EDIZIONI
FALSOPIANO
Francesco Carrà
TERENCE HILL &
BUD SPENCER LA VERA STORIA DI
GIUSEPPE COLIZZI L’UOMO CHE INVENTÒ LA COPPIA
Ringraziamenti Voglio ringraziare, di cuore, Terence Hill e Bud Spencer. Un grazie particolare a Sandra Zingarelli e a Enzo D’Ambrosio per la gentilezza che mi hanno dimostrato (e per il preziosissimo materiale) e a Luca Pallanch del Centro Sperimentale di Cinematografia per il suo fondamentale appoggio. Ringrazio, per la loro disponibilità, Barbara Alberti, Paolo Bianchini, Manolo Bolognini, Rick Boyd, Mario Bregni, Alessandro Colizzi, Maurizio De Angelis, Diamante, Marcello Gatti, Roberto Girometti, Ugo Gregoretti, Romolo Guerrieri, Michele Mirabella, Mario Monicelli, Giuliano Montaldo, Enzo Monteduro, Glauco Onorato, Antonio Siciliano, Tonino Valerii e Lina Wertmuller. Un ringraziamento per l’insostituibile aiuto ai professori Raffaele De Berti ed Elena Dagrada, a Franco Grattarola, Domenico Monetti, Lucia Zetera della Biblioteca Sormani di Milano, Roberta Antonioni della Cineteca di Bologna, alla Libreria Menabò e alla videoteca Bloodbuster di Milano. Grazie anche a Simone, Giulio, Viola, Marcello, Il Maestro Galati, Toto, Enzo, Fax, Chiara B., Serena (con cui prenderei un caffè al giorno), Laura De Carlo, Laura Cordasco, l’amico sui pattini Stefano Mattia Caruso, Daniela Calabrese, Celeste, il chitarrista decadente Luca Colombo, Carlo Clerici, Elisa Della Corna, Roberto di Città Sommersa, Paul, la musica di Enrico Ruggeri. Ancora un grazie a chi mi ha confortato e sostenuto (letteralmente) durante i miei frequenti viaggi: la storica e ormai scomparsa Trattoria “dell’Angolo” a Milano, Pino del ristorante “La Chiappana” di Abbiategrasso, Giuseppe della pizzeria “Giggetto” a Roma, “l’Osteria al 21” a Roma, la Trattoria “Otello alla Concordia” a Roma e ovviamente tutto lo staff del ristorante “Torre dei Gelsi” a Cisliano. Infine un ringraziamento alla mia famiglia e a tutti i miei (numerosi) parenti. P. S. Di sicuro non ringrazio le mie “maestre” delle scuole elementari.
In copertina: Terence Hill e Bud Spencer sul set di Più forte ragazzi!
© Edizioni Falsopiano - 2010 via Bobbio, 14/b 15100 - ALESSANDRIA http://www.falsopiano.com Per le immagini, copyright dei relativi detentori Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri - Roberto Dagostini Stampa: LaserGroup s.r.l. - Peschiera Borromeo Prima edizione - Aprile 2010
INDICE
Non solo Leone di Raffaele De Berti
p. 11
Introduzione
p. 15
Capitolo Primo Ma chi era Giuseppe Colizzi?
p. 17
La vita La carriera di scrittore La notte ha un’altra voce, il primo romanzo Orrendamente legittima, il secondo romanzo Giuseppe Colizzi e il Western: fu la mano del destino? Appendice: Colizzi narratore, due pagine “cinematografiche”
p. 17 p. 19 p. 19 p. 22 p. 24 p. 29
Capitolo Secondo L’opera prima: Dio perdona... io no!
p. 35
La nascita della coppia Il film Analisi e descrizione di una sequenza: La partita a poker Tra film e sceneggiatura Documenti Si dice… ma sarà vero? La gavetta di Colizzi: l’incontro (scontro) con Federico Fellini
p. 35 p. 40 p. 48 p. 58 p. 61 p. 66 p. 68
Capitolo Terzo Sulle orme del leone: I quattro dell’Ave Maria
p. 71
Il film L’equilibrio di Giuseppe Colizzi Analisi e descrizione di una sequenza: Resa dei conti al casinò Tra film e sceneggiatura Documenti Si dice… ma sarà vero? Incontro con Marcello Gatti e Roberto Girometti Quattro chiacchiere con Rick Boyd
p. 72 p. 89 p. 89 p. 96 p. 99 p. 106 p. 107 p. 109
Capitolo Quarto Un film iconoclasta: La collina degli stivali
p. 115
Il film Il genere western e la politica Un film fuori tempo Documenti Tra film e sceneggiatura Si dice… ma sarà vero? Incontro con Romolo Guerrieri
p. 116 p. 129 p. 132 p. 135 p. 140 p. 141 p. 141
Capitolo Quinto Oltre la frontiera: Più forte ragazzi!
p. 145
Il film Analisi e descrizione di una sequenza: A ritmo di samba Documenti Si dice… ma sarà vero? Il Soggetto di Più forte ragazzi!
p. 145 p. 159 p. 175 p. 185 p. 187
Capitolo Sesto La divisione dalla coppia: Arrivano Joe e Margherito
p. 197
Il film
p. 197
Documenti I ricordi di Enzo Monteduro
p. 203 p. 210
Capitolo Settimo Gli ultimi sogni
p. 213
Noi pirati - Jolly Roger Qualche appunto sulla sceneggiatura L’esperienza della Telelibera: SPQR Switch Il film è morto Giuseppe Colizzi
p. 213 p. 214 p. 218 p. 225 p. 231 p. 235
Capitolo Ottavo Testimonianze: ... a proposito di Giuseppe Colizzi
p. 239
Conversando con Terence Hill Conversando con Bud Spencer Conversando con Manolo Bolognini Conversando con Enzo D’Ambrosio Conversando con Mario Monicelli Conversando con Paolo Bianchini Conversando con Tonino Valerii Conversando con Mario Bregni Conversando con Glauco Onorato Conversando con Maurizio De Angelis Conversando con Antonio Siciliano
p. 239 p. 255 p. 261 p. 265 p. 273 p. 275 p. 277 p. 281 p. 285 p. 291 p. 295
Alla ricerca del cinema perduto di Enzo D’Ambrosio
p. 305
Filmografia
p. 319
Bibliografia
p. 325
Siti consultati
p. 331
Giuseppe Colizzi
NON SOLO LEONE di Raffaele De Berti
Il fatto che Sergio Leone sia un grande autore della storia del cinema è ormai un dato ampiamente acquisito da tutta la critica. Ma intorno a quel cinema western e di genere, che negli anni Sessanta ha avuto in lui il grande innovatore, c’è ancora molto da scoprire, o perlomeno da rivedere e rileggere con maggiore attenzione, anche se non sono mancati studi in proposito come quelli di Luca Beatrice o Stefano Della Casa, che hanno messo in luce le qualità autoriali di registi come Sergio Corbucci e Sergio Sollima o quelle di ottimi “artigiani” del cinema di genere come Enzo G. Castellari, Franco Giraldi, Giulio Petroni, Duccio Tessari, Tonino Valerii e, appunto, Giuseppe Colizzi. Districarsi nella miriade di film di genere, soprattutto western, realizzati in Italia fra la seconda metà degli anni Sessanta e i primi anni Settanta non è certo facile, ma accanto alla notevole quantità di pellicole di scarso valore si possono trovare prodotti di grande interesse che testimoniano le capacità professionali e artistiche non solo dei registi, ma degli attori, degli sceneggiatori, dei direttori della fotografia, dei musicisti e di quanti lavorano nel nostro cinema in quel periodo. Ripercorrere la purtroppo breve storia cinematografica di Giuseppe Colizzi vuol dire non solo valorizzare il suo lavoro, riconoscendogli anche delle qualità autoriali, ma immergersi in quella stagione d’oro del cinema italiano per meglio conoscerla e capirla anche attraverso le testimonianze dirette di chi ha collaborato con lui. Lo studio appassionato di Francesco Carrà per “l’uomo che ha inventato Terence Hill e Bud Spencer” unisce all’analisi approfondita dei film, che dimostra la presenza di tratti di originalità rispetto agli stereotipi di genere, i ricordi di personaggi della Hollywood sul Tevere più o meno noti al grande pubblico. Colizzi respira l’aria del cinema già in famiglia come nipote di Luigi Zampa, ma come molti giovani intellettuali del dopoguerra cerca la propria strada professionale muovendosi in modo inquieto fra la letteratura, nella quale debutta con successo con il romanzo La notte ha un’altra voce nel 11
12
1958, e i diversi mestieri del cinema prima di arrivare alla regia con Dio perdona… io no! (1967), con la creazione della coppia Terence Hill - Bud Spencer, pellicola alla quale faranno seguito gli altri due western I quattro dell’Ave Maria (1968) e La collina degli stivali (1969). Una trilogia western nella quale, come ben mostra Carrà nel libro, l’influenza del maestro Sergio Leone è evidente soprattutto in I quattro dell’Ave Maria, ma senza che questo porti a una banale imitazione dell’originale, trovando, al contrario, anche vie personali e originali di sviluppo. Colizzi ha il sesto senso degli uomini cinema che intuiscono i cambiamenti che stanno avvenendo e cercano nuove strade: per questo lascia il western ormai sul viale del tramonto alle soglie degli anni Settanta e punta sul genere avventuroso comico adatto a un pubblico di bambini e adulti, e nel 1972 realizza Più forte ragazzi! cui seguirà il meno fortunato Arrivano Joe e Margherito (1974), senza più la coppia Hill - Spencer. A dimostrazione di come la parabola professionale di Colizzi sia emblematica di quanto avviene nel mondo dei media italiani nell’arco temporale compreso fra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, i suoi ultimi lavori prima della morte nel 1978 lo vedono impegnato come direttore artistico nell’esperienza della nascita nel dicembre 1976 di SPQR (Società Produzioni Quotidiane Radiotelevisive), una delle prime televisioni private romane. Un’esperienza che Colizzi racconta quasi in diretta in Switch (1978), suo ultimo invisibile film su quel mondo delle emittenti libere che, intuisce, porterà alla formazione di una nuova generazione di professionisti e alla profonda trasformazione del sistema dei mass-media, nel quale a dominare non è più lo schermo cinematografico ma quello televisivo. Una monografia come quella di Carrà su Colizzi è dunque un tassello utile a ricomporre il complesso e ricco mosaico di un cinema italiano non solo costituito dai più grandi e riconosciuti maestri.
13
Due rare immagini di Giuseppe Colizzi sul set di Arrivano Joe e Margherito
14
INTRODUZIONE Giuseppe Colizzi è un nome sicuramente sconosciuto al grande pubblico cinematografico (e forse, in parte, anche al piccolo) ma per ciò che ha inventato l’industria italiana del cinema dovrebbe, almeno, ricordarsi ancora di lui. Ma cosa ha inventato di così eclatante quest’uomo… una formula segreta? Non proprio, ma la formula per attirare il pubblico al cinema quella sì, e ha un nome, anzi due, Terence Hill e Bud Spencer! Se in Dio perdona… io no!, l’esordio cinematografico di Colizzi, la scoperta della coppia è avvenuta per caso, con i film successivi il regista saprà re-inventarla e dosarne le potenzialità all’interno delle sue sceneggiature. Giuseppe Colizzi, però, non può essere identificato solamente come l’inventore di Terence Hill e Bud Spencer, altrimenti passerebbero in secondo piano le sue doti di regista formatosi con una gavetta cinematografica che lo ha portato a lavorare con registi del calibro di Luigi Zampa, Federico Fellini, Sergio Leone e molti altri. Dietro il carattere ironico dei suoi film si nasconde la figura di un uomo complesso, forse non capito fino in fondo, in ogni caso un uomo dal talento multiforme: ben prima di passare alla regia Colizzi è stato scrittore di buon successo per Mondadori, dimostrando quelle qualità narrative che saranno il punto forte delle sue sceneggiature. Questo libro, attraverso l’analisi dei film, della rassegna stampa, delle fotografie e delle interviste di chi lo ha conosciuto (essenziali per comprendere l’uomo e il passaggio che lo ha portato dalla produzione alla regia) si propone di ricostruire la storia di un autore altrimenti destinato all’anonimato. Nella vita di Giuseppe Colizzi, inevitabilmente, torneranno sempre i nomi di Bud Spencer e Terence Hill (nell’ordine che più vi piace, sono entrambi grandi artisti): la coppia creata, cercata e tanto amata (anche per ovvie ragioni commerciali) dal nostro regista. Carlo Pedersoli e Mario Girotti (alias Bud Spencer & Terence Hill) gli sono oggi molto grati, consapevoli che l’incontro con Giuseppe è stato uno di quelli che cambiano la vita. è Terence Hill a raccontare dell’abilità professionale di Colizzi: “cercava sempre l’angolazione migliore per riprendere i personaggi, provava le luci, stava attento ai costumi… ”. Un regista che si dimenticava della ragione commerciale, e che spesso si faceva trascinare dall’entusiasmo, dal desiderio di mettere in scena un sogno, il suo sogno. 15
Anche Bud Spencer lo ha confermato: “Lui scriveva con la pellicola, aveva già tutto il film in testa. E questo è raro nel cinema”. Con questo contributo, quindi, vorrei restituire visibilità e dignità artistica ad un cineasta dimenticato troppo in fretta, con la speranza che possa occupare il posto che merita nella nostra memoria di spettatori sempre più disattenti.
16
Capitolo Primo MA CHI ERA GIUSEPPE COLIZZI? Di solito, di norma, per raccontare un artista bisogna guardare e contestualizzare le sue opere. Se nei capitoli che seguiranno analizzerò il suo percorso artistico (chi era Colizzi?), non posso comunque, ora, non partire dall’inizio, ovvero da una breve biografia del personaggio: la classica biografia, breve, in stile “dizionario del cinema”, utile per inquadrare un regista sconosciuto anche alla maggioranza dei lettori. Ma prima mi pare interessante leggere un ritratto di Giuseppe Colizzi preparato da quella che allora era la sua casa editrice; una descrizione romanzata ed affascinante, che ci aiuterà meglio a comprendere con chi abbiamo a che fare 1: “Giuseppe Colizzi è nato a Roma dove ha compiuto gli studi classici e dove, ora, risiede. Da ragazzo, sfuggendo alle premure che opprimono i figli unici nelle famiglie borghesi, ha vissuto soprattutto in strada, incanagliendosi con compagni casuali, alternando le partite di caccia, la boxe e il canottaggio, alla stesura dei primi racconti che l’esperienza della strada, più ancora di quella familiare, gli suggeriva. Dopo la guerra e dopo un lungo soggiorno in Svizzera, pur senza abbandonare la speranza di dedicarsi alla letteratura, ha lavorato per alcuni anni nel cinema, collaborando con molti dei nostri migliori registi. Ciò gli ha permesso di viaggiare in Italia, in Francia, in Austria, in Svizzera e poi in Africa e in America, in automobile e con mezzi di fortuna, scrivendo racconti tra la preparazione di un film e una partita di caccia o di pesca. Le disparate avventure, gli incontri fatti in vari paesi, in ogni campo e in ogni classe, la sua passione di viaggiare solo sulle strade americane, come da ragazzo amava vivere in quelle del suo quartiere periferico romano, gli hanno suggerito alcuni racconti lunghi, ancora inediti, e questo suo primo romanzo”. La vita Giuseppe Colizzi nasce a Roma nel 1925. Grazie al regista Luigi Zampa (di cui era nipote) entra nel mondo del cinema all’età di 23 anni. Sui set italiani trascorre una lunga gavetta che lo porta a collaborare con alcuni grandi 17
nomi del cinema italiano, tra i quali Federico Fellini e Sergio Leone. Durante il suo apprendistato avrà modo di svolgere i più svariati compiti: direttore di produzione, aiuto regista, sceneggiatore, montatore, produttore 2. Il 1958 è l’anno in cui Colizzi tenta con successo la carriera di scrittore, pubblicando per la Mondadori il romanzo gangsteristico La notte ha un’altra voce a cui fa seguire nel 1960 Orrendamente legittima, una sorta di giallo psicologico incentrato su un caso di uxoricidio. Nel 1967 si presenta l’opportunità di passare dietro la macchina da presa. Utilizzando un soggetto scritto da lui stesso, debutta con Dio perdona… io no! affiancando per la prima volta sullo schermo Bud Spencer e Terence Hill, futura miniera d’oro dei botteghini italiani. Forte del successo ottenuto, riprende i personaggi del primo film per realizzare un seguito con I quattro dell’Ave Maria (1968), che vede al fianco dei due protagonisti uno straordinario Eli Wallach. Nel 1969 la trilogia si conclude con un insolito western ambientato in un circo: La collina degli stivali, dove l’ironia della coppia viene smorzata da un’atmosfera perennemente drammatica. Se nel 1970 al nostro non accade niente di rilevante dal punto di vista artistico, non è così per Bud Spencer e Terence Hill: esce al cinema Lo chiamavano Trinità, il film di Enzo Barboni che plasma definitivamente la psicologia dei loro personaggi cinematografici 3. Nel 1972 Giuseppe Colizzi pensa di proporre ai due attori un nuovo genere, non più un western, ma una storia d’ambientazione contemporanea: Più forte ragazzi! Il film, che racconta l’avventura di due trasvolatori precipitati in Colombia, ancora oggi si differenzia per originalità ed eleganza formale rispetto ad altre pellicole che vedono come protagonista la coppia Bud Spencer - Terence Hill 4 . Il connubio fra comicità e avventura è riproposto (ma con esito meno felice) nel 1974 con Arrivano Joe e Margherito, interpretato dagli americani Keith Carradine e Tom Skerritt. Nel 1975, dopo la riforma del sistema televisivo che sancisce la fine del monopolio Rai, Colizzi fonda a Roma la SPQR: una delle prime emittenti private italiane. Decide di dedicare a questa esperienza un film e inizia così a scrivere il soggetto di Switch (1978), la storia di un gruppo di giovani alle prese con l’organizzazione di una televisione. Purtroppo la pellicola rimarrà incompiuta a causa della sua prematura scomparsa: Colizzi muore il 22 agosto del 1978, all’età di 53 anni. Terence Hill lo ricorda cosi: “Colizzi era un regista che aveva veramente tanto talento, tanto rigore, tanto 18
buon gusto… un regista speciale. […] All’epoca c’erano soltanto due registi che facevano bene il western all’italiana: uno era Sergio Leone e l’altro Giuseppe Colizzi” 5. La carriera di scrittore Prima di esordire come regista cinematografico pubblica due romanzi per Mondadori, La notte ha un’altra voce e Orrendamente legittima. Due romanzi molto lontani - sia come stile che come tematica - dalle future pellicole cinematografiche ma che ci sembra corretto tenere in considerazione prima di passare al debutto registico del Nostro ed alla nascita della celeberrima coppia 6. La notte ha un’altra voce, il primo romanzo Argomento. Il lungo viaggio che Diego Loina compie sulle grandi strade americane, verso una città dove spera di trovare quel modo di vita armonioso e ideale cui aspira dall’infanzia, non è altro, in fondo, che il passaggio dalla giovinezza alla maturità di ogni uomo che abbia nutrito in se stesso quel sogno meraviglioso e impossibile che è la ricerca dell’assoluto. Fin dall’adolescenza, ascoltando per notti e notti presso i fuochi da campo, i discorsi dell’operaio Joe, Diego ha vagheggiato Fair City, la città dalla quale Joe è stato costretto a fuggire e che rimpiange: “una calma e laboriosa città dove la gente sa divertirsi la domenica e dove c’è lavoro onesto e pacifico per chiunque abbia voglia di lavorare pacificamente e onestamente”. L’autore non ci dice se Diego arrivi, materialmente, a raggiungerla; ma ogni viaggio è motivo di esperienza e di incontri; su ogni strada, infatti, l’uomo può incontrare persone e sentimenti e, talvolta, addirittura se stesso. La storia di questo lungo viaggio e di questi incontri è narrata ne La notte ha un’altra voce con una forza, una furiosa violenza, che coinvolge il lettore nelle vicende di Diego, lo fa partecipare alla nascita di un amore che, a poco a poco, con una fatalità inesorabile diviene il motivo principale del dramma e della vicenda. Siamo all’interno di un bar, quando Diego, dal suo tavolo dove sta consumando un pasto, assiste curioso ad una scena: un giovanotto si avvicina al Juke Box per accendere la musica ed improvvisamente alcuni prepotenti gli si piazzano davanti con aria minacciosa; “Scusa, sai. Ma stasera ho mal di testa e ogni rumore mi dà sui nervi” 19
“Cosa?” “Ti sto dicendo di lasciar stare…” “Ma la mia ragazza…” “Se alla tua ragazza piace la musica, comprale un bel grammofono, oppure suonagliela tu stesso, ma non qui”. Questo dialogo non sfigurerebbe in un classico film della coppia “Bud Spencer & Terence Hill”; magari con Riccardo Pizzuti 7 al posto dello spaccone, e Terence Hill nei panni di Diego Loina, che, non a caso, poco dopo si alza dal tavolo e da il via ad una movimentata scazzottata. Per quanto le tematiche de La notte ha un’altra voce possano apparire distanti dai film, in realtà contengono già tutti i presupposti del suo stile futuro. La prima cosa ad accomunarli è la freschezza dei dialoghi, sempre brillanti e sempre incisivi, quando serve. Se poi il libro viene letto dopo aver visto i film, acquista anche un valore aggiunto, si scoprono infatti alcuni elementi che ritorneranno proprio nelle pellicole cinematografiche di Colizzi: pensiamo al nome del personaggio femminile (Rose, come la donna in Dio Perdona… io no!) o ai juke box, che qui sono al centro della storia ma che saranno una costante anche nei bar di Più forte ragazzi!. Ma ne La notte ha un’altra voce troviamo soprattutto la città di Fair City 8, la città che Joe continua a rimpiangere, e che diventa una città utopica per Diego… la meta di un viaggio destinato a cambiargli la vita. Ecco quindi che la Fair City de I quattro dell’Ave Maria assume - sotto questa prospettiva tutto un altro significato: diventa la conclusione di un viaggio, di un’avventura, di una ricerca 9, anche e soprattutto interiore. Ma salta agli occhi anche una differenza, fondamentale con le pellicole cinematografiche che è giusto ricordare: nel romanzo ritroviamo un personaggio femminile importante e ben caratterizzato. Un fatto insolito perché nei film del Nostro generalmente i protagonisti sono tutti maschili e l’elemento amoroso, contraltare dell’amicizia virile, è quasi del tutto assente. Ne La notte ha un’altra voce compare il personaggio di Rose Sobel, la donna per cui il protagonista della vicenda perde la testa. “Soltanto l’odore di una donna fa lasciare a un uomo il lavoro, il guadagno sicuro, gli fa fare un sacco di fesserie, insomma, e lo fa correre come un cavallo che sente l’odore della stalla”. Giuseppe Colizzi, che in futuro si muoverà in un universo tutto al maschile come il genere western (specialmente quello italiano), sorprende qui per l’a20
bilità con cui tratteggia l’evolversi dei sentimenti di Diego verso questa donna per lui “fatale”; il protagonista si comporta inizialmente come un ragazzino innamorato (con tutti i rancori e i dubbi tipici dell’innamoramento), per poi arrendersi inesorabilmente al flusso dei sentimenti: “Vuoi sposarmi?” le avrei chiesto, vinto dal suo modo d’essere che avevo tentato di giudicare, involgarendolo, per liberarmi dall’ossessione di lei, senza riuscirvi…”. Alcuni passaggi densi di approfondimenti psicologici sono davvero notevoli: un esempio è rappresentato dal rifiuto di Rose nei confronti di Diego. Se inizialmente pare un’occasione per litigare 10, successivamente tutto si chiarisce: Diego “si vendica” (ma in realtà si umilia) andando a letto con una prostituta; Colizzi con una coinvolgente essenzialità rende benissimo la sensazione di rancore che Diego sta provando in quel difficile momento. Sfogliando le pagine, eccoci nella seconda parte del romanzo, un altro “momento psicologico” interessante: il protagonista che dialoga con se stesso mentre ripensa ai fantasmi della sua infanzia, una conversazione fra il suo io del presente e il suo io del passato. Insomma, La notte ha un’altra voce rappresenta un ottimo esordio letterario per un autore a cui le pagine di un libro andranno sempre più strette, e che troverà nella pellicola cinematografica l’occasione per raccontarci altre storie, pur sempre in linea con l’attività di scrittore. Per concludere è utile rileggere due pareri di lettura tratti dal volume Il mestiere di leggere 11: sono voci autorevoli (entrambe del 1958, in ordine Giuseppe Cintioli ed Elio Vittorini), che esprimono un giudizio lusinghiero su questo esordio letterario di un giovane, futuro regista 12. Valore letterario. Lavoro alquanto complesso, tematica propria da letteratura americana. Nume ispiratore: Faulkner; il primo e anche il più maturo Faulkner 13. Tale la direzione. Opera sperimentale, nel senso migliore, quindi necessariamente soggetta a sbandamenti, discontinuità, ingenuità. Ma il nocciolo c’è, e si può dire di un inconsueto nocciolo […]. Temperamento da scrittore, coraggio narrativo, respiro abbastanza ampio, rilevante senso del tragico quotidiano, capacità di trattare la realtà cogliendola nel suo punto di rottura. […] Aggettivazione ricca ma non fastidiosa. Romanzo di contenuto americano e scritto all’americana ma tuttavia in buon italiano e con perfetta naturalezza senz’ombra di manierismo. Scrittore 21
autentico cui manca pochissimo per essere pienamente maturo. Si pone in prima fila tra i giovani migliori venuti fuori dal neo-realismo. […] Qualche difetto che il libro contiene il Colizzi può correggerlo molto facilmente. Sarebbe nel suo interesse che lo correggesse, che si adattasse ad accettare il nostro consiglio di correggerlo (si tratta soprattutto di togliere, per una cinquantina di pagine circa, qua e là). Ma non c’è dubbio che noi abbiamo interesse a prenderlo e a pubblicarlo al più presto. Orrendamente legittima, il secondo romanzo “E lo sentiva rifiorire sopra di sé, rivivere in sé mentre un’irrefrenabile purissima gioia la smemorava in un tempo nuovo, minuti che cancellavano anni, tutti gli anni e tutti i volti in essi contenuti” Argomento. Fulvio Poggi, rappresentante di commercio, ha tentato di uccidere la moglie lasciando il rubinetto del gas aperto e scappando di casa. Da Roma a Genova. Qui, fuori di sé, cerca e possiede Anna: una sua vecchia amica conosciuta per caso. Fulvio confessa alla ragazza il supposto delitto. Anna, nonostante sia già l’amante di un altro uomo, perde la testa per questo amico disperato e cerca di aiutarlo. I due fuggono a Sanremo dove la ragazza introduce Fulvio, che si spaccia per giornalista, nel mondo della cosiddetta alta società… Il secondo romanzo di Giuseppe Colizzi presenta degli argomenti meno validi rispetto al sorprendente esordio de La notte ha un’altra voce, ma stupisce per come l’autore sa padroneggiare tematiche (il sesso, l’amore e i sentimenti contrastati) che nelle sue pellicole saranno praticamente assenti. Stupisce positivamente. Colizzi si dimostra un fine conoscitore dell’animo umano, specialmente dell’amore e di tutte le sue sfaccettature (o complicazioni-degenerazioni). Il personaggio che esce meglio da questa triste storia è quello di Anna, la ragazza che segue il protagonista Fulvio in questa torbida vicenda che ruota attorno a un uxoricidio. Anna è una donna sola, innamorata, impaurita, forte, infine tradita. Evidentemente il regista che tra la sabbia del deserto racconterà le gesta di Cat e Hutch, conosce bene anche quello che le donne non dicono, tanto per citare una canzone di successo. Anche in questa circostanza è giusto dare un’occhiata alle recensioni d’epoca: il giudizio sul libro è nettamente contrastante. In un parere tratto ancora dal volume Il mestiere di leggere 14 (ancora Giuseppe Cintioli, 1961) si mette in evidenza l’inferiorità del testo rispetto al primo romanzo dell’autore. Nella seconda 22
recensione (non a caso di Valerio Zurlini), presa invece dalla scheda introduttiva di Orrendamente legittima, l’autore viene lodato come scrittore dotato di talento naturale e si accenna alla sua “carriera” cinematografica. Qualità. Non certo buone. Grosso decadimento in cfr. al primo libro: in cui c’era uno sforzo, sia pure con fortissime suggestioni americane e cinematografiche, abbastanza sentito, di narrare. E si trattava di un primo libro. Qui siamo al secondo […], e la situazione è mutata. L’a. ha digerito molto altro cinema d’intrattenimento, è pieno di furberie; e in quanto a letteratura, riesce a farsi leggere (con tutti i limiti del caso) solo quando imita qualcuno: quando s’impasolinisce (nel volgare) o quando s’inmoravia (ibid). Queste due ‘direzioni’ non hanno del resto gran campo. Il grosso del racconto è piuttosto tentato dal fumetto (o fumettone) da un lato, dal neorealismo genericissimo dall’altro; con aspersione di ‘monologhi interiori’ di ascendenza più o meno U.s.a. (non Joyce, no; e nemmeno Pavese). Ma in quanto a interesse, sia pure con tutto questo scialo di ‘tessere’, pochino. Descrizioni risapute, brividi sexy risaputissimi, convenzionalismo brado; e qua e là una sincerità narrativa (quando l’a. non si appicca a nessun altro) che svela in pieno limiti personali da narratore volontaristico e meno abbiente. Un ‘romanzo’ così - a parte i sottovalori - può avere del successo commerciale? Si direbbe di no. E proprio per l’indecisione con cui l’a. dà giù il brodo, senza fare propriamente fumetto e senza riuscire a impegnarsi in qualche direzione. Sotto sotto, si pensa che a lui, di quel che scrive, non gliene ‘freghi’ proprio niente. Ha la mano facile, una spiccata capacità di assimilazione (bocca buona) e tanta voglia, si suppone, di giungere alla fama. E così, nel passaggio dal primo al secondo libro, lo troviamo troppo sicuro di sé: a tal punto da non accorgersi di essersi, come narratore, seduto. Oltre tutto, il racconto è prolisso; e salvo dei gruppi di pagine qua e là, prevedibilissimo e non giustificato: né psicologicamente né sotto altri aspetti. Fa parte insomma di quel ‘romanzismo’ in pelle che al presente (i frutti dell’istruzione?) ci affligge. Negativo. Quando Lenin vide per la prima volta la “Corazzata Potemkin” esclamò con entusiasmo che il cinema era la più importante di tutte le arti, e da un punto di vista sociale e politico aveva ragione. Mai infatti un mezzo d’espressione aveva servito con tanta entusiasmante aderenza una causa rivoluzionaria. In altri momenti di crisi il cinema ugualmente si riportò a posizioni di indicazione e di guida, e film come i capolavori del neo realismo italiano hanno 23
influenzato, e come, il discorso delle arti maggiori del dopoguerra. Ma oggi, nella grassa sonnolenza del miracolo economico, il cinema viene nuovamente guardato con diffidenza e se qualche traccia del suo linguaggio affiora con la sua emozione diretta nelle altre e classiche forme di espressione, questo è come il contatto del lebbroso, è una mano che marcisce quello che tocca, si dice “è cinematografico” e viene addirittura un sospetto di bassa speculazione. Così, di fronte ad alcuni libri dei nostri maggiori autori, visivi al punto di non aver bisogno neppure di una riduzione per essere pronti alla nuova veste cinematografica, è una grossa sorpresa la lettura di Orrendamente legittima di Giuseppe Colizzi, sceneggiatore, aiuto regista, direttore di produzione, uomo di cinematografo. Anche questo libro prende qualche cosa al cinema: forse l’unità malinconica della narrazione, alcuni luoghi che sono già decisivi per la storia al momento della loro scelta, il treno, quella Genova in un primo mattino invernale, il night club di San Remo, la soffitta dove Fulvio Poggi viene rinchiuso… Ma i due personaggi, due tra i più vivi e commoventi della letteratura italiana degli ultimi anni, usciti anche loro dalla cronaca morale dei rotocalchi, con le loro ambizioni sbagliate e la loro inevitabile rassegnazione, questi due personaggi pronti per un film sono descritti, seguiti e indagati con il puro linguaggio della letteratura, nelle loro azioni ma anche e soprattutto nei loro pensieri - ora visti e analizzati dal narratore, ora lasciati a loro stessi e al loro mediocre destino. Giuseppe Colizzi ha cominciato la sua carriera letteraria, avendo raggiunto un invidiabile ed autorevole posizione nel cinematografo, con un atto di volontà. Ha voluto scrivere e per due anni è scomparso e si è sottoposto ad una disciplina durissima. Acquistare a più di trent’anni un mezzo d’espressione nuovo, anche quando ci si sente irresistibilmente portati, è come cambiare dimensione. Dobbiamo concludere che Giusepppe Colizzi è nato scrittore, poiché uno stile così nitido, robusto, alieno da trucchi o da aggiramenti della realtà, non lo si impara. Se lo portava dentro, sonnecchiava. Probabilmente quando dietro alla macchina da presa prendeva quei rapidi appunti di ambiente e di paesaggio che oggi ritroviamo nel libro, carichi di struggimento e di commozione. Giuseppe Colizzi e il Western: fu la mano del destino? Le ragioni che hanno portato uno scrittore di (quasi) successo a cimentarsi nella regia cinematografica sono state puramente economiche: con un grosso debito nei confronti di Cinecittà, Colizzi decide di debuttare dietro la mac24
china da presa, con la speranza di sfondare al botteghino. Il debito deriva dalla carriera del Nostro come produttore cinematografico: Le belle famiglie (1965) 15 di Ugo Gregoretti e Questa volta parliamo di uomini (1965) di Lina Wertmuller non ottengono nei cinema i risultati sperati, lasciando così il talentuoso scrittore in pericolosa perdita. La scelta di esordire con una pellicola western, invece, si può facilmente comprendere: negli anni ’60 lo spaghetti western è un genere ancora in grado di garantire un successo assicurato (costa poco ma soprattutto il pubblico ne è avido). Non è certo sbagliato affermare che Giuseppe Colizzi arriva al western per necessità e per caso. L’intervista a Enzo D’Ambrosio, raccolta in fondo al libro, oltre a ricostruire il passaggio che il Nostro compie dalla pagina del libro alla mdp, conferma come egli non avesse alcuna intenzione di fare il regista, tantomeno di film western 16. Eppure, quello che parte come un banale film di recupero, diventa nelle mani di Colizzi la base per una trilogia, La saga di Cat e Hutch. Ciò che colpisce maggiormente è che i film della trilogia colizziana sono tutt’altro che semplici prodotti di genere; ogni pellicola rivela l’impronta del suo creatore, il quale riesce a filtrare il proprio gusto personale all’interno di un genere fortemente codificato. Gli elementi tipici del western italiano vengono infatti rispettati: violenza, cinismo, ironia, vendette, duelli. Uno dei luoghi prediletti del western, non solo italiano, è il deserto: un luogo imprecisato e ostile dove gli uomini si sforzano di sopravvivere. Nel film di Sergio Leone Il buono, il brutto, il cattivo (1968) il deserto diventa il luogo per espiare le proprie colpe: è lì che Tuco conduce il Biondo per vendicarsi del torto subito. Anche ne I quattro dell’Ave Maria il deserto si carica di significato e diventa un simbolo di morte: Hutch (Bud Spencer), dopo essere stato derubato, sembra voler diventare una cosa unica con il paesaggio e invocando la morte s’immerge con la testa nella sabbia, annullandosi: “Mi raccontò mia madre che quando fecero I quattro dell’Ave Maria, durante la scena in cui Bud Spencer deve immergere la testa nella sabbia, il terreno era pieno di scorpioni! Dovettero disinfestare tutto per girare la scena senza pericolo” 17. Ma il deserto nel western italiano non è mai un luogo di semplice passaggio, nel suo scenario avvengono sempre situazioni cruciali e fondamentali per il racconto: due esempi possono essere rappresentati dall’incontro con Bill Carson ne Il buono, il brutto, il cattivo o quello di Cacopoulos da parte di Cat e Hutch ne I quattro dell’Ave Maria. 25
Altro elemento tipico del genere è senza dubbio il duello, il centro e l’atto finale del western. Nel western italiano è una sequenza spesso isolata dal resto della storia. Se nel western americano il duello arriva non di rado al culmine di una situazione, il western italiano lo sottrae al confronto con le altre vicende e gli assegna un ruolo a sé 18. Durante un duello il tempo e lo spazio perdono i loro connotati, gli attori sono ridotti a figurine. Macchina da presa, musiche, rumori, montaggio… tutto interviene per modificare la realtà oggettiva e creare una condizione spazio temporale fittizia e sospesa 19. Gli istanti diventano eterni. Luca Beatrice, nel suo volume dedicato al western italiano, osserva che la colonna sonora sintonizza i duellanti su una particolare frequenza, pare che essi ascoltino la musica con l’identico trasporto degli spettatori in sala: nella sequenza finale de I quattro dell’Ave Maria il bandito Cacopolous ordina all’orchestra di suonare un valzer come accompagnamento al duello conclusivo che, oltre a donare la giusta dilatazione temporale alla sequenza, verifica realmente la condizione citata da Beatrice: i duellanti e gli spettatori ascoltano la musica con la stessa concentrazione e lo stesso trasporto. Ecco come Colizzi riesce a filtrare il suo talento attraverso gli stilemi di un genere già popolare e affermato. è dello stesso parere anche l’artista polacco Piotr Uklanski che presentando al Festival di Venezia del 2006 il suo western Summer Love ha dichiarato che: “è il bello di questo genere, il più codificato - spiega il regista - . Ti costringe tra confini potenti, ma ti dà anche la libertà più grande. Dentro puoi metterci tutto, persino la politica come faceva il vostro Corbucci. Lui, Colizzi e Leone sono stati dei geni, hanno saputo raccontatare quell’epopea con distanza, ironia, e senza pretese di autenticità” 20. La trilogia colizziana, che chiameremo La saga di Cat e Hutch, è composta da tre film: Dio perdona… io no! (1967), I quattro dell’Ave Maria (1968) e La collina degli stivali (1969); tre opere diversissime fra loro, ma nello stesso tempo legate da una certa continuità. I protagonisti principali sono sempre Cat Stevens (detto Doc) e Hutch Bessy (detto Earp), solamente che il regista sviluppa i loro caratteri di film in film. Il rapporto fra i due cowboy che vediamo in Dio perdona… io no! è infatti molto diverso da quello che percepiamo ne I quattro dell’Ave Maria, così come è diverso il rapporto che li lega durante La collina degli stivali. Ogni episodio possiede la forza autonoma per essere apprezzato anche singolarmente, ma è fuor di dubbio che acquista più valore se visto in ordine cronologico con gli altri capitoli 21. Nei ruoli di Cat e Hutch troviamo rispettivamente Terence Hill e Bud 26
Spencer, all’epoca due nomi assolutamente sconosciuti. Nei capitoli seguenti avremo modo di considerare come il regista deciderà di utilizzare i due attori, ma intanto è bene sottolineare un dato molto importante: nonostante nei western di Colizzi siano presenti Bud Spencer e Terence Hill, siamo lontani anni luce dalla farsa in stile Lo chiamavano Trinità (1970). Non si vuole sminuire il film di Enzo Barboni, ma è bene prendere le distanze e vedere le opere di Colizzi per quello che sono veramente (e non utilizzare un erroneo “senno di poi” per vederle come degli antenati mal riusciti di Trinità). Il fatto che ne I quattro dell’Ave Maria, ad esempio, ci siano delle sequenze divertenti - il cui merito è anche di Eli Wallach - è un’altra cosa: la chiave di lettura si chiama ironia. Per il cast dei tre film, poi, il regista fa spesso ricorso ad alcuni caratteristi già visti (o che vedremo) nei western leoniani: Frank Wolff, Eli Wallach, Woody Strode, Lionel Stander. Sono invece completamente assenti i personaggi femminili 22: Colizzi ha un punto di vista evidentemente simile a quello di Sergio Leone, che legge le vicende sentimentali come pause ingiustificate all’interno di un genere che è considerato maschile per eccellenza. Ne La collina degli stivali questa considerazione diventa esplicita durante la preparazione allo scontro finale: Baby Doll (Luigi Montefiori) interrompe la tensione della scena corteggiando una ragazza del circo; la pausa romantica che si sta creando è subito interrotta dall’arrivo di Hutch (Bud Spencer), che dopo aver colpito con uno schiaffo Baby Doll esclama: “Sveglia bamboccio! Guarda tu se questo è il momento di pensare alle donne”. Hutch ribadisce l’inconciliabilità tra il western italiano e le vicende sentimentali. Le tematiche fondamentali che attraversano la saga di Cat e Hutch sono quindi due: la vendetta e l’amicizia; sono questi i due capisaldi che fanno da motore per tutte le vicende della trilogia. E i due temi sono legati fra loro: tutti si devono vendicare nel West di Colizzi e molto spesso proprio nei confronti di un amicizia tradita. In sequenze così contrastate hanno un ruolo importante, come è facile comprendere, anche le musiche, affidate al Maestro Carlo Rustichelli 23. Le sue melodie non sono mai dei semplici contrappunti sonori, ma diventano spesso parte integrante del racconto (caricandosi frequentemente di significati aggiuntivi). Se nella lunga stagione del western italiano sono stati realizzati 480 film in cinque anni, si comprende facilmente che furono ben pochi quei registi che puntando all’incasso commerciale non si dimenticarono della bontà del prodotto. D’altro canto, però, il pubblico non era neppure allora insensibile alla qualità: tenendo conto dell’incasso medio di un western italiano (quattrocento milioni di lire, che comunque, visti i bassi costi, bastava per uscire in attivo), si può allora riflettere su quei titoli che nella intensa stagione 1964-1969 27
superarono i due miliardi di lire al botteghino. E non a caso si tratta delle opere di Sergio Leone e di quelle di Giuseppe Colizzi. Gli spettatori sanno scegliere bene cosa vedere, sostiene Claudio Carabba nel suo saggio sul western-spaghetti, Colizzi è infatti il migliore tra i registi che si gettano sui sentieri dell’ovest: “Uno dei pochissimi a credere alla possibilità di fare davvero romanzi d’avventura, nonostante il frequente uso dell’ironia” 24. Il suo esordio da regista ci può aiutare anche a comprendere quello spirito di speculazione che si aggirava fra i produttori. Con Dio perdona… io no! (1967), sua prima pellicola, ottenne subito un clamoroso successo e si capì da subito che il pubblico era attratto dal film anche per merito del singolare titolo “religioso”. E per questo, per il film successivo, venne riproposto un altro titolo simile, I quattro dell’Ave Maria (1968). Gli incassi furono ancora molto alti e nacque una moda. I produttori e i registi dell’epoca pensarono bene di sfruttarla. Uscirono una miriade di pellicole con titoli evocativi alla Colizzi, tutti legati alla religione o riconducibili ad elementi liturgici. Di seguito è elencata un evoluzione di tale curioso percorso: Dio perdona… io no! di Giuseppe Colizzi (1967) Dio li crea… io li ammazzo di Paolo Bianchini (1968) Dio non paga il sabato di Amerigo Anton (1968) Chiedi perdono a Dio, non a me di Vincenzo Musolino (1968) Ed ora… raccomanda l’anima a Dio di Demofilo Fidani (1968) Anche nel west c’era una volta Dio di Dario Silvestri (1968) Il pistolero segnato da Dio di Giorgio Ferroni (1968) Joko invoca Dio… e muori! di Antonio Margheriti (1968) L’ira di Dio di Alberto Cardone (1968) I quattro dell’Ave Maria di Giuseppe Colizzi (1968) Due volte Giuda di Nando Cicero (1968) Un minuto per pregare, un istante per morire di Franco Giraldi (1968) Il pistolero dell’Ave Maria di Ferdinando Baldi (1969) Dio perdoni la mia pistola di Mario Gariazzo (1970) E Dio disse a Caino di Antonio Margheriti (1970) Lo chiamavano Trinità di Enzo Barboni (1970) … e lo chiamavano Spirito Santo di Roberto Mauri (1971) I vendicatori dell’Ave Maria di Adalberto Albertini (1971) Quattro pistoleri di Santa Trinità di Giorgio Cristallini (1971) Acquasanta Joe di Mario Gariazzo (1971) Gli fumavano le colt… lo chiamavano Camposanto di Giuliano Carmineo (1971) 28
Figura 1: Cat “Doc” Stevens
Figura 2: Hutch “Earp” Bessy
Figura 3: Bud alla locanda
34
Capitolo Secondo L’OPERA PRIMA: DIO PERDONA… IO NO! Dio perdona… io no! (1967) è un film, lo abbiamo detto, nato per saldare un debito con Cinecittà. è un film appartenente ad un filone già ampiamente sfruttato e che il regista avrebbe potuto dirigere con sufficienza: all’epoca un western italiano era comunque un successo garantito, bastava girarlo con professionalità. Ciò non basta a Giuseppe Colizzi che realizza (rispettando le caratteristiche del genere) un western italiano “violento”. Un film per nulla superficiale, curato e ben confezionato. Pur creando un prodotto codificato per un pubblico di massa, l’autore riesce a non trascurare il proprio gusto personale (ci sono dei rimandi a Esopo nel film). Un film di rodaggio ma nello stesso tempo essenziale nella costruzione della saga futura di Cat e Hutch. La vicenda: L’unico superstite di un attacco al treno, che ha fruttato ai banditi 300.000 dollari, indica il responsabile in Bill Sant’Antonio. Si mettono sulle sue tracce Earp Hargitay, agente di una compagnia di assicurazione e Doc, un pistolero il quale credeva di averlo ucciso in un precedente duello. Quest’ultimo trascinerà Earp in un’avventura che si concluderà con l’uccisione di Bill e della sua banda. (dal Dizionario del cinema italiano) La nascita della coppia A volte le intuizioni migliori possono avvenire per caso, o magari per complicati disegni del destino. La formazione della coppia Bud Spencer Terence Hill è avvenuta proprio per caso. La celebre coppia, che negli anni Settanta sarà una miniera d’oro per i botteghini italiani, si è formata proprio sul set di Dio perdona… io no!. Ma per comprendere che ruolo ha avuto il fato, occorre risalire alle origini di questo cult-movie. Come si è già detto, Giuseppe Colizzi è passato attraverso una lunga gavetta prima di debuttare alla regia. è stato un aiuto regista, sceneggiatore, direttore di produzione, montatore, produttore 26. Forte dell’esperienza avuta sul set de Il buono, il 35
brutto, il cattivo come assistente al montaggio e alle riprese, inizia a scrivere la sceneggiatura di quella che sarà la sua opera prima: Il cane, il gatto, la volpe. Manolo Bolognini, produttore e amico storico di Colizzi 27 racconta: “Colizzi, per una storia d’amore, era andato via dall’Italia e quando tornò lo feci lavorare alla Zebra Film di Moris Ergas. Poi lui produsse un film che andò malissimo con Ugo Gregoretti, Omicron. Fui io a spingerlo a fare un western per rimettersi a posto. Ricordo che mio fratello Mauro si inventò il titolo”. Marco Giusti, nel suo prezioso Dizionario del western all’italiana 28, scrive che il film, per volontà del produttore Fulvio Lucisano, avrebbe dovuto essere realizzato con la regia di Gianni Proia, presto scalzato da Colizzi, che allora aveva una quota produttiva del film. Poi Lucisano non avrebbe più creduto nel film, e quindi litigato con il socio (e neoregista) cedendogli la sua quota, la più alta. è una versione che contrasta decisamente con quella del produttore Enzo D’Ambrosio, che racconta che Gianni Proia collaborò inizialmente alla sceneggiatura proprio perché amico di Colizzi. Fu la difficoltà di raggiungere un prodotto accettabile a spingere Colizzi a scrivere da solo il testo in una settimana. Per la regia si pensò subito a Colizzi, dice D’Ambrosio, aggiungendo poi che Lucisano fu liquidato perché non più interessato al film 29. Gina Rovere, che in Dio perdona… io no! interpreta Rose, racconta invece che Giuseppe Colizzi girava da una decina d’anni con il copione di questo film, che nessuno voleva fare: era, cioè, alla ricerca di un finanziatore. Al di là di tutto questo, per le parti dei protagonisti, con Esopo in mente, Colizzi vuole degli attori che appaiano cane, gatto e volpe: la sua idea è di farli recitare come se fossero degli animali (così come Esopo faceva agire gli animali come se fossero persone). Per la parte della volpe viene scritturato Frank Wolff (con i capelli tinti di colore arancione, per assomigliare alla pelliccia dell’animale da lui impersonato). La volpe è un personaggio tanto furbo quanto tentatore, che l’attore riesce a caratterizzare con fattezze luciferine. Per la parte del cane, Silvana Mangini, moglie di Giuseppe Colizzi e assistente alla regia, pensa invece di proporre il ruolo a Carlo Pedersoli. Pedersoli non è un attore professionista ma un aitante ex campione di nuoto 30, notato dalla Mangini come comparsa nel film Siluri umani 31. L’idea piace anche al neo regista, che si decide a contattare l’ex nuotatore per proporgli la parte. A casa di Pedersoli risponde però la moglie, che alla domanda di Colizzi: “Suo marito è ancora grosso come quando faceva sport?” risponde: “Si! 36
Figura 4: Il gatto estrae gli artigli
Figura 5: Atteggiamenti felini
Figura 6: Bud Spencer, il cane
37
Anzi, è il doppio perché ora pensa solo a mangiare e non fa più niente”. Incuriosito, Giuseppe Colizzi fissa subito un appuntamento con l’ex atleta. Secondo una simpatica dichiarazione dell’attore 32, il colloquio deve essersi svolto più o meno così: Colizzi: “Sai andare a Cavallo?” Pedersoli: “No, io i cavalli li ho visti solo all’ippodromo”. Colizzi: “Parli inglese?” Pedersoli: “No. Nemmeno una parola”. Colizzi: “Ti sei mai fatto crescere la barba?” Pedersoli: “No, me la faccio tutte le mattine”. Colizzi: “Uhm… Quanto vuoi per fare il film? L’impegno è di due mesi: giugno e luglio”. Pedersoli: “Quattro milioni, perché ho due cambiali da pagare”. Colizzi: “Più di uno non te lo posso dare, perché non hai mai fatto niente”. Insoddisfatto, Pedersoli rinuncia alla parte. Colizzi si trova così costretto a cercare un altro attore, ma in realtà è una ricerca inutile: le caratteristiche fisiche di cui ha bisogno per il film le ha già individuate in quel talentuoso ex nuotatore. èd così che il regista ritorna da lui e gli promette i quattro milioni di lire richiesti. Oggi è cosa scontata osservare che durante la stagione del western italiano era abitudine cambiare in inglese i nomi degli attori e dei tecnici che prendevano parte al film. Pedersoli non sfugge a questa regola, e gli viene chiesto di scegliere uno pseudonimo americano: “Bevevo una certa birra che di nome faceva Bud, e scelsi Bud. Mi piaceva Spencer Tracy e presi Spencer… e fu così che nacque Bud Spencer” 33. Per la parte dell’attore che deve interpretare il gatto viene chiamato Peter Martell (alias Pietro Martellanza), ma dopo soli quattro giorni di riprese il destino entra fatalmente in gioco: durante un litigio in albergo con la fidanzata l’attore si rompe un piede, rendendosi quindi indisponibile per il film. Una colorita e pittoresca versione del “destino”, e di quello che accadde a Peter Martell ce la fornisce anche il caratterista Remo Capitani (che in Dio perdona… io no!, ricordiamolo, interpreta l’oste): “Lui se trombava una parrucchiera e qualche fijo de na mignotta l’ha detto alla sua donna e l’ha fatta arrivare in Spagna. Eravamo al Grand Hotel e ho 38
visto tutta la scena. Lui stava tornando dal set, tutto sporco, e stava salendo la grande scalinata dell’albergo. Lei, come lo vede, gli dice un sacco di parolacce, poi inizia a dargli delle borsate. Lui, per evitare una borsata, è scivolato e si è rotto una gamba. è stata la fortuna di Terence Hill e la sfortuna di Peter Martell, che era bravo, anche se lo dovevi tene’ a freno, perche beveva” 34. Al di là di tutto, quello che conta è che ora serve un nuovo attore… e serve in fretta! Colizzi si rivolge per questo all’amico e produttore Manolo Bolognini, che subito gli propone il nome di Mario Girotti. Ha già preso parte ad alcuni film con produzione tedesca 35 (tra cui anche i western tratti da Karl May) ed ora si trova in Italia per girare Little Rita nel west, un musicarello western con Rita Pavone e Lucio Dalla. Sempre Bolognini fa notare al regista che Mario Girotti può essere utilizzato anche come sosia di Franco Nero. A Colizzi l’attore piace, e dopo averlo sottoposto a un provino lo scrittura subito per la parte del gatto. Anche per lui serve un nome americano, e da una lunga lista fornitagli dalla produzione l’attore sceglie il nome Terence Hill. Peter Martell (nel documentario a lui dedicato 36) ricorda invece l’episodio con la malinconia tipica di chi sa di aver perso un occasione, una grande occasione: “è la vita… c’è di peggio ma c’è anche di meglio. A me è capitato così. Mi sono rotto una gamba, ma sentivo nell’aria che stava per nascere qualcosa. Arrivò il dottore dei giocatori del Real Madrid e mi disse che mi ero fratturato il malleolo: bisogna ingessare! Ho detto al caro Giuseppe Colizzi ‘Madonna quanto mi rode il culo, perdonami… Ma possiamo ingessarlo, lo copriamo, lo sporchiamo e facciamo il film’. Lui quasi quasi ci stava, ma le donne sono più pratiche: sua moglie ha detto ‘se questo cade e si rompe un’altra volta, ci tocca fermare il film… e sono soldi’. Allora hanno chiamato un giovane ragazzo, bello, biondo, con gli occhi blu. Assomigliava a Franco Nero. è una roulette… è stato il turno suo, di Terence Hill”. E fu così che la famosa coppia Bud Spencer- Terence Hill si trovò a lavorare insieme per la prima volta. Il film viene girato in Spagna, come d’abitudine per la maggior parte dei western italiani, e alla sua uscita nelle sale incontra subito uno straordinario successo. Il regista notò, durante i test con il pubblico, che la gente apprezzava maggiormente i momenti in cui i due attori condividevano la scena. “è una dinamica che si è creata da subito[…] C’è come un elemento mitologico attorno alla coppia, un’aura che è inspiegabile” 37. 39
238
Capitolo Ottavo TESTIMONIANZE: … A PROPOSITO DI GIUSEPPE COLIZZI Conversando con Terence Hill
La prima cosa che vorrei chiederle è un ricordo di Giuseppe Colizzi, sia come uomo sia come regista. Mah, un ricordo così… immediato, io lo vedo sul set. Molto dedicato al lavoro che lui faceva. Io lo vedo concentratissimo, appassionatissimo al suo lavoro, appassionato alla mdp… e quindi prima di trovare l’inquadratura giusta ci metteva molto tempo; appassionato della fotografia… Questa è la prima immagine. Poi ricordo che lui non fumava, ma per scaricare la sua tensione (che è una cosa che mi divertivo a fare anch’io) lui usava i bastoncini di liquirizia, quelli naturali… e mi ricordo che aveva un bellissimo coltello svizzero, che io all’epoca gli invidiavo! Lui tagliava con le forbici la parte masticata del bastoncino. Poi giustamente c’è l’immagine privata, una persona molto interessante, colta, molto amico… Ogni volta ce lo dimostrava, mi accoglieva con grandi sorrisi e con molto affetto. Parliamo adesso del primo film: Dio perdona… io no! Lei ha dichiarato di essere stato chiamato sul set in sostituzione di Peter Martell. Mi pare che le abbiano fatto un provino; in cosa consisteva? Sì, c’era il trucco e mi fecero recitare una scena. Lo facemmo negli uffici di Manolo Bolognini questo provino. Lei interpreta il personaggio di Cat Doc Stevens, ma anche il personaggio di un gatto. Esatto. Per fare Dio perdona… io no! il regista si è ispirato ad una favola di Esopo: 239
Il cane, il gatto e la volpe. Guardando il film, in effetti, si nota che la sua recitazione rimanda ad un gatto, senza contare che a volte per colpire gli avversari usa gli artigli: coltello e speroni. Era tutto scritto in sceneggiatura? Non proprio: il coltello e gli speroni sì, ma le movenze le studiai io. Lui mi mandò al giardino zoologico a studiare le tigri, il loro modo di guardare. Mi ricordo una volta, durante una cena, mi disse: “Devi guardare nel modo in cui lo fanno i gatti. Guardi l’avversario, ma non lo guardi: lo attraversi !”. Molto interessante... Questo sguardo è nato proprio lì! E poi il film si doveva chiamare Il cane, il gatto, la volpe quindi era studiato per ciascuno di noi. Io avevo questo costume di felpa, i colori erano questo verde bottiglia sporco…e avevo una mantellina con una pelliccia un po’ da gatto. Ma dove si vede ancora di più questo studio era nel costume di Bud Spencer, aveva questo pelliccione che sembrava un po’ un cane San Bernardo. La prima immagine di Bud Spencer è proprio di spalle con la pelliccia, mentre lei spesso si arrampica con degli atteggiamenti felini. Certo, certo, (ride). E lui (indicando la foto di Frank Wolff) si è fatto tingere i capelli e la barba di rosso. Ah, pensavo fosse naturale… No, no, per fare la volpe. Lui poi era un grande attore… Frank Wolff Lo ricordo in C’era una volta il west… Poi lui ha fatto dei film con Damiano Damiani, che allora era un regista di prima categoria… No, no, un grosso attore. Tra l’altro i personaggi sono appunto tre, il cane, il gatto e la volpe. Poi analizzando il film ho notato una cosa: il personaggio di Frank Wolff rappresenta sì la volpe, ma poi subisce una metamorfosi da volpe a serpente (il simbolo del diavolo insomma). Come prova ci sono molte scene: dal dialogo di Doc con il becchino (che parlando di Bill dice: “Sembrava che era già stato a casa sua, cioè all’inferno”) sino alle scene in cui il nascondiglio di 240
Sant’Antonio è dominato da luci arancioni e rosse che lo fanno sembrare un inferno vero e proprio; senza contare che Bill stringe fra le mani un agnello: il simbolo di Cristo. Nel duello finale, quando Doc colpisce Bill Sant’Antonio - prima alle gambe e poi alle braccia - esclama: “E adesso striscia da pari tuo!” Paragonandolo quindi ad un serpente. è vero… Potrebbe essere una citazione, un gioco… il personaggio è talmente negativo che passa da volpe a serpente. è vero! Mi sembra giusta come teoria. Se non sbaglio il successo di Dio perdona… io no! fu enorme… Sì, inusuale perché allora il western italiano stava finendo. Era un po’stanco. Invece Dio perdona… io no! fu una grossa sorpresa perché ebbe un enorme successo. Un incasso inaspettato. Dopo è la volta de I quattro dell’Ave Maria; io mi sono permesso di soprannominare i tre film “La saga di Cat e Hutch”, perché alla fine i personaggi sono sempre gli stessi. Certo. I quattro dell’Ave Maria è l’episodio che secondo me è più riuscito. Quello che preferisco: non esito a definirlo un piccolo capolavoro. Un film perfettamente equilibrato: western, avventura, ironia, dramma… praticamente c’è tutto. All’inizio mi hanno colpito le inquadrature che la mostrano sempre in coppia con Bud Spencer: due paia di stivali, due cavalli… è come se si volesse suggerire al pubblico che voi due formate una coppia, siete una coppia... Sì, perché Colizzi, quando uscì il primo film, girò per le sale e disse: “Io ho notato che quando voi due state insieme sullo schermo, il pubblico reagisce in modo favorevole e si diverte”. E lì decise di metterci insieme. Infatti le inquadrature mostrano proprio questa volontà. Sì, aveva intuito tutto lui. 241
254
Conversando con Bud Spencer Un ricordo, prima che come regista, come persona di Giuseppe Colizzi. Cominciamo col dire che non sapevo chi fosse Giuseppe Colizzi. L’ho conosciuto man mano che andavo avanti, con i film che abbiamo fatto. Praticamente è quello che mi ha convinto a fare l’attore. Perché io non ho mai desiderato nella mia vita di fare l’attore, pur avendo sposato la figlia del più grande produttore cinematografico italiano, Giuseppe Amato, quello che ha fatto La dolce vita. Non abbiamo mai parlato, né io con lui né lui con me, di iniziare a fare l’attore: lei adesso mi vede che sono 120 Kg, ma allora ero 156 Kg! Era fuori discussione anche fare qualunque comparsata, perché ero un uomo enorme molto più di quello che sono oggi. Però lui [Giuseppe Colizzi] ha chiamato mia moglie dicendo: “Suo marito è ancora così grosso e forte come quando faceva le olimpiadi?” No, è ancora più grosso perché mangia solo e non fa più sport risponde lei. “Sì, ma lo vorrei vedere…” ribatte Colizzi. Quindi io questo primo contatto con Giuseppe l’ho avuto a casa sua, e la prima cosa che mi chiese fu: “Parli inglese?” “No, nemmeno una parola” “Sai andare a cavallo?” “No, io ho fatto il nuotatore…” “Ti sei mai fatto crescere la barba?” “No, me la faccio tutte le mattine” Questo è stato il primo impatto. Siamo andati avanti a parlare e dopo un po’ mi dice che mi vuole nel suo film. “Quanto vuoi?” mi chiese. “Quanto tempo devo lavorare?” “Sono due mesi, giugno e luglio” “Guardi, io ho due cambiali: una a giugno e una a luglio; se lei me le paga faccio il film” “Che cambiali sono?” “Sono da due milioni la prima e due milioni la seconda” Risposta: “Non ti posso dare più di un milione perché cominci adesso, un milione è già tanto …”. 255
318