Shigeru ban  fluidità, minimalismo, permeabilità

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Shigeru Ban :

fluidità, minimalismo, permeabilità.

Università degli studi di Roma “La Sapienza” Facoltà di Architettura Corso di Teoria delle ricerche architettoniche contemporanee Prof. Andrea Bordi Stud. Antonio De Paola A.A 2010/2011



Indice

0 - Cenni biografici

1

1 - Gli esordi :

3

1.1 - L’eredità di John Hejduk e il rapporto con il contesto

3

1.2 - La struttura al servizio della forma

3

2 - Il linguaggio della carta :

7

2.1 - Le mostre

7

2.2 - Le prime architetture

7

2.3 - La risposta architettonica alla crisi umanitaria

9

2.4 - Il Japan Pavillion di Hannover

11

3 - Lo spazio :

13

3.1 - Gli sviluppi low-tech

13

3.2 - Il piano universale

13


Cenni biografici Shigeru Ban è nato a Tokyo nel 1957. Nel 1977 si trasferisce in America per studiare alla Southern California Institute of Architecture e nel 1984 completa la sua formazione presso la Cooper Union di New York, sotto la Guida di John Hejduk. Nel 1985, apre il suo studio a Tokyo e inizia l’attività professionale con alcuni progetti di allestimenti, per le mostre, tra l’altro, di Emilio Ambasz, Judith Turner ed Alvaar Aalto. Insieme ai primi edifici residenziali villa K (1987) e Muramatsu residence(1989) comincia a sperimentare la costruzione di strutture realizzate impiegando tubi di carta riciclata, che gli meritano l’attenzione della critica internazionale. Tra le opere costruite con questa tecnica nei primi anni '90 vi sono l'Odawara Festival Main Hall (1990), la Issey Miyake Design Studio Gallery (1994), la Paper House (1995), la Paper Dome (1998). Contemporaneamente realizza altre abitazioni basate su diversi principi strutturali, come la villa Torii (1990), la Double Roof House (1993), le Furniture House 1 e 2 (1995-96), la 2/5 House (1995), la Curtain Wall House (1995), la Wall-Less House (1997). Nel 1994, in risposta alle terribili condizioni di vita cui erano costretti i rifugiati del Rwanda a causa della guerra civile, propone all’UNHCR di utilizzare i rifugi in cartone di propria concezione. È questo il primo degli interventi di Ban in situazioni di crisi umanitaria, attività che lo coinvolgeranno, d'ora in poi, in una serie di iniziative volte a migliorare le condizioni di vita dei rifugiati. Le strutture di cartone si adattano in maniera brillante alle situazioni d'emergenza, grazie alla sostenibilità economica ed ecologica e alla velocità d'assemblaggio. Significative, in questo senso, le architetture de L'Aquila Temporary Concert Hall (2011), e della Cardboard Cathedral a Cristchurch in Nuova Zelanda (2013), oltre a quelle di tutti i rifugi assemblati in questi stessi anni, grazie anche all'apporto del VAN (Voluntary Architects Network) organizzazione non governativa di fondazione dello stesso Ban. Nel 2000, Ban si occupa della progettazione del padiglione giapponese per l’Expo di Hannover, un lungo spazio voltato a sezione variabile, sostenuto da un reticolo di tubi di carta e quasi completamente riciclabile, grazie anche alla collaborazione dello strutturista tedesco Frei Otto. Nel 2004 , Ban, in collaborazione con Jean de Gastines e Philip Gumuchdjian, vince il concorso per la progettazione del nuovo centro Pompidou a Metz. Per la progettazione Ban riunisce studenti europei e giapponesi in uno studio temporaneo con struttura in tubi di cartone allestito su una delle terrazze del Pompidou di Parigi. Nel nuovo Centre Pompidou, Ban si discosta dalla carta per utilizzare il legno lamellare (assemblato senza giunti metallici) e il Teflon, a disegnare una copertura esagonale il cui intreccio si ispira direttamente al tradizionale cappello cinese. Shigeru Ban è attualmente impegnato nella creazione architettonica, nell'attività di assistenza umanitaria, nell'insegnamento e nella continua ricerca sui materiali e sui sistemi strutturali.


Shigeru Ban a Port-au-Prince, Haiti, (2010).


1 - Gli esordi 1.1 - L’eredità di John Hejduk e il rapporto con il contesto. La prima fase della carriera di Ban è ancora profondamente segnata dagli insegnamenti di John Hejduk e Peter Eisenman, suoi professori alla Cooper Union School of Architecture. La scelta di terminare il ciclo di studi nell’Istituto di New York è, a detta dello stesso Ban, dettata dalla volontà di entrare in contatto con Hejduk, della cui opera era venuto a conoscenza in gioventù, rimanendone profondamente affascinato. È facile immaginare come le opere del giovane Ban si sviluppino intorno ai temi che erano stati significativi delle ricerche del suo maestro americano, come il diaframma, la parete, il reticolo. Non è però da trascurare la presenza, in questi primi esercizi, di elementi compositivi derivanti da ricerche precedenti, come quelle di Mies van der Rohe, la cui influenza giocherà un ruolo chiave negli sviluppi successivi del linguaggio dell’architetto giapponese. In villa TCG (1986), in villa K (1987) e in Muramatsu residence (1989) la composizione è basata sulla manipolazione di figure geometriche elementari e sul loro accostamento. Le pareti, ridotte al numero minimo, sono articolate in maniera chiara e definiscono nettamente i volumi e le loro funzioni. É il caso, ad esempio della parete circolare che, in tutti e tre i progetti, ospita le funzioni di cucina e servizi e rappresenta il nucleo centrale della progettazione, attorno al quale si sviluppano gli altri volumi, scanditi da pareti portanti e da ampie vetrate. Da sottolineare è la particolare attenzione sia alla trasparenza del vetro, che mette in comunicazione ambiente interno e paesaggio circostante, sia alla sua capacità di riflettere il paesaggio stesso, intrecciandone visivamente le caratteristiche con l’architettura. Quest’ultima caratteristica delle prime architetture di Ban rivela una spiccata sensibilità in merito all’impatto degli edifici sull’ambiente circostante, che si traduce, inizialmente, nella ricerca di un dialogo sia “estetico” che spaziale tra le due componenti: In villa TCG la parete in conci di pietra del pianterreno segue le curve del ruscello che corre ai piedi dell’edificio lasciando a quest’ultimo il compito di “disegnare” gli spazi retrostanti; in villa K l’ingresso è orientato in modo da favorire la visione del paesaggio retrostante includendovi l’edificio, e l’ampia vetrata della zona living dirige lo sguardo nella stessa direzione; in Muramatsu residence, edificio collocato diversamente dagli altri due in un contesto urbano, le pareti vetrate sono disposte in modo da garantire, allo stesso tempo, sia una prospettiva privilegiata sul fiume sottostante, sia la privacy degli abitanti. Con Muramatsu residence possiamo definire conclusa una prima fase della carriera di Ban, riuscendo ad intravedere, nei suoi primi sottili accorgimenti compositivi, elementi che saranno determinanti nello sviluppo del suo linguaggio maturo.

1.2 - La struttura al servizio della forma. Il progetto di villa Torii (1990), segna una deviazione delle ricerche architettoniche di Ban rispetto alle opere precedenti. Qui infatti, il tentativo di creare una forma pura, che metta armonicamente in contatto ambiente interno ed esterno, è risolto attraverso lo studio esemplare della struttura: due pareti portanti, sui lati est ed ovest, assorbono solo gli sforzi di compressione della copertura


Villa TCG (1986)

Villa K (1987)


Gli esordi

in legno lamellare, mentre gli sforzi trasversali sono trasferiti a terra tramite tiranti d’acciaio. Questa soluzione permette non solo di minimizzare lo spessore delle pareti portanti, ma anche, e forse soprattutto, di disporre liberamente dei due restanti prospetti, ampiamente vetrati, e dello spazio interno suddiviso nei vari ambienti da pareti non portanti di forma arbitrariamente curva. Da notare è ancora una volta il rapporto col contesto: le due pareti portanti infatti svolgono anche una funzione di schermo rispetto alle abitazioni vicine, mentre le vetrate sono orientate esclusivamente verso la porzione naturale del paesaggio. Concettualmente simile è il progetto di abitazioni a Shakujii Park (1992), in cui, ancora una volta, Ban si adopera per fornire agli utenti il contatto con l’ambiente esterno (un parco comprendente un laghetto per la pesca), senza tralasciare la necessità di indipendenza reciproca di ogni unità. La soluzione prevista è una pianta a “S” scandita in unità spaziali da murature verticali portanti collegate da piani continui che distribuiscono uniformemente gli sforzi in tutta la struttura. Il risultato è una serie di unità, che si sviluppano a tutta altezza, ognuna con le sue “viste” privilegiate sull’ambiente circostante, garantite dalle ampie aperture e dalle terrazze che si aprono su entrambi i lati liberi. Il sistema concepito fornisce al contempo un elevata indipendenza funzionale e una solida unità strutturale.


Villa Torii(1990)

Villa K (1987) Residenze a Shakugii Park (1992)


2 - Il linguaggio della carta 2.1 - Le mostre Nell’esposizione del 1985 alla Axis Gallery di Tokyo, dedicata all’opera di Emilio Ambasz, Ban riduce il sistema delle partizioni interne a una libera disposizione di sipari in tessuto montati su telai lignei reciprocamente incernierati, che reinterpreta la tradizione giapponese degli shoji, pannelli leggeri in carta traslucida parzialmente scorrevoli utilizzati nell’abitazione per suddividere gli ambienti e graduarne la permeabilità. La materia prima viene consegnata in cantiere avvolta in tubi di cartone che Ban si ripropone di utilizzare in futuro, senza averne ancora compreso le possibilità d’impiego. L’anno successivo l’esposizione al Museum of Modern Art di New York dedicata ai mobili e ai prodotti in vetro di Alvar Aalto inaugura ufficialmente la stagione dell’architettura in cartone. Restrizioni di budget non consentono l’utilizzo del legno quale soluzione ideale per rappresentare il lavoro del maestro. La prospettiva di un mancato recupero del materiale, giudicata eticamente inappropriata, congiuntamente alla ricerca di un basso costo unitario, suggeriscono a Ban l’adozione dei tubi di cartone riciclato utilizzati nell’industria del packaging. I tubi possono essere prodotti in qualunque formato, diametro e spessore e sono assimilabili, per caratteristiche meccaniche e morfologiche, al bamboo. Il ricorso a un materiale sconosciuto, declinato attraverso una tecnologia tradizionale, produce un elegante sistema di partizioni mobili, controsoffitti, rivestimenti parietali e dispositivi di supporto degli oggetti in mostra che sono contemporaneamente un’ elegante citazione di soluzioni ricorrenti nell’opera di Aalto.

2.2 - Le prime architetture. Il successo dell’allestimento per la mostra su Alvar Aalto conduce Ban ai primi tentativi di utilizzare i tubi di cartone riciclato in architetture vere e proprie. La prima occasione è rappresentata dal Design Expo di Nagoya (1989), dove l’architetto propone una struttura a base circolare in cui 48 colonne cave di cartone definiscono lo spazio interno sorreggendo al contempo una copertura in materiale plastico assemblata su struttura a raggiera metallica. Non è solo un esercizio di sperimentazione compositiva. L’obiettivo è anche quello di testare i tubi, esponendoli agli agenti atmosferici per un certo periodo. Dopo sei mesi i risultati sono sbalorditivi. La colla utilizzata per rinforzare il cartone, indurendosi, ne ha persino aumentato la resistenza a compressione e il rivestimento in cera ha protetto egregiamente la materia prima dall’azione di acqua e vento. L’anno successivo, il cinquantesimo anniversario del Municipio di Odawara, fornisce l’opportunità per tentare un salto di scala. Il governo locale commissiona a Ban una struttura polifunzionale temporanea in legno, ma i limiti di budget e di tempo suggeriscono ancora una volta l’utilizzo del cartone. Per una scala così grande, però (1300 mq), il Ministero delle costruzioni giapponese esige lo svolgimento di test accurati sull’utilizzo del cartone come materia strutturale, test che non rientrerebbero nei tempi di costruzione stabiliti dal committente. La copertura viene pertanto sostenuta da una struttura in acciaio, e i tubi in cartone sono utilizzati per il paramento esterno e la definizione degli spazi interni. Un ulteriore passo in avanti è rappresentato dalla Library of a


Mostra dedicata ad Alvar Aalto, Tokyo (1986)

Odawara Festival Main Hall (1990)


Il linguaggio della carta

Poet (1991). Il committente, colpito dall’edificio di Odawara, chiede a Ban di utilizzare il cartone per uno studio annesso alla propria abitazione. Qui si pongono le basi per un evoluzione che trascende l’ambito della carta. L’utilizzo di una struttura in cartone non avrebbe permesso la costruzione di pareti sufficientemente rigide per sostenere le grandi librerie. L’intuizione di Ban consiste nel concepire le librerie come strutture indipendenti, ancorate alle fondazioni e con i dorsi esterni rivestiti di isolante e materiale per esterni, e di utilizzarle come elemento di chiusura verticale dell’edificio. Alla luce di tali sviluppi, non si può non concedere spazio a una riflessione: l’elemento carta, il cui utilizzo era fin qui immaginato come auto-imposto, acquista una connotazione completamente diversa. La carta è infatti un mezzo, e la sua scelta appare meno sistematica se si pone l’accento sulle finalità più sottili delle ricerche di Ban: leggerezza, basso impatto, reversibilità dell’intervento. Sono finalità che estendono l’ambito della ricerca rispetto al materiale utilizzato e che conferiscono alla stessa una dimensione “orizzontale”, nella quale trovano posto gli studi sugli spazi e sui sistemi strutturali, l’attenzione per il contesto, i giochi di luce e ombre, il minimalismo.

2.3 - La risposta architettonica alla crisi umanitaria. Tra i molteplici aspetti che caratterizzano la ricerca architettonica di Ban non potremmo certo tralasciare la sua analisi sul ruolo “sociale” dell’architettura. Rammaricato dalla consuetudine che relega l’attività architettonica a una ristretta cerchia elitaria, e colpito dalla tragicità della guerra civile in Rwanda (1995) , Ban si sente in dovere di fornire il suo aiuto alle popolazioni vittime di queste catastrofi. É da qui che prende le mosse la proposta all’UNHCR di utilizzare dei rifugi in cartone in risposta alla necessità di alloggi temporanei in situazioni di crisi umanitaria, nonché la fondazione dell’organizzazione non governativa VAN (Voluntary Architects Network). Il sistema strutturale in tubi di cartone riciclato garantisce rapidità ed efficacia di assemblaggio a costo limitato, e la decisione di produrre in situ i tubi riduce drasticamente le spese di trasporto. La stessa istituzione internazionale commissiona nel 1995 a Ban un’abitazione temporanea per le vittime del terremoto di Hanshin, vicino a Kobe. Il prototipo monocellulare si basa sul principio dell’autocostruzione e, in aggiunta alla richiesta di facile dismissione e di riutilizzo dei materiali e delle parti componenti, deve garantire un’adeguata resistenza alle forti escursioni termiche estive ed invernali della regione. L’architetto partecipa con i suoi studenti in qualità di volontario alla costruzione del campo profughi. Ma l’apporto in termini architettonici non si fermerà alla realizzazione di soli edifici residenziali. Già nel 1995, a Kobe, viene costruita, in sole cinque settimane, la Paper Church: 58 colonne in cartone disposte ad ellisse a sostenere una copertura in fogli di policarbonato, circondate da una parete di vetro. Significativo è anche l’intervento a L’Aquila, in seguito al terremoto del 2008, dove Ban dimostra di avere a cuore la tradizione musicale del posto, ponendo le basi del rilancio con la costruzione de L’Aquila Temporary Concert Hall, terminata nel 2011. La


Library of a poet (1991)

L’Aquila Temporary Concert Hall (2011)


Il linguaggio della carta

struttura prevede ancora una volta l’utilizzo di tubi in cartone riciclato, in due orditure differenti: la prima, la più esterna, con vetrate negli intercolumni, sorregge la copertura a capriate reticolari; la seconda, interna, molto più fitta, definisce il volume della sala da concerto vera e propria. Altra opera degna di nota di questa serie è la Cardboard Cathedral a Cristchurch in Nuova Zelanda, costruita in sostituzione della Cattedrale simbolo della città seriamente danneggiata da un terremoto nel Febbraio del 2011. L’edificio concepito da Ban è una grande sala a sezione triangolare, con i consueti tubi di cartone, poggianti su lunghi containers, a costituire la struttura stessa del grande spiovente. Il progressivo cambiamento di inclinazione dei tubi dal fronte al retro, ad evocare le forme della vecchia cattedrale, rivela ancora una volta l’attenzione di Ban per il contesto, nella sua accezione puramente post-moderna, e cioè per come viene percepito dall’osservatore, non solo per caratteristiche fisiche, ma tenendo conto delle sue componenti antropologiche e culturali.

2.4 - Il Japan Pavillion di Hannover Il Japan Pavillion, costruito per l’Expo di Hannover del 2000, segna la consacrazione di Ban agli occhi della critica internazionale. Il modello di riferimento è il Paper Dome, una grande copertura voltata in tubi di cartone, pannelli di compensato e tiranti d’acciaio, costruita da Ban due anni prima. Rispetto a questa, però, il Japan Pavillion costituisce un enorme balzo in avanti nell’utilizzo del cartone come elemento strutturale, in pieno accordo anche con il tema principale dell’Expo, l’ambiente. L’obiettivo per l’architetto giapponese, in collaborazione con lo strutturista tedesco Frei Otto, è quello di produrre il minor numero possibile di scarti di lavorazione, creando una struttura i cui elementi potessero essere in larga misura riutilizzati dopo lo smantellamento. La prima intuizione è quella di utilizzare tubi di cartone di lunghezza indefinita, per contrastare l’elevata incidenza dei giunti in legno sul costo dell’opera. L’orditura di questi ultimi ad arco trasversale però non avrebbe assorbito in maniera soddisfacente le spinte laterali. La struttura viene così concepita come un “tessuto” autoportante a orditura incrociata in diagonale, tale che i singoli “filamenti” in cartone, piegati a sezioni d’arco variabili, possano coprire lo spazio contrastando le forti spinte laterali indotte dai carichi. La soluzione viene testata su un modello a scala 1:15 e attraverso simulazioni in ambiente virtuale per definire la dimensione dei componenti. Il ricorso al modello permette di studiare la messa in opera del “tessuto” attraverso un procedimento innovativo. Un sistema coordinato di martinetti rampanti, posto in corrispondenza delle intersezioni dell’orditura, le solleva in percentuale variabile per quote giornaliere prestabilite. I giunti vengono realizzati con legature in tessuto e fasciature metalliche. Solo a ottenimento del profilo stabilito si fissa l’ancoraggio al suolo. La trama risultante “a onda” è irrigidita attraverso un sistema di archi reticolari e di travi incrociate in legno, volute da Otto, che fungono da supporto per le membrane di copertura. Le prove dei materiali a compressione comportano l’aumento delle sezioni controventanti mentre l’inserimento di cavi di acciaio collaboranti ai filamenti in cartone, determinato dall’assimilazione del padiglione a un edificio permanente, riduce la purezza della soluzione strutturale originaria. Le prove di resistenza all’acqua e al fuoco dei tubi comportano una lunga serie di affinamenti, voluti


Cardboard Cathedral (2013)

Japan Pavillion di Hannover (2000), interno e veduta aerea.


Il linguaggio della carta

dall’autorità municipale di Hannover preposta al controllo dell’opera. È interessante notare come in questa opera si intreccino le diverse componenti della ricerca, che Ban spinge qui verso una sintesi esemplare : un enorme spazio fluido, definito da un sistema strutturale visivamente complesso ma minimale per concezione e in termini di impiego di elementi (e materiali), attenzione al contesto (che qui è prettamente culturale), minimo impatto, reversibilità dell’intervento.


Dettaglio della struttura in cartone del Japan Pavillion

La struttura in cartone del Japan Pavillion durante l’assemblaggio


3 - Lo spazio 3.1 - Gli sviluppi low tech. Ban dichiara, in una intervista a Casabella, che “ogni costruzione è pensata indipendentemente dalle altre”. Ma questa indipendenza risulta poco chiara se si cerca di analizzare alcune opere particolarmente significative. Nella House of Double Roof (1993) i volumi sono disposti secondo due precisi criteri: quello di assecondare le caratteristiche morfologiche del sito e quello di fornire ad ogni ambiente, compreso quelli distributivi, un ampia vista panoramica sul sottostante lago Yamanaka. Di conseguenza viene concepita la struttura, che oltre a permettere questo tipo di disposizione dei volumi, deve confrontarsi con il carico accidentale della neve (il cui manto, in inverno, può superare il metro di spessore), nonché con la necessaria restrizione del budget, trattandosi di una casa-vacanza. La soluzione escogitata da Ban risponde con chiarezza sia ai criteri di disposizione degli spazi, sia ai conseguenti criteri strutturali: Gli ambienti sono disposti su più livelli, parallelamente al panorama, e il sistema distributivo consiste in una lunga terrazza che sfrutta l’abbassamento degli ambienti notturni per dilatarsi in un ampio belvedere coperto. Il tutto viene sostenuto da una struttura leggera in metallo, il cui utilizzo è reso possibile da un interessante espediente: separare la copertura dal soffitto. In questo modo la prima, in lamiera, è libera di assorbire le sollecitazioni dei carichi accidentali semplicemente flettendosi, mentre il secondo a un livello più basso, può essere realizzato in uno spessore minimo, dovendo svolgere soltanto funzioni isolanti. Nella Furniture House (1995), la concezione spaziale di base è differente: l’intenzione di Ban è quella di creare uno spazio più ampio (la pianta è pressoché quadrata) divisa in vari ambienti che comunicano in maniera fluida, senza divisioni nette. Il sistema strutturale deve ancora una volta asservirsi all’idea di spazio iniziale. Ban risolve in maniera brillante, utilizzando gli arredi come unità strutturali, conferendogli al contempo il compito di suddividere gli spazi interni. L’idea di base è attinta dalla Library of a Poet, dove però gli arredi fungevano da paramenti esterni e la funzione strutturale era affidata ai tubi di cartone. Il risultato, profondamente minimale, permette di limitare notevolmente costi, tempi e scarti di costruzione. L’affermazione di Ban trova quindi conferma nella costante attenzione ai contesti e alle loro precipue caratteristiche fisiche, paesaggistiche e culturali, che determinano la ricerca di soluzioni specifiche. Non possiamo però non contraddirlo almeno parzialmente, nel sottolineare come si serva, per ogni sua opera, di elementi progettuali e costruttivi in progressiva evoluzione, asservendoli di volta in volta alle necessità spaziali poste alla base di ogni progetto.

3.2 - Il piano universale Fin dai progetti di villa Torii e Shakugii Park, l’elemento spaziale assume un ruolo preminente e lo studio della struttura comincia ad essere subordinato all’idea di spazio iniziale. Un gran numero di realizzazioni (Odawara Hall, Furniture House 1 e 2, Paper House, Japan


Furniture House (1995)

Curtain Wall House (1995)


Lo spazio

Pavillion etc.) rendono l’idea di come questo spazio venga d’ora in poi, quasi sempre, concepito in maniera fluida e di come gli ambienti non vengano mai separati in maniera netta, ma resi intercomunicanti, interdipendenti. Questo modo di trattare lo spazio riporta, a detta dello stesso Ban, a due riferimenti precisi: la tradizione giapponese e Mies van der Rohe. Ma ciò che è interessante notare è che l’architetto giapponese non attinge da uno o dall’altro riferimento in maniera esclusiva, ma riesce a fonderne gli elementi in una sintesi del tutto personale. In Curtain Wall House (1995) ad esempio, l’utilizzo di una grande “tenda” come sistema di chiusura, comune a primo e secondo livello, risponde alla necessità di riprodurre la permeabilità tipica della casa tradizionale giapponese, cui i committenti erano legati. Questo enorme paramento mobile non sarebbe stato però sufficiente a garantire un adeguata coibenza termica durante i mesi invernali. Pertanto Ban la affianca a un sistema di chiusura più interno, completamente vetrato, citazione dalla Casa Farnsworth di Mies. In questo modo, due differenti tipi di trasparenza, quella tradizionale giapponese, fisica, e quella di van der Rohe, visiva, vengono accostati, in un confronto che diviene collaborazione. Nella 2/5 House (1995) la citazione è ancora duplice: al piano terra le vetrate sono completamente apribili, al primo piano sono invece fisse. Caratteristica molto interessante in questo progetto è la suddivisione degli spazi al piano terra, soprattutto se la si confronta con il concetto di “spazio universale” di Mies van der Rohe. Quest’ultimo era concepito come uno spazio fluido, sotto un’unica grande copertura definito da pannelli di partizione oppure da un cuore centrale pieno. L’interpretazione che Ban ne deriva è quella di “piano universale”: un unica grande superficie, definita da partizioni mobili, la cui completa apertura mette in comunicazione totale l’interno e l’esterno, il coperto e il non coperto. Ulteriore evoluzione del “piano universale” è la Wall-less House (1997), in cui la superficie del pavimento, incurvandosi, arriva a divenire muro di contenimento sul retro, trasferendo, grazie alla sezione ad arco rovesciato, la pressione del terreno direttamente a terra. Questa unica grande superficie permette di creare un unico grande spazio, la cui divisione in ambienti, ove necessaria, risulta soltanto provvisoria, grazie ai pannelli scorrevoli che sostituiscono le pareti interne. Ma è forse nella Nine Square Grid House che troviamo la sintesi paradigmatica di questa ricerca. Qui il “piano universale” quadrato è suddiviso in nove quadrati uguali, da una “griglia” le cui tracce fungono da binari per i pannelli scorrevoli, il tutto al di sotto di un unica copertura sorretta, su due lati, dagli stessi elementi d’arredo portanti della Furniture House. Ci appare ora chiaro perché Ban, nella già citata intervista pubblicata su “Casabella”, rifiuti l’appellativo di “architetto della carta”. Nonostante sia infatti fuor di dubbio il suo ruolo nella rivalutazione di questo materiale, alla luce di questa seppur sbrigativa analisi delle sue opere, questo titolo appare quantomeno riduttivo. La carta non è il fine ma forse “soltanto” uno straordinario interprete delle reali intenzioni progettuali di Shigeru Ban: fluidità, minimalismo, permeabilità.


2/5 House (1995)

Wall-less House (1997)


Bibliografia e sitografia Bibliografia

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θΔ θСППФХЪХΑ ζШаЮЫ ПФС ЯПНаЫШС ά Dalle realizzazioni di Shigeru Ban ai casseri tubolari, le caratteristiche e gli impieghi di un materiale insolito per l’ediliziaΑ ХЪ θЫЯаЮбХЮСΑ ЪΔ ӔӖӕΑ ψСааСЩОЮС ӔӒӒӕΑ ЬΔ ӓӓӘΔ

Sitografia

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Bibliografia e sitografia

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