre il proprio passato, sia accettandolo o rifiutandolo. Come diceva Proust, noi siamo appollaiati su una piramide di passato, e non lo vediamo solo perché siamo assillati dal pensiero oggettivo. Crediamo che per noi stessi il nostro passato si riduca ai ricordi espressi che possiamo contemplare. Separiamo la nostra esistenza dal passato stesso e non le permettiamo di riafferrare altro che tracce presenti di questo passato. Ma in che modo queste tracce sarebbero riconosciute come tracce del passato se, d’altro canto, non avessimo uno sbocco diretto su questo passato? Dobbiamo ammettere l’acquisizione come un fenomeno irriducibile. Ciò che abbiamo vissuto è e rimane perpetuamente per noi, il vecchio attinge alla propria infanzia. Ogni presente che si produce penetra nel tempo come un cuneo e aspira alla eternità. L’eternità non è un altro ordine al di là del tempo, ma l’atmosfera del tempo. Un pensiero falso possiede questa specie di eternità quanto uno vero: se mi inganno ora, è vero per sempre che mi sono ingannato. È dunque necessario che nel pensiero vero ci sia un’altra fecondità, è necessario che esso rimanga vero non solo come passato effettivamente vissuto, ma anche come presente perpetuo sempre ripreso nel seguito del tempo. Tuttavia, ciò non costituisce una differenza essenziale tra verità di fatto e verità di ragione. Infatti, dal momento che vi ho aderito, ogni mia azione, ogni mio pensiero, anche errato, ha cercato di cogliere un valore o una verità, e perciò conserva la sua attualità nel seguito della mia vita, non solo come fatto incancellabile, ma anche come tappa necessaria verso le verità o i valori più completi che più tardi ho riconosciuto. Le mie verità sono state costruite con questi errori e li portano con sé nella loro eternità. Reciprocamente, non c’è nessuna verità di ragione che non conservi un coefficente di fatticità: la pretesa trasparenza della geometria euclidea si rivela un giorno come trasparenza per un certo periodo storico dello spirito umano, essa significa soltanto che per un certo tempo gli uomini hanno potuto prendere per «terreno» dei loro pensieri uno spazio omogeneo a tre dimensioni, e assumere senza problemi ciò che la scienza generalizzata considera come una specificazione contingente dello spazio. Cosi, ogni verità di fatto è verità di ragione, ogni verità di ragione è verità di fatto. Il rapporto fra la ragione e il fatto, fra l’eternità e il tempo, cosi come quello fra la riflessione e l’irriflesso, fra il pensiero e il linguaggio o fra il pensiero e la percezione, è quel rapporto a doppio senso che la fenomenologia ha chiamato Fundierung: il termine fondante - il tempo, l’irriflesso, il fatto, il linguaggio, la percezione - è primo nel senso che il fondato si dà come una determinazione o una esplicitazione del fondante senza perciò poterlo mai riassorbire; tuttavia, il fondante non è primo nel senso empiristico e il fondato non ne è semplicemente derivato, poiché il fondante si manifesta proprio attraverso il fondato. Pertanto, possiamo dire indifferentemente che il presente è un abbozzo di eternità e che l’eternità del vero non è se non una sublimazione del presente. Non si supererà questo equivoco, ma lo si comprenderà come definitivo, ritrovando l’intuizione del tempo autentico che conserva tutto e che è nel cuore della dimostrazione come dell’espressione. «La riflessione sulla potenza creativa dello spirito» dice Brunschvicg29 «implica in ogni certezza di esperienza il sentimento che, in una verità determinata che si è riusciti a dimostrare, esiste un’anima di verità che la oltrepassa e che si svincola da essa, anima che può staccarsi dall’espressione particolare di questa verità per abbracciare un’espressione più comprensiva e più profonda, ma senza che questo progresso intacchi l’eternità del vero.» Ma che cos’è questo vero eterno che nessuno ha? Che cos’è questo espresso al di là di ogni espressione e, se noi abbiamo il diritto di porlo, perché ci curiamo costantemente di ottenere un’espressione più esatta? Che cos’è questo Uno attorno al quale disponiamo gli spiriti e le verità come se tendessero verso di esso, pur affermando che non tendono verso nessun termine prestabilito? L’idea di un Essere trascendente aveva per lo meno il vantaggio di non rendere inutili le azioni attraverso le quali, in una


ripresa sempre difficile, ogni coscienza e l’intersoggettività realizzano esse stesse la loro unità. È vero che, se queste azioni sono ciò che possiamo cogliere di più intimo a noi stessi, la posizione di Dio non contribuisce in nulla alla delucidazione della nostra vita. Noi esperiamo non un vero eterno e una partecipazione all’Uno, ma gli atti concreti di ripresa in virtù dei quali, nella casualità del tempo, stringiamo dei rapporti con noi stessi e con l’altro, in breve: esperiamo una partecipazione al mondo, l’«essere-alla-verità» non è distinto dall’essere al mondo. Ora siamo in grado di prendere posizione in merito al problema dell’evidenza e di descrivere l’esperienza della verità. Ci sono verità come ci sono percezioni: non perché possiamo dispiegare interamente davanti a noi le ragioni di una affermazione - non ci sono se non motivi, abbiamo solo una presa sul tempo e non un possesso del tempo -, ma perché è essenziale al tempo riafferrare se stesso a mano a mano che si lascia e contrarsi in cose visibili, in evidenze a prima vista. Ogni coscienza è, in un certo grado, coscienza percettiva. In ciò che in ogni momento chiamo la mia ragione o le mie idee, troveremmo sempre, se potessimo svilupparne tutti i presupposti, esperienze che non sono state esplicitate, apporti massica del passato e del presente, tutta una «storia sedimentata»30 che non concerne solamente la genesi del mio pensiero, ma ne determina il senso. Perché un’evidenza assoluta e senza nessun presupposto fosse possibile, perché il mio pensiero potesse penetrarsi, raggiungersi e arrivare a un puro «autoconsenso», sarebbe necessario, per esprimerci come i kantiani, che esso cessasse di essere un evento e che fosse atto da capo a fondo o, per esprimerà come gli scolastici, che la sua realtà formale fosse inclusa nella sua realtà oggettiva - infine, per esprimerà come Malebranche, che cessasse di essere «percezione», «sentimento» o «contatto» con la verità per divenire pura «idea» e «visione» della verità. In altri termini, sarebbe necessario che, anziché essere me stesso io fossi divenuto un puro conoscitore di me stesso, e che il mondo avesse cessato di esistere attorno a me per divenire puro oggetto davanti a me. Nei confronti di dò che siamo per effetto delle nostre acquisizioni e nei confronti di questo mondo preesistente, noi abbiamo certo un potere sospensivo, e dò è sufficiente perché non siamo determinati. Io posso chiudere gli occhi, tapparmi le orecchie, ma non posso cessare di vedere, fosse pure il nero degli occhi, di udire, fosse pure il silenzio; allo stesso modo, posso mettere fra parentesi le mie opinioni o le mie credenze acquisite, ma tutto dò che penso o decido è sempre sullo sfondo di dò che ho creduto o fatto prima. Habemus ideam veram, possediamo una verità, questa prova della verità sarebbe sapere assoluto solo se potessimo tematizzarne tutti i motivi, cioè se cessassimo di essere situati. Il possesso effettivo della idea vera non d dà quindi il diritto di affermare un luogo intelligibile di pensiero adeguato e di produttività assoluta, ma fonda solamente una «teleologia»31della coscienza che, con questo primo strumento, ne forgerà di più perfetti, con questi ultimi altri ancora più perfetti e cosi all’infinito. «È solo in virtù di un’intuizione eidetica che l’essenza dell’intuizione eidetica può essere delucidata» dice Husserl.32 Nella nostra esperienza, l’intuizione di qualche essenza particolare precede necessariamente l’essenza dell’intuizione. L’unica maniera di pensare il pensiero è prima di tutto quella di pensare qualcosa, e a quel pensiero è dunque essenziale non considerarsi come oggetto. Pensare il pensiero significa adottare verso di esso un atteggiamento che abbiamo dapprima imparato nei confronti delle «cose», e non significa mai eliminare, ma solamente riportare più in alto la opacità del pensiero per se stesso. Ogni pausa nel movimento della coscienza, ogni fissazione dell’oggetto, ogni apparizione di un «qualcosa» o di un’idea presuppone un soggetto che cessi di interrogarsi per lo meno sotto quel rapporto. Ecco perché, come diceva Cartesio, è vero che certe idee mi si presentano con una evidenza effettivamente irresistibile e al tempo stesso che questo fatto non vale mai come diritto, non sopprime la possibilità di dubitare appena non siamo più in presenza dell’idea. Non a caso l’evidenza stessa può essere revocata in dubbio: infatti, la certezza è


dubbio, essendo la ripresa di una tradizione di pensiero che non può condensarsi in «verità» evidente senza che io rinunci a esplicitarla. Per le stesse ragioni un’evidenza è effettivamente irresistibile e sempre ricusabile, e questi sono due modi di dire un’unica cosa: essa è irresistibile poiché io assumo come ovvio un certo patrimonio d’esperienza, un certo campo di pensiero, e appunto per questo motivo mi appare come evidenza per una certa natura pensante di cui io fruisco e che continuo, ma che resta contingente e data a se stessa. La consistenza di una cosa percepita, di una relazione geometrica o di un’idea è ottenuta solo se io cesso di cercare ovunque l’esplicitazione e se mi riposo in esse. Una volta entrato nel gioco, impegnato in un certo ordine di pensieri, per esempio lo spazio euclideo o le condizioni di esistenza di una data società, io trovo delle evidenze: ma non si tratta di evidenze senza appello, poiché forse questo spazio o questa società non sono gli unici possibili. Alla certezza è dunque essenziale stabilirsi con beneficio di inventario, e c’è un’opinione che non è una forma provvisoria del sapere, destinata a essere sostituita da un sapere assoluto, ma viceversa la forma più antica o più rudimentale e al tempo stesso più cosciente o più matura del sapere, - una opinione originaria nella duplice accezione di «originale» e di «fondamentale». È essa a far sorgere di fronte a noi qualcosa in generale, a cui il pensiero tetico - dubbio o dimostrazione - possa poi riferirsi per affermarlo o negarlo. C’è del senso, qualcosa e non nulla, c’è una concatenazione indefinita di esperienze concordanti, di cui testimoniano il portacenere che è qui nella sua permanenza e la verità che ho scoperto ieri e alla quale penso di poter tornare oggi. Questa evidenza del fenomeno, o anche del «mondo», è altrettanto misconosciuta quando si cerca di giungere all’essere senza passare per il fenomeno, cioè quando si costituisce come necessario l’essere, che quando si separa il fenomeno dall’essere, ossia quando lo si degrada alla condizione di semplice apparenza o di semplice possibile. La prima concezione è quella di Spinoza. L’opinione originaria è qui subordinata a un’evidenza assoluta, il «c’è qualcosa», misto di essere e di nulla, a un «l’Essere è». Si rifiuta come destituita di senso ogni interrogazione concernente l’essere: è impossibile chiedersi perché c’è qualcosa anziché nulla e questo mondo anziché un altro, in quanto la configurazione di questo mondo e l’esistenza stessa di un mondo sono solo conseguenze dell’essere necessario. La seconda concezione riduce l’evidenza all’apparenza: in definitiva, tutte le mie verità non sono se non evidenze per me e per un pensiero fatto come il mio, sono solidali con la mia costituzione psicofisiologica e con l’esistenza di questo mondo. Si possono concepire altri pensieri che funzionino secondo altre regole e altri mondi possibili allo stesso titolo di questo. Qui sorge certo il problema di sapere perché c’è qualcosa anziché nulla, e perché questo mondo è stato realizzato, ma la risposta è per principio fuori della nostra portata, giacché noi siamo chiusi nella nostra -costituzione psicofisiologica, la quale è un semplice fatto allo stesso titolo che la forma del nostro volto o il numero dei nostri denti. Questa seconda concezione non è cosi differente come sembra dalla prima: infatti, presuppone un riferimento tacito a un sapere e a un essere assoluti in rapporto al quale le nostre evidenze di fatto sono considerate inadeguate. In una concezione fenomenologica questo dogmatismo e questo scetticismo sono simultaneamente superati. Le leggi del nostro pensiero e le nostre evidenze sono si dei fatti, ma inseparabili da noi, implicati in ogni concezione che possiamo formare dell’essere e del possibile. Non si tratta di limitarci ai fenomeni, di chiudere la coscienza nei suoi propri stati preservando la possibilità di un altro essere al di là dell’essere apparente, né di considerare il nostro pensiero come un fatto tra i fatti, ma di definire l’essere come ciò che ci appare e la coscienza come fatto universale. Io penso, e questo o quel pensiero mi appare vero; so bene che esso non è vero in modo incondizionato e che l’esplicitazione totale sarebbe un compito infinito; ma ciò non toglie che, nel momento in cui penso, io penso qualcosa, e che ogni altra verità, in nome della quale vorrei svalutare questa, non può, ai miei occhi,


chiamarsi verità se non si accorda con il pensiero «vero» di cui ho l’esperienza. Se tento di immaginare dei marziani, degli angeli o un pensiero divino la logica del quale non sia la mia, è necessario che questo pensiero marziano, angelico o divino figuri nel mio universo e non lo faccia esplodere.33 Il mio pensiero, la mia evidenza non è un fatto tra altri, ma un fatto-valore che include e condiziona ogni altro fatto possibile. Non c’è altro mondo possibile nel senso in cui lo è il mio, non perché quest’ultimo sia necessario, come credeva Spinoza, ma perché ogni «altro mondo» che vorrei concepire lo circoscriverebbe, si incontrerebbe al suo limite e perciò farebbe tutt’uno con esso. Pur non essendo verità o a-letheia assoluta, la coscienza esclude almeno ogni falsità assoluta. I nostri errori, le nostre illusioni, i nostri problemi, sono pur sempre errori, illusioni, problemi. L’errore non è la coscienza dell’errore, e anzi la esclude. I nostri problemi non involgono sempre una risposta, e dire con Marx che l’uomo pone solo i problemi che può risolvere significa rinnovare l’ottimismo teologico e postulare il compimento del mondo. I nostri errori non divengono verità se non una volta riconosciuti e c’è differenza fra il loro contenuto manifesto e il loro contenuto latente di verità, fra il loro preteso significato e il loro significato effettivo. È altresì vero che né l’errore né il dubbio ci separano mai dalla verità, poiché sono circondati da un orizzonte di mondo in cui la teleologia della coscienza ci invita a cercarne la soluzione. Infine, la contingenza del mondo non deve venire intesa come un essere insignificante, una lacuna nel tessuto dell’essere necessario, una minaccia per la razionalità, né come un problema da risolvere il più presto possibile tramite la scoperta di una necessità più profonda. Questa è la contingenza ontica, all’interno del mondo. Viceversa, essendo radicale, la contingenza ontologica, quella del mondo stesso, è ciò che fonda una volta per tutte la nostra idea della verità. Il mondo è il reale, di cui il necessario e il possibile sono solo province. Insomma, noi restituiamo al Cogito uno spessore temporale. Se non c’è dubbio interminabile e se «io penso», ciò è dovuto al fatto che mi getto in pensieri provvisori e che supero effettivamente le discontinuità del tempo. Cosi la visione si dissolve in una cosa vista che la precede e le sopravvive. Abbiamo superato la difficoltà? Abbiamo ammesso che la certezza della visione e quella della cosa sono solidali; dobbiamo concluderne che, poiché la cosa vista non è mai assolutamente certa, come dimostrano le illusioni, la visione è trascinata in questa incertezza - o viceversa che, poiché la visione è di per sé assolutamente certa, lo è anche la cosa vista e che io non mi inganno mai veramente? La seconda soluzione verrebbe a ristabilire l’immanenza che abbiamo scartato. Ma se adottassimo la prima, il pensiero sarebbe separato da se stesso, non ci sarebbero più se non «fatti di coscienza» che per definizione nominale potremmo chiamare interiori, ma che per me sarebbero opachi come cose, non ci sarebbe più né interiorità, né coscienza e ancora una volta l’esperienza del Cogito sarebbe dimenticata. Quando descriviamo la coscienza impegnata in uno spazio attraverso il suo corpo, in una storia attraverso il suo linguaggio, in una forma concreta di pensiero attraverso i suoi pregiudizi, non si tratta di ricollocarla nella serie di eventi oggettivi, anche se sono eventi «psichici», e nella causalità del mondo. Chi dubita non può, dubitando, dubitare di dubitare. Anche generalizzato, il dubbio non è un annullamento del mio pensiero, è solo uno pseudo-nulla, non posso uscire dall’essere, il mio atto di dubitare stabilisce esso stesso la possibilità di una certezza, è là per me, mi occupa, io vi sono impegnato, non posso fingere di essere nulla nel momento in cui lo compio. La riflessione, che allontana tutte le cose, si scopre perlomeno come data a se stessa nel senso che non può pensarsi soppressa, tenersi a distanza da se stessa. Ma ciò non significa che la riflessione, il pensiero siano fatti primitivi semplicemente constatati. Come Montaigne aveva ben visto, si può ancora interrogare questo pensiero gravido di sedimenti storici e ingombro del suo proprio essere, si può dubitare del dubbio stesso, considerato come modalità definita del pensiero e come coscienza di un oggetto dubitabile, e la formula della riflessione radicale non è: «non so nulla» - formula che


troppo facilmente possiamo cogliere in flagrante delitto di contraddizione -, ma «che cosa so?». Cartesio non l’ha dimenticato. Gli si attribuisce spesso il merito di aver superato il dubbio scettico, che è solo uno stato, facendo del dubbio un metodo, un atto, e di aver cosi trovato un punto fisso per la coscienza e restaurato la certezza. Ma, a dire il vero, Cartesio non ha fatto cessare il dubbio di fronte alla certezza del dubbio stesso, come se l’atto del dubitare fosse sufficiente per obliterare il dubbio e portasse con sé la certezza. Egli l’ha condotto più lontano: non dice «io dubito, io sono1», ma «io penso, io sono» e ciò significa che il dubbio stesso è certo, non come dubbio effettivo, ma come semplice pensiero di dubitare, e, poiché a sua volta si potrebbe dire la stessa cosa di questo pensiero, l’unica proposizione assolutamente certa e di fronte alla quale il dubbio si ferma, essendo implicata dal dubbio stesso, è: «io penso», o anche «qualcosa mi appare». Non c’è nessun atto, nessuna esperienza particolare che riempia esattamente la mia coscienza e imprigioni la mia libertà, «non esiste pensiero che stermini il potere di pensare e lo concluda, - una certa posizione della stanghetta che chiuda definitivamente la serratura. No, non c’è pensiero che sia, per il pensiero, una soluzione nata dal suo stesso sviluppo, e come un accordo finale di questa dissonanza permanente.»34 Nessun pensiero particolare ci raggiunge nel cuore del nostro pensiero, esso non è concepibile senza un altro pensiero possibile che sia il suo testimonio. E questa non è una imperfezione dalla quale si possa immaginare liberata la coscienza. Se per l’appunto deve esserci coscienza, se qualcosa deve apparire a qualcuno, è necessario che dietro tutti i nostri pensieri particolari si formi una piega di non-essere, un Sé. Non occorre che io mi riconduca a una serie di «coscienze», ma che, con le sedimentazioni storiche e le implicazioni sensibili di cui è riempita, ciascuna di esse si presenti a un perpetuo assente. La nostra situazione è dunque la seguente: per sapere di pensare dobbiamo prima pensare effettivamente. Eppure, questa inerenza35 rimuove tutti i dubbi, i miei pensieri non soffocano il mio potere di interrogare; considerate come eventi della mia storia, una parola, una idea, hanno un senso per me solo se io riprendo questo senso dall’interno. So di pensare in virtù di questi o quei pensieri particolari che ho, e so di avere questi pensieri poiché li assumo, cioè poiché so di pensare in generale. L’intenzionare un termine trascendente e il vedermi in atto di intenzionarlo, la coscienza del collegato e la coscienza del collegante sono in una relazione circolare. Il problema consiste nel comprendere come io possa essere costituente del mio pensiero in generale - giacché se non lo facessi esso non sarebbe pensato da nessuno, passerebbe inosservato, e quindi non sarebbe un pensiero -, senza esserlo mai di nessuno dei miei pensieri particolari, poiché non li vedo mai nascere in piena chiarezza e non mi conosco se non attraverso di essi. Si tratta di comprendere come la soggettività possa essere dipendente e al tempo stesso indeclinabile. Cerchiamo di farlo relativamente all’esempio del linguaggio. C’è una coscienza di me stesso che usa il linguaggio e che è tutta ronzante di parole. Leggo la Seconda Meditazione. Sono certo io il problema centrale di questa meditazione, ma un io in idea che non è propriamente il mio, né del resto quello di Cartesio, bensì quello di ogni uomo riflettente. Seguendo il senso delle parole e il collegamento delle idee, giungo alla conclusione che in verità, poiché penso, io sono: ma questo è un Cogito sulla parola, io non ho colto il mio pensiero e la mia esistenza se non attraverso il medium del linguaggio, e la vera formula di tale Cogito sarebbe: «Si pensa, si è». Lo straordinario del linguaggio è che esso si fa dimenticare: seguo con gli occhi le righe sul foglio, ma, a partire dal momento in cui sono preso da ciò che esse significano, non le vedo più. Il foglio, le lettere sul foglio, i miei occhi e il mio corpo rappresentano qui il minimo di messa in scena necessario per qualche operazione invisibile. L’espressione si dissolve di fronte all’espresso, ecco perché la sua funzione mediatrice può passare inosservata, ecco perché Cartesio non la menziona in nessun luogo. Egli, e a maggior ragione il suo lettore, comincia a meditare in un universo già parlante. La nostra certezza di


cogliere, al di là dell’espressione, una verità separabile da essa e di cui essa stessa è solo il vestito e la manifestazione contingente, è stata installata in noi proprio dal linguaggio. Esso sembra essere semplice segno solo una volta che si è dato un significato e, per essere completa, la presa di coscienza deve ritrovare l’unità espressiva in cui originariamente appaiono segni e significati. Quando un fanciullo non sa parlare, o quando non sa ancora parlare il linguaggio dell’adulto, la cerimonia linguistica a cui assiste non ha presa su di lui, egli è accanto a noi, come uno spettatore di teatro seduto in un posto infelice: il fanciullo vede certo che noi ridiamo, che gesticoliamo, ode la melodia nasale, ma per lui non c’è nulla in fondo a questi gesti, dietro a queste parole, non accade nulla. Per lui il linguaggio assume un senso quando diviene situazione. In un’opera destinata ai bambini, si descrive la delusione di un fanciullo che prende gli occhiali e il libro della nonna e crede di poter trovare anch’egli le storie che essa gli raccontava. La favola termina con questi versi: Povero me! Dov’è dunque la storia? Non vedo altro che nero e bianco.

Per il fanciullo la «storia» e ciò che è espresso non sono «idee» o «significati», né la parola e la lettura «una operazione intellettuale». La storia è un mondo che deve essere possibile far apparire magicamente mettendo degli occhiali e chinandosi su un libro. Il potere, proprio del linguaggio, di far esistere l’espresso, di aprire al pensiero delle strade, di dischiudere nuove dimensioni, nuovi paesaggi, è, in definitiva, altrettanto oscura per l’adulto che per il fanciullo. In ogni opera riuscita, il senso trasmesso al lettore eccede il linguaggio e il pensiero già costituiti e si esibisce magicamente durante l’incantesimo linguistico, cosi come la storia usciva dal libro della nonna. Se crediamo di comunicare direttamente, tramite il pensiero, con un universo di verità e di raggiungere gli altri in questo universo, se ci sembra che il testo di Cartesio non faccia altro che risvegliare in noi pensieri già formati, se ci sembra di non imparare mai nulla dall’esterno, e se infine in una meditazione che doveva essere radicale, un filosofo non menziona nemmeno il linguaggio come condizione del Cogito letto e non ci invita più chiaramente a passare dall’idea alla pratica del Cogito, è perché per noi l’operazione espressiva è ovvia e va annoverata fra le nostre acquisizioni. Il Cogito che otteniamo leggendo Cartesio (e anche quello che Cartesio effettua in vista dell’espressione e quando, volgendosi verso la propria vita, la fissa, la oggettiva e la «caratterizza» come indubitabile) è dunque un Cogito parlato, messo in parole, compreso in base a parole e che, per questa stessa ragione, non raggiunge il proprio scopo, giacché una parte della nostra esistenza, quella intenta a fissare concettualmente la nostra vita e a pensarla come indubitabile, sfugge alla fissazione e al pensiero. Ne concluderemo che il linguaggio ci avvolge, che siamo guidati da esso così come il realista crede di essere determinato dal mondo esterno o il teologo guidato dalla Provvidenza? Ma in questo modo coglieremmo solo per metà la verità. Infatti, le parole - per esempio la parola «Cogito» e la parola «sum» - possono sì avere un senso empirico e statistico, è vero che esse non si riferiscono direttamente alla mia esperienza e fondano un pensiero anonimo e generale, ma non troverei in esse nessun senso, nemmeno derivato e inautentico, non potrei neanche leggere il testo di Cartesio, se, prima di ogni parola, io non fossi in contatto con la mia propria vita e il mio proprio pensiero, se il Cogito parlato non incontrasse in me un Cogito tacito. È questo Cogito silenzioso che Cartesio aveva di mira quando scriveva le Meditazioni, esso animava e dirigeva tutte le operazioni espressive che, per definizione, mancano sempre il loro scopo - poiché interpongono, fra l’esistenza di Cartesio e la conoscenza che egli ne prende, tutto lo spessore delle acquisizioni culturali -, ma che non sarebbero nemmeno tentate se Cartesio non avesse prima una veduta della sua esistenza. Tutto il problema


consiste nel comprendere bene il Cogito tacito, nell’attribuirgli solo ciò che gli compete veramente e nell’astenersi dal ridurre il linguaggio a un prodotto della coscienza con il pretesto che la coscienza non è un prodotto del linguaggio. Infatti, né la parola né il senso della parola sono costituiti dalla coscienza. Spieghiamoci. È certo che la parola non si riduce mai a una sua incarnazione qualsiasi, la parola «nevischio», per esempio, non è quel carattere che ho appena scritto sul foglio, né quell’altro segno che un giorno ho letto per la prima volta in un testo e nemmeno quel suono che attraversa l’aria quando lo pronuncio. Queste sono solo riproduzioni della parola, io la riconosco in tutte ed essa non vi si esaurisce. Dirò dunque che la parola «nevischio» è l’unità ideale di queste manifestazioni e che non esiste se non per la mia coscienza e grazie a una sintesi di identificazione? Ciò equivarrebbe a dimenticare quanto la psicologia ci ha insegnato sul linguaggio. Come abbiamo visto, parlare non è evocare immagini verbali e articolare delle parole in base al modello immaginato. Facendo la critica dell’immagine verbale, dimostrando che il soggetto parlante si getta nella parola senza rappresentarsi le parole che sta per pronunciare, la psicologia moderna elimina la parola come rappresentazione, come oggetto per la coscienza, e svela una presenza motoria della parola che non è la conoscenza della parola. Quando la so, la parola «nevischio» non è un oggetto che riconosco grazie a una sintesi di identificazione, ma un certo uso del mio apparato di fonazione, una certa modulazione del mio corpo come essere al mondo; la sua generalità non è quella dell’idea, ma quella di uno stile di condotta che il mio corpo «comprende» in quanto è un potere di fabbricare comportamenti e in particolare fonemi. Un giorno io ho «acciuffato» la parola nevischio cosi come si imita un gesto, cioè non scomponendola e facendo corrispondere a ogni parte della parola udita un movimento di articolazione e di fonazione, ma ascoltandola come una sola modulazione del mondo sonoro: infatti, questa entità sonora si presentava come «qualcosa da pronunciare» in virtù della corrispondenza globale intercorrente fra le mie possibilità percettive e le mie possibilità motorie, elementi della mia esistenza indivisa e aperta. La parola non è mai stata ispezionata, analizzata, conosciuta, costituita, ma acciuffata e assunta da una potenza parlante e, in ultima analisi, da una potenza motoria che mi è data con la prima esperienza del mio corpo e dei suoi campi percettivi e pratici. Per quanto concerne il senso della parola, io lo imparo come imparo l’uso di uno strumento, vedendolo impiegato nel contesto di una certa situazione. Il senso della parola non è fatto di un certo numero di caratteri fisici dell’oggetto, ma è anzitutto l’aspetto che questo oggetto assume in tuia esperienza umana, per esempio il mio stupore di fronte a quei granellini duri, friabili e fondenti che discendono bell’e fatti dal cielo. È un incontro dell’umano e dell’inumano, è come un comportamento del mondo, una certa inflessione del suo stile, e la generalità del senso, al pari di quella del vocabolo, non è la generalità del concetto, ma quella del mondo come tipico. Cosi, il linguaggio presuppone certo ima coscienza del linguaggio, un silenzio della coscienza che avvolge il mondo parlante e in cui le parole ricevono originariamente configurazione e senso. Ciò fa si che la coscienza non sia mai assoggettata a un dato linguaggio empirico, che i linguaggi possano essere tradotti e imparati, e infine che il linguaggio non sia un apporto esterno, nel senso dei sociologi. Al di là del cogito parlato, ossia quello che viene convertito in enunciato e in verità d’essenza, c’è si un cogito tacito, un autoesperirmi. Ma questa soggettività indeclinabile non ha se non una presa sfuggevole su se stessa e sul mondo: non costituisce il mondo, ma lo indovina attorno a sé come un campo già dato; non costituisce la parola, ma parla cosi come si canta perché si è allegri; non costituisce il senso della parola, ma quest’ultimo sgorga per essa nel suo commercio con il mondo e con gli altri uomini che lo abitano, si trova all’intersezione di più comportamenti, è, anche una volta «acquisito», altrettanto preciso e altrettanto poco definibile che il senso di un gesto. Il Cogito tacito, l’autopresenza, è l’esistenza stessa, e


pertanto precede ogni filosofia. Tuttavia, esso si conosce solo nelle situazioni limite in cui è minacciato: per esempio nell’angoscia della morte o in quella dello sguardo altrui su di me. Ciò che si crede essere il pensiero del pensiero, come puro sentimento di sé non si pensa ancora e ha bisogno di essere rivelato. La coscienza che condiziona il linguaggio non è altro che una apprensione globale e inarticolata del mondo, come quella del fanciullo al suo primo respiro o dell’uomo che sta per annegarsi e si getta verso la vita, e se è vero che ogni sapere particolare è fondato su questa prima veduta, è anche vero che essa attende di essere riconquistata, fissata ed esplicitata dall’esplorazione percettiva e dalla parola. La coscienza silenziosa si coglie solo come Io penso in generale di fronte a un mondo confuso «da pensare». Ogni «apprensione» particolare, e anche la riconquista di questo progetto generale attraverso la filosofia, esige che il soggetto dispieghi dei poteri di cui non possiede il segreto e in particolare che si faccia soggetto parlante. Il Cogito tacito non è Cogito se non quando si è espresso esso pure. Queste formule possono sembrare enigmatiche: se la soggettività ultima non si pensa sin dall’origine, in che modo potrà mai farlo? Come ciò che non pensa potrebbe mettersi a pensare? La soggettività non è forse ricondotta alla condizione di una cosa o di una forza che produce i suoi effetti all’esterno senza essere in grado di saperlo? - Ma noi non vogliamo dire che l’Io primordiale si ignori. Se si ignorasse, esso sarebbe infatti una cosa, e nulla potrebbe far si che in seguito divenisse coscienza. Gli abbiamo soltanto negato il pensiero oggettivo, la coscienza tetica del mondo e di se stesso. Che cosa intendiamo con ciò? O queste parole non significano nulla, oppure significano che ci asteniamo dal presupporre una coscienza esplicita che raddoppia e sottende la presa confusa della soggettività originaria su se stessa e sul suo mondo. Per esempio, la mia visione è sì «pensiero di vedere», se con ciò si vuol dire che essa non è semplicemente una funzione come la digestione o la respirazione, un fascio di processi ritagliati in un insieme dotato di un senso, ma che è essa stessa questo insieme e questo senso, questa anteriorità del futuro nei confronti del presente, del tutto nei confronti delle parti. Non c’è visione se non grazie all’anticipazione e all’intenzione, e, poiché nessuna intenzione potrebbe veramente essere intenzione se l’oggetto verso il quale essa tende si desse già fatto e senza motivazioni, è ben vero che ogni visione presuppone in ultimo luogo, nel cuore della soggettività, un progetto totale o una logica del mondo che le percezioni empiriche determinano, ma che non potrebbero generare. Tuttavia, la visione non è pensiero di vedere, se con ciò si vuol dire che essa collega da sé il proprio oggetto o che coglie se stessa in una trasparenza assoluta e come artefice della sua propria presenza nel mondo visibile. L’essenziale è afferrare il progetto del mondo che noi siamo. Ciò che prima abbiamo detto del mondo in quanto inseparabile dalle vedute sul mondo deve qui aiutarci a comprendere la soggettività in quanto inerenza al mondo. Non c’è hyle, non c’è sensazione senza comunicazione con le altre sensazioni o con le sensazioni altrui, e per questa stessa ragione non c’è morfè, non c’è apprensione o appercezione che abbia il compito di dare un senso a una materia insignificante e di assicurare l’unità a priori della mia esperienza e dell’esperienza intersoggettiva. Io e il mio amico Paolo stiamo guardando un paesaggio. Che cosa avviene di preciso? Si deve dire che abbiamo entrambi delle sensazioni private, una materia di conoscenza per sempre incomunicabile e che, per quanto concerne il puro vissuto, siamo chiusi in prospettive distinte? Si deve dire che il paesaggio non è per noi due idem numero e che si tratta solo di una identità specifica? Ma, stando alla mia percezione stessa, prima di ogni riflessione oggettivante, io non ho mai coscienza di trovarmi chiuso nelle mie sensazioni. Io e il mio amico Paolo ci mostriamo con il dito alcuni dettagli del paesaggio, e il dito di Paolo, che mi mostra il campanile, non è un dito-per-me che io penso come orientato verso un campanile-per-me: è il dito di Paolo a mostrarmi da sé il campanile che Paolo vede, cosi come, reciprocamente, facendo un gesto


verso un certo punto del paesaggio che vedo, non mi sembra di suscitare in Paolo, in virtù di un’armonia prestabilita, delle visioni interne soltanto analoghe alle mie: mi sembra invece che i miei gesti invadano il mondo di Paolo e guidino il suo sguardo. Quando penso a Paolo, io non penso a un flusso di sensazioni private che si troverebbe in relazione con il mio grazie alla mediazione di segni interposti, ma a qualcuno che vive lo stesso mondo che vivo io, la stessa storia che vivo io, e con il quale comunico attraverso questo mondo e questa storia. Diremo allora che si tratta qui di una unità ideale, che il mio mondo è lo stesso di quello di Paolo cosi come l’equazione di secondo grado di cui si parla a Tokyo è la medesima di cui si parla a Parigi, e che infine l’idealità del mondo ne assicura il valore intersoggettivo? Ma nemmeno l’unità ideale ci soddisfa, giacché la stessa unità ideale esiste fra l’Imeto visto dai greci e l’Imeto visto da me. Orbene, per quanto, nel considerare questi declivi arsi dal sole, io mi dica che i greci li hanno visti, non riesco a convincermi che sono gli stessi. Per contro, io e Paolo vediamo «insieme» il paesaggio, gli siamo co-presenti, esso è il medesimo per entrambi, non solo come significato intelligibile, ma come un certo accento dello stile mondiale, e persino nella sua ecceità. L’unità del mondo si degrada e si disgrega con la distanza temporale e spaziale che l’unità ideale attraversa (in linea di principio) senza dispersioni. Io ho il paesaggio stesso e l’ho come paesaggio per Paolo quanto per me, proprio perché il paesaggio mi tocca e mi colpisce, perché mi raggiunge nel mio essere più singolare e infine perché esso è la mia veduta del paesaggio. L’universalità e il mondo si trovano nel cuore dell’individualità e del soggetto. Non lo si potrà mai comprendere finché si farà del mondo un objectum. Viceversa, lo si comprende subito se il mondo è il campo della nostra esperienza, e se noi non siamo altro che una veduta del mondo, giacché allora la più segreta vibrazione del nostro essere psicofisico annuncia già il mondo, la qualità e l’abbozzo di una cosa, e la cosa l’abbozzo del mondo. Un mondo che, come dice Malebranche, è sempre e solo un’«opera incompiuta», o che, secondo l’espressione che Husserl applica al corpo, non è «mai completamente costituito», non esige e anzi esclude un soggetto costituente. A questo abbozzo d’essere che traspare nelle concordanze della mia esperienza propria e intersoggettiva, e di cui io presumo il compimento possibile attraverso orizzonti indefiniti, per il solo fatto che i miei fenomeni si solidificano in una cosa e che mantengono nel loro svolgimento un certo stile costante, - a questa unità aperta del mondo deve corrispondere una unità aperta e indefinita della soggettività. Come quella del mondo, l’unità dell’Io è invocata, piuttosto che esperita, ogniqualvolta io effettuo una percezione e ottengo un’evidenza; l’Io universale è lo sfondo sul quale si staccano queste figure brillanti, io realizzo l’unità dei miei pensieri attraverso un pensiero presente. Al di qua dei miei pensieri particolari, che cosa resta per costituire il Cogito tacito e il progetto originario del mondo? In definitiva, che cosa sono io nella misura in cui posso intravedermi fuori di ogni atto particolare? Io sono un campo, sono un’esperienza. Un giorno e una volta per tutte è stato messo in moto qualcosa che, anche durante il sonno, non può più cessare di vedere o di non vedere, di sentire o di non sentire, di soffrire o di essere felice, di pensare o di riposarsi, in breve di «spiegarsi» con il mondo. Non è nato un nuovo aggregato di sensazioni o di stati di coscienza, e nemmeno una nuova monade o una nuova prospettiva, poiché io non sono fissato a nessuna prospettiva e poiché posso mutare punto di vista, costretto soltanto a occuparne sempre uno e a occuparne soltanto uno per volta - è nata invece una nuova possibilità di situazioni. L’evento della mia nascita non è passato, non è caduto nel nulla alla stregua di un evento del mondo oggettivo: esso impegnava un avvenire, non già come la causa determina il suo effetto, ma come, una volta intrecciata, una situazione mette capo inevitabilmente a qualche scioglimento. C’era ormai un nuovo «ambiente», il mondo riceveva un nuovo strato di significato. Nella casa in cui nasce un bambino, tutti gli oggetti mutano senso, cominciano ad attendere da lui un trattamento ancora indeterminato, c’è qualcun altro, qualcuno di


più, una nuova storia, breve o lunga, è appena stata fondata, un nuovo registro è aperto. Con gli orizzonti che la circondavano, la mia prima percezione è un evento sempre presente, una tradizione indimenticabile; anche come soggetto pensante, io sono ancora questa prima percezione, il seguito della medesima vita che essa ha inaugurato. In un certo senso, nella mia vita non ci sono atti di coscienza o Erlebnisse distinti più di quanto nel mondo ci siano cose separate. Come abbiamo visto, quando giro attorno a un oggetto, io non ottengo una serie di vedute prospettiche che successivamente coordinerei mediante l’idea di un unico geometrale, c’è solo un po’ di «mosso» nella cosa che, di per sé, attraversa il tempo: allo stesso modo io non sono una serie di atti psichici, né del resto un Io centrale che li raccoglie in una unità sintetica, ma una sola esperienza inseparabile da se stessa, una sola «coesione di vita»,36 una sola temporalità che si esplicita a partire dalla sua nascita e la conferma in ogni presente. È questo avvento o anche questo evento trascendentale che il Cogito ritrova. La prima verità è sf «Io penso», ma a condizione che con ciò si intenda «io inerisco a me»37 inerendo al mondo. Quando vogliamo spingerci più profondamente nella soggettività, mettendo in dubbio tutte le cose e sospendendo tutte le nostre credenze, noi non riusciamo a intravedere lo sfondo, inumano - in rapporto al quale, come diceva Rimbaud, «noi non siamo al mondo» - se non come l’orizzonte dei nostri impegni particolari e come potenza di qualcosa in generale che è il fantasma del mondo. L’interiore e l’esteriore sono inseparabili. Il mondo è tutto dentro e io sono tutto fuori di me. Quando percepisco questo tavolo, è pur necessario che la percezione di questo piano non ignori quella delle gambe, altrimenti l’oggetto si disgregherebbe. Quando ascolto una melodia, è pur necessario che ogni momento sia collegato a quello successivo, altrimenti non ci sarebbe melodia. Eppure, il tavolo è lì con le sue parti esteriori. La successione è essenziale alla melodia. L’atto che riunisce, in pari tempo allontana e tiene a distanza, io non mi tocco se non fuggendomi. In un celebre pensiero Pascal dimostra che, sotto un certo rapporto, io comprendo il mondo e che, sotto un altro rapporto, esso mi comprende. Dobbiamo invece dire che ciò si verifica sotto il medesimo rapporto: io comprendo il mondo perché per me c’è un vicino e un lontano, ci sono primi piani e orizzonti, perché cosi esso è spettacolo e assume un senso di fronte a me, e perché, infine, io vi sono situato ed esso mi comprende. Noi non diciamo che la nozione del mondo è inseparabile da quella del soggetto, che il soggetto si pensa inseparabile dall’idea del corpo e dall’idea del mondo: infatti, se si trattasse solo di una relazione pensata, per ciò stesso essa lascerebbe sussistere l’indipendenza assoluta del soggetto come pensatore, e il soggetto non sarebbe situato. Se il soggetto è in situazione, se anzi non è altro che una possibilità di situazioni, è perché non realizza la sua ipseità se non essendo effettivamente corpo ed entrando nel mondo tramite questo corpo. Se, riflettendo sull’essenza della soggettività, io la trovo legata a quella del corpo e a quella del mondo, è perché la mia esistenza come soggettività fa tutt’uno con la mia esistenza come corpo e con l’esistenza del mondo, e perché il soggetto che io sono, concretamente considerato, è inseparabile da questo corpo e da questo mondo. Il mondo e il corpo ontologici che ritroviamo nel cuore del soggetto non sono il mondo in idea o il corpo in idea, ma il mondo stesso contratto in una presa globale e il corpo stesso come corpo conoscente. Tuttavia, si dirà, se l’unità del mondo non è fondata su quella della coscienza, se il mondo non è il risultato di un lavoro costitutivo, per quale motivo le apparenze sono concordanti e si raggruppano in cose, in idee, in verità? Perché i nostri pensieri erranti, gli eventi della nostra vita e quelli della storia collettiva, per lo meno in certi momenti assumono un senso e una direzione comuni e si lasciano cogliere sotto una idea? Perché la mia vita riesce a riprendere se stessa per proiettarsi in parole, in intenzioni, in atti? È il problema della razionalità. È noto che, tutto sommato, il pensiero classico cerca di spiegare le concordanze mediante un mondo in sé o uno spirito assoluto. Simili


spiegazioni devono al fenomeno della razionalità tutto ciò che possono avere di convincente: pertanto non lo spiegano e non sono mai più chiare di esso. Il Pensiero assoluto non è più chiaro per me del mio spirito finito, giacché è in virtù di quest’ultimo che io lo penso. Noi siamo al mondo, vale a dire: delle cose si delineano, un immenso individuo si afferma, ogni esistenza si comprende e comprende le altre. C’è solo da riconoscere questi fenomeni che fondano tutte le nostre certezze. La credenza in uno spirito assoluto o in un mondo in sé distaccato da noi non è se non una razionalizzazione di questa fede primordiale.


Note

1 P. 2

Lachièze-Rey, Réflexions sur l’activité spirituelle constituante, p. 134.

P. Lachièze-Rey, L’idéalisme kantien, pp. 17-18; Platone, Menone, 80d, trad. it. di F. Zambaldi, Bari, Laterza, 1927, pp. 207-208.

3 P.

Lachièze-Rey, op. cit., p. 25.

4 Ibidem,

p. 55.

5 Ibidem,

p. 184.

6 Ibidem,

pp. 17-18.

7 P.

Lachièze-Rey, Le Moi, le Monde et Dieu, p. 68.

8 Kant, 9 P.

Übergang, Adickes, p. 756, citato da Lachièze-Rey, L’idédisme kantien, p. 464.

Lachièze-Rey, Réflexions..., p. 145.

10 L’idédisme 11 Ibidem,

p. 477. Le Moi, le Monde et Dieu, p. 83.

12 L’idédisme 13 Le

kantien, p. 472.

Moi, le Monde et Dieu, p. 33.

14 Come

fa Lachièze-Rey, Le Moi, le Monde et Dieu, pp. 69-70.

15 Ibidem, 16

kantien, p. 477.

p. 72.

Come fa per esempio Husserl, quando ammette che ogni riduzione trascendentale è in pari tempo una riduzione eidetica. La necessità di passare per le essenze, l’opacità definitiva delle esistenze, non possono essere assunte come fatti ovvi e contribuiscono a determinare il senso del Cogito e della soggettività ultima. Io non sono un pensiero costituente e il mio Io penso non è un Io sono, giacché con il pensiero non posso eguagliare la ricchezza concreta del mondo e riassorbire la fatticità.

17 Scheler,

Idole der Selbsterkenntnis, pp. 63 sgg.

18 Ibidem,

pp. 89-95.


19 .-P.

Sartre, L’imaginaire, p. 243.

20

«...ma allora anche questo disgusto cinico di fronte al suo personaggio era dunque concepito espressamente? E il disprezzo di questo disgusto che ella stava per fabbricarsi non era anch’esso commedia? E questo stesso dubbio di fronte al disprezzo.., c’era da impazzire, se si cominciava a essere sincera, non ci si poteva dunque più fermare?» S. de Beauvoir, L’invitée, p. 232.

21

Wertheimer, Drei Abhandlungen zur Gestalttheorie: die Schlussprozesse im produktiven Denken.

22 A. 23

Gurwitsch, Quelques aspects et quelques développements de la théorie de la forme, p. 460.

P. Lachièze-Rey, Utilisation possible du schématisme kantien pour une théorie de la perception e Réflexions sur l’activité spirituelle constituante.

24 Lachièze-Rey,

Réflexions..., p. 132.

25 Lachièze-Rey,

Utilisation possible..., p. 7.

26

«È necessario che esso contenga intrinsecamente l’immanenza di una traiettoria spaziale che, sola, può permettere di pensarlo come movimento.» Lachièze-Rey, Ibidem, p. 6.

27 Claudel, 28 Come 29 Le

fa B. Parata, Recherches sur la nature et les fonctions du langage, cap. XI.

progrès de la conscience dans la philosophie occidentale, p. 794.

30 Husserl, 31 Questo

Formale und transzendentale Logik, p. 221.

concetto ritorna frequentemente negli ultimi scritti di Husserl.

32 Formale 33

Réflexions sur le vers français. Positions e propositions, pp. 11-12.

und transzendentale Logik, p. 220.

Cfr. Logische Untersuchungen, I, p. 117. Quello che talvolta viene chiamato il razionalismo di Husserl è in realtà il riconoscimento della soggettività come fatto inalienabile e del mondo verso cui essa si protende come omnitudo realitatis.

34 Valéry,

Introduction à la méthode de Léonard de Vinci, «Variété», p. 194.

35 Engagement,

cioè il concreto inerire del soggetto a un pensiero preriflessivo. (N. d. T.)

36 «Zusammenhang des 37 Heidegger,

Lebens», Heidegger, Sein und Zeit, p. 388.

ibidem, pp. 124-125.


II. La temporalità

«Il tempo è il senso della vita (senso: come si parla del senso di un corso d’acqua, del senso di una frase, del senso di una stoffa, del senso dell’olfatto).» Claudel, Art poétique «Der Situi des Daseins ist die Zeitlichkeit.» Heidegger, Sein uni Zeit, p. 331

Se nelle pagine precedenti abbiamo già incontrato il tempo sulla strada che ci conduceva alla soggettività, è in primo luogo perché tutte le nostre esperienze, in quanto sono nostre, si dispongono secondo il prima e il dopo, e perché, in linguaggio kantiano, la temporalità è la forma del senso intimo ed è il carattere più generale dei «fatti psichici». Ma in realtà, e senza anticipare ciò che l’analisi del tempo d rivelerà, abbiamo già trovato una relazione molto più intima fra il tempo e la soggettività. Abbiamo visto che il soggetto, il quale non può essere una serie di eventi psichici, non può però essere eterno. Rimane il fatto che esso è temporale non per qualche capriccio della costituzione umana, ma in virtù di una necessità interiore. Noi siamo invitati a farci del soggetto e del tempo una concezione tale che essi comunichino dall’interno. Della temporalità possiamo dire fin d’ora ciò che prima abbiamo detto, per esempio, della sessualità e della spazialità: l’esistenza non può avere attributi esteriori o contingenti. Essa non può essere alcunché - spaziale, sessuale, temporale -, senza esserlo nella sua interezza, senza riprendere e assumere i suoi «attributi» e fare di essi delle dimensioni del suo essere: pertanto, un’analisi un poco precisa di ciascuno di essi concerne in realtà la soggettività stessa. Non vi sono problemi dominanti e problemi subordinati: sono tutti concentrici. Analizzare il tempo non significa trarre le conseguenze da una concezione prestabilita della soggettività, ma accedere attraverso il tempo alla sua struttura concreta. Se comprenderemo il soggetto, non lo comprenderemo nella sua pura forma, ma cercandolo all’intersezione delle sue dimensioni. Dobbiamo quindi considerare il tempo in se stesso, e seguendo la sua dialettica interna saremo indotti a rimaneggiare la nostra idea del soggetto. Si dice che il tempo passa o scorre. Si parla del corso del tempo. L’acqua che vedo passare si è preparata, alcuni giorni addietro, sui monti, quando il ghiacciaio ha cominciato a fondersi; ora essa è davanti a me, va verso il mare in cui si getterà. Se è simile a un fiume, il tempo scorre dal passato verso il presente e l’avvenire. Il presente è la conseguenza del passato e l’avvenire la conseguenza del presente. Questa celebre metafora è in realtà molto confusa. Infatti, se consideriamo le cose stesse, lo scioglimento delle nevi e ciò che ne risulta non sono eventi successivi, o meglio, la nozione stessa di evento non ha posto nel mondo oggettivo. Quando dico che l’altro ieri il ghiacciaio ha prodotto l’acqua che passa ora, io sottintendo un testimone legato a un certo posto nel mondo e confronto le sue vedute successive: egli ha assistito laggiù allo scioglimento delle nevi e ha seguito l’acqua nel suo corso, oppure, dalla riva del fiume, vede passare dopo dieci giorni di attesa i pezzi di legno che aveva gettato alla sorgente. Gli «eventi» sono ritagliati da un osservatore finito nella totalità spazio-temporale del mondo oggettivo. Ma se considero questo mondo stesso, c’è un solo


essere indivisibile e immutabile. Il mutamento presuppone un certo posto in cui io mi pongo e da cui vedo sfilare delle cose; non ci sono eventi senza qualcuno a cui essi accadano, senza qualcuno che, con la sua prospettiva finita, fondi la loro individualità. Il tempo presuppone una veduta sul tempo. Esso non è quindi come un fiume, non è una sostanza fluente. Se questa metafora ha potuto conservarsi da Eraclito sino ai giorni nostri, è perché noi mettiamo surrettiziamente nel fiume un testimone della sua corsa. Lo facciamo già quando diciamo che il fiume si sussegue, poiché ciò equivale a concepire, là ove c’è solo una cosa tutta fuori di sé, una individualità o una interiorità del fiume che dispiega all’esterno le sue manifestazioni. Orbene, non appena introduco l’osservatore, a seconda che egli segua il corso del fiume o che, dalla sua riva, ne constati il passaggio, i rapporti del tempo si capovolgono. Nel secondo caso le masse d’acqua già passate non vanno verso l’avvenire, ma sprofondano nel passato; l’avvenire è dalla parte della sorgente e il tempo non viene dal passato. Non è il passato che spinge il presente né il presente che spinge il futuro nell’essere; l’avvenire non è preparato dietro l’osservatore, ma gli si fa incontro, come il temporale all’orizzonte. Se l’osservatore, collocato in una barca, segue il filo dell’acqua, si può certo dire che egli discende con la corrente verso il suo avvenire, ma l’avvenire è costituito dai paesaggi nuovi che l’attendono alla foce, e il corso del tempo non è il fiume stesso: è lo svolgimento dei paesaggi per l’osservatore in movimento. Il tempo non è quindi un processo reale, una successione effettiva che io mi limiterei a registrare. Esso nasce dal mio rapporto con le cose. Nelle cose stesse l’avvenire e il passato sono in una specie di preesistenza e di sopravvivenza eterne; l’acqua che passerà domani è in questo momento alla sorgente, l’acqua che è appena passata è adesso un poco più in giù, nella valle. Ciò che è passato o futuro per me è presente nel mondo. Si dice spesso che, nelle cose stesse, l’avvenire non è ancora, il passato non è più e il presente, a rigore, non è se non un limite, cosicché il tempo si dissolve. Ecco perché Leibniz poteva definire il mondo oggettivo mens momentanea, e perché S. Agostino chiedeva, per costituire il tempo, una presenza del passato e una presenza dell’avvenire oltre a quella presente. Ma comprendiamo bene ciò che essi vogliono dire. Se il mondo oggettivo è incapace di sopportare il tempo, non è perché, in un certo qual modo, esso sia troppo angusto perché sia necessario aggiungervi un lembo di passato o un lembo di avvenire. Il passato e l’avvenire esistono fin troppo nel mondo, esistono al presente, e ciò che manca all’essere stesso per essere temporale è il non-essere dell’altrove, dello ieri e del domani. Il mondo oggettivo è troppo pieno perché vi sia del tempo. Il passato e l’avvenire si ritirano spontaneamente dall’essere e passano dalla parte della soggettività per cercarvi non già qualche supporto reale, ma viceversa una possibilità di non-essere che si accorda con la loro natura. Se si stacca il mondo oggettivo dalle prospettive finite che sboccano in esso e se lo si pone in sé, da ogni parte possiamo trovarvi solo degli «adesso». Inoltre, non essendo presenti a nessuno, questi adesso non hanno alcun carattere temporale e non potrebbero succedersi. La definizione del tempo che è implicita nei paragoni del senso comune - e che potrebbe essere formulata come «una successione di adesso»1 - non ha solamente il torto di trattare il passato e l’avvenire come dei presenti, ma è anche inconsistente, giacché distrugge la nozione stessa di «adesso» e quella di successione. Non ci sarebbe di nessun giovamento trasportare il tempo dalle cose in noi, se rinnovassimo «nella coscienza» l’errore di definirlo come una successione di adesso. Tuttavia, è ciò che fanno gli psicologi quando cercano di «spiegare» la coscienza del passato con i ricordi, la coscienza dell’avvenire con la proiezione di questi ricordi davanti a noi. La confutazione delle «teorie fisiologiche» della memoria, per esempio in Bergson, si pone sul terreno della spiegazione causale; essa consiste nel dimostrare che le tracce cerebrali e gli altri dispositivi corporei non sono la causa adeguata dei fenomeni di memoria; che, per esempio, l’ordine nel quale i ricordi scompaiono, in caso


di afasia progressiva, non è riconducibile a fattori organici. Cosi impostata, la discussione scredita si l’idea di una conservazione corporea del passato: il corpo non è più un ricettacolo di engrammi, è invece un organo di pantomima che ha il compito di assicurare la realizzazione intuitiva delle «intenzioni»2 della coscienza. Ma queste intenzioni si aggrappano a ricordi conservati «nell’inconscio», la presenza del passato alla coscienza rimane una semplice presenza di fatto; non si è visto che la nostra migliore ragione per respingere la conservazione fisiologica del passato è anche una ragione per respingere la «conservazione psicologica», e questa ragione è che nessuna conservazione, nessuna «traccia» fisiologica o psichica del passato può far comprendere la coscienza del passato. Questo tavolo porta delle tracce della mia vita passata, vi ho inciso le mie iniziali, vi ho fatto delle macchie d’inchiostro. Ma, di per se stesse, queste tracce non rinviano al passato: sono presenti; e, se vi trovo dei segni di qualche evento «anteriore», li trovo perché, per altra via, ho il senso del passato, perché porto in me questo significato. Se il mio cervello conserva le tracce del processo corporeo che ha accompagnato una delle mie percezioni, e se l’impulso nervoso passa di nuovo attraverso questi percorsi già tracciati, la mia percezione riapparirà, io avrò una nuova percezione, fosse pura affievolita e irreale; tuttavia, in nessun caso questa percezione, che è presente, potrà indicarmi un evento passato, a meno che io non abbia sul mio passato un’altra veduta la quale mi permetta di riconoscerla come ricordo, ciò che si esclude per ipotesi. Se ora sostituiamo la traccia fisiologica con una «traccia psichica», se le nostre percezioni rimangono in un inconscio, la difficoltà sarà immutata: una percezione conservata è una percezione, continua a esistere, è sempre al presente, non apre dietro a noi quella dimensione di fuga e di assenza che è il passato; un frammento conservato del passato può essere tutt’al più un’occasione di pensare al passato, non è quest’ultimo a farsi riconoscere; il riconoscimento, quando lo si vuole derivare da un qualsiasi contenuto, precede sempre se stesso. La riproduzione presuppone la ricognizione, può essere compresa come tale solo se prima io ho una specie di contatto diretto con il passato là dove esso si trova. A maggior ragione, non si può costruire l’avvenire con dei contenuti di coscienza: nessun contenuto effettivo può passare, anche a costo di un equivoco, per una testimonianza sull’avvenire, giacché l’avvenire non è nemmeno stato e non può imprimere in noi, come invece fa il passato, il suo marchio. Non si potrebbe quindi pensare di spiegare la relazione dell’avvenire con il presente se non assimilandola a quella del presente con il passato. Se considero la lunga serie dei miei stati passati, vedo che il mio presente passa sempre, posso anticipare questo passaggio, trattare il mio passato vicino come lontano, il mio presente effettivo come passato: l’avvenire è quel vuoto che si forma allora davanti a esso. La prospezione sarebbe in realtà una retrospezione e l’avvenire una proiezione del passato. Ma anche se, per assurdo, io potessi costruire la coscienza del passato con dei presenti desituati, di certo essi non potrebbero aprirmi un avvenire. Anche se, di fatto, ci rappresentiamo l’avvenire per mezzo di ciò che abbiamo già visto, è pur sempre vero che, per proiettarlo davanti a noi, dobbiamo prima avere il senso dell’avvenire. Se la prospezione è un retrospezione, è comunque una retrospezione anticipata, e come si potrebbe anticipare se non si avesse il senso dell’avvenire? Si dice che noi indoviniamo «per analogia», che questo presente incomparabile passerà come tutti gli altri presenti. Ma, perché ci sia analogia tra i presenti trascorsi e il presente effettivo, è necessario che quest’ultimo non si dia solo come presente, che si annunci già come un imminente passato, che noi sentiamo su di esso la pressione di un avvenire che cerca di destituirlo, e che, in breve, il corso del tempo sia a titolo originario non solo il passaggio dal presente al passato, ma anche quello dal futuro al presente. Se si può dire che ogni prospezione è una retrospezione anticipata, si può dire altrettanto bene che ogni retrospezione è una prospezione rovesciata: so che sono stato in Corsica prima della guerra in quanto so che la guerra era


all’orizzonte del mio viaggio in Corsica. Il passato e l’avvenire non possono essere semplici concetti che formeremmo per astrazione a partire dalle nostre percezioni e dai nostri ricordi, semplici denominazioni per designare la serie effettiva dei «fatti psichici». Il tempo è pensato da noi prima delle parti del tempo, le relazioni temporali rendono possibili gli eventi nel tempo. Correlativamente, per poter essere presente in intenzione sia al passato che all’avvenire, il soggetto stesso non deve quindi essere situato nel tempo. Non diciamo più che il tempo è un «dato della coscienza», ma diciamo, con maggior precisione, che la coscienza dispiega o costituisce il tempo. In virtù della idealità del tempo essa cessa infine di essere chiusa nel presente. Ma la coscienza è aperta a un passato e a un avvenire? Essa non è più ossessionata dal presente e dai «contenuti», si muove liberamente da un passato e da un avvenire che non le sono lontani, poiché essa li costituisce come passato e avvenire e poiché sono i suoi oggetti immanenti a un presente che non è presso di essa, giacché è presente solo grazie alle relazioni che la coscienza stessa pone fra di esso, il passato e l’avvenire. Ma una coscienza cosi liberata non ha appunto perduto ogni nozione di ciò che può essere avvenire, passato e anche presente? Il tempo che essa costituisce non è in tutti i punti simile al tempo reale di cui abbiamo mostrato l’impossibilità, non è ancora una serie di «adesso» che non si presentano a nessuno, giacché nessuno vi è impegnato? Non siamo sempre egualmente lontani dal comprendere ciò che possono essere l’avvenire, il passato, il presente e il passaggio dall’uno all’altro? Come oggetto immanente di una coscienza, il tempo è un tempo livellato, in altri termini non è più tempo. Può esserci tempo solo se esso non è completamente dispiegato, se passato, presente e avvenire non sono nello stesso senso. Al tempo è essenziale farsi e non essere, il non essere mai interamente costituito. Il tempo costituito, la serie delle relazioni possibili secondo il prima e il dopo, non è il tempo stesso, ma ne è la registrazione finale, il risultato del suo passaggio che il pensiero oggettivo presuppone sempre e non riesce a cogliere. È spazio, poiché i suoi momenti coesistono di fronte al pensiero,3 è tempo presente, poiché la coscienza è contemporanea di tutti i tempi. È un ambito da me distinto e immobile in cui nulla passa e accade. Deve dunque esserci un altro tempo, quello vero, in cui io impari che cos’è il passaggio o il transito stesso. È certamente vero che io non potrei percepire nessuna posizione temporale senza un prima e un dopo, che, per cogliere la relazione dei tre termini, non devo confondermi con nessuno di essi, e infine che il tempo necessita di una sintesi. Ma è altrettanto vero che questa sintesi è sempre da ricominciare e che si nega il tempo se la si suppone compiuta da qualche parte. Il sogno dei filosofi è si di concepire una «eternità di vita», al di là del permanente e del mutevole, in cui sia eminentemente contenuta la produttività del tempo, ma una coscienza tetica del tempo che lo domini e che lo abbracci distrugge il fenomeno del tempo. Se dobbiamo incontrare una specie di eternità, la incontreremo nel cuore della nostra esperienza del tempo e non in un soggetto atemporale che avrebbe il compito di pensarlo e di porlo. Il problema consiste ora nell’esplicitare questo tempo allo stato nascente e in via d’apparizione, sempre sottinteso dalla nozione del tempo, e che non è un oggetto del nostro sapere, ma una dimensione del nostro essere. Nel mio «campo di presenza» in senso lato - questo momento che io passo lavorando, che ha, dietro di sé, l’orizzonte della giornata trascorsa e, di fronte a sé, l’orizzonte della sera e della notte - io prendo contatto con il tempo, imparo a conoscerne il corso. Anche il passato più lontano ha certo il suo ordine temporale e una posizione temporale in rapporto al mio presente, ma solo in quanto è stato esso stesso presente e «a suo tempo» attraversato dalla mia vita, in quanto quest’ultima è continuata fino a ora. Quando evoco un passato lontano, io riapro il tempo, mi ricolloco in un momento in cui esso comportava ancora un orizzonte d’avvenire oggi chiuso, un orizzonte di passato vicino oggi lontano. Tutto mi rinvia quindi al campo di presenza come all’esperienza originaria in cui il tempo e le sue dimensioni appaiono in persona, senza distanza


interposta e in una evidenza ultima. Qui vediamo un avvenire scivolare nel presente e nel passato. Queste tre dimensioni non ci sono date in virtù di atti discreti: io non mi rappresento la mia giornata, essa grava su di me con tutto il suo peso, è ancora là, io non ne evoco nessun dettaglio, ma ho il potere diretto di farlo, la tengo «ancora in pugno».4 Allo stesso modo, io non penso alla sera che verrà e a ciò che seguirà, e tuttavia essa «è là» come il retro di una casa di cui vedo la facciata, o come lo sfondo sotto la figura. Il nostro avvenire non è fatto soltanto di congetture e di fantasticherie. Al di là di ciò che vedo e di ciò che percepisco non c’è certo più nulla di visibile, ma il mio mondo continua grazie a linee intenzionali che delineano anticipatamente per lo meno lo stile di ciò che verrà (quantunque ci aspettiamo sempre, e certamente fino alla morte, di vedere apparire qualcosa d’altro). Il presente stesso (in senso stretto) non è posto. Il foglio, la penna stilografica sono là per me, eppure io non li percepisco esplicitamente: più che percepire oggetti io faccio i conti con un mondo circostante, mi affido ai miei utensili, inerisco al mio lavoro anziché averlo di fronte a me. Husserl chiama protensioni e ritenzioni le intenzionalità che mi ancorano in un mondo circostante. Esse non partono da un Io centrale, ma in un certo qual modo dal mio stesso campo percettivo, che si trascina dietro il suo orizzonte di ritenzioni e fa presa sull’avvenire grazie alle sue protensioni. Io non passo attraverso una serie di adesso di cui conserverei l’immagine e che, giustapposti, formerebbero una linea. Per ogni momento che sopraggiunge il momento precedente subisce una modificazione: io lo tengo ancora in pugno, esso è ancora là, e tuttavia affonda già, discende al di sotto della linea dei presenti: per conservarlo, devo tendere la mano attraverso un sottile strato di tempo. È proprio lui, e io ho il potere di coglierlo quale è appena stato, non ne sono separato; ma in definitiva esso non sarebbe passato se nulla fosse mutato: comincia a profilarsi o a proiettarsi sul mio presente, mentre prima era il mio presente. Quando sopraggiunge un terzo momento, il secondo subisce una nuova modificazione, da ritenzione che ora diviene ritenzione di ritenzione, lo strato del tempo fra esso e me si ispessisce. Si può, come fa Husserl, rappresentare il fenomeno con uno schema, al quale bisognerebbe aggiungere, perché sia completo, la prospettiva simmetrica delle protensioni. Il tempo non è una linea, ma una rete di intenzionalità.

Linea orizzontale: serie degli «adesso». Linee oblique: «ritenzioni» (Abschattungen) degli stessi «adesso» visti da un «adesso» successivo. Linee verticali: successive Abschattungen di un medesimo «adesso». (Husserl, Zeitbewusstsein, p. 22.)


Si dirà certo che questa descrizione e questo schema non ci consentono nessun progresso. Quando passiamo da A a B, poi a C, A si proietta o si profila in A’, poi in A”. Affinché A’ sia riconosciuto come ritenzione o Abschattung di A, e A” di A’, e affinché la trasformazione di A in A’ sia esperita come tale, non è forse necessaria una sintesi di identificazione che riunisca A, A’, A” e tutte le altre Abschattungen possibili? E con ciò non si fa di A una unità ideale come vuole Kant? Eppure, noi sappiamo che, con questa sintesi intellettuale, non ci sarà più. tempo A: è vero che tutti i momenti anteriori del tempo saranno per me identificabili e che, in un certo qual modo, io sarò salvo dal tempo che li fa scivolare e li confonde, ma simultaneamente avrò perduto il senso stesso del prima e del dopo che non è dato se non in virtù di questo slittamento, e nulla distinguerà più la serie temporale da una molteplicità spaziale. Se Husserl ha introdotto la nozione di ritenzione e dice che tengo ancora in pugno il passato immediato, è appunto per esprimere che io non pongo il passato o non lo costruisco a partire da una Abschattung realmente distinta da esso e in virtù di un atto espresso, che lo colgo nella sua ecceità recente e nondimeno già passata. Ciò che mi è dato, non è dapprima A’, A” o A’“, e io non risalgo da questi «profili» al loro originale A cosi come si va dal segno al significato. Ciò che mi è dato è A visto per trasparenza attraverso A’, poi questo insieme attraverso A” e cosi via, nel medesimo modo in cui vedo il sasso stesso attraverso le masse d’acqua che scorrono sopra di esso. Ci sono si sintesi di identificazione, ma solamente nel ricordo espresso e nella evocazione volontaria del passato lontano, cioè nei modi derivati della coscienza del passato. Per esempio, esito sulla data di un ricordo, ho di fronte a me una certa scena, non so a quale punto del tempo collegarla, il ricordo ha perduto il suo ancoraggio; posso allora ottenere una identificazione intellettuale fondata, per esempio, sull’ordine causale degli eventi: ho fatto fare questo vestito prima dell’armistizio poiché, dopo di allora, non si trovano pili tessuti inglesi. Ma, in questo caso, non colgo il passato stesso. Quando viceversa ritrovo l’origine concreta del ricordo, è perché esso si ricolloca in una certa corrente di timore o di speranza che va da Monaco alla guerra, perché raggiungo il tempo perduto, perché, dal momento considerato sino al mio presente, la catena delle ritenzioni e il reciproco incorporarsi degli orizzonti successivi assicura un passaggio continuo. I punti oggettivi di riferimento, in rapporto ai quali colloco il mio ricordo nella identificazione mediata, e in generale la sintesi intellettuale, hanno essi stessi un senso temporale solo perché, a poco a poco, la sintesi dell’apprensione mi collega a tutto il mio passato effettivo. Non c’è quindi motivo di ricondurre la seconda alla prima. Se le Abschattungen A’ e A” mi appaiono come Abschattungen di A, non è perché partecipino tutte a una unità ideale A che sarebbe la loro ragione comune, ma perché attraverso di esse io ho lo stesso punto A nella sua individualità irricusabile, fondata una volta per tutte dal suo passaggio nel presente e perché vedo sgorgare da esso le Abschattungen A’, A”... In linguaggio husserliano: sotto la «intenzionalità d’atto», che è la coscienza tetica di un oggetto e che, per esempio, nella memoria intellettuale converte il questo in idea, dobbiamo riconoscere una intenzionalità «fungente» (fungierende Intentionalität), 5 che rende possibile la prima e che Heidegger chiama trascendenza. Il mio presente si oltrepassa verso un avvenire e verso un passato vicini, e li tocca là ove essi sono, nel passato stesso, nell’avvenire stesso. Se avessimo il passato solo sotto forma di ricordi espressi, in ogni istante saremmo tentati di evocarlo per verificarne l’esistenza, come quel malato di cui parla Scheler e che si girava per accertarsi che gli oggetti fossero sempre là, - viceversa, noi lo sentiamo dietro di noi come una acquisizione irrecusabile. Per avere un passato o un avvenire, non dobbiamo riunire mediante un atto intellettuale una serie di Abschattungen, esse hanno come una unità naturale e primordiale, e attraverso di esse si annuncia il passato o l’avvenire stesso. Ecco il paradosso di ciò che, con Husserl, potremmo chiamare la «sintesi passiva» del tempo:6 espressione, questa, che non è


evidentemente una soluzione, ma un indice per designare un problema. Il problema comincia a chiarirsi se ricordiamo che il nostro diagramma rappresenta uno spaccato istantaneo del tempo. In realtà non c’è un passato, un presente, un avvenire, non ci sono istanti discreti A, B, C, non ci sono Abschattungen A’, A”, B’ realmente distinte, non c’è una moltitudine di ritenzioni e dall’altra parte una moltitudine di protensioni. Lo scaturire di un nuovo presente non provoca un ispessimento del passato e una scossa dell’avvenire, ma il nuovo presente è il passaggio di un futuro al presente e del vecchio presente al passato, il tempo viene dispiegandosi con un movimento unico. Gli «istanti» A, B, C non sono successivamente, ma si differenziano l’uno dall’altro e, correlativamente, A passa in A’ e da qui in A”. Infine, in ogni istante il sistema delle ritenzioni raccoglie in se stesso ciò che un istante prima era il sistema delle protensioni. Non c’è qui una molteplicità dei fenomeni collegati, ma un solo fenomeno di flussione. Il tempo è l’unico movimento che faccia tutt’uno con se stesso in ogni sua parte, cosi come un gesto implica tutte le contrazioni muscolari necessarie per realizzarlo. Quando si passa da B a C, c’è come una esplosione, una disintegrazione di B in B’, di A’ in A”, e lo stesso C che, quando era imminente, si annunciava con una emissione continua di Abschattungen, non appena venuto alla esistenza comincia già a perdere la propria sostanza. «Il tempo è il mezzo per essere che viene offerto a tutto ciò che sarà affinché non sia più.»7 Esso non è altro che una fuga generale fuori dal Sé, la legge unica di questi movimenti centrifughi, o anche, come dice Heidegger, una «e-stasi». Mentre diviene C, B diviene anche B’, nello stesso tempo A, che, divenendo B, era anche divenuto A’ cade in A”. A, A’, A” da una parte, B e B’ dall’altra sono collegati tra di essi, non in virtù di una sintesi di identificazione, che li cristallizzerebbe in un punto del tempo, ma in virtù di una sintesi di transizione (Übergangssynthesis), in quanto escono l’uno dall’altro, e ciascuna di queste proiezioni non è se non un aspetto dell’esplosione o della deiscenza totale. Ecco perché, nell’esperienza primordiale che ne abbiamo, il tempo non è per noi un sistema di posizioni oggettive attraverso le quali passiamo, ma un ambito mobile che si allontana da noi, come un paesaggio che vediamo da un finestrino del treno. Tuttavia, noi non crediamo sul serio che il paesaggio si muove: la casellante passa in un batter d’occhio, ma la collina laggiù si muove appena; parimenti, se l’inizio della mia giornata si allontana già, l’inizio della mia settimana è un punto fisso, un tempo oggettivo si delinea all’orizzonte e deve quindi abbozzarsi nel mio passato immediato. Come è possibile ciò? In che modo l’e-stasi temporale può non essere una disintegrazione assoluta in cui svanisce l’individualità dei momenti? In realtà, la disintegrazione disfa ciò che il passaggio del futuro al presente aveva fatto: C è al termine di una lunga concentrazione che l’ha condotto a maturità; man mano che si preparava, esso si segnalava con Abschattungen sempre meno numerose, si avvicinava in persona. Quando è venuto nel presente vi ha apportato la propria genesi, di cui esso non era se non il limite, e la presenza prossima di ciò che doveva venire dopo di esso. Conseguentemente, quando questa presenza si realizza e lo spinge nel passato, non lo priva improvvisamente dell’essere, e la disintegrazione di C è per sempre il rovescio o la conseguenza della sua maturazione. In breve, poiché nel tempo essere e passare sono sinonimi, divenendo passato l’evento non cessa di essere. L’origine del tempo oggettivo con le sue posizioni fisse sotto il nostro sguardo non deve essere ricercata in una sintesi eterna, ma nell’accordo e nel ricupero del passato e, dell’avvenire attraverso il presente, nel passare stesso del tempo. Il tempo conserva ciò che ha fatto essere nel momento stesso in cui lo allontana dall’essere: infatti, il nuovo essere era annunciato come imminente da quello precedente e per esso era la medesima cosa divenire presente ed essere destinato a passare. «La temporalizzazione non è una “successione” (Nacheinander) delle estasi. L’avvenire non è posteriore al passato e quest’ultimo non è anteriore al presente. La temporalità si temporalizza come avvenire-che-va-al-passato-venendo-al-presente.»8 Bergson si ingannava quando spiegava l’unità


del tempo con la sua continuità, giacché ciò equivale a confondere passato, presente e avvenire, con il pretesto che si va dall’uno all’altro attraverso transizioni insensibili, e in definitiva a negare il tempo. Ma aveva ragione quando si rifaceva alla continuità del tempo come fenomeno essenziale. Bisogna solo delucidarlo. L’istante C e l’istante D, vicino quanto si vuole al primo, non sono indiscernibili, altrimenti non vi sarebbe tempo, ma passano l’uno nell’altro: C diviene D in quanto non è mai stato altro che l’anticipazione di D come presente e del suo proprio passaggio al passato. Ciò equivale a dire che ogni presente riafferma la presenza di tutto il passato che allontana, che anticipa quella di tutto l’a-venire e che, per definizione, il presente non è chiuso in se stesso, ma si trascende verso un avvenire e un passato. Non c’è un presente, poi un altro presente che succede nell’essere al primo, e nemmeno un presente con prospettive di passato e di avvenire seguito da un altro presente in cui queste prospettive sarebbero sconvolte, cosicché, per effettuare la sintesi delle prospettive successive, sarebbe necessario uno spettatore identico: c’è un solo tempo che confermasse stesso, che non può condurre nulla all’esistenza senza averlo già fondato come presente e come passato a venire, e che si stabilisce d’un sol tratto. Il passato non è quindi passato, né il futuro futuro. Esso esiste solo quando una soggettività viene a rompere la pienezza dell’essere in sé, a delinearvi una prospettiva, a introdurvi il non-essere. Un passato e un avvenire scaturiscono quando io mi protendo verso di essi. Io non inerisco, per me stesso, all’ora attuale, ma inerisco ugualmente al mattino di questo giorno o alla notte che verrà; il mio presente è, se si vuole, questo istante, ma è parimenti questo giorno, questo anno, la mia vita intera. Non c’è bisogno di una sintesi che riunisca dall’esterno i tempora in un sol tempo, poiché ognuno dei tempora comprendeva già, al di là di se stesso, la serie aperta degli altri tempora, comunicava interiormente con essi e poiché la «coesione di una vita»9 è data con la sua e-stasi. Il passaggio dal presente a un altro presente, io non lo penso, non ne sono lo spettatore, ma lo effettuo, inerisco già al presente che verrà cosi come il mio gesto inerisce già al suo oggetto, sono io stesso il tempo, un tempo che «rimane», che non «fluisce» e non «cambia», come ha detto Kant.10 Questa idea del tempo che anticipa se stesso, il senso comune la coglie a modo suo. Tutti parlano del tempo, e non come lo zoologo parla del cane o del cavallo, nel senso di un nome collettivo, ma nel senso di un nome proprio. Talvolta lo si personifica addirittura. Tutti pensano che c’è qui un solo essere concreto, per intero presente in ogni sua manifestazione cosi come un uomo è in ogni sua parola. Si dice che c’è un tempo nello stesso modo in cui si dice che c’è un getto d’acqua: l’acqua cambia e il getto d’acqua rimane poiché la forma si conserva in quanto ogni onda successiva riprende le funzioni di quella precedente: onda sospingente in rapporto a quella che essa sospingeva, diviene a sua volta onda sospinta in rapporto a un’altra; e ciò stesso deriva infine dal fatto che, dalla sorgente sino al getto, le onde non sono separate: c’è una pulsione unica e, per rompere il getto, basterebbe una sola lacuna del flusso. Qui si giustifica la metafora del fiume, non in quanto il fiume scorre, ma in quanto fa tutt’uno con se stesso. Soltanto, nel senso comune questa intuizione della permanenza del tempo è compromessa, giacché il tempo viene tematizzato e oggettivato, e questo è appunto il modo più sicuro per ignorarlo. C’è piò verità nelle personificazioni mitiche del tempo che nella nozione del tempo considerato, alla maniera scientifica, come una variabile della natura in sé o, alla maniera kantiana, come una forma idealmente separabile dalla sua materia. C’è uno stile temporale del mondo e il tempo rimane il medesimo perché il passato è un avvenire trascorso e un presente recente, il presente un passato vicino e un avvenire recente, e l’avvenire, infine, un presente e anche un passato a venire, ossia perché ogni dimensione del tempo è trattata o presa di mira come qualcosa di diverso da se stessa: insomma, perché nel cuore del tempo c’è uno sguardo o, come dice Heidegger, un «colpo d’occhio» (Augen-blick), qualcuno in virtù del quale la parola come assuma un senso. Noi non


diciamo che il tempo è per qualcuno: ciò equivarrebbe di nuovo a dispiegarlo e immobilizzarlo. Diciamo che il tempo è qualcuno, vale a dire che, in quanto si recuperano perpetuamente, le dimensioni temporali si confermano vicendevolmente, non fanno mai altro che esplicitare quanto era implicito in ciascuna, esprimono tutte una sola esplosione o una sola pulsione che è la soggettività stessa. Dobbiamo comprendere il tempo come soggetto e il soggetto come tempo. Evidentemente, questa temporalità originaria non è una giustapposizione di eventi esteriori, essendo la potenza che li mantiene insieme allontanandoli l’uno dall’altro. La soggettività ultima non è temporale nel senso empirico della parola: se la coscienza del tempo fosse fatta di stati di coscienza che si succedono, per avere coscienza di questa successione occorrerebbe una nuova coscienza, e cosi via. Siamo quindi costretti ad ammettere «una coscienza che, per essere autocoscienza, non abbia più dietro a sé nessuna coscienza»,11 che, di conseguenza, non sia dispiegata nel tempo e il cui «essere coincida con l’essere per sé».12 Possiamo dire che la coscienza ultima è «senza tempo» (zeitlos), nel senso che non è intratemporale.13 «Nel» mio presente, se lo riafferro ancora vivente e con tutto ciò che implica, c’è una estasi verso l’avvenire e verso il passato che fa apparire le dimensioni del tempo, non come rivali, ma come inseparabili: essere ora significa essere da sempre ed essere per sempre. La soggettività non è nel tempo poiché assume o vive il tempo e si confonde con la coesione di una vita. Ritorniamo cosi a una specie di eternità? Io inerisco al passato e, poiché le ritenzioni continuano a incorporarsi vicendevolmente, conservo le mie più vecchie esperienze, non ne ho qualche duplicato o qualche immagine, ma le ritengo nella loro originalità, cosi come sono state. Tuttavia, la concatenazione ininterrotta dei campi di presenza, in virtù della quale mi è garantito questo accesso al passato stesso, ha la peculiarità di effettuarsi solo a poco a poco e gradualmente; ogni presente, per la sua essenza stessa di presente, esclude la giustapposizione con gli altri presenti e, anche nel passato lontano, io non posso abbracciare una certa durata della mia vita se non svolgendola di nuovo secondo il suo tempo proprio. La prospettiva temporale, la confusione dei lontani, quella specie di «raggrinzimento» del passato il cui limite è l’oblio, non sono accidenti della memoria, non esprimono la degradazione nell’esistenza empirica di una coscienza del tempo che, in linea di principio, è totale, ma ne esprimono l’ambiguità iniziale: ritenere è tenere, ma a distanza. Ancora una volta, la «sintesi» del tempo è una sintesi di transizione, è il movimento di una vita che si dispiega, e non c’è altro modo di effettuarla se non quello di vivere questa vita, non c’è luogo del tempo, il tempo porta e rilancia se stesso. Solo il tempo come pulsione indivisa e come transizione può rendere possibile il tempo come molteplicità successiva, e quello che poniamo all’origine della intratemporalità è un tempo costituente. Quando prima descrivevamo l’autoricuperarsi del tempo, non riuscivamo a trattare il futuro come un passato se non aggiungendo: un passato a venire, non riuscivamo a trattare il passato come un avvenire se non aggiungendo: un avvenire già avvenuto, come dire che, al momento di livellare il tempo, era necessario riaffermare l’originalità di ogni prospettiva e fondare questa quasi-eternità sull’evento. Ciò che nel tempo non passa è il passare stesso del tempo. Il tempo ricomincia: ieri, oggi, domani, questo ritmo ciclico, questa forma costante può sì darci l’illusione di possederlo per intero d’un sol tratto, così come il getto d’acqua ci dà una sensazione di eternità. Ma la generalità è solo un attributo secondario del tempo e non ci dà altro che una visione inautentica di esso: infatti noi non possiamo limitarci a concepire un ciclo senza distinguere temporalmente il punto d’arrivo e il punto di partenza. Il sentimento dell’eternità è ipocrita, l’eternità si nutre del tempo. Il getto d’acqua non rimane il medesimo se non per l’ininterrotta pulsione dell’acqua. L’eternità è il tempo del sogno, e il sogno rinvia alla veglia, dalla quale esso deriva tutte le sue strutture. Qual è dunque questo tempo desto in cui si radica l’eternità? È il campo di presenza in senso lato, con il suo duplice orizzonte di passato e di avvenire originari, con


l’infinità aperta dei campi di presenza passati o possibili. Per me c’è tempo solo perché vi sono situato, ossia perché mi ci scopro già impegnato, perché tutto l’essere non mi è dato in persona e, infine, perché un settore dell’essere mi è cosi vicino che non si traduce nemmeno in spettacolo di fronte a me e io non posso vederlo, cosi come non posso vedere il mio volto. Per me c’è del tempo in quanto io ho un presente. Venendo al presente un momento del tempo acquista l’individualità incancellabile, quell’«una volta per tutte», che gli permetteranno poi di attraversare il tempo e ci daranno l’illusione dell’eternità. Nessuna dimensione del tempo può essere dedotta dalle altre. Ma il presente (in senso lato, con i suoi orizzonti di passato e di avvenire originari) ha però un privilegio, in quanto è la zona in cui l’essere e la coscienza coincidono. Quando ricordo una vecchia percezione, quando immagino una visita al mio amico Paolo che è in Brasile, è certo vero che io ho di mira il passato stesso nella sua sede, Paolo stesso nel mondo, e non qualche oggetto mentale interposto. Ma in definitiva, a differenza dalle esperienze rappresentate, il mio atto di rappresentazione mi è effettivamente presente, l’uno è concepito, le altre non sono appunto che rappresentate. Per apparirmi, un’esperienza trascorsa, un’esperienza eventuale devono essere portate nell’essere da una coscienza primaria, che è qui la mia percezione interiore della rimemorazione o dell’immaginazione. Prima dicevamo che si deve pur giungere a una coscienza che non ne abbia piò un’altra dietro di sé, che dunque colga il suo proprio essere e nella quale, infine, essere ed essere cosciente facciano tutt’uno. Questa coscienza ultima non è un soggetto eterno che si coglie in una trasparenza assoluta infatti, un tale soggetto sarebbe definitivamente incapace di discendere nel tempo e non avrebbe quindi nulla in comune con la nostra esperienza -, ma è la coscienza del presente. Nel presente, nella percezione, il mio essere e la mia coscienza fanno tutt’uno, non perché il mio essere si riduca alla conoscenza che ne ho e sia chiaramente dispiegato di fronte a me ( viceversa, la percezione è opaca e chiama in causa, al di sotto di ciò che conosco, i miei campi sensoriali, le mie complicità primitive con il mondo), ma perché «avere coscienza» non è qui altro che «inerire a...» e perché la mia coscienza di esistere si confonde con il gesto effettivo di «e-sistenza».14 Comunicando con il mondo, noi comunichiamo indubitabilmente con noi stessi. In quanto siamo presenti al mondo, noi possediamo il tempo per intero e siamo presenti a noi stessi. Se le cose stanno cosi, e se la coscienza si radica nell’essere e nel tempo assumendovi una situazione, come possiamo descriverla? È necessario che essa sia un progetto globale o una veduta del tempo e del mondo che, per manifestarsi a se stessa, per divenire esplicitamente ciò che è implicitamente, cioè coscienza, ha bisogno di svilupparsi nel molteplice. Non dobbiamo realizzare separatamente né la potenza indivisa, né le sue manifestazioni distinte, la coscienza non è l’uno o l’altro, ma l’uno e l’altro, è il movimento stesso di temporalizzazione, e, come dice Husserl, di «flussione», un movimento che si anticipa, un flusso che non viene meno. Tentiamo di descriverla meglio con un esempio. Il romanziere o lo psicologo che non risale alle origini e assume la temporalizzazione bell’e fatta, vede la coscienza come una molteplicità di fatti psichici, tra i quali egli tenta di stabilire rapporti di causalità. Per esempio,15 Proust mostra come l’amore di Swann per Odette cagiona la gelosia che, a sua volta, modifica l’amore, poiché Swann, sempre preoccupato di negare a ogni altro il piacere di contemplare Odette, perde egli stesso questo piacere. In realtà, la coscienza di Swann non è un ambito inerte in cui dei fatti psichici si suscitano reciprocamente dall’esterno. Non c’è qui gelosia provocata da amore e che di rimando lo altera, ma un certo modo di amare in cui si legge, d’un sol tratto, tutto il destino di questo amore. Swann ha una predilezione per la persona di Odette, per lo «spettacolo» che essa è, per il suo modo di guardare, di sorridere, di modulare la propria voce. Ma che cosa significa avere una predilezione per qualcuno? Proust lo dice a proposito di un altro amore: significa sentirsi esclusi da questa vita, volere entrarvi e occuparla


completamente. L’amore di Swann non provoca la gelosia. Esso è già, e sin dall’origine, gelosia. La gelosia non provoca una modificazione dell’amore: il piacere che Swann prova nel contemplare Odette portava in se stesso la propria alterazione, poiché era il piacere di essere l’unico a farlo. La serie dei fatti psichici e dei rapporti di causalità non fa altro che tradurre all’esterno una certa visione che Swann ha di Odette, un certo modo di inerire all’altro. Del resto, l’amore geloso di Swann dovrebbe essere messo in rapporto con i suoi altri comportamenti, e forse apparirebbe allora esso stesso come la manifestazione di una struttura d’esistenza ancora più generale, che sarebbe la persona Swann. Reciprocamente, in quanto progetto globale ogni coscienza si profila o si manifesta a se stessa in atti, esperienze, «fatti psichici» in cui si riconosce. Qui la temporalità rischiara la soggettività. Non comprenderemo mai come un soggetto pensante o costituente possa porre o cogliere se stesso nel tempo. Se l’Io è l’Io trascendentale di Kant, non riusciremo a capire come esso possa mai confondersi, nel senso intimo, con la propria appendice; né come l’io empirico sia ancora un io. Ma se il soggetto è temporalità, allora l’autoposizione cessa di essere una contraddizione, poiché esprime esattamente l’essenza del tempo vivente. Il tempo è «autoaffezione»:16 il soggetto di questa affezione è il tempo come pulsione e passaggio verso un avvenire; l’oggetto è il tempo come serie sviluppata dei presenti; soggetto e oggetto fanno tutt’uno, poiché la pulsione del tempo non è altro che la transizione da un presente a un presente. Questa e-stasi, questa proiezione di una potenza indivisa in un termine che le è presente, è la soggettività. Il flusso originario, dice Husserl, non si limita a essere: deve necessariamente darsi una «automanifestazione» (Selbst-erscheinung), senza che, per prenderne coscienza, sia necessario porre dietro di esso un altro flusso. Esso «si costituisce come fenomeno in se stesso»,17 al tempo è essenziale essere non soltanto tempo effettivo o fluente, ma anche tempo che si sa, giacché l’esplosione o la deiscenza del presente verso un avvenire è l’archetipo del rapporto di sé con sé e delinea una interiorità o una ipseità.18 Qui sorge una luce,19 qui non abbiamo più a che fare con un essere che riposa in sé, ma con un essere la cui intera essenza, .come quella della luce, è di far vedere. In virtù della temporalità può esserci senza contraddizione ipseità, senso e ragione. Ciò è manifesto persino nella nozione comune del tempo. Noi delimitiamo delle fasi o delle tappe della nostra vita, per esempio consideriamo appartenente al nostro presente tutto ciò che ha un rapporto di senso con le nostre occupazioni del momento; riconosciamo quindi implicitamente che tempo e senso fanno tutt’uno. La soggettività non è l’identità immobile con sé: per essere soggettività, le è essenziale, così come è essenziale al tempo, aprirsi a un Altro e uscire da sé. Non dobbiamo rappresentarci il soggetto come costituente e la molteplicità delle sue esperienze o dei suoi Erlebnisse come costituiti; non dobbiamo trattare l’Io trascendentale come il vero soggetto e l’io empirico come la sua ombra o la sua appendice. Se tale fosse il loro rapporto, noi potremmo ritirarci nel costituente, e questa riflessione distruggerebbe il tempo, sarebbe senza luogo e senza data. In realtà, se anche le nostre riflessioni più pure ci appaiono retrospettivamente nel tempo, se le nostre riflessioni sul flusso si inseriscono nel flusso,20 è perché la coscienza più esatta di cui siamo capaci si trova sempre come investita da se stessa o data a se stessa, e perché la parola coscienza non ha alcun senso fuori di questa dualità. Nulla è falso di ciò che si dice circa il soggetto: è vero che, come autopresenza assoluta, il soggetto è rigorosamente indeclinabile e che non potrebbe accadergli nulla di cui non porti in se stesso l’abbozzo; è anche vero che esso si dà degli emblemi di se stesso nella successione e nella molteplicità e che questi emblemi sono il soggetto stesso, giacché, senza di essi, il soggetto sarebbe come un grido inarticolato e non giungerebbe nemmeno all’autocoscienza. Ciò che chiamavamo provvisoriamente sintesi passiva viene qui delucidato. Una sintesi passiva è contraddittoria se la


sintesi è composizione, e se la passività consiste nel ricevere una molteplicità anziché comporla. Parlando di sintesi passiva, si voleva dire che il molteplice è penetrato da noi e che, ciononostante, non siamo noi a effettuarne la sintesi. Orbene, per la sua stessa natura, la temporalizzazione soddisfa a queste due condizioni: infatti, è manifesto che io non sono l’autore del tempo, cosi come non lo sono dei battiti del mio cuore, e che non sono io ad assumere l’iniziativa della temporalizzazione; io non ho scelto di nascere e, una volta che sono nato, il tempo defluisce attraverso di me, qualsiasi cosa io faccia. Eppure questo sgorgare del tempo non è un semplice fatto che subisco, io posso trovare nel tempo un ricorso contro il tempo stesso, come accade in una decisione che mi impegna o in un atto di fissazione concettuale. Esso mi strappa da ciò che stavo per essere, ma contemporaneamente mi dà modo di cogliermi a distanza e di realizzarmi come io. Ciò che chiamiamo passività non è la recezione in noi di una realtà estranea o l’azione causale dell’esterno su di noi: è un investimento, un essere in situazione, prima del quale noi non esistiamo, che continuamente ricominciamo e che è costitutivo di noi stessi. Una spontaneità «acquisita» una volta per tutte e che «continua a esserlo in virtù di tale acquisizione»,21 è precisamente il tempo ed è precisamente la soggettività. È il tempo, poiché un tempo che non avesse le proprie radici in un presente, e quindi in un passato, non sarebbe più tempo, ma eternità. Il tempo storico di Heidegger che fluisce dall’avvenire e che, grazie alla decisione risoluta, ha in anticipo il proprio avvenire e si salva una volta per tutte dalla dispersione, è impossibile secondo il pensiero stesso di Heidegger: infatti, se il tempo è una estasi, se presente e passato sono due risultati di questa estasi, come potremmo cessare completamente di vedere il tempo dal punto di vista del presente, e come potremmo uscire definitivamente dall’inautentico? Noi siamo sempre centrati nel presente, le nostre decisioni si diramano da esso; pertanto, tali decisioni possono sempre essere messe in rapporto con il nostro passato, non sono mai immotivate e, se aprono nella nostra vita un ciclo che può essere interamente nuovo, esse devono poi essere riprese, non ci salvano dalla dispersione se non per un certo tempo. Non c’è dunque motivo di dedurre il tempo dalla spontaneità. Noi non siamo temporali perché siamo spontanei e perché, come coscienze, ci strappiamo da noi stessi, ma viceversa il tempo è il fondamento e la misura della nostra spontaneità: il potere di passar oltre e di «nullificare» che ci abita, che è noi stessi, ci è dato anch’esso con la temporalità e con la vita. La nostra nascita o, come dice Husserl nei suoi inediti, la nostra «generatività» fonda la nostra attività o la nostra individualità e al tempo stesso la nostra passività o la nostra generalità, questa debolezza interna che ci impedisce di ottenere mai la densità di un individuo assoluto. Noi non siamo, in modo incomprensibile, una attività unita a una passività, un automatismo sottostante a una volontà, una percezione sottostante a un giudizio, ma completamente attivi e completamente passivi, poiché siamo il sorgere del tempo. Per noi22 si trattava di comprendere i rapporti fra la coscienza e la natura, fra l’interiore e l’esteriore. O anche, si trattava di collegare la prospettiva idealistica secondo la quale nulla esiste se non come oggetto per la coscienza, e la prospettiva realistica, secondo la quale le coscienze sono inserite nel tessuto del mondo oggettivo e degli eventi in sé. O infine, si trattava di sapere come il mondo e l’uomo siano accessibili a due specie di ricerche, le prime esplicative, le seconde riflessive. In un’altra opera abbiamo già formulato questi problemi classici in un linguaggio diverso, che li riduce all’essenziale: in ultima analisi, dobbiamo comprendere qual è, in noi e nel mondo, il rapporto tra il senso e il non senso. Ciò che nel mondo è senso, è forse portato e prodotto dall’unione o dall’incontro di fatti indipendenti, oppure è solo l’espressione di una ragione assoluta? Si dice che gli eventi hanno un senso quando appaiono come la realizzazione o l’espressione di un progetto unico. Per noi c’è senso quando una nostra intenzione è soddisfatta, o viceversa quando una molteplicità di fatti o di segni si presta, da parte nostra, a una ripresa che li comprende, in ogni caso


quando uno o piò termini esistono come..., rappresentanti o espressione di altro da se stessi. La peculiarità dell’idealismo è di ammettere che ogni significazione è centrifuga, che è un atto di significazione o di Sinn-Gebung,23 e che non c’è segno naturale. In definitiva, comprendere è sempre costruire, costituire, effettuare attualmente la sintesi dell’oggetto. L’analisi del corpo proprio e della percezione ci ha rivelato un rapporto con l’oggetto, una significazione pili profonda di quella. La cosa è solo un significato, è il significato «cosa». D’accordo. Ma quando io comprendo una cosa, per esempio un quadro, non ne effettuo attualmente la sintesi, ma mi faccio incontro a essa con i miei campi sensoriali, con il mio campo percettivo e infine con una tipica di tutto l’essere possibile, con un montaggio universale nei confronti del mondo. Nell’intimo del soggetto stesso scoprivamo quindi la presenza del mondo, cosicché il soggetto non doveva più essere compreso come attività sintetica, ma come e-stasi, e ogni operazione attiva di significazione o di Sinn-Gebung appariva come derivata e secondaria in rapporto a quella pregnanza del significato nei segni che potrebbe definire il mondo. Sotto l’intenzionalità d’atto o tetica, e come sua condizione di possibilità, noi ritrovavamo un’intenzionalità pungente, già all’opera, prima di ogni tesi o di ogni giudizio, un «Logos del mondo estetico»,24 un’«arte celata nelle profondità dell’anima umana», che, come ogni arte, non si conosce se non nei suoi risultati. La distinzione che avevamo fatto altrove25 fra struttura e significato veniva ormai chiarificandosi: la differenza tra la Gestalt del cerchio e il significato cerchio è costituita dal fatto che il secondo è riconosciuto da un intelletto che lo genera come luogo dei punti equidistanti da un centro, la prima da un soggetto che ha familiarità con il suo mondo e che è quindi capace di coglierla come una modulazione di questo mondo, come fisionomia circolare. Non abbiamo altro modo di sapere che cos’è un quadro o una cosa se non quello di guardarli, e il loro significato si rivela solo se li guardiamo da un certo punto di vista, da una certa distanza e in un certo senso, in breve se mettiamo al servizio dello spettacolo la nostra connivenza con il mondo. Il senso di un corso d’acqua: questa espressione non vuole dir nulla se non presuppongo un soggetto che guardi da un certo luogo verso un altro. Nel mondo in sé, tutte le direzioni, come tutti i movimenti, sono relativi, e ciò equivale a dire che non ce ne sono. Non ci sarebbe movimento effettivo e io non avrei la nozione del movimento se, nella percezione, io non lasciassi la terra, come «suolo»26 di ogni quiete e di ogni movimento, al di qua del movimento e della quiete, giacché l’abito; parimenti non ci sarebbe direzione senza un essere che abiti il mondo e che, con il suo sguardo, vi tracci la prima direzioneriferimento. Allo stesso modo, il senso di una stoffa è afferrabile solo per un soggetto che può accostare l’oggetto da una parte o dall’altra, ed è grazie al mio sorgere nel mondo che la stoffa ha un senso. Allo stesso modo, ancora, il senso di una frase è il suo proposito o la sua intenzione, ciò che presuppone nuovamente un punto di partenza e un punto d’arrivo, un progetto, un punto di vista. Allo stesso modo, infine, il senso della vista è una certa preparazione alla logica e al mondo dei colori. In qualsiasi accezione assumiamo la parola senso, ritroviamo la medesima nozione fondamentale di un essere orientato o polarizzato verso ciò che esso non è, e così siamo condotti a una concezione del soggetto come e-stasi e a un rapporto di trascendenza attiva tra il soggetto e il mondo. Il mondo è inseparabile dal soggetto, ma da un soggetto il quale non è altro che progetto del mondo; il soggetto è inseparabile dal mondo, ma da un mondo che egli stesso progetta. Il soggetto è essere-al-mondo e il mondo resta «soggettivo»27 poiché la sua trama e le sue articolazioni sono delineate dal movimento di trascendenza del soggetto. Pertanto, con il mondo come culla dei significati, senso di tutti i sensi e terreno di tutti i pensieri, scoprivamo il mezzo per superare l’alternativa fra il realismo e l’idealismo, fra la contingenza e la ragione assoluta, fra il non senso e il senso. Il mondo, cosi come abbiamo tentato di mostrarlo, in quanto unità primordiale di tutte le nostre esperienze all’orizzonte


della nostra vita e termine unico di tutti i nostri progetti, non è più il dispiegamento visibile di un Pensiero costituente, né un aggregato fortuito di parti, né ovviamente l’operazione di un Pensiero sovrano su una materia indifferente, ma la patria di ogni razionalità. L’analisi del tempo ha innanzitutto confermato questa nuova nozione del senso e del comprendere. Se consideriamo il tempo come un oggetto qualsiasi, dovremo dire di esso ciò che abbiamo detto degli altri oggetti: che ha senso per noi solo perché noi «lo siamo». Possiamo annettere un significato a questa parola unicamente perché ineriamo al passato, al presente e all’avvenire. Il tempo è alla lettera il senso della nostra vita e, come il mondo, non è accessibile se non a colui che vi è situato e che ne sposa la direzione. Ma l’analisi del tempo non era solamente un’occasione per ripetere quanto avevamo detto a proposito del mondo. Essa chiarisce le precedenti analisi, in quanto fa apparire il soggetto e l’oggetto come due momenti astratti di una struttura unica che è la presenza. Attraverso il tempo si pensa l’essere: infatti, attraverso i rapporti fra il tempo soggetto e il tempo oggetto si possono comprendere quelli fra il soggetto e il mondo. Applichiamo ai problemi posti inizialmente l’idea della soggettività come temporalità. Ci chiedevamo, per esempio, in che modo concepire le relazioni fra l’anima e il corpo, ed era un tentativo senza speranza collegare il per sé a un certo oggetto in sé che eserciterebbe su di esso un’azione causale. Ma se il per sé, l’autorivelarsi, è solo la cavità in cui si forma il tempo, e se il mondo «in sé’» è solo l’orizzonte del mio presente, allora il problema consiste nel sapere in che modo un essere che è a venire e passato ha anche un presente, - come dire che tale problema si dissolve poiché l’avvenire, il passato e il presente sono legati nel movimento di temporalizzazione. Mi è essenziale avere un corpo quanto è essenziale all’avvenire essere avvenire di un certo presente. Perciò, la tematizzatone scientifica e il pensiero oggettivo non potranno trovare una sola funzione del corpo che sia rigorosamente indipendente dalle strutture dell’esistenza28 e, reciprocamente, un solo atto «spirituale» che non riposi su una infrastruttura corporea. C’è di più: non mi è solamente essenziale avere un corpo, ma anche avere questo corpo. Non basta dire che la nozione del corpo, attraverso quella del presente, è necessariamente collegata a quella del per sé, ma si deve aggiungere che l’esistenza effettiva del mio corpo è indispensabile a quella della mia «coscienza». In ultima analisi, se io so che il per sé corona un corpo, ciò è possibile unicamente perché esperisco un corpo singolo e un per sé singolo, perché esperisco la mia presenza al mondo. Si risponderà che potrei avere le unghie, le orecchie, o i polmoni fatti in modo diverso senza che per questo la mia esistenza fosse modificata. È però innegabile che, presi a parte, le unghie, le orecchie e i polmoni non hanno esistenza alcuna. L’abitudine di considerare il corpo come un aggregato di parti ci viene dalla scienza e, ugualmente, dall’esperienza della sua disgregazione nella morte. Ma, per l’appunto, il corpo decomposto non è più un corpo. Se ricolloco le orecchie, le unghie e i polmoni nel mio corpo vivente, essi non appariranno più come dettagli contingenti. Essi non sono indifferenti alla idea che gli altri si fanno di me, contribuiscono alla mia fisionomia o al mio modo di fare, e forse domani la scienza esprimerà sotto forma di correlazioni oggettive la necessità, in cui io mi trovavo, di avere le orecchie, le unghie e i polmoni fatti cosi, per essere abile o incapace, calmo o nervoso, intelligente od ottuso, per essere me stesso. In altri termini, il corpo oggettivo non è la verità del corpo fenomenico, ossia la verità del corpo cosi come lo viviamo, ma he è solo una immagine immiserita, e il problema delle relazioni fra l’anima e il corpo non concerne il corpo oggettivo, che ha unicamente un’esistenza concettuale, ma il corpo fenomenico. Semplicemente, è vero che la nostra esistenza aperta e personale riposa su un primo fondamento di esistenza acquisita e cristallizzata. Ma ciò è inevitabile, se noi siamo temporalità: infatti, la dialettica dell’acquisito e dell’avvenire è costitutiva del tempo.


Risponderemmo allo stesso modo alle domande che concernono il mondo preumano. Quando prima dicevamo che non c’è mondo senza una Esistenza che ne sostenga la struttura, si sarebbe potuto obiettare che nondimeno il mondo ha preceduto l’uomo, che, verisimilmente, soltanto la terra è popolata, e che cosi le opinioni filosofiche si rivelano incompatibili con i fatti più certi. In realtà, solamente la riflessione astratta dell’intellettualismo è incompatibile con dei «fatti» mal compresi. Che cosa si vuole dire di preciso affermando che il mondo è esistito prima delle coscienze umane? Si vuole dire, per esempio, che la terra è nata da una nebulosa primitiva in cui i requisiti per la vita non erano riuniti. Ma ciascuna di queste parole, cosi come ogni equazione della fisica, presuppone la nostra esperienza prescientifica del mondo, e questo riferimento al mondo vissuto contribuisce a costituirne il significato valido. Nulla mi farà mai comprendere che cosa potrebbe essere una nebulosa che nessuno ha visto. La nebulosa di Laplace non è dietro di noi, alla nostra origine, ma è di fronte a noi, nel mondo culturale. E, d’altra parte, che cosa si vuol dire quando si afferma che non c’è mondo senza un essere al mondo? Non che il mondo è costituito dalla coscienza, ma viceversa che la coscienza si trova sempre già all’opera nel mondo. Tutto considerato, è dunque vero che c’è una natura, non quella delle scienze, ma quella rivelatami dalla percezione, e che anche la luce della coscienza è, come dice Heidegger, lumen naturale, data a se stessa. Comunque, si obbietterà ancora, il mondo durerà dopo di me, altri uomini lo percepiranno quando io non ci sarò più. Orbene, se veramente la mia presenza al mondo è condizione di possibilità di questo mondo, non mi è forse impossibile concepire sia dopo di me, sia durante la mia vita, altri uomini nel mondo? Le indicazioni che prima abbiamo dato sul problema dell’altro vengono chiarite nella prospettiva della temporalizzazione. Nella percezione dell’altro, dicevamo, io oltrepasso in intenzione la distanza infinita che separerà sempre la mia soggettività da un’altra, supero l’impossibilità concettuale di un altro per sé per me, poiché constato un altro comportamento, un’altra presenza al mondo. Ora che abbiamo analizzato meglio la nozione di presenza, collegato la presenza a sé e la presenza al mondo e identificato il cogito con l’impegno nel mondo, noi comprendiamo meglio come possiamo trovare l’altro all’origine virtuale dei suoi comportamenti visibili. Certamente, l’altro non esisterà mai per noi come noi stessi, è sempre un fratello minore, non assistiamo mai in lui come in noi alla pulsione della temporalizzazione. Ma due temporalità non si escludono come due coscienze: infatti ciascuna di esse non si conosce se non proiettandosi nel presente, nel quale può congiungersi con l’altra. Girne sbocca in un passato che tuttavia io non vivo più e in un avvenire che non vivo ancora, che forse non vivrò mai, il mio presente vivente può anche sboccare in temporalità che io non vivo e avere un orizzonte sociale, cosicché il mio mondo viene ad abbracciare le dimensioni della storia collettiva che la mia esistenza privata riprende e assume. La soluzione di tutti i problemi di trascendenza risiede nello spessore del presente preoggettivo, in cui troviamo la nostra corporeità, la nostra socialità, la preesistenza del mondo, cioè il luogo di origine delle «spiegazioni» in ciò che hanno di legittimo, - e al tempo stesso il fondamento della nostra libertà


Note

1 «Nacheinander 2 Bergson, 3

der Jetztpunkte», Heidegger, Se in und Zeit, per esempio p. 422.

Mattare et mémoire, p. 137, nota 1, p. 139.

Non è né necessario né sufficiente, per ritornare al tempo autentico, denunciare la spazializzazione del tempo, come fa Bergson. Non è necessario, giacché il tempo è esclusivo dello spazio solo se si considera uno spazio preliminarmente oggettivato, e non quella spazialità primordiale che noi abbiamo tentato di descrivere e che è la forma astratta della nostra presenza al mondo. Non è sufficiente, giacché si può rimanere molto lontani da una intuizione autentica del tempo anche una volta che si è denunciata la traduzione sistematica del tempo in termini di spazio. È quanto è accaduto a Bergson. Quando dice che la durata si avvolge su se stessa «come una palla di neve», quando accumula nell’inconscio dei ricordi in sé, egli definisce il tempo mediante il presente conservato, l’evoluzione mediante l’evoluto.

4

5

«Noch im Griff behalte», Zeitbewusstseins, pp. 390 sgg.

Husserl, ibidem, p. 430. Formale un transzendentale Logik, p. 208. Cfr. Fink, Das Problem der Phänomenologie Edmund Husserls, p. 266.

6 Cfr.,

per esempio, Formale und transzendentale Logik, pp. 256-257.

7 Claudel,

Art poétique, p. 57.

8 Heidegger, 9 Ibidem, 10 Citati 11

Husserl, Vorlesungen zur Phänomenologie des inneren

op. cit., p. 350.

p. 373.

da Heidegger, Kant und das Problem der Metaphysik, pp. 183-184.

Husserl, Zeitbewusstsein, p. 442: «... primäres Bewusstsein ... das hinter sich kein Bewusstsein mehr hat im dem es bewusst ware...».

12 Ibidem,

p. 471: «fällt la Sein und Innerlich-Bewusstsein zusammen.»

13 Ibidem,

p. 464.

14 Dobbiamo

questa espressione a H. Corbin, Qu’est-ce que la Méthaphysique?, p. 14..

15 L’esempio

si trova in J.-P. Sartre, L’Etre et le Néant, p. 216.


16

Kant applica l’espressione al Gemüt. Heidegger la trasferisce al tempo: «Die Zeit ist ihrem Wesen nach teine Affektion ihrer selbst», Kant und das Problem der Metaphysik, pp. 180-181.

17 Husserl, 18

Zeitbewusstsein, p. 436.

Heidegger, op. cit., p. 181: «Ab reine Selbstaffektion bildet (die Zeit) ursprünglich die endliche Selbstheit detgestalt dass das Selbst so etwas wie Selbstbewusstsein sein kann.»

19 Heidegger 20 Quello 21

parla della Gelichtetheit del Dasein.

che Husserl, negli inediti, chiama Einströmen.

J.-P. Sartre, L’Ètre et le Néant, p. 195. L’autore accenna a questo mostro solo per respingerne l’idea.

22 Cfr.

La structure du comportement, Introduzione.

23 L’espressione

è ancora impiegata spesso da Husserl, per esempio in Ideen, p. 107.

24 Husserl,

Formale una transzendentale Logik,p. 257. «Estetico» è assunto, naturalmente, nel senso lato dell’«estetica trascendentale».

25 La

structure du comportement, p. 302.

26 Boden, 27

Husserl, Umsturz der kopernikanischen Lehre.

Heidegger, Sein und Zeit, p. 366: «Wenn das "Subjekt" ontologisch als existierendes Dasein begrifren wird, deren Sein in der Zeitlichkeit gründet, dann muss gesagt werden: Welt ist "subjektiv". Diese "subjektive" Wek aber ist dann als Zeit-transzendente "objektiver" als jedes mögliche "Objekt".»

28 È

quanto abbiamo ampiamente dimostrato in La structure du comportement.


III. La libertà

Ancora una volta, è evidente che nessun rapporto di causalità è concepibile fra il soggetto e il suo corpo, il suo mondo o la sua società. Se non voglio perdere il fondamento di tutte le mie certezze, non posso revocare in dubbio quanto mi insegna la mia autopresenza. Orbene, nell’istante in cui mi volgo verso me stesso per descrivermi, io intravedo un flusso1 anonimo, un progetto globale in cui non ci sono ancora «stati di coscienza», né a maggior ragione qualificazioni di nessun genere. Ai miei stessi occhi io non sono né «geloso», né «curioso», né «gobbo», né «funzionario». Ci si stupisce spesso che l’infermo o il malato possano sopportarsi. Il fatto è che ai loro propri occhi essi non sono infermi o morenti. Fino al momento del coma il morente è abitato da una coscienza, è tutto ciò che vede, ha questo mezzo di sfuggimento. La coscienza non può mai oggettivarsi in coscienza-di-malato o coscienza-di-infermo, e, anche se il vecchio si lamenta della sua vecchiaia o l’infermo della sua infermità, essi possono farlo solo quando si paragonano ad altri o quando si vedono con gli occhi degli altri, cioè quando assumono una veduta statistica e oggettiva di se stessi, e questi lamenti non sono mai completamente in buona fede: ritornato nel cuore della sua coscienza, ciascuno si sente al di là delle sue qualificazioni e immediatamente vi si rassegna. Esse sono il prezzo che paghiamo, senza nemmeno pensarci, per essere al mondo, una formalità scontata. Ecco perché possiamo dir male del nostro volto pur non volendolo cambiare con un altro. Nessuna particolarità può, cosi sembra, essere annessa alla insormontabile generalità della coscienza, nessun limite può essere imposto a questo smisurato potere d’evasione. Perché qualcosa potesse determinarmi (nei due sensi della parola) dall’esterno, io dovrei essere una cosa. La mia libertà e la mia universalità non potrebbero mai eclissarsi. È inconcepibile che io sia libero in certe mie azioni e determinato in altre: che cosa sarebbe questa libertà oziosa che lascia agire i determinismi? Se si suppone che essa si abolisce quando non agisce, da dove rinascerà? Se, per assurdo, io avessi potuto farmi cosa, come potrei poi rifarmi coscienza? Se, per una sola volta, io sono libero, è perché non rientro nel novero delle cose, ed è necessario che io lo sia ininterrottamente. Se, per una sola volta, cessano di essere mie, le mie azioni non lo ridiverranno mai, se perdo la mia presa sul mondo non la ritroverò. Allo stesso modo è inconcepibile che la mia libertà possa venire attenuata; io non potrei essere un po’ libero, e se, come si dice spesso, dei motivi mi inclinano in un senso, ci troviamo di fronte a una alternativa: o essi hanno la forza di farmi agire, e allora non c’è libertà; oppure non l’hanno, e allora essa è totale, altrettanto grande nelle peggiori torture che nella pace della mia casa. Dovremmo quindi rinunciare non soltanto all’idea di causalità, ma anche a quella di motivazione.2 Il preteso motivo non pesa sulla mia decisione, viceversa è la mia decisione a prestargli la sua forza. Tutto ciò che io «sono» per via della natura o della storia - gobbo, bello o ebreo -, io non lo sono mai completamente ai miei occhi, come spiegavamo prima. E certo io lo sono per l’altro, ma rimango libero di porre l’altro come una coscienza le cui vedute mi raggiungono sin nel mio essere, o viceversa come un semplice oggetto. Inoltre, è vero che questa alternativa stessa è una coercizione: se sono laido, ho la scelta di essere un reprobo o di riprovare gli altri, mi si lascia libero fra il masochismo e il sadismo, e non liberò di ignorare gli altri. Ma questa alternativa, che è un dato della condizione umana, non è tale per me in quanto pura coscienza; sono ancora io a far essere l’altro per me e a farci essere entrambi come uomini. Del resto, anche ammettendo che l’essere umano mi fosse imposto e che soltanto il modo d’essere fosse lasciato alla mia scelta, se considerassimo questa scelta stessa e senza riguardo al piccolo numero dei possibili, vedremmo che si tratta ancora di una


scelta libera. Se si dice che il mio temperamento mi inclina maggiormente al sadismo o piuttosto al masochismo, questo è ancora un modo di dire, giacché il mio temperamento non esiste se non per la conoscenza seconda di me stesso che io assumo quando mi vedo con gli occhi altrui, e nella misura in cui lo riconosco, lo avvaloro, e, in questo senso, lo scelgo. Ciò che ci inganna in proposito è il fatto che spesso cerchiamo la libertà nella deliberazione volontaria che esamina a turno i motivi e sembra arrendersi al più forte o al più convincente. In realtà, la deliberazione segue la decisione, è la mia decisione segreta a far apparire i motivi, e la forza di un motivo non sarebbe nemmeno concepibile senza una decisione che esso convalida o avversa. Quando io ho rinunciato a un progetto, immediatamente i motivi che credevo di avere per tenere a questo progetto ricadono senza forza. Perché essi riacquistino forza, io devo compiere lo sforzo di riaprire il tempo e di ricollocarmi nel momento in cui la decisione non era ancora presa. Anche mentre delibero, è già grazie a uno sforzo che riesco a sospendere il tempo, a mantenere aperta una situazione che sento chiusa da una decisione che è là e alla quale resisto. Ecco perché, dopo aver rinunciato a un progetto, io avverto cosi spesso un senso di liberazione: «Dopo tutto, non ci tenevo tanto», non c’era disputa se non per la forma, la deliberazione era una parodia, io avevo già deciso contro. Si cita spesso, come argomento contro la libertà, l’impotenza della volontà. E infatti, se posso volontariamente adottare una condotta e improvvisarmi guerriero o seduttore, non dipende da me essere guerriero o seduttore con disinvoltura e «naturalezza», cioè esserlo veramente. Va però detto che non si deve ricercare la libertà nell’atto volontario, il quale è, secondo il suo senso stesso, un atto mancato. Noi ricorriamo all’atto volontario solo per andar contro la nostra decisione vera e propria, quasi allo scopo di comprovare la nostra impotenza. Se avessimo veramente assunto la condotta del guerriero o del seduttore saremmo guerriero o seduttore. Anche quelli che vengono chiamati ostacoli alla libertà sono in realtà dispiegati da essa. Una roccia invalicabile, una roccia grande o piccola, verticale od obliqua, tutto ciò ha senso unicamente per qualcuno che si proponga di scalarla, per un soggetto i cui progetti ritaglino queste determinazioni nella massa uniforme dell’in sé e facciano sorgere un mondo orientato, un senso delle cose. Pertanto, non c’è nulla che possa limitare la libertà, se non ciò che essa stessa ha determinato come limite con le proprie iniziative; l’esteriorità del soggetto è solo quella che egli stesso si dà. Poiché è lui, sorgendo, a far apparire senso e valore nelle cose, e poiché non c’è cosa che possa colpirlo senza prima divenire, grazie a lui, senso e valore, non c’è azione delle cose sul soggetto, c’è soltanto una significazione (in senso attivo), una Sinngebung centrifuga. Sembra che si debba scegliere tra una concezione scientistica della causalità, incompatibile con la nostra autocoscienza, e l’affermazione di una libertà assoluta senza esteriorità. Impossibile stabilire un punto al di là del quale le cose cesserebbero di essere ἐφ᾿ ᾕμιν. O sono tutte in nostro potere o non lo è nessuna. Questa prima riflessione sulla libertà avrebbe però il risultato di renderla impossibile. Infatti, se la libertà è eguale in tutte le nostre azioni e persino nelle nostre passioni, se è senza misura comune con la nostra condotta, se lo schiavo testimonia altrettanta libertà vivendo nel timore che spezzando le sue catene, allora nessuna azione libera è possibile, la libertà è al di qua di tutte le azioni, in nessun caso si potrà dichiarare: «Qui appare la libertà», poiché, per essere rivelabile, l’azione libera dovrebbe staccarsi su uno sfondo di vita che non fosse libero o lo fosse meno. Essa è ovunque, se si vuole, ma anche in nessun luogo. In nome della libertà si respinge l’idea di acquisizione, ma allora è la libertà a divenire un’acquisizione primordiale e, per cosi dire, il nostro stato di natura. Giacché non dobbiamo farla, essa è il dono che ci è stato elargito di non avere nessun dono, quella natura della coscienza che consiste nel non avere natura, in nessun caso essa può esprimersi all’esterno né figurare nella nostra vita. Pertanto, l’idea dell’azione scompare: nulla può passare da noi al mondo,


poiché noi non siamo nulla di determinabile e poiché il non-essere che ci costituisce non potrebbe insinuarsi nella pienezza del mondo. Non ci sono se non intenzioni immediatamente seguite da effetto, siamo molto vicini all’idea kantiana di una intenzione che vale l’atto, alla quale Scheler obiettava già che l’infermo che vorrebbe salvare un annegato e il buon nuotatore che lo salva effettivamente non hanno la medesima esperienza dell’autonomia. L’idea stessa di scelta scompare, giacché scegliere è scegliere qualcosa in cui la libertà vede, almeno per un momento, un emblema di se stessa. C’è scelta libera solamente se la libertà si mette in gioco nella sua decisione e pone la situazione che sceglie come situazione di libertà. Una libertà che non deve compiersi perché è acquisita, non potrebbe impegnarsi cosi: essa sa bene che in ogni modo l’istante seguente la troverà altrettanto libera, altrettanto poco fissata. La nozione stessa di libertà esige che la nostra decisione si immerga nell’avvenire, che qualcosa sia stato fatto da essa, che l’istante successivo benefici di quello precedente e, senza essere necessità, sia per lo meno sollecitato da esso. Se la libertà consiste nel fare, è necessario che quanto essa fa non sia disfatto immediatamente da una libertà nuova. È quindi necessario che ogni istante non sia un mondo chiuso, che un istante possa impegnare quelli successivi e che, una volta presa la decisione e cominciata l’azione, io disponga di qualcosa d’acquisito, approfitti del mio slancio, sia propenso a proseguire, è necessario che ci sia una tendenza dello spirito. Cartesio diceva che la conservazione richiede un potere altrettanto grande che la creazione, e ciò presuppone una nozione realista dell’istante. È vero che l’istante non è una finzione dei filosofi. È il punto in cui un progetto si compie e in cui un altro comincia -,3 quello in cui il mio sguardo si riporta da un fine verso un altro, è l’Augen-Blick. Tuttavia, questa frattura nel tempo può apparire solo se, per lo meno, ciascuno dei due effetti fa blocco. La coscienza, si dice, non è frantumata in una polvere di istanti, ma se non altro ossessionata dallo spettro dell’istante che deve continuamente esorcizzare con un atto di libertà. Vedremo tra poco che in realtà noi abbiamo sempre la facoltà di interrompere: ma in ogni caso essa presuppone una facoltà di cominciare, e non ci sarebbe distacco se la libertà non si fosse investita in nessun luogo e non si accingesse a fissarsi altrove. Se non ci sono cicli di condotta, situazioni aperte che richiedano un certo compimento e che possano servire da sfondo, sia a una decisione che le confermi, sia a una decisione che le trasformi, la libertà non ha mai luogo. La scelta del carattere intelligibile è esclusa non soltanto perché prima del tempo non c’è tempo, ma anche perché la scelta presuppone un impegno preliminare e perché l’idea di una scelta prima è contraddittoria. Perché la libertà abbia campo, perché possa pronunciarsi come libertà, è necessario che qualcosa la separi dai suoi fini, è quindi necessario che essa abbia un campo, cioè che vi siano per essa dei possibili privilegiati o delle realtà che tendano a perseverare nell’essere. Come lo stesso Sartre fa osservare, il sogno esclude la libertà poiché, nell’immaginario, ci basta protenderci verso un significato per credere di possederne già la realizzazione intuitiva, e infine poiché non c’è nessun ostacolo e nulla da fare.4 È ormai pacifico che la libertà non si confonde con le decisioni astratte della volontà alle prese con motivi o passioni: lo schema classico della deliberazione è applicabile solo a una libertà in mala fede che nutre segretamente motivi antagonistici senza volerli assumere e che fabbrica essa stessa le ipotetiche prove della sua impotenza. Sotto questi contrasti fragorosi e sotto questi vani sforzi per «costruirci», si scorgono le decisioni tacite in virtù delle quali abbiamo articolato attorno a noi il campo dei possibili, ed è vero che nulla è fatto finché conserviamo queste fissazioni e che tutto è facile non appena abbiamo levato queste ancore. Ecco perché la nostra libertà non deve essere ricercata nelle discussioni insincere in cui si affrontano uno stile di vita che noi vogliamo rimettere in questione e circostanze che ce ne suggeriscono un altro: la scelta vera e propria è quella del nostro intero carattere e del nostro modo di essere al mondo. Ma o questa scelta totale non si pronuncia mai, è il sorgere silenzioso del nostro


essere al mondo e allora non si vede in che senso essa potrebbe essere detta nostra, tale libertà sorvola su se stessa ed è l’equivalente di un destino, - oppure la nostra scelta di noi stessi è veramente una scelta, una conversione della nostra esistenza, ma allora presuppone una acquisizione preliminare che essa cerca di modificare, e fonda una nuova tradizione, cosicché dovremo chiederci se il distacco perpetuo mediante il quale abbiamo inizialmente definito la libertà non è semplicemente l’aspetto negativo del nostro impegno universale in un mondo, se la nostra indifferenza nei confronti di ogni cosa determinata non esprime semplicemente il nostro investimento in tutte, se la libertà bell’e fatta da cui siamo partiti non si riduce a un potere d’iniziativa che non potrebbe trasformarsi in fare senza riprendere qualche proposta del mondo, e se infine la libertà concreta ed effettiva non è in questo scambio. È vero che nulla ha senso e valore se non per me e grazie a me, ma questa proposizione resta indeterminata e si confonde ancora con l’idea kantiana di una coscienza che «trova nelle cose solo ciò che vi ha messo» e con la confutazione idealistica del realismo, finché non precisiamo come intendiamo il senso e l’io. Definendoci come potere universale di Sinn-Gebung, noi siamo ritornati al metodo del «ciò senza cui» e alla analisi riflessiva di tipo classico, che ricerca le condizioni di possibilità senza occuparsi delle condizioni di realtà. Dobbiamo quindi riprendere l’analisi della Sinngebung e mostrare come essa possa essere centrifuga e al tempo stesso centripeta, giacché è stabilito che non c’è libertà senza campo. Dico che questa roccia è invalicabile, ed è certo che tale attributo, come quello di grande e di piccolo, di diritto e obliquo e come tutti gli attributi in generale, può esserle annesso solo in virtù di un progetto di scalata e in virtù di una presenza umana. È quindi la libertà a far apparire gli ostacoli che contrastano la libertà stessa, cosicché non è possibile opporglieli come limiti. Ciononostante, è chiaro che, dato un medesimo progetto, questa roccia mi apparirà come un ostacolo, e quest’altra, più praticabile, come un mezzo di cui valermi. Pertanto, la mia libertà non fa si che qui ci sia un ostacolo e altrove un passaggio, ma si limita a far si che ci siano ostacoli e passaggi in generale, non delinea la configurazione particolare di questo mondo, ma ne pone unicamente le strutture generali. È la stessa cosa, si risponderà; se condiziona la struttura del «c’è», quella del «qui», quella del «là», la mia libertà è presente ovunque si realizzano queste strutture, noi non possiamo distinguere la qualità di «ostacolo» e l’ostacolo stesso, riferire l’una alla libertà e l’altro al mondo in sé, che, senza di essa, sarebbe solo una massa amorfa e innominabile. Non è quindi fuori di me che posso trovare un limite alla mia libertà. Ma non potrei trovarlo in me? Infatti, bisogna distinguere le mie intenzioni espresse, per esempio il progetto che formo oggi di valicare queste montagne, e intenzioni generali che valorizzano virtualmente il mio mondo circostante. Che io abbia o meno deciso di scalarle, queste montagne mi appaiono grandi, poiché eccedono la presa del mio corpo, e, anche se ho appena letto Micromegas, non posso far si che esse siano piccole per me. Sotto di me come soggetto pensante, che a piacimento può situarsi in Sirio o sulla superficie della terra, c’è dunque come un io naturale che non abbandona la sua situazione terrestre e che continuamente abbozza valorizzazioni assolute. Di più: i miei progetti di essere pensante sono manifestamente costruiti su di esse; se decido di vedere le cose dal punto di vista di Sirio, per far ciò sono pur sempre ricorso alla mia esperienza terrestre: per esempio dico che le Alpi sono un mucchietto di terra. In quanto ho mani, piedi, un corpo, un mondo, io porto attorno a me intenzioni che non sono decisorie e che annettono al mio mondo circostante caratteri che io non scelgo. Queste intenzioni sono generali in un duplice senso, in primo luogo nel senso che costituiscono un sistema in cui gli oggetti possibili sono racchiusi tutti in una volta: se la montagna mi appare grande e diritta, l’albero mi appare piccolo e obliquo; in secondo luogo nel senso che esse non mi sono proprie, non sono riconducibili a me, e pertanto io non rimango sorpreso se le ritrovo in tutti i soggetti psicofisici la cui organizzazione è simile alla mia.


Come ha dimostrato la Gestalttheorie, ciò fa si che per me ci siano forme privilegiate, che lo sono anche per tutti gli altri uomini e che possono dar luogo a una scienza psicologica e a leggi rigorose. L’insieme di punti:

è sempre percepito come «sei coppie di punti distanziati di due millimetri», una certa figura è sempre percepita come un cubo, un’altra come un mosaico piano.5 Tutto avviene come se, al di qua del nostro giudizio e della nostra libertà, qualcuno attribuisse il tal senso alla tale costellazione data. È vero che le strutture percettive non si impongono sempre: ve ne sono di ambigue. Ma queste ultime ci rivelano ancor meglio la presenza in noi di una valorizzazione spontanea: infatti, sono figure fluttuanti e che, di volta in volta, propongono significati diversi. Orbene, una pura coscienza può tutto, fuorché ignorare essa stessa le proprie intenzioni, e una libertà assoluta non può scegliersi esitante: infatti, ciò equivale a lasciarsi sollecitare da più parti e, poiché per ipotesi i possibili devono alla libertà tutta la forza che hanno, il peso che la libertà dà a uno di essi è perciò stesso negato agli altri. Noi possiamo si disgregare una forma guardandola a rovescio, ma solo perché la libertà utilizza lo sguardo e le sue valorizzazioni spontanee. Senza di esse, non avremmo un mondo, cioè un insieme di cose che emergono dall’informe proponendosi al nostro corpo come cose «da toccare», «da prendere», «da valicare», non avremmo mai coscienza di adattarci alle cose e di raggiungerle là dove esse sono, al di là di noi, ma avremmo soltanto coscienza di pensare rigorosamente gli oggetti immanenti delle nostre intenzioni, non saremmo al mondo, implicati noi stessi nello spettacolo e per cosi dire mescolati alle cose, ma avremmo semplicemente la rappresentazione di un universo. È dunque vero che non ci sono ostacoli in sé: l’io che li qualifica come tali non è un soggetto acosmico, ma precede se stesso presso le cose per configurarle come cose. C’è un senso autoctono del mondo che si costituisce nel commercio con esso della nostra esistenza incarnata e che forma il terreno di ogni Sinngebung decisoria. Ciò non vale solo per una funzione impersonale e tutto sommato astratta come la «percezione esteriore». C’è qualcosa di analogo in tutte le valorizzazioni. È stato notato con acutezza che il dolore e la stanchezza non possono mai venire considerati come cause che «agiscono» sulla mia libertà e che, se a un certo momento provo dolore o stanchezza, essi non vengono dall’esterno, ma hanno sempre un senso, esprimono il mio atteggiamento nei confronti del mondo. Il dolore mi fa cedere e dire ciò che avrei dovuto tacere, la stanchezza mi fa interrompere il viaggio: noi tutti conosciamo quel momento in cui decidiamo di non sopportare più il dolore o la stanchezza e in cui, istantaneamente, essi divengono effettivamente insopportabili. La stanchezza non ferma il mio compagno perché il corpo madido di sudore, la strada arroventata e il sole infuocato sono per lui motivi d’attrazione, perché egli ama sentirsi in mezzo alle cose, concentrare il loro irradiamento, farsi sguardo per questa luce, tatto per questa corteccia. La mia stanchezza mi ferma perché io non ne sono attratto, perché ho scelto diversamente il mio modo di essere al mondo e perché, per esempio, non cerco di essere nella natura, ma piuttosto di farmi riconoscere dagli altri. Io sono libero nei confronti della stanchezza nella esatta misura in cui lo sono nei confronti del mio essere al mondo, sono libero di proseguire la mia strada a condizione di trasformarlo.6 Ma, anche qui, dobbiamo pur riconoscere ima specie di sedimentazione della nostra vita: quando è stato confermato molte volte, un atteggiamento verso il mondo è per noi privilegiato. Se la libertà non tollera di fronte a sé nessun


motivo, il mio consueto essere al mondo è egualmente fragile in ogni istante, i complessi che con la mia condiscendenza ho alimentato per anni rimangono sempre egualmente anodini, il gesto della libertà può, senza sforzo, mandarli in frantumi nel giro di un istante. Tuttavia, dopo aver costruito la nostra vita su un complesso di inferiorità continuamente ripreso per vent’anni, è poco probabile che noi cambiamo. Non è difficile scorgere ciò che un razionalismo sommario potrebbe affermare contro questa nozione bastarda: nel possibile non ci sono gradi, o l’atto libero non è più libero, o lo è ancora, e allora la libertà è totale. Insomma, probabile non significa nulla. Questa nozione appartiene al pensiero statistico, che non è un pensiero, giacché non concerne nessuna cosa particolare esistente in atto, nessun momento del tempo, nessun evento concreto. «È poco probabile che Paolo rinunci a scrivere brutti libri»: ciò non significa nulla poiché in ogni momento Paolo può prendere la decisione di non scriverne più. Il probabile è ovunque e in nessun luogo, è una finzione realizzata, ha solo un’esistenza psicologica, non è un ingrediente del mondo. - Tuttavia, noi l’abbiamo già incontrato prima nel mondo percepito: la montagna è grande o piccola in quanto, come cosa percepita, si situa nel campo delle mie azioni virtuali e in rapporto a un livello che non è solamente quello della mia vita individuale, ma quello «di ogni uomo». La generalità e la probabilità non sono finzioni, ma fenomeni, e noi dobbiamo quindi procurare un fondamento fenomenologico al pensiero statistico. Tale pensiero appartiene necessariamente a un essere che è fissato, situato e investito nel mondo. «È poco probabile» che io distrugga nel giro di un istante un complesso di inferiorità in cui sono stato immerso per vent’anni. Ciò significa che io mi sono impegnato nell’inferiorità, che vi ho eletto domicilio, che questo passato, se non è una fatalità, ha per lo meno un peso specifico e che non è una somma di eventi laggiù, molto lontano da me, ma l’atmosfera del mio presente. L’alternativa razionalistica: o l’atto libero è possibile o non lo è, - o l’evento viene da me, o è imposto dall’esterno, non è applicabile alle nostre relazioni con il mondo e con il nostro passato. La nostra libertà non distrugge la nostra situazione, ma si innesta su di essa: in quanto noi viviamo, la nostra situazione e aperta; ciò implica che essa sollecita modi di soluzione privilegiati e in pari tempo che, di per se stessa, non può procurarne nessuno. Arriveremmo al medesimo risultato esaminando i nostri rapporti con la storia. Se mi considero nella mia assoluta concretezza e cosi come la riflessione mi dà a me stesso, io sono un flusso anonimo e preumano che non si è ancora qualificato, per esempio, come «operaio» o come «borghese». Se in seguito mi penso come uomo fra gli uomini, borghese fra i borghesi, non si tratterebbe, a quanto pare, che di una veduta seconda su me stesso: nel mio centro io non sono mai operaio o borghese, ma sono una coscienza che si valorizza liberamente come coscienza borghese o coscienza proletaria. E infatti la mia posizione oggettiva nel circuito della produzione non basta mai a provocare la presa di coscienza di classe. Ci sono stati degli sfruttati molto prima che ci fossero dei rivoluzionari. Non è sempre in periodo di crisi economica che il movimento operaio progredisce. La rivolta non è quindi il prodotto delle condizioni oggettive, ma viceversa è la decisione di volere la rivoluzione che fa dell’operaio un proletario. La valorizzazione del presente si effettua grazie al libero progetto dell’avvenire. Perciò, si potrebbe concluderne che di per se stessa la storia non ha senso, ma ha quello che noi le annettiamo con la nostra volontà. - Tuttavia, anche qui ricadiamo nel metodo del «ciò senza cui»: al pensiero oggettivo, che include il soggetto nella rete del determinismo, opponiamo la riflessione idealistica che fa riposare il determinismo sulla attività costituente del soggetto. Orbene, abbiamo già visto che il pensiero oggettivo e l’analisi riflessiva sono due aspetti del medesimo errore, due modi di ignorare i fenomeni. II pensiero oggettivo deduce la coscienza di classe dalla condizione oggettiva del proletariato. La riflessione idealistica riduce la condizione proletaria alla coscienza che il proletario ne prende. La prima ricava la coscienza di


classe dalla classe definita in base a caratteri oggettivi, mentre la seconda riduce l’«essere operaio» alla coscienza di essere operaio. In entrambi i casi si è nell’astrazione, poiché si rimane nell’alternativa dell’in sé e del per sé. Se riprendiamo il problema con l’intento di scoprire non le cause della presa di coscienza ( non essendoci causa che possa agire dall’esterno su una coscienza), non le sue condizioni di possibilità (poiché abbiamo bisogno delle condizioni che la rendono effettiva), ma la coscienza di classe stessa, se infine pratichiamo un metodo veramente esistenziale, che cosa troviamo? Io non ho coscienza di essere operaio o borghese perché, di fatto, vendo il mio lavoro o perché sono solidale con l’apparato capitalistico, e nemmeno divengo operaio o borghese il giorno in cui decido di vedere la storia nella prospettiva della lotta di classe: ma «esisto operaio» o «esisto borghese» originariamente, ed è questo modo di comunicazione con il mondo e la società a motivare i miei progetti rivoluzionari o conservatori e al tempo stesso i miei giudizi espliciti («sono un operaio» o «sono un borghese»), senza che si possano dedurre i primi dai secondi o i secondi dai primi. Non è l’economia o la società, considerate come sistemi di forze impersonali, a qualificarmi come proletario, ma la società o l’economia cosi come le porto in me, cosi come le vivo, - e ugualmente non è un’operazione intellettuale senza motivo a qualificarmi come proletario, ma il mio modo di essere al mondo in questo contesto istituzionale. Io ho un certo stile di vita, sono alla mercé della disoccupazione e della prosperità, non posso disporre della mia vita, sono pagato alla settimana, non controllo né le condizioni né i prodotti del mio lavoro: di conseguenza mi sento come un estraneo nella mia fabbrica, nella mia nazione e nella mia vita. Ho l’abitudine di fare i conti con un fatum che non rispetto, ma che è giocoforza seguire. Oppure: lavoro come bracciante, terra e strumenti di lavoro non mi appartengono, vado di proprietà in proprietà a prestare il mio servizio per la stagione della mietitura, mi sento sovrastare da una potenza senza nome che mi fa nomade, anche quando vorrei stabilirmi in un luogo. O infine: sono fittavolo di un podere in cui il proprietario non ha installato l’elettricità, quantunque la corrente si trovi a meno di duecento metri. Per me e la mia famiglia dispongo di un’unica stanza abitabile, ancorché nella casa sia facile sistemare altre camere. I miei compagni di fabbrica o di mietitura o gli altri fittavoli fanno il mio stesso lavoro in condizioni analoghe, noi coesistiamo alla stessa situazione e ci sentiamo simili, non in virtù di qualche confronto, come se ciascuno vivesse anzitutto in sé, ma a partire dalle nostre mansioni e dai nostri gesti. Queste situazioni non presuppongono nessuna valutazione espressa e, se c’è una valutazione tacita, si tratta della pulsione di una libertà senza progetto contro ostacoli ignoti; in nessuno dei tre casi si può parlare di una scelta: è sufficente che io sia nato ed esista per esperire la mia vita come difficile e coartata, io non scelgo di farlo. Ma le cose possono fermarsi qui senza che io passi alla coscienza di classe, senza che mi comprenda come proletario e che divenga rivoluzionario. Come sì effettuerà dunque il passaggio? L’operaio viene a sapere che, dopo uno sciopero, altri operai hanno ottenuto un aumento salariale, e nota che in seguito i salari sono aumentati anche nella sua fabbrica. Il fatum con il quale egli era alle prese comincia a precisarsi. Il bracciante, che raramente ha conosciuto degli operai, che non somiglia loro e che perloppiú non li vede di buon occhio, vede aumentare il prezzo degli oggetti fabbricati e il costo della vita, e constata che non si può più andare avanti. È possibile che a questo punto egli incrimini gli operai delle città: allora la coscienza di classe non nascerà. Se invece essa nasce, non è perché il bracciante abbia deciso di farsi rivoluzionario e di conseguenza valorizzi la sua condizione effettiva, ma perché egli ha percepito concretamente il sincronismo della sua vita e della vita degli operai, la comunanza del loro destino. Il piccolo fittavolo che non si confonde con i braccianti e tanto meno con gli operai delle città, separato da loro da un mondo di tradizioni e di giudizi di valore, si sente però dalla stessa parte dei braccianti quando corrisponde loro un salario insufficiente, si sente anche solidale con gli operai


della città quando viene a sapere che il proprietario del podere presiede il consiglio di amministrazione di varie imprese industriali. Lo spazio sociale comincia a polarizzarsi, si vede apparire una regione degli sfruttati. A ogni impulso proveniente da un punto qualsiasi dell’orizzonte sociale, il raggruppamento si precisa al di là delle ideologie e delle occupazioni differenti. La classe si realizza, e dunque si dice che una situazione è rivoluzionaria, quando la connessione che esiste oggettivamente tra le frazioni del proletariato (e cioè, in definitiva, quella connessione che un osservatore assoluto avrebbe riconosciuto tra di esse) è infine vissuta nella percezione di un ostacolo comune all’esistenza di ognuno. Non è affatto necessario che a un dato momento sorga una rappresentazione della rivoluzione. Per esempio, è dubbio che nel 1917 i contadini russi si siano espressamente proposti la rivoluzione e la trasformazione della proprietà. La rivoluzione nasce giorno per giorno dalla concatenazione di fini prossimi a fini meno prossimi. Non occorre che ogni proletario si pensi come proletario nel senso che un teorico marxista attribuisce alla parola. È sufficiente che il bracciante o il fittavolo si sentano in cammino verso un certo punto di convergenza in cui viene a sboccare anche il cammino degli operai della città. Gli uni e gli altri mettono capo alla rivoluzione, che forse li avrebbe spaventati se fosse stata loro descritta e rappresentata. Tutt’al più, si può dire che la rivoluzione guida i loro passi ed è presente nei loro progetti sotto forma di un «le cose devono cambiare», che ciascuno esperisce concretamente nelle sue difficoltà proprie e dal fondo dei suoi pregiudizi particolari. Né il fatum, né l’atto libero che lo distrugge sono rappresentati: essi vengono vissuti nell’ambiguità. Ciò non significa che gli operai e i contadini fanno la rivoluzione senza saperlo e che si hanno qui «forze elementari» e cieche, abilmente manovrate da pochi sobillatori coscienti. Forse il funzionario di polizia vedrà cosi la storia. Ma simili punti di vista lo lasciano impotente di fronte a una autentica situazione rivoluzionaria, in cui, come per un’armonia prestabilita, le parole d’ordine dei cosiddetti sobillatori sono immediatamente comprese e trovano ovunque delle complicità, poiché fanno cristallizzare ciò che è latente nella vita di tutti i produttori. Come il lavoro dell’artista, il movimento rivoluzionario è una intenzione che crea essa stessa i propri strumenti e i propri mezzi d’espressione. Il progetto rivoluzionario non è il risultato di un giudizio deliberato, la posizione esplicita di un fine. È tale per il propagandista, poiché il propagandista è stato formato dall’intellettuale, o per l’intellettuale, in quanto egli modella la propria vita su dei pensieri. Ma esso cessa di essere la decisione astratta di un pensatore e diviene una realtà storica solo se viene elaborato nelle relazioni interumane e nei rapporti fra l’uomo e il suo lavoro. Pertanto, è certo vero che io mi riconosco come operaio o come borghese il giorno in cui mi situo in rapporto a una rivoluzione possibile e che questa presa di posizione non risulta, per una causalità meccanica, dal mio stato civile operaio o borghese (ecco perché tutte le classi hanno i loro traditori), ma essa non è nemmeno una valorizzazione gratuita, istantanea e immotivata: si prepara attraverso un processo molecolare, matura nella coesistenza prima di tradursi in parole e di riferirsi a fini oggettivi. È giusto osservare che non è la maggior miseria a formare i rivoluzionari più coscienti, ma ci si dimentica di chiedersi perché un ritorno di prosperità induce spesso una radicalizzazione delle masse. Il fatto è che la decompressione della vita rende possibile una nuova struttura dello spazio sociale: gli orizzonti non sono più limitati alle necessità più immediate, la situazione è più aperta, c’è posto per un nuovo progetto vitale. Quella osservazione non prova quindi che l’operaio si fa operaio e rivoluzionario ex nihilo, ma viceversa che egli lo fa su un certo terreno di coesistenza. Il torto della concezione che stiamo discutendo consiste insomma nel considerare solo dei progetti intellettuali, anziché tener conto del progetto esistenziale che è la polarizzazione di una vita verso un fine determinato-indeterminato, di cui essa non ha nessuna rappresentazione e che riconosce solamente al momento di conseguirlo. Si riconduce l’intenzionalità al caso particolare degli atti


oggettivanti, si fa della condizione proletaria un oggetto di pensiero e si dimostra agevolmente, secondo il metodo costante dell’idealismo, che, come ogni oggetto di pensiero, essa sussiste soltanto di fronte e grazie alla coscienza che la costituisce come oggetto. Al pari del pensiero oggettivo, l’idealismo ignora l’intenzionalità autentica la quale, più che porre il proprio oggetto, gli inerisce. Esso ignora l’interrogativo, il congiuntivo, il desiderio, l’attesa, l’indeterminazione positiva di questi modi di coscienza, conosce unicamente la coscienza indicativa, al presente o al futuro, e per questo motivo non riesce a render conto della classe. Infatti, la classe non è né constatata, né decretata; come i l fatum dell’apparato capitalistico, come la rivoluzione, prima di essere pensata essa è vissuta a titolo di presenza ossessionante, di possibilità, di enigma e di mito. Fare della coscienza di classe il risultato di una decisione e di una scelta, è come dire che i problemi sono risolti il giorno in cui vengono posti, che ogni domanda contiene già la risposta che attende, insomma è come ritornare all’immanenza e rinunciare a comprendere la storia. In realtà, il progetto intellettuale e la posizione dei fini non sono altro che la conclusione di un progetto esistenziale. Sono io a dare un senso e un avvenire alla mia vita, ma ciò non significa che questo senso e questo avvenire siano concepiti: essi sgorgano dal mio presente, dal mio passato e, in particolare, dal mio modo di coesistenza presente e passato. Anche nell’intellettuale che si fa rivoluzionario la decisione non nasce ex nihilo, talvolta essa viene dopo una lunga solitudine: l’intellettuale cerca una dottrina che esiga molto da lui e lo guarisca dalla soggettività; talvolta si arrende ai lumi che una interpretazione marxista della storia può arrecare: allora egli ha posto la conoscenza al centro della propria vita, e ciò stesso è comprensibile solo in funzione del suo passato e della sua infanzia. Persino la decisione di farsi rivoluzionario senza motivo e grazie a un atto di pura libertà esprimerebbe ancora un certo modo di essere al mondo naturale e sociale, che è tipicamente quello dell’intellettuale. Egli si unisce alla «classe operaia» solo a partire dalla sua situazione di intellettuale (ecco perché anche il suo fideismo rimane a buon diritto sospetto). A maggior ragione, nell’operaio la decisione è elaborata nella vita. Questa volta non è più grazie a un malinteso che l’orizzonte di una vita particolare e i fini rivoluzionari coincidono: per l’operaio la rivoluzione è una possibilità più immediata e più prossima che per l’intellettuale, poiché nella sua vita egli è alle prese con l’apparato economico. Per questo motivo, statisticamente in un partito rivoluzionario ci sono più operai che borghesi. Naturalmente la motivazione non sopprime la libertà. I partiti operai più rigidi hanno annoverato molti intellettuali fra i loro capi, ed è probabile che un uomo come Lenin si fosse identificato con la rivoluzione e avesse finito con il trascendere la distinzione fra l’intellettuale e l’operaio. Ma queste sono le virttì proprie dell’azione e dell’impegno; all’inizio io non sono un individuo al di là delle classi, ma sono socialmente situato e, se ha il potere di impegnarmi altrove, la mia libertà non ha però quello di trasformarmi istantaneamente in ciò che decido di essere. Cosi, essere borghese oppure operaio non è soltanto aver coscienza di esserlo, ma valorizzarsi come operaio o come borghese in virtù di un progetto implicito o esistenziale che si confonde con la nostra maniera di plasmare il mondo e di coesistere con gli altri. La mia decisione riprende un senso spontaneo della mia vita che essa può convalidare o infirmare, ma non annullare. Tanto l’idealismo quanto il pensiero oggettivo non colgono la presa di coscienza di classe, il primo perché deduce l’esistenza effettiva dalla coscienza, l’altro perché ricava la coscienza dall’esistenza di fatto, entrambi perché ignorano il rapporto di motivazione. Da parte idealistica si risponderà forse che io non sono, per me stesso, un progetto particolare, ma una pura coscienza, e che gli attributi come borghese od operaio non mi appartengono se non nella misura in cui mi ricolloco fra gli altri, in cui mi vedo con i loro occhi, dall’esterno, e come un «altro». Si tratterebbe di categorie del Per Altri e non del Per Sé. Ma, se ci fossero due specie di


categorie, come potrei avere l’esperienza dell’altro, cioè di un alter ego? Essa presuppone che già nella veduta che io ho di me stesso sia abbozzata la mia qualità di «altro» possibile e che nella veduta che io assumo dell’altro sia implicita la sua qualità di ego. Si risponderà ancora che l’altro mi è dato come un fatto e non come una possibilità del mio essere proprio. Che cosa si vuole dire con ciò? Si vuole dire che, se sulla terra non ci fossero altri uomini, io non ne avrei l’esperienza? La proposizione è evidente, ma non risolve il nostro problema, poiché, come diceva già Kant, non si può passare da «ogni conoscenza comincia con l’esperienza» a «ogni conoscenza viene dall’esperienza». Perché gli altri uomini esistenti empiricamente siano per me altri uomini, è necessario che io abbia quanto occorre per riconoscerli, è quindi necessario che le strutture del Per Altri siano già le dimensioni del Per Sé. Del resto, è impossibile derivare dal Per Altri tutte le specificazioni di cui parliamo. L’altro non è necessariamente, anzi non è mai completamente oggetto per me. E, per esempio nella simpatia, io posso percepire l’altro come esistenza nuda e libertà altrettanto o altrettanto poco che me stesso. L’altro-oggetto è solo una modalità insincera dell’altro, cosi come la soggettività assoluta è solo una nozione astratta di me stesso. Occorre quindi che già nella riflessione più radicale io colga attorno alla mia individualità assoluta come un alone di generalità o come un’atmosfera di «socialità». Ciò è necessario, perché in seguito le parole «un borghese» e «un uomo» possano assumere un senso per me. Occorre che io mi colga immediatamente come eccentrico a me stesso e che la mia esistenza singolare diffonda per cosi dire attorno a sé un alone di generalità. Occorre che i Per-Sé - io per me stesso e l’altro per se stesso -, si stacchino su uno sfondo di Per Altri - io per l’altro e l’altro per me stesso. Occorre che la mia vita abbia un senso che io non costituisco, che ci sia a rigore una intersoggettività, che ciascuno di noi sia un anonimo nel senso della individualità assoluta e in pari tempo un anonimo nel senso della generalità assoluta. Il nostro essere al mondo è il portatore concreto di tale duplice anonimato. A questa condizione possono esserci delle situazioni, un senso della storia, una verità storica: tre modi, questi, di dire la stessa cosa. Se infatti io mi facessi operaio o borghese in virtù di una iniziativa assoluta, e se in generale nulla sollecitasse la libertà, la storia non comporterebbe nessuna struttura, non vedremmo profilarvisi nessun evento, tutto potrebbe risultare da tutto. Non ci sarebbe l’impero britannico come forma storica relativamente stabile alla quale si possa dare un nome e riconoscere certe proprietà probabili. Nella storia del movimento sociale non ci sarebbero situazioni rivoluzionarie o periodi di stagnazione. Una rivoluzione sociale sarebbe in ogni momento possibile allo stesso titolo, e ci si potrebbe ragionevolmente attendere che un despota si converta all’anarchismo. La storia non andrebbe mai in nessun luogo e, anche a considerare un breve periodo di tempo, non si potrebbe mai dire che gli eventi cospirano a un risultato. L’uomo di Stato sarebbe sempre un avventuriero, e cioè confischerebbe a proprio favore gli eventi dando a essi un senso che non avevano. Orbene, se è vero che la storia non può realizzare nulla senza delle coscienze che la riprendano e che perciò ne decidano, se di conseguenza essa non può mai essere distaccata da noi, come una potenza estranea che disporrebbe di noi per i propri fini, appunto perché è sempre storia vissuta noi non possiamo negarle un senso, per lo meno frammentario. Si prepara qualcosa che forse abortirà, ma che, per il momento, soddisferebbe ai suggerimenti del presente. Nulla può impedire che, nella Francia del 1799, un potere militare «al di sopra delle classi» appaia nella linea del riflusso rivoluzionario e che la parte del dittatore militare sia qui una «parte da assumere». È il progetto di Bonaparte, a noi noto attraverso la sua realizzazione, che ci induce a questo giudizio. Ma Dumouriez, Gustine e altri avevano formato questo progetto ancor prima di Bonaparte, e si deve pur render conto di tale convergenza. Ciò che chiamiamo il senso degli eventi non è un’idea che li produce, né il risultato fortuito della loro unione. È il progetto concreto di un avvenire che, prima di


ogni decisione personale, viene elaborato nella coesistenza sociale e nel Si.7 Nel 1799 la dinamica delle classi era giunta a un punto particolare della propria storia, per cui la rivoluzione non poteva essere né continuata né annullata: fatta ogni riserva circa la libertà degli individui, si può dire che ciascuno di essi, per quella esistenza funzionale e generalizzata che fa di lui un soggetto storico, tendeva a riposarsi sull’acquisito. In quel momento proporre loro sia di riprendere i metodi del governo rivoluzionario, sia di ritornare allo stato sociale del 1789, sarebbe stato un errore storico, non perché ci sia una verità della storia indipendente dai nostri progetti e dalle nostre valutazioni sempre liberi, ma perché c’è un significato medio e statistico di questi progetti. Ciò equivale a dire che noi diamo alla storia il suo senso, ma a condizione che essa ce lo proponga. La Sinn-Gebung non è solamente centrifuga: ecco perché il soggetto della storia non è l’individuo. C’è scambio fra l’esistenza generalizzata e l’esistenza individuale, ciascuna riceve e dà. C’è un momento in cui il senso che si delineava nel Si, e che non era altro che una possibilità inconsistente minacciata dalla contingenza della storia, è ripreso da un individuo. Può allora accadere che, essendosi impadronito della storia, egli la conduca, almeno per un certo tempo, molto al di là di ciò che sembrava essere il suo senso e la faccia entrare in una nuova dialettica, come quando Bonaparte si fa, da Console, Imperatore e conquistatore. Noi non affermiamo che la storia abbia, da cima a fondo, un unico senso, così come non lo affermiamo a proposito di una vita individuale. Vogliamo dire che in ogni caso la libertà non lo modifica se non riprendendo quello che essa offriva nel momento considerato e grazie a una specie di slittamento. In rapporto a questa proposta del presente si. può distinguere l’avventuriero dall’uomo di Stato, l’impostura storica dalla verità di un’epoca: di conseguenza, anche se non ottiene mai l’oggettività assoluta, la nostra messa in prospettiva del passato non ha mai il diritto di essere arbitraria. Attorno alle nostre iniziative e a quel progetto rigorosamente individuale che è noi stessi, riconosciamo quindi una zona di esistenza generalizzata e di progetti già fatti, riconosciamo significati che si trascinano fra noi e le cose e che ci qualificano come uomo, come borghese o come operaio. La generalità interviene già, la nostra autopresenza è già mediata da essa, noi cessiamo di essere pura coscienza non appena la costellazione naturale o sociale cessa di essere un questo informulato e si cristallizza in una situazione, non appena essa ha un senso: insomma, non appena esistiamo. Ogni cosa ci appare attraverso un medium che essa colora della sua qualità fondamentale; questo pezzo di legno non è né un aggregato di colori e di dati tattili né la loro Gestalt totale, ma emana come una essenza legnosa, questi «dati sensibili» modulano un certo tema o illustrano un certo stile che è il legno stesso e che, attorno a questo pezzo qui presente e alla percezione che ne ho, forma un orizzonte di senso. Come abbiamo visto, il mondo naturale non è altro che il luogo di tutti i temi e di tutti gli stili possibili. Esso è indissolubilmente un individuo incomparabile e un senso. Correlativamente, la generalità e l’individualità del soggetto, la soggettività qualificata e la soggettività pura, l’anonimato del Si e l’anonimato della coscienza non sono due concezioni del soggetto fra le quali la filosofia dovrebbe scegliere, ma due momenti di una struttura unica che è il soggetto concreto. Consideriamo, per esempio, il sentire. Io mi perdo in questo rosso che è davanti a me, senza qualificarlo affatto, sembra che tale esperienza mi faccia prendere contatto con un soggetto preumano. Chi percepisce questo rosso? Nessuno che si possa nominare e che si possa annoverare fra altri soggetti percipienti. Infatti, non sarà mai possibile nessun confronto diretto fra questa mia esperienza del rosso e quella di cui mi parlano gli altri. Io sono qui nel mio punto di vista proprio e, poiché ogni esperienza, in quanto è impressionale, è allo stesso modo strettamente mia, sembra che un soggetto unico e irripetibile le inglobi tutte. Io formo un pensiero, per esempio penso al Dio di Spinoza; cosi come lo vivo, questo pensiero è un certo paesaggio al quale nessuno potrà mai


accedere, anche se d’altra parte io riesco a stabilire una discussione con un amico sulla questione del Dio di Spinoza. Tuttavia, l’individualità stessa di queste esperienze non è pura, giacché lo spessore di questo rosso, la sua ecceità, il potere che esso ha di saturarmi e di colpirmi derivano dal fatto che esso sollecita e ottiene dal mio sguardo una certa vibrazione, presuppongono che io abbia familiarità con un mondo dei colori di cui esso è una variazione particolare. Il rosso concreto si stacca quindi su uno sfondo di generalità: ecco perché, anche senza passare al punto di vista altrui, nella percezione io mi colgo come un soggetto percipiente e non come una coscienza incomparabile. Attorno alla mia percezione del rosso sento tutte le regioni del mio essere che essa non raggiunge, e quella regione destinata ai colori, la «visione», attraverso la quale il rosso mi colpisce. Parimenti, soltanto in apparenza il mio pensiero del Dio di Spinoza è un’esperienza rigorosamente unica: esso è una concrezione di un certo mondo culturale, la filosofia spinoziana, o di un certo stile filosofico, da cui io riconosco subito un’idea «spinoziana». Non dobbiamo quindi chiederci perché il soggetto pensante o la coscienza si appercepisce come uomo, come soggetto incarnato o come soggetto storico, e non dobbiamo trattare questa appercezione come una operazione seconda che esso effettuerebbe a partire dalla sua esistenza assoluta: il flusso assoluto si profila sotto il suo proprio sguardo come «una coscienza», come uomo o come soggetto incarnato, poiché esso è un campo di presenza - presenza a sé, all’altro e al mondo -, e poiché questa presenza lo getta nel mondo naturale e culturale a partire dal quale esso si comprende. Non dobbiamo rappresentarcelo come contatto assoluto con sé, come una densità assoluta senza nessuna incrinatura interna, ma viceversa come un essere che prosegue all’esterno. Se il soggetto facesse una scelta continua e sempre singolare di se stesso e dei suoi modi d’essere, ci si potrebbe chiedere perché la sua esperienza si collega con se stessa e gli offre degli oggetti, delle fasi storiche definite, perché noi abbiamo una nozione generale del tempo valida attraverso tutti i tempi, infine perché l’esperienza di ciascuno si collega a quella degli altri. Ma è la domanda stessa che dobbiamo mettere in questione: infatti, non abbiamo qui un frammento di tempo poi un altro, un flusso individuale poi un altro, ma l’autori-prendersi di ogni soggettività e il reciproco riprendersi delle soggettività nella generalità di una natura, la coesione di una vita intersoggettiva e di un mondo. Il presente effettua la mediazione del Per Sé e del Per Altri, dell’individualità e della generalità. La vera riflessione mi dà a me stesso non come soggettività oziosa e inaccessibile, ma come identico alla mia presenza al mondo e all’altro quale la realizzo ora: io sono tutto ciò che vedo, sono un campo intersoggettivo, non malgrado il mio corpo e la mia situazione storica, ma viceversa essendo questo corpo, questa situazione e tutto il resto attraverso di essi. Che cosa diviene dunque, da questo punto di vista, la libertà di cui parlavamo all’inizio? Io non posso più fingere di essere un nulla e di scegliermi continuamente a partire da nulla. Se il nulla appare nel mondo grazie alla soggettività, si può anche dire che il nulla viene a essere grazie al mondo. Io sono un rifiuto generale di essere alcunché, tacitamente accompagnato da una accettazione continua di una simile forma d’essere qualificata. Infatti, questo stesso rifiuto generale rientra ancora nel novero dei modi d’essere e figura nel mondo. È vero che in ogni istante io posso interrompere i miei progetti. Ma che cos’è questo potere? È il potere di cominciare qualcosa d’altro, giacché noi non rimaniamo mai in sospeso nel nulla. Noi siamo sempre nella pienezza, nell’essere, così come un volto, anche in riposo, anche morto, è sempre condannato a esprimere qualcosa (ci sono morti stupefatti, sereni, discreti) e come il silenzio è ancora una modalità del mondo sonoro. Io posso dissolvere ogni forma, posso ridere di tutto, non c’è caso in cui io sia interamente preso: non perché mi ritiri nella mia libertà, ma perché mi impegno altrove. Anziché pensare al mio lutto, mi guardo le unghie o digiuno o mi occupo di politica. Di certo la mia libertà non è mai sola, ma ha sempre


qualche complice, e il suo potere di distacco perpetuo poggia sul mio impegno universale nel mondo. La mia libertà effettiva non è al di qua del mio essere, ma davanti a me, nelle cose. Non si deve dire che io mi scelgo continuamente, con il pretesto che potrei continuamente rifiutare ciò che sono. Non rifiutare non è scegliere. Potremmo identificare il lasciar fare e il fare solo negando all’implicito ogni valore fenomenico e dispiegando continuamente il mondo davanti a noi in una trasparenza perfetta, cioè distruggendo la «mondanità» del mondo. La coscienza si considera responsabile di tutto, assume tutto, ma non ha nulla in proprio e realizza la sua vita nel mondo. Si è indotti a concepire la libertà come una scelta continuamente rinnovata, finché non si introduce la nozione di un tempo naturale o generalizzato. Abbiamo visto che non c’è tempo naturale, se con ciò si intende un tempo delle cose senza soggettività. Ma per lo meno c’è un tempo generalizzato, ed è anzi questo che la nozione comune del tempo ha di mira. Esso è il ricominciamento perpetuo della consecuzione passato, presente, avvenire. È come una delusione e uno scacco ripetuti. Si esprime ciò dicendo che questo tempo è continuo: il presente che esso ci apporta non è mai presente sul serio, poiché è già passato quando appare, e soltanto in apparenza l’avvenire ha il senso di un fine verso il quale andiamo, giacché in breve esso viene al presente e noi ci volgiamo allora verso un altro avvenire. Tale tempo è quello delle nostre funzioni corporee, che sono cicliche come lui, e anche quello della natura con la quale coesistiamo. Esso ci offre solo l’abbozzo e la forma astratta di un impegno, giacché continuamente corrode e disfa esso stesso ciò che ha appena fatto. Finché poniamo l’uno di fronte all’altro, senza mediatore, il Per Sé e l’In Sé, finché non cogliamo, fra noi e il mondo, quell’abbozzo naturale di una soggettività, quel tempo prepersonale che riposa su se stesso, occorrono atti su cui fondare lo sgorgare del tempo, e tutto è scelta allo stesso titolo, il riflesso respiratorio come la decisione morale, la conservazione come la creazione. Per noi, la coscienza si arroga questo potere di costituzione universale solo se passa sotto silenzio l’evento che ne forma l’infrastruttura e che è la sua nascita. Una coscienza per la quale il mondo «è ovvio», che lo trova «già costituito» e presente persino in se stessa, non sceglie assolutamente né il suo essere né il suo modo d’essere. Cos’è dunque la libertà? Nascere, è nascere dal mondo e al tempo stesso nascere al mondo. Il mondo è già costituito, ma non è mai completamente costituito. Sotto il primo rapporto noi siamo sollecitati, sotto il secondo siamo aperti a una infinità di possibili. Ma questa analisi è ancora astratta, giacché noi esistiamo sotto i due rapporti contemporaneamente. Pertanto, non c’è mai determinismo e non c’è mai scelta assoluta, io non sono mai cosa e non sono mai coscienza nuda. In particolare, anche le nostre iniziative, anche le situazioni che abbiamo scelto ci sostengono, una volta assunte, come per una Grazia dello stato. La generalità del «ruolo» e della situazione viene in aiuto alla decisione e, in questo scambio fra la situazione e colui che l’assume, è impossibile delimitare «l’apporto della situazione» e «l’apporto della libertà». Si tortura un uomo per farlo parlare. Se egli rifiuta di dare i nomi e gli indirizzi che gli si vuole strappare, non è per una decisione solitaria e senza appoggi; egli continuava a sentirsi con i suoi compagni, e, ancora impegnato nella lotta comune, era come incapace di parlare; oppure, da mesi o da anni ha affrontato nel pensiero questa prova, e ha puntato tutta la propria vita su di essa; o, infine, con il superarla vuole provare ciò che egli ha sempre pensato e detto della libertà. Questi motivi non annullano la libertà, ma per lo meno fanno si che essa sia senza puntelli nell’essere. In definitiva, non è una coscienza nuda che resiste al dolore, ma il prigioniero con i suoi compagni o con coloro che ama e sotto lo sguardo dei quali egli vive, oppure la coscienza con la sua solitudine orgogliosamente voluta, cioè ancora un certo modo del Mit-sein. Ed è certo l’individuo, nella sua prigione, che ogni giorno rida vita a questi fantasmi, essi gli restituiscono la forza che hanno ricevuto da lui, ma reciprocamente, se egli si è impegnato in questa


azione, se è legato con i suoi compagni o fedele a una certa morale, è perché la situazione storica, i compagni, il mondo circostante gli sembrano attendere da lui quella condotta. Si potrebbe cosi continuare indefinitamente l’analisi. Noi scegliamo il nostro mondo e il mondo ci sceglie. È comunque certo che non possiamo mai serbare in noi stessi un recesso in cui l’essere non penetri, senza che immediatamente, pel solo fatto che è vissuta, questa libertà si configuri come essere e divenga motivo e appoggio. Concretamente considerata, la libertà è sempre un incontro dell’esteriore e dell’interiore - anche la libertà preumana e la preistoria con la quale abbiamo cominciato - e, senza mai annullarsi, essa si degrada a mano a mano che diminuisce la tolleranza dei dati corporei e istituzionali della nostra vita. Come dice Husserl, c’è un «campo della libertà e una «libertà condizionata»,8 non perché essa sia assoluta nei limiti di questo campo e inesistente fuori di esso (come il campo percettivo, anche quest’ultimo è senza limiti lineari), ma perché io ho possibilità prossime e possibilità remote. I nostri impegni sostengono la nostra potenza e non c’è libertà senza qualche potenza. La nostra libertà, si dice, o è totale o non esiste. Tale dilemma è quello del pensiero oggettivo e dell’analisi riflessiva, sua complice. Se infatti noi ci collochiamo nell’essere, le nostre azioni devono necessariamente venire dall’esterno, mentre se ritorniamo alla coscienza costituente, esse devono venire dall’interno. Ma noi abbiamo appunto imparato a riconoscere l’ordine dei fenomeni. Siamo mescolati al mondo e agli altri in una confusione inestricabile. L’idea di situazione esclude la libertà assoluta all’origine dei nostri impegni, e del resto la esclude egualmente al loro termine. Nessun impegno, nemmeno l’impegno nello Stato hegeliano, può farmi superare tutte le differenze e rendermi libero per tutto. Per il solo fatto che sarebbe vissuta, questa stessa universalità si staccherebbe come una particolarità sullo sfondo del mondo; l’esistenza generalizza e al tempo stesso particolarizza tutto ciò verso cui si protende, essa non potrebbe essere integrale. La sintesi dell’In sé e del Per Sé che corona la libertà hegeliana ha però la sua verità. In un certo senso, tale sintesi è la definizione stessa dell’esistenza, e in ogni momento essa si effettua sotto i nostri occhi nel fenomeno di presenza: semplicemente, essa è subito da ricominciare e non sopprime la nostra finitezza. Assumendo un presente, io riafferro e trasformo il mio passato, ne muto il senso, me ne libero, me ne svincolo. Ma posso farlo solo impegnandomi altrove. Il trattamento psicoanalitico non guarisce provocando una presa di coscienza del passato, ma anzitutto legando il soggetto al suo medico con nuovi rapporti di esistenza. Non si tratta di dare all’interpretazione psicoanalitica un assenso scientifico e di scoprire un senso nozionale del passato, ma si tratta di riviverlo come significante questo o quello, e il malato ci riesce solo vedendo il suo passato nella prospettiva della sua coesistenza con il medico. Il complesso non è dissolto da una libertà senza strumenti, ma piuttosto dislocato da una nuova pulsazione del tempo che ha i suoi appoggi e i suoi motivi. Lo stesso accade in tutte le prese di coscienza: esse sono effettive solo se si fondano su un nuovo impegno. Orbene, a sua volta questo impegno si forma nell’implicito, non è quindi valido che per un ciclo di tempo. La scelta che noi facciamo della nostra vita si effettua sempre sulla base di un certo dato. La mia libertà può distogliere la mia vita dal suo senso spontaneo, ma solo in virtù di una serie di slittamenti, anzitutto sposandolo, e non in virtù di qualche creazione assoluta. Tutte le spiegazioni della mia condotta basate sul mio passato, il mio temperamento, il mio ambiente sono quindi vere, a condizione che le si consideri non come apporti separabili, ma come momenti del mio essere totale di cui mi è consentito esplicitare il senso in diverse direzioni, senza che si possa mai dire se sono io a dare a esse il loro senso o se lo ricevo da esse. Io sono una struttura psicologica e storica. Con l’esistenza ho ricevuto un modo di esistere, uno stile. Tutte le mie azioni e i miei pensieri, sono in rapporto con questa struttura, e anche il pensiero di un filosofo è solo una maniera di esplicitare la sua presa sul mondo, ciò che egli è. Eppure io sono libero, non malgrado o al di qua


di queste motivazioni, ma per mezzo loro. Infatti, questa vita significante, questa certa significazione della natura e della storia che io sono, non limita il mio accesso al mondo, ma viceversa è il mio mezzo per comunicare con esso. Essendo senza restrizioni ò riserve ciò che sono ora, io ho la possibilità di progredire; vivendo il mio tempo, io posso comprendere gli altri tempi; immergendomi nel presente e nel mondo, assumendo risolutamente ciò che sono per caso, volendo ciò che voglio, facendo ciò che faccio, io posso andar oltre. Posso mancare la libertà solo se cerco di superare la mia situazione naturale e sociale senza prima assumerla, anziché unirmi, attraverso di essa, al mondo naturale e umano. Nulla mi determina dall’esterno, non perché nulla mi solleciti, ma viceversa perché da subito io sono fuori di me e aperto al mondo. Noi siamo da capo a fondo veri, abbiamo con noi per il solo fatto che ineriamo al mondo e non siamo semplicemente in esso, come cose - tutto ciò che occorre per superarci. Non dobbiamo temere che le nostre scelte o le nostre azioni limitino la nostra libertà, poiché solamente la scelta e l’azione ci sciolgono dalle nostre ancore. Come la riflessione deriva il suo voto di adeguazione assoluta dalla percezione che fa apparire una cosa - ciò che permette all’idealismo di utilizzare tacitamente l’«opinione originaria» che vorrebbe distruggere come opinione -, cosi la libertà si impiglia nelle contraddizioni dell’impegno e non si accorge che essa non sarebbe libertà senza le radici che affonda nel mondo. Farò questa promessa? Rischierò la vita per cosi poco? Darò la mia libertà per salvare la libertà? Non c’è risposta teorica a tali domande. Ma ci sono queste cose che si presentano, irrecusabili, c’è questa persona amata di fronte a te, ci sono questi uomini che esistono schiavi attorno a te, e la tua libertà non può volersi senza uscire dalla sua singolarità e senza volere la libertà. Sia che si tratti delle cose o delle situazioni storiche, la filosofia non ha altra funzione che quella di reinsegnarci a vederle bene, ed è giusto dire che essa si realizza distruggendosi come filosofia separata. Ma qui si deve tacere: infatti, solo l’eroe vive sino in fondo la sua relazione con gli uomini e con il mondo, ed è sconveniente che un altro parli in suo nome. «Tuo figlio è preso nell’incendio? Lo salverai!... Venderesti la tua spalla, se è un ostacolo per il lusso di una spallata! Dimori nel tuo stesso atto. Il tuo atto sei tu... Ti cambi... Il tuo significato si rivela abbagliante. È il tuo dovere, è il tuo odio, è il tuo amore, è la tua fedeltà, è la tua invenzione... L’uomo non è che un nodo di relazioni, solamente le relazioni contano per l’uomo.»9


Note

1 Nel

senso che, con Husserl, abbiamo dato a questa parola.

2 Or.

J.-P. Sartre, L’Ètre et le Néant, pp. 58 sgg.

3 Ibidem,

p. 544.

4 Ibidem,

p. 562.

5 Cfr.

il presente volume, p. 349.

6 Sartre,

op. cit., pp. 531 sgg.

7 On:

è la traduzione francese del tedesco das Man; cfr. Heidegger, Essere e Tempo, trad. it. cit., pp. 127-143. (N. d. T.)

8 Fink, 9 A.

Vergegenwärtigung und Bild, p. 285.

de Saint-Exupéry, Pilote de guerre, pp. 171 e 174; trad. it. cit., p. 125.


Opere citate

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Sommario

Nota del traduttore Premessa INTRODUZIONE – I PREGIUDIZI CLASSICI E IL RITORNO – AI FENOMENI I. La «sensazione» Come impressione. Come qualità. Come conseguenza immediata di un eccitamento. Che cos’è il sentire? II. L’«associazione» e la «proiezione dei ricordi» Se ho delle sensazioni, tutta l’esperienza è sensazione. La segregazione del campo. Non c’è «forza associativa». Non c’è «proiezione di ricordi». L’empirismo e la riflessione. III. L’«attenzione» e il «giudizio» L’attenzione e il pregiudizio del mondo in sé. Il giudizio e l’analisi riflessiva. Analisi riflessiva e riflessione fenomenologica. La «motivazione». IV. Il campo fenomenico II campo fenomenico e la scienza. Fenomeni e «fatti di coscienza». Campo fenomenico e filosofia trascendentale.

PARTE PRIMA – IL CORPO L’esperienza e il pensiero oggettivo. Il problema del corpo. I. Il corpo come oggetto e la fisiologia meccanicistica La stessa fisiologia nervosa oltrepassa il pensiero causale. Il fenomeno dell’arto fantasma: spiegazione fisiologica e spiegazione psicologica egualmente insufficienti. L’esistenza fra lo «psichico» e il «fisiologico». Ambiguità dell’arto fantasma. La «rimozione organica» e il corpo come complesso innato. II. L’esperienza del corpo e la psicologia classica «Permanenza» del corpo proprio. Le «sensazioni doppie». Il corpo come oggetto affettivo. Le «sensazioni cinestesiche». La psicologia necessariamente ricondotta ai fenomeni.


III. La spazialità del corpo proprio e la motilità Spazialità di posizione e spazialità di situazione: lo schema corporeo. Analisi della motilità in base al caso Schn. di Gelb e Goldstein. Il «movimento concreto». L’orientamento verso il possibile, il «movimento astratto». Il progetto motorio e l’intenzionalità motrice. La «funzione di proiezione». Impossibile comprendere questi fenomeni seguendo una spiegazione causale e collegandoli a una deficienza visiva, o seguendo una analisi riflessiva e collegandoli alla «funzione simbolica». Lo sfondo esistenziale della «funzione simbolica» e la struttura della malattia. Analisi esistenziale dei «disturbi della percezione» e dei «disturbi dell’intelligenza». L’«arco intenzionale». L’intenzionalità del corpo. Il corpo non è nello spazio, ma abita lo spazio. L’abitudine come acquisizione motoria di un nuovo significato. IV. La sintesi del corpo proprio Spazialità e corporeità. L’unità del corpo e quella dell’opera d’arte. L’abitudine percettiva come acquisizione di un mondo. V. Il corpo come essere sessuato La sessualità non è un miscuglio di «rappresentazioni» e di riflessi, ma una intenzionalità. L’essere in situazione sessuale. La psicoanalisi. Una psicoanalisi esistenziale non è un ritorno allo «spiritualismo». In che senso la sessualità esprime l’esistenza: realizzandola. Il «dramma» sessuale non si riduce al «dramma» metafisico, ma la sessualità è metafisica. Essa non può essere «superata». Nota sull’interpretazione esistenziale del materialismo dialettico. VI. Il corpo come espressione e la parola L’empirismo e l’intellettualismo nella teoria della afasia, egualmente insufficienti. Il linguaggio ha un senso. Esso non presuppone il pensiero, ma lo completa. Il pensiero nelle parole. Il pensiero è l’espressione. La comprensione dei gesti. Il gesto linguistico. Non ci sono né segni naturali né segni puramente convenzionali. La trascendenza nel linguaggio. Conferma per mezzo della teoria moderna dell’afasia. Il miracolo dell’espressione nel linguaggio e nel mondo. Il corpo e l’analisi cartesiana.

PARTE SECONDA – IL MONDO PERCEPITO La teoria del corpo è già una teoria della percezione I. Il sentire Qual è il soggetto della percezione? Rapporti fra il sentire e i comportamenti: la qualità come concrezione di un modo d’esistenza, il sentire come coesistenza. La coscienza invischiata nel sensibile. Generalità e particolarità dei «sensi». I sensi sono dei «campi». La pluralità dei sensi. Come la supera l’intellettualismo e perché esso ha ragione contro l’empirismo. Come l’analisi riflessiva resta però astratta. L’a priori e l’empirico. Ogni senso ha il suo «mondo». La comunicazione dei sensi. Il sentire «prima» dei sensi. Le sinestesie. I sensi distinti e


indiscernibili come le immagini monoculari nella visione binoculare. Unità dei sensi in virtù del corpo. Il corpo come simbolica generale del mondo. L’uomo è un sensorium commune. La sintesi percettiva è temporale. Riflettere è ritrovare l’irriflesso. II, Lo spazio Lo spazio è una «forma» della conoscenza? A) L’alto e il basso. L’orientamento non è dato con i «contenuti». Non è nemmeno costituito dall’attività dello spirito. Il livello spaziale, i punti d’ancoraggio e lo spazio esistenziale. L’essere non ha senso se non in virtù del suo orientamento. B) La profondità. La profondità e la larghezza. I pretesi segni della profondità sono motivi. Analisi della grandezza apparente. Le illusioni non sono costruzioni, il senso del percepito è motivato. La profondità e la «sintesi di transizione». Essa è una relazione fra me e le cose. Lo stesso può dirsi dell’altezza e della larghezza. C) Il movimento. Il pensiero del movimento distrugge il movimento. La descrizione del movimento fatta dagli psicologi. Ma che cosa vuole dire la descrizione? Il fenomeno del movimento o il movimento prima della tematizzazione. Movimento e mobile. La «relatività» del movimenta D) Lo spazio vissuto. L’esperienza della spazialità esprime la nostra fissazione nel mondo. La spazialità della notte. Lo spazio sessuale. Lo spazio mitico. Lo spazio vissuto. Questi spazi presuppongono lo spazio geometrico? Essi vanno riconosciuti come originali. Sono però costruiti su uno spazio naturale. L’ambiguità della coscienza. III. La cosa e il mondo naturale A) Le costanze percettive. Costanza della forma e della grandezza. Costanza del colore: i «modi di apparizione» del colore e l’illuminazione. Costanza dei suoni, delle temperature, dei pesi. La costanza delle esperienze tattili e il movimento. B) La cosa o il reale. La cosa come norma della percezione. Unità esistenziale della cosa. La cosa non è necessariamente oggetto. Il reale come identità di tutti i dati tra di loro, come identità di dati e del loro senso. La cosa «prima» dell’uomo. La cosa al di là dei predicati antropologici in quanto io sono al mondo. C) Il mondo naturale. Il mondo come tipica. Come stile. Come individuo. Il mondo si profila, ma non è posto da una sintesi d’intelletto. La sintesi di transizione. Realtà e incompiutezza del mondo: il mondo è aperto. Il mondo come nucleo del tempo. D) Controprova mediante l’analisi dell’allucinazione. L’allucinazione incomprensibile per il pensiero oggettivo. Ritornare al fenomeno allucinatorio. La cosa allucinatoria e la cosa percepita. Entrambe nascono da una funzione più profonda che la conoscenza. L’«opinione originaria».


IV. L’altro e il mondo umano L’intrecciarsi del tempo naturale e del tempo storico. Come si sedimentano gli atti personali? Come è possibile l’altro? La coesistenza resa possibile dalla scoperta della coscienza percettiva. Coesistenza dei soggetti psicofisici in un mondo naturale e degli uomini in un mondo culturale. Ma c’è una coesistenza delle libertà e degli Io? Verità permanente del solipsismo. Essa non può essere superata «in Dio». Ma solitudine e comunicazione sono due facce dello stesso fenomeno. Soggetto assoluto e soggetto impegnato: la nascita. La comunicazione sospesa, non rotta. Il sociale non come oggetto ma come dimensione del mio essere. L’evento sociale all’esterno e all’interno. I problemi di trascendenza. Il vero trascendentale è l’Ur-Sprung delle trascendenze.

PARTE TERZA – L’ESSERE PER SÉ E L’ESSERE AL MONDO I. Il cogito Interpretazione eternitaria del cogito. Conseguenze: impossibilità della finitezza e dell’altro. Ritorno al cogito. Il cogito e la percezione. Il cogito e l’intenzionalità affettiva. I sentimenti falsi o illusori. Il sentimento come impegno. Io so di pensare perché dapprima penso. Il cogito e l’idea: l’idea geometrica e la coscienza percettiva. L’idea e la parola, l’espresso nell’espressione. L’atemporale è l’acquisto. Come la percezione, l’evidenza è un fatto. Evidenza apodittica ed evidenza storica. Contro lo psicologismo o lo scetticismo. Il soggetto dipendente e indeclinabile. Cogito tacito e cogito parlato. La coscienza non costituisce il linguaggio, ma lo assume. Il soggetto come progetto del mondo, campo, temporalità, coesione di una vita. II. La temporalità Nelle cose non c’è tempo. Nemmeno negli «stati di coscienza». Idealità del tempo? Il tempo è un rapporto d’essere. Il «campo di presenza», gli orizzonti di passato e di avvenire. L’intenzionalità fungente. Coesione del tempo in virtù del passaggio stesso del tempo. Il tempo come soggetto e il soggetto come tempo. Tempo costituente ed eternità. La coscienza ultima è presenza al mondo. La temporalità come «autoaffezione». Passività e attività. Il mondo come luogo dei significati. La presenza al mondo. III. La libertà La libertà totale o inesistente. Allora non c’è né azione, né scelta, né «fare». Chi dà senso ai moventi? Valorizzazione implicita del mondo sensibile. Sedimentazione dell’essere al mondo. Valorizzazione delle situazioni storiche: la classe prima della coscienza di classe. Progetto intellettuale e progetto esistenziale. Il Per Sé e il Per Altri, l’intersoggettività. Nella storia c’è del senso. L’Ego e il suo alone di generalità. Il flusso assoluto è per se stesso una coscienza. Io non mi scelgo a partire da nulla. La libertà condizionata. Sintesi provvisoria dell’in sé e del per sé nella presenza. Il mio significato è fuori di me. Opere citate


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