Andrea Lo Faro
ANCHE MARADONA HA SBAGLIATO UN CALCIO DI RIGORE
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ANCHE MARADONA HA SBAGLIATO UN CALCIO DI RIGORE 2008 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2008 Zerounoundici Edizioni Copyright © Andrea Lo Faro ISBN 978-88-6307-149-8 Finito di stampare nel mese di Dicembre 2008 da Meloprint – Il Melograno Cassina Nuova - Milano
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Non c’è nulla di male a essere ultimi, se lo si è con dignità. Zdenek Zeman
A Astrid
NOTA DELL’AUTORE
Il romanzo è ispirato a fatti realmente accaduti che, senza porre limiti alla propria libertà narrativa, l’autore ha parzialmente rielaborato. Il contenuto di quest’opera non è quindi da intendersi come una cronaca attendibile, così come non sono da considerare attinenti al vero le azioni di alcuni dei personaggi ritratti.
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Uno di sguardi e invisibili confini, ripetizioni e verità in divenire Gli sguardi si trovano senza cercarsi, poli magnetici opposti che le leggi della fisica attraggono loro malgrado. Il Capitano, braccia conserte nel cerchio di metà campo, è cosciente delle proprie responsabilità e maestro nel mascherare la propria snervante inquietudine. Nasconde sapientemente la propria emotività, immobile anche quando Asto para il rigore del temporaneo vantaggio: lo fa per sé, innanzitutto, per il proprio orgoglio di leader, per legittimare una volta di più un ruolo che non dovrà mai essere messo in discussione. Non di meno, per regalare serenità ai compagni in un momento difficile come quello che stanno vivendo insieme: la loro prima vera finale, l’adrenalina dei calci di rigore dopo cinquanta minuti di mai cessato equilibrio. La paura di deludere, l’ansia di chi teme di non essere all’altezza. In questo, forse solo in quest’unico risvolto del carattere del Capitano, in questa sua tendenza a sminuire sempre, agli occhi degli altri, il peso delle difficoltà, in questa sua apparente leggerezza nell’affrontare i fatti del calcio ma anche della vita, in queste circostanze la napoletanità impressa sui cromosomi paterni è un’evidenza oltremodo innegabile. Il Lofa, mani in tasca, è defilato aldilà della riga laterale, impossibilitato a tutto tranne che ad alternare gioia e dolore a ogni rete gonfiata. Di tanto in tanto dà una sistemata agli occhiali i cui naselli non sono più in grado di reggere il peso della sua vecchia montatura in acciaio smaltato nero, più spesso si asciuga con un fazzoletto di stoffa il sudore che neanche le sue folte sopracciglia riescono ad arginare sulla fronte. Soffre nel vedere la sua maglia indossata da altri e non fa nulla per nasconderlo, maledice quell’uscita al limite dell’area che ha messo fine alle sue velleità agonistiche. Non parlano il Capitano e il Lofa, non ce n’è bisogno: è la tensione che ne deforma i lineamenti a comunicare silenziosamente le emozioni che stanno vivendo. Prevedibile e previsto il rigore di Forrest, ma troppo violento per essere tenuto al di qua della linea di porta. E’ gol ed è proprio in quel momento che i loro occhi anticipano incoscienti l’abbraccio nel quale entrambi sono certi si stringeranno presto. E’ gol e l’otturatore della loro memoria fa click: il Borla la saprà mettere e il Capitano, ultimo a doversi presentare sul dischetto, è oltre ogni lecito sospetto. E’ fatta, sembrano dirsi nella
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complicità dei loro laconici pigli, ingenui nel credere che bastino piedi buoni per iniziare la festa. Il Borla la tiene bassa e sceglie di calciarla a sinistra. La traiettoria sembra quella giusta, ma un rumore sordo fa presagire che non saranno loro ad alzare quella coppa. Almeno non nell’immediato. Questione di millimetri, l’invisibile confine che separa un palo interno da uno esterno. Un gol pressoché certo dalla frustrazione che ti rapisce. Le successive segnature e le tre serie a oltranza non fanno altro che rendere l’attesa ancora più estenuante. E quando Jimmy la spara in bocca al portiere avversario, il triplice fischio dell’arbitro rende esplicito un destino del quale il Capitano e il Lofa erano ormai persuasi. Jimmy e il Borla, amici per la pelle dentro e fuori dal campo, non riescono a credere che la sorte li abbia uniti anche in quest’infausta occasione. Sentono il peso della sconfitta solo sulle proprie spalle, dimentichi che anche Maradona ha sbagliato un calcio di rigore. E’ il 30 Giugno 2005. Le Mine Vaganti, da sempre alla ricerca di un’identità, iniziano a essere davvero squadra.
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Due di Egidio e Claudio «Senti, so bene che non sono affari miei, ma non riesco a far finta di nulla. Non ce la faccio, Claudio, non posso continuare a vederti in questo stato». Nelle ultime due settimane aveva provato almeno una mezza dozzina di volte ad iniziare quel discorso, senza però trovare il giusto abbrivio. Con le parole che sembravano morirgli sulla lingua un attimo prima di essere pronunciate, incapaci di varcare la soglia dei propositi, di sfondare l’argine dell’indifferenza che si erano giurati dopo l’ennesimo dissapore. Quella sera la manifesta lontananza del fratello lo spaventava, quasi che il tempo a disposizione per rianimarlo fosse venuto meno. Schiarì la gola, mandò giù la saliva che gli impicciava la bocca e proseguì. «Ho l’impressione che tu e Barbara stiate passando un brutto periodo…». Claudio rimase sorpreso nel sentire quelle parole. La rinnovata disponibilità del fratello, la sua evidente apprensione: dopo i conati d’odio che gli aveva vomitato addosso e dopo la ridicola piazzata del mese precedente, tanta sollecitudine sembrava essere, nella sua ingenua logica binaria post-adolescenziale, del tutto ingiustificata. Pensava che il suo credito fosse esaurito e con esso la pazienza di chi si era dimostrato fin troppo tollerante nei suoi confronti. Lasciò passare qualche istante, poi annuì silenzioso senza distogliere gli occhi dalla televisione. «Hai voglia di parlarne?». La verità è che non sapeva se ne avesse davvero voglia. Non capiva se era per via dell’imbarazzo a cui l’aveva costretto l’indulgenza del fratello oppure il timore di risposte in grado di confonderlo ancor di più. Si guardò intorno, alla ricerca di qualcosa che non trovava. Sempre in silenzio, con movimenti rapidi, nervosi. Cercava il telecomando, anche se non sapeva per quale motivo. Se per spegnere, cambiare canale oppure solo abbassare il volume. «Edi, è successo un cazzo di casino» si decise, non sapeva perché ma si decise, sicuro che se ne sarebbe pentito. Spense e si girò verso il fratello, all’altra estremità del divano. «Barbara è incinta».
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Tre di Giacomo e Onan, facce diverse della stessa medaglia 6 Giuda prese una moglie per il suo primogenito Er, la quale si chiamava Tamar. 7 Ma Er, primogenito di Giuda, si rese odioso al Signore e il Signore lo fece morire. 8 Allora Giuda disse a Onan: «Unisciti alla moglie del fratello, compi verso di lei il dovere di cognato e assicura così una posterità per il fratello». 9 Ma Onan sapeva che la prole non sarebbe stata considerata come sua; ogni volta che si univa alla moglie del fratello, disperdeva per terra, per non dare una posterità al fratello. 10 Ciò che egli faceva non fu gradito al Signore, il quale fece morire anche lui. Genesi 38,6-10 Visto con gli occhi di uno sconosciuto, Giacomo appariva come un adolescente qualsiasi della Milano dei primi anni Ottanta: né migliore né peggiore di tanti altri bagaj, un ragazzo. Dietro l’assoluta normalità del suo lato esteriore si celava tuttavia la condanna ch’egli stesso scelse di infliggersi e che, in una sorta di processo senza appello né difesa, decise di scontare segregato nelle prigioni della propria debolezza. Raccontare dell’infanzia di Giacomo è raccontare dell’infanzia di un qualsiasi ragazzino cresciuto in una piazza: le partite di calcio fino a che non faceva buio, sfiancanti nascondini senza limiti né regole, cavallina storna abbracciato al palo della luce e, immancabili, le gare in bicicletta, nelle quali riusciva a far valere i lunghissimi rapporti della Bianchi da corsa e che facevano di lui lo scontato vincitore di qualsiasi sfida. Un’infanzia serena, sfociata tristemente in un’adolescenza nella quale il suo problema relazionale emerse in maniera manifesta. Specie i primi anni di liceo, dove la convivenza con i giovani uomini in odore di diploma oppure con le ragazzine dalle gonne ben sopra il ginocchio e il seno nello splendore dello sviluppo lo riducevano inesorabilmente in ambasce. La vergogna per la sua condizione e i sempre più frequenti episodi che lo vedevano passivo protagonista di scherzi e canzonamenti tra i più spregevoli lo portarono a maturare la distorta consapevolezza di non essere all’altezza degli altri, di non potersi considerare una persona normale se quella era la normalità, e, anticamera di un’irragionevole decadenza, smise di parlare. Per rifuggire il disagio, dal quale non riuscì a liberarlo neppure il più stimato dei logopedisti della città, scelse di
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trasformare la sua balbuzie nel mutismo più incondizionato. Al rispetto da guadagnarsi sul campo a suon di schiaffi e spintoni preferì l’altrui, e ben più semplice da ottenere, pietà. Preso atto non senza dolore della decisione di lasciare gli studi e gli amici di sempre, i genitori gli imposero di frequentare un istituto per sordomuti, grazie al quale riprese a comunicare – anche se tramite il solo uso del linguaggio gestuale – e ad avere un minimo di vita sociale. La vera svolta nelle sue relazioni col mondo esterno avvenne però qualche anno dopo, in seguito alla diffusione di internet e della posta elettronica, per raggiungere il proprio apice comunicativo in quel mondo virtuale che è la blogosfera, un non-posto dove l’anima conta più del corpo e l’apparenza è esclusivamente frutto delle proprie capacità intellettuali, non fisiche. Elettrizzato dalla possibilità di poter dire finalmente la sua, intraprese un’appassionata battaglia contro i pregiudizi che limitano le possibilità dei singoli a causa di innati deficit fisici. Senza però l’onestà intellettuale di ricordare a sé stesso che il suo non era un problema congenito ma frutto della viltà della propria scelta e che, per trasformare un proponimento in un successo, è necessario il temperamento che lui non aveva mai mostrato di avere, tanto meno se nascosto tra le mura della propria cameretta. Se è vero che il fine giustifica i mezzi, tanto nobili erano le sue intenzioni che occultare una parte di verità non avrebbe di fatto cambiato la sostanza di quella missione, i cui risultati vennero per giunta amplificati dall’impenetrabile distacco che circondava un uomo senza volto e disinteressato ad apparire. Anche se sapeva bene che la rivalsa nei confronti di quel mondo che l’aveva, a suo modo di dire, soggiogato, doveva necessariamente passare attraverso il pubblico riconoscimento. Trovato nei meandri della sua livida indole un ultimo barlume di coraggio, accettò di intervenire telefonicamente a una trasmissione radiofonica; ma il disagio che provava ogni qual volta i propri pensieri non si traducevano in parole lo portò a decidere che il mondo dei codici orali non faceva per lui. Abbandonò una volta per tutte i propositi che aveva maturato negli ultimi tempi e si rituffò nel microcosmo nel quale sapeva muoversi senza impaccio alcuno. Un posto nel quale aveva saputo trovare tutto, e nel quale non gli restava altro da scoprire se non l’amore, la cosa che più di ogni altra desiderava. A qualsiasi costo. Un giorno, commentando sul proprio blog la scelta dello pseudonimo Onan (“un esempio di mistificazione storica, un uomo che, contrario a
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costumi nei quali non riusciva a immedesimarsi, viene ricordato da millenni come un segaiolo invece che come il precursore del più antico metodo contraccettivo naturale dopo l’astinenza”), entrò in contatto con un’apparente coetanea, con la quale si stabilì presto una certa affinità. Dopo mesi di messaggi tanto belli quanto forzatamente platonici, decisero di condividere - con le debite distanze e gli annessi filtri - un’esperienza diversa e che sapesse rinverdire l’entusiasmo che, data la ripetitività degli argomenti trattati, stava scemando lentamente nella noia: si iscrissero a un concorso letterario, presentando una storia scritta a quattro mani. Il racconto non ebbe il successo che si attendevano, ma permise loro di conoscersi veramente a fondo e di dare libero sfogo ai sentimenti che, nel tempo, avevano maturato l’uno verso l’altro.
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Quattro di Alfredo Mauro e Federico, il racconto Foglie gialle sparse dappertutto, sacchetti di plastica variopinti che si liberano alti tra gli alberi, rami spezzati e tutto ciò che il furioso vento di quei giorni potesse trascinare dietro di sé. Oggi la piazza si presenta così, lucente, vivace, addirittura esuberante. Scossa da un’improvvisa energia, sembra stia provando a ripudiare, con i suoi fugaci colori autunnali, l’incessante grigiore riflesso della Borletti, che ne disegna per metà il perimetro e contribuisce ad animarne la vita di tutti i giorni. Non una pausa nel cuore della piazza, non un momento di stanca: operai, bambini, tossici, delinquenti, barboni, cani e un’intensità che in pochi altri posti della città puoi trovare. Rumori di ogni tipo che si fondono, ognuno con il proprio ritmo e calore, in un unico grande battito, supremo metronomo della più mesta e sempre avvilente quotidianità. In un pomeriggio di relativa tregua, non solo meteorologica, Alfredo si unisce a due amici appoggiati allo schienale di una vecchia panchina verde, tra le poche sopravvissute ai periodici vandalismi di una delle compagnie rivali. Probabilmente i metallari di Via Garian. «Oh ragazzi, ho studiato un percorso per scappare dai tossici che è una bomba!». Si siede, dà un morso a uno degli ultimi Croccante della stagione e aspetta che Mauro e Federico gli diano retta. E’ distratto però, preso com’è dalle sensazioni che prova gustando il gelato al quale non rinuncerebbe se non per poche, pochissime altre cose al mondo: per alcuni secondi rimane immobile, attento solo a prolungare quanto più possibile il piacere viscerale che quell’armonico abbinamento di panna granella e amarena sa diffondere nel profondo della sua anima di goloso. «Madonna, ma… ma Gloria Guida è di un altro pianeta…madonna se è stupenda!». L'estrema lentezza con cui la bocca di Mauro dà alla luce la frase, impreziosita da quel “ma” ripetuto, quasi balbettato e poi l’enfasi posta sulla parola “stupenda”, questa combinazione di suoni ed emozioni ha l’effetto di un elettroshock su Alfredo che, girandosi di scatto, si rivolge incuriosito agli amici. «Cos’è? Fa vedere, oh, fa vedere!». « Non tirare, beota, che lo rompi!». «Mizzica… Blitz! Chi è che l’ha comprato?».
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«L'abbiamo trovato vicino al cestino…». Alfredo è eccitatissimo, Federico addirittura euforico nel vedere alcune immagini scattate sul set del nuovo film di Laura Antonelli. «Questa sì che è una donna!» protesta con decisione rivolto a Mauro. «Va qui che due tette! Altro che la tua biondina piatta piatta…». Lo guardano tutto fino alla fine, un’altra volta e poi un’altra ancora: tra stronzi, foglie, sassi, siringhe e schifezze di ogni tipo, Blitz era quanto di meglio si potesse trovare per terra in piazza. Specie per tre ragazzini alle prese con i primi fermenti ormonali. Lo sfogliano per l’ultima volta, poi, con inusuale cura, divaricano le due graffette con le quali il giornaletto è rilegato e se lo spartiscono: Mauro prende per sé le sole foto della “biondina”, Federico mette in tasca Laura Antonelli e Agostina Belli. Ad Alfredo, qualunquista per opportunità e ben fiero di esserlo, ciò che avanza. «Oh Alfre, cosa dicevi dei tossici?». La mente di Alfredo è comprensibilmente turbata, il suo viso ancora avvolto da vampate di calore. «Prima, quando sei arrivato, hai detto qualcosa sui tossici…». Mauro prova a rinfrescargli la memoria. «Oh» gli dà anche una leggera spinta «l'hai detto dieci minuti fa, non ti ricordi?!». «Mmh… ah, sì…» Alfredo fa saltare con la lingua l’ultimo ricordo del Croccante «…sì, dicevo che stamattina ho studiato un percorso per scappare dai tossici». Federico è perplesso. «Perché, scusa, sei mai stato rincorso da un tossico?». «No». «E allora perché studi un percorso?». «Boh… l'ora di religione è dura da far passare e…» esitò un istante, preso alla sprovvista dalla reazione degli amici «…e poi può sempre essere utile, no? Metti che qualcuno t'insegue…». Mauro e Federico sorridono. «Ve lo faccio vedere, dai, cos’avete da perderci?!». «L’hai disegnato?» chiede uno dei due. «No, ma possiamo provarlo, se volete. Ci mettiamo qualche minuto». Poche le alternative alla proposta di Alfredo: giocare a undici contro la Borletti, se avessero un pallone o solo la voglia di andare su a prenderlo, oppure lanciare sassi nel cestino oppure ancora andare in giro per i
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negozi della zona ad accattonare adesivi per il solo gusto di dire che io ho più adesivi di te. Insomma, il solito noioso modo per riempire quel che resta della giornata. Decidono di dar retta ad Alfredo. «Mauro, che ne dici? Io, quasi quasi…». «Massì, dai, andiamo! Che poi, come dice Alfre, non si sa mai… dai, da dov’è che partiamo?». «Allora, facciamo finta che adesso arrivi un tossico… mizzi, fatto di brutto e che… ti si avvicina e ti chiede se hai la collanina». La voce di Alfredo inizia a essere tremolante. «Tu cosa fai? Allora, dimmelo, cosa fai? E tu?». Nessuna risposta. «Ti caghi addosso… no?». Alfredo guarda gli amici e trova negli occhi di entrambi la luce di chi è tanto d’accordo con te quanto molto impaurito. Come te. «Va bene, ci caghiamo tutti addosso… e poi? E poi cosa facciamo?». Mauro incalza. «Dobbiamo scattare tutti e tre verso casa, correndo veloce. Tra la sorpresa e la sua fattanza, il tossico lo stacchiamo di diversi secondi. Entriamo e andiamo verso la mia scala. Uno di noi, il primo, chiama l’ascensore mentre l’ultimo sta vicino alla portineria per capire quando arriva. Se entra, prendiamo l’ascensore e saliamo in solaio. Apriamo la porta, ci facciamo tutto il corridoio e chiamiamo l’ascensore dell’altra scala; aspettiamo qualche minuto, però, vediamo se il tossico ci è ancora dietro». I tre si ritrovano nel sottotetto ad aspettare che da lì a qualche minuto si materializzino le forme di quel truce personaggio creato dalle proprie menti adolescenti e telecomandato da un’annoiata ma sempre fervida fantasia, un agghiacciante ologramma che gli sta dando la caccia per rubar loro le collanine. Le collanine, appunto. Ma loro ce le hanno le collanine? «Alfre, ce l’hai la collanina?». «No, io non ce l’ho. E tu?». «No, neanch’io. Fede, tu ce l’hai?». Federico si sbottona la giacca e inizia a toccarsi il collo: non ricorda se ha su la collanina, quella bella ovviamente, quella d’oro, oppure una qualunque collana di perline comprata al mare un paio di mesi prima. Si abbassa il maglione e scopre la risposta, che era poi quella che immaginava. La collanina bella è nell’armadio dove mamma mette le sigarette.
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«No, non ce l’ho neanch’io. Non ce l’ha nessuno. Che culo! Ma… se non ce l’ha nessuno, allora vuol dire che non c’è nessun tossico che ci sta correndo dietro!». Una pausa, tutti e tre in silenzio per sentire se, per caso o per destino, arrivano rumori dal pianerottolo dell’ottavo piano. No, niente. Né per caso né per destino. «Ma cosa c’entra, Fede, il tossico mica lo sa che non abbiamo le collanine! Ci ha visto scappare e ci ha inseguiti». Questa considerazione, più che legittima, gli dà da pensare. «Perché saremmo dovuti scappare se non avevamo le collanine? Ci aprivamo il giubbotto e gli facevamo vedere che non le abbiamo. Tutto qui. Lui cosa ci avrebbe fatto?». Mauro aspetta qualche momento e poi termina: «Secondo me, niente. Da noi voleva le collanine, mica pestarci». Non finisce neanche di dirlo che il silenzio viene rotto da un rumore cupo, proviene proprio da lì sotto. E’ l’ascensore: la porta si apre sbattendo violentemente contro la parete e un tossico brutto, tutto sporco, nel pieno della scimmia, alza gli occhi per vedere se tu sei lì. E tu, porca puttana, ci sei. Attraversi il solaio correndo lungo il corridoio, raggiungi l’altra scala e giù - Mennea mi fa una pippa - fino al piano terra. All’uscita, a sinistra verso via Cavalcabò e corri senza fermarti fino all’angolo con Via del Fusaro. Lì ti puoi girare per vedere se il tossico ti sta ancora inseguendo. Ti sta ancora inseguendo. Corri verso Via Sardegna e, prima dell’angolo, gira a sinistra dentro al garage, sali la rampa e vai ancora a sinistra. Adesso controlla se sta arrivando. Eccolo. Ora scavalca il muretto e sali sul tetto di quel box. Salta giù. «Oh, ma è alto!». Mauro abita al piano rialzato e soffre di vertigini. «Salta che il tossico sta arrivando, muoviti, dai!». Mauro si fa coraggio, salta e i ragazzi scappano verso l’uscita del cortiletto. E’ il momento chiave del piano di Alfredo: le ante del portone sono aperte, ma basta uno scatto di una quindicina di metri per uscire, mettersi in salvo e chiuderle, intrappolando il tossico. Per l'eternità. Passa Alfredo, subito dietro Federico e per ultimo Mauro. «Chiudi le porte, veloce!». Mauro a sinistra, Federico a destra e il portone si chiude violentemente, emettendo un sonoro clangore che fa scappare tutti i piccioni appostati sotto il balcone dell’ammezzato. E' fatta!
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Qualche attimo di silenzio, i ragazzi si guardano negli occhi e poi Alfredo esulta: «Avete visto, funziona! Il tossico è in trappola!». Trecento metri di pura tensione vissuta in una lunga corsa senza una meta apparente, poi lo scatto finale: qualche secondo di fiatone, mani appoggiate alle gambe leggermente flesse e l’immagine agghiacciante da cui fuggivano che lentamente si dissolve fino a ritornare un puro oggetto di fantasia. «Beh, più che per scappare, questo mi sembra un piano per intrappolarli, i tossici!». Federico fa un bel respiro profondo, scarta una Sugus (quanta invidia provavano i suoi amici quando tirava fuori le Sugus che il padre gli portava di ritorno dai suoi sabati di sigarette e benzina in Svizzera), la ciuccia in maniera teatrale e infine termina. «Comunque… [ciucciata] bello... [respirone] bravo Alfre!». «Bello Alfre, però non farmi fare più quel salto ché ho paura, lo sai». Anche Mauro si complimenta con l’amico, sebbene non sia del tutto contento. Le sue gambe tremano ancora. «Paura? Paura di cosa? E’ basso, dai, saranno tre metri e mezzo». «Sì, tre metri e mezzo, mica un metro! Oh, tre metri e mezzo è come saltare giù dal primo piano… una cosa assolutamente normale, no? Tu lo fai tutti i giorni, vero?». Alfredo non ha voglia di discutere e ignora l’ironia dell’amico. Lascia perdere, sufficientemente soddisfatto sia della sua pensata che del riconoscimento ricevuto dai compagni d'avventura. Una caramella sarebbe la ciliegina sulla torta. «Fede, me la merito una Sugus, vero?». «Eh sì, te la meriti proprio…» Federico sogghigna malizioso «…se solo ne avessi una…». Mette la mano in tasca, la rivolta e ne mostra il contenuto: tre monete da dieci lire, qualche cartaccia e niente più. L'acquolina in bocca è una brutta sensazione se non soddisfatta, lui lo sa bene e tutto sommato non se ne dispiace più di tanto. Rimane un'ultima cosa da aggiungere per concludere con l’ingegnoso piano: «Ah, dimenticavo». Alfredo si riappropria della scena. «Se avete qualcosa da nascondere, qualcosa di relativamente piccolo che possa passare attraverso il diametro di quel tubo lì…». Prende sotto braccio i due amici e li riporta all'esterno del garage, indicando una grondaia non più utilizzata. «Infili l'oggetto lì dentro e scappi. Per riprenderlo, è sufficiente saltare giù e alzare il tubo».
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Federico e Mauro erano ancora più sorpresi di prima. «No… scusa… come facevi a sapere di quel tubo? Non posso pensare che te lo sei inventato tu…». Federico è incredulo. «No, ovviamente no, di quello mi ha parlato Poldo. Lui ci nasconde le sigarette». «Ma se qualcuno va lì e ti ruba la roba che butti dentro?». «Impossibile: lo sappiamo noi tre e Poldo, nessun altro. Neanche la vecchia che abita qui». Nulla più da aggiungere. Grande Alfre, bel piano. Di nuovo in Via Cavalcabò, si incamminano verso la piazza. Sguardo basso e scanzonato, passo lento e parecchio distratto, non pensano a nulla, neanche al motivo per cui stanno tornando indietro. Tornano indietro, come attirati da un’invisibile calamita. Tornano indietro e basta. Come è normale che sia. Attraversano Via Del Fusaro, venti trenta metri e girano l’angolo. Un’occhiata verso il centro della piazza alla ricerca di qualche amico e nel cuore la speranza che questi abbia portato con sé un buon motivo per non ritornare a casa: niente da fare, solo qualche vecchio sulle panchine e un paio di cani a contendersi un pallone bucato. Pazienza, oggi va così. Si sono fatte le cinque. Tra un po’ su Canale 51 inizia Daitarn III. Un buon motivo per rientrare oppure solo un banale ripiego? «Le cinque?». Federico ha un sussulto. «Che ore sono ? Le cinque?». «Sì, le cinque. Cinque meno due». Mauro è telegrafico, il suo Texas Instruments è sincronizzato con i sei beep del segnale orario Rai. «Sedici cinquantotto minuti e quattordici secondi. Quindici sedici diciassette». Lo sconforto attacca in forze Federico. «Nooo, avevo detto alla madre di Marina che sarei andato con lei all’ospedale. Madonna, me ne sono dimenticato». E' distrutto, come ha fatto, continua a chiedersi, a dimenticarsi di Marina? Il sangue gli si sta gelando nelle vene. E’ disperato e allo stesso tempo già umiliato per la gran figura di merda che presto avrebbe fatto. Allunga nervosamente il passo e poi, d’improvviso, prende a correre verso casa. Le probabilità che i genitori di Marina non siano ancora partiti sono veramente poche. Ma sufficienti, data l’insofferenza dello spinterogeno della vecchia Opel all’umidità dell’autunno inoltrato. «Non parte, non c’è niente da fare. Prendiamo la sessanta». Il padre di Marina sbatte la portiera della sua Kadett grigia, guarda la moglie e
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scuote il capo. «Non parte, cosa posso farci?». Sta per infilare la chiave nella serratura quando una voce viene in suo soccorso. «Ha bisogno di una mano?». Federico, ignobilmente sollevato nel vederli ancora lì, gioca subito l'unica carta a disposizione per recuperare la situazione. «Proviamo a farla partire a spinta?». Franco non ci pensa due volte e annuisce fiducioso. «Dai ragazzi, correte più veloce che potete». Accende il quadro, mette la folle e i tre iniziano a spingere appoggiati allo sportello del baule. La macchina si muove lentamente, prende progressivamente velocità fino a che Franco non infila la seconda: il borbottio del motore, la macchina che si fa pesante e poi una portentosa sgasata a suggellare il loro successo. Partita. Un giro della piazza per tenerla su di giri e poi Franco si ferma per far salire la moglie. «Venite anche voi?». Non aspettò la risposta dei ragazzi. «Dai, salite!». Corsero come dei folli fino all’ospedale e lì, in compagnia di Marina, vi rimasero per oltre un’ora, incuranti degli orari di visita e dei rimproveri dell’infermiera di turno. Scherzavano e giocavano come se nulla fosse, come se mai nessuna mazzetta da un chilo le avesse devastato il cranio dopo un volo di otto piani. Come se fosse rimasta sempre con loro in piazza, in cortile o all’oratorio. Quella fu l’ultima volta che i ragazzi la videro in vita. Morì a causa di un’infezione il giorno stesso in cui la piazza si era preparata a riaccoglierla a sé, a farla diventare una brutta storia ma con un lieto fine che tutti potessero raccontare con gioia. Quale dio potrebbe essere così crudele da fare una cosa del genere a una bambina? Quale?
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Cinque di sospetti e impazienza In quell’angolo di mondo virtuale, intriso di miele, parole e buoni propositi, Onan e Vesna si erano ripromessi di amarsi a distanza: sapevano bene, memori di esperienze vissute da altri membri della loro piccola comunità autoreferenziale, che incontrarsi avrebbe senz’altro disatteso le aspettative di un amore perfetto quale il loro sembrava essere; in ragione di questo, sempre ligi ai precetti che si erano imposti, evitarono di affrontare temi che potessero definire i contorni dell’altro, perchè la priorità indiscussa era preservare il sentimento. Niente, nelle loro intenzioni, avrebbe avuto forza sufficiente a incrinarlo, tanto meno la fisicità di un amore convenzionale di cui, sebbene per vicende opposte, nessuno dei due sentiva al momento la necessità. Tanti buoni propositi alla base di un rapporto che, accecati dalla bellezza romantica del sentimento, pensavano fosse per sempre; ma che iniziò a dimostrare la propria fugacità nel momento in cui entrambi furono coscienti, Vesna in particolare, del fatto che i riferimenti di quel passato di cui abbondava il loro racconto non potevano che essere frutto di esperienze comuni. Leggere della morte di sua sorella Marina le diede poi l’assoluta consapevolezza di non sbagliarsi: aveva a che fare con un personaggio del suo passato, le cui indefinite fattezze iniziavano a inquietarla. Scandagliò minuziosamente protagonisti e comparse di una vicenda lontana oltre venti anni e giunse alla conclusione che nessuno, per quanto la vita sia in grado di cambiare un essere umano, poteva incarnare le virtù di quell’uomo tanto combattivo quanto sensibile e del quale non riusciva più a fare a meno. Indubbio che avesse qualche sospetto, uno in particolare, ma gli elementi a disposizione per arrivare a una risposta sicura non c’erano. Scelse dunque di giocarsi il tutto per tutto con una proposta dai contorni vaghi, interessante ma allo stesso tempo somigliante a un ultimatum. Che avrebbe saputo rimuovere qualsiasi velo.
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Sei di sesso confuso per amore Seduto di fronte al monitor, Giacomo perdeva tempo nell’attesa che si aprisse la finestra con la quale il sistema di messaggistica istantanea l’avrebbe informato della connessione di Vesna. Come tutti i giorni, nel primo dopo cena. Poco dopo le venti, finito Blob. Si distolse per qualche secondo, giusto il tempo di andare a prendere il posacenere che aveva dimenticato in bagno. Al suo ritorno, l’immagine di sfondo del desktop prese le forme e i colori della locandina del film da cui Antonella Vannucchi ricavò il proprio pseudonimo. - Lei: ci sei? - Lui: eccomi. Buonasera. - Lei: ciao. - Lei: voglio incontrarti. - Lui: penso di avere qualche problema col monitor... - Lei: no, hai letto bene. - Lui: hai dimenticato la nostra promessa? - Lei: non posso più vivere così. Ho bisogno di toccarti, di saperti vero. - Lui: io sono vero, perché veri sono i sentimenti che nutro nei tuoi confronti. Non mi sembra che ci sia altro da aggiungere. - Lei: Invece sì. Voglio fisicità. Voglio fare l’amore con te. - Lui: piacerebbe tanto anche a me, ma il solo colore dei tuoi capelli potrebbe farmi disamorare. - Lei: non vedrai e non sentirai nulla di me, se non il calore del mio corpo. Te lo assicuro. - Lui: come sarebbe a dire? - Lei: ci incontriamo in un hotel. Io ti precedo e ti aspetto nel buio della camera. Non dirò una sola parola. Faremo l’amore fino a che ne avremo voglia, poi ritorneremo a essere Onan e Vesna. - Lui: ho paura. Ho paura di perderti. E tengo troppo a te per correre questo rischio.
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- Lei: non prenderlo come un ricatto, non mi fraintendere. Ma non so per quanto tempo riuscirei a portare ancora avanti questa storia, specie in questo modo. - Lui: devo pensarci. - Lei: no, devi solo dirmi di sì. - Lui: altrimenti? - Lei: altrimenti non lo so, ma ti prego, dimmi di sì! - Lui: sai che detesto questi giochi. - Lei: mi spiace. - Lui: cosa vuol dire “mi spiace”? Se ti spiacesse davvero, allora eviteresti. - Lei: non posso. - Lui: OK, direi che possiamo salutarci qui, allora. - Lei: no, ti prego. - Lei: ti prego, non farlo. - Lei: ti prego. - Lei: ehi, sei ancora lì? - Lui: dove e quando? - Lei: domani sera, pensione Stella, via Quarnero. Alle nove io sarò in stanza ad aspettarti. - Lui: che nome userai per la prenotazione? - Lei: Vesna, ovviamente. - Lui: a domani. - Lei: a domani, amore. Buona notte. - Lei: e… GRAZIE!
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Sette di sorrisi e umiliazioni La neve era un appuntamento che ogni ragazzino aspettava sin da che i primi palesi segnali della primavera ne fiaccavano ogni legittima speranza per i giorni e le settimane a venire. Per alcuni, più propensi o addirittura obbligati a rimboccarsi le maniche, presagiva la probabile chiamata del Comune per spalare le strade e conseguentemente dare un minimo di consistenza a quel portafogli pieno di tutto tranne che di banconote. Per altri, più giovani o semplicemente meno alle strette col denaro, un divertimento che poteva interrompersi solo quando le mani, malgrado fossero protette da più strati di guanti, perdevano la sensibilità necessaria per appallottolare dardi e scagliarli in un tutti contro tutti che sarebbe proseguito per giorni, fino a che il freddo o la pioggia non avrebbero ghiacciato oppure sciolto il soffice strato di neve che ricopriva ogni marciapiede, aiuola o macchina. Tra i risvolti di questo spensierato divertimento si celava però l’incognita che i bastardi della compagnia di Via Garian si presentassero a perpetrare quella che era la loro infame tradizione. Per quale motivo avrebbero dovuto abbandonarla proprio quell’anno, il 1985, l’anno della nevicata del secolo? Egidio, non solo il migliore ma semplicemente l'unico vero amico di Giacomo, tornava dall’asilo nido con il fratellino in braccio e, sorpreso da una violenta manata sulla spalla, perse l’equilibrio e scivolò su un tombino che si nascondeva sotto la neve. Alzò gli occhi e si vide di fronte una decina di ragazzi che sapeva pronti a qualsiasi vigliaccata, anche la più spregevole: temeva per sé, ma le maggiori preoccupazioni erano per Claudio che, ritrovatosi affondato nella neve, prese a piangere spaventato. «Dov’è il balbuziente?». Il cuore a mille, sapeva bene che non poteva esimersi dal rispondere. Sebbene non ne fosse certo, indicò la piazza come il posto più probabile in cui trovare Giacomo. «In piazza non c’è un cazzo di nessuno». Provò a rialzarsi, ma il più grosso continuava a costringerlo per terra. «Se non mi dici dove cazzo è, ti prendo a scarpate fino a che a non mi si consuma la punta degli anfibi». Egidio, per tutti Edi, stringendo forte al petto il bambino poco più che infante, ripeté che non sapeva dove Giacomo fosse e che abitualmente lo si poteva trovare appunto in piazza o, alla peggio, all’oratorio. Come un
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branco di squali richiamati dall’odore del sangue, il gruppetto non perse tempo e si diresse di corsa verso la parrocchia, promettendo a Egidio che, non avessero trovato l’amico, sarebbero tornati indietro a prendere lui. Nel frattempo, Giacomo e gli altri davano corso alle proprie innocue guerre fredde senza preoccupazione alcuna: l’oratorio era una zona offlimits per malintenzionati di qualsiasi genere. Nella spensieratezza del proprio divertimento non fecero dunque caso al fatto che tutte le possibili uscite, compreso un buco che squarciava una vecchia recinzione metallica, erano state improvvisamente presidiate da alcuni personaggi che, per movenze e ancor più per aspetto, nulla sembrava avessero a che vedere con la quiete, seppur molto rumorosa, del campo giochi. «Eccolo lì il balbuziente, andiamo a prenderlo!». Riconosciuti alcuni componenti della banda e coscienti del rischio che stavano per correre, i ragazzi si dispersero rapidamente, lasciando Giacomo solo a sé stesso e facile preda di quel manipolo di capelloni che gli si avvicinava minaccioso. Bastarono pochi secondi per raggiungerlo: totalmente incuranti del probabile arrivo del prete, presero a picchiarlo e spogliarlo fino a che non lo ridussero totalmente nudo. «Guardatelo il minorato mentale» - lo scherno di quella frase seppe produrre ben più dolore di tutti i calci e pugni che ricevette - «non ha neanche i peli sul cazzo ‘sto handicappato di merda!». E, come se la sua assenza di peli costituisse una colpa per la quale essere punito, la masnada di infami gli diede contro con ancora più violenza, per arrivare al culmine dell’umiliazione quando alcuni, tirato fuori l’intirizzito membro, gli pisciarono addosso. Il sibilare di una sirena, che sfortunatamente non suonava per loro, li indusse a interrompere l’esecuzione morale dell’essere umano che giaceva inerme sotto alcune decine di centimetri di neve: ridevano tronfi mentre se ne andavano e rideva anche l’unica ragazza che era con loro. Rideva, Antonella Vannucchi. Rideva, Vesna.
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Otto dell’amore Giacomo, nel momento in cui ho capito che tu, solo tu, potevi nasconderti dietro quell’indirizzo di posta elettronica, in quel momento mi sono tornati alla mente, uno a uno, tutti quegli episodi del passato in cui il mio atteggiamento ha senz’altro contribuito a rendere la tua adolescenza una sorta d’inferno. In quel momento, la vergogna per quello che ho fatto è stata tale che per due settimane, le due settimane di qualche tempo fa in cui sono scomparsa senza darti notizie di me, in quei giorni non ho fatto altro che pensare a quanto dolore ho saputo procurare a te come ad altri esseri umani, dai più cari fino ai più sconosciuti. A una vita immolata sull’altare della bellezza da esporre nella vetrina dei trofei, non quella da condividere gioiosamente. A piaceri effimeri che non mi hanno lasciato altro se non il rimpianto per avere gettato via il mio tempo. Ma sono cambiata ed è questo ciò che più conta. Almeno per me. Ho pensato molto anche al nostro insolito rapporto e, se sono ritornata a scriverti, è perché ho realizzato che ciò di cui avevo bisogno era l’amore che tu di certo avresti saputo darmi, cosciente di quanto vero fosse il sentimento che sempre ho espresso nei tuoi confronti sia prima di scoprire del tuo nickname, che dopo. Se ho voluto organizzare il nostro incontro al buio proprio come si è poi materializzato, l’ho fatto perché sapevo che quello era l’unico modo per stringerti davvero. E per provare a restituirti quel corpo che ho contribuito a strappare alla tua anima. Ho ovviamente sperato che tu non ricordassi di me, che non mi avessi riconosciuta e che non ci fossero preclusioni da parte tua nei miei confronti. Ma la violenza con cui mi hai presa ieri sera, unita alla totale assenza di un bacio che fosse uno, queste due constatazioni mi hanno portato a capire l’esatto contrario, cioè che forse sapevi di me fin dal primo messaggio o che hai capito chi io fossi ben prima di quanto non abbia saputo fare, io, con te. I miei sentimenti sono sempre stati sinceri, ma a questo punto non so se lo stesso si possa dire dei tuoi: non so se mi hai voluto condurre lentamente nello spazio in cui materializzare la tua vendetta, oppure se per te era tutto solo un gioco o un esercizio di stile fine a sé stesso. Dimmi, ti prego, che non finisce tutto con ieri sera. Dammi, ti prego, una speranza.
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Ti voglio come sei, Antonella
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Nove dell’odio Aveva dovuto attendere trent’anni affinché il momento dell’amore, quello convenzionalmente dotato di batticuore ma anche fisicità, si presentasse al suo cospetto. Non importa se nello squallore di un hotel per sole puttane o poco più, perché anche il grigiore di una fogna non avrebbe potuto ovattare l’ebbrezza di ritrovarsi pervaso da un sentimento così nobile. Vissuto a modo suo, è evidente, con le difficoltà e le paure di chi ha troppa fame per poter gustare fino in fondo anche il più idilliaco dei cibi, ma finalmente vissuto. Poi un messaggio in grado di rinverdire l’odio mai represso lungo anni di isolamento, al quale rispose con un solo, semplice augurio: di raggiungere Giacomo nell’inferno in cui lei l’aveva, per sua stessa ammissione, abbandonato. Chi odia non ha il diritto di amare, scriveva dall’alto del pulpito sul quale era stata sacrificata la sua vita. Ostinandosi a non guardare in faccia il suo carnefice, nel quale aveva l’inconscia paura di riconoscere i propri tratti. Nel momento dell’amore, presentatosi in maniera inequivocabilmente chiara, Giacomo aveva preferito la vendetta. Nel momento in cui la vita gli aveva dato l’ennesima opportunità per ripartire, lui scelse di continuare ad annaspare nel lago che le sue lacrime non avrebbero mai smesso di alimentare. Morì, un giorno di tanti anni dopo, Giacomo, dicendosi che sì, ogni tanto si può scegliere di perdere una battaglia per poi vincere una guerra. E che a volte è addirittura indispensabile una sconfitta, magari non del tutto indolore ma neanche definitiva, per arrivare al successo finale, quello che rimane indelebilmente scritto negli almanacchi della propria memoria. Ma era troppo tardi, ormai, perché la sua battaglia, quella battaglia, era più forte di qualsiasi consapevolezza. E il suo album dei ricordi pieno zeppo di tante piccole, insignificanti vittorie, cancellate senza fatica alcuna dal suo ultimo, lento, batter d’occhi.
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Dieci quarti di finale L’uomo col cane era una persona come tante altre: tanto comuni i suoi modi di fare e tanto normali le sue fattezze che, per coloro i quali non ne conoscevano il nome, quell’uomo di mezz’età che capitava di vedere in zona in compagnia di un cane con la museruola di stoffa nera, quell’uomo era semplicemente l’uomo col cane. L’uomo col cane conduceva una vita dalla sorprendente regolarità, che lo portava a ritrovarsi, ogni giorno intorno alle otto, su quel limbo di terra mista a erba che divide la carreggiata principale dal controviale dello stradone periferico su cui affacciavano le finestre della sua abitazione. In compagnia di un meticcio simil-pastore tedesco e delle deiezioni che si curava di gettare in un cestino dopo averle raccolte in un sacchetto giallo dell’Esselunga. O talvolta bianco e rosso della Standa. Alle otto e mezza, sabati e domeniche escluse, davanti alla scuola elementare mentre dà un bacio sulla guancia alla figlia e poi nella pausa pranzo nell’aiuola antistante la chiesa. Prima di cena sempre nei pressi del controviale e poi dappertutto quando la sera si sveste dell’abito bello per diventare notte. L’uomo col cane pensava che avrebbe fatto volentieri a meno del freddo, della pioggia, delle zanzare e delle involontarie frequentazioni notturne a cui era obbligato per via del cane. In certi momenti, vista anche l’irascibilità della bestia, si augurava che quella quotidiana penitenza potesse avere termine quanto prima. Una mattina di settembre Kyra non riuscì a trovare la forza di lasciare la propria cuccia e lui, dopo avere consultato un veterinario, smise di essere l’uomo col cane. Kyra venne soppressa e lui abbandonò i suoi immancabili appuntamenti che cadenzavano ogni momento della sua giornata. Kyra morì e con lei la di lui vitalità. Kyra lasciò libero il divano di cui si era impossessata e lui se ne riappropriò senza neanche averne lavato la fodera. Quello che prima era l’uomo col cane si rese presto conto che la sua vita era ormai diventata famiglia e lavoro, lavoro e famiglia. Un avvilente ping pong tra casa ed ufficio, insipido senso del dovere a colazione pranzo e cena: voleva per sé qualcosa di esclusivamente suo, una passione o qualsiasi altra cosa potesse farlo sentire vivo. Cercava vibrazioni, coinvolgimento e soprattutto stimoli, ma non riusciva a trovare nulla, non un solo motivo che lo potesse tenere a debita distanza dal sofà su cui si
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addormentava sera dopo sera, annoiato dalla tivù e svuotato da ogni pensiero. Dopo mesi di buoni propositi e tentativi precocemente naufragati decise che era meglio un’inutile mezz’ora in giro per le strade del quartiere piuttosto che Bruno Vespa o Maria De Filippi. Aria fresca, non importa se dal puzzo irrespirabile, piuttosto che il tepore del suo riscaldamento centralizzato. Prese dunque a camminare senza meta per intere settimane, quando una sera, colto di sorpresa dalla grandine, non ebbe altra scelta che rifugiarsi all’interno del centro sportivo vicino al comune. A quell’ora la struttura era di dominio dei soli amanti della pedata: i più romantici nel sempreverde campo a 11, gli appassionati nel campo a 7 e gli uomini che fingono ancora di essere ragazzini nella tensostruttura che delimita il campo a 5. Volti diversi ogni sera, fino a che non iniziò a prendere dimestichezza con i colori delle maglie e con dettagli che richiamavano alla sua mente un gol particolarmente bello o un litigio per futili motivi. Iniziò a ricordare orari delle partite e giorni di solo allenamento e arrivò a selezionare i campi e i momenti che più parevano promettergli emozioni. Chiamalo caso oppure solo empatia, si trovò a non perdere nessuna delle partite di quella squadra che vestiva un completo rosso e blu. Una squadra di cui non conosceva il nome, ma che importanza aveva, il nome, per quell’uomo senza nome? Combattevano i ragazzi sul campo in erba sintetica e col cuore riuscivano sempre a sopperire agli evidenti limiti tecnici che tutto potevano far pensare tranne che loro fossero la capolista del girone. Combattevano e spesso discutevano animatamente con quell’omino smilzo copia sputata di Caparezza, ma si abbracciavano felici in mezzo al campo alla fine di ogni partita. Tenendosi sempre a debita distanza, ma abbastanza vicino per ben intendere, quello che prima era l’uomo col cane e che adesso è quel tizio che è sempre appoggiato sulla porta a vedere le nostre partite riuscì a sapere del prossimo, imminente appuntamento: i quarti di finale. Ai quali non volle mancare. Giovedì 23 marzo 2006, ore ventidue. L’arbitro fischia e non passano due minuti che il biondino numero 4 ha già propiziato un gol e segnatone un altro. La partita inizia come meglio non potrebbe. I rossi, come d’abitudine, sono chiusi in difesa nella speranza che il loro capitano, la punta col numero 7, riesca a bruciare sullo scatto il centrale
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difensivo avversario e scuotere la rete. Ma è dura, perché i neri sanno giocare la palla e non gli si può concedere il fianco. Un banale errore sugli sviluppi di un calcio d’angolo muove il punteggio sul 2a1 e la partita si riapre. Per concludere la prima metà senza altre significative emozioni. Quello che prima era l’uomo col cane e che adesso è quel tizio che è sempre appoggiato sulla porta a vedere le nostre partite, quel tizio lì non sembra granché intimorito: sebbene abbia imparato che nel calcio a 5 tutto è possibile, è altresì convinto che i rossi ci siano, stasera, con la testa e anche con le gambe. Se n’è accorto per il loro modo di occupare il campo e per i loro subitanei recuperi in difesa. E perché giocano uniti, coscienti di quanto possa essere rischioso prendere iniziative estemporanee che potrebbero non essere comprese dai compagni. E’ vero, mancano l’8 e anche il 10, ma le rotazioni sono sufficientemente profonde per poter reggere altri venti minuti di pura battaglia. Inizia il secondo tempo e il 6 spinge in rete col destro la palla del 3a1, punteggio che evolve a 3a2 e poi subito 4a2 grazie a una portentosa volata sulla sinistra del capitano, che regala al 9 il più facile dei gol. Con due tiri liberi a disposizione la partita si sarebbe potuta chiudere (il 4 sul portiere e il 7 sul palo), ma così non è: in un amen i neri si portano sul 4a4 e l’inerzia gira decisa dalla loro. L’arbitro decide, una volta di più, di smettere i panni dell’anonima comparsa e regala, nel vero senso della parola, un tiro libero a un minuto dalla fine ai neri. Un solo minuto e la più che seria possibilità di trovarsi sotto di un gol. Lo scoramento, sì, perché anche il più ottimista non avrebbe potuto non pensare che la beffa era ormai imminente. Ma il portiere dei rossi, che finalmente ha smesso quei terribili calzettoni verdi, para sicuro e la partita va ai calci di rigore. Iniziano i neri e segnano nonostante il portiere l’avesse quasi parata. Pareggia il 4 rosso e siamo sul 5a5. Ancora il portiere dei rossi a dare una svolta alla partita, parando il rigore numero due degli avversari. Segna il 9 rosso e poi anche l’avversario. Segna il 6 rosso e poi anche il nero di turno. E’ il momento del capitano, il 7. E il capitano segnerà. Quello che prima era l’uomo col cane e che adesso è quel tizio che è sempre appoggiato sulla porta a vedere le nostre partite ne è sicuro. No, tiraccio centrale sui piedi del portiere e si ricomincia da capo. Segnano loro e poi anche il 3 rosso, si va a oltranza. Il capitano dei neri insacca sicuro e, a questo punto, tocca tirare al portiere. Che non la mette certo bene, ma entra lo stesso. La parata sul successivo penalty regala ai rossi la
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possibilità di chiudere il confronto e sul dischetto si presenta il 2: la stagione in mano all’unico ragazzo che fino a quel momento non aveva mai tirato un solo calcio di rigore. Che dalla panchina oppure dalla tribuna lo si sentiva ripetere sempre lo stesso ritornello, cioè «nel dubbio calcia forte sotto la traversa» o qualcosa del genere, ma che nella pratica non aveva mai avuto riscontro. Beh, il 2 calcia forte proprio sotto la traversa e i rossi vincono. Quello che prima era l’uomo col cane e che adesso è quel tizio che è sempre appoggiato sulla porta a vedere le nostre partite, quel tizio lì non ha resistito all’impulso di dirigersi in mezzo al campo e di stringere la mano al numero 2. «Bravo» gli disse non senza la paura di apparire inopportuno, «tu sei le Mine Vaganti. Lo spirito. La voglia di vincere». Mario prese finalmente ad avere un nome e, invitato a terminare la serata in loro compagnia, condivise con i ragazzi l’ebbrezza della semifinale raggiunta. A La Masseria, il solito posto, un locale poco distante dal campo dove lo stridere dei coltelli da pizza e il rumore del vetro dei boccali di birra uniti in un brindisi a ognuno dei giri di media erano l’ideale sottofondo alla gioia vibrata del sogno che si dissolve quasi per incanto nella realtà. «Mario, cosa fai nella vita?». Jimmy cercò di coinvolgerlo. Da che si erano seduti non aveva ancora aperto bocca. «Lavoro in una Software House, sviluppo siti internet e applicazioni…». «Grandioso!» lo interruppe il Borla, «vuoi vedere che questa è la volta buona che…» si girò verso l’altra estremità del tavolo e alzò la voce, così da farsi chiaramente intendere dal Lofa. «… che se stiamo ad aspettare il Lofa stiamo freschi…». «Certo, perché no?». Mario sorrise nel vedere un oggetto, forse solo della carta appallottolata, prendere il volo e finire giusto sul naso del Borla. «In questi giorni ho veramente poco da fare». Si lasciarono, il ristorante vuoto e la serranda abbassata per metà, con una promessa: Mario alla semifinale non sarebbe mancato. Così come, da quel giorno e per il resto della stagione, puntuale sarebbe stato il suo commento a ognuna delle partite delle Mine Vaganti. Trasferte comprese. La fredda cronaca, come gli piaceva chiamarla, integrata da compiacenti e poco obiettive pagelle. Sul sito internet delle Mine Vaganti che lui stesso aveva sviluppato. Sul loro blog, per la precisione.
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Undici (firma) di chi ne fa le veci Egidio incassò un colpo al quale era già preparato. A cui settimane di litigi telefonici e drammi borghesi vissuti da involontario spettatore avevano in parte modificato la traiettoria, attutendone sensibilmente l’impatto ma senza per questo renderlo del tutto innocuo. Strinse le ginocchia al petto, come per proteggersi da altre possibili sferzate, più precise forse, più dolorose. Cosciente dell’ingratitudine che avrebbe ricevuto in cambio di tanta preoccupazione, ma disinteressato, indifferente: perché quello che aveva di fronte a sé, a dispetto del corredo di piercing, capelli da camerata e qualche ciuffo di barba spuntato a caso sul viso, quello restava il bambino che aveva cresciuto come un figlio da che mamma e papà avevano tolto il disturbo. A cui aveva pulito il culo per anni, al quale aveva provato ad insegnare quel poco che sapeva della vita. Firma di un genitore o di chi ne fa le veci gli risuonava nella mente quando doveva cavarlo d’impaccio, in principio un onore per il giovane uomo che non ne conosceva gli oneri, ben presto una responsabilità alla quale la sua maggiore età appena compiuta non poté sottrarsi. Firma di un genitore o di chi ne fa le veci gli risuonava in mente ora. Gli atteggiamenti di Claudio, il suo modo di esprimere la ribellione che l’orfano non ha mai potuto indirizzare ammodo, il suo grido di autodeterminazione ignorato: Firma di un genitore o di chi ne fa le veci. «Cosa avete intenzione di fare?» gli chiese, sforzandosi di essere accomodante nonostante l’istinto suggerisse l’aggiunta di almeno qualche aggettivo. E molto qualificativo. «C’ho vent’anni, Edi, e l’ultima cosa che voglio è diventare padre». Fece quanto nelle sue possibilità per soffocare il sorriso imbarazzato che gli vestiva il volto quando il disagio smascherava le sue debolezze. Ma niente da fare. Odiava quella voce tremolante, non sopportava l’idea che il fratello lo vedesse nudo di fronte a difficoltà che, sicuro di sé come voleva apparire, non sapeva affrontare. «Ma Barbara non vuole sentir parlare di aborto» concluse, nascondendo lo sguardo sulla sigaretta che stava per accendere. «Non vuole abortire perché è contenta di essere incinta oppure lo fa, cioè non lo fa, per altre ragioni?». La domanda, già che i due giovani stavano insieme da troppo poco tempo per poter ragionevolmente desiderare una gravidanza, era solo un espediente per farlo parlare. Per farlo sciogliere.
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«No, contenta non lo è affatto. Ma non se la sente di arrivare a tanto. Di ammazzare una creatura innocente, come dice lei». «Cla, qui non si tratta di ammazzare un innocente». La puzza di sacrestia di cui era colma quell’espressione non faceva certo il paio con il dichiarato scetticismo del fratello. «Qua c’è di mezzo la tua vita. Quella di Barbara, il vostro rapporto». «E a me lo vieni a dire?! Queste sono le stesse cose che vado dicendole da quando ce ne siamo accorti. Ma lei è ferma sulla sua posizione». «Proviamo a parlarne insieme, tutti e tre intendo?». «No, questi sono solo cazzi miei». Come mosso da un riflesso incondizionato, Claudio s’alzò in piedi e si parò davanti al fratello. «E me li sbrigo io», i lineamenti del volto contratti, la mano destra a battersi ripetutamente il petto. «Io e basta. E’ chiaro?». «E’ chiarissimo, questi sono solo cazzi tuoi, sbrigateli tu. Ma smetti di avere questo atteggiamento, perché io voglio solo aiutarti, non farti del male». «Cambierò atteggiamento, forse, quando tu dimostrerai di avere fiducia in me. Quando smetterai di trattarmi come un bamboccio».
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Dodici di Dante Bisogna sempre partire da lontano e talvolta riavvolgere intere bobine di nastro; riportare alla luce quelle scatole impolverate piene di ricordi di cui non ti vuoi privare solo per una questione affettiva, ma che hai accatastato senza grande cura nella buia cantina del tuo passato, certo che, prima o poi, ti deciderai a gettare in discarica assieme a quel televisore quattordici pollici che è ormai senza colori o a quella tenda da campeggio che così conciata non è più adatta neanche alle emergenze. Nel suo caso è necessario tornare indietro sino alla metà degli anni sessanta, quando la sua vita non era nemmeno allo stadio delle ipotesi. Due migranti, un siciliano e una pugliese, che lasciano non senza problemi le rispettive famiglie nel tentativo di costruirsi un futuro solido, in un posto che possa offrirgli quelle opportunità che la loro terra natia non è in grado di assicurare. Lasciano gli affetti, le amicizie e i pochi punti fermi della loro vita per provare a stare meglio. Senza uno straccio di certezza, carichi di sole speranze. Lasciano casa per cercar fortuna a Milano, dove un posto su una catena di montaggio lo dovrebbero trovare con discreta facilità. Si incontrano in Piazza del Duomo nel momento più caotico della rituale passeggiata domenicale, quella in cui mettere in mostra l’abito bello e le scarpe col tacco lucidate a nuovo. Si piacciono, si frequentano a lungo e infine si innamorano. Si sposano e meno di un anno dopo danno alla luce quattro chili di essere umano. Due migranti, dicevo, due migranti che, sorprendendolo una volta di più per quello che aveva sempre considerato mero disinteresse, non hanno posto vincolo alcuno nel momento in cui ha comunicato loro, ancora minorenne, la sua volontà di lasciare casa e trasferirsi in Calabria. Era sì cosciente, nonostante la sua giovane età, di intraprendere il percorso esattamente contrario alla logica delle cose, ma non avrebbe mai pensato che poche rassicurazioni sulla sua intenzione di portare avanti gli studi e nel contempo di guadagnarsi da vivere in un villaggio turistico fossero elementi sufficienti a convincerli. Lasciava Milano, il posto delle opportunità, per trasferirsi nella desolazione salmastra di Catanzaro Lido. E loro, i suoi genitori, non hanno neanche provato a farlo ragionare su quello che stava facendo. Non lo hanno messo di fronte alle difficoltà che nel medio-lungo termine avrebbe dovuto affrontare sia che fosse rimasto lì per sempre, sia che avesse scelto di tornare su a Milano. Si sono
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semplicemente presi una notte per pensarci, per poi augurargli le migliori fortune. Senza aggiungere altro che non fossero le banali raccomandazioni di un genitore a un figlio. E, cosa peggiore, senza mettere in moto quel meccanismo che gli avrebbe permesso di capire il perché del loro avallo; senza mettere in evidenza che, tutto sommato, stava ricalcando le loro stesse orme. A ogni modo, invece che essergli grato per la fiducia incondizionata che gli stavano concedendo, Dante, d’acchito, nel silenzio inconsapevole della propria ignoranza, trovò un ulteriore motivo per detestarli più di quanto già non facesse: non sopportava il pensiero che fossero disposti a liberarsi del loro unico figlio così, per un amore adolescenziale che quasi sicuramente si sarebbe ridimensionato nel volgere di poco. Era però ben contento di poter raggiungere Caterina e dirle che sì, avrebbero continuato a stare insieme. Passò i suoi ultimi giorni a Milano macerandosi nell’agrodolce di contrastanti sentimenti. Infine, rapito dal ricordo di emozioni che voleva provare a rivivere, partì. Aveva diciassette anni e non poteva capire il loro gesto d’amore. Aveva diciassette anni e non poteva capire che la fiducia che avevano in lui era incondizionata al punto da concedergli la loro benedizione per quella che si configurava come una cazzata di cui si sarebbe probabilmente pentito. Era inesperto e non sapeva che i chilometri che ci separano dalla felicità, quella consapevole, sono tanti. Bisogna sempre partire da lontano, proprio come fecero loro. Lui l’ha capito solo adesso, di ritorno dal suo viaggio. E l’ha capito semplicemente perché solo adesso ha provato a essere razionale, miracolato da quello stato di miopia interiore che gli ha sempre fatto vedere le cose nel loro aspetto più deforme, quello emotivo.
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Tredici del dovere Sulle frequenze sintetiche di un pop-rock con molte pretese ma infondo inconsistente, indegno continuatore della rivoluzione visionaria che aveva iniziato quindici anni prima nei panni di Ziggy Stardust, David Bowie annuncia che The Glass Spider Tour avrebbe fatto tappa a Milano. Per la prima volta in venti anni di carriera, il Thin White Duke avrebbe suonato dal vivo in Italia, a San Siro, il 10 giugno 1987. Pressoché digiuno del Bowie autentico tranne che per i pezzi più celebrati, ma attratto da un’esibizione dal vivo che veniva annunciata tra le più spettacolari di sempre, Dante sapeva che non sarebbe mancato. Con lui finalmente Raffaella, convinta, forse sedotta. I biglietti erano introvabili da tempo, ma nessun cancello dello stadio era troppo alto per Dante. Nessun celerino troppo veloce, nessun manganello troppo duro, nessun addetto alla sicurezza sufficientemente vigile per impedirgli di scavalcare e poi spalancare il portone tramite il quale sarebbe entrata l’amica e chi l’avesse voluto. I bagarini un’ipotesi che non prendeva neanche in considerazione. Tutto sembrava pronto, ma un imprevisto lo obbligò altrove. Proprio per quel mercoledì venne pianificato il rientro in Calabria di un cugino di suo padre e lui si trovò costretto ad approfittare del suo passaggio in macchina per il viaggio che l’avrebbe portato a Catanzaro. Per Raffaella, per cantare insieme as long as we’re together the rest can go to hell, per quella serata Dante si sarebbe sobbarcato un disagio anche peggiore di quattordici ore di corridoio su un treno delle Ferrovie dello Stato: ma Lucio, come ci sarebbe rimasto Lucio se non avesse accettato la sua offerta? E suo padre, poi, per quanto tempo l’avrebbe guardato di traverso se non si fosse dimostrato riconoscente? Si perse il concerto, così come il corso della vita l’ha portato a non rivedere più Raffaella. Quantomeno, con quel giorno può dire che ebbe inizio un’altra storia.
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Quattordici del viaggio Era solito lavorare, finita la stagione scolastica, per avere un minimo di indipendenza economica durante l’inverno. La cosa tornava utile a lui e non di meno ai suoi, non tanto per i soldi che avrebbe messo da parte quanto perchè non gradivano saperlo a passare le giornate in mezzo a una strada per tutta l’estate. Quell’anno, quando ormai era entrato nell’ordine d’idee che la sua sarebbe stata una calda stagione di mal pagato volantinaggio, quell’anno Germano, un parente alla lontana che ogni tanto capitava dalle loro parti gli offrì di andare a fare il barista nel villaggio vacanze di cui era il responsabile amministrativo. Calabria, costa ionica. Partenza immediata, ritorno la prima settimana di settembre. Dante non trovò nessuna controindicazione alla sua proposta, che al contrario gli avrebbe garantito un guadagno inaspettato rispetto a quelle che erano le sue abitudini. Accettò con il massimo dell’entusiasmo, nonostante sapesse che c’era da lavorare, e anche parecchio. E che di vacanze, per quell’anno, non ne avrebbe proprio fatte: il viaggio ad Amsterdam con gli amici della piazza rimaneva un sogno, ma con quei soldi si sarebbe potuto permettere la patente e, se tutto andava bene, anche la prima macchina. Era il 10 giugno 1987 e mentre i suoi coetanei milanesi fremevano davanti ai cancelli di San Siro, Dante se ne stava in coda sulla Salerno-Reggio Calabria in compagnia di Lucio. I finestrini giù perché faceva già molto caldo e l’intera discografia della PFM a rinverdire il grigiore desertico dell’alto potentino. Impiegarono quindici ore per percorrere i circa milleduecento chilometri di autostrada che separano Milano dall’uscita di Lamezia Terme, dopodiché iniziarono a brancolare nel buio alla ricerca del paesino in cui era situato il villaggio turistico. Era notte inoltrata e di gente, lungo la Statale 106, ce n’era veramente poca. A un semaforo affiancarono un motorino. «Mi scusi, saprebbe indicarci Simeri Crichi?». Era già pronto a una risposta stizzita di quella che solo in un secondo momento riconobbe come una ragazza e che - ne avrebbe avuto ogni ragione - visti il contesto e ancor più l’orario avrebbe potuto confondere la sua domanda con un audace approccio. Invece, forse per via di un accento del tutto inusuale per un calabrese, la ragazza si dimostrò disponibile ad aiutarli.
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«Seguitemi, sto andando anch’io da quelle parti». Si misero dietro al Garelli grigio metallizzato che arrancava su per la collina, fino a che non arrivarono in paese. A quel punto la ragazza si fermò, spense il motorino e smise un vecchio paio di occhiali da moto che celavano l’elegante bellezza dei suoi occhi. Si abbassò leggermente per guardarli entrambi in faccia. «Che ci dovete fare, voi, a Simeri?». Dante rimase sorpreso nel vedersi in un posto del tutto diverso da quello che si aspettava: lo scenario che si era immaginato era del tutto difforme dalla geografia di quel borgo medievale. Non esitò a trasmettere alla ragazza il suo pieno stupore. «Scusa, ma… ma il mare dov’è?». La domanda, ingenua già di per sé e rinforzata dall’evidente smarrimento del suo tono la fece sorridere. «Ma voi dove dovete andare di preciso?». «Conosci il villaggio Splendor?». «E certo che lo conosco: ci lavoro, io, lì». La sua espressione mutò rapidamente al severo. «Dovete andare a Simeri Mare, allora!». Dante non sapeva cosa dirle. E non fu necessario che aggiungesse altro. «Potevate dirlo prima, malanova mu nd haj!». Rimise gli occhiali. «Continuate a seguirmi». Lasciarono il paese e dopo qualche chilometro di nulla si ritrovarono di fronte alla sbarra dell’ingresso, oltre la quale videro sparire la ragazza che li aveva fin lì condotti. Dante scese dall’auto, tirò giù il borsone e ringraziò Lucio per la sua gentilezza. All’invito di andarlo a trovare non poté che rispondere affermativamente, anche se sapeva bene che fino a Taurianova, distante un buon paio d’ore d’auto, non ci sarebbe mai andato.
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Quindici della prima volta Vide una figura piuttosto corpulenta avanzare verso di sé, la cui inequivocabile divisa lo portò a pensare a un guardiano notturno. Non aspettò che fossero uno di fronte all’altro. «Buonasera» disse, palesando un accento e una cadenza alle quali Dante non avrebbe più fatto caso nel giro di pochi giorni. «E’ un ospite del villaggio?». «No» rispose d’acchito, ancora distante cinque sei metri da lui «sono qui per lavorare». L’uomo, senza nulla aggiungere, rientrò nel piccolo gabbiotto in muratura e prese a consultare un elenco. Sebbene già sapesse che nessun arrivo notturno era previsto. «Senti» fece scorrere lungo un binario impolverato la piccola finestra di plexiglas davanti alla quale Dante si era fermato «io non sono stato avvisato. Di conseguenza non ho da darti le chiavi della tua stanza». Attese per qualche secondo una possibile replica, per poi riattaccare seccamente. «Ma proprio a ‘st’ura dovevi arrivare?». Dante spiegò che veniva da Milano e che i sempiterni lavori sull’autostrada lo avevano portato a ritardare di non poco il suo arrivo, omettendo di sottolineare che il giorno stesso aveva parlato con una ragazza del personale e che tutto, almeno in linea teorica, era stato organizzato a regola d’arte. Le sue parole non furono sufficienti a che si trovasse una soluzione. «Mi spiace, io non ti posso far entrare. Devo aspettare che riapra la reception. Se vuoi, puoi lasciarmi qui la valigia e andare a dormire in spiaggia. Devi fare il giro dalla strada, perché se non sei registrato non puoi entrare nel villaggio». A Dante non sembrava di avere molte alternative: lo ringraziò per la cortesia che gli stava facendo nel badare alla borsa che, dato il peso, non avrebbe di certo potuto portare con sé; si fece quindi spiegare nel dettaglio come raggiungere la spiaggia, infilò nella tasca di dietro dei jeans il Superbasket che aveva comprato in Autogrill e s’incamminò. Riprese la strada e dopo aver girato intorno all’intera, enorme struttura si ritrovò ad attraversare una spoglia ma ben curata pineta. Superata la quale, sotto un lampione acceso, notò una catasta di sdraio chiuse. Ne prese una, l’aprì e ci si sedette sopra, sicuro che tutto avrebbe potuto fare tranne che addormentarsi. Si rialzò infatti dopo qualche attimo, si tolse scarpe e calze e andò a bagnarsi i piedi nell’acqua del mare. Era tentato di farsi un bagno,
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vista l’accogliente temperatura dell’acqua, ma senza un asciugamano avrebbe rischiato d’ammalarsi. Guardò l’orologio e pensò che a quell’ora il concerto era senz’altro terminato. E che magari, proprio in quell’istante, avrebbe potuto trovarsi sotto il portone di Raffaella Montanarini. Baciandola, finalmente, dopo mesi di un discreto ma inequivocabile corteggiamento. Aveva perso un’altra occasione, si diceva, i piedi in acqua e lo sguardo rivolto a quel pezzettino di Luna che illuminava il buio della sua prima notte in Calabria. Ne capiteranno altre. Di certo. Un rumore alle sue spalle lo distolse da quel pensiero: si girò e vide che qualcuno stava scavalcando la rete di recinzione che divide il villaggio dalla spiaggia. Non poteva dire di essere spaventato, ma neanche del tutto tranquillo, specie perché quel qualcuno si avvicinava con passo deciso. Era buio e riuscì a riconoscere la sagoma della ragazza del motorino quando si trovò a non più di cinque metri da lui. «Ho parlato con la guardia e mi ha detto che sei senza camera». «Sì» rispose, quasi intimidito dalla fermezza del suo tono. «Cosa fai, rimani fino a domattina in spiaggia?». Fece una breve pausa. «Vieni a stare da me, che ho dei letti liberi nel mio appartamento». «Sei sicura? Non è che poi mi fanno, o ti fanno, storie?». «Ma vattinne, ma quali storie! Vieni, andiamo». Lo prese per mano e lo trascinò per qualche passo fino a una passerella in plastica bianca. Si fermò, vuotò la sabbia che le aveva riempito i sandali e aspettò che anche lui rimettesse le scarpe. «La porta è chiusa, dobbiamo scavalcare». Quel fare iniziava a indispettirlo. «Scavalca tu, io faccio il giro». «Perché, hai paura di smagliarti le calze?». «No, ma la guardia m’ha detto chiaramente che io nel villaggio non posso entrare». «Ascolta». Lo prese di nuovo per un braccio. «La guardia fa quello che dico io. E se io dico che tu sei con me, di problemi non ce ne sono». Non sapendo come le cose funzionassero da quelle parti, Dante decise di dar retta alla ragazza: il fastidio che il suo tono arrecava era senz’altro più sopportabile del vento freddo che si era improvvisamente alzato dal mare. Attraversarono in tutto silenzio l’intero villaggio, costeggiando campi da tennis, piscine, bar, anfiteatro e ristorante. Entrarono nella hall e vi uscirono proprio di fronte al guardiano. Che, invece che ammonirlo per non aver seguito le sue indicazioni, sorridendo gli disse che «hai visto che t’ho trovato un tetto dove passare la notte?». Lo ringraziò, riprese la borsa
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e si diresse verso un complesso di villette dall’altra parte della strada, una piccola estensione del villaggio dove risiedevano operai, animatori e personale dell’organizzazione. «Stanotte tu dormi qui». La ragazza, di cui non sapeva ancora il nome, gli indicò un piccolo stanzino, una specie di grande ripostiglio all’interno del quale erano sistemati un letto e un armadio in lamiera. «Poi, alle prossime notti penseranno quelli del personale». La ringraziò e, prima di congedarsi, le disse buonanotte. «Ah», riaprii la porta, «io mi chiamo Dante». Non ricevette risposta. Il lungo viaggio e la scomodità dei sedili sfondati della A112 di Lucio avevano ridotto a pezzi la sua schiena: scrollò giusto la sabbia che era ancora rimasta appiccicata ai piedi e, senza neanche spogliarsi, si appoggiò al letto. Stava per spegnere la luce quando la ragazza del motorino, vestita solo da un inutile – data la totale inconsistenza del suo petto – reggiseno nero, riaprì la porta. Fu un attimo: gli slacciò la cintura, abbassò, senza sfilarli del tutto, i pantaloni e lo stesso fece con le mutande. Iniziò a menarglielo fino a che non gli venne duro, dopodiché se lo infilò dentro senza neanche aspettare di essere sufficientemente bagnata. Gemette rumorosamente quando arrivò ad averlo tutto dentro e poi prese ad ancheggiare con grande impeto, avanti e indietro, velocemente, come se scopare uno sconosciuto, in quel momento, fosse la cosa più normale del mondo. Dante assisteva del tutto passivo alla scena: la sorpresa era tale che non trovò la forza di opporsi allo stupro estemporaneo che stava vivendo. Che poi, per quale motivo avrebbe dovuto opporsi? Perché? Il sesso era ciò che voleva da quando imparò della sua esistenza: perché avrebbe dovuto rifiutare l’accogliente calore di quelle labbra depilate? Non disse una parola, se non per avvisarla quando era prossimo a venire. Lei, ansimando, rispose che prendeva la pillola. «Ce l’hai un fazzoletto?». Dante non aveva del tutto finito di venirle dentro che lei era già in piedi a rovistare nella valigia appoggiata per terra. «Sì, tieni». Tirò su i jeans, mise la mano in tasca ed estrasse un pacchetto di Kleenex. Lei si asciugò lo sperma che le stava colando tra le cosce, si diede una sistemata ai lunghi capelli e gli si avvicinò. Dante pensava che volesse baciarlo, invece gli strinse le guance tra il pollice e l’indice della sua mano destra e lo minacciò: «Io sono la ragazza del figlio del boss. Se dici a qualcuno, anche a una sola persona, di quello che è successo, sappi che vai a finire dritto dritto sotto a qualche metro di terra». Lo guardò, per la
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prima volta da che erano entrati in casa, negli occhi. «Capiscisti?». Lui si liberò facilmente della sua presa e la ribaltò sul letto. I ruoli si erano invertiti. La ragazza cercava di svincolarsi, ma lui la scosse violentemente per le spalle fino a che non si quietò. «Senti, io non so chi cazzo sei, non so neanche come ti chiami. Sei venuta nel mio letto e mi hai scopato. Non so perché tu l’abbia fatto, ma ormai non si può tornare indietro. Io sto muto, perché sono venuto qui per lavorare, non per farmi ammazzare. Ma vedi di andartene affanculo lontano da me». Adesso era Dante ad alzare la voce. «Hai capito?». La ragazza girò la testa e iniziò a piangere silenziosamente. Il contrasto tra la rabbia di qualche minuto prima e le lacrime che scorrevano lungo il suo viso era inquietante. «Scusami… è che… ero a una festa col mio ragazzo e… e mentre stavo ballando con delle amiche il bastardo è andato a scoparsi una troia di cubista e…» i singhiozzi le impedivano di respirare «e io l’ho beccato. Gli ho tirato uno schiaffone mentre si slinguava nel cesso quella puttana e poi me ne sono venuta via. E… e mi sono vendicata delle corna scopandomi te». Le era ancora sopra. Lasciò la presa per passarsi le mani tra i capelli. Chiuse gli occhi. «Adesso è meglio che me ne vada a letto, perché lui potrebbe arrivare». Lo guardò. «Sai, anche lui lavora qui. Quella» e indicò la stanza di fronte «quella è la sua stanza». Sembrava tutto surreale. «Mi raccomando, non una parola» lei disse. Si alzò, chiuse la porta e se ne andò a dormire. «Ah, io mi chiamo Teresa. Chiamami pure Terry, se vuoi».
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Sedici del figlio del boss Non provò neppure ad addormentarsi: l’adrenalina che di volta in volta aveva trasudato nello scavalcare i cancelli di San Siro erano gocce di impalpabile rugiada se confrontate all’esondazione nervosa che stava vivendo in quei precisi attimi. Le gambe, come argini divelti dalla furia della natura, gli tremavano ancora. Impossibile quindi prendere sonno, anche se dormire era la cosa di cui il suo corpo aveva più bisogno. Andò in bagno, chiuse a chiave per paura di ulteriori sorprese e si fece una doccia. Pensava a quello che gli era appena successo e si diceva che se anche quei tre mesi di Calabria si fossero consumati senza nessun’altra emozione, beh, qualcosa da raccontare ai suoi amici l’avrebbe comunque avuta. Non immaginava certo che la sua prima volta con una donna si potesse consumare proprio in quel modo, ma non è mai stato un cultore della forma. Aveva scopato, finalmente. E questo era ciò che più contava. Quando riaprì la porta, fasciato da un asciugamano che avvolgeva una trentina di centimetri tra torso e cosce, si trovò di fronte un ragazzo. Non molto alto e pure piuttosto tarchiato; con una bottiglia di birra da tre quarti in mano, tenuta per il collo e nascosta non proprio così bene dietro la schiena. «E tu che cazzo ci fai qua dentro?». Dante gli porse lentamente una mano, in maniera molto cordiale. Con l’altra teneva l’asciugamano affrancato al corpo ancora bagnato. Quello doveva essere il figlio del boss. «Ciao, mi chiamo Dante». Non sapeva come spiegargli del ritardo del suo arrivo e dell’offerta d’ospitalità della ragazza del motorino. Rimase sul vago. «Mi hanno sistemato qui, per stanotte». «Ma come parli? Di dove sei?». «Sono di Milano». «Sei venuto qui in vacanza o cosa?». «No, sono venuto qui per lavorare. Al bar». «Ah, ho capito». L’espressione del volto del giovane cambiò repentinamente. «Tu sei il milanese di cui mi ha parlato Germano». «Esatto, sono proprio io». Gli allungò la mano. «Ciao, io mi chiamo Pasquale. Lavoro anch’io al bar». Appoggiò la bottiglia per terra. «Chi è che ti ha detto di venire a dormire qui?».
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Dante indicò con un cenno della testa, senza pronunciarne il nome, Teresa, che nel frattempo si era coricata. «Ah» fece lui «chi altri avrebbe potuto?». Uscirono dall’appartamento. «Ascoltami bene: quella è pazza. E’ una gran pezza di figa, è vero, ma è proprio pazza. E’ una ninfomane, sai, hai presente quelle donne che appena sentono odore di cazzo ci saltano sopra?». Sorrise goffamente. «Se te la vuoi scopare, scopatela pure. Fai però in modo che nessuno lo sappia, nessuno, altrimenti suo padre è capace di puntarti una pistola in faccia. E suo padre spara, sai, mica cugghunjia chiju ja». Doveva capire se fosse lui a cui Teresa faceva riferimento quando parlava del suo ragazzo. Il figlio del boss. «No no, vai tranquillo» disse Dante «ci tengo alla pellaccia. Piuttosto, non ho ancora ben capito come funziona il discorso dell’alloggio: cioè, uno si sceglie una stanza e ci va a stare oppure è la direzione a decidere?». «Allora. Per alcuni, diciamo quasi tutti, è la direzione a decidere. Per altri, invece, il discorso è differente». Pasquale si sorprese dell’imbarazzo che provava nel raccontare dei suoi privilegi. «Provo a spiegarmi meglio: qualcuno fa un po’ quel che gli pare. Gli altri, invece…». «Scusami, ma perché, allora, quella lì dorme nella tua stanza?». Doveva giocarsi il tutto per tutto, già che era ancora nuovo dell’ambiente e che l’imprudenza delle sue domande poteva essere tollerata. «Io la devo tenere sotto controllo, perché le nostre famiglie sono piuttosto legate. E immagino che tu sappia quanto sono importanti i rapporti tra le famiglie, qui in Calabria, no?». Si fermò un istante, a sottolineare con l’eloquenza del silenzio l’importanza di ciò che aveva appena detto. «Dorme nella mia stanza, quindi, così so che nessun coglione se la viene a scopare proprio a casa mia. Poi, quello che fa altrove sono cazzi suoi. Figurati che prima l’ho incontrata a una festa e non sai che figura di merda ho fatto con la mia ragazza: quella pazza mi si strusciava addosso proprio in sua presenza. ‘Sta cujjuna ha messo in giro la voce che stiamo insieme, quando penso di essere tra i pochi al mondo a non essersela mai scopata. Ma io mica sono scemo, sai, a mettermi con quella». Prese fiato. «Comunque, finita la settimana, se ne va da qui: i suoi si trasferiscono al nord e lei con loro». Sospirò. «Minchia, menomale. Mi sta tirando scemo». Minchia, menomale, ripeté silenziosamente Dante rientrando.
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Diciassette di luoghi comuni e tà tà tà Ahi la tiene Maradona. Lo marcan dos. Pisa la pelota Maradona. Arranca por la derecha el genio del futbol mundial. Puede tocar para Burruchaga. Siempre Maradona. Genio, genio, genio... tà, tà, tà... goooooooool... Quiero llorar... Dios Santo, viva el fùtbol! Golaaaaazooo... Diegoooool! Maradona... es para llorar, perdónenme. Maradona en recorrida memorable, en la jugada de todos los tiempos. Barrilete cósmico. ¿De qué planeta viniste para dejar en el camino a tanto inglés? Para que el país sea un puño apretado gritando por Argentina. Argentina 2, Inglaterra 0. Diegol, Diegol... Diego Armando Maradona... Gracias Dios. Por el futbol, por Maradona, por estas lágrimas... por este Argentina 2, Inglaterra 0. Victor Hugo Morales Accompagnato lungo i vialetti del villaggio proprio dalla ragazza del Personale che aveva dimenticato di avvisare la portineria del suo imminente arrivo - e per la qual cosa lei diceva di non sapere come scusarsi, inconsapevole di aver aiutato il destino a che si compisse ciò che poi è stato - spese la sua prima mezza giornata facendo conoscenza dei colleghi con i quali avrebbe passato l'intera estate, incapace, data la ripetitività dei nomi e dei tratti, di ricordarne anche solo la mansione; poi tra un ufficio e un altro, alle prese con registrazioni, libretti sanitari, vaccinazioni e, almeno sulla carta, tante regole da rispettare, alcune delle quali del tutto esagerate per quello che riteneva un incarico marginale come il suo. Stordito dalla notte insonne ma carico d’entusiasmo, inebriato dall’aver sentito il peso della verginità liberarsi nella leggerezza di un ricordo del quale non provava nessuna nostalgia. Tanto valeva andare a puttane con qualche anno d’anticipo, si disse in un momento in cui il sapore dell’appagamento non era forte quanto l’acre insoddisfazione per il modo in cui era stato scritto un capitolo
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indimenticabile della sua esistenza, ma tra questo pensiero e un franco vaffanculo passarono solo pochi attimi, niente di più. Perché anche se a distanza di ore, nessun odore sembrava potersi sostituire a quello del sesso della sua improvvisata amante, nessun sole poteva essere più caldo del ricovero nel quale era stato accolto la notte prima. Si sentiva alla stregua di un cacciatore che torna a casa con una preda uccisa da altri, regalatagli dal caso e non dalla precisione della sua mira, ma sapeva bene che l’unica vera priorità era sfamarsi. Vaffanculo, dunque. Vaffanculo! Nel pomeriggio prese servizio al bar, affiancato proprio a Pasquale. Nell’immaginario di chi non ha mai toccato con mano, all’epoca lui per primo, il figlio del boss avrebbe dovuto avere le fattezze dello spaccone strafottente cui la ragione consiglia di stare a debita distanza. Pronto a tutto, pericoloso e imprevedibile come gli avevano insegnato attendibili leggende o supposte verità. Ma lui era diverso, e non solo con Dante: i ragazzi lo trattavano come se fosse uno qualsiasi del gruppo e questo anche quando non si parlava di faceto. Anche quando si toccavano le note dolenti. Quando alle gesta del Pibe de Oro o ai seni di procaci ospiti del villaggio si sostituivano pizzi, morti ammazzati e intimidazioni, quando l’imbarazzo per la fotografia del padre in manette, che il Corriere del Mezzogiorno pubblicava a giorni alterni, lo faceva sentire simile più alla gazzella che nasce cosciente di una vita senza pace che al leone che non avrebbe mai scelto di essere. In quelle occasioni neanche il “tà tà tà” di Fernando riusciva a riportarlo alla serenità e questo rendeva evidente a tutti coloro che gli stavano accanto quanto profondo fosse il dolore che stava provando. Il “tà tà tà” di Fernando era il ricordo di Maradona, il suo unico dio, e del gol che nessuno, se non lui, avrebbe immaginato di poter segnare. Della telecronaca di Victor Hugo Morales vissuta in diretta, a Buenos Aires, ospite di uno zio esiliatosi oltre oceano per rifuggire la condanna cui le attività di famiglia l’avevano inevitabilmente condotto. Parole illuminate a cui l’immortalità di un gesto atletico fuori dal comune ha regalato i tratti della poesia. Fernando, suo cugino, aveva deciso di lasciare gli stenti di un’Argentina da poco liberata dalla dittatura militare per abbracciare il sogno delle sue origini. Scelse l’Italia e l’unica reale opportunità per dare un senso a una vita che di giorno in giorno si faceva sempre più precaria. Scelse di prendere lo stesso volo che avrebbe riportato Pasquale in Calabria e l’unica opportunità professionale in cui il coltello serviva solo per tagliare
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a metà i limoni che una macchina avrebbe poi trasformato in granita. Portò con sé lo stretto indispensabile e tra i pochi oggetti un’audiocassetta su cui aveva riversato i settantuno secondi in cui la voce del periodista uruguagio prestato dalla sorte alla televisione argentina ha commentato un gol che non è solo calcio, ma la storia di una rivalità politica che proprio pochi anni prima aveva acceso la miccia di una pericolosa guerra. Un nastro che il walkman di Pasquale non si stancava mai di riprodurre e che Fernando recitava a memoria con la solennità di un mantra, caratterizzando ogni singolo passaggio al punto tale che conoscere lo spagnolo e il significato letterale di quelle parole diventava un inutile dettaglio. Anche nei momenti di maggior disagio Pasquale seppe dimostrarsi un buon collega e un amico affidabile: Dante poteva sempre contare su di lui ogni volta avesse bisogno di un passaggio in paese oppure di cambiare un turno. Come quella sera che lo accompagnò a Catanzaro a incontrare un amico in visita forzata al parentado d’origine calabro-albanese. E dove conobbe Caterina.
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Diciotto di Sergio «Oh, vediamo di non fare la fine dell’ultima volta che siamo usciti con delle tipe». Distolse senza indugio, sebbene molto a malincuore, lo sguardo dalle due ragazze che avevano momentaneamente lasciato il tavolo per l’immancabile visita di coppia alla toilette. Assaporava, convinto che fosse solo una questione di tempo, il piacere che avrebbe provato sostituendo le sue mani alle tasche di dietro dei loro jeans attillati; percepiva addirittura sui polpastrelli la consistenza di tanta stagna grazia quando quella ridicola frase rinnovò tutti i suoi dubbi circa la compatibilità di concetti quali il successo con le donne e la presenza di Sergio. Nonostante fosse più che abituato al nonsenso della maggior parte delle sue parole, Dante non riuscì a trattenersi dall’eruttargli addosso la sua consueta dose d’insulti. «E a me lo vieni a dire, pezzo di pirla che non sei altro?». Sgranò ancor più gli occhi, inferocito come difficilmente riusciva a essere. Si era sforzato di non parlare più di quella storia, ma questa sua uscita non poteva passare sotto silenzio. La musica del jukebox era molto alta e poté permettersi di urlare senza il timore che qualcuno li sentisse. «Chi è che ha mandato tutto a puttane, brutto coglione?». A volte Sergio sembrava autistico per quanto sconnesso dalla realtà. Di certo, una delle sue più grandi preoccupazioni era avere l’ultima parola, vizio che Dante non ha mai saputo comprendere né sopportare. Ma Sergio era un amico e Dante gli voleva bene a prescindere dalle manie di protagonismo che, ai suoi occhi, lo facevano sentire diverso dall’imbranato fatto e finito che tutti vedevano. «Te l’avevo detto che non potevo rimanere tutto il pomeriggio, ma tu hai voluto continuare. E poi lo sapevi bene che a me quelle due cozze pelose non interessavano». Fossero stati a Milano, Dante l’avrebbe mandato a fare in culo e se ne sarebbe andato via. Per giunta, senza pagare la sua birra media. Il tutto nel pieno rispetto della loro amicizia, ma sarebbe andato via. Per poi richiamarlo il giorno dopo come se nulla di strano fosse mai successo, ma sarebbe andato via. Perché le due cozze in questione non erano affatto tali. E perché Dante era anche riuscito a ridurle in mutande e reggipetto con un improvvisato strip poker prima che Sergio se ne uscisse con quell’impegno improrogabile. Gliela stavano per servire senza troppe formalità, ma lui seppe mandare tutto a monte. Anche quella volta. Si
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limitò dunque a insultarlo ripetutamente, un vaffanculo dietro l’altro senza neanche ascoltare cosa dicesse, fino a che non si accorse che le ragazze stavano uscendo dal bagno. Le eiaculazioni precoci di Sergio – il sospetto più plausibile era quello – e i suoi ridicoli tentativi di mistificare non sarebbero stati d’aiuto. «Avete voglia di andare a mare?» chiese Caterina e Dante non aspettò che Sergio dicesse loro, come aveva già fatto con lui, di non aver pensato al costume. Rispose subito di sì, affrettandosi a prevenire ogni probabile obiezione. Salirono sulla Uno del padre di Sergio, lui davanti con Veronica, Dante dietro con Caterina. Al resto pensarono i ferormoni, e già prima che si arrivasse alla spiaggia. Il vento che quell’estate soffiava costante consigliò loro di lasciar perdere il bagno e di occupare le prime ore del nuovo giorno in modo diverso. Prendendo coscienza, nel bene e nel male, dei segnali del proprio corpo. Inequivocabili espressioni che, di lì a breve, avrebbero dato un senso diverso alle loro vite.
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Diciannove di rabbia e, forse, amore Tutte le famiglie felici sono simili le une alle altre; ogni famiglia infelice è infelice a modo suo. Lev Nikolaevic Tolstoj – Anna Karenina Suo padre lo aveva chiamato la sera prima, informandolo dell’imminente partenza per le vacanze: diretti a Palermo, i suoi avrebbero potuto concedersi una piccola pausa e passare una mezz’ora insieme al loro unico figlio, che non vedevano da diverse settimane. Erano di strada, si diceva, mentre il padre lo tediava elencandogli i controlli a cui aveva sottoposto la macchina prima di un viaggio così probante, e una deviazione di pochi chilometri non gli avrebbe portato via troppo tempo. Non ci fu però nessun accenno a questa possibilità: gli disse che si sarebbero fermati a Taurianova a trovare i parenti di suo nonno, ma l’idea di un caffè in sua compagnia non li aveva evidentemente sfiorati. Il passato era un immenso contenitore debordante occasioni in cui avrebbero potuto stargli vicino, alle quali hanno sempre preferito la noia di una canasta o impegni che non potevano essere importanti quanto il desiderio di condividere momenti unici della sua adolescenza: mai presenti alle recite scolastiche, mai una visita durante le colonie estive, mai una volta che fossero andati a fare il tifo per lui quando girava la Lombardia nella speranza che il suo miglior salto fosse più alto di quello degli avversari di turno. Non si spiegava il perché di un tale distacco e non sapeva se avrebbe avuto senso palesarlo. Si limitava a soffrirne, in silenzio, auspicando che un giorno arrivassero a capire e ad agire di conseguenza. E che quel giorno fosse prossimo a venire. Fu per questo che, quando un collega lo avvisò di una visita nel momento più caotico del dopo cena, l’idea che i suoi gli avessero fatto una sorpresa lo eccitò. Incurante di quella che sarebbe stata la dura reazione del capo bar, si affrettò a raggiungere la hall; non rimase però granché stupito quando s’accorse che ad attenderlo non vi erano loro. Era Caterina. Si era già detto pronto a dimenticare tutti gli episodi che alimentavano da anni il suo malcontento, a ricondurre tutto alla fisiologica necessità di prendere fiato dopo dure giornate di lavoro sulla catena di montaggio, ma non ebbe modo di farlo. Aveva però un buon motivo per rivolgere altrove i propri pensieri. «Cosa ci fai, te, qui?». Si sentiva ridicolo con quella
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divisa, che gli ricordava più gli stracci di un mozzo d’altri tempi che una tenuta da barista. «Avevo voglia di rivederti…». Dante sorrise e sfiorò i suoi lunghi capelli castani fino a carezzarle una guancia. «Io sto lavorando, e ne avrò ancora fino a mezzanotte». «Non ti preoccupare, ho detto ai miei che stanotte dormo da Veronica». Dante passò tre ore visibilmente distratto dal pensiero che lei fosse lì ad aspettarlo, dopodiché la raggiunse e le fece fare un giro per il villaggio. Bevvero qualcosa insieme al Piano Bar e poi andò a togliere la divisa. Pensava sarebbero andati sulla spiaggia, ma l’accoglienza e la riservatezza del suo stanzino li indussero a passare i loro momenti abbracciati stretti sul letto. Non successe niente di particolarmente interessante da raccontare, ma Dante era felice. Felice che qualcuno gli dimostrasse di essere importante. Si addormentarono. L’indomani si fece lasciare il suo indirizzo e il numero di telefono, promettendole che sarebbe presto andato a trovarla.
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Venti di amore perso e di amore ritrovato La verità è che non era la profondità dei suoi sentimenti ad attrarlo a Caterina al punto da mollare tutto e trasferirsi in Calabria, quanto l’idea che fosse ritornato a nutrire emozioni per una donna che non fossero necessariamente riconducibili alla pulsione sessuale. Da quando Marina morì, infatti, e nonostante all’epoca fosse giusto un ragazzino, non riuscì mai a provare sincere passioni nei confronti delle ragazze con le quali gli capitava di avere un rapporto che trascendesse l’amicizia. Desiderava solo baciarle, toccare il loro corpo, sentirsi all’altezza di tutti i ragazzi che andavano a spasso mano nella mano con la morosa. E scoparle, ovviamente. Cercava nelle donne un medicamento che potesse aumentare la poca stima che aveva di sé e uno strumento che fosse in grado di mascherare l’insicurezza di ogni suo passo. Mai vero coinvolgimento. Per di più, di un rapporto stabile non sentiva la necessità e ancora meno era disposto a rendere conto delle proprie azioni a qualsivoglia persona. Cercava leggerezza e riusciva a trovarla solo nella superficialità di una serata in discoteca, voleva sesso ma non era affatto incline alla pazienza. Il perché di questo approccio potrebbe essere presto spiegato, e senza andare troppo lontano nel tempo: la morte della persona che ami quando hai solo tredici anni è un evento che ti segna. E questo può essere un perché, evidente al punto tale da non farti spingere oltre nell’analisi. Sentiva però che c’era dell’altro, ma non aveva ancora sufficienti elementi per comprendere. L’offerta di Caterina ebbe la forza di azzerare totalmente i pregiudizi che condizionavano i suoi rapporti con l’altro sesso: la prospettiva di una vita indipendente e di un rapporto adulto aprì nuovi scenari a un futuro che non aveva immaginato potesse essere così prossimo. La fiducia che lei gli dimostrava e le costanti attenzioni di cui lo faceva oggetto lo indussero a provarci, a cercare motivazioni che non fossero banali come quelle che lo avevano fin lì mosso o limitato. Sebbene le fondamenta del sentimento non fossero radicate quanto la razionalità del suo pensiero avrebbe voluto, la prospettiva di qualcosa di importante lo aiutò a essere finalmente spontaneo, liberando tutto ciò che aveva scientemente represso. Sapeva che un solo mese di frequentazione, anche se parecchio intensa, non poteva essere sufficiente per arrivare a prendere quella decisione, ma scelse di lasciarsi trasportare dagli eventi e da ragioni a lui del tutto nuove. Si trasferì.
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Ventuno Semifinale Lacchiarella, il ricordo della sconfitta prima ancora della consapevolezza di ritornare nella palestra in cui si è materializzata la svolta. Lo spogliatoio sotto le scale, lo stesso nel quale i ragazzi hanno scelto di indossare, indifferenti al suo mesto epilogo, la maglietta celebrativa di una vittoria che non c’è stata, non sul campo, non in quella partita senza ritorno giocata quasi un anno prima. Il momento in cui la tristezza per una finale persa non poteva sottacere l’aver vissuto insieme un’esperienza che avrebbe saputo lasciare un segno indelebile sul loro futuro, in cui due rigori calciati malamente hanno dato più di quanto non avrebbe mai potuto regalare un pezzo di latta modellato sulle linee tondeggianti di una coppa. Un’illusione smascherata un attimo prima che si tramutasse in un’ingannevole verità, una promessa la cui unica condizione era la volontà di crederci. Tornano a Lacchiarella le Mine Vaganti, per disputare la semifinale del campionato provinciale contro un avversario di cui non sanno nulla, se non il nome. Con una sola certezza, l’essere finalmente una squadra. Con una personalità che mai avevano dimostrato di avere, con la capacità di imporre a ogni partita i ritmi a loro più congeniali, con la continuità per arrivare a giocarsela sempre fino in fondo. Un’identità. Roba che non si trova nel sacchetto delle patatine, tanto meno scritta tra le pagine di un manuale. Che nasce, per caso o forse no, quando il gruppo sceglie di mettersi nelle mani di una sola persona, l’unica deputata a parlare mentre ognuno vorrebbe dire la sua. A mediare e prendere decisioni. Una persona che, con alle spalle un passato di allenatore, sì, ma di pallacanestro, non ha una vera esperienza calcistica se non quella maturata sul campo, con loro, prima di infortunarsi nel tentativo di difenderne la porta. Con il buonsenso di anteporre il gruppo ai risultati e il divertimento alla vittoria, assegnando responsabilità ma allo stesso tempo sminuendo gli errori dei singoli, ottenendo in cambio il meglio da ognuno di loro. Il Lofa passeggia ai margini del campo, un occhio ai suoi compagni e l’altro ai ragazzi con la scritta Bogside sul petto. Che hanno vinto senza grandi affanni il loro girone e altrettanto facilmente il quarto di finale. Sono in undici, sono tanti, e dovrebbero avere più ossigeno da spendere dei sette in rossoblu. Anche se - di questo il Lofa ne è convinto nonostante
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il carattere empirico della sua teoria - non potranno mettere in campo l’intensità che le soventi sostituzioni tendono a far scemare. Nel calcio a 5 due o tre cambi sono sufficienti. Quattro sono già troppi. A lui piace pensarla così e i risultati della stagione regolare ottenuti contro compagini più numerose forse non lo dimostrano in maniera ineccepibile, ma non lo possono affatto negare. Ami è ancora debilitato dall’influenza e non se la sente di andare a referto. Non fa comunque mancare il suo rumoroso sostegno, seduto in tribuna affianco a Mario, che ha dato un seguito alla sua promessa. Gianlukakà resta anche stavolta una speranza vana, ma per la qual cosa non può essere condannato: ha parlato chiaro all’inizio della stagione e il rimpianto di vederlo in campo solo di rado è metabolizzato da tempo. Il quintetto di partenza, pressoché obbligato per dare un minimo di senso alle rotazioni, prevede Asto tra i pali, il Borla e Forrest sulle fasce, Jimmy in mezzo alla difesa e il Capitano come terminale offensivo. Più che le loro giocate, però, è la tensione a scrivere la cronaca della fase iniziale della partita. La tensione che ognuno di loro vive in modo diverso ma che si traduce con rara sistematicità in una reiterazione di errori, dai più grossolani ai più preoccupanti. In una barriera piazzata male che costa il vantaggio avversario, nell’incapacità di tenere la propria posizione, nella foga di volere recuperare subito lo svantaggio, nel prendere iniziative fuori da ogni logica. Il risultato, non fosse che gli avversari non hanno saputo approfittare delle enormi lacune mostrate su entrambi i versanti, avrebbe dovuto essere ben più severo dell’uno a zero su cui si chiude il primo tempo. «Perché continuate a far di testa vostra? Non lo capite che così facciamo il loro gioco?». Le parole spese nel preparare la partita si sono dimostrate vane e i problemi apparentemente annegati negli abissi del passato sono tornati d’attualità. Inspiegabilmente, perché il confronto, almeno sul piano tecnico, sembra sbilanciato a favore delle Mine Vaganti e la sola tensione non può quindi giustificare venti lunghi minuti in cui in campo si è visto l’esatto contrario di quello che i ragazzi si erano ripromessi di fare. La frustrazione di un allenatore, in questi frangenti, raggiunge lo zenit: l’atmosfera è rarefatta, ma l’esperienza è ossigeno. Insistere è l’unica strada percorribile. «State tranquilli, non abbiate fretta, manca ancora tutto il secondo tempo. Se fra una decina di minuti siamo ancora sotto, allora ci giochiamo il tutto per tutto. Ma per il momento dobbiamo continuare a credere che la partita si possa vincere come sappiamo noi. Con le nostre
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armi. Con la difesa e la ripartenza. Chiusi. Senza correre rischi». Il Lofa prende per un braccio il Capitano. «Oh, guarda che questa non è mica la Playstation! E’ tutta la partita che te ne vai in giro per il campo senza dare un riferimento ai compagni. Devi stare profondo, cazzo, ti devi portare via un difensore. Altrimenti non c’è spazio per muovere la palla a centrocampo». «Lofa, se non mi arriva una sola palla giocabile, allora me la vado a prendere io». «Ma è ovvio che non ti arrivi, sei sempre nel posto sbagliato! Sempre. Tu fai quello che devi e vedrai che gli altri sapranno dartela al momento giusto». Lo scosse per il braccio, il braccio che non aveva ancora lasciato da che gli si era rivolto. «Non è un caso se con Dado in campo e te in panchina abbiamo creato qualcosa di più. Mettitelo in testa, non è un caso». Il Capitano, sensibile a quel ritornello solo quando con le spalle al muro, annuì silenziosamente e così il Lofa si prese qualche secondo per concludere. Senza far riferimento agli avversari, ribadendo per l’ennesima volta concetti ancora ridotti allo stadio della teoria. «Jimmy, smetti di chiamarli alti, altrimenti i laterali si ritrovano con l’attaccante sempre alle loro spalle. Dobbiamo guardarli in faccia i nostri uomini, non devono esserci dietro». Continuò a spronarli, uno a uno, fino che gli arbitri non comandarono la ripresa. I primi minuti del secondo tempo sono la cartina di tornasole degli stati d’animo delle due squadre: da una parte l’inevitabile forcing di chi si trova a rincorrere, dall’altra la necessità di spezzettare il gioco e togliere ritmo all’avversario. Gestire bene, dal punto di vista psicologico, i primi cinque minuti equivale a mettere un’ipoteca davvero importante sul risultato finale. Tant’è. Pareggio immediato e altri quattro gol nel giro di dieci minuti. La partita è archiviata e il 5a2 finale rispecchia con discreta fedeltà la netta differenza dei valori espressi nel secondo tempo. «Capitano, cosa facciamo, rimaniamo a vedere la seconda semifinale?». Asto, come sempre l’ultimo sotto la doccia, la butta lì. Non è dato sapere se per scherzo o se perché realmente interessato. «Ma sei fuori?, muoviti a lavarti che poi ci andiamo a bere una birra!». Il Capitano cercò, trovandolo, il consenso degli altri. «Tanto, vincere o perdere dipende solo da noi, no?».
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Ventidue di supposte paternità «Cioè, tu metti incinta una ragazza che frequenti da… diciamo un paio di mesi e io dovrei pensare che hai il pieno controllo della situazione? E’ questo che mi stai dicendo, bigolo che non sei altro?». Il limite tra ironia e sarcasmo, cinismo e sottinteso è spesso ambiguo. Troppo, a volte, per riuscire a comprendere il senso di un’affermazione o per coglierne, senza equivoci, le reali intenzioni. Le mezze verità di Egidio, evasive quanto basta per dimostrarsi sincere ma anche il suo esatto contrario, si prestano in maniera sorprendente al gioco delle chiavi di lettura. In cui il giudizio, se non innocente, si maschera facilmente con l’incomprensione. «Stavolta io non c’entro un cazzo, Edi. Te lo giuro davanti a dio». «Ah sì, adesso vuoi vedere che è colpa mia?». «Davvero, Edi, credimi, non è colpa mia». Persuaso dall’apparente garbo del fratello, Claudio si affrettò a chiarire. «Il ginecologo dice che l’effetto contraccettivo della pillola viene meno nel caso si prendano determinati farmaci. Alcuni antibiotici, ad esempio. E così è stato, bastarda di una merda». Egidio non disse nulla per qualche secondo. Scuoteva la testa, il buio degli occhi chiusi illuminato da un sottofondo di bestemmie urlate silenziosamente. Il colpo aveva lasciato il segno. «Barbara vuol tenerlo, allora?». «Sì». «A tutti i costi?». «In che senso?». «Nel senso che è disposta a portare avanti la gravidanza anche senza il tuo appoggio?». Claudio si prese qualche istante prima di rispondere. «Edi, questo è uno scenario che non prendo neanche in considerazione. Io sono il padre del bambino che le sta crescendo dentro e non ho intenzione di lavarmene le mani». Il punto di rottura sembrava molto prossimo ad essere raggiunto. Di nuovo. «Hai da insegnarmi qualcosa anche in questo senso?». «La risposta te la sei data da solo…». «Ma dai, raccontami allora. Non sapevo che avessi dei figli…». «Non è necessario avere dei figli per arrivare a capire determinate cose. Tu ne sei l’esempio». «Eh?!».
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«Non penso di sbagliarmi quando dico che essere padre vuol dire crescere una creatura, educarla. Non semplicemente concepirla». «In altre parole mi stai dicendo che, oltre che mio fratello, ti consideri pure mio padre?». «Sì, per certi versi, sì». Claudio si produsse in una risata teatrale, sulla cui totale assenza di spontaneità Egidio non nutriva dubbi. «Non fare lo scemo, sto parlando seriamente».
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Ventitre di Masco In piedi sotto una pensilina a ripararsi da un freddo del tutto inatteso e che, incurante della logica alternanza delle stagioni, ha trasformato i giorni più miti di inizio autunno in un saggio dell’inverno che è ancora lungi dall’arrivare. Almeno per il calendario. Un libro in mano nell’attesa dell’autobus, gli occhi a scandire parola per parola il racconto che fino a un paio di settimane prima lo entusiasmava come pochi, ma che nel contingente non riesce a distrarlo dai pensieri che occupano esclusivi la sua mente. Legge, ma non c’è parola o frase che riesca a sovrastare l’estenuante sottofondo che risuona nella sua testa: la voce ovattata di un noto cantante, di cui non ricorda il nome, rimbalza da un emisfero all’altro del suo cervello ripetendogli che This is the end, beautiful friend, this is the end, my only friend, the end. D’altri tempi avrebbe fatto di tutto per dare un volto a quella voce. E per scoprire il titolo di quel brano. Questa volta no. Questa volta non gli frega proprio un cazzo né di lui, né del suo gruppo e ancora meno di quella maledetta canzone. L’anatema che gli ha lanciato va ben oltre l’apparenza di un’infausta cantilena e il messaggio di cui si fa portatore gli impone, senza mezzi termini, una scelta: accettarne le lusinghe o combatterle strenuamente. La consapevolezza della sua incertezza è più di una mezza risposta e il pensiero della resa non lo spaventa come dovrebbe. E’ di questo che ha veramente paura. L’autobus arriva e, sebbene fossero già saltate due corse, il conducente spegne il motore e si dirige compassato verso il chiosco all’angolo della strada, incurante del vociare della gente che aspetta infreddolita da oltre mezz’ora. Masco sale e, nonostante l’assembramento, trova un seggiolino libero su cui sedersi. Di fronte a sé un ragazzino sudamericano con due cuffie enormi alle orecchie, dal volume alto e in parte nascoste da un cappello di lana a maglie larghe, azzurro, senza visiera; chiude il libro, che comunque non riusciva a leggere, e tira fuori dalla borsa il lettore portatile, cosciente che gli sarebbe servito non tanto per distrarsi, quanto per evitare il fastidioso ronzio hip hop che echeggia intermittente in quell’atmosfera già di per sé satura di rumori. John Mayall, la sua personale medicina per i mali del cuore, non è efficace come in tante altre occasioni. Giusto il tempo di realizzarlo – il piede immobile nonostante l’assolo di chitarra di Good Times Boogie – che gli occhi gli si velano di un leggero strato di lacrime: non è per via del
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fastidioso vento che entra dalle porte ancora aperte, ma per il pensiero di doversi separare da suo figlio. La fragilità del compromesso su cui era fondato il matrimonio con Cristiana e la sua inevitabile instabilità hanno obbligato lui e la moglie a equilibrismi logoranti. Che nel tempo, esaurita la passione di un rapporto molto intenso, hanno tolto a entrambi la speranza in un futuro migliore. Un futuro che da qualche giorno s’è fatto presente. Lontano da suo figlio. Senza Patrizio. L’autobus finalmente parte. Il triste squallore della periferia milanese sembra lo scenario più adatto al disagio che sta silenziosamente vivendo. Campi di grano bruciati dal prematuro gelo, le baracche lungo il Lambro e il far west delle case popolari. Il traffico dell’ora di punta sulla tangenziale e poi, dopo il rosso di quell’interminabile semaforo, la sua fermata. Entra in casa, a dargli il benvenuto solo Rufus, il suo vecchio cane. Lui scodinzola eccitato e per qualche istante la sua piacevole accoglienza lo rinfranca. Toglie il giubbotto, lo butta su una sedia e si sdraia per terra, supino. Mani davanti agli occhi, sente la rabbia fluire per tutto il corpo e materializzarsi in vortici di invisibile aria che sfoga, veemente, dal naso. Si alza di scatto e comincia a girare nervosamente per la stanza, poi va in camera e prende a calci ogni oggetto si trovi sulla sua strada. Perde il controllo dei nervi. Piange fiumi di amaro veleno e urla il suo dolore incurante di quello che possono pensare i vicini. Soffre, consapevole che alla sua disperazione non c’è rimedio. Questa volta è davvero finita. Mortificato, va avanti nel suo delirio incontrollato alla ricerca di una soluzione che non c’è. Fino a che, esaurite le energie nervose, si appoggia sul letto e, senza neanche accorgersene, si addormenta. Si risveglia dopo un paio di ore, in preda a un forte mal di pancia. Un fuoco intermittente pervade le sue viscere, stavolta non in senso lato. Si siede sul cesso, ma i suoi sforzi producono solo rumore, niente più. Prova a mangiare qualcosa e così, lentamente, il dolore si attenua fino a diventare un semplice fastidio. Si sente più calmo rispetto a prima. Accende l’ennesima sigaretta di una giornata in cui ha ecceduto anche nel fumare e cerca un motivo che lo possa distogliere da qualsiasi pensiero. Prova con la televisione, ma spegne dopo aver constatato che nessuna di quelle idiozie avrebbe potuto distrarlo. Di ascoltare della musica non ha proprio voglia, nemmeno di leggere. Ha bisogno di qualcosa che sappia strappare con decisione le catene che lo obbligano a vagare come un folle intorno al nulla, ma non sa proprio dove rivolgere le proprie attenzioni. Un salto al bar potrebbe essere un’idea, ma nello stato in cui si trova non ha
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certo la forza di parlare o anche solo la voglia di ascoltare. Decide di portare giù il cane, nella speranza che il freddo possa in qualche modo scuoterlo. Al rientro, dopo circa un’ora in giro per i giardini della zona, si accorge che nella cassetta della posta c’è una busta. Non è la banca che comunica che i tassi del mutuo sono stati nuovamente rialzati. Né una bolletta e nemmeno una pubblicità. Sul retro trova scritto a mano un nome che gli suona vagamente familiare. Entra in casa. Ero a tavola, assorto nel guardare la televisione. Non ricordo quale programma in particolare: dato l’orario, probabilmente un cartone animato. Non feci quindi caso ai rumori che provenivano dal portone, rumori che invece furono chiaramente colti da mio padre. Troppo decisi, quei colpi, per passare inosservati. Almeno per un adulto. Lui mi chiese di alzarmi e di andare a vedere cosa stesse succedendo in cortile e così mi affacciai al balcone e vidi Marina in una pozza di sangue. Sapevo che tu e Dante eravate lì con lei, ci eravamo da poco salutati prima che io mi sedessi a tavola, ma di voi due non vi erano tracce. Eravate voi a scuotere il portone nella speranza di riuscire a scappare da quell’inferno. Siete stati voi a richiamare l’attenzione di mio padre. Ancora sul balcone, mi girai e dissi che «a Marina esce il sangue dal naso» e così mio padre si precipitò a vedere con i propri occhi. Appena si rese conto di quello che stava succedendo mi urlò di andare dentro e, dopo aver detto qualcosa a mia madre, senza neanche vestirsi, corse giù. A piedi nudi. E’ stato lui a soccorrere Marina per primo mentre mia madre chiamava il 113. Non capivo. Avevo nove anni e non sapevo che potessero accadere certe cose. Ho sentito le urla della Paola e poi le voci che si sovrapponevano progressivamente mentre il cortile si affollava di gente richiamata dal trambusto e dalla sirena dell’ambulanza. Immaginavo stesse succedendo qualcosa di grave, ma non trovavo il coraggio di affacciarmi e guardare. Mio padre mi aveva detto di stare in casa e io, mosso dal terrore che avevo letto nei suoi occhi, obbedii ligio. Poi, non ricordo quanto tempo dopo, lui è tornato su. Era scosso. Tremava. Gli occhi ancora lucidi. La sua canottiera e i suoi calzoni corti erano completamente intrisi di sangue. Le sue mani, la sua faccia, le sue gambe. Sangue dappertutto. Mi spiegò cosa era successo.
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Avevo nove anni e non sapevo che potessero accadere certe cose. Masco, immagino tu sappia che la piazza, allo stato attuale, è un cantiere aperto. I lavori, che tanto ho sollecitato da che mi sono insediato nel consiglio di zona, dovrebbero terminare alla fine di ottobre e per il 9 novembre è prevista l’inaugurazione. Saranno presenti alcuni rappresentanti del comune e in quell’occasione verrà esposta una targa in memoria di Marina Vannucchi. La nostra amica Marina. Mi piacerebbe rivederti dopo tanto tempo. Rivedere te e i ragazzi con i quali siamo cresciuti. L’appuntamento è per le ore 14:30 davanti al bar. Un abbraccio, Lino Cavenaghi
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Ventiquattro Finale Una finale non è solo una partita di calcio, una finale è molto di più. Una finale è innanzitutto il sogno a occhi aperti che non ti vergogni di fare nel momento in cui decidi di iniziare qualcosa, qualunque cosa essa sia. Un sogno che tieni per te e basta, che ti appartiene in modo del tutto esclusivo, che non si cura dei sillogismi della logica materiale. Nel caso specifico, la finale è il punto più alto da raggiungere in una competizione agonistica. Così come lo è pubblicare un disco per un aspirante musicista o organizzare una mostra per un pittore alle prime armi. E’ un obiettivo ambizioso, smaccatamente immodesto per quanto infondato, ma è anche un modo di dimostrare a te stesso tutta la tua determinazione. E’ fiducia incondizionata nelle tue capacità, è il desiderio di dar tutto ciò di cui ti senti in grado. Voglia di fare bene, volontà di alimentare l’entusiasmo di cui non puoi fare a meno. Alla finale dedichi i tuoi pensieri fino a che non ti trovi obbligato ad affrontare le difficoltà del contingente, perché non puoi permetterti di distoglierti un solo istante, non uno, dalla realtà. La finale si presenta dunque come un sogno, ma ben presto assume i tratti infidi della distrazione. Della sensazione di aver perso di vista il vero obiettivo. Della paura di rimanere deluso, di aver caricato di troppe aspettative il tuo lavoro. Spaventato ma non per questo meno risoluto, decidi di vivere alla giornata e di sputare sangue a prescindere da quello che sarà il risultato finale. Perché hai imparato che dare il meglio di te in qualunque cosa tu faccia è sempre una vittoria. Partita dopo partita la speranza di centrare il tuo obiettivo si fa concreta. Vinci il tuo girone e poi anche i quarti di finale. Il triplice fischio dell’arbitro sancisce la fine della semifinale e ti riporta indietro nel tempo fino al giorno in cui, guardandoti allo specchio, hai visto l’immagine riflessa di un volto sconosciuto ma allo stesso tempo familiare che, con una voce molto rassicurante ti diceva di non farti condizionare dalle tue ricorrenti e ingiustificate nevrosi, di provarci. Un volto che, finale dopo finale, ti somiglia sempre di più e che, con i fatti, rivendica le proprie ragioni.
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La finale è quindi l’attesa che il sogno si compia. Un’attesa che ti riempie delle vibrazioni di cui il quotidiano è avaro e che, proprio in ragione di questo, vorresti durasse all’infinito: per continuare a sperare mentre il cuore ti batte forte esattamente come se tu fossi lì, in campo, ma senza correre il rischio, tempo quaranta minuti, di piangere il tuo fallimento. Perché di finali ne hai già perse e perché sai che di fronte al dolore il sogno è un azzardo con il quale potresti non voler più incrociare la spada. La finale finisce quando ha inizio la contesa: il campo ha la forza di cancellare qualsiasi emozione, ti libera dall’attesa e ti consegna a una partita che, dopo tutto, è una partita come nei hai giocate a centinaia in piazza con gli amici, in corridoio durante il quarto d’ora d’intervallo, a piedi scalzi su una spiaggia assolata oppure sull’erba bruciata di un parco di periferia. Il campo restituisce l’immagine di quello che realmente sei e le Mine Vaganti dimostrano sin da subito tutta la loro determinazione. La loro ultima sconfitta, arrivata proprio per mano del Precotto e con ben nove gol di passivo, è un incidente di percorso maturato quando ormai i giochi erano fatti, un incidente comunque dimenticato. Iniziano arrembanti i cinque del quintetto di partenza e sviluppano una gran mole di gioco: arrivano in più di un’occasione a un passo dalla segnatura, ma sulla loro strada trovano un portiere in stato di grazia, che tiene in linea di galleggiamento i suoi giovani compagni con grandissime parate. Col passare dei minuti l’ardore dei rossoblu si spegne progressivamente, fino a che l’equilibrio non prende il sopravvento. Il primo tempo sembra essere in dirittura d’arrivo, quando il Borla impiega un istante più del dovuto nel lasciare la marcatura dell’uomo che, dalla sua fascia, si stava defilando in una posizione non pericolosa. Un solo istante sarebbe stato sufficiente per uscire in tempo sul capitano dei gialloverdi ed evitare che questi scoccasse col mancino il tiro che si insacca alla destra di un incolpevole Asto e sul quale si chiude la prima frazione. I ragazzi sono sparpagliati di fronte alla loro panchina, in piedi, lungo la linea laterale. Parlano, ascoltano il Lofa, si danno consigli reciproci, bevono dell’acqua oppure liquidi acidi dai colori sintetici. L’unico distante è il Capitano, mani in faccia, seduto a pensare a come sia possibile venire a capo di una partita senza giocare, badando sempre e solo a non correre rischi per poi ripartire. Stufo di sacrificarsi in quel ruolo di boa offensiva che, risultati alla mano, serve solo a prendere un fallo, un calcio d’angolo o una rimessa. Palesemente in contrasto con le indicazioni del Mister, ma
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anche questa volta zittito dalle evidenze. Lui non vuol proprio farsene una ragione, ma il dubbio si è insinuato anche nella sua di testa: questo è uno sport in cui vince chi ne prende uno di meno, non chi ne fa uno di più. Un’evidenza che, per un attaccante, è penalizzante come la catena per un cane. Ma lui di quella squadra è anche il Capitano e lui quella cazzo di coppa la vuole per sé. Abbandona i suoi propositi e si unisce ai compagni. Proviamoci, si dice, non ci sono alternative. Lo svantaggio non fiacca le velleità delle Mine Vaganti, che ritemprate dai cinque minuti di pausa riprendono le ostilità con lo stesso piglio con cui le avevano iniziate. [Un fallo] Su un lancio lungo di Asto, il Capitano si trova a contatto con il suo diretto avversario che, vistosi superato, gli si attacca alla maglia e commette fallo un passo fuori dall’area di rigore. Sulla conseguente punizione il Capitano finge il tiro e la tocca piano per Jimmy, che non ha difficoltà a insaccare il gol del pareggio. Il momento sembra propizio e le Mine Vaganti cercano di approfittarne con un’iniziativa del Borla, sulla quale l’angolo che lui stesso rivendicava non trova però l’avallo dall’arbitro. [Rapide ripartenze] Il contropiede degli avversari è immediato e due tocchi di palla sono sufficienti per arrivare davanti alla porta e battere nuovamente il portiere rossoblu. [Una rimessa laterale] In questi frangenti lo scoramento nel vedersi nuovamente sotto nel punteggio nonostante lo sforzo profuso potrebbe cambiare il corso della partita, che viene infatti raddrizzata solo grazie al mestiere del Capitano, abile a trasformare un’innocua rimessa laterale nel gol del secondo pareggio. [Un calcio d’angolo] Nonostante il gran numero di cambi a disposizione, l’impressione è che entrambe le squadre siano in debito d’ossigeno e al 3a2 segnato da Gianlukakà su angolo calciato da Ami segue subito il 3a3 che il Precotto realizza proprio sugli sviluppi di un calcio da fermo. La complicità di Jimmy e Gianlukakà sulla segnatura avversaria è evidente. Si ricomincia ancora daccapo e ora più che mai ogni errore, con pochi minuti ancora da giocare, potrebbe scrivere il destino della partita. [Non correre rischi] Su una rimessa laterale di Jimmy, è infatti un controllo velleitario di un difensore gialloverde a consegnare la palla al sinistro di Dado, che calcia con violenza e insacca proprio sotto la traversa. Precotto deve necessariamente alzare il baricentro e lascia molto
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campo a disposizione delle Mine Vaganti, che si trovano a giocare sul terreno a loro piÚ congeniale. Lancio lungo di Asto per il Capitano che segna dopo aver aggirato il proprio marcatore e poi ancora una sgroppata sulla sinistra di Dado che, dopo aver scartato un avversario, passa a Forrest il pallone del definitivo 6a3. Gli sguardi smarriti dei ragazzi del Precotto autorizzano a festeggiare la vittoria ben prima che l’arbitro sancisca la fine delle ostilità : non era un sogno, ma un presagio. Le Mine Vaganti sono Campioni Provinciali.
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Venticinque di regali indesiderati «Avevo la tua età quando mi hanno regalato te e i tuoi cinque anni. E’ per questo che vorrei che la vita ti offrisse qualcosa di meglio, perché so cosa vuol dire sacrificare tutto, davvero tutto, per una decisione presa da altri». «Tu ti devi fare curare». «E perché mi dovrei far curare, eh?! Perché t’ho detto che fare un figlio, per una coppia, è una decisione da prendere insieme? E’ per questo che dovrei farmi curare?». «Ma vaffanculo, va». «Oh, ma vaffanculo cosa? Vaffanculo cosa?!». «Ma vaffanculo a te e al tuo cinismo di merda. Al tuo aver sempre una risposta pronta e che debba per forza essere all’opposto di quello che pensa il resto del mondo». «Perché, il resto del mondo cosa pensa?». «Ma vaffanculo, va». «Oh, pezzettino di merda, rispondimi. Dimmelo, avanti. Dimmi cosa pensa il resto del mondo! Dimmelo!». «Il resto del mondo pensa che in certi momenti il proprio egoismo si debba mettere da parte. Specie quando c’è di mezzo una donna che ami e quello che sarà tuo figlio». «Egoismo? Ma chi è che ti sta obbligando a diventare padre contro la tua volontà, eh? Chi è che ha fatto casino con la pillola, tu o lei? E poi, non essere ridicolo, cazzo ne sai te dell’amore? La conosci sì e no da un paio di mesi quella, come puoi pensare di…». «Tu devi farti curare». «Dove cazzo vai, vieni qua». «Mollami il braccio». «Non fare il coglione, siediti». «Perché dovrei sedermi? Perché dovrei continuare ad ascoltare le stronzate di uno che mi considera un peso per la propria vita, eh?». «Sai perché devi sederti, lo sai perché? Perché certe decisioni le devi prendere con la testa. Perché certe decisioni condizioneranno ogni singolo giorno della tua vita. Per questo devi ragionare, per questo ti devi sedere e provare a ragionarci su un attimo. Per questo. Vieni qui, non fare il pirla».
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Ventisei della piazza «Al posto dei muri della Borletti, le sue immense finestre con le grate contro le quali giocavamo a pelota e gli spuntoni sul tetto della mensa che ci bucavano i pantaloni quando andavamo a recuperare palline o palloni, al posto di tutto questo ora c’è lo sfarzo del Grand Hotel Marriott, le sue bandierine colorate, i marmi pregiati, il rame luccicante. Cinque stelle e non meno di quattrocentomila lire a notte, roba che i nostri genitori avrebbero dovuto lavorare una settimana intera per poterci dormire una notte. Al posto degli operai ci sono turisti e uomini d’affari, al posto delle famiglie d’immigrati ora ci sono calciatori, musicisti e presentatrici TV. Aiuole ben curate, cestini sempre vuoti, l’altalena e il cavallino con la molla». «E… e allora? Di cos’è che ti lamenti?». «Di cosa mi lamento? Sai di cosa mi lamento? Mi chiedo, ad esempio, dove possono giocare i bambini. Insieme intendo, mica ognuno su una giostrina diversa. Mi chiedo dove possono giocare a pallone. Mi chiedo dove corrono i cani. Dove pisciano, se non per terra. Dove cagano, se non dove poi tu ci appoggi i piedi». «Cioè, tu vuoi dirmi che preferivi lo schifo di prima? Che quando pioveva la piazza rimaneva allagata per giorni e che d’inverno non si poteva respirare per il fumo che la Lalla faceva con i suoi fuochi?». «Ah, la Lalla, giusto. Ma com’è che nessuno ha mai saputo chi ha ammazzato la Lalla? Com’è che ha vissuto per una decina d’anni in piazza e poi, misteriosamente, appena è stato aperto ‘sto grand hotel di ‘sto gran cazzo la Lalla è stata misteriosamente uccisa?». «Senti, Alfredo, non mi scassare la minchia a gratis. Che cazzo ne so io della Lalla…». «Sai che non esiste neanche un fascicolo sulla morte della Lalla? Neanche uno». «E perché non c’indaghi tu, ispettore Zenigata dei poveri?». «Fanculo Lino, non hai ancora capito un cazzo». «Sì, ora che lavori in Polizia hai capito tutto tu». «Perché, c’è qualcosa che non va col mio lavoro?». «Ci mancherebbe altro. E’ che ti preferivo com’eri prima, quando ti fumavi il dado che il figlio del padrone del bar ti spacciava per Pakistano di prima qualità…».
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«Guarda che quello che c’aveva sempre il fumo pacco eri tu, bello…». «Sì, sì… senti, ci vediamo più tardi. E’ arrivato il Sindaco, devo andare».
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Ventisette delle Mine Vaganti Giacomo ha ripreso a parlare. Prevalentemente da solo, dal momento che l’odio che prova per il genere umano non lo rende una persona di piacevole compagnia. A volte inciampa su qualche sillaba, ma si rialza facendo finta di niente. Egidio ha saputo amministrare con sorprendente criterio la dote lasciatagli dai genitori e oggi, a quindici anni dalla loro ascetica partenza, si trova nella condizione di poter vivere di rendita senza farsi mancare nulla. Colleziona lauree e a tempo perso insegna l’italiano agli stranieri di una comunità laica di sostegno all’immigrazione. Claudio, a differenza del fratello, ha lasciato dopo pochi esami l’università e si occupa di compravendita di fumetti e pubblicazioni d’annata. L’amore che nutriva per Barbara non era forte come immaginava e dopo l’aborto spontaneo con cui si è conclusa l’inaspettata gravidanza le loro strade si sono separate. Alfredo ha scoperto che la sua pulsione verso i drogati era più che un banale espediente per passare le ore di religione: si è arruolato in Polizia e dopo i primi quattro anni di ferma volontaria è riuscito a ottenere il trasferimento nella sezione narcotici. Federico e Mauro si sono entrambi sposati e vivono di lavoro, pay TV e domeniche nei centri commerciali. Per vincere la noia del quotidiano si sono inventati rigattieri e svuotano gratis cantine e solai: la speranza è di poter alimentare la loro collezione di oggetti vintage, specie riviste, meglio se erotiche. La verità è che la fredda bellezza di Gloria Guida e la sensuale femminilità di Laura Antonelli sono tuttora gli ingredienti base delle loro migliori erezioni. Dante è tornato dalla Calabria e continua a non incontrare una sola ragazza di cui innamorarsi veramente. Inizia però a compiacersene, già che passare da un letto all’altro non gli è poi così sgradito. Sergio, negli anni, ha compreso che il suo problema con l’altro sesso ha un nome che non può prestarsi al dubbio: omosessualità. Non è tipo da parate, ma non fa nulla per nascondere i suoi costumi. Masco, scosso dalla separazione, oltre che moglie e figlio ha perso pure il lavoro. Quel ritornello, se possibile, gli risuona per la testa ancor più che prima. Quanto meno, ha realizzato che la voce è di Jim Morrison.
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Giacomo, Egidio, Claudio, Alfredo, Federico, Mauro, Dante, Sergio e Masco hanno risposto alla chiamata di Lino Cavenaghi e il 9 novembre si sono fatti trovare puntuali in piazza. Davanti al bar, insieme a qualche decina, forse un centinaio, di persone. Tra cui Franco, il padre di Marina, letteralmente irriconoscibile rispetto agli ultimi giorni che passò tra le lamiere del chiosco prima di riprendersi dallo shock della tragedia. Una cicatrice sulla nuca è tutto ciò che gli rimane di quel paio d’anni di deriva, almeno all’apparenza. Gli abbracci, le strette di mano, i tanti chili, i pochi capelli. Le mogli, i figli e le domande sugli amici di un tempo che Lino non è riuscito a rintracciare. La cerimonia, le autorità e poi i tavolini del bar che non riconoscono più come il posto in cui avevano passato gran parte della loro adolescenza. Tante parole e i racconti di tante vite. Poi, quando il momento dei saluti sembrava giunto, Federico propone agli amici di partecipare a un torneo di calcio a 5 di cui lui è organizzatore. «Dai ragazzi, mi manca una squadra e non so proprio dove sbattere la testa. Sono sette partite, una alla settimana per meno di due mesi. Giochiamo tardi, anche alle dieci se non riuscite a liberarvi prima. Il calendario lo gestisco io e posso venire incontro a qualsiasi necessità». Si fecero tutti pregare. Alcuni anche troppo, specie Giacomo. Ciò nonostante, Federico riuscì a comporre la squadra. Una squadra che non poteva avere nessuna velleità, ma la loro squadra. Ognuno col proprio ruolo, un po’ come accadeva una ventina d’anni prima quando si incontravano per andare a giocare a Trenno la domenica mattina. Vestiti di una maglia rigorosamente rossoblu. «Hai già pensato anche al nome?» chiese qualcuno nell’eccitazione del momento. «Ovviamente» rispose Federico. «O meglio: nel nome vorrei che fossero essere presenti una “M” e una “V”. E non c’è bisogno che vi dica a cosa quelle due lettere fanno riferimento. Se non riusciamo a trovare qualcosa che ci piaccia, beh, il nostro nome potrebbe essere MV». Fece una pausa. «Eh? Che ne dite?». Nessuno ebbe nulla da obiettare: MV oppure una parola composta contenente le due lettere. «Mine Vaganti» fece Giacomo, rompendo il silenzio in cui si era isolato da qualche minuto. «Mine Vaganti» dissero tutti, alzando in un brindisi quel che restava nei loro bicchieri.
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Al volante della propria utilitaria lungo la strada che l’avrebbe riportato a casa, Sergio continuava a interrogarsi sulla ragione che ha portato a quelle due lettere. Nonostante paresse a tutti evidente al punto da non necessitare di spiegazioni, lui non aveva affatto capito che “M” e “V” erano le iniziali di Marina Vannucchi. Ci arrivò solo dopo qualche tempo. E solo per caso.
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Ventotto Cartelline Rosse E adesso - mi chiedevo ieri notte girando la chiave nella serratura della porta di casa - e adesso? Entro in punta di piedi, facendo il possibile affinché Monica e Astrid non si distolgano dalla loro veglia ormai prossima al capolinea, accendo la luce dell’ingresso e, nel togliere la giacca, svuoto le tasche; per le mani mi capita il referto arbitrale che, come mia abitudine, poco dopo pinzo alla distinta degli avversari. Apro la cartellina rossa in cui ho custodito tutto il materiale del campionato invernale e v’infilo l’ultimo ricordo della stagione. La finale. La vittoria. L’emozione che più di ogni altra volevo provare dal momento in cui ho ricevuto il calendario del campionato. La vittoria. E adesso? Beh, mi dicevo, adesso potrò prendere la cartellina e riporla nell’armadio in cui accatasto tutte le mie cartacce. Non mi serve più averla sempre con me: adesso è il momento di pensare al campionato primaverile ed è inutile che continui a portarmela nello zainetto. Pesa per quanto piena, fa molto volume e, banalizzando anche oltre ogni ragionevole limite, non mi serve più. Indugio stranito a quel pensiero, e quasi mi condanno per quanta poca considerazione io stia avendo per la cartellina che contiene sette mesi pregni di grandi gioie e solo lievi dolori, sette mesi di sempre intense emozioni vissute con i miei compagni. Mi spavento anche, se devo dirla tutta, nel chiedermi se tutto può realmente esaurirsi così: quanti i pensieri per arrivare a questo momento, quante le notti spese a sognare di vedere il Capitano alzare la coppa? E io, io sono così scellerato e insensibile da farne una mera questione di cartelline? La risposta al dichiarato paradosso di questa domanda è ovviamente no, la risposta è un’altra. Che non risiede certo dentro una cartellina, ma che con le cartelline ha comunque a che fare. Perché – facciamo finta che sia un gioco, proviamo a vederla così - la cartellina è un pezzo di vita. Un pezzo di vita di chi, come me, è alla perenne ricerca di emozioni. Emozioni che solo raramente si traducono in una coppa alzata al cielo, ma emozioni che ti fanno sentire vivo. Che ti distolgono dal quotidiano. Che ti fanno venire il batticuore ogni volta che la tua mente ti porta a
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spasso per sentieri tanto impervi quanto possibili, per te che comunque ci vuoi sempre provare. Ci pensi bene, per quanto nelle tue capacità, e alla fine ti dici che sì, il bello sta proprio nel chiudere una cartellina e riaprirne subito dopo un’altra. Senza pause, se non quelle fisiologiche di un’esistenza fatta di passioni ma soprattutto di doveri. Sempre distante da divano, telecomando e televisione. Sognando, e dandoti la concreta speranza che i tuoi sogni possano diventare realtà. Cosciente che il cercare, arricchito da un immenso e indissolubile corollario di emozioni, è meglio che trovare. Per farla breve: voi, ragazzi, mi avete dato modo di cercare. Mi avete fatto vivere. Mi avete fatto sognare. E mi avete regalato la gioia di dire che sì, stavolta ce l’ho fatta. Voi non avete nemmeno idea di quanto ve ne sarò grato. Per sempre. Sì, per sempre. Perché lo spazio per le cartelline rosse non è infinito e ogni tanto qualcuna la prendi e la getti via. Ma non di certo questa cartellina rossa. Scritto dal Lofa, venerdì 21 aprile 2006, sul blog delle Mine Vaganti.
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Ventinove di tempi grami La spensieratezza e l’assoluta leggerezza che hanno sempre contraddistinto l’approccio alla competizione di ognuno dei ragazzi – ragazzi si fa per dire, vista la non più giovane età di alcuni di loro - sono venute meno nel momento in cui le Mine Vaganti hanno deciso di iscriversi al campionato d’Eccellenza, un gradino superiore rispetto alla competizione vinta l’anno precedente. Al divertimento fine a sé stesso, alla birra del dopo partita e alla scusa per star fuori almeno una volta alla settimana senza l’ombra di mogli figli o fidanzate hanno dovuto necessariamente anteporre un obiettivo, seppur di modesta portata. E il loro proposito, a parte il rinnovato piacere di passare una serata insieme, altro non era se non la salvezza. Una stagione di apprendistato che nelle loro intenzioni sarebbe servita per verificare quanto lecite potessero essere le ambizioni a qualcosa di più appagante e in un futuro comunque non troppo remoto. Con l’aiuto del rientrante Casa, che dopo un paio di anni sabbatici ha ripreso a vestire la numero 2 alla quale Cel ha preferito il Softball. Gli inizi hanno dato segnali decisamente incoraggianti: sconfitta di misura all’esordio, pareggio alla seconda contro un’ottima squadra e poi due vittorie di fila. L’obiettivo non poteva certo cambiare dopo sole quattro giornate, ma la sensazione era che lo si potesse raggiungere con una facilità di gran lunga superiore a quanto ipotizzato. Un vero abbaglio. Un filotto di sei sconfitte consecutive li ha repentinamente riportati con i piedi per terra e oggi, a quattro giornate dalla fine, l’ottimismo dei tempi migliori ha lasciato il passo al rude aspetto della realtà: sebbene con un solo punto di svantaggio rispetto a chi li precede, oggi le Mine Vaganti occupano il terzultimo posto della classifica. Se così finisse, la retrocessione non sarebbe evitata. Sono anche i giorni in cui Diego Armando Maradona sta affrontando una delle tappe più dure della sua personale via crucis, ammantato dalle maddalene dei tempi moderni e – sembra - prossimo al ricongiungimento con il padre. Il figlio del dio calcio sta spogliandosi della sua aura e, senza la dignità che da un messia ti aspetti, sopravvive suo malgrado al richiamo della morte.
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Trenta di Franco In un contesto scientifico il fenomeno si rappresenta utilizzando la formula PE = mgh. Dove PE sta per energia cinetica e mgh è il prodotto di massa, forza gravitazionale e altezza. Un solido di massa pari a un chilogrammo, in caduta libera da venticinque metri di altezza sviluppa, in virtù della costante di gravitazione universale (9,8), una quantità di energia cinetica che al momento dell’impatto lo porta ad avere una forza di 245 Joule (1 x 25 x 9,8). Questo sta a significare che quell’oggetto, in meno di tre secondi (tempo di caduta), vede aumentare la propria forza fino a moltiplicarne il peso di 245 volte. A tale conclusione si è giunti grazie al contributo di un eclettico alchimista vissuto a cavallo tra il diciassettesimo e il diciottesimo secolo, all’anagrafe Sir Isaac Newton. Che con l’elaborazione della seconda legge della dinamica ha spianato la strada ai discendenti colleghi che ne hanno poi perfezionato i calcoli. Fino a giungere all’assunto PE=mgh. Nella realtà dei fatti, i 245 chilogrammi/forza sono concentrati in una mazzetta del volume di 50 centimetri cubici. Un chilo di indistruttibile ferro che, dopo aver assunto una traiettoria del tutto casuale, interrompe la propria corsa penetrando nell’emicranio sinistro di una bambina di tredici anni. Nessuno mai, se non per effetto del caso, sarebbe stato in grado di centrare un bersaglio così distante con un oggetto di così contenute dimensioni. Nessuno. A eccezione del destino, che ha fatto in modo che quel martello si dividesse in due parti: il manico stretto saldamente nella mano destra dell’inquilino dell’ottavo piano che stava applicando una zanzariera sul proprio balcone di casa, la mazzetta a testa arrotondata a volare nel vuoto. Senza una meta apparente. Semplicemente cadendo. Il cambiamento di moto è proporzionale alla forza risultante motrice impressa, e avviene lungo la linea retta secondo la quale la forza è stata impressa. Sangue misto a materia cerebrale che fuoriesce copioso senza soluzione di continuità. Tua figlia, prona e priva di sensi, con la scatola cranica sfondata da un martello che giace lì, indifferente, a pochi centimetri. Tua moglie che gira la bambina, se la stringe forte al petto come una puerpera, la scuote nel tentativo di risvegliarla. Urla straziata. Grida il suo nome. Sviene. I condomini affacciati con le mani tra i capelli, incapaci di tutto
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tranne che di provare pietà. Gli sconosciuti che accorrono richiamati dal tuo dramma. Ti senti soffocare. Preghi nella speranza di risvegliarti sotto le lenzuola del tuo letto. Ma non ti sei mai addormentato. Arriva l’ambulanza e non appena Marina viene distesa sulla lettiga, Franco crolla. Chiude gli occhi per l’ultima volta. Non riuscirà più a farlo nelle tre settimane a venire. In una quindicina di giorni l’ematoma si riassorbe e i medici risvegliano la bambina dal coma farmacologico nel quale era stata mantenuta per preservarne le residue capacità cerebrali. Cosa ne sarà di lei? Sopravvivrà, innanzitutto? Se sì, ritornerà ad avere una vita normale oppure, come più volte paventato, rimarrà paralizzata? I pensieri si accavallano e ogni giorno nasce una nuova preoccupazione. Marina reagisce però bene e dopo due mesi di costante miglioramento i medici ne autorizzano le dimissioni. Il tempo e la forza di volontà faranno il resto. Gli ultimi esami e poi un’ultima notte in ospedale. Il risveglio nel buio di una luminosa giornata di sole. La cecità, figlia di un’infezione che insorge improvvisa. La morte nel volgere di un tramonto e un alba. Franco sente di non essere in grado di superare il castigo che gli è stato riservato dalla sorte: non mangia, non dorme, non va più a lavorare. Passa giorno e notte camminando in giro per la città, non torna più a casa, non è nelle condizioni di realizzare che, così facendo, accresce ulteriormente il dolore della moglie e della figlia maggiore. Franco si sta lasciando trascinare dalla disperazione. Franco non trova un solo valido motivo per sopravvivere alla sofferenza. In un momento di rara lucidità prova il suicidio lanciandosi dal tetto del primo stabile che incontra sulla propria strada dopo aver litigato per una panchina di cui arrogava irragionevolmente la proprietà, ma a pochi metri dal suolo il suo corpo rimbalza sulle corde dello stendibiancheria del primo piano e, attutito l’impatto, lo schianto gli procura solo alcune fratture. Il ricovero in ospedale serve giusto per restituirgli qualche chilo, non certo la sanità mentale. Riprende a vagabondare, a frugare nei cestini alla ricerca di croste di pizza e bibite avanzate, a dormire dove più gli aggrada. Viene alle mani con altri barboni per un pezzo di cartone, prende calci pugni e bastonate da chi non lo vuole vedere seduto davanti alle vetrine del proprio negozio, diventa silenziofobico.
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Un giorno, guidato dal caso, torna in piazza e, trovato un ricovero sufficientemente ospitale, decide di stabilirsi. Il chiosco verde che la merciaia ha abbandonato per un più confortevole negozio è senz’altro adatto a ripararlo dalle rigide temperature dell’inverno.
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Trentuno Ventunesima giornata «Servono nove punti, non uno di meno. E se qualche squadra molla il colpo prima del dovuto, ad esempio chi sta nel limbo di metà classifica, potrebbero addirittura non essere sufficienti. Ma se vogliamo sperare di salvarci, delle prossime quattro dobbiamo vincerne almeno tre. Non abbiamo scelta». Estrae le tessere dalla cartellina rossa e segna sulla distinta, a penna, i numeri di maglia. «Gente, se non vinciamo oggi sono cazzi amari…». Il Lofa è seduto su una panchina dello spogliatoio del palazzetto dello sport di Locate Triulzi. Cerca di motivare i compagni mentre raccoglie i documenti d’identità, nell’attesa che la vestizione venga completata e che Dado finisca di spalmarsi il quadricipite della gamba destra d’olio canforato, Prozac per muscoli stanchi non ancora rassegnati all’idea che alla soglia dei quaranta la sofferenza è parte del gioco. Che la vera partita da vincere è quella che oppone lo spirito dell’indomito Peter Pan al fisico dell’Highlander che non c’è più. «Oh, avete saputo di Ami?». «Sappiamo, Capitano, sappiamo» risponde Jimmy. «Stamattina io e il Borla siamo andati all’ospedale a vedere la bimba. Troppo bella per somigliargli. Mi sa che la sua donna gli nasconde qualcosa, non trovi?». L’arbitro ha più volte sollecitato il riconoscimento, anche se manca oltre mezz’ora alle nove e mezza. Non bastasse il suo gratuito atteggiamento da represso caporale dai modi sempre indisponenti, lui, l’arbitro, è proprio quel vecchietto mezzo cieco che non prende mai decisioni, se non dopo le proteste dell’una o dell’altra squadra. Un vero controsenso visto il suo fare arrogante. I piedi incollati per terra e sempre, sistematicamente, nel punto meno indicato dal quale assegnare un fallo o decretare una rimessa. Un arbitro peggiore di questo non poteva essere convocato per una partita che si preannuncia molto accesa, vista l’importanza della posta in gioco. Forrest, infortunatosi un paio di settimane prima, è comunque a referto, anche se in veste di dirigente accompagnatore. «Stai sereno, Lofa, stasera Asto le prende tutte. E se perdessimo, beh, rientro io, battiamo Laboni e saldiamo il conto. Ci faccio su quello che vuoi…». Il Lofa sorride, Laboni non l’ha ancora battuto nessuno, quest’anno. Oltre a Forrest, all’appello manca Ami, fresco papà di Carolina. Ma, sempre che la sua vecchia Fiesta non l’abbia lasciato a piedi per campagne, dovrebbe esserci GianluKakà, nella speranza che la sua
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presenza non sia fine alle sole rotazioni socialiste dettate dal cronometro. Serve qualità e lui, se in serata, sa essere davvero determinante. Le formalità burocratiche, il riscaldamento, la presentazione delle squadre e infine il calcio d’inizio. La cornice di pubblico non è quella delle precedenti occasioni e tra le fila de Il Centro Sport A non è presente il tanto temuto attaccante che lasciò un segno indelebile sulla gara d’andata. Una bella notizia, almeno all’apparenza. Si parte con Asto tra i pali, il Casa in mezzo alla difesa, Jimmy e il Borla sulle fasce, il Capitano di punta. Dado sarà, come di consueto, il primo cambio. A ruota GianluKakà. Sempre che arrivi. La contesa ha inizio, ma le Mine Vaganti non sembrano accorgersene: in un crescendo di deliranti movenze dettate dalla sufficienza più insolente, in meno di quattro minuti la partita è sul 3a0 per gli avversari. Che fanno esattamente quello che vogliono, senza che vi sia il minimo ostacolo da parte dei rossi. Asto riesce anche a prendere un gol dalla trequarti avversaria. Trequarti di campo, sì, ma dell’altra metà del rettangolo di gioco. E’ un vero incubo. Il Lofa cambia Dado per il Capitano, che sta vivendo una di quelle serate in cui pensa di poter prendere palla a centrocampo, scartare tutti gli avversari e arrivare in porta. Dimenticandosi completamente della profondità e chiudendo ogni spazio per gli inserimenti dei compagni. Con l’aggiunta di GianluKakà in luogo di un impalpabile e spesso fuori posizione Borla, la partita sembra essere più viva e le occasioni iniziano ad arrivare copiose. Ma due volte il palo e tantissime parate dell’ottimo portiere avversario impediscono la segnatura. Culmine del ridicolo di un primo tempo che sembra tratto da una sceneggiatura dei fratelli Cohen, GianluKakà scambia l’arbitro per un compagno e gli passa la palla su un calcio d’angolo. Contropiede solitario degli increduli avversari e 4a0. Sotto di quattro gol, la partita sembra finita. E con lei il sogno della salvezza. La riaccende Jimmy con una punizione su cui si chiude un primo tempo molto lontano dalla soglia della decenza. «Ci stiamo giocando un intero campionato e voi vi permettete di scendere in campo con questo approccio?». Il Lofa è fuori dalla grazia del dio che non ha. «Se questo è il modo in cui pensate di giocare a pallone, allora è proprio vero che noi non siamo una squadra da campionato d’Eccellenza!». Nessuno fiata, una volta tanto, tutti coscienti della pochezza di quanto fatto fino a quel momento. «Adesso cerchiamo la palla e se ci vanno via troviamo un sistema per fermarli. E tiriamo fuori i coglioni, se ce li abbiamo».
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Complice un atteggiamento estremamente rilassato degli avversari, le Mine Vaganti riaprono la partita con due bei gol ancora firmati da Jimmy. Le cose si mettono decisamente meglio e con quindici minuti ancora da giocare un recupero, totalmente impensabile fino a poco prima, non è più un miraggio. Il 5a3 non intacca il morale dei nostri, che nel volgere di un minuto accorciano con un bel sinistro di Dado e pareggiano a quota cinque con il Borla. Mettono addirittura la testa avanti prima con il secondo gol del Borla e poi col quarto di Jimmy, ma in entrambe le occasioni sono due fortuiti autogol a fissare il punteggio sul 7a7. I tempi regolamentari terminano in parità e almeno uno dei tre punti previsti dalla tabella salvezza è definitivamente perso. Probabilmente due, stante la cronica incapacità di vincere ai rigori. Si presenta sul dischetto Jimmy, poi è il turno del Casa, GianluKakà, il Borla e infine il Capitano. E tutti insaccano, freddi o forse solo fortunati. Così come gli avversari. Sul 12a11 per le Mine Vaganti i padroni di casa devono calciare l’ultimo tiro. Lunga la rincorsa del dinoccolato numero dieci, che la spara violentemente a colpire la parte interna della traversa. La palla sembra varcare palesemente la linea di porta e poi uscire, ma l’arbitro decide che così non è. E decreta una vittoria insperata per le Mine Vaganti. In virtù dei risultati maturati dopo la decima giornata di ritorno, la classifica dice che Il Centro Sport B è già matematicamente retrocesso. Bogside ha 20 punti, APB Bernareggese 21, le Mine Vaganti 22 e Real Eagles 23. Ne scendono tre: a tre turni dalla fine, le Mine Vaganti sorpassano APB Bernareggese e si mettono temporaneamente al riparo dalle incandescenti temperature dell’inferno. Ma il loro calendario è ben più duro di quello dei diretti avversari e fino all’ultimo secondo dell’ultima giornata nulla sarà deciso. La tensione cresce e la zona calda della classifica si affolla come una tonnara. Perché anche Il Centro Sport A, con 26 punti, non può certo considerarsi al sicuro. Riflettevano proprio di questo il Capitano e il Lofa prima di salire in macchina. «Ma ci pensi, nel solo girone di ritorno ci siamo fumati non meno di sei punti sicuri. Già nostri, tipo i 3 con Villa Cortese e altrettanti contro Il Centro Sport B. Roba che eravamo già salvi, a quest’ora». Il Lofa è d’accordo col Capitano. «Vero, quest’anno non ce n’è andata una giusta. Speriamo che la fortuna si faccia viva per le prossime tre partite, perché puoi essere bravo quanto vuoi, ma con le carte lisce non si vince».
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Trentadue del Tango modello España La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. F. Basaglia «Cretino, non sei capace di tirarla un po’ più piano?». Il pallone, calciato con troppa foga da Mauro verso la linea invisibile che collega il cestino a un albero e che ne delimita la porta, è andato a incastrarsi proprio sotto il baracchino del barbone. «Adesso ci vai tu a prenderla!» gli urla Dante, che per comprare quel pallone in cuoio plastificato aveva dovuto investire l’intera paga settimanale e i risparmi delle mance di fine anno. Un Tango modello España, replica di quello utilizzato nel Mondiale che gli azzurri vinsero al Santiago Bernabéu il 11 luglio 1982. Non un banale Supertele. Mauro sapeva di non potersi esimere dal dare seguito all’ammonimento dell’amico: la regola, esplicita e indiscutibile, è che la va a prendere chi la tira. Altrimenti non gioca più, neanche se la sua presenza serve per non essere in dispari oppure per mantenere un minimo di equilibrio tra le squadre. Sbuffa, estrae due tre sassolini che gli si erano infilati in una scarpa e si avvia a testa bassa. Sa già che non sarà semplice riaverlo e sa anche che non potrà tornare senza. Non ha scelta. Ci deve quanto meno provare. «Franco, dammi il pallone». «No». «Franco, che cazzo, facci finire la partita e poi te lo prestiamo». Mente, ma non se ne bada. «No. Voglio giocare anch’io». «Franco, come fai a giocare con noi, dai…». «Voglio giocare anch’io». «Franco… dai… come fai a correre con la radiolina?». Il ritornello non cambiava di una sola virgola. «Voglio giocare anch’io. Voglio giocare anch’io. Voglio giocare anch’io…».
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Il ragazzo si voltò verso gli amici e fece capire loro che il pazzo non voleva saperne. «Cazzi tuoi» fu la risposta che si sentì rivolgere in coro. «O torni con la palla o non giochi più» aggiunse qualcuno. «Ascolta Franco» Mauro non sapeva proprio cosa inventarsi «noi giochiamo e tu…» all’improvviso la frase gli venne fuori così, spontanea, senza neanche pensarla davvero «e tu… e tu fai l’arbitro, ti va?». Franco ebbe un sussulto. «L’arbitro?». Aggrottò per qualche secondo le sopracciglia e poi, soddisfatto dell’inattesa conquista, esplose in un sorriso raggiante, ingenuo e allo stesso tempo scaltro. Era la prima volta che non minacciavano di prenderlo a sassate se non avesse restituito loro il pallone. Si girò e senza dir nulla abbassò la parete basculante del chiosco. Era pronto. Mauro riprese la stradina che l’avrebbe riportato agli amici, attento a non pestare le merde di cane che farcivano i pochi ciuffi d’erba sopravvissuti al gelo. Franco dietro di lui, il pallone saldamente stretto al petto e la volontà di consegnarlo solo dopo aver comandato la ripresa del gioco. Scoppiarono tutti a ridere nel sentire dalla viva voce di Mauro il compromesso a cui era giunto per riavere il pallone, tuttavia da quel giorno Franco divenne l’arbitro delle partite che la piazza ospitava. Senza eccezioni, se non quando erano i più grandi a sfidarsi. Non sempre – a dire il vero quasi mai - le sue decisioni venivano accettate come si converrebbe di fronte all’autorità del direttore di gara, ma la sua presenza era comunque divertente, specie se ubriaco. Con quella radiolina perennemente attaccata all’orecchio destro e, nella mano libera, un fischietto a sancirne il sommo potere. Prese ad appassionarsi al calcio, uno sport che non lo aveva granché entusiasmato neanche in gioventù e, uditi gli otto rintocchi nel giorno in cui le campane della chiesa si sostituivano alla sirene dalla Borletti, si metteva in marcia verso il campo a undici dall’altra parte della circonvallazione, dove passava l’intera domenica in un susseguirsi di partite la cui unica costante era la maglia arancione di una delle due squadre. Seduto sempre in disparte, studiava minuziosamente il comportamento degli arbitri e cercava di carpirne i segreti. Memorizzava i gesti e ne cercava di imitare le movenze. Li aspettava all’uscita dal campo e, dopo una pacca sulla spalla, rivolgeva loro sempre la stessa frase. Bella direzione di gara, collega, complimenti.
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Trentatre Ventiduesima giornata La partita giocata nel girone d’andata contro Millepini è stata lo spartiacque di due momenti diametralmente opposti della stagione delle Mine Vaganti: una prima metà perlopiù disastrosa, in cui il caso e le individualità hanno avuto la capacità di mantenere in linea di galleggiamento una classifica fortemente precaria, ingannevole al punto da alimentare le speranze di chi credeva di avere vita facile anche in un campionato di alto livello. Sottacendo capziosamente la palese incapacità del gruppo di mantenere il giusto atteggiamento a prescindere dall’avversario o dall’evolversi del punteggio. Mascherando attriti che solo l’inattaccabile affiatamento dello spogliatoio e la voglia di non darsi mai per vinti hanno saputo sminuire. Poi una svolta indispensabile quanto attesa, improvvisa per la forza con cui ha saputo manifestarsi: senz’altro meno punti di quanti non fosse legittimo attendersi dopo prestazioni decisamente all’altezza, ma partite giocate sempre fino in fondo e l’evidenza di meritare ben più dei saldi di fine stagione. Ora, ancora, Millepini. Squadra difficile e che, incontrata non meno di una decina di volte negli ultimi anni, li ha sempre, sistematicamente, sconfitti. Il campo di casa e motivazioni ben più stimolanti potrebbero rivelarsi decisive nel centrare l’unico possibile obiettivo: con le spalle al muro, ogni risultato diverso da una vittoria scriverebbe i titoli di coda della stagione. A referto i sette della scorsa partita, con Forrest ancora in borghese visto il perdurare dell’infortunio. Il collo del suo piede destro sembra però migliorare e un imminente recupero non è da escludere. Loro non sono numerosi come d’abitudine, ma i due migliori saranno comunque della contesa. «Meglio così» dice il Lofa a Jimmy prima di iniziare la partita. «E’ una settimana che maledico il momento in cui vi ho detto che quello forte del Centro Sport non era sulla distinta…». Lo affianca al trotto durante il riscaldamento intorno al campo. «Oh, li conosciamo alla perfezione, sappiamo bene come giocano: attaccano in tre se non in quattro, si sbilanciano e prestano il fianco alle nostre ripartenze. E il loro centrale è troppo lento per star dietro al Capitano o per evitare che Dado non lo bruci nello stretto. Fidati, se ce la giochiamo con la testa vinciamo noi».
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I primi minuti confermano paure e certezze del Mister: loro sono indubbiamente molto tecnici e dunque pericolosi su ogni giocata, anche se non in grado di coprirsi adeguatamente. Iniziano forte e mettono più volte in difficoltà la retroguardia rossoblu, in affanno nel sopperire alla vena difensiva non propriamente ispirata del Borla. A mantenere la rete inviolata ci pensa però un Asto in grandissimo spolvero, autore di parate determinanti. «Prima o poi un gol ce lo fanno» dice qualcuno in panchina all’apice della pressione avversaria, quando il Borla estrae dal cilindro un gol di pregevole fattura e regala una discreta dose di tranquillità. Asto continua a opporsi in ogni modo alle fiondate avversarie e Jimmy decide che è giunto il momento di arrotondare: due gol fotocopia dopo aver seduto a terra gli avversari e 3a0 rassicurante, anche se troppo prematuro per essere considerato definitivo. Siparietto demenziale che vede GianluKakà passare per la seconda volta in due partite il pallone all’arbitro, distrazione conclamatamente daltonica che anticipa di poco la temporanea doppietta del Borla, bravo a chiudere con una puntata una bella azione del Capitano. In pieno recupero, il 4a1 di Millepini tiene la partita ancora aperta a ogni risultato. Si riprende e un Borla decisivo più che mai restituisce l’assist al Capitano, che insacca al volo un grandissimo gol. Subito imitato però dal più temuto degli avversari, che da poco oltre la metà campo scaglia una fiondata che si insacca senza che Asto possa nemmeno accennare l’intervento. Loro non mollano, ma le praterie concesse nel tentativo di rimontare portano ancora il Borla a risolvere sotto porta e il Capitano a siglare il 7a2 dopo aver scartato anche il portiere. Il 7a3 arriva troppo tardi e i minuti finali sono una libagione a cui GianluKakà, il Borla, Jimmy e il Capitano non vogliono per nessun motivo sottrarsi. 11a3 il finale. Tre punti. La prossima contro Bogside è la partita che vale, sulla carta, la permanenza nel campionato d’Eccellenza. Vincerla non farà rima con matematica, è vero, tuttavia non è nemmeno ipotizzabile che i diretti concorrenti, tutti, sappiano contemporaneamente vincere contro avversarie che si stanno giocando l’accesso alla fase regionale. Non ci sarà il Borla e la sua mancanza si farà di certo sentire, al pari di quella di Ami. Ma torna Forrest e le sue lunghe leve potrebbero risultare decisive. Una sola partita. Quaranta lunghi minuti di sofferenza. Nell’attesa che il quadro della giornata venga completato, le Mine Vaganti superano temporaneamente Real Eagles, raggiungendo quota 25. Alle loro
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spalle ci sono oggi 5 squadre e Il Centro Sport A ha solo una lunghezza di vantaggio. Il tempo per i verdetti ha ancora da venire.
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Trentaquattro della radio a transistor Nel silenzio, l’ansia spingerebbe la gente a riflettere, e non si può prevedere che cosa arriverebbe alla coscienza. La maggior parte delle persone ha paura del silenzio, per cui quando viene meno il rumore continuo, per esempio di una conversazione, bisogna sempre fare, dire, fischiare, cantare, tossire o mormorare qualcosa. Il bisogno di rumore è quasi insaziabile, anche se a tratti il chiasso ci sembra intollerabile. E’ però sempre meglio che niente. In quello che viene significativamente chiamato “silenzio di tomba” ci sentiamo a disagio. Perché? Forse ci sono i fantasmi? Non credo. Ciò che davvero temiamo è quello che potrebbe provenire dalla nostra interiorità, e cioè tutto quello da cui cerchiamo di tenerci lontani con il rumore. C.G. Jung Franco aveva paura del silenzio. L’assenza di rumore – il motore di una macchina o il cinguettio di un passero, il juke-box del bar oppure il gocciolare dell’acqua della fontanella - lo obbligava infatti a prestare ascolto agli eco che rimbombavano costanti nella sua testa e che, inquietanti e inarrestabili, lo terrorizzavano. Un vortice di indefiniti toni, voci, vibrazioni e suoni, un crescendo roboante dal quale riusciva a difendersi solo se la sua attenzione veniva distratta da altro. Le proprie urla, ad esempio, erano l’espediente a cui più di frequente ricorreva per non lasciarsi trascinare dal delirio che lo accompagnava da ormai più di un anno. Capitava quindi spesso che nel mezzo della notte la piazza venisse svegliata dai lamenti che il pazzo emetteva, oltremodo amplificati dalle lamiere del baracchino nel quale era solito ripararsi e contro le quali si scagliava sovente a suon di calci pugni e testate. Malgrado il comprensibile disagio, la piazza non poteva essergli ostile: Franco continuava a essere l’uomo di una volta, l’amico, il vicino di casa, il padre, il marito. Un uomo sfortunato, senza colpe. Un essere umano come ce ne sono sempre stati e sempre ce ne saranno. Debole. Vero. La solidarietà nei suoi confronti era un dovere morale a cui nessuno voleva sottrarsi e da che smise di pellegrinare in giro per la città non mancava giorno in cui davanti al suo riparo non si trovassero abiti, scarpe, libri e ogni genere di oggetto che potesse essergli di conforto. Sigarette comprese.
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Al cibo pensavano il panettiere, il salumiere e il droghiere. La mera sopravvivenza non era dunque in discussione, sebbene vi fosse da risolvere l’inquietudine di quelle urla, che martoriavano lui e che rendevano comunque difficile la vita di chi ne condivideva la residenza in quel rettangolo perfetto che circa a metà del loro percorso divide Via Washington da Via Sardegna. In questo senso si adoperò il medico di quartiere, che aveva studio e dimora al civico numero due. Fu lui infatti che regalò a Franco la prima radiolina e fu grazie a lui che, di riflesso, tutti ripresero a dormire sonni tranquilli. L’unica indispensabile precauzione era quella di verificare che vi fosse sempre una quantità sufficiente di batterie a sua disposizione e, a questo proposito, sul banco del bar venne sistemato un contenitore in plastica in cui venivano lasciati i resti in moneta di colazioni, aperitivi o caffè. Il barista, almeno una volta alla settimana, si occupava di comprarle e consegnargliele. Dal giorno in cui il Dottor Maranti gli regalò quella piccola scatoletta grigia la vita di Franco prese a essere più serena.
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Trentacinque Ventitreesima giornata Il numero nove lascia il cerchio di metà campo e si avvicina lentamente alla porta. E’ giunto il suo momento: il destino di quella partita passa per i suoi piedi. Il destino di una competizione, di un’intera stagione. I sacrifici, gli infortuni, il sudore. Perfino il sangue. La propria gioia e quella dei compagni. Degli amici che si sono fatti un’ora di viaggio per vederlo giocare in quell’angusta palestra gremita di gente e ancor più di zanzare. Per vederlo vincere. Raccoglie la palla da terra e la fa roteare più volte su se stessa. Asciuga con la sua maglia rossa una macchia di sudore lasciata dal portiere che un attimo prima ha inutilmente immolato il proprio petto nel tentativo di tacitare l’urlo liberatorio degli avversari. Ne saggia il rimbalzo prima di posizionarla con cura sul cerchio bianco disegnato esattamente al centro dell’area di porta. Sente, o forse solo immagina di sentire, una voce amica che urla Borla, nel dubbio calcia forte sotto la traversa. Ma lui di dubbi non ne ha. La palla continua a spostarsi, ma infine il nove riesce a domarla. Adesso è immobile, lì, sul dischetto, pronta a essere nuovamente colpita. Prende qualche metro di rincorsa il nove, e attende che l’arbitro fischi. Nella sua mente non un accenno di paura, perché sa che quel pallone non troverà nessun ostacolo nella sua corsa verso la rete. I suoi compagni lo guardano e così gli avversari. Il pubblico e l’obiettivo della telecamera. L’arbitro segna sul taccuino il numero della maglia del giocatore che si appresta a calciare. Avvicina il fischietto alla bocca. Controlla che il portiere sia esattamente sulla linea di porta. Soffia. Il nove espira profondo e inizia la sua rincorsa. La colpisce secca col piatto destro. A incrociare, sulla sinistra. Riesce a tenerla bassa e ben angolata. La vede dirigersi decisa verso la porta. Ma il palo. Lo stesso palo che poco prima ha aiutato una palla a finire in rete. Il palo, ancora, come a Lacchiarella due anni prima. Palo interno e gol oppure palo esterno e fuori? Il Borla si sveglia di soprassalto. L’effetto dell’anestesia non è del tutto smaltito e nell’attesa di ricevere notizie dai compagni s’è addormentato guardando la TV. Lui a quella partita non ha potuto prendervi parte e nello stato in cui si trova non può uscire di casa neanche per pascolare il cane.
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Guarda l’orologio e si accorge che è tardi. Ancora intontito realizza che se i compagni non l’hanno chiamato vuol dire che la partita è finita male. No, non può essere si dice lasciando cadere la testa sul cuscino, non possiamo averla persa. Prende il cellulare che, scaricata del tutto la batteria, non dà segni di vita. Lo mette sotto corrente, lo accende e aspetta che arrivi il messaggio relativo alla chiamata non risposta. Niente. Chiama Jimmy. Ma Jimmy non risponde. Chiama Asto, ma anche il suo telefono è spento. Chiama il Lofa. Suona libero, poi un rumore ovattato, probabilmente il rimbombo della palestra. «Ti chiamo io fra qualche minuto, la partita non è ancora finita». Il Lofa mette giù senza aggiungere altro. Possibile, pensa il Borla, che la partita non sia ancora finita? Guarda di nuovo l’orologio. E’ mezzanotte passata e iniziando alle dieci, a quest’ora i ragazzi dovrebbero aver già fatto la doccia. Inizia a temere per il peggio. E’ andata ai rigori? No, non può essere. Perché se è andata ai rigori, almeno un punto lo abbiamo perso. E non possiamo permettercelo. Il tempo passa spietatamente lento. Cinque, dieci, quindici minuti. Poi il telefono squilla. Il display dice Lofa. I risultati della terzultima giornata arrivano alla spicciolata e si lasciano alle spalle una percepibile vena d’ottimismo: le dirette concorrenti perdono punti che almeno sulla carta sembravano sicuri e la classifica, a due soli turni dalla fine, vede quattro squadre alle spalle delle Mine Vaganti. Il lunedì della settimana successiva vengono giocate due fondamentali partite, che se da una parte complicano le cose con la matematica salvezza di Real Eagles, dall’altra regalano l’opportunità di centrare l’agognato quartultimo posto a prescindere dai tre punti dettati, a suo tempo, dalla tabella di marcia. Basta infatti un pareggio contro Bogside per rendere ininfluente la probabile sconfitta nell’ultimo turno contro la ben più titolata Laboni, incontrastata dominatrice della competizione da oltre un decennio. Lo scenario cambia dunque in maniera radicale. Un motivo in più per lasciare in mano agli avversari gli oneri di una partita giocoforza arrembante, nella quale ordine velocità e contropiede assumeranno un’importanza capitale. «Oggi sono andato al cesso non meno di tre volte». Il Casa fa ricorso a un’immagine dai contorni affatto vaghi per esprimere il proprio stato d’animo a pochi minuti dall’inizio della partita più importante della stagione, mentre Jimmy, forse per via della regimental che la funzione gli
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ha imposto nella giornata di lavoro appena terminata, sembra avere contegno e maniere da englishman nell’accontentarsi di un grigio-fumodi-Londra «anch’io sono abbastanza nervoso…». L’unica cosa certa è che nessuno dei ragazzi scenderà in campo con un atteggiamento dimesso, un po’ come successe inaspettatamente una quindicina di giorni prima nella sfida contro Il Centro Sport A. E questa è già di per sé una buona notizia. Forrest rientra e il Lofa lo getta subito nella mischia: in campo con lui ci sono Asto Jimmy il Casa e il Capitano. Il peso della posta in palio obbliga entrambe le squadre a non lesinare gli sforzi ed è subito partita vera sin dai primissimi minuti, in cui sono le Mine Vaganti a farsi pericolose su azioni di rimessa. Un recupero a centrocampo di Jimmy si stampa sul palo dopo aver dato l’illusione del gol e rinverdisce il ricordo di troppe occasioni perse per quei legni che sembrano avere un conto aperto con loro. Sugli sviluppi dell’azione il Capitano è però bravo ad approfittare dello sbilanciamento della difesa avversaria e rompe l’equilibrio della partita. I bianchi, obbligati a rincorrere, fanno tantissimo movimento e si scoprono con troppa leggerezza, regalando a Dado gli spazi per un uno contro uno che conclude magistralmente per il 2a0. La pressione avversaria è sempre maggiore, anche se non produce grandissimi pericoli. La partita si riapre all’improvviso su un’involontaria deviazione che va a beffare un incolpevole Asto, ennesimo autogol di una stagione in cui tutto si può fare tranne che ringraziare la fortuna. Almeno fino a quel momento. I contorni della beffa iniziano così a delinearsi, specie dopo che l’arbitro non convalida un evidente quanto splendido gol che il Capitano aveva siglato da posizione impossibile. I primi venti minuti si chiudono dunque con un vantaggio minimo e affatto rassicurante. Il secondo tempo è un vero e proprio assedio, che vede il solo Asto opporsi egregiamente alle inarrestabili iniziative degli avversari, agevolato, questa volta con grande soddisfazione, da una sequenza di tre pali consecutivi. Ricapitalizzando nel momento più indicato della stagione il bilancio con la sorte, che può finalmente dirsi in pareggio. Il gol della tranquillità potrebbe arrivare su una rubata di Jimmy, che lo mette in condizione di puntare solitario la porta. Tuttavia un avversario interviene di mano e regala ancora della speranza ai propri colori, complice anche l’arbitro che non ne decreta una sacrosanta espulsione. Con le squadre ormai esauste gli ultimi cinque minuti diventano una lotteria in cui tutto è possibile. Raggiunto il quinto fallo, Bogside deve fronteggiare un primo tiro libero: il Capitano e Jimmy provano un’esecuzione inusuale, ma il Capitano scivola e non riesce a
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concludere. Altro fallo subìto e un’altra occasione sciupata dai dieci metri. La partita sta per concludersi e Bogside si gioca il tutto per tutto: fuori il portiere, in campo solo giocatori di movimento. Una situazione del tutto nuova per le Mine Vaganti, ma che non produce nessun grande pericolo. A pochi secondi dalla fine dei minuti di recupero il Capitano chiude ogni discorso siglando la sua personale doppietta con un tiro da centrocampo che si insacca lentamente nella porta sguarnita degli avversari. Il 3a1 finale regala alle Mine Vaganti la gioia della salvezza e una doccia, vestito con tanto di scarpe e portafogli in tasca, al Mister. Un prezzo che il Lofa paga di buon grado. Il telefono squilla. Il display dice Lofa. «Allora?». Il Borla non sta più nella pelle. «Dov’è che sei?». «Dove vuoi che sia?, pirla, sono a casa…». Il tono della voce del Lofa è dimesso e il Borla non riesce a capire se per via del risultato o se perché, come spesso accade in queste circostanze, si sta prendendo gioco di lui. Opta per la seconda. «Bastardo, cazzo te ne frega di dove sono, cosa avete fatto?». In lontananza sente la voce di un compagno intonare il solito motivetto da stadio ed è proprio il suo nome a essere associato al ritornello che si conclude con uomo di merda. «Tu dimmi dove sei e poi ti dico com’è finita…». «Sono in camera». «Occhei» la voce del Lofa è interrotta da una risata «tira su la tapparella, pirla. Muoviti!». I ragazzi erano tutti lì, riuniti sotto la finestra del Borla. Abbracciati l’uno all’altro. Una bottiglia di champagne in mano al Capitano e all’altra estremità della catena Jimmy che sventola la foto di Ami. A festeggiare tutti insieme, assenti compresi, la salvezza.
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Trentasei del mercoledì di coppa Il mercoledì era il giorno consacrato alle Coppe Europee, una non-stop di partite che prendeva il via nel primo pomeriggio per concludersi, a volte, anche oltre la mezzanotte se l’italiana di turno era di scena in Portogallo o Spagna. In un ordine grosso modo casuale e dettato sostanzialmente da fusi orari e costumi della squadra ospitante si succedevano in radio e TV tanti match quante erano le italiane rimaste in lizza nei diversi tabelloni a eliminazione diretta: la Coppa dei Campioni, la più prestigiosa tra tutte le competizioni Europee, a cui partecipavano le sole vincitrici del campionato nazionale, la Coppa Uefa, già Coppa delle Fiere, che vedeva competere le due salite sui gradini meno pregiati del podio nazionale e la Coppa delle Coppe, riservata alla squadra che si aggiudicava il trofeo di lega; la consolazione della Mitropa Cup per i più modesti provenienti dalle serie minori, prima vera competizione continentale che negli anni venne relegata a manifestazione di contorno fino alla sua definitiva cancellazione agli inizi dell’ultimo decennio del secolo passato. Tutto in un giorno dunque, un appassionante tour de force che nel tempo ha dovuto lasciare il passo ai sostanziosi guadagni legati alla vendita dei diritti televisivi e inesorabilmente fagocitato dall’onnipotenza del business tout-court. Capitava quindi spesso che i ragazzi, interessati sì da squadre quali il Verona o la Fiorentina, ma non al punto da restarsene tutto il giorno chiusi in casa, facessero ricorso a Franco per avere gli aggiornamenti in tempo reale dei risultati. Talvolta, se sobrio e del giusto umore, il balabiott si sedeva vicino a loro e, alzato al massimo il volume della sua radiolina, ne condivideva l’ascolto della telecronaca rigorosamente trasmessa sulle frequenze Rai. Quella sera andò proprio in quel modo: l’Inter giocava a San Siro il ritorno degli ottavi di Coppa Uefa contro l’Austria Vienna e i ragazzi, col bar chiuso per non si sa quale motivo, non poterono che contare su di lui per vivere insieme le emozioni della partita. Il risultato dell’andata, maturato su una doppietta del magiaro Tibor Nyilasi a ribaltare in soli cinque minuti il vantaggio siglato da Carletto Muraro, lasciava spazio a una possibile qualificazione. Con la prospettiva di incontrare, nel turno successivo, i forti londinesi del Tottenham. Gli austriaci erano un avversario temibile e il loro portiere seppe in più di un’occasione negare il gol qualificazione ai nerazzurri. A diciassette minuti dalla fine, con l’Inter in forcing per ottenere il passaggio ai quarti,
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il numero undici austriaco Istvan Magyar buca una difesa non esente da colpe e trafigge l’esordiente Walter Zenga. A niente servì il successivo pareggio di Salvatore Bagni al settantanovesimo, se non a dare pathos agli ultimi dieci incandescenti minuti. L’uno a uno finale decretò l’ennesimo fallimento continentale dell’Inter e l’ultima apparizione in tribuna di Ivanoe Fraizzoli, che esattamente sei settimane dopo avrebbe lasciato il controllo della società a Ernesto Pellegrini. Fu quindi festa grande a Vienna e dintorni, ma non solo: i sostenitori del Milan, che negli ultimi tre campionati conobbero per ben due volte l’onta della serie B e dileggi che si sarebbero ripetuti per decine di anni a venire, i milanisti non risparmiarono gesti e sfottò all’indirizzo dei malcapitati interisti, mestamente di rientro dallo stadio con il cuscinetto sotto braccio e la sciarpa dappertutto tranne che al collo. Franco, divertito dall’atmosfera creatasi in piazza, si unì a loro, rumoroso come solo un pazzo poteva essere. La cosa che non sapeva è che Licio, fedelissimo della curva Nord, non era tipo da gradire certe prese in giro, specie se perpetrate da quello che lui considerava un pezzente meritevole unicamente di una tanica di benzina e una manciata di cerini. Un miserevole escremento di una società lassista. Gli si avvicinò e prese a spingerlo, senza però che il barbone opponesse la minima resistenza. Indispettito ulteriormente dai sorrisi ingenui dello spostato, Licio gli diede un violento schiaffo a palmo aperto proprio sull’orecchio su cui era appoggiata la radiolina, che cadde contro lo spigolo del marciapiedi aprendosi in due pezzi. Franco smise all’istante di ridere. Raccolse la radio e l’avvicinò all’orecchio, senza sentirne provenire alcun suono dall’altoparlante. Trafficò qualche secondo con la rotella del volume e poi anche con quella della sintonia. Cercò di cambiare banda, con l’infausto risultato di trovarsi il selettore in mano. Iniziò a tremare. Si avventò, accecato dall’ira, con tutto il peso del corpo contro Licio che, preso alla sprovvista per una reazione che neanche immaginava, indietreggiò fino a inciampare su una radice sporgente e infine cadere con le spalle a terra. Non fece in tempo a rialzarsi che il barbone gli era sopra, le mani alla gola e l’evidente desiderio di ucciderlo. Sebbene compiaciuti nel vederlo in difficoltà dopo anni di impuniti soprusi, i ragazzi cercarono di fare il possibile per liberare il malcapitato, ma la forza di Franco unita alla sua inesorabile disperazione riuscirono a avere la meglio. Licio sembrava non respirare più, non reagiva in nessun modo alle feroci percosse. Provarono a intervenire anche
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dei passanti richiamati dal trambusto, senza però ottenere nessun risultato. Fu a quel punto che Dante raccolse un grosso sasso e lo picchiò sulla nuca del barbone, che si afflosciò lentamente a terra. Era il 7 dicembre 1983.
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Trentasette di momenti Pensa a un posto, il posto che sempre ti viene in mente quando hai voglia di sognare qualcosa di diverso. Quello su cui plani, sospinto dalle correnti liriche dell’immaginario, durante i tuoi frequenti voli pindarici. Il luogo dove vorresti passare il resto, o anche solo parte dei tuoi giorni dopo aver indovinato quella maledetta combinazione di sei numeri. Chiudi gli occhi e non aver fretta di riaprirli; sognalo una volta ancora. Io ho pensato a un'isola sperduta in un chissà dove rigorosamente dimenticato dall'uomo. Una pigna di libri e la mia musica preferita per meglio definire i contorni dell’etereo idillio. Calma sole relax. E una martellata secca, definitiva, sull'orologio: perché il tempo sia solo alba e tramonto, fame e sonno. Niente di più. Torniamo a te. Adesso pensa di essere in quel posto, ma di avere un tremendo mal di denti. Spasmi continui, lancinanti, insopportabili. Ora dimmi: con un tale mal di denti, preferiresti essere ancora lì, in uno splendido ma isolato eremo, oppure in un grigio studio dentistico? Sii sincero, sai bene che c'è un'unica risposta a questa domanda. Posti e momenti vengono spesso messi in relazione. E' molto frequente sentire di una persona che si trova nel posto giusto al momento giusto oppure nel posto giusto ma nel momento sbagliato. Posto giusto momento giusto, niente da eccepire: chiunque vorrebbe trovarsi nel posto giusto al momento giusto ed è inutile cercare un esempio che possa rendere meglio l'idea, basta che tu riprenda l'esercizio di prima e avrai sufficienti elementi per convincertene, se mai ce ne fosse bisogno. Cambiamo momento: posto giusto momento sbagliato. Posto giusto, sì, ma nel momento sbagliato. Momento sbagliato. Un attimo, qualcosa non va. Un posto non potrà mai essere il posto giusto se il momento è sbagliato. Mai. Dimentica il paradiso dell'ozio, perché quando hai mal di denti, il posto dei tuoi sogni non può che essere uno studio dentistico. Né più né meno. Quello. Andiamo avanti.
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Posto sbagliato momento sbagliato: di nuovo l'isola e il solito, tremendo, mal di denti. Ma l'isola non era forse il posto ideale? Com'è possibile che adesso si sia trasformata nel posto sbagliato? Ancora. Posto sbagliato momento giusto. Posto sbagliato momento giusto? Esiste un momento giusto per trovarsi nel posto sbagliato? Vero che un posto non può essere sbagliato a prescindere, ma allora, qual è il confine che separa il posto giusto dal posto sbagliato? Posti e momenti. No, solo momenti. PerchÊ sono i momenti a fare i posti e mai il contrario. Non esistono posti giusti e posti sbagliati. Esistono i posti ed esistono i momenti. Momenti che si presentano senza annunciarsi, con la violenza di un martello. Di fronte ai quali non puoi comprendere, solo accettare. Ma anche cartelline rosse, che solo tu puoi scegliere di aprire. A prescindere dal dove, se non dentro di te.
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RINGRAZIAMENTI Pubblicare questo libro mi ha reso debitore nei confronti di molte persone, amici che non mi stancherò mai di ringraziare per l’aiuto disinteressato che hanno voluto darmi nell’ispirare il soggetto e migliorarne la versione andata in stampa. Il primo ringraziamento va alle Mine Vaganti, nelle persone di Alessandro “Ami” Amisano, Gabriele “Asto” Astori, Cristian “Il Borla” Borlenghi, Alessandro “Il Casa” Casarin, Celeste “Cel” Colombo, Gianluca “Jimmy” De Benedictis, Gianluca “GianluKakà” D’Innocenzo, Roberto “Forrest” Lamia Caputo, Giorgio “Il Capitano” Musitano Guerrera, Johannes “Dado” Raspi. E tutti coloro che, negli anni, hanno più o meno degnamente vestito la casacca rossoblu. Non meno importante è stato il contributo di chi, inconsapevolmente, è stato ritratto a vivere, soffrire o morire nel perimetro della Piazza, Monica Aristolao per tutti. Ciao Monica! Detto dei protagonisti, se arrivi al leggere queste righe è anche grazie all’importante supporto editoriale di Omar Degoli e Stefano Mazzoni, all’editing di Antonella Barranca e Viviana D’Antona, a Monica Cappato e Enzo Lo Faro per la grafica, a Salvatore Lo Faro per l’archivio fotografico e a 0111 Edizioni per l’opportunità che mi ha concesso. A mia mamma e mia sorella perché non posso certo dimenticarmi di loro anche se infondo non hanno portato granché alla causa e a tutti coloro che hanno letto il manoscritto e che mi hanno dato modo di farlo diventare un libro. Ringrazio infine te, per la voglia e la pazienza. Per aver dimostrato fiducia nel mio lavoro.