La Storia di Bondi il Bantù

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La storia di Bondi il Bant첫


Always remember that you are absolutely unique. Just like everyone else. Margaret Mead Bondi

Siamo nel 200 a.C. in Nigeria, terra delimitata dal Benin, dal Niger, dal Chad e dal Camerun. La parte centrale del paese è formata da colline e altopiani, e il nord è occupato da pianure aride; come vedremo in seguito qui nascerà il nostro protagonista: Bondi Bantù! In una calda giornata di estate Naira e Abdul ( genitori di Bondi Bantù ) dopo tanto tempo si rincontrarono. Essi erano nati una ventina di anni prima nel villaggio di Turkan, ma a causa di una sentenza del capo tribù, Abdul dovette abbandonare il villaggio natale. Si pensava che Abdul traviasse i giovani del villaggio attraverso insegnamenti che successivamente resero Bondi Bantù ciò che sarebbe diventato. Passarono molto tempo assieme e capirono che erano fatti l’uno per l’altra, così andarono a vivere nella capanna di Abdul, in un villaggio lontano da quelle il padre era stato cacciato. La capanna non era molto grande, c’era un letto formato da paglia e foglie e dispersi qua e là c’erano degli oggetti: dalle clave per la caccia ad utensili somiglianti ai nostri cucchiai. Dal loro amore nacque un bambino paffutello e color nero pece. Dopo otto giorni dalla sua nascita venne chiamato lo sciamano più famoso dell’epoca, Tahtthi. Il bambino venne reso partecipe della vita della tribù attraverso la cerimonia di iniziazione gli venne dato il nome di Bondi. I genitori, per l’occasione, decisero di fare a Bondi un dono particolare che lo avrebbe contraddistinto: una collanina con un ciondolo di ambra, al suo interno una lucciola!

Pedaso

Bondi Bantù cresceva e all’età di sei anni sapeva già cacciare: gazzelle e antilopi erano all’ordine del giorno ma le sue prede preferite erano altre… era infatti il giovincello più gettonato dalle ragazze della tribù. Già da piccolo amava girare da un villaggio all’altro per giocare con i suoi coetanei… e soprattutto coetanee! All’età di quattordici anni si sposò con la figlia del capo tribù, Fulana. Molto presto, come voleva (quasi) la tradizione, Fulana rimase incinta di due gemelli. Bondi Bantù era felice e la sua vita procedeva in modo tranquillo. Una mattina come tante altre uscì per andare a procurare il cibo necessario a sfamare i suoi famigliari, ignaro di ciò che poche ore dopo gli sarebbe successo. L’entusiasmo prodotto dalla fiorente battuta di caccia, si trasformò in paura non appena il nostro uomo giunse al suo villaggio. Dei beduini, che in quel tempo iniziavano a stringere rapporti commerciali con i romani ( ormai giunti sulle coste dell’Africa ), avevano fatto irruzione nel villaggio, razziando ciò che trovavano, bruciando le capanne e catturando uomini da vendere al mercato degli schiavi. Fu incatenato e portato verso nord, la traversata


del deserto su difficile ma sopravvisse. Fu caricato e ammassato nella stiva della nave. Il viaggio durò una decina di giorni e molti compagni di Bondi Bantù morirono per la fame e per i maltrattamenti che venivano riservati loro.

Tentatatti

Finalmente sbarcarono! Era una bella mattina primaverile, e da lì, a piedi ed incatenati, Bondi Bantù e gli altri schiavi raggiunsero il Foro Romano, dove furono messi in vendita. Bondi Bantù, molto probabilmente per le sue doti fisiche, fu subito acquistato per 14 Once, dalla patrizia Flavia. Essa, moglie di un grande generale dell’esercito, viveva in una sontuosa villa alle porte di Roma: la casa suddivisa in due piani, con un porticato antecedente al giardino, in cui era situata una grande piscina. Viveva nel lusso più sfrenato, circondata da una trentina di schiavi e schiave. Il marito era quasi sempre al foro per discutere di affari politici, e ogni giorno Bondi la attraeva sempre di più. Pochi giorni dopo, due generali dell’esercito portarono alla patrizia Flavia la notizia che suo marito era stato ucciso durante un combattimento. La moglie non versò neanche una lacrima, anzi fu quasi contenta della notizia. Da questo momento, per Flavia si apriva una nuova vita, e non solo per lei… dal giorno della morte del marito lei aveva provato sempre più un’attrazione nei confronti di Bondi Bantù , e dai campi lo portò a lavorare nelle mura domestiche. Un bel giorno, venne invitato dalla vedova a prestare servizio al pranzo. Ad esso erano presenti anche le amiche di Flavia, le quali non tardarono a chiedere informazioni su di lui. Presto l’attrazione delle donne per lo schiavo divenne superiore all’amicizia che le legava a Flavia. Dopo qualche mese Bondi era molto conosciuto nell’ambiente femminile romano, e dopo un annetto vi erano ben dodici nuovi cittadini romani. A ognuno di essi Bondi volle regalare un ciondolo d’ambra, come quello donatogli alla nascita dai genitori, in ricordo delle sue origini.

Uaits

La risalita dell’Italia non era stata poi così difficoltosa, e ora io, Uaits, una delle numerose figlie di Bondi Bantù, ero più determinata che mai; volevo fare un tour dell’Europa centrale! La vita a Roma era diventata insopportabile: il mio vero padre non poteva riconoscermi pubblicamente, trovandosi nell’umile condizione di servo e, mia madre, stava cercando di combinarmi un matrimonio con uno sbruffone patrizio tutto pieno si sé…e che scoppiasse, anzi, scoppiassero tutti quei nobili con la puzza sotto il naso… e anche mio padre, Bondi Bantù, che aveva semplicemente fatto i suoi comodi non preoccupandosi delle conseguenze, di


sua figlia. Avevo deciso, volevo lasciare la mia vecchia vita alle spalle e, soprattutto, dimostrare che le mie origini non contavano nulla. Pensando e riflettendo, giunsi in territorio straniero, una terra considerata come luogo comune brulla, arida e piena di barbari, persone crudeli e senza un briciolo di cultura. Il paesaggio che si parò dinanzi ai miei occhi, tuttavia, non era poi così male:mi trovai immersa nel verde di un prato e, dinanzi a me, comparivano piano, piano imponenti montagne. E…un villaggio! Cosa fare ora? Dovevo prendere una decisione: entrare nel villaggio oppure no? Volevo separarmi completamente dal mio passato e, quindi, anche dai pregiudizi che la mia società mi aveva insegnato sin da quando ero piccola, ma non era così semplice: e se questo posto fosse davvero pieno di barbari? Ma sì, in fondo, chi sono i barbari? Noi li abbiamo chiamati così, semplicemente perché non riusciamo a comprendere la loro cultura. Quello che so per certo è che all’interno di quel villaggio troverò degli esseri umani, proprio come me! Forse sarà difficile capirsi all’inizio, ma siamo uguali e questo deve pur contare qualcosa! Forte di questo pensiero mi diressi al villaggio oltrepassando una lunga e interminabile distesa verde. Secondo i miei calcoli, se l’orientamento non m’inganna, dovrei trovarmi al confine fra Francia e Svizzera…o forse sono già in Francia…oh, insomma, non lo so! Lo chiederò a qualche buon uomo del villaggio! Ecco, il portone aperto di legno massiccio era ora davanti a me; entrai senza pensarci due volte, altrimenti avrei potuto cambiare idea! All’interno la prima cosa che vidi fu un enorme cartello che recitava la scritta “Villaggio di Apremont-sur-Allier”, o almeno penso che la prima parola significhi “Villaggio”; qui sono obbligata ad andare ad intuito, non conosco molte parole nella lingua di questa gente. Subito dopo potei notare la cura con cui le case presenti erano state costruite: la maggior parte erano in sasso con un tetto spiovente in legno; altre, addirittura, erano interamente di legno! E, inoltre, erano più piccole di quelle che si potevano trovare a Roma e avevano una forma strana; secondo i miei canoni quelle case erano un po’…storte! Tuttavia davano la sensazione di essere comode e accoglienti; e, allora, perché non testare subito se sono nel giusto? Ho deciso: cercherò una locanda, così potrò mangiare, riposare e incontrare la gente del posto. Per fortuna i simboli delle insegne che indicavano le locande erano simili a quelli di Roma; così riuscii a trovarne una particolarmente carina e vi entrai. L’oste mi accolse immediatamente, venendomi incontro con un gran sorriso sulle labbra. Vedi Uaits, tanti dubbi per che cosa? Sono più accoglienti qui che a Roma! Per prima cosa l’oste mi fece accomodare e mi portò una ciotola di pane e formaggio e un bicchiere di buon vino. Lo ringraziai. Avevo appena iniziato a mangiare, quando l’oste ricomparve di fianco al tavolo. Fortunatamente conoscevo alcune parole della loro lingua e capii che mi stava chiedendo se volevo una stanza. “Oui” fu l’unica risposta che riuscii ad articolare. Un sorriso a 124 denti si stampò sulla faccia di quell’uomo e, com’era in


uso, chiese il mio nome per la prenotazione. “Uaits”, gli risposi. Il sorriso si spense, sostituito da un’espressione di disgusto e di rabbia. Pronunciò una serie di frasi delle quali fui in grado di comprendere solo qualche parola qua e là come “forestiero” e “nemico”. Io cercai di spiegarmi, dicendo che sì ero straniera, ma non dovevo essere considerata come un nemico per loro. Il mio accento, però, misto all’incapacità di esprimermi bene nella loro lingua, non fece che peggiorare la situazione e far adirare l’oste ancor di più. In men che non si dica, mi ritrovai sollevata da terra da due guardie e venni portata senza alcuna grazia in prigione. Questi signori devono aver dimenticato le buone maniere! Ahia, fate piano!!! Priva di forze mi ritrovai in una cella buia e umida insieme a una decina di topi che scorrazzavano da ogni parte, non troppo felici di avere un nuovo, gigante compagno fra loro. Urlando e cercando di spiegarmi, di dimostrare la mia innocenza, mi addormentai; fu una notte d’inferno, piena di incubi e con la sensazione di quei maledetti topastri che camminavano su di me. Anche il risveglio non fu dei migliori: credo non piaccia a nessuno essere svegliato con una secchiata di acqua gelida in faccia! Nella noia e con la certezza, oramai, di non poter più rivedere il mondo esterno, passò un’altra giornata, scandita solo dal cambio della guardia e da quel filo di luce che filtrava attraverso la spessa grata in cima alla cella. Mi addormentai di nuovo e gli incubi tornarono a tormentarmi; vidi in sogno il mio vero padre, Bondi Bantù, e tutta la mia “famiglia” che predicavano Ben ti stà! Che questo ti serva da lezione; non puoi rinnegare le tue origini!. Con questa frase mi svegliai, ma non perché avevo dormito abbastanza, bensì perché una guardia mi stava punzecchiando con la sua lancia ed ero circondata da un piccolo gruppo di persone curiose. Stavano parlando fra loro, tutte trafelate, ma io non riuscivo a comprendere ciò che dicevano. Solo una parola amica ad un certo punto dai loro discorsi giunse sino alle mie orecchie: Bondi Bantù! Io, allora, come una forsennata iniziai a ripetere quel nome e, non appena riuscii a far loro capire che ero sua figlia, si inginocchiarono tutti di fronte a me. In quel momento arrivò un uomo robusto, lunghi capelli castani, lungo mantello rosso e con una corona in testa. Il re in persona! Ma cosa stà succedendo? “Le chiedo perdono, Madame Uaits, per i maltrattamenti che i miei uomini le hanno riservato. Deve capirci, noi credevamo che foste un nemico pericoloso…non avremmo mai immaginato che lei potesse essere la figlia del famoso Bondi Bantù. Il druido del nostro villaggio aveva previsto da molto tempo il suo arrivo, ma non aveva voluto dirci quale fosse il suo nome, così ora eravamo impreparati. Buoni a nulla, cosa state lì impalati? Portate subito Madame Uaits al mio castello! E preparatele una stanza e un bel pasto caldo!” Con riconoscenza mi inchinai al re, che se ne andò salutandomi con un semplice cenno della


mano. Ero ancora un po’ confusa: perché tutta questa gente aspettava il mio arrivo? Non era nemmeno previsto che io arrivassi in questo villaggio, neanche che io intraprendessi questo viaggio! In fondo, però, quest’avventura iniziava a piacermi! Chissà dove mi porterà… Mi rispolverai alla bell’e meglio, sistemai i vestiti, spostai un topolino dal passaggio e, scortata da cinque bravi ragazzotti, mi recai al castello del re. All’esterno la luce quasi mi accecò. Il popolo, intanto, si accalcava per le strade con curiosità; lo capivo, ero curiosa pure io di scoprire cosa mi stesse accadendo. Un altro portone davanti a me…il primo non è che mi abbia portato così tanta fortuna! Entrai nel castello insieme alla scorta che non mi lasciava da sola nemmeno per un secondo. Venni portata in una stanza dove trovai degli abiti puliti e profumati e dove una gentil donna si premurò di togliermi dal viso la polvere in eccesso , accumulata nella prigione. Uscii dalla stanza prendendo il corridoio più vicino, contornato da una lunga fila di armature lucenti e mi ritrovai a camminare su un tappeto rosso proprio come le persone più importanti, diretta verso una porta di legno che, più mi avvicinavo, e più sembrava alla mia altezza. Il re era lì davanti, ad aspettarmi. “Bene, ora potete lasciarla da sola; è in buone mani.” Le guardie si inchinarono e si allontanarono. “La ringrazio, Madame Uaits, per aver accettato di rimanere qui con noi, nel nostro villaggio. Come le dicevo, il nostro druido Belyere aveva previsto il suo arrivo da tempo; noi tutti siamo convinti che lei ci porterà una notizia che potrà accrescere la nostra cultura e aiutarci nelle nuove scoperte!” Oh mamma, questi che cosa si aspettano esattamente da me? Io non possiedo nessuna conoscenza speciale e…se io non fossi quella che cercano? Mi farebbero a fettine! No, no, no, meglio che non lo scoprano! “Bene, Madame Uaits. Se è d’accordo la porterei a fare una visita al nostro vecchio druido Belyere; sarà contento di vedere avverata la sua profezia.” Per tutto il tempo del viaggio non riuscii a pronunciare alcuna parola; rimuginavo soltanto cercando di capire quale segreto potessi mai rivelare loro! Sì stanno sbagliando, sicuramente si stanno sbagliando! Pensando e ripensando giungemmo davanti alla casa del vecchio druido, una semplice casa di pietra con un simpatico tetto a cono. Sulla porta davano il benvenuto strani amuleti e talismani utili chissà a quale scopo. Appena mi avvicinai la porta si aprì quasi per magia; entrando scoprii che era, in realtà, il druido ad aver aperto la porta, solo che era così basso da non essere visto da coloro che non si aspettavano…la sua altezza! “Sire, le sue visite sono sempre ben accette!” Fece un inchino reverenziale che lo spinse ancora più in basso. Occhio che, ancora un po’ che ti abbassi, sparisci! “Ma chi è questa fanciulla che porti con te?” Chiese con curiosità. “Beh, Belyere, caro vecchio amico, questa è una sorpresa che sono certo ti renderà molto lieto.Volete dire voi il vostro nome, Madame?” Con estremo imbarazzo risposi all’invito del re. “Il mio nome è Uaits.” “Grande Giove! Siano lodati tutti gli dei del cielo! La mia profezia si è avverata!!!” Il druido iniziò a fare strani gesti al cielo, si mise a camminare per la casa, buttò per aria qualche suo


talismano, diede una mescolata al suo calderone e, finalmente, si tranquillizzò. Quando tornò in uno stato accettabile, ricominciò a parlare e, questa volta, si diresse direttamente verso di me. “Uaits, il destino ti ha portato in questo villaggio per uno scopo: tu contieni un segreto importantissimo! Devi svelarci come è avvenuta l’evoluzione dell’uomo! Noi sappiamo che gli dei controllano tutto, ma non sono stati loro a creare direttamente l’uomo! Solo sapendo la verità potremo dire di possedere veramente la cultura e, soprattutto, ciò che ci dirai sarà un buon strumento per convincere il nostro popolo a smetterla di lottare continuamente. Purtroppo anche il nostro popolo è stato contagiato da un brutto male: la violenza! Da qualche anno a questa parte ci sono un sacco di lotte interne; non è possibile continuare così!” Beh, tutto qui? Allora mi sono preoccupata per nulla! Probabilmente ero così abituata alla violenza che si trovava a Roma che non ho pensato al fatto che non dovrebbe essere una cosa normale, alla profondità della domanda e alla sua difficoltà. Inizialmente, infatti, mi sembrò una domanda semplice…in realtà non è affatto facile! Mi sedetti sulla prima sedia che trovai e mi ritrovai a pensare Come farò a uscire da questo pasticcio? Questa gente crede davvero che non siano stati gli dei a crearci! Ma com’è possibile? Gli occhi dei due erano puntati su di me e, improvvisamente, sentii come un groppo in gola; le parole mi uscirono spontanee, quasi senza che io me ne accorgessi. Così gli raccontai una grande storia (e se invece fosse la realtà?) di come tutti discendiamo da un unico essere chiamato L.U.C.A. (Ma che nome è?) e via discorrendo. Inizialmente mi parve strano credere a quelle quattro sciocchezze che il mio cervello aveva imbastito, ma poi riflettei: non era effettivamente più strano credere a un Dio supremo che ci ha creati? Forse quel Dio ha originato Luca…non possiamo retrocedere all’inifinito! Che confusione! Il re e il druido, intanto, erano senza parole. Avevano ascoltato il mio racconto con la bocca aperta, senza fiatare, e ora erano lì, seduti, con un’aria stupita sul volto. Tutt’a un tratto si svegliarono e iniziarono a confabulare fra di loro, finché il re non prese una decisione: si alzò e portò la buona notizia in piazza, dopo aver riunito tutto il popolo. Appena ascoltata, questa notizia può sembrare semplice nozionismo, privo di significato; è, invece, una gran lezione di vita! Ci fa capire, infatti, quanto siamo simili l’uno con l’altro e che le piccole o grandi lotte razziali sono inutili: non esistono razze! Questa strana avventura ha cambiato completamente il modo di vedere la mia vita. Ho deciso di credere a tutte e due le versioni, sia quella vecchia che quella nuova; sono convinta che, anche se un Dio esiste, sarà lieto di sapere che gli uomini hanno trovato una “Verità” in cui credere e che ha lo scopo non di dividere i popoli, ma di unirli. Beh, ora questo popolo non ha più bisogno di me; posso proseguire il mio “tour dell’Europa”! Il re mi assicurò una scorta fino alla mia prossima tappa, l’Irlanda, e mi salutò dicendo “Grazie Madame Uaits. Grazie alle tue parole il nostro popolo potrà vivere in pace. Ogni volta che vorrai, torna a trovarci e ti accoglieremo a braccia aperte!” (…) Dopo un lungo viaggio ecco che finalmente Uaits giunge anche in Irlanda. Che terra


magnifica! Quale modo migliore per iniziare una visita di…cercare una locanda??? E la trovai la locanda, eccome se la trovai! Proprio quando mi trovavo con un boccale di buona birra in mano, sentii una voce che mi chiamava “Ehi, Uaits! Non ci posso credere, sei proprio tu!” E adesso chi è che mi chiama?! No, anzi…questa……è tutta un’altra storia!!!

CyccyLove

Una nuova donna apparve al nord. Nessuno la conosceva o conosceva la sua storia. Si sapeva solo avesse un figlio, Brodir Bondi Junior. Alto, asciutto, color cappuccino…si diceva sapesse anche di cappuccino: cremoso sopra, panna e una spolverata di cacao, ma una volta arrivato in fondo solo caffè, amaro e annacquato. Portava una collanina con un ciondolo d’ambra sempre con se, un regalo di suo padre. Gli anni passarono e il giovane completò la sua crescita. Sebbene fuori fosse minuto dentro un fuoco incendiava il suo animo, le sue fantasie, i suoi desideri. Il suo orizzonte era troppo piccolo e insignificante. Birka. Città prestigiosa, famosa per gli scambi commerciali e i sacrifici umani alle divinità; questo era ciò che sognava per il suo futuro, commerciare…ma presto il suo destino lo avrebbe trascinato verso un altro commercio. “NOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO” un’ esile ragazza si era alzata tra il pubblico. Grosse lacrime le rigavano il viso. Il coltello si era fermato a mezz’aria, e Brodir Bondi Junior aveva potuto tirare un respiro di sollievo; si perché era lui il sacrificio di quel giorno. Sapeva dei traffici commerciali ma non delle punizioni che toccavano a chi allungava le mani sulle bellezze del posto…sacrifici umani e lui era al patibolo. Ma la sua conquista l’aveva salvato con un semplice no! La figlia del capo dell’esercito e della città. Diana. Il padre aveva visto negli occhi di lei una luce mai vista prima e accettò di rinunziare al sacrificio, almeno per quel giorno. Se rendeva felice la sua piccola perché rovinare questo sogno? Lo avrebbe tenuto al suo fianco e fatto entrare successivamente nell’esercito. Passò una settimana…”NOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO”…questa volta non molto convincente come il primo. Ancora una volta c’era il petto di Junior sotto quel minaccioso coltello. Le cose andavano procedendo meravigliosamente. Diana era felice come non lo era mai stata, Brodir si era assicurato un posto stabile nell’esercito e la sua vita sentimentale era appagata…o forse no? No, decisamente no…altrimenti non sarebbe finito nuovamente sotto la lama. E si, aveva approfittato dell’ingenuità e della fragilità della valletta di Diana e come se non bastasse era stato colto in flagrante dalla stessa giovane amante. Quest’ultima doveva avere proprio l’amore negli occhi perché riuscì ancora una volta a convincere il padre. La pelle del giovane fu nuovamente salva.


“NOOOO”. Un nuovo no? Un’altra infrazione? E già, ma non fu pronunciato né come il primo in modo forte e autoritario e neanche come il secondo un po’ più debole ma pur sempre convincente. No…questa volta era un no per farsi notare per poter dire due parole a riguardo, gli occhi della giovane erano rossi…ma non per l’amore, ma per la rabbia, la frustrazione e l’umiliazione, anzi l’ennesima umiliazione subita. “CHE GIUSTIZIA SIA FATTA”…e con quelle parole si sentì il taglio dell’arma; nessuna conclusione, il coltello non aveva affondato nulla. Il giovane era riuscito a cavarsela ma nessuno sapeva come. Non se ne sentì mai più parlare…mai più… Più a nord di Birka vi era un villaggio di donne…si si solo donne. Era un esempio di quelle che in futuro sarebbero state chiamate Amazzoni. Uccidevano i loro figli maschi e gli uomini con la quale procreavano, solo per mandare avanti la tradizione e la progenie. Un uomo viveva con loro. Un’eccezione. E chi poteva essere se non B.B.J? In quel villaggio di donne serviva pur qualcuno che accudisse i neonati e preparasse loro da mangiare quando le madri erano a caccia di cibo, o di uomini. Era un pomeriggio come un altro, anzi non proprio un tipico pomeriggio, quella volta la situazione che si creò fece riscoprire nel giovane il fuoco che gli ardeva dentro, quel piacere che provava nel fare ciò che gli veniva meglio: il giovane amato, o per meglio dire il giocattolo del sesso femminile, delle fantasie più nascoste, mai svelate, se non sussurrate ad un orecchio e poi messe in pratica. Come si può pensare non era lui che “giocava e scalfiva” i cuori…certo non si può neanche dire che qualcuno avesse mai infranto il suo di cuore: era un gioco e lui era la pedina, ma non vi era una pedina per ogni giocatrice, proprio no, lui era la sola pedina. Tornando a quel pomeriggio era in casa con una mano su una ciotola per cullare il pargolo al suo interno e con l’altra…e si, era un’altra ciotola. La madre di una delle due bimbe si fece avanti, era venuta per prendere la figlia. Ma vedendo quella scena sentì un brivido nel basso ventre e si scagliò sull’uomo. Lui attutì l’impatto stringendola tra le braccia dopo aver lasciato le culle. Caddero sul pavimento, una sopra l’altro e il fato fece il suo corso, come se c’era bisogno del fato per far si che una cosa così bella e naturale potesse succedere. Quella donna aveva proprio forme fantastiche, grandi occhi azzurri e biondi capelli nodosi. Ma Brodir Bondi quando fece queste osservazioni non era più in quella tenda calda. No, era fuori, al freddo, coperto solo da un panno lacero, circondato da minimo cinquanta donne dallo sguardo appagato, meno che uno triste, uno sguardo azzurro. Aveva fatto il suo lavoro, dato vita ad una nuova guerriera e se così non fosse stato, perché anche se le “amazzoni” desideravano, bramavano, volevano figlie femmine sapevano che la disgrazia che potesse nascere maschio c’era, lo vedevano ogni volta, ma ogni volta annullavano quell’essere. Ora che il lavoro era stato fatto doveva essere ucciso, quel maschio! Ma appena tutte si svegliarono dalle loro osservazioni Brodir Bondi ormai non così Junior non c’era più. Cinquanta sguardi furiosi per la


presa in giro si poterono notare, meno che uno: occhi grandi e azzurri non più in lacrime. Passarono gli anni, Brodir raggiunse la mezza età, anzi la superò abbondantemente, in tutti gli anni che passarono aveva soddisfatto molte giovani, tutte con un sorriso stampato sul volto. Ma l’età avanzava. Figli non ne nascevano più. Le donne erano pur sempre soddisfatte ma non così come lo erano al tempo. Stava proprio invecchiando. Tornando dalla pesca, aveva fatto un buon bottino quel giorno: 4 pesci! Tornò a casa. L’amazzone lo aspettava. Era ancora bellissima ai suoi occhi. “MA COME MIO AMORE SOLO 2 PESCI?”. L’uomo abbassò lo sguardo. L’amava ma non era comunque mai riuscito ad essere sincero con lei. “VADO A FARE DUE PASSI PRIMA DI DORMIRE”. uscì. Ormai la luna stava raggiungendo il mezzogiorno e B.J entrò in una capanna. Vi ci lasciò il resto dei pesci rimanenti, era per il suo figlio, anzi per i due gemellini nati da quella ormai mai più principessa Diana. L’aveva tenuta nascosta per tutto questo tempo, lei lo amava, aveva rinunciato alla sua ricca esistenza per lui. La baciò debolmente sulla fronte, era un bacio triste, pieno di scuse per non essere riuscito ad amare solo lei come avrebbe voluto, dovuto, lei socchiuse gli occhi; lei sapeva, era pur sempre una donna. Il padre baciò amorevolmente i due piccini e si voltò. L’ultima cosa che Diana vide di lui furono le sue spalle, ormai non più larghe e possenti come un tempo ma pur sempre capaci di scuotere le membra della ex-principessa. Paradossale, una vera principessa, lei, aveva rinunciato al suo principe azzurro, lei si che lo avrebbe avuto! Aveva rinunciato al suo castello, e anche al cavallo! Tornato a casa si sdraiò accanto alla sua amata guerriera dai grossi occhi azzurri, ormai sbiaditi dal tempo. Lei lo baciò, prima lentamente poi sempre con più passione lui ricambiò, i momenti passati, quelli dove il colore che dominava tra loro era il rosso, forte, focoso, il loro colore, riaffiorarono! Ma quando le cose si fecero più spinte lui la fermó, la baciò sulla guancia e le disse solo una parola “SCUSA”: cinque lettere, che racchiudevano mille frasi, non possibili da pronunciare. Crollarono in un sonno profondo. L’amata si svegliò dopo poche ore, sentiva qualcosa dentro lei, c’era qualcosa che non andava. Brodir Bondi Junior aveva rinunciato a una nottata di fuoco? Quando scoprì la verità iniziò a strillare, un groppo in gola, altre urla, i cinque figli entrarono nella stanza, la madre per terra, capelli bagnati da lacrime salate, la disperazione aleggiava nella stanza. Giura “NON É COLPA MIA”. Brodir Bondi morí.

Meccarmando

Roma. III secolo D.C. Mec non assomigliava per niente all’antenato Bondi Bantù: non era forzuto, non era considerato attraente e non era nemmeno un grande lavoratore. Mec era buono soltanto a comportarsi da idiota, o almeno questo è quello che la gente pensava… In realtà Mec era profondamente turbato in quanto aveva capito che la grande Roma gli stava stretta. Sognava avventure in luoghi sconosciuti di cui aveva fino ad allora solo sentito parlare. Fu


così che un giorno si decise a partire. Quella sera era così eccitato all’idea di lasciarsi alle spalle quella vita monotona che non badò neppure a lasciare un biglietto ai propri famigliari. Scappò di casa e corse verso il molo, dove sapeva di poter trovare qualche nave mercantile in partenza per il Mediterraneo. E in effetti, appena arrivato, vide un mercantile ormeggiato, dal quale scendevano e risalivano alcuni uomini con pesanti casse sulle spalle. Senza pensarci due volte si nascose in una delle casse destinate al trasporto di tessuti, gettando tutto il suo contenuto in mare. Dopo alcuni minuti sentì dei rumori provenire dall’esterno e non fece neanche in tempo a pensare a chi potesse essere che si sentì sollevare. Mec riuscì a sentire attraverso le pareti della cassa uno degli uomini esclamare:“Accidenti! Non pensavo che dei rotoli di tela potessero essere così pesanti!”. Chissà perché, ma gli balenò in mente il pensiero che effettivamente ultimamente aveva messo su un po’ di peso. Poco dopo si senti cadere a terra e, dopo il frastuono provocato dall’urto della cassa nella stiva, sentì uno degli uomini dire:“Fatto, quella era l’ultima! Andiamo a riposare che domani si parte presto!”. Domani mattina?! In quel momento Mec si rese conto di non aver portato con se né cibo né acqua. Quando intorno non si sentiva più nessun rumore, decise di uscire dal suo nascondiglio e cercare qualcosa nella stiva. Fortunatamente riuscì a trovare una cassa contenente della frutta e un’altra contente dell’ottimo vino. Non mangiò molto quella sera, un po’ per l’eccitazione e un po’ per precauzione, visto che non sapeva per quanti giorni sarebbe rimasto chiuso li dentro. La mattina seguente, al suo risveglio, si accorse che la nave era già salpata, a causa del movimento ondulatorio della nave, che comportava lo sbattere delle casse a destra e a sinistra. I giorni passarono e Mec si chiedeva quando sarebbero giunti a destinazione. A pensarci bene non sapeva nemmeno dove fosse diretto, ma pensò che qualunque posto fosse meglio di casa sua. Una mattina fu svegliato bruscamente da un brusio di gente e solo allora si accorse di essere già stato “scaricato”. Pensò che sarebbe stato meglio filarsela subito, prima che gli uomini del mercantile si accorgessero che qualcuno aveva vissuto nella loro stiva per diversi giorni. Così aprì lentamente la parte superiore della cassa e controllò che nessuno guardasse in quella direzione. Contò fino a tre e saltò fuori dal suo nascondiglio. Purtroppo uno degli uomini si era accorto della sua presenza e aveva iniziato ad inseguirlo. Iniziò a correre e urtò almeno una decina di persone. Cercò un vicolo in cui ripararsi e, fortunatamente, ne trovò uno. Entrò nel vicolo così velocemente che non si rese conto di essere finito addosso ad una ragazza con in mano una cesta di pane. Subito si scusò con lei e la aiutò a raccoglierlo. Controllò di aver seminato l’uomo che lo inseguiva e si accorse di esserci riuscito. Mec tirò un respiro di sollievo. La ragazza era ancora un po’ stordita, ma non esitò a prendersela con il povero giovane. Mec tentò di calmarla, ma senza successo. Ad un tratto un rumore incredibilmente forte risuonò nel vicolo. La ragazza si fermò. Solo allora si rese conto che il rumore proveniva dallo stomaco del ragazzo. Il suo umore cambiò in pochi secondi e gli offrì un pezzo di pane. Senza pensarci, Mec


lo prese e ringraziò. Erano giorni che non addentava qualcosa di diverso dalla frutta della stiva. La ragazza disse di chiamarsi Gwen. Dopo essersi a sua volta presentato, Mec pensò che il nome fosse molto strano e chiese subito spiegazioni alla ragazza. Gwen disse che il nome se lo era scelta lei. Voleva staccarsi dalla società in cui viveva, aveva abbandonato la famiglia quando era ancora bambina e si era voluta creare una nuova personalità, partendo dal nome. In quel momento Mec si rese conto di avere molte cose in comune con Gwen, ma un’altra domanda gli balenò in testa: dove si trovava??? Gwen disse che si trovava al Pireo, il porto di Atene. Mec era incredulo. Era veramente riuscito ad attraversare il Mediterraneo ed arrivare in Grecia, quel posto che fino ad allora aveva solo sognato; la terra dei miti, dei grandi pensatori e della cultura. Gwen si offrì di ospitarlo nella sua piccola casa, che non era proprio una casa… Era più che altro un retrobottega di un ignaro artigiano. Durante la camminata, Mec ebbe modo di raccontare a Gwen la sua avventura in mare e i motivi che lo avevano spinto ad andarsene. Solo allora Gwen si accorse di avere molte cose in comune con lui. I giorni passarono e Mec e Gwen diventarono ottimi amici. Una mattina, Mec si alzò di buon ora e, visto che Gwen stava ancora dormendo, decise di uscire e visitare la città da solo. Non era mai stato in quella zona. Era ricca di bambini che giocavano per strada e edifici così maestosi che Mec si sentì piccolo come quei bambini. Improvvisamente vide un uomo anziano che stava scrivendo su un grande foglio “Audizioni per i personaggi delle tragedie di Sofocle ed Euripide”. Mec, incuriosito, andò a chiedere informazioni e l’uomo anziano gli spiegò che era giunto il momento di rinnovare il gruppo di attori che da anni interpretano quei personaggi a teatro. “Teatro”. Quella parola rimase impressa nella mente di Mec come per una specie di sortilegio. Tornato a casa, Gwen gli chiese che fine avesse fatto e Mec gli raccontò tutto, chiedendo se lei fosse a conoscenza di cosa fosse il “teatro”. Mec rimase affascinato dalla spiegazione di Gwen. Ancora non sapeva che da quel momento la sua vita sarebbe cambiata radicalmente. Il giorno seguente i due amici si presentarono alle audizioni, ma Gwen dovette aspettare all’esterno dell’edificio, in quanto alle donne non era concesso di recitare. Dopo qualche ora Mec uscì euforico. Non esitò nemmeno un secondo a dire a Gwen che, per la prima volta nella sua vita, aveva trovato un lavoro vero, per cui aveva dimostrato di possedere una dote innata. Gwen saltò addosso a Mec e lui la abbracciò, sollevandola a venti dita da terra! Non era mai stato così felice in tutta la sua vita! Molti giorni dopo, arrivò finalmente il pomeriggio dello spettacolo. Il teatro di Epidauro era pieno di persone, giunte da tutta la Grecia per vedere la tragedia “Edipo Re”. Mec non avrebbe mai immaginato una cosa del genere. Il suo cuore stava per esplodere. Gwen lo tranquillizzò, dicendogli di avere piena fiducia in lui ed aggiunse due parole che Mec, in tutta la sua vita, non aveva mai udito: ti amo. Quelle parole servirono a dare la carica a Mec, che entrò in scena fiero di essere se stesso. Anche se in quel momento era Edipo! Fu un grande successo. Gli applausi


riecheggiarono per tutto il giorno nel teatro. Mec era ormai l’idolo delle folle e le ragazze facevano a gara per approcciarsi a lui. Finalmente Mec aveva avuto la sua rivalsa. Ma a lui tutto ciò non interessava. Aveva occhi solo per una persona, la sua adorata Gwen. Mec fondò una propria compagnia teatrale, ma cosa più importante si sposò con l’unica persona che da subito aveva avuto fiducia in lui, Gwen, ed ebbe numerosi figli, maschi e femmine, che a loro volta ebbero dei figli, che generarono altri figli; a tutti questi venne donata la collana d’ambra con incastonata una lucciola, simbolo del grande Bondi il Bantù…

Scasi

Nell’anno 1226 D.C., nella provincia del Khentii, incontriamo Rastafani Bantù, un ragazzo dotato di una bellezza invidiabile, di un fisico scolpito e di una forza quasi sovraumana, inoltre era un discendente del famoso Bondi Bantù; lo sappiamo dalla collana d’ambra con incastonata una lucciola che portava al collo, tipica della discendenza Bantù. Purtroppo la sua gioventù fu difficile sua madre morì nel partorirlo, mentre suo padre in guerra, quando aveva solo 8 anni. Per mantenersi decise di fare il servo. Il suo primo impiego lo ebbe nella casa di uno dei migliori soldati mongoli, Sukhbaatar dove restò per ben 7 anni. Il suo compito era quello di lavare e sfamare i 4 cavalli del guerriero e mantenerli sempre nelle migliori condizioni per un’ eventuale e imminente battaglia. Ogni anno che passava Rastafani diventava sempre più alto, forte e bello. All’età di 15 anni dovette abbandonare l’abitazione perché Sukhbaatar morì. Una mese dopo fu assunto dal grande imperatore Temujin, che poi prese il nome di Gengis Khan, e da sua moglie Yesugan. Gengis Khan era molto impegnato con la politica estera e spesso trascurava sua moglie che, un giorno, stufa di questo comportamento, si servì di Rastafani per “un po’ di compagnia” e da quel momento non riuscì più a farne a meno. Questa relazione segreta continuò finché a 17 anni Rastafani venne colto in flagrante dall’imperatore a impegnarsi un po’ troppo in alcuni servizi. Fu subito catturato e mandato in prigione; Temujin decise che il giorno seguente sarebbe stato torturato e poi condannato a morte. Yesugan pianse tutto il giorno perché non voleva la morte del suo amato; allora la notte prima della condanna andò in prigione e liberò Rastafani. Lei gli aveva già fatto preparare una carovana diretta al porto di Tsingtao e l’avrebbe voluto seguire ma non poteva perché il suo posto era in Mongolia. Una volta lì si imbarcò subito su una nave mercantile diretta in Giappone. Fu un viaggio lunghissimo che durò più di due mesi, e grazie all’enorme quantità di cibo e di bere presente, Rastafani riuscì a sopravvivere. Sceso dalla nave vide un paesaggio completamente diverso da quello mongolo e persone che sembravano una la fotocopia dell’altra. Andò subito alla ricerca di un luogo dove mangiare perché era affamatissimo, cercò di orientarsi con le insegne sopra i negozi ma inutilmente, dato che non ci capiva niente, e quando provava a chiedere qualcosa a qualcuno nessuno gli rispondeva. Ma Rastafani non si arrese e continuò la ricerca di un luogo


di ristoro finché una donna si fermo davanti a lui e gli disse che sapeva parlare il mongolo, perché anni fa aveva vissuto lì. La donna si presentò, disse di chiamarsi Tanaka ,di avere 21 anni e di non essere ancora maritata; anche Rastafani si presentò e gli chiese in che posto era capitato. La donna gli rispose che questo era il Giappone, precisamente nell’isola di Hokkaido. Dopo di che portò Rastafani nella sua dimora dove parlarono per tutto il resto della giornata fino a che lui non cadde in un sonno profondo… La mattina seguente la donna incominciò a insegnargli il giapponese e si accorse che incominciava a provare per lui un sentimento mai provato prima. Passati un paio di mesi Rastafani aveva imparato perfettamente la lingua. Qui fu conosciuto da tutti come un’abile stratega e condottiero, anche grazie ai due anni passati insieme a Gengis Khan. Passavano i mesi e Rastafani stava sempre più tempo con Tanaka ed incominciò a provare uno strano sentimento per lei, diverso da quello che aveva provato con Yesugan; era una sensazione molto bella. Così un giorno decise di parlarle e le disse che era innamorato di lei; in quell’istante le guancie pallide di Tanaka diventarono rosse e anche lei gli confidò l’amore che provava per lui. I due giovani ragazzi decisero di sposarsi facendo un’enorme festa dove furono invitate tutte le persone del paesino; il matrimonio fu un vero successo. Rastafani e Tanaka ebbero ben dieci figli, ognuno di essi aveva la stessa identica collanina che aveva avuto anche il padre, che a loro volta ebbero altri figli che ne ebbero altri e altri ancora, cosicché i discendenti del mitico Bondi Bantù si insinuarono anche nel lontano Giappone.

ChiodaChiodo

144a.C. Mentre il giovane 22enne, Gautama Siddhartha, in groppa al suo fidato Kanthaka si avventurava nella regione di Rajagaha alla ricerca di se stesso,la dolce fanciulla Nikhita iniziò ad intraprendere un viaggio all’insegna della conoscenza. Nata nell’anno 164a.C. a Mirzapur, città situata sulle sponde del Gange, la piccola, a causa della morte durante il parto della madre Prasavitri, fu accudita dal saggio Vidur,che le diede una salda educazione e una valida istruzione. Compiuti i vent’anni Nikhita, ormai matura, vedendo le sue amiche già sposate e con in progetto una famiglia, iniziò ad essere malinconica: purtroppo lei non era ancora maritata e non aveva la fortuna di ritornare la sera a casa dai suoi genitori;l’unico modo plausibile per colmare la malinconia che l’affliggeva era di trovare le sue radici. Così, all’alba di una soleggiata giornata primaverile, la ragazza prese ciò che le occorreva per il viaggio e andò a salutare Vidur, colui a cui doveva tutto. “Maestro…ormai è ora…sono pronta.” “Attendo questo momento fin dalla tua nascita…sono fiero e lieto della scelta che hai fatto, al


tempo stesso però speravo non arrivasse mai questo momento.” “Vorrei restare, davvero, ma mi sento in dovere con me stessa…è un compito a cui non posso rinunciare!” “Figliola non sarò di certo io a fermarti!Sappi solo che è una grande impresa in cui non potrò supportarti e aiutarti..” “Ha già fatto tanto per me, le sono grata per questo” Nikhita si buttò al collo del maestro, che per lei era come un padre; e lui, con gli occhi lucidi e colmi di gioia, non seppe mantenere il solito rigore (era famoso per la sua rigidità) e si lasciò andare in un grande abbraccio e poi, le mise in mano un collana con attaccata una pietra di amba con incastonato una lucciola. “Questo apparteneva a tua madre.. Portalo sempre con te, ti aiuterà nella tua ricerca. Ora è meglio che tu vada” “Grazie Maestro….Namaste” “Namaste” E si diedero l’ultimo saluto con il Mudra,unendo i palmi delle mani all’altezza del cuore e inchinando leggermente il capo. Così l’avventurosa Nikhita partì verso la prima tappa, ossia il paese natio di sua mamma, Allahabad. Dopo 3 giorni di cammino raggiunse la sua meta: il paese ricordava molto la sua Mirzapur, a parte che lì la gente era meno ospitale e più ostile nei confronti degli “stranieri”: provò a parlare con una donna che stava lavando i panni nel Gange, ma nemmeno si degnò di risponderle, allora si avvicinò a un signore che stava pregando però la cacciò via. Nikhita era giù di morale, tutti erano intimoriti da lei e le stavano distanti, non mangiava da un giorno, la sera e il freddo si stavano avvicinando e non sapeva dove rifugiarsi; era così in crisi che scoppiò in lacrime. Ad un tratto in lontananza sentì qualcuno ridere, lei si girò di scatto per vedere chi fosse…ma non c’era nessuno; subito dopo sentì di nuovo ridere, allora si alzò e corse verso l’angolo della strada da dove proveniva la risata…Era solo un bambino per fortuna! E stranamente fu l’unico del paese che non si allontanava da lei, anzi, la prese per mano e la portò a casa sua. Entrando si sentiva un buon profumo provenire dal fuoco e la casa era calda e accogliente; tutti i componenti della famiglia si trovavano nell’altra stanza, quando videro Nikhita tutti scapparono nella camera da letto e l’unica che rimase lì era la madre del bambino, che lo prese per un braccio e iniziò a picchiarlo urlandogli che non avrebbe dovuto portare la straniera in casa loro. Nikhita scioccata da ciò che stava accadendo urlò: “La smetta, la prego!” La signora allora si fermò,alzò gli occhi verso lei e prima che potesse parlare, la ragazza disse:


“Me ne vado…questo non è posto per me.” “Aspetta!” …Lei notò che aveva al collo la collana, quella che le regalò Vidur… “Prasavitri! Sei tu?!?” “A dire il vero no, sono la figlia, Nikhita” “Non ci posso credere! Non avrei mai pensato che un giorno capitasse per caso in casa nostra la figlia della mia cara amica…È incredibile!” Allora la donna, che si chiamava Sumitra, diede a Nikhita qualcosa da mangiare e una coperta per tenerla al caldo; Sumitra iniziò a parlare dei ricordi d’infanzia della madre Prasavitri e di lei, finché la ragazza non la interruppe per chiederle informazioni sulla collana… “Aaah…quella collana contiene in sé una storia davvero strana! Le fu stata regalata da un giovane di nome Aiman, che era tremendamente innamorato di tua madre! Era straniero, proveniva dal Nepal se non erro, dovette scappare dal suo paese per colpa di una guerra…Ora si trova a Kanpur, è andato lì a causa di tua madre, poverino, lei non lo amava e lui era così disperato che non riusciva più a stare qui…” Le due donne continuarono a parlare delle loro storie fino a notte tarda e poi, decisero di andare a dormire, Nikhita era molto stanca….Il giorno dopo la giovane avventuriera rimase a casa di Sumitra per riposarsi e per procurarsi del cibo per il viaggio. La mattina seguente era pronta e più carica che mai! Salutò la famiglia che l’aveva accolta e prima di partire Sumitra volle dare un consiglio a Nikhita: “Fa attenzione durante il tragitto! E tieniti ben stretta la collana! E l’unica speranza che hai per poter parlare con Aiman e per riuscire a trovare le tue radici…” Il cammino fu ancora più lungo e faticoso del precedente, in questo periodo Nikhita ebbe l’occasione di ammirare le meraviglie che l’India aveva da dare e di conoscere persone stupende ed ospitali, ma anche gente losca e ostile…Infatti un giorno mentre riposava sotto un albero due tizi gli strapparono dal collo la collana, lei si svegliò di colpo e iniziò a correre tentando di raggiungerli, purtroppo però erano troppo lontani…A un certo punto un ragazzo in groppa al suo cavallo corse verso i due e riuscì a riprendere il ciondolo dando loro una bastonata in testa; con molta calma e fierezza tornò indietro verso Nikhita e le ridiede la collana e ripartì dando un colpo al cavallo e urlando “Vai Kanthaka, vai!” Dopo 10 lunghi giorni arrivò finalmente a Kanpur e si fece accompagnare alla casa di Aiman che si trovava lontana dal centro del paese…Era ormai un uomo avanti con l’età e come spesso capita, era leggermente sordo… “Sei tu Aiman?” “………” “Aimaaaaan!!!”


“……..” “EHIIIIIIIIII” “Oh! E tu chi saresti?!” “Mi chiamo Nikhita…e….” “Ciquita?? Come la banana?!?” “NO! Sono la figlia di Prasavitri!” Appena sentì il suo nome gli si illuminarono gli occhi e saltò in piedi dalla gioia “Che onore poter conoscere sua figlia!Lei come sta?” “Purtroppo è morta alla mia nascita…” “Oooh…. Che dispiacere…” “Comunque sono qui perché le devo fare delle domande…” “Cosa? Sei in giro senza mutande??” “NO!! Devo farle delle DOMANDE!!” “Aaaaah!! Certo certo dimmi pure!” Nikhita tirò fuori dalla borsa la collana e glie la diede in mano… “DI CHI ERA QUESTA COLLANA??” “Ecco a chi l’avevo data! Comunque appartiene alla mia famiglia da generazioni…Il mio bisbis-bis-bis-bis-bisnonno l’aveva ricevuta da un uomo che arrivava dall’Ovest, è l’oggetto più prezioso che possedeva la mia famiglia” “Capisco, e cosa significano le lettere BB?” “…….” “COSA SIGNIFICANO LE LETTERE BB?? “Bondi Bantu” “E chi è??” “Nessuno lo sa…c’è chi dice che arriva dall’Est,chi dall’Ovest e chi dal Nord, sinceramente io non credo a nessuna delle tante voci che girano sulla sua identità…Ora che mi ricordo insieme al ciondolo c’era pure una pergamena…” Corse subito verso un armadio dove c’erano un sacco di libri e rotoli ed iniziò a rovistarci finchè non trovò un pezzo di pergamena tutto usurato dal tempo… “Eccolo! Su leggi cosa c’è scritto!” “Oh tu, che sei alla ricerca del patriMonio. più importante e CHE vuoi sapere l’identità di BB, Rivolgi il tuo sguarDo alla roccia e punta la pIetra verde in direzione dei raggi sOlari, solo così troverai risposta alle tue domaNde…Ma che significa?!?!” I due rimasero fermi e zitti a controllare ogni minimo dettaglio che potesse aiutarli a risolvere il problema: Nikhita notò che alcune lettere erano scritte in maniera diversa dalle altre, allora le scrisse su un altro pezzo di pergamena,e queste formavano la parola M. CHERDION


“Il monte Cherdion! Brava Nikhita!” “E dove si trova questo monte??” “Al confine con Nepal e India! Si dice che da lassù riesci addirittura a vedere il Gange!” “Fantastico! Domani mi metterò subito in viaggio per quel monte! Non ho intenzione di aspettare ancora!” Non appena i primi raggi del sole iniziarono a scaldare la terra Nikhita si svegliò e iniziò la sua spedizione verso quel monte, là finalmente avrebbe potuto sapere chi fosse veramente. I Giorni passarono in fretta e la ragazza piena di entusiasmo e grinta riuscì a cavarsela senza difficoltà: in assenza di cibo, col freddo e senza nessun compagno di viaggio la piccola viaggiatrice arrivò, dopo circa un mese, ai piedi del monte. Era colossale! Solo a vederlo le sue certezze iniziarono a vacillare, non era sicura di riuscire a scalarlo. Allora aguzzò l’ingegno e con dei rami flessibili creò una corda e utilizzò due pugnali che portava con sé come chiodi da infilare nel muro di roccia che aveva di fronte per poterlo scalare. Dopo momenti di grande fatica riuscì ad arrivare ad una grotta che si trovava all’incirca a un terzo dell’altezza del monte, allora Nikhita entrò per prendere fiato e notò che all’interno era stata creata una galleria che saliva verso la cima della montagna! Euforica per ciò prese la corda e la usò come fiaccola per illuminare la strada, che da lì in poi fu tutta “discesa”. Arrivò sulla cima giusto in tempo per il tramonto, e fece ciò che c’era scritto sulla pergamena: Sul muro di roccia la luce verde che emanava la pietra mise in risalto una fessura, Nikhita si avvicinò e vide che c’erano incise le lettereB e che la fessura aveva la stessa forma del ciondolo, quindi lo inserì dentro…Sentì tremare per terra, di fronte a sé sul muro di roccia si aprì un varco…Entrò e vide un enorme dipinto rupestre, raffigurava un uomo alto, forte e dai caratteri somatici ben diversi da quelli di un indiano e soprattutto era molto più scuro di carnagione! A fianco del dipinto trovò scritto qualcosa: “Di qui passò Bondi Bantu, padre dei nostri padri, nonno dei nostri nonni, il primo discendente di tutti i popoli presenti sulla terra, proveniente dalla Nigeria in Africa. A lui dobbiamo tutto. Senza lui non saremmo stati nessuno.” Vent’anni dopo sulle strade dell’India si potevano notare numerosi bambini che portavano una collanina d’ambra con all’interno una lucciola.

Mastro Cipolla

Sin dall’VIII sec. d.c. abbiamo notizie sulla vita dell’antica famiglia Bondi – Bantù in Arabia. La famiglia si insediò alla Mecca nel 604 d.c. e presentava ancora dopo secoli,l’oggetto che distingueva la famiglia bantù: la collana d’ambra con all’interno una lucciola. In quel periodo la popolazione locale era influenzata dal pensiero di Marwan hakam (575-632), il futuro fondatore della fede islamica.


La famiglia “Bantù” risiedeva in un’umile dimora nella periferia della Mecca, nei pressi del luogo in cui Marwan hakam aveva vissuto la sua infanzia. Il nucleo familiare era composto da: Bud al-za ibu Bantù – il capofamiglia Amina – la moglie Ayman- il primogenito Mustafà – il secondogenito... …..e infine i restanti,ma non meno importanti,13 figli. Bud divenne presto famoso in tutto il quartiere per le sue doti filosofiche e scientifiche. Marwan Hakam,nonostante fosse diventato famoso non trascurò mai il suo luogo d’origine e per questo mantenne sempre contatti con il popolo della periferia della Mecca. Per questo venne presto avvisato dell’arrivo di Bud e volle incontrarlo al più presto per valutare in prima persona le capacità dell’uomo. L’incontro avvenne nel 610 d.c. e durò parecchie ore, dopo le quali Marwan capì che Bud era veramente il grande uomo che tutti dicevano. Negli anni seguenti Marwan Hakam si dedicò alla conquista della Penisola Iberica e della Sicilia e nonostante la lontananza dalla Mecca intraprese una fitta e continua corrispondenza con Bud. Passarono una ventina d’anni dopo i quali Marwan tornò vittorioso in Patria. Rimase però molto segnato dai continui spostamenti e la sua vita si avvicinava alla fine. Per questo motivo decise di nominare Primo Califfo d’Arabia Bud per proseguire la raccolta delle tradizioni orali e i pochissimi appunti scritti relativi al Corano, il libro sacro dell’Islam. Bud anche lui però anziano,decise di mandare i propri figli a tramandare in tutto il mondo la fede islamica.

Ciambello

Cristoforo Colombo lo conosciamo tutti, ma nessuno sa ancora quali siano le sue vere origini. Magari era italiano, spagnolo, portoghese, ebreo oppure africano. Non preoccupatevi, la vera storia ve la racconterò io. Suo padre Domenico era un noto artigiano, tessitore e mercante italiano che amava viaggiare. Durante uno dei suoi viaggi, alla ricerca di stoffe e materiali pregiati, arrivò a costeggiare le coste dell’Africa nord orientale. Dopo aver visitato Cartagine e altri porti importanti, ma ancora insoddisfatto dei tessuti che aveva comprato, approdò nel porto di Alessandria d’Egitto. Stupito dalla raffinatezza dei tessuti in lino che i produttori locali vendevano al mercato, decise di rimanervi per qualche settimana in modo da poter imparare di più su questo magnifico materiale. Uno di quei giorni in Egitto, mentre camminava per le bancarelle del mercato alla ricerca del miglior tessuto egiziano, si imbatté in una curiosa


bottega. Con quel poco di arabo che riuscì ad imparare durante il suo viaggio in Africa, Domenico lesse l’insegna che diceva: Bahira Bantù – Il lino che cercavi. Incuriosito vi entrò e venne subito accolto da una bellissima donna dalla carnagione scura e dei capelli neri lunghissimi. Bahira era il suo nome, come diceva l’insegna; Domenico le spiegò immediatamente che stava cercando del lino pregiatissimo da portare a Genova, dove si trovava il suo laboratorio e negozio. La padrona gli fece segno di seguirlo nel retro bottega, dove teneva tutto ciò che produceva ed alcune stoffe molto elaborate. Il padre di Cristoforo rimase abbagliato dalla bellezza dei motivi e la morbidezza dei tessuti. Confessò immediatamente a Bahira che non aveva mai visto nulla di simile in nessuno dei suoi viaggi compiuti fin’ora e lei sorrise dolcemente ringraziando. Nella sua mente pensò che farsi sfuggire un tale tesoro sarebbe stato inammissibile e che doveva assolutamente trovare un accordo per importare i tessuti in Italia. Tuttavia si stava facendo tardi e Domenico dovette rinviare le trattative al giorno dopo. Accordato l’appuntamento il cliente e la bella tessitrice si salutarono. Bahira era l’unica donna a possedere un negozio di tessuti ad Alessandria e nonostante l’ottima qualità dei suoi prodotti la concorrenza maschile era spietata, tanto che la sua bottega ha rischiato parecchie volte di dover chiudere le serrande per fallimento. Come se non bastasse veniva anche pregiudicata a causa delle sue origini: come dice il suo cognome lei non era egiziana, le sue origini risalgono a quelle di Bondi Bantù e del popolo che conquistò tutta l’Africa meridionale. Alcuni dei discendenti dei figli di Bondi Bantù rimasero per parecchi anni, anzi direi secoli, nella capitale dell’impero romano, fino al 410 d.C. quando scapparono prima che gli Unni distrussero la città. Molti si diressero al Nord, altri scelsero di tornare verso le terre che diedero vita al loro avo comune. Tra queste storie vi è quella di Bahira, i cui antenati si diressero verso il Medio Oriente. In queste terre appresero da altri artigiani orientali le tecniche tessili, che tramandarono di generazione in generazione, ma questo è un altro capitolo della storia. Per tutti questi motivi l’affare con Domenico, che sembrava avere ottime intenzioni di comprare i suoi tessuti, era per Bahira di cruciale importanza, tanto che sarebbe stata disposta a qualsiasi cosa. Le cose andarono così: i due si incontrarono nuovamente il giorno successivo per le trattative. Non arrivando ad un accordo dopo varie ore di discussioni, Bahira giocò la carta della disperazione e spiegò a Domenico la sua situazione di precarietà. Pervaso dalla pena per l’abile tessitrice, Domenico le propose, così senza pensarci nemmeno tanto, di venire in Italia con lui a lavorare nella sua bottega. Un immenso sorriso si aprì sul viso di Bahira che corse subito a preparare le sue cose. Il giorno seguente, dopo aver caricato tessuti, valigie e uomini sulla nave, Domenico e Bahira salparono verso le coste ligure. Non ci volle molto tempo perché scoppiasse anche tra loro l’amore, che diede poi vita al famoso navigatore/esploratore di nome Cristoforo Colombo ed ai suoi fratelli. Sin dalla tenera età il piccolo esploratore crebbe in un ambiente tutto da scoprire: tra la bottega del padre, ricca di attrezzi e macchinari interessanti,


e il vicino porto con navi provenienti da mezzo mondo; la madre ne stimolava la fantasia narrandogli le storie degli epigoni di Bondi Bantù che girarono ed “invasero” con i propri geni popolazioni lontanissime. La sua carriera di navigatore era ormai assicurata ed avviata, sostenuta anche dal padre e dallo spirito cosmopolita della madre, così nel 1492, grazie ai finanziamenti della corona spagnola, il navigatore salpò alla ricerca di nuove rotte commerciali per le Indie. Purtroppo fallì. Si imbatté però a sua insaputa in un nuovo continente, quello che oggi chiamiamo America. Il 12 ottobre vide le coste dell’isola di Santo Domingo, denominata così in onore di suo padre. Il viaggio fu una vera impresa: 3 mesi e mezzo a bordo di una caravella con soli uomini, navigando in mare aperto in condizioni igieniche inimmaginabili agli occhi di molti moderni uomini. Una volta arrivati a mezzo miglio dalla spiaggia, gli uomini di Cristoforo e lui stesso si scaraventarono verso la terra ferma. Secondo il protocollo, difeso soltanto dal prete di bordo, il capitano avrebbe dovuto proclamare la nuova terra in nome delle corona di Spagna, ma il nostro protagonista aveva interessi completamente diversi, preso com’era dalle esigenze umane. Spinto da uno improvviso istinto esploratore, si addentrò immediatamente con la sua ciurma nell’entroterra dell’isola alla ricerca di cibo, acqua dolce ed esseri umani. L’imparagonabile ricchezza di vita di quella foresta stupì persino i mozzi più insensibili. Ma la densità vegetativa non perdona: dopo pochi minuti si erano già persi in mezzo al verde. Riuscirono a trovare un corso d’acqua dolce seguendo il suono di sottofondo dello scorrere dell’acqua che accompagnava il cinguettio degli uccelli. Un paradiso si aprì di fronte ai loro occhi: una cascata di 5 metri formava una piscina rotonda dal colore cristallino. La ciurma non esitò a tuffarsi trascinando con sé anche il capitano. Furono momenti di vero godimento anche perché erano circondati da frutti esotici ovunque guardassero. Nessuno badava a ciò che stava mangiando e nemmeno al tempo: improvvisamente calò il buio. L’unica luce che brillava nella foresta era quella del ciondolo di Cristoforo: glielo regalò sua madre non appena cominciò a fare i primi passi. Era una piccola boccetta di vetro che Bahira riempiva ogni notte di lucciole per metterlo al collo del piccolo esploratore in modo da ritrovarlo nel buio quando scappava dal suo lettino. Tuttavia in mare aperto non si trovano questi insetti, ma il capitano fece una curiosa scoperta: bastava mettere un po’ di acqua di oceano nella boccetta, agitare ed ecco la luce. Si tratta della bioluminescenza di alcuni organismi che formano il plancton che galleggia nei primi metri dell’acqua atlantica, ma questo Cristoforo non lo sapeva, agitava semplicemente il suo ciondolo per fare luce agli altri e ritrovare il sentiero per tornare alla spiaggia. Camminarono nella foresta per ore esposti a vari pericoli: animali notturni, dirupi o piante spinose. Tutto d’un colpo qualcosa tirò il capitano per le gambe e lo issò a testa in giù, con ironia osservò che questo doveva essere un indubbio segno di civiltà e che probabilmente ci potessero essere dei uomini sull’isola. La sua ciurma lo abbandonò nel buio e così dovette arrangiarsi da solo, ma


non vi era alcun modo per liberarsi da quella corda, riuscì soltanto a sistemarsi sul ramo in modo da poter passare la notte. Il mattino seguente un gruppo di indigeni trovò Cristoforo Colombo appollaiato sul ramo e lo punzecchiarono con le punte delle loro lance. Si svegliò di colpo e perse l’equilibrio cadendo perciò dal ramo. Rimase appeso alla corda, circondato da uomini che lo fissavano incuriositi. Osservarono ogni centimetro quadrato della sua pelle fino a quando uno di loro tirò fuori un coltello e tagliò la corda, che teneva Cristoforo sospeso a testa in giù, facendolo crollare a terra. Lo sollevarono per legarlo ancora una volta ad un palo e così lo trasportarono fino al villaggio. Quello che sembrava essere il capo villaggio annunciò con vigore la stupefacente notizia: tutte le donne ed i bambini uscirono dalle capanne per ammirare la curiosissima preda quotidiana. Le ragazze notarono subito che si trattava di un esemplare giovane di uomo e che necessitava di cure, ma i capi tribù decisero di rinchiuderlo in una capanna sorvegliata. Passò tutto il giorno lì dentro ad ascoltare i discorsi di esseri così simili a lui, ma diversi nel frattempo dal punto di vista culturale. Gli lasciarono soltanto mezzo avocado e dell’acqua. Arrivò nuovamente la notte e Cristoforo si addormentò; dopo pochi minuti anche le guardie che sorvegliavano l’entrata della capanna vennero colpiti dal sonno e crollarono ai piedi delle loro lance. Questo permise ad una giovane indigena di intrufolarsi nella capanna per portare le adeguate cure a Cristoforo Colombo. La storia si ripeté per sei notti ed ogni volta una ragazza diversa portò cibo ed affetto al prigioniero. Non si sa bene cosa succedesse durante questi incontri, ma sicuramente il nostro protagonista non li disprezzava. L’indomani del settimo giorno i capi tribù trovarono un accordo circa i trattamenti da riservare al prigioniero: decisero di ucciderlo come sacrificio agli dei! Per fortuna la soffiata arrivò in tempo ed una giovane indigena portò di nascosto una lancia ed uno scudo a Cristoforo per poter evadere e gli spiegò come raggiungere la spiaggia. Non appena i capi vennero in visita alla capanna il prigioniero si scaraventò contro di essi buttandoli a terra e uscì dalla sua prigione correndo verso sud in direzione del mare. Raggiunse le caravelle e la sua ciurma in qualche ora, ma lasciò il suo segno sul’isola. Qualche mese più tardi un’ondata strepitosa di nascite inondò la tribù e la notte si riempì di luci in movimento: il tradizionale ciondolo Bantù conquistò anche l’america centrale!

Anita

Ghilliwen era una dei Chanés, una civiltà che occupava le distese al di sotto della folta Amazzonia, discendenti degli Arawuak. La sua carnagione aveva i colori della terra dove abitava e i suoi occhi a mezzaluna erano neri e lucidi come la notte. I suoi capelli erano robusti ma morbidi come il cuore degli aguapé e le sue labbra carnose rosse come la tuna. Così come molte altre giovani, ornava il suo corpo con delle tinte ricavate mescolando la linfa delle piante e terra, oppure con la polvere dei minerali colorati. Ma nemmeno le sue piume di


Guacamayo sono riuscite ad attirare il pirata inviato a esplorare quelle zone. Ghilliwen era molto attratta dalle fattezze così diverse dalle sue. Lui infatti era biondo e riccio. La sua pelle era pallida come il ventre di un puledro appena nato e i suoi occhi splendevano di un verde ceruleo. Lei non era per niente timida e non vedeva in lui nessun pericolo, e così decise di fargli capire ciò che provava offrendogli alcuni gioielli di alpaca. Lui accettò i gioielli, ma non il suo cuore poiché le disse che era diversa da lui e che non aveva intenzioni di convivere con un tale essere. La povera Ghilliwen era molto offesa e delusa, non sapeva che esistessero umani “diversi”. Ma non si arrendeva facilmente, e non si fidava di quanto ben informato fosse riguardo gli umani questo pirata venuto dall’Europa. Chiese a suo apa (nonno), che era anziano e saggio. Anche lui aveva i capelli lunghi e scuri quanto il primo giorno che gli sono spuntati e le rughe sul suo volto erano appena delle linee che marcavano le espressioni. -”Apa, apa, perché sono scura come te e non chiara come i pirati?”-domandò -”La tua pelle ha quel colore per proteggerti dal sole, i tuoi occhi sono scuri ma la loro bellezza va al di là del colore”Il nonno si accorse che la risposta non soddisfaceva le aspettative della giovane, quindi decise di farle capire ciò che lui conosceva molto bene, ovvero che non siamo diversi da chi sta al di là del mare. -”Prendi quest’ago di cactus e spilla un goccio di sangue dal tuo ‘Amore’ e portalo qui da me”le disse porgendoli l’ago grosso e giallo. Lei torno molto contenta col goccio di sangue. -”Apa, apa, il suo sangue è rosso come il mio! che fortuna!”Ma non era questo ciò che il nonno voleva dimostrare. Infatti si diressero verso le coste del fiume, dove si svolgevano i riti sacri e la pesca. Il nonno disse a Ghilliwen di lasciar cadere la goccia nell’acqua, poiché La Pachamama le avrebbe svelato una gran verità: tanto lui come lei sono esseri dello stesso tipo, anche se in apparentemente diversi. La goccia cadde e l’acqua si illuminò di tanti colori. Dentro quella goccia di sangue si celava il DNA…si celava un segreto che ce ne svela un’altro: Siamo tutti fratelli, scuri come la pece, discendenti dall’africano Bondi Bantù. Littlechemistry

Robby Bantù dopo aver fatto la gavetta in un cantiere navale, un pò per problemi economici e un po’ per la monotonia della sua vita, decise di arruolarsi in una compangia mercantile. Il suo nuovo lavoro lo appassionò molto e con la nuova ciurma dovette affrontare numerosissimi viaggi, ma nè lui nè nessuno dei suoi compagni, avrebbe mai pensato di dover doppiare il capo Di Buona Speranza e di affrontare le insidie dell’ignoto alla ricerca di una nuova via per l’oriente. Tuttavia il proprietario della sua flotta, ingolosito dai possibili profitti economici che


sarebbero fruttati da quella spedizione, decise di impiegare una delle sue tante navi a questo scopo. Potreste dire: cosa c’è di meglio se non di una spedizione a fini esplorativi per qualcuno in cerca di avventure come il nostro Robby? (ebbene si, il nostro falegname si chiama così). Peccato però che il morale del nostro avventuriero e dei suoi compagni non era così alto, poichè negli anni passati avevano avuto modo di appurare che ben poche navi avevano fatto ritorno da Capo Di Buona Speranza; Ma quelli erano brutti tempi, specialmente per i ceti medi, e perdere il lavoro sarebbe significato per chiunque finire nel baratro. Per un single spiantato come Robby nulla sarebbe stato peggio di perdere il proprio lavoro, per questo, un pò a malincuore, accettò il contratto. Subito dopo la fine dell’inverno, giunto il momento più propizio per la partenza, la spedizione salpò da un porto spagnolo; la fortuna sembrò dalla loro tanto che per diversi giorni ebbero vento a favore, cosicchè in pochi mesi sbarcarono a capo di buona speranza. Dopo aver riempito la stiva di viveri ed essersi rifocillati ripartirono tutti euforici alla volta dell’ignoto; ma l’euforia sparì dopo qualche settimana quando dopo qualche giorno di bonaccia, un cielo nero iniziò a farsi vedere e una tempesta imperversò sulla loro rotta. Il vento era così forte da far fischiare il pennone ma le vele non erano state ammainate poichè per l’imponente forza di eolo alcune carrucole erano saltate; e se non bastasse, onde enormi si infrangevano sulla chiglia con potenza tale da dare tremendi scossoni all’equipaggio che continuava (nonostante il ponte fosse ormai parte del mare) a tentare disperatamente di disarmare le vele. Tutti i loro tentativi furono tuttavia vani e per questo, in seguito ad una raffica più potente delle altre il vecchio albero maestro cedette spezzandosi rumorosamente a meta e trascinando dietro di se le vele che andarono a cadere a prua. Nella sfortuna però la ciurma ebbe la fortuna che la tempesta iniziò a farsi più mite già poche ore dopo il disastro cosicchè, si iniziò a contare i dispersi e i feriti; il danno alla nave era ingente: la nave aveva perso uno dei suoi tre alberi, che cadendo aveva danneggiato gravemente anche la bugna dell’albero di prua. Nonostante tutto però non si persero d’animo e si affidarono al falegname per porre rimedio a i loro problemi: l’astuta esperienza del nostro Robby riuscì, sacrificando ciò che rimaneva della benna, a rimettere apposto bugna e ponte della nave. Probabilmente perchè ognuno era troppo intento nel suo lavoro, nessuno scorse la linea della costa che si stava delineando all’orizzonte con il diradarsi delle nuvole…. La nave alla meglio peggio riuscì a rimettersi in cammino, e con il vento in poppa raggiunse la terra; con grande sorpresa, dopo una camminata verso una cittadella limitrofa, scoprirono di essere giunti alla propria metai. Secondo i calcoli del capitano, la tempesta era stata la loro salvezza, infatti a quanto pare la rotta che stavano seguendo era sbagliata, ed è grazie all’imprevisto che


si avvicinarono sufficientemente alla costa da poterla scorgere. Dopo un mese di lavoro in un cantiere navale si riparò l’albero maestro e la ciurma salpò in via di ritorno facendo tesoro dell’esperieze dell’andata. Sbarcati in Europa le prodezze di Robby iniziarono a renderlo popolare, e il finanziatore della spedizione, capendo che fu anche grazie al falegname che il suo investimento andò a buon fine decise di donare parte del suo introito anche a Bantù cosicché poté realizzare il suo sogno di mettersi in proprio. La popolarità conquistata fu di grande aiuto per il nostro falegname per trovarsi una moglie, e con qualche marmoocchio in più in giro per casa, ebbe la possibilità di dedicarsi alle sue amate navi.

Flourinary

E’ l’alba, un altro giorno inizia ed è in ritardo. Ma ritardo per cosa? In ritardo per la solita sveglia, schiavo delle sue mansioni, ma schiavo per davvero. Molti mesi prima aveva abbandonato il suo villaggio per cercare nuovi.. hem.. “stimoli”. Non trovò esattamente quello che cercava, fu catturato pochi giorni dopo da una banda di schiavisti, ovviamente maschi. Da parecchie settimane ormai conduceva una marcia forzata verso i suoi futuri padroni. Da quello che aveva potuto cogliere dalle conversazioni degli schiavisti, si stavano dirigendo verso la Cina. E da quello che poteva vedere, stavano seguendo la costa, sia via terra che via mare. Era veramente disperato. Certamente per il fatto che era stato fatto prigioniero, ma era disperato anche per un’altro motivo, per lui più importante. Il motivo non si dice, ma era così disperato che ogni volta che incontravano gruppi di persone pregava perchè fosse fatta prigioniera qualche donna. Ovviamente ciò non accadde. Dopo qualche altro giorno di sofferenza gli si presentò un’occasione imperdibile, specialmente nello stato di disperazione in cui stava annegando in quel momento. Solita ora, solita scomodissima posizione seduto contro un albero, solite gambe incrociate, solite corde, ma nuovo nodo. Sentiva che quella sera lo schiavista non lo aveva legato come al solito, infatti era molto meno stretto, e poteva spostare di qualche millimetro una mano dall’altra. Gli balenò subito alla mente la possibilità di riacquistare la sua libertà, e soprattutto pensava a ciò che avrebbe potuto fare una volta libero. Furono proprio quei pensieri che gli diedero la forza necessaria. Così in soli 27 minuti riuscì a liberarsi, e con i polsi non in ottime condizioni e ancora e..agitato da quei pensieri, prese a correre all’impazzata verso la costa. Lì trovò una delle piccole imbarcazioni a vela utilizzate per spostarsi fino a lì. Era ancora e…agitato, si, ma trovò comunque il senno per prendere delle provviste per affrontare il vicino viaggio. Raccolse tutto quello che riuscì dal vicino accampamento facendo attenzione a non farsi scoprire, poi caricò tutto sulla nave. Entrò in acqua, spinse la nave in modo da liberarla dalla


sabbia e vi si arrampicò sopra. Si sdraiò e incominciò ad assaporare la sua riacquistata libertà. Dopo circa 56 secondi si dimentica della sua libertà e ritorna a quei pensieri che così tanto lo avevano motivato a liberarsi. Si rialzò, deciso a raggiungere qualche umano, possibilmente non schiavista o uomo. Spiegò le vele e.. si accorse che non aveva mai governato una barca a vela, e non aveva la minima idea come fare. 3 settimane dopo aveva finito tutte le scorte di cibo ed era completamente esausto. Se ne stava sdraiato senza pensare a nul… in realtà aveva i suoi soliti pensieri per la testa. D’un tratto viene risvegliato da un tonfo sordo, seguito da un suono prolungato, come se qualcosa stesse grattando sul fondo della barca. Si alzò, e con gioia scoprì di avere raggiunto terra. Fu rianimato da una nuova forza derivante dall’inattesa sorpresa, così scese dalla barca, e non senza qualche fatica riuscì ad addentrarsi nelle terre appena raggiunte. Dopo un breve tragitto riuscì a trovare un ruscello a cui abbeverarsi, ma in quel tratto di strada notò animali mai visti prima. Su un albero vide una specie di scoiattolo grande e ciccione, con il muso nero e delle grandi orecchie. Mentre in lontananza scorse degli enormi topi che si spostavano per mezzo di grandi balzi, ma la cosa più strana era vedere i loro cuccioli (suppose) stare in una tasca posta sul ventre degli altri esemplari. Decise di allontanarsi ancora un po’ dalla costa alla ricerca di qualche segno di civiltà. Dopo poche ore di cammino raggiunse un piccolo villaggio. Restò fermo qualche secondo davanti a quella che sembrava l’entrata dell’accampamento. Iniziarono così a radunarsi intorno a lui gli abitanti, curiosi di conoscere quell’essere così simile e così diverso da loro. Vide molti uomini, ma si concentrò sulle donne. E così pensò: “Finalmente posso continuare ciò che mio padre ha iniziato. Io sono Scsi Bantù, figlio di Bondi Bantù!!”.

Epilogo

Nel marzo 2010 si diffuse la notizia della scoperta di un nuovo ominide: l’ Homo di Denisova (detto anche donna X). Il reperto venne alla luce nel 2008 nelle grotte di Denisova sui Monti Altai in Siberia. Nello stesso strato di terreno apparvero piccoli oggetti lavorati riconducibili all'Homo di Denisova. Ma la cosa più sorprendente è il recente rinvenimento di un altro ominide accanto ai resti della donna X, gli studiosi sono affascinati sopratutto dalla collana che porta al collo: un grosso ciondolo d’ambra con all’interno una piccola lucciola congelata nel tempo.



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