La favola di Latona di Orazio De Ferrari. Il ritorno di un capolavoro

Page 1

LA FAVOLA DI LATONA DI ORAZIO DE FERRARI. IL RITORNO DI UN CAPOLAVORO Anna Orlando

Il ritrovamento del dipinto dato per disperso A poche righe dall’incipit della monografia che Piero Donati ha dedicato a Orazio De Ferrari nel 19971 − a oggi l’unico catalogo ragionato sull’opera del pittore genovese, sebbene dopo una ventina d’anni da quel lavoro fondamentale sono state aggiunte a quel corpus diverse opere allora ignote agli studiosi2 –, viene ricordata la prima fonte coeva al De Ferrari3. Si tratta dei Raguagli di Cipro del poeta Luca Assarino, edito a Bologna nel 16424 e dunque con Orazio ancora in vita, trentaseienne5. Già nel primo paragrafo del volume di Donati, pertanto, viene ricordata la tela con Latona, esplicitamente menzionata e dettagliatamente descritta dal poeta6. Si poteva pensare che quel quadro fosse frutto della totale invenzione dell’Assarino e non realmente realizzato dal pittore. Piero Donati scrive infatti: “Non so se Orazio abbia mai realmente praticato questo soggetto”7. Il dubbio è comprensibile visto che, nonostante l’elogio dell’Assarino, non vi è menzione del quadro nella biografia di Raffaele Soprani, redatta a pochi anni dalla morte del pittore e ritenuta del tutto attendibile. Consta di tre pagine molto ben argomentate. Ma, si badi, egli segnala solo opere in edifici pubblici8. Confidando viceversa nell’attendibilità dell’Assarino, e cioè ritenendo plausibile che quella menzione così precisa non fosse frutto della sua fantasia poetica, ma ispirata dalla visione diretta del quadro, ci si augurava che il capolavoro riemergesse in qualche collezione. Così è stato nel 2005, quando gli antiquari madrileni Jorge Coll e Nicolás Cortés, dopo aver acquistato il dipinto (fig. 1)9 dalla collezione dell’Infantado, ossia presso i discendenti di Rodrigo Díaz de Vivar y Mendoza VII Duca dell’Infantado10, e avendone immediatamente rilevato la firma sul bastone a sinistra – “HORAT. FERRAR. GENO” −, la hanno pubblicata in un catalogo di opere della galleria, insieme anche ad altri quadri genovesi di diversa provenienza11. Elena De Laurentis, autrice della scheda in quel volume, ha ovviamente ricondotto subito alla tela citata nel Raguagli il capolavoro spagnolo12. Ma su questo si tornerà ancora.

13


e materno, il piccolo Apollo. Accanto a lui la gemella Diana (Artemide) mostra la ciotola d’acqua, motivo della discordia. La figura di Leto (per i romani Latona), era figlia del titano Ceo e di Febe, madre di Artemide e Apollo, è qui protagonista del mito narrato da Ovidio. Questo episodio cela una morale ben chiara all’osservatore seicentesco, legata al tema dell’avidità e del suo opposto in chiave cristiana, la carità. Le ricerche di Raffaella Besta condotte in questa occasione hanno evidenziato come il soggetto della Favola di Latona sia stato spesso associato a quello di Filemone e Bauci che è un episodio portato ad esempio di grande generosità. Lo stesso Orazio sappiamo aver realizzato un quadro con questa iconografia, nella tela pubblicata da Donati come ubicazione sconosciuta, e da me recentemente rintracciata in una collezione privata (fig. 2)15. Si tratta anche in questo caso di una tela di grandi dimensioni (186 x 212 cm), non molto diverse da quelle della Favola di Latona (193 x 261 cm), ma è difficile che si possa trattare di un pendant16. Il fascino del soggetto, in ogni caso, è anche più genericamente legato al tema delle metamorfosi, cioè delle trasformazioni e dei mutamenti. In epoca barocca, tutto ciò che desta meraviglia è di per sé privilegiato, perché consentiva al pittore di inscenare una breve ma efficace pièce di teatro. Quel teatro che in questo brano di Orazio è così ben riuscito.

1. O. De Ferrari, La favola di Latona, Milano, collezione Giorgio Baratti

14

Analisi iconografica Forse anche a causa della selezione operata dal Soprani, sono assai più rare rispetto alle tele religiose le opere di Orazio di tema profano13. In questo ambito, tuttavia, Le Metamorfosi di Ovidio da cui è tratto l’episodio di Latona, qui mirabilmente interpretato e narrato, è certamente uno dei testi favoriti. Il dipinto rappresenta l’episodio del libro VI, secondo cui Latona, con i divini gemelli Apollo e Diana avuti da Giove, per sfuggire all’ira di Giunone, giunge dopo un lungo peregrinare in Licia e, stremata dalla calura, si avvicina a un laghetto per attingervi acqua fresca da bere. È allora che alcuni contadini intenti a cogliere giunchi glielo impediscono, rendendo torbida l’acqua. Allora Latona, dopo averli supplicato invano di concederle di bere, li punisce tramutandoli in rane14. Sulla destra, Latona alza le braccia al cielo e pare sentirle pronunciare la sua maledizione: “Che possiate vivere per l’eternità in questo stagno” (“impii agricolae, quia miserae matri misericordiam non adhibuistis atque filiis meis aquam denegavistis, abhinc in huius paludis aquis ripisque!”). Intanto stringe a sé, con un gesto protettivo

2. O. De Ferrari, Filemone e Bauci, collezione privata

Il De Ferrari imposta la scena con sviluppo narrativo e dunque svolto in senso orizzontale, secondo la tipica tradizione del naturalismo delle scuola locale, specie dei suoi contemporanei Giovanni Andrea De Ferrari, Domenico Fiasella e Giovanni Battista Carlone, per ricordarne solo alcuni, in cui domina la vena del racconto, rispetto alle più complesse e convulse composizioni dei pittori della generazione successiva o comunque più propriamente barocchi, come per esempio il geniale Valerio Castello o il più giovane Domenico Piola. In questo dipinto, tuttavia, Orazio riesce a mantenere la consequenzialità del racconto senza stemperarne il senso drammatico. Non si tratta del pathos che vi avrebbe potuto infondere un artista che gioca su un diverso registro espressivo, come Gioacchino Assereto, ed è abbastanza prossimo alla teatralità di altri, per esempio del Fiasella non a caso anch’egli molto amato dai poeti, ma la tavolozza cupa, tipicamente genovese, conferisce lo stesso un’indubbia drammaticità alla scena. Inoltre, un ruolo determinante lo hanno il numero e la monumentalità delle figure. La dimensione delle figure rispetto all’ambientazione scenica è molto diversa in questa versione della Latona dal modo in cui è risolta da alcuni genovesi prima di lui o all’incirca negli stessi anni, come Sinibaldo Scorza o Anton Maria Vassallo, sui quali si veda quanto osserva 15


cielo per domandar vendetta ed essi intanto rimaneano a poco a poco tramutati in rane. Era indicibile vedere con quale stupenda maestria havea la mano operatrice saputo esprimere gli affetti della Dea, e la confusione di quei malnati. Con quale industria in un solo individuo havea moltiplicato l’essenza di due differentissimi animali, e con qual ingegno, inserendo in un collo umano il capo d’una bestia, gli era riuscito il dinudar altrui un piede, e calzarlo colla zampa d’un mostro acquatile. Non si poteva a pieno lodare la dispositione delle figure, l’attitudine delle membra, il dissegno, il colorito e ’l rilievo di tutta l’historia”17. Così il genovese Luca Assarino descrive proprio questo dipinto nel ventitreesimo dei suoi Raguagli del regno di Cipro. Conoscendo oggi il dipinto abbiamo ulteriore conferma del fatto che alcuni capolavori dei coevi pittori ispirassero i poeti e letterati per le loro composizioni18. Il “re” a cui la grande tela fu mostrata è ovviamente frutto di un’invenzione letteraria dell’Assarino che immagina il fantasma di “Gostavo Rè di Svetia” (morto nel 1632), il quale “fà la sua entrata solenne in Amathunta” (immaginaria città dove ha sede il regno di Venere) “ove ricevuto dalla Maestà di Venere con molto affetto, gli viene da essa mostrata la sua Galeria” ... “favore fin’hora non fatto ad altri, che al gloriosissimo Carlo Quinto, quando passò in questo Regno”. Lì Gustavo vede “gioie, pitture, statue, metalli, capricci, e di stravaganze... così grandi, & ammirabili, che non v’ha lingua, che agevolmente gli potesse esprimere”. La narrazione prosegue descrivendo alcuni quadri che suscitano particolare ammirazione del sovrano, fino alla “ultima fatica del pennello”, che è proprio il quadro della Latona. 3. O. De Ferrari, La favola di Latona, Milano, collezione Giorgio Baratti, dettaglio

Raffaella Besta nel suo saggio in questo volume. Nelle loro prove si capisce che il pittore rimane imbrigliato nell’esigenza narrativa e poco concede all’approfondimento dei sentimenti, emozioni, sensazioni vissute dai protagonisti della storia. È invece questa profonda umanità delle figure (figg. 3-4) nel nostro capolavoro di Orazio che lo rendono superiore a tante altre sue prove. L’evento viene colto al culmine del suo accadere e vede contrapporsi all’eroica Latona i beceri contadini sulla sinistra. Sono attoniti e spaventati perché uno di loro, al centro, sta già per trasformarsi in rana (fig. 5). La contrapposizione è giocata da Orazio con gli strumenti del pittore: innanzi tutto il colore. Si noti la diversità tra il candore dell’incarnato della donna a differenza della pelle scura di questi uomini rudi. Si noti come Latona volga lo sguardo in alto – verso i valori che trascendono le miserie della terra – e come gli amici di Ulisse siano invece chini verso terra. La menzione dell’Assarino “Fu mostrata al Re una tela ove si vedeva Latona che, oltraggiata nell’acqua da alcuni villani, alzava gli occhi al

16

Il fatto singolare è che i quadri descritti prima sono riferiti nell’iperbolica attribuzione del letterato vuoi a Zeusi, vuoi ad Apelle o Aristide, mentre per il nostro si legge: “Ond’esclamando Gostavo come astratto interrogò la Regina, chi era l’Autore di così mirabil opra. Fugli da essa risposto ch’era un Genovese chiamato Oratio de’ Ferrari, la cui abilità nel dipingere crescea così stupenda, ch’ella l’havea con ogni ragione stimato degno tra alcuni altri c’hoggidì vivono al Mondo, d’esser posto nella sua Galleria”19. Nella quadreria della dea della bellezza, Orazio ha l’onore di primeggiare, nell’olimpo degli altri autori di notorietà e fama eterna. Un intreccio di sillogismi che sono un elogio davvero singolare e appassionato per il pittore e per il quadro. L’intento encomiastico e diciamolo pure anche il campanilismo dell’Assarino proseguono oltre, dove si legge: “Fù grandemente encomiato dallo Sveco il Ferrari, e dicendo, che molto bene havea prima d’allora inteso che la migliore scola di Pittura che fiorisca al presente in Italia, sia quella di Genova; Venere per confermar la sua opinione gli mostrò alcun’altre cose del Sarzana, e del Borzone”, non 17


4. O. De Ferrari, La favola di Latona, Milano, collezione Giorgio Baratti, dettaglio

meglio specificate, e poi alcuni ritratti in miniatura di Giovanni Battista Monti, un pittore che, a differenza dei primi tre, il tempo ha completamente gettato nell’oblio20.

5. O. De Ferrari, La favola di Latona, Milano, collezione Giorgio Baratti, dettaglio

Il testo dell’Assarino, infine, fornisce anche le indicazioni cronologiche dell’arco temporale entro cui circoscrivere l’esecuzione della Latona, dipinta tra il 1632, anno della morte del Re di Svezia che costituisce a sua volta un post quem per i Raguagli dell’Assarino, e il 1642, anno di edizione di questo testo in cui è descritto il quadro. La provenienza spagnola Altri indizi per una corretta lettura dell’opera e della sua cronologia giungono dai dati di provenienza che ha precisato Piero Boccardo in occasione di questo studio approfondito sul capolavoro di Orazio. Innanzi tutto va notata sia la presenza della firma, non così frequente per il De Ferrari, sia, soprattutto, l’indicazione della città natale accanto al nome del pittore. Come accade ad altri genovesi che lavoravano molto fuori città o per committenze forestiere – e penso al Grechetto e al Podestà, per esempio – il nome della città è un indizio del fatto che l’opera fosse stata realizzata altrove, o comunque 18

19


che qui si pubblica (fig. 6) reca la data 163621. La critica ha ipotizzato per questo lasso temporale viaggi di studio, a Napoli e a Roma (dove l’Assereto va nel 1639, allievo anch’egli dell’Ansaldo sebbene prima di Orazio, nel 1618-22 circa). Là erano le scuole pittoriche che rappresentavano le fonti più genuine alle quali abbeverarsi per conoscere il caravaggismo nella versione di più stretta osservanza e in quella tenebrosa del Ribera (1591-1652), a Napoli già dal 1616. Questi, come noto, era in stretto contatto con la committenza genovese e in particolare quella di Marcantonio Doria22, ed era quindi noto ai giovani pittori della Superba indipendentemente da un viaggio nella città partenopea, che tuttavia resta plausibile. Il legame forte tra Napoli e la Spagna, dove riteniamo che la nota Latona sia giunta molto presto, era tale che un viaggio in quella città possa aver favorito al pittore contatti con qualche spagnolo. E mentre mi trovo a formulare queste ipotesi, altri indizi trovati da Piero Boccardo aiutano a rendere sempre più solida la “pista spagnola” per questa Latona e anche per una sua cronologia negli ultimi anni del quarto decennio23.

6. O. De Ferrari, San Francesco in estasi, datato 1636, collezione Terruzzi

avesse una destinazione in una altra città italiana o addirittura all’estero. Nel caso specifico di Orazio De Ferrari, sappiamo dalla puntuale ricostruzione che restituisce in questo volume Agnese Marengo, che la sua presenza a Genova è documentata fino al 15 ottobre 1634, giorno del battesimo del figlio Andrea, e il 25 agosto 1637, anno in cui riceve un pagamento dalla confraternita di Sant’Antonio Abate di Mele, nell’entroterra della natia Voltri. Cosa ne è del pittore tra l’inverno del 1634 e l’estate del 1637? Che continuasse a dipingere ne abbiamo certezza, visto che il San Francesco in estasi della collezione Terruzzi, 20

Come si è ricordato, il dipinto è riapparso presso la Galleria Coll&Cortès di Madrid che lo aveva acquistato nella collezione dell’Infantado, ossia presso i discendenti di Rodrigo Díaz de Vivar y Mendoza VII Duca dell’Infantado. Questo nobile, di una delle più antiche casate spagnole, legato in parentela alla dinastia di Filippo IV, è da questi nominato ambasciatore e suo rappresentante in Italia nel 1649. In quell’anno arriva a Roma e qui risiede, in Palazzo Monaldeschi, per poi essere nominato viceré del Regno di Sicilia. Nel 1656 torna in Spagna. È nota la sua attività collezionistica durante il soggiorno romano e i nomi di artisti moderni e contemporanei presenti nella sua raccolta − da Raffaello a Tiziano, da Bassano a Guercino, da Giulio Romano ad Andrea del Sarto e Guido Reni a Pietro da Cortona e Battistello Caracciolo – che lascerebbero ipotizzabile l’acquisto da parte sua dell’opera del De Ferrari. In realtà, le fondamentali ricerche di Piero Boccardo condotte in questa occasione hanno chiarito che non si deve a lui la committenza dell’opera, che non risulta ab antiquo in quella raccolta, bensì quasi certamente al conte di Monterrey, di passaggio a Genova nel febbraio del 163824. A ulteriore conferma di questa ipotesi, Boccardo ha rintracciato nell’inventario madrileno della raccolta del conte di Monterrey redatto nel 1654 “un quadro grande de una fabula con una muger, dos ninos y un hombre conbertido en rrana”, che risulta ben difficile a questo punto non collegare al nostro quadro. Si noti, in aggiunta, che proprio negli anni in cui Orazio De Ferrari non è documentato a Genova, ossia tra l’inverno del 1634 e l’estate del 1637, e nei quali abbiamo quindi ipotizzato un viaggio a Roma e a Napoli che spiegherebbero la sua maturazione stilistica, sappiamo che il conte di Monterrey era nella città partenopea con funzioni di Viceré25. 21


Analisi critico-stilistica e conclusioni Le considerazioni in base allo stile, precedenti il forte indizio di committenza al 1638 fornite da Piero Boccardo, portano significativamente alla stessa ipotesi di cronologia. Non mi pare privo di significato sottolineare che le ricerche condotte da Boccardo e da me, sui diversi piani, documentario il suo, stilistico il mio, si siano svolte in modo parallelo e solo alla fine, confrontandole, se ne siano appurate le analoghe conclusioni. La fama del pittore è alla fine degli anni Trenta in decisa crescita, fino a scavalcare i confini regionali e nazionali. Conferma ne è il documentato favore da parte di Onorato II Principe di Monaco che lo nomina “Cavaliere dell’Ordine di San Michele” il 17 novembre 165226, e che gli commissiona molte opere, in parte rintracciate e in parte disperse27. Gli anni subito prima e subito dopo il 1640 costituiscono per Orazio De Ferrari un momento particolarmente propizio e di fervente attività, scandito da opere firmate e datate (laddove in precedenza firme e date sono quasi inesistenti), e caratterizzato dall’alternarsi di soggetti sacri e profani, commesse pubbliche e incarichi di quadri per privati. Siamo, cioè, davvero nel pieno della sua maturità artistica. Datato al 1640 si conosce il Ratto delle Sabine di Collezione Zerbone a Genova (fig. 7), un capolavoro di grande impatto scenico e di esuberanza coloristica memore di Rubens e Van Dyck, che potrebbe seguire di poco la nostra Latona. Piero Donati, che per primo pubblica il Ratto delle Sabine e a cui si deve anche il rinvenimento della firma28, lo accosta per cronologia e stile a una bella Erminia fra i pastori (fig. 8), che è vicina stilisticamente anche alla nostra tela, seppur meno complessa. Dal 1640, la critica sottolinea l’acquisizione di grande felicità pittorica per il De Ferrari: “Da questo momento in poi, questa capacità di coniugare splendore materico e rigorosa coerenza spaziale connoterà sensibilmente la pittura di Orazio, conferendole un’intima originalità”29. È il “raggiungimento della piena maturità” a cui segue una produzione di “altissimo livello medio”. E Donati prosegue: “Orazio può adesso cimentarsi con tutta tranquillità con le composizioni più affollate, come le due Storie di Sansone”, l’una ad Ascoli Piceno (fig. 9), l’altra alla Bob Jones University di Greenville negli Stati Uniti, forse parte di una stessa serie peraltro documentata30. Per impatto dimensionale e scenico questi due grandi dipinti sono certamente i più vicini al nostro capolavoro, ma forse impostati, oltre che sull’effetto della “folla” di figure, sul loro dinamico, quasi vorticoso movimento sulla scena. Cosa che avrebbe potuto fare anche con un soggetto come Latona, come dimostrano le interpretazioni fornite dai più giovani – e più barocchi – Domenico Piola e Gregorio De Ferrari31. Orazio preferisce invece proporre la scena come a rallentatore, come se invitasse chi guarda a 22

7. O. De Ferrari, Ratto delle Sabine, Genova, collezione Zerbone

8. O. De Ferrari, Erminia fra i pastori, collezione privata

9. O. De Ferrari, La cattura di Sansone, Ascoli Piceno, Pinacoteca, 177 x 229 cm

indugiare, dopo il primo impatto di stupore e meraviglia, sulle singole figure. L’effetto dinamico nella Latona di Orazio si limita alla diagonale impostata al centro della scena dalla figura che apre le braccia, una verso il cielo e l’altra, con la mano in piena trasformazione, verso terra. Ma le figure, paiono posare per noi, e anche l’assenza di una vera e propria scansione dei piani, come si vede invece nel Ratto delle 23


11. O. De Ferrari, San Gerolamo e le trombe del giudizio, collezione privata, dettaglio

10. O. De Ferrari, Ecce Homo Genova, collezione Zerbone

24

Sabine, rende il tutto più lento e cadenzato, lasciando che ci si concentri, appunto, sulle figure. Di loro offre una ricca campionatura di fisionomie ed espressioni, come Orazio si dimostra capace di fare anche in altre occasioni. Si guardi per esempio lo straordinario Ecce Homo sempre in collezione Zerbone, tra le più belle redazioni di questo soggetto (fig. 10). Si confrontino anche le quattro figure nella parte sinistra della Erminia tra i pastori, tra i brani più simili alla varietà di figure nella Latona. Per il gruppo di uomini sulla sinistra nel quadro di Latona (fig. 3), valgono le stesse parole usate da Donati a proposito dell’Erminia, dove “Orazio si dimostra imbattibile nell’indagine infinitesimale dell’epidermide maschile; egli lavora il colore come se fosse cera, prestando la massima attenzione alla morbidezza ed alla continuità della pennellata, sì da ottenere la massima varietà luministica con il minimo di materia cromatica”32. E se ci concentriamo proprio sui corpi maschili (fig. 3), e lo si confronti per esempio con il bellissimo San Ge-

rolamo (fig. 11 e tav. 4) le cui condizioni conservative ottimali consentono un giudizio senza riserve, si noterà nella Latona una maggior morbidezza che potremmo definire più vandichiana, rispetto alla pastosità di matrice rubensiana – che adotta Strozzi per intendersi – e alla solidità conferita dalla luce nelle opere dei caravaggeschi. Nel modo in cui è trattato il corpo del santo sentiamo più vicine le influenze del caravaggismo di stretta osservanza da un lato e della lezione ansaldiana dall’altro, come accade per i corpi solidi, ben saldi nel rigore disegnativo che li ha costruiti, delle due straordinarie composizioni con il Martirio di Sant’Andrea e il Martirio di San Biagio, che qui si pubblicano (figg. 12-14 e tavv. 7-8)33. 25


14. O. De Ferrari, Martirio di sant’Andrea, Ginevra, Rob Smeets Gallery, dettaglio

12. O. De Ferrari, Martirio di sant’Andrea, Ginevra, Rob Smeets Gallery, dettaglio

13. O. De Ferrari, Martirio di san Biagio, Ginevra, Rob Smeets Gallery, dettaglio

Dal punto di vista del ductus e complessivamente dello stile, mi pare che le opere più vicine alla nostra Latona possano essere, oltre all’Erminia, alcune pale che si possono datare con precisione al 1638 e 1639, ambito cronologico in cui tutto sommato credo vada circoscritta l’esecuzione del nostro capolavoro. Si vedano cioè la Madonna col Bambino e i santi Cosimo e Damiano di Albenga, databile al 1638, e la Madonna col Bambino e i santi Antonio Abate e Antonio eremita di Loano34. La Vergine assume là una monumentalità e una certa aurea classica che qui vediamo nella figura di Latona (fig. 15); i bambini sono davvero simili ai nostri piccoli Apollo e Diana (fig. 4). È forse questo il primo quadro di Orazio di grandi dimensioni che non sia una pala d’altare. La dimensione da parata e la tematica profana potrebbero essere stati adottati qui dal pittore per la prima volta, subito prima del Ratto delle Sabine e qualche anno prima delle importanti tele con le Storie di Sansone già ricordate e Venere nella fucina di Vulcano e Apollo e Marsia più mature35. 26

27


3

15. O. De Ferrari, La favola di Latona, Milano, collezione Giorgio Baratti, dettaglio

5

Non si dimentichi che il 1638 è una data cruciale per la carriera di Orazio, perché è allora che muore l’Ansaldo, suo maestro e suocero. Quindi questo essere pienamente se stesso che constatiamo in queste opere eseguite alla fine del quarto decennio si può spiegare con l’avvenuta maturità e piena emancipazione di un pittore trentenne o poco più, spavaldo e sicuro di sé come la sua età gli consentiva di essere, ma soprattutto come gli fu offerto dalle vicende personali legate al suo talento, e quelle più generali di una Genova in quel momento trionfante, gloriosa ed effervescente.

1

P. Donati, Orazio De Ferrari, Genova 1997. Aggiornamenti con consistenti aggiunte di inediti in T. Zennaro, L’attività di Orazio De Ferrari per Onorato II Principe di Monaco in Genua Tempu Fà. Dipinti e pittori attivi a Genova tra Seicento e Settecento e relazioni artistico-culturali tra la Repubblica Ligure e il Principato di Monaco, catalogo della mostra di Monaco a cura di T. Zennaro, Bordighera 1997, pp. LIII-LXXXIX; A. Orlando, Ritrattisti genovesi del Seicento. ‘Punti fermi’, aggiunte e precisazioni, in “Paragone”, terza serie, 36 (613), marzo 2001, pp. 18-38, tavv. 15-42; A. Orlando in Dipinti genovesi dal Cinquecento al Settecento. Collezione Koelliker, a cura di A. Orlando, Torino 2006, pp. 92-93, 175-178; A. Orlando, Dipinti genovesi dal Cinquecento al Settecento. Ritrovamenti dal collezionismo privato, Torino 2010, pp. 100-101. Per altre aggiunte già registrate dalla critica e non pochi inediti, si veda l’appendice con un ampio catalogo di una sessantina di opere stilato da chi scrive in questo volume (con relativa bibliografia). 2

28

Donati 1997 cit., p. 9. L. Assarino, Raguagli di Cipro, Bologna, Monti e Zenero, 1642. Per un profilo biografico aggiornato e ragionato cfr. il saggio di A. Marengo in questo volume. 6 Cfr. oltre e il saggio di S. Morando e F. Vazzoler in questo volume. 7 Donati 1997 cit., p. 12. 8 R. Soprani, Le Vite de’ Pittori, Scoltori et Architetti Genovesi e de’ Forastieri che in Genova operarono…, Genova 1674, pp. 219-221. 9 L’opera misura 193 x 261 cm ed è di proprietà dell’antiquario Giorgio Baratti che qui si ringrazia. 10 Ringrazio Jorge Coll e Nicolás Cortés per avermi mostrato l’opera nel 2005 e per avermi informato sulla provenienza. Sulla provenienza del dipinto e altre informazioni su quella raccolta cfr. il saggio di P. Boccardo in questo volume. 11 Ringrazio Elena De Laurentis per aver condiviso con me il lavoro di schedatura delle opere genovesi per quel volume. 12 E. De Laurentiis, Orazio de Ferrari: Latona convierte en ranas los Campesinos de Licia, in Maestros del Barroco europeo, Madrid, Coll&Cortés, 2005, cat. 25, pp. 84-86. 13 Cfr. G. Biavati, Orazio De Ferrari: inediti di tema profano, in “La Casana”, 2-3, 1993, pp. 84-93. 14 Ovidio, Metamorfosi, VI, 137-318. 15 Ringrazio Guido Sgroi della segnalazione. 16 La tela con Filemone e Bauci non mostra segni di riduzione ai lati. 17 Assarino 1642 cit., e altre considerazioni nel saggio di Morando e Vazzoler in questo volume. 18 F. Vazzoler, “…Anche dagli scogli nascon pennelli…”: Luca Assarino e i pittori genovesi del Seicento. Le dediche degli Argomenti dei Giuochi di Fortuna, 1655, in “Studi di Storia delle Arti”, 7, 1991-1994, pp. 35-62. 19 Assarino 1642 cit., p. 167. 20 Su Monti cfr. Orlando 2001 cit., p. 20; A. Manzitti, Luciano Borzone 1590-1645, Genova 2015, p. 31. 21 Cfr. la scheda 43 di chi scrive in appendice al volume. 22 A scanso di equivoci, si precisa che la famiglia di Marcantonio Doria (e di suo fratello Agostino) ha un legame molto lontano, come mi conferma Piero Boccardo che ringrazio, con quella del Carlo Doria di Ambrogio a cui sono dedicati i Raguagli dell’Assarino e che compare come debitore di Orazio nel testamento del pittore del 1657, come mi segnala Agnese Marengo, che parimenti ringrazio, e che quindi fu molto probabilmente un suo committente. 23 Cfr. il contributo di P. Boccardo in questo volume e le considerazioni stilistiche di chi scrive oltre nel testo. 24 Rimando al fondamentale contributo di Piero Boccardo in questo volume. 25 Cfr. ancora per precisazioni e bibliografia il saggio di Boccardo in questo volume. 26 Cfr. Marengo in questo volume. 27 Cfr. Zennaro 2007 cit. 28 Donati 1997 cit., pp. 39-43, fig. 34 pp. 40-41. 29 Donati 1997 cit., p. 87. 30 Donati 1997 cit., catt. 55-55 e da ultimo P. Boccardo in Le segrete passioni. La collezione di Antonio Ceci fra Ascoli Piceno e Pisa, catalogo della mostra a cura di S. Papetti, Ascoli Piceno 2007, pp. 90-91. 31 La piccola tela di Gregorio De Ferrari è nota da tempo (cfr. da ultimo P. Ciliberto in Le metamorfosi del mito, catalogo della mostra di Genova a cura di M.A. Pavone e L. Magnani, Milano 2003, p. 202; il foglio di Piola è conservato al British Museum di Londra, Dept. Prints and Drawings (inv. 1950.11.11.36) mi è stato segnalato da Raffaella Besta in occasione del presente lavoro. Entrambi sono illustrati nella pagine del suo saggio in questo volume (figg. 14 e 13). 32 Donati 1997 cit., pp. 42-43. 33 Cm 192,4 x 140,3; cfr. le relative schede 23-24 nel catalogo in questo volume. 34 Ill. in Donati 1997 cit., figg. 38 e 39 pp. 44-45. 35 Biavati 1993 cit. e Donati 1997 cit., catt. 102-103. 4

29


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.