Contadini di città

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Orto sociale: sostenibilità e socialità La jungla di cemento della città occidentale del 2000 offre infiniti scorci urbani, la maggior parte dei quali costituisce esempi decisamente negativi dal punto di vista di chi parteggia e si batte per il recupero della forma originaria del rapporto tra uomo e natura che in queste realtà moderne si è oramai dissolto. Tuttavia, fra grandi tangenziali a quattro corsie, giganteschi e alienanti centri commerciali e uffici popolati da stuoli di frenetici impiegati si possono trovare scorci di vita che, pur nella loro apparente semplicità, costituiscono uno spiraglio di sopravvivenza non solo dal punto di vista ambientale, ma anche da quello comunitario, sociale e - perché no? - anche economico. Stiamo parlando degli orti urbani. Di primo acchito si potrebbe pensare a questo tipo di strutture come il rifugio del pensionato, il vecchietto - ma dietro a questo microcosmo urbano c’è molto di più. Un punto di vista ambientale, dicevamo; l’orto può costituire infatti, un’alternativa su piccola scala alla grande agricoltura intensiva, basata su ritmi di coltivazione innaturali, sull’ampio utilizzo di pesticidi, fitofarmaci, fertilizzanti, strumenti atti a conseguire - secondo la logica capitalistica della “crescita a ogni costo” - il massimo rendimento per ettaro in termini di produzione, merce e quindi guadagno. È quasi inutile dilungarsi a spiegare le conseguenze negative di queste pratiche: alterazione dei cicli naturali, inquinamento del suolo e dell’aria, annientamento della biodiversità, fino ad arrivare alla commercializzazione di prodotti di qualità scadente, spesso addirittura dannosi per la saluta di chi li consuma. Completamente diversa la sensibilità con cui il coltivatore dell’orto svolge il suo lavoro: anzitutto è del tutto assente la ricerca del profitto e dell’ottimizzazione della produzione, concetti inconciliabili con un approccio sincero ai cicli di produzione naturali. La cura dell’orto avviene attraverso metodi tradizionali, frutto dell’antica sapienza contadina, rispondenti a un’esigenza di semplice sostentamento e autoproduzione e permeati da un profondo amore e senso di gratitudine nei confronti della terra. Un po’ di storia, dagli orti di guerra agli orti sociali come pratica di “agricivismo”. Gli orti urbani furono numerosi durante il ventennio fascista e in particolare negli anni della seconda guerra mondiale quando, per fronteggiare la grave crisi economica, il regime decise di intensificare la cosiddetta “battaglia del grano” promuovendo la coltivazione degli “Orti di guerra”. Giardini privati, parchi pubblici e aree edificabili furono resi produttivi grazie al lavoro degli stessi cittadini e degli aderenti alle organizzazioni del partito. Qualcosa di analogo a quanto accadeva nel contempo dall’altra parte della barricata, negli Stati Uniti, dove nei cosiddetti “Giardini della Vittoria” gli americani coltivavano una percentuale importante del fabbisogno orticolo nazionale. Ma è con il grande sviluppo industriale della seconda metà del XX secolo che, in fasce importanti del territorio italiano, soprattutto settentrionale, si assiste a un vero e proprio boom degli orti urbani, tanto da fare emergere la necessità di una loro prima regolamentazione. La cosiddetta “seconda rivoluzione industriale” investe in particolare le aree periurbane, cioè quelle zone di “transizione” tra città e campagna destinate storicamente ad accogliere determinate attività (grandi impianti industriali, infrastrutture ferroviarie e aeroportuali, cimiteri, ecc.). Tali aree in quegli anni furono assorbite dalle città, caratterizzandosi però per il diffuso degrado e l’isolamento sociale tipici dei quartieri delle estreme periferie cittadine. Sono queste le zone in cui saranno edificati i complessi abitativi destinati alla nuova manodopera industriale proveniente dalle regioni dell’Italia meridionale, e sono queste le aree in cui il fenomeno degli orti urbani avrà il suo massimo sviluppo. Analoghe condizioni si riscontrano in altre città, soprattutto Milano, Bologna, Firenze e Roma dove, all’aumento consistente della popolazione coincide un’ espansione delle aree orticole gestite, nella maggior parte dei casi in maniera abusiva da parte dei nuovi residenti, generalmente immigrati


meridionali: contadini, braccianti, pastori che, costretti a trasformarsi in operai nelle grandi fabbriche o in addetti di altri settori produttivi, mantenevano un rapporto con la loro cultura d’origine attraverso la coltivazione di decine di migliaia di piccoli appezzamenti, ricavati lungo le rive dei fiumi cittadini, le reti ferroviarie, i tracciati viari e in qualunque altro pezzo di terreno residuale. Una integrazione al reddito, ottenuta con grande fatica (spesso i terreni si presentavano come vere e proprie discariche), ma anche la volontà di recuperare valori ed esperienze lontani attraverso strumenti come la terra e l’agricoltura legati al vissuto di questi nuovi contadini di città. L’orto dunque si rivela elemento di identificazione per gli immigrati, ma non solo; esso rappresenta anche opportunità di svago, di impiego del tempo libero, un’occasione di ritrovo. L’esigenza di contenere gli aspetti di spontaneità e abusivismo del fenomeno orti urbani e il riconoscimento dell’ importanza socio-economica da essi esercitata si tradussero, negli anni ’80, nella redazione delle prime normative relative all’assegnazione di aree orticole ai cittadini interessati. Esperienze all’estero Gli orti urbani sono realtà riscontrabili nella maggioranza dei Paesi europei e rivestono un ruolo e un valore che si differenzia nei diversi contesti, come si evince anche dalle diverse denominazioni che assumono: in Francia, sono generalmente chiamati jardins familiaux,

in Spagna il termine huertos familiares sta lentamente sostituendo quello di huertos marginales, così come in Italia il termine orti urbani quello di orti abusivi;


in Germania e in Austria sono chiamati kleingarten (piccoli giardini) e in Inghilterra viene usato il termine allotment garden (letteralmente ortidi giardino).


L’esperienza dei Community Gardens, giardini pensati, realizzati e curati dai e per i cittadini, nasce spontaneamente negli anni ’70 a New York come movimento per l’occupazione di aree e spazi urbani degradati da adibire a giardini e orti fruibili dalle comunità residenti. Liz Christie, fautrice dell’iniziativa, avviò un’operazione di cosiddetta “guerriglia verde” seminando alcune zone incolte e abbandonate di un quartiere di Manhattan: un gesto che segnò lo sviluppo di un movimento e in seguito la nascita dei Community Gardens, che oggi nella metropoli americana occupano una superficie urbana di oltre 300 ettari in cui oltre a coltivare piante ornamentali, ortaggi e frutta vengono organizzati mostre, fiere, eventi a carattere ecologico – ambientale. Una realtà americana nuova in materia di Urban Farming e/o City Farming è rappresentata dalla città di Detroit. Nel capoluogo del Michigan, che guida la classifica nazionale del decremento demografico, le difficoltà economiche e sociali provocate dalla crisi industriale hanno moltiplicato la conversione dei terreni e delle aree abbandonate in fattorie urbane.



Oggi, in Italia, la categoria di orti civici più diffusa è riservata agli anziani. Sono molto richiesti e frequentati, sono luoghi di amicizia e socialità. Nei progetti di agricivismo si intende trattare l’orto come risorsa umana e paesaggistica. Si propone l’estensione dell’assegnazione degli orti civici ad altre fasce sociali ed il ridisegno della struttura degli orti in termini paesaggistici e di accessibilità.


Vantaggi degli orti urbani collettivi La creazione di un orto urbano collettivo porta benefici per gli individui, i quartieri, le città e le comunità di cui esse fanno parte. Vantaggi per i singoli Salute L'orto urbano comunitario è un mezzo per avere a disposizione alimenti freschi autoprodotti. I vantaggi sono: gli individui e le famiglie, prendendo parte alla coltivazione di un orto, hanno accesso a cibi freschi, nutrienti e variati che contribuiscono alla salute nutrizionale; coltivando l'orto gli individui fanno anche attività fisica e ciò contribuisce alla salute fisica. Apprendimento imparare a coltivare delle piante è mentalmente stimolante e permette ad un individuo di acquisire conoscenze e competenze; se, per coltivare, si usa il metodo dell' agricoltura biologica derivato dalla permacoltura, si acquisiscono conoscenze raffinate di coltivazione che permettono di ottenere alimenti biologici con poco lavoro di manutenzione; gli orti possono essere utilizzati da comunità di autoformazione, scuole e università, come luoghi di apprendimento; gli orti sono il mezzo per apprendere come minimizzare i rifiuti e riciclarli attraverso il compostaggio;


gli orti sono il mezzo dove apprendere il rispetto e la cura per il proprio territorio e per i beni comuni: statisticamente in zone dove vi sono orti collettivi diminuiscono il vandalismo e la criminalità.

Vantaggi sociali Socializzazione tra individui

l'orticoltura collettiva è un'attività sociale che implica la decisione, la soluzione di problemi e la negoziazione dei conflitti, oltre all'accrescimento

di competenze per i partecipanti;

gli orti sono luoghi di incontro con gli altri, sulla base di comuni obiettivi ed affinità;

gli orti come spazi sociali, possono essere usati per costruire un senso di comunità, di cooperazione sociale e di appartenenza su base territoriale.

Ostacolo al degrado ed alla speculazione edilizia

gli orti, occupando terreni abbandonati, sono uno strumento collettivo per opporsi fattivamente alla speculazione edilizia selvaggia ed al degrado dei quartieri urbani.

Rigenerazione ambientale

gli orti rinverdiscono aree abbandonate e portano biodiversità in spazi pubblici aperti ed altre aree, diventando strumento di rigenerazione urbana;

gli orti diversificano l'uso degli spazi aperti e creano un'opportunità ricreativa attiva e passiva;

la biodiversità delle specie vegetali che si trovano negli orti favorisce il rigenerarsi della natura in ambito urbano.

Rigenerazione sociale

la cooperazione tra governi locali e cittadini può rafforzare la società civile su base territoriale;

gli orti urbani collettivi sono una dimostrazione pratica delle politiche pubbliche in ambito ambientale, come il riciclaggio dei rifiuti, l'Agenda21 e lo sviluppo di relazioni sociali locali.


Agenda 21 Agenda 21 è un programma delle Nazioni Unite dedicato allo sviluppo sostenibile: consiste in una pianificazione completa delle azioni da intraprendere, a livello mondiale, nazionale e locale dalle organizzazioni delle Nazioni Unite, dai governi e dalle amministrazioni in ogni area in cui la presenza umana ha impatti sull'ambiente. La cifra 21 che fa da attributo alla parola Agenda si riferisce al XXI secolo, in quanto temi prioritari di questo programma sono le emergenze climatico - ambientali e socio-economiche che l'inizio del Terzo Millennio pone inderogabilmente dinnanzi all'intera Umanità. L’Agenda 21 è quindi un piano d’azione per lo sviluppo sostenibile, da realizzare su scala globale, nazionale e locale con il coinvolgimento più ampio possibile di tutti i portatori di interesse (stakeholders) che operano su un determinato territorio. L'Agenda 21 è divisa in 4 capitoli per un totale di 40 obiettivi. La suddivisione dei capitoli è la seguente: 1) Natura economica sociale (es. cambiamento comportamentale di consumo, politiche demografiche sostenibili e lotta contro la povertà). 2) Conservazione e gestione delle risorse per lo sviluppo (es. protezione dell’atmosfera e lotta alla deforestazione). 3) Coinvolgimento di tutte le componenti nazionali nei processi decisionali. Viene adottata l’agenda 21 locale, cioè un processo di programmazione capace di avviare strategie di sviluppo sostenibile che siano rispondenti alle caratteristiche locali e potenziali del territorio. 4) Attuazione pratica delle decisioni concordate (es. programmi di educazione ambientale, trasferimento di tecnologia ecosostenibile da un paese all’altro).


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