Riverbero

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RIV ERB ERO


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RIV ERB EN O RT E OD I R E G I A

TRATTO DA "NEITHER" DI SAMUEL BECKETT PROGETTO REALIZZATO DA IUNONA PRESCORNIC ANNA CHIARA CAPIALBI CHIARA MORBIDELLI LEONARDO SALVEMINI G I U L I A Z A F F I N O M A N U E L A D A V O L I MADDALENA NICOLELLA


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INDICE

il digeridoo il theremin

SCENA SCENA SCENA SCENA SCENA

I II III IV V


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Da subito abbiamo iniziato a lavorare sul testo, non sapendo ancora se questo ultimo sarebbe stato solo un punto di partenza o l’effettiva anima del progetto. Analizzando l’uso della parola di Beckett, conoscitore profondo del ritmo della lingua, le sfumature e campi semantici, abbiamo associato immagini, luci, suoni e assenze di suoni al componimento. Abbiamo tradotto nuovamente il testo, notando nuove differenze che hanno ampliato la nostra visione. Neither, ovvero ottantasette parole, senza uso di maiuscole, con nove a capo, per un totale di dieci brevi enunciati con una punteggiatura ridotta a due o tre virgole. Non ci sono soggetti, le azioni vengono espresse in modo indiretto con verbi al participio, al gerundio. Chi sta parlando, chi si muove, in un moto senza meta, da sé a non sé, da luce ad ombra, per arrivare ad una “inesprimibile dimora”? Quello che venne definito da Beckett una short-prose, un “racconto” con un solo personaggio indefinito, nessuna trama, nessuna azione, è un’opera che sfugge in tutto e per tutto alla definizione convenzionale del genere. Beckett scrive in inglese perché è una lingua ambigua e, per sottolineare questa peculiarità, toglie il soggetto trasmettendo “un’ambiguità esistenziale”, un’astrazione del tema dello stare al mondo. Si ricrea così un’atmosfera di eterno presente, cupa e tesa, fatta di fantasmi e di echi, in cui si perdono le coordinate spazio-tempo a favore di un eterno presente fatto di luci e di ombre. Ad essere messa in scena, nello spettacolo è la mancanza. Non c’è un soggetto o un personaggio, ma un’azione: la ricerca di ciò che non può essere rappresentato. I veri protagonisti sono la luce e la sua assenza, il suono e il suo contrario, il silenzio.


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Nè l’uno nè l’altro

(Prima traduzione)

Neither Avanti e indietro nell’ombra dall’ombra interna all’esterna Dall’impenetrabile sé all’impenetrabile non sé passando per nessuno di essi Come tra due accesi/illuminati rifugi le cui porte una volta vicine si chiudono gentilmente/lentamente Una volta allontanate si separano nuovamente con gentilezza Si invitano in continuazione e si danno le spalle Senza considerare la strada si perdono in un raggio di luce/speranza nell’altro I passi inuditi si fermano, assenti finalmente da/per se stessi e da/per gli altri Allora nessun suono/silenzio Ma/poi la luce fioca non sparisce su quell’inosservata ne’ pronunciata casa. (Seconda traduzione)

IL PROGETTO

I Su e giù nell’ombra da quell’interna all’esterna II Dall’impenetrabile sé all’impenetrabile non-sé di modo che né l’uno né l’altro III Come due rifugi illuminati le cui porte non appena raggiunte impercettibilmente si chiudano, non appena volte le spalle impercettibilmente di nuovo si schiudano IV Si accenni l’avanti e indietro e si volga le spalle V Noncuranti della strada, compresi dell’uno e dell’altro barlume VI Unico suono passi inascoltati VII Finché finalmente arrestarsi una volta per tutte, disattenti una volta per tutte all’uno e all’altro VIII Allora nessun suono IX Allora impercettibilmente indissolvendosi la luce su tale inosservato né l’uno né l’altro X L’inesprimibile meta.


TEMATICHE

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Il conflitto tra disperate solitudini: l’individuo abbandonato in non-luoghi che non riesce a raggiungere l’inesprimibile meta della fusione con l’altro. Oppure tensione erotica, incarnazione del desiderio, che porta alla ricerca dell’altro da sé. Oppure dimensione individuale: stare al mondo significa vivere una condizione oscillante tra la vita e la morte, tra l’essere in ombra e l’essere nella luce, tra mondi in contraddizione e conflitto che rappresentano l’uno la negazione dell’altro. Esempio: Egon Schiele - L’abbraccio, 1917


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La luce crea le immagini, quel mondo oscillante tra sé e non sé, tra ombra interna ed esterna, così come espresso nel testo. I rifugi che ci sono permessi sono illuminati per breve tempo, poi tutto ricade nell’oscurità. Luci sono soffuse, indefinite e nebulose. Ipotesi: Alternanza di controluce e luce frontale che delinea delle sagome (scena II).

LUCI

L’impianto luci che quindi utilizzeremo è formato da 6 punti luce. Una grande lampada industriale sospesa per mezzo di una gru al di fuori del capannone, così che una luce oscillante penetri attraverso i finestroni superiori (vedi “Neither” di Castellucci). Due fari “spot” o teatrali messi a terra agli angoli retrostanti della scena puntati verso il centro, i quali creano un fascio di luce caratterizzato da bordi morbidi e degradanti, con l’uso di sagomatori è possibile regolare le dimensioni del fascio. Verranno utilizzati prima a bassa intensità per creare una luce soffusa, poi la potenza verrà elevata per poter creare un effetto controluce contro i corpi dei performers facendoli risultare in ombra. Tre fari di tipo Par che creano un fascio di luce conica. Due di questi saranno posti nella parte alta frontale della scena per creare delle macchie di luce a destra e a sinistra incrociando i fasci; un altro sarà posto a media altezza nella parte mediana della scena a tagliare trasversalmente gli altri due fasci di luce. Questi tre fari saranno accesi uno per volta a rotazione con velocità sempre maggiore (scena IV). Il colore delle luci varierà fra i 3000 e i 5000 kelvin: luci fredde (5000 K) nelle scene di maggiore staticità, luci più calde (3000 K) nelle scene di maggiore dinamicità.


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Non ci sono voci, solo parole di sottofondo di una massa indistinta, accompagnate da passi sulla sabbia (VI “unico suono passi inascoltati”). Si percepiscono, come gli ultrasuoni a bassa frequenza, inaudibili, che influiscono e vengono percepiti a livello fisico. Come le onde, il suono cresce progressivamente per poi interrompersi. Il silenzio. (VIII “allora nessun suono”). Ipotesi: Musica suonata dal vivo. Strumenti come didgeridoo e theremin.

SUONO

Il Didgeridoo, di forma tubolare, proviene delle popolazioni aborigene d’Australia. È uno strumento primitivo, ancestrale, che gioca con sonorità concrete, fisiche. Il suono costante è caratterizzato da frequenze basse, viscerali, questo porta l’annullamento della percezione del suono stesso. Indispensabile per dettare i tempi dello spettacolo avvolge come un lenzuolo l’azione. Il Theremin, che deve la sua fama alla fantascienza di fine degli anni 50, è un strumento che si controlla con i movimenti del corpo, senza un contatto fisico o riferimenti visivi. Il suono si genera grazie ad un campo magnetico e risulta simile ad un canto. Abbiamo cercato quella dimensione sonora che accentuasse in qualche modo il testo, decidendo quindi di riprodurlo come canto indistinto, assecondando la forma del suono dello strumento. La voce si presenta soltanto sotto forma sonora strumentale, trascendendo la forma umana e diventando incorporea. Alcuni riferimenti: Ron Grainer - tema apertura “Doctor Who” 1963 Carolina Eyck - L’estasi dell’oro (Ennio Morricone) Katica Illényi - C’era una volta il West Troy Page - Digeridoo Solo


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CONCRETO&ASTRATTO

Limbo onirico in cui non ci sono corpi ma bozzoli contorti, confusi che spinti dalla musica si uniscono piano piano e si allontanano, con movimenti che richiamano quelli degli insetti. Teli, veli che avvolgono una massa di corpi che si scontrano a livello fisico in modo aggressivo, disperato, quasi disturbante, oppure persone che cercano se stesse nell’altro, in una vana ricerca di fusione. Funambolo che cammina in bilico su una fune tesa al di sopra dell’ignoto, da cui è possibile ‘cadere’ su molteplici versanti interpretativi.


COSTUMI&BOZZOLI

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Bozzoli. Ragni o insetti che fuoriescono da gusci protettivi. Corpi avvolti da carta o nastri, a mascherarne e confonderne ancor di più le forme. Oppure nudi o con semplici fasce, sporcate anch’esse con vernice, fragili e indefiniti, spogli e isolati. Ancora la ricerca di sè, sopperire questa fragilità completandosi con qualcosa di diverso da se stessi.


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Un trucco che mascheri i lineamenti del viso, che fonda le forme dei corpi. Vernici bianca e nera, spalmate sulla pelle, in maniera disordinata, che riporti a figure primitive ed ancestrali. Il trucco diventa un mezzo per alienare il corpo, per trasformarlo in un’entità altra, simbolica, ma materica e viva. È il sé che cerca la fusione con il non sé, con ciò che è estraneo altro dalla propria fisicità e materialità. Pitture tribali, quasi di guerra.

TRUCCO


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LUOGHI

I luoghi-non luoghi costituiscono il labirinto concettuale nel quale lo spettatore si perde nella sua ricerca. Quello descritto è un luogo chiuso vissuto come rifugio protettivo o claustrofobico spazio, con repentine aperture e chiusure delle porte. (III “Le cui porte non appena raggiunte impercettibilmente si chiudano, non appena volte le spalle impercettibilmente si schiudano”). Ipotesi: Ambiente industriale, abbandonato e degradato. Capannone industriale come simbolo del vuoto e della solitudine del singolo, che porta alla vana ricerca di sé negli altri.


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Lo spazio scenico è un luogo isolato, decadente e smorto, abbandnato, quasi privo di vita. Una struttura industriale, appunto. Medie dimensioni, deve dare l’idea del vuoto interiore, ma senza essere dispersivo. Nessun sipario, atmosfera cupa e gioco di luci ed ombre. Gli spettatori entrano in un grosso spazio dalla luce tremolante, con una leggera musica nell’aria. Sono all’interno di un essere sopito che sta risvegliandosi. Ci sono bozzoli in carta e tela (circa 15) sospesi e raggruppati a terra, attraverso i quali si intravedono delle forme in leggero movimento. Nessuna pausa tra una scena e l’altra, i cambi (come lo spostamento dei bozzoli) avvengono in scena, davanti agli occhi degli spettatori.

SCENE


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Durata: ciclico, minimo 1h Luogo: Spazio industriale, chiso, medie dimensioni Scene: 5 Luci: Due spot (o luci teatrali), tre fari Par e un faro industriale Attori: tra i 15 e i 20 sempre in scena, altri 5 dietro le quinte che intervengono nei momenti di buio per sostituire gli attori stanchi o affaticati. Sia uomini che donne, età compresa tra i 20 e i 40 anni Scena I Il pubblico entra in uno spazio industriale semi illuminato, spoglio e dall’aspetto freddo. La luce penetra in fasci attraverso dei finestroni sul soffitto, oscilla, è incerta. C’è un suono basso, lento e profondo che fa da tappeto alla scena. In un angolo sulla destra vi è, semi nascosto, un suonatore di digeridoo, affiancato da un suonatore di theremin, per ora immobile. Ci sono dei bozzoli sparsi, tutti circa delle stesse dimensioni, un paio di questi pendono dal soffitto, stando a circa un metro da terra. Dall’aspetto bianco-giallognolo, grazie alla luce si riescono a scorgere delle figure raggomitolate nei bozzoli. Uno di questi è posto al centro della scena, sembra rotto e si muove più degli altri. È un movimento lento, tremolante, spaventato o di risveglio. Non appena il pubblico entra completamente, il suono del theremin inizia a farsi sentire leggero nell’aria, accompagnando i movimenti sempre più ampi (ma comunque misurati e lenti) della figura centrale, fino a che questa si libera della propria crisalide e con fatica si trascina verso la ribalta. Con l’inizio del theremin anche altri bozzoli si risvegliano, piano.


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L’illuminazione cambia, i due spot sul fondo si accendono e gradualmente si sostituiscono al grosso faro oscillante. Scena II Mano mano che fuoriescono dai bozzoli, i corpi si trascinano verso la ribalta. Appaiono quasi disorientati, nel loro strisciare lento si incrociano, si toccano per poi concentrarsi sul primo corpo liberato. Si ammassano quindi nella parte anteriore della scena, creando forme contorte e ambigue in controluce. Gli spot infatti raggiungono piena potenza e si concentrano sulla massa di persone, delineando un contorno dorato e fondendo i corpi, mescolandoli. I bozzoli si sollevano lentamente verso l’alto. La massa muta di forma, si muove, indagando se stessa. Il gesto del singolo condiziona l’intero gruppo, la massa annulla l’individuo, c’è una concatenazione. I corpi si muovo all’unisono diventando uno solo, seguendo il sussurro del theremin che, sibilante e onirico, continua a farsi strada nella scena, a richiamare i corpi. E il suono

basso del digeridoo si fa portavoce della forza motoria, della spinta viscerale dei corpi immersi nella ricerca, nell’indagine della stessa massa di cui sono parte. Scena III Finalmente uniti in un’unica entità, la massa amplia i movimenti, sicura dello spazio che occupa, del proprio posto. Ma è una sicurezza illusoria. Il canto sibilante si fa richiamo, un richiamo di sirene insistente e irresistibile che porta piano piano dei corpi a voler prevalere sugli altri. L’entità si scorpora, ognuno vuole raggiungere la propria libertà, convinto che la massa lo segua, ma restando di fatto solo. L’essere generato si scompone e ricompone continuamente, con corpi che vengono trascinati dentro per poi essere spinti fuori. È un tumulto interiore, mosso dal basso viscerale che spinge l’individuo a muoversi, a disgregarsi. Il richiamo cresce, insiste, li attira a sè non più in armoniosa unione ma in caotico individualismo, scindendolo infine in piccoli gruppi disgregati.


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Scena V Lentamente, i corpi riprendono coscenza di sè, I Par si spengono e si riaccende il faro industriale oscillante e il digeridoo riprende il canto lento e dolce dell’inizio. Gli attori a poco a poco tornano a vagare separati, alcuni si riabbassano vicino ai loro bozzoli o lì dove sono in quel momento, finchè qualcuno, nuovamente, non torna alla ribalta seguito da altri. Riprende quindi l’intero spettacolo, con cambi luce, scenici e musicali come già descritti, in un loop infinito di ricerca e conflitto, fino a che l’ultimo uomo non lascia la sala.

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Scena IV Per un attimo c’è esitazione, il theremin si fa acuto ed insistente, il digeridoo imita un suono di crescente fermento. Un primo corpo abbandona un gruppo per lanciarsi su un altro, lo seguono altri ancora. Il tumulto di un unica entità diventa quello di tanti. I due spot lasciano il posto a due fari di taglio ed uno in alto che, seguendo la tensione musicale, si alternano disegnando i corpi, descrivendo il caos. La musica cresce, potente, si fa portavoce di un tumulto trasformatosi in lotta vera e propria del singolo con se stesso e con il gruppo. Le luci diventano frenetiche, lo scambio di corpi quasi violento. La melodia, ormai indistinguibile, diventa un acuto fastidioso ed assordante, il basso pompa note profonde che colpiscono fisicamente attori e spettatori. È un crescendo vorticoso e passionale, finchè, al culmine, si ferma. I fari restano accesi a piena potenza, accecanti e disorientanti. I bozzoli ricadono pesanti a terra. La musica cessa, lasciando il silenzio. I corpi si fermano persi.


PROVE FOTOGRAFICHE

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PROVE FOTOGRAFICHE


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