Barocco ligure e piemontese
Opere scelte dalle collezioni private Alessandria, Palazzo Cuttica, 8 maggio - 26 luglio 2015
a cura di Massimo Marasini e Anna Orlando Mostra ideata da Massimo Marasini Promossa da Comune di Alessandria – Assessorato ai Beni e Politiche Culturali e Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria Sponsorizzata da Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria Catalogo a cura di Anna Orlando
(foto alle pagine 14, 41) Trasporti Michele Martella, Alessandria I-Movers s.r.l., Paderno Dugnano (Mi) Assicurazioni Assiteca S.p.a. - Genova Allestimento Giorgio Guerci, Sandro Zapparrata Supporti didattici Image Star System - Alessandria Comunicazione Ufficio Stampa – Comune di Alessandria
Progetto grafico Giorgio Annone
Ringraziamenti Si ringraziano i proprietari delle opere che hanno reso possibile questa mostra.
Fotografie Paolo Airenti Fotografia - Genova (foto alle pagine 4, 6, 10, 18, 21, 23, 27, 29, 31, 39, 43, 59, 61) AFP fotografi professionisti di Neri e Castellana - Alessandria (foto alle pagine 35, 37, 45, 47, 55) Gabriele Gaidano - Torino (foto alle pagine 33, 49 e foto copertina) Laboratorio di Restauro Scuole Pie Genova (foto alle pagine 8, 25, 51, 53, 57, 60) Giuseppe e Luciano Malcangi - Milano
Un grazie a: Paolo Airenti, Cesare Autera, Franco ed Edda Barella, Carlotta Beccaria, Carla Campomenosi Oberto, Roberto Clavarino, Aurelia Costa con Emenuela Spera e il Laboratorio di Restauro Scuole Pie, Odette D'Albo, Filippo Maria Ferro, Agostino Gatti, Deborah e Salvatore Giamblanco, Margherita Levoni, Martella Restauri, Marco Riccomini, Maurizio Romanengo, Daniele Sanguineti, Renato Tortarolo, Luigi Trolese, Gianluca Zanelli
LineLab.edizioni Via Palestro, 24 15121 Alessandria www.linelab.com ISBN: 88-89038-53-5
Sommario 7 Presentazioni 11
Itinerario nel barocco ligure e piemontese
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L’intima bellezza
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Schede delle opere
di Anna Orlando
di Massimo Marasini di Anna Orlando
Le mostre temporanee promosse negli anni scorsi a Palazzo Cuttica e comunque nell’arco di un tempo espositivo lunghissimo nella nostra città, per la quale il prezioso edificio settecentesco ad oggi rappresenta – anche con le collezioni permanenti del Museo Civico e del Gabinetto delle Stampe – un’eccellenza d’arte, hanno spesso creato, quando di contenuto moderno o contemporaneo, un contrasto forte quanto accattivante, inserendosi in quella contaminazione dei linguaggi così apprezzata nell’attuale panorama culturale. Cosa dire però di una mostra il cui contenuto sposa perfettamente il suo contenitore, di un’esposizione che non fa che esaltare la storia del palazzo che la ospita, che rinnova la bellezza la quale unanimemente viene riconosciuta a ciò che l’architettura del Settecento ha creato e sancito? Se ne rimane profondamente ammirati e colpiti, prima di dire che un evento espositivo di tal fatta proprio ci voleva, mancava, lo si aspettava. È davvero il caso perfetto della mostra “Barocco ligure e piemontese. Opere scelte dalle collezioni private”, a cura di Massimo Marasini e Anna Orlando, che la nostra Amministrazione Comunale si pregia di promuovere, rallegrandosi della sensibilità artistica dei due studiosi e critici i quali hanno individuato veri e propri capolavori dalle proprietà e dalle gallerie depositarie di esempi nostrani e liguri (anche se spesso di un’unica terra ligure - piemontese si è parlato in termini di milieu) di quel movimento culturale che tanto e soprattutto è stato nell’arte. Le opere degli autori contemplati nell’esposizione di Palazzo Cuttica - attivi tra il 1600 ed il 1700 – attraverso temi mitologici, allegorici, biblici, così come paesaggistici, possono ascriversi più semplicemente in una sorta di religiosità onnicomprensiva che ha avuto nel Barocco il cantore forse più strabiliante e sicuramente antesignano della contaminazione dei linguaggi prima menzionata. Indubbiamente diamo il benvenuto ad una mostra di grande suggestione, di squisito contenuto e di incontestabile valore storico: un appuntamento nel calendario culturale della nostra città di cui si è particolarmente orgogliosi e che sicuramente incontrerà il favore del pubblico colto e del grande pubblico. L’insegnamento del bello è quanto mai indispensabile - nei momenti storici difficili, di passaggio, critici e complessi come quello attuale - alla ricerca di risposte personali e collettive, indispensabile quanto l’insegnamento alla sensibilizzazione ai problemi più gravi e alle criticità più aspre. Percorrere l’arte e la storia, quando se ne ha la possibilità, risulta al contempo un dovere ed una fortunata occasione. L’Assessore ai Beni e Politiche Culturali Vittoria Oneto
Il Sindaco Maria Rita Rossa
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La Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria ha accolto con plauso e appoggiato senza esitazioni l’iniziativa dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Alessandria che ha dato vita alla mostra Barocco Ligure e Piemontese. Opere scelte dalle collezioni private grazie alla quale viene raggiunto un duplice obiettivo: in primo luogo quello di aprire alla visione del pubblico un patrimonio importante di pittura del sei e settecento ligure e piemontese diversamente destinato a rimanere custodito nelle stanze dei collezionisti resisi disponibili al prestito e che per questo meritano sincera gratitudine. In secondo luogo perché si offre con questa mostra l’occasione di vedere le sale di quello che è uno dei palazzi più prestigiosi di Alessandria – Palazzo Cuttica - arricchite da opere d’arte pienamente nello spirito dell’edificio. In questo particolare periodo in cui l’Expo galvanizza energie mettendo in moto un circolo che tutti si augurano virtuoso, l’offerta culturale della nostra città si mostra all’altezza del suo non ancora del tutto valorizzato patrimonio storico, artistico e culturale. Grazie a questa e ad altre iniziative che stanno per prendere il via, come l’esposizione delle Opere dalla collezione del Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria allestita nel broletto di Palatium Vetus, il nostro territorio mette in campo tutte le sinergie necessarie per accogliere il turismo internazionale che vorrà apprezzare le bellezze del Monferrato di ieri e di oggi. Il Presidente Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria Pier Angelo Taverna
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Itinerario nel barocco ligure e piemontese di Anna Orlando
La mostra è una piccola antologia di una ventina di dipinti databili tra i primi decenni del Seicento e la metà del secolo successivo, quindi nati nella sfaccettata, variegata, vulcanica e tormentata età barocca. Il salone delle feste di Palazzo Cuttica di Cassine, sede dei Percorsi del Museo Civico allo stesso piano nobile dell’edificio settecentesco, è cornice ideale per raccontare questa epoca. Nella varietà dei soggetti e dei temi, quando biblici, sacri, allegorici o profani, e nell’alternanza degli autori, senza alcuna pretesa di esaustività, la selezione della mostra ha però una caratteristica precisa: tutte le opere provengono da collezioni private. Sono quindi normalmente precluse a una visione pubblica, che questa iniziativa invece eccezionalmente consente. La pittura è storia che si fa figura. Riflette quindi, con il suo linguaggio di rimandi simbolici o con il suo taglio narrativo, gli umori di un’epoca, il suo gusto e le sue tendenze dominanti. Anche una piccola antologia come quella che qui si presenta può accompagnare il visitatore - o il lettore di questo catalogo che l’accompagna - in un breve ma intenso viaggio nelle passioni di quell’epoca. Il catalogo, per comodità del lettore e del visitatore, che lo potrà usare come vademecum, vede le schede dei dipinti susseguirsi in ordine alfabetico per autore. Nell’allestimento si è invece scelto di prediligere l’aspetto visivo, con accostamenti e una sequenza che non sono dunque rigorosi per cronologia, trattandosi peraltro di opere distribuite in un arco temporale relativamente breve, come si è detto, tra il 1620 circa e la metà del Settecento. In questa breve introduzione possiamo invece ripercorre la selezione delle opere dalle più precoci alle più tarde. Il primo artista a vedere la luce, tra quelli rappresentati, è Sinibaldo Scorza, figura emblematica per le liaisons liguri-piemontesi che la mostra intende sottolineare, 11
perché nasce nel 1589 a Voltaggio, oggi in provincia di Alessandria ma allora parte del territorio della Repubblica di Genova, e poi attivo come miniatore e pittore sia in Liguria che in Piemonte. Vedete qui uno splendido Albero con grande pavone e altri uccelli che palesa le sua abilità di ‘animalista’, e un incantevole Paese nella campagna innevata, emblematico della sua serie di paesaggi ritratti nella magica sospensione che la sua pittura ci regala, tra il fiabesco e il reale. Di due anni più giovane è Jan Roos, nato ad Anversa nel 1591, ma a Genova per molti anni, almeno dalla metà degli anni Dieci fino alla morte, avvenuta nella Superba nel 1638. È autore della splendida Natura morta con fiori e falena che, dietro l’apparente semplicità di una composizione di forte valenza decorativa, cela molto probabilmente tutta la complessità di simbologie sacre e moraleggianti. Di un anno più giovane di Jan Roos, il concittadino anversano Cornelis de Wael, intraprende anch’egli il viaggio in Italia, come era consuetudine per i pittori fiamminghi che visitavano la Penisola per studiare l’arte antica dei grandi maestri. Qualcuno di loro, però, non faceva ritorno in patria, perché la fortuna riscossa dalla loro arte così nuova e diversa per i collezionisti italiani, li invitava a restare. Così accadde per Cornelis, in mostra con una piccola Scaramuccia, uno dei soggetti “di genere” a lui più congeniali. Il terzo pittore nordico presente in mostra è Vincenzo Malò, allievo diretto di Pietro Paolo Rubens ad Anversa, ma anch'egli attivo con una propria bottega a Genova negli anni Venti e Trenta, dove peraltro si forma Anton Maria Vassallo. L'inedito Baccanale del Malò, recente acquisizione di un collezionista che è tra i prestatori della mostra, palesa la sua più tipica pittura, nata da una costola di Rubens. Gli altri artisti di questa generazione presenti a Palazzo Cuttica sono Gioacchino Assereto, padre del migliore naturalismo della scuola pittorica genovese di primo Seicento, qui con un squisita tavoletta con Santa Caterina d’Alessandria, e Giovanni Benedetto Castiglione detto il Grechetto, primo pittore propriamente barocco, che qui è presente con una tela realizzata in collaborazione con il figlio Giovanni Francesco. Segue, per cronologia, l’intensa Salomè con la testa del Battista di Bartolomeo Biscaino, allievo di Valerio Castello, in confronto diretto con il bozzetto raffigurante Salomone che incensa gli idoli del piemontese Guglielmo Cairo, improntato sui fortunati prototipi realizzati dal Castello, ammirato non solo dagli allievi diretti come il Biscaino, ma anche da almeno un paio di generazioni dopo di lui. 12
Non lontano per cronologia, e anche affine per squisite delicatezze di stesura e morbidi passaggi chiaroscurali, è la bella tela del milanese Montalto, Gesù Bambino e san Giovannino, emblematica dei contatti continui e vicendevoli tra le varie scuole pittoriche di queste tre regioni. I decenni centrali del secolo vedono come protagonista Domenico Piola a Genova, qui con un Putto entro ghirlanda di frutti, quest'ultima realizzata dal suo cognato e stretto collaboratore Stefano Camogli, magistrale autore di nature morte di fiori o frutti. Altro collaboratore di Domenico è il figlio Paolo Gerolamo, in mostra con una Allegoria della Vittoria, testo pittorico che all’esuberanza della forma unisce la forza dell’allegoria in pieno spirito barocco. Varie allegorie e temi bacchici con putti offrono al visitatore reciproci rimandi tematici e formali: si veda, oltre al citato Malò, anche il Baccanale di putti di Pietro Paolo Raggi, L’infanzia di Bacco di Domenico Parodi e la Coppia di putti con capretta e fiori di Gian Lorenzo Bertolotto, che tutti richiamano più o meno esplicitamente al tema della Lussuria. Questi pittori sono attivi tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento e illustrano lo stile del barocco maturo. Del Bertolotto è esposta anche una grande tela con Lot e le figlie, raffrontata all’Allegoria di Paolo Gerolamo Piola anche per sottolineare la matrice piolesca del suo stile. Con Bartolomeo Guidobono, nativo di Savona nel 1654, ma attivo a lungo a Torino e in Piemonte, anche con il fratello Domenico, il visitatore potrà gustare la qualità del tardo barocco di un pittore che ne è interprete sublime, sia nel bel Presepe, tracciato con tocco veloce e leggero, sia nell’intensa Maddalena, la cui giovinezza è pura poesia. L’itinerario della mostra chiude cronologicamente con in due bozzetti di Giovanni Antonio Cucchi, studi per due affreschi ancora oggi visibili poco lontano da Palazzo Cuttica, nel vicino Palazzo Ghilini, databili al 1745 circa. Con la loro cromia accesa e le loro pennellate fiere si chiude questo viaggio nell'eleganza, nell'intimità, nelle gioie e inquietudini di un'epoca speciale: il Barocco.
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L’intima bellezza di Massimo Marasini
Una delle chiavi di lettura più significativa del valore di una civiltà è fornita senza dubbio dalla storia dell’arte. L’uomo di sempre, varcando i confini e le geografie del suo percorso conoscitivo, cerca l’espressione del bello nel monumento, idolo e metafora dello spectaculum mundi. Ivi contemplazione e celebrazione si fondono nell’orgoglio di una appartenenza comune ma anche nella consapevolezza di trovarsi di fronte ad un orizzonte illimitato e vasto che non a caso traluce di arcobaleni variopinti, sorti dopo le tempeste esistenziali di un’umanità inquieta e orfana di senso universale. Simbolo e vanto della città esso si colloca al centro dello spazio comune, nell’agorà, dove le diversità si fondono nel crogiuolo dei desideri e delle aspirazioni. Laddove l’ideologia iconoclasta è stata tacitata dalla sapienza del cuore e l’ispirazione non viene umiliata da un rozzo pauperismo, la fede e la razionalità si trovano accomunate nell’ammirare la genialità del singolo uomo ma anche la lungimiranza del mecenate. Molti sono concordi nell’affermare come la fortuna artistica dell’Italia sia dovuta proprio alla frammentazione politica, dove principati e città comunali hanno gareggiato nel perimetrare la propria storia con opere d’arte che ancora oggi costituiscono parte irrinunciabile del patrimonio culturale del mondo intero. Dove ricchezza e supremazia hanno continuato a lusingare i potenti del tempo e la cosa pubblica sembrava costruirsi su quelle che oggi riteniamo verosimilmente ingiustizie sociali, l’arte è sopravvissuta a quel materialismo di sostanza che sembrava dare valore solo alle cose che si contano e si pesano. L’oro, l’argento e le materie preziose che senza dubbio nel passato rappresentavano il valore principale nel quantizzare una ricchezza e affermare un casato, venivano eluse e trasfigurate dalla genialità dell’artista, dalla fama e dal prestigio raggiunto. Dove solo il forziere e il latifondo misuravano la potenza dell’individuo, le chiese e i palazzi s’ingentilivano con quadri, statue e prospettiche 15
architetture, andando così ad impreziosire stabilmente il patrimonio del proprio territorio che ancora ora ammiriamo e dove volontà testamentarie e bramosie totalitarie possono avere disperso ma raramente distrutto. Le meraviglie del mondo si collocano come espressione di un attimo eterno di bellezza. Quel volo d’aquila, impennato sopra gli abissi oscuri e profondi di una banalità che uccide poiché priva della gioia intima dell’anima, trova nel capolavoro dell’artista il trofeo dell’eroe sperato, l’attraversata in mezzo ad un mare misteriosamente ritratto sull’esodo del misero verso una rinnovata libertà interiore. Tutto ciò vale sopratutto per l’arte della pittura: una tela e pochi grammi di colore generano la magia di un linguaggio universale e poliedrico. Nello spazio limitato del quadro traluce un mondo di sensazioni e di intuizioni, si afferma nell’artista la grandezza di tutto il genere umano. Quando un animo eletto si affaccia da tale finestra sul mondo comincia a respirare i colori del tempo, un tuffo di illusione olfattiva che drizza le vibrisse dell’istinto e del gusto. Una misteriosa commistione di affinità elettive e di percezioni storiche si materializza tra la stesura del pigmento, nelle curve ottiche che accompagnano lo scorrere delle pupille. Il porsi stesso del corpo nello spazio frontale sembrerebbe sporgersi nella scena ritratta, godere di quella luce riflessa che dipana l’iride in mille sfumature cromatiche. Il giudizio in verità risponde a empatie ben più misteriose, si consegna ad una concezione precisa ma inconscia della storia. Nascono i gusti, le preferenze. Come non collegare l’austerità di una vita dura e gotica ai volti asciutti e scarni del Masaccio mentre la precisione solare e nitida del Manierismo sembra auspicare un mondo armonioso e compiuto. E poi è Barocco. Le scienze architettoniche fondono in esplosioni paradossali tra equilibrio e materia, tra solidità e leggiadria. Sacro e numinoso si fondono incarnati nel piede caravaggesco della donna Maria che trasuda di nobiltà profetica. Dallo scandalo di un rifiuto si genera una nuova epoca, l’apparente austera semplicità del dettato tridentino dona alla fede l’essenza e lo stupore del raggio di sole. L’arcano alternarsi di luce ed ombra misura nel chiaroscuro la scena di una contemporaneità che si rinnova nell’esperienza dell’uomo e nell’immobile mutare della storia. Lo sfondo scuro, negazione di colore e ragione, spinge la figura sull’abisso del tempo, chiede vocazione e redenzione, stupito attende che il dito di Dio pronunci il suo nome. Dall’assenza all’essenza, mirabile ma spietato, il movimento trancia teste, ce16
lebra amori, annuncia la vita su un cumulo di appestati. Celebra la donna indomita, regale nello sguardo, sensuale nei panneggi. Turgidi muscoli tendono tra dannazione e sorte celeste mentre corpi lacerati trasudano di eternità. Satiri e angeli si alternano pacificati intorno all’incarnato del santo-eroe, icone di fede salgono sul piedistallo di un Olimpo morale. Lo spettatore, e mai come in questo contesto il termine esprime con efficacia il collocarsi nel teatro del mondo, avverte come sia sottile il confine tra palcoscenico e platea, scorgendo nei volti rappresentati le inquietudini interiori del dramma della vita, della propria esistenza. Come si sa i primi teatri nascono nei palazzi dei principi, quei luoghi di potere e di ozio che affidavano ai più umili colti del tempo l’incarico d’intrattenere ospiti, di cantare le glorie del casato. Paradossalmente, quando i temi della riflessione artistica entrano nell’intimità delle storie personali e pongono l’uomo in sé come centro del dramma, il luogo del teatro si fa più grande e monumentale, accoglie centinaia di persone, richiede organici e maestranze sempre più imponenti. L’opera borghese canta ancora l’amore, ma esso non possiede più l’aura del greco modo o la sofferenza incarnata della fede ma si consegna a una celebrazione di ceto e di nazione. Chi desidera vivere l’emozione dell’arte nel profondo dell’animo oggi percorre esule i pellegrinaggi profani verso musei e chiese oppure, da vero privilegiato, compone nella sua casa un mosaico di scenari, di brandelli di inconscia memoria che rivivono un percorso di ricerca e di acquisto dove la discriminante agiatezza personale risulta assai secondaria nel percorrere tali scelte estetiche. Più l’esperienza del bello viene purificata da provincialismi e grettezze patrimoniali più la casa costituisce quasi un’espansione volumetrica dell’animo umano. Ogni dipinto non si colloca solamente all’interno di un incontro celebrato e condiviso nella quotidianità dell’abitare, ma tratteggia di parete in parete la storia dell’ospite. Chi vive una sostanziale introversione custodisce con cura e gelosia questo suo regno emotivo, se un ladro si può temere è quello che ti ruba dentro i più intimi segreti, colui che profana il tuo spazio. Se prevale l’estroversione, se il tour della vita ti ha consegnato riconciliato alla solidarietà universale, allora magnanimità e senso civico si colorano di una rinnovata ospitalità oppure rendono possibile l’evento, il collezionista accetta di prestare sé e il proprio devoto idolo al comune spettacolo. 17
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Schede delle opere e biografie degli artisti di Anna Orlando
Poiché si tratta di una piccola antologia di pittura ligure e piemontese si è scelto, per comodità del visitatore (e del lettore), di ordinare gli autori in sequenza alfabetica. Le schede critiche sono affiancate da una breve nota biografica sull’artista. 19
Gioacchino Assereto (Genova 1600-1650)
Santa Caterina d’Alessandria Olio su tavola, cm 26 x 20,3 Novi Ligure (Al), collezione privata Bibliografia: F.R. Pesenti, La pittura a Genova. Artisti del primo Seicento, Genova 1986, p. 377, fig. 346; R. Benso, Immagine della grande pittura genovese a Novi, in “Novitate”, anno VI, , fasc. II, n.12, novembre 1991, p. 13, fig. 4 ; T. Zennaro, Gioacchino Assereto e i pittori della sua scuola, Soncino 2010, I, A45, pp. 276-277 La piccola tavola raffigura santa Caterina d’Alessandria, riconoscibile come regina per la corona accennata sul suo capo, e per la presenza del suo “attributo”, ossia la ruota spezzata, lo strumento del suo martirio visibile in basso a destra. A indicare il suo sacrificio e la gloria conseguita è la palma che ha in mano. La figura è seduta in un paesaggio accennato da lievi pennellate che tracciano lo sfondo sulla destra; a sinistra invece il cielo si accende della luce divina, nella variazione del giallo arancio contro cui si staglia la sagoma della giovane regina. È seduta e abbi-
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gliata in modo elegante, come si conviene al suo status. L’atteggiamento e lo sguardo sono quelli tipici dei santi, con lo sguardo rivolto al cielo. Definita da Franco Renzo Pesenti, che la rende nota nel 1986, “quasi una prova di laboratorio sulla memoria delle forme ansaldiane e sulle ricerche del colore del Borzone”, cioè ravvisandovi richiami diretti alla maniera dei due maestri di Assereto, Andrea Ansaldo e Luciano Borzone appunto, la tavoletta si pone tra le opere giovanili del pittore. La tavolozza è infatti giocata sull’accostamento di tinte ricercate, più manieriste che non proprie della stagione successiva del naturalismo a cui l’Assereto aderirà da lì a poco. La critica è concorde altresì nel sottolinearne, pur nelle dimensioni ridotte, la qualità esecutiva. Così ne scrive da ultima la Zennaro: “Si tratta di un lavoro di squisita fattura, ravvivato dagli accordi caldi del colore, nelle diverse tonalità di arancione accostate al giallo ocra del manto, che si accende di riflessi dorati a rimarcare – con sottili pennellate luminose – il volume della gamba tesa” (Zennaro 2010, p. 277).
Gioacchino Assereto è uno degli artisti più importanti del Seicento genovese e uno di quelli maggiormente ricercati dai musei in tutto il mondo. Esponente principale della corrente del naturalismo nella prima metà del secolo, si distingue dai suoi contemporanei per una maggiore forza espressiva, una capacità di tradurre con toni fortemente drammatici i suoi racconti sacri o profani. Sa fondere gli insegnamenti di Borzone e Ansaldo con una mirabile comprensione della lezione di Rubens sulla potenza del colore, raggiungendo esiti di altissima qualità, che mostrano un naturalismo sostenuto dal vigore materico. Nasce a Genova nell’anno 1600 e si forma nella bottega di Luciano Borzone intorno al 1612-1618, per passare poi in quella di Andrea Ansaldo, intorno al 1618-1622. Si sposta da Genova solo per il doveroso viaggio a Roma, nel 1639, dal quale torna oltremodo deluso, a detta del biografo Raffaele Soprani (1684). Con altri pittori frequenta l’“accademia” organizzata in casa del collezionista e mecenate Gio. Carlo Doria e si esercita sullo studio dal naturale e del nudo (1618-1625 circa). Attraverso il Doria entra in contatto diretto con la pittura milanese, determinante per la sua fase iniziale, e con l’opera di Giulio Cesare Procaccini, che influenzerà anche la fase matura della sua arte. Pittore schivo (“spiritoso” lo definisce il Soprani) e restio a lavorare per la committenza pubblica, è noto attraverso due soli affreschi (all’Annunziata e a Palazzo Ayrolo Negrone) e alcune pale d’altare; pochi gli intensi ritratti, mentre sono numerosi i suoi quadri “da stanza”.
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Gian Lorenzo Bertolotto (Genova 1660 – 1724)
Coppia di putti con capretta e fiori (Allegoria della Lussuria) Olio su tela, cm 28,5 x 59,5 Novi Ligure (Al), collezione privata Inedito Sulla scia della fortuna dei tanti quadri con putti allegorici usciti dalla bottega di Domenico Piola per tutta la seconda metà del XVII secolo a Genova, Gian Lorenzo Bertolotto tratta qui un soggetto analogo, che per la presenza della capretta può essere inteso in chiave di allegoria della Lussuria. A questo significato rimanda infatti la presenza della capretta, con cui giocano i due putti, agghindandola di fiori. Anch’essi, per la loro vita breve dopo essere stati recisi, sono un richiamo di vanitas, cioè un monito a meditare sulla brevità della vita, come se il dipinto avesse proprio uno sfondo moralizzante, quasi a suggerire di non lasciarsi indurre nelle tentazioni della lascivia. La maniera del Bertolotto in questo inedito, che gli va restituito su basi
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stilistiche, è quella relativamente matura, dove assomma le suggestioni dei modi di Domenico Piola con quelle di un naturalismo alla Castiglione, ma anche con un brio nella conduzione della pennellata e nella definizione delle forme che suggerisce una datazione all’inizio del XVIII secolo. Le dimensioni molto ridotte del quadro e la stesura libera e veloce farebbero pensare che si possa trattare di un bozzetto, cioè di un primo studio preliminare all’esecuzione di un dipinto di dimensioni maggiori, magari con la funzione di sovrapporta. Il formato verticale o a sviluppo orizzontale fortemente allungato, erano sfruttati per la decorazione dei saloni: nel prima caso per essere messo sopra i varchi come “sovrapporta”, nel secondo caso per essere disposti a mo' di fregio lungo la parete in alto sotto la volta. Questa posizione imponeva una visione dal basso che il pittore prevedeva, realizzando scorci che anche in questo bozzetto paiono già accennati.
Figlio del pittore Michelangelo, e precisata ora la data di nascita al 1660 e non al 1640 come erroneamente tramandato dal primo biografo, Carlo Giuseppe Ratti (1769), è menzionato tra gli allievi di Giovanni Benedetto Castiglione detto il Grechetto. Tuttavia, negli atti di un processo contro di lui, nel 1698-99, egli si dichiara allievo di Domenico Piola, come risulta effettivamente anche più logico osservando il suo stile. L’artista meriterebbe uno studio sistematico, che ordini criticamente i suoi numerosi dipinti frutto di una carriera prolifica e non breve. In una prima fase, più che risentire dei modi del Castiglione e di una certo naturalismo dominante nella scuola pittorica genovese della prima metà del Seicento, il Bertolotto si avvicina piuttosto allo stile di Gioacchino Assereto, del quale propone una sorta di rilettura attardata ben oltre la metà del secolo. Guarda anche alla maniera di Valerio Castello, di cui riprende i modi e gli schemi compositivi di alcune opere. Molto diversa, come peraltro già notava il Ratti, è la sua maniera matura in cui si allinea opportunamente allo stile del Piola, allora in voga, con un recupero del panneggio ampio e voluminoso, con forme più salde e monumentali e una tavolozza assai più squillante e non più solo giocata sui bruni come in gioventù. Sebbene eclettico e incostante il Bertolotto è oggi facilmente riconoscibile e assai apprezzabile nelle sue opere di maggior impegno.
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Gian Lorenzo Bertolotto (Genova 1660 – 1724)
Lot e le figlie Olio su tela, cm 164 x 121 Collezione privata Inedito Il dipinto illustra l’episodio biblico di Lot e le figlie (Genesi 19, 30-38) e narra del disperato tentativo di scongiurare la fine della stirpe di Lot, mentre le città di Sodoma e Gomorra erano in fiamme, da parte delle figlie che si concedono al padre, e che prima lo ubriacano perché l’incesto si svolga senza che egli ne prende vera coscienza. La scena, di per sé drammatica, viene risolta molto spesso in età barocca in chiave decisamente più leggera, ponendo l’accento sul tema della seduzione. Da exemplum, racconto che si fa monito per tutti, si sceglie di tradurre il tema in chiave più leggera e decorativa. Questo dipinto inedito va assegnato al pennello del genovese Bertolotto, ben riconoscibile nei volti colti nella penombra, nel panneggiare esuberante e nella composizione dinamica
che risolve il racconto in un formato verticale che consente di accentuare il dinamismo della scena. Il formato e le misure del dipinto sono consuete per il Bertolotto. Si conoscono infatti diversi quadri con soggetti sacri, allegorici o profani, con dimensioni del tutto analoghe, come quelli presentati di recente da chi scrive (A. Orlando, Dipinti genovesi dal Cinquecento al Settecento. Ritrovamenti dal collezionismo privato, Torino 2010, pp. 40-41) e altri resi noti da Gianluca Zanelli (Giovanni Lorenzo Bertolotto: aggiunte al catalogo, in "Paragone", anno LXII, terza serie, n° 96 (377) marzo 2011). Si vedano, in particolare, l’Allegoria della Fede (fig. 1), databile allo scadere del secolo e il meraviglioso Diana ed Endimione (fig. 2), che invece è da assegnare alla piena maturità. Il nostro Lot si pone verosimilmente a metà tra le due cronologie, probabilmente dipinto all’inizio del Settecento con un mix di naturalismo ed estro rococò, secondo la formula più tipica del Bertolotto.
Fig. 1. Allegoria della Fede, cm 171 x 119, collezione privata
Fig. 2. Diana ed Endimione, cm 170 x 122, collezione privata
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Bartolomeo Biscaino (Genova 1629-1657)
Erodiade con la testa del Battista Olio su tela, cm 121 x 97,5 Novi Ligure (Al), collezione privata Bibliografia: Mostra d’arte retrospettiva (dal secolo XVI al primo ‘800). Opere d’arte esistenti a Novi, catalogo, 1969 (come Grechetto); C. Manzitti, Per Bartolomeo Biscaino, in “Paragone”, anno XXII, n. 253, marzo 1971, p. 40, tav. 28 (come Biscaino); C. Manzitti, Valerio Castello, Genova 1972, nota 34 p. 70; G. Biavati in Genova nell’Età Barocca, catalogo della mostra di Genova a cura di E. Gavazza e G. Rotondi Terminiello, Bologna 1992, p. 98. “Un sovrapporta in piedi, di palmi 4 e 5, la Decollazione di San Giobatta, originale del Biascaino” è la menzione nell’elenco del quadro del defunto Gio. Batta Rapallo, genovese, dell’inventario registrato dal notaio Gio. Francesco Solari, reperito e parzialmente trascritto e pubblicato da Venanzio Belloni (Penne, pennelli e quadrerie, Genova 1973, p. 71). Come ha già notato Ezia Gavazza in uno scritto rimasto in bozze per una mostra prevista a Novi Ligure nel 1980 ma alla fine non realizzata, dovrebbe trattarsi del nostro dipinto, che ha questo formato, e va preferibil-
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mente osservato dal basso verso l’alto, così da cogliere l’effetto prospettico cercato dal pittore. Si tratta di un capolavoro di Bartolomeo Biscaino, a cui è stato restituito da Mario Bonzi, in una comunicazione scritta al proprietario datata 19 novembre 1971, dopo l’impropria presentazione del dipinto a una mostra di Novi Ligure nel 1969 come opera del Grechetto. A Ezia Gavazza, nello scritto inedito del 1980 già ricordato, si deve lo studio più approfondito sull’opera. La studiosa ne sottolinea la relazione con l’abbondante opera incisoria del Biscaino, ravvisando nel dipinto “il segno calligrafico individuato nella conduzione delle pieghe e dei panneggi, negli elementi dell’armatura del soldato e nel diadema di Erodiade, a significare la presenza dell’artista che trasferisce nella pittura la pratica più esercitata degli strumenti dell’incisione attraverso cui è forse più chiaro leggere le tappe del breve percorso culturale dell’artista”. La bellezza del dipinto si deve alla capacità del Biscaino di risolvere la drammaticità della scena attraverso una serrata scansione dei piani, costruiti nella luce, in un incalzante sovrapporsi delle figure, diversamente atteggiate e disposte sulla scena.
Nato a Genova nel 1629, con un’infanzia trascorsa al fianco del padre pittore, Giovanni Andrea, Bartolomeo entra nella bottega di Valerio Castello verso la fine degli anni Trenta, e la frequenta fino alla morte precoce, avvenuta per peste, nel secondo anno del terribile flagello che ha decimato la popolazione della Superba, pittori compresi, nel 1656/57. La sua vicenda artistica è parallela a quella di Stefano Magnasco, ma è oggi possibile distinguere i due pittori a lungo confusi, grazie agli studi monografici che li hanno interessati. Per ragioni anagrafiche la sua evoluzione stilistica è assai ridotta. Le opere datate si riducono a un paio di incisioni (1655 e 1656), tra le tante, splendide, che esegue sullo stile del Castiglione. Il corpus dei suoi dipinti si ricostruisce prendendo avvio da un’unica opera citata dal Soprani (la Pala di san Fernando), ove sono ben visibili le due componenti del suo stile: Grechetto e Castello. Esegue quasi esclusivamente quadri “da stanza” per la committenza privata, in cui i personaggi hanno spesso espressioni intense e una gestualità eloquente; i volti femminili sono sempre ben riconoscibili per la forma ovale e l’espressione dolce; i panneggi sono leggeri e a pieghe longitudinali e fitte, diversamente dal panneggiare assai più leggero e mosso del maestro o da quello più disegnato e gonfio di Stefano Magnasco.
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Guglielmo Cairo (Casale Monferrato, Al, 1656? – 1682?)
Salomone incensa gli idoli Olio su tela, cm 71 x 101 Novi Ligure (Al), collezione privata Inedito L’opera che qui si presenta è un interessante ritrovamento che consente un’aggiunta al catalogo del pittore piemontese a lungo sommerso nell’oblio. Si tratta infatti, ad evidenza, del bozzetto preparatorio per un dipinto (fig. 1) già conservato nella collezione di Angelo Costa a Genova, poi passato a due aste londinesi con la tradizionale attribuzione a Valerio Castello (Christie's, 30 novembre 1979, lotto 105 e Sotheby’s, 10 dicembre 1986, lotto 8), poi riferito a Giovanni Battista Merano, allievo del Castello, e infine riconosciuto al Cairo da Maurizio Romanengo, a cui si deve la ricostruzione critica di questo artista, sulla base di due opere firmate e datate (cfr. M. Romanengo, Un casalese nella Genova di Valerio Castello, in “Nuovi Studi”, n. 16, 2010, pp. 127-136 e in particolare
nota 10 p. 135 per la ricostruzione della vicenda attributiva del dipinto già Costa). Come già notato da Romanengo, la fonte che ha ispirato il piemontese è molto probabilmente la tela di ugual soggetto del Castello, nota nella collezione Peloso di Novi Ligure (Al), sebbene il Cairo scelga di riorganizzarla con una diversa prospettiva. “Cairo preferisce una narrazione più discorsiva di forte emotività, e accende la gamma cromatica in un trionfo di colori, di smaglianti rossi, di arancioni e di blu che accompagnano l’occhio da una parte all’altra della tela, facendo sfoggio di virtuosismo pittorico nella colonna salomonica e nell’incensiere…” (Romanengo 2010 cit. p. 129). Nel bozzetto che qui si presenta, la tavolozza è ridotta e non così accesa, ma è evidente la sperimentazione di scorci audaci, teatralità dinamica e impaginazione complessa, per un’opera che, come la tela grande dimostra, dovette essere per il pittore di notevole impegno e forse per una commissione importante.
Il profilo biografico di questo artista è ancora molto incerto, perché le fonti sono avare nel tramandarne notizia. La ricostruzione della sua vicenda biografica e artistica si deve al recente studio di Maurizio Romanengo che ne ha rintracciato due opere firmate e datate a partire dalle quali ha abbozzato un primo catalogo delle sue opere: L’Adorazione dei pastori del Museo Civico d’Arte Antica di Palazzo Madama a Torino firmata e datata 1671 e una Resurrezione di Lazzaro firmata e datata 1674 in collezione privata (Romanengo 2010, cit.). Fratello di un pittore di nome Ferdinando, che sarebbe nato a Casale Monferrato nel 1666, Guglielmo è citato in pochi testi ottocenteschi che ne forniscono notizie dubbie e contraddittorie. Pertanto, le date di nascita e di morte devono intendersi da verificare. L’artista mostra forti debiti nei confronti dei pittori genovesi – soprattutto Valerio Castello e Giovanni Battista Merano suo allievo, e il Castiglione – tanto da rendere pressoché certa una sua attività anche in Liguria. La morte, in data incerta ma probabilmente molto precoce, non consentì verosimilmente all’artista una maturazione stilistica.
Fig. 1. G. Cairo, Salomone incensa gli idoli, cm 160 x 212, Già Genova, collezione Angelo Costa, poi Londra, Christie's e Sotheby's 28
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Giovanni Benedetto Castiglione, detto il Grechetto e Giovanni Francesco Castiglione (Genova 1609 – Mantova 1664; Genova 1641-1710)
Viaggio biblico Olio su tela, cm 51 x 86 Novi Ligure (Al), collezione privata Inedito Il dipinto, notevole per qualità e prezioso nella fine esecuzione e per la tavolozza squillante, è un interessante contributo per la conoscenza dei modi operativi di un’importante bottega nella Genova del Seicento. È ormai ampiamente dimostrato dagli studi di Timothy J. Standring, che l’atelier di Giovanni Benedetto Castiglione, noto con il soprannome di Grechetto forse dovuto al suo bizzarro modo di abbigliarsi, faceva capo a lui, ma si basava sulla stretta collaborazione tra i membri della sua famiglia. In particolare il fratello Salvatore, anch’egli pittore e incisore, ma che fungeva per lo più da agente, e il figlio Giovanni Francesco, che ne emula in tutto e per tutto lo stile e i modi, pur senza raggiungere gli esisti notevolissimi che fanno del Grechetto uno dei pittori più importanti del barocco pittorico in Italia. La tela che qui si presenta per la prima volta al pubblico e all’attenzione degli studiosi mostra in modo abba-
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stanza evidente una doppia mano, e costituisce quindi un importante tassello per ricostruire più precisamente le dinamiche operative di una bottega, che non solo nelle tele di grandi dimensioni e nelle commissioni importanti, ma anche in quadri più piccoli come questo, poteva prevedere l’intervento di un aiuto al fianco del maestro. Sappiamo infatti che il Grechetto amava licenziare dalla bottega come suoi, e addirittura firmandoli, dipinti che in realtà eseguivano in parte anche altri. Poco gli importava: era lui l’artista che tutti volevano. Se il visitatore indugerà un poco per osservare attentamente questo quadro, vedrà che tutta la parte del primo piano con il terreno, le foglie, la pecora più grande e la figura del protagonista, in abito rigato rosso, e il suo splendido cane sono eseguite con una proprietà di esecuzione superiore al resto, e dunque dal Grechetto. Il resto del gregge, il gruppo di figure a destra e il fondo con paesaggio e le figure velocemente abbozzate sulle tonalità dell’azzurro sono invece di altra mano e vi si può riconosce quella di Gio. Francesco, fedelissimo nei modi del padre, ma diligente piuttosto che estroso.
Il Grechetto si forma a Genova tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta, sotto l’influenza di Giovanni Battista Paggi, Sinibaldo Scorza e Giovanni Andrea De Ferrari, ma anche dei fiamminghi attivi a Genova, come Rubens per l’esuberanza cromatica, e Jan Roos per la scelta dei soggetti. Animali e nature morte disposte sul primo piano e pretesto tematico religioso relegato sullo sfondo diverranno una sua sigla stilistica tipica. Si trasferisce a Roma nel 1632 dove frequenta per almeno due anni l’Accademia di San Luca (1633-34). Nell’Urbe entra in contatto con artisti barocchi quali Gian Lorenzo Bernini e Nicolas Poussin, che contribuiranno molto all’arricchimento culturale della sua opera. I suoi spostamenti negli anni successivi sono continui e molteplici: è documentato a Napoli nel 1635; fa testamento a Genova nel 1639; nel 1645 firma e data la pala di S. Luca per la chiesa gentilizia degli Spinola; nel 1647 è nuovamente a Roma. Negli anni Cinquanta, pur continuando a viaggiare e a mantenere contatti con la propria città, lavora per lo più per i Gonzaga a Mantova, dove è nominato pittore di corte e dove muore nel 1664. Giovanni Francesco, suo figlio, nonché allievo e collaboratore, si forma nella seconda metà degli anni Cinquanta e segue il padre nei suoi spostamenti tra il 1659 e il 1663 (Mantova, Parma e Venezia), dove lavora anche grazie al sostegno dello zio Salvatore, anch’egli pittore. Solo nel 1681 riesce a diventare pittore di corte dei Gonzaga, dove lavora fino al 1708, anno della morte del duca e del probabile rientro a Genova di Giovanni Francesco.
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Giovanni Antonio Cucchi (Campiglia Cervo, Bl, fraz. Ondini, 1690 – Milano 1771)
Venere si presenta a Giove Nascita di Ercole Olio su tela, cm 45 x 63 ciascuno Torino, Galleria Giamblanco Bibliografia: A. Cifani in Galleria Giamblanco Dipinti Antichi. Pittura italiana dal Seicento al Novecento, Torino 2013, pp. 50-51 La coppia di dipinti sono stati presentati per la prima volta dalla Galleria Giamblanco di Torino nel 2013, accompagnati in catalogo da una scheda critica di Arabella Cifani, che ne ha individuato la relazione con gli affreschi di Palazzo Ghilini in Alessandria. La Cifani scrive: “I due bei quadri, dotati di cornici originali, sono i bozzetti per i due affreschi del settecentesco Palazzo Ghilini di Alessandria, il palazzo più maestoso e importante della città, oggi sede della Provincia. L’edificio fu costruito a partire dal 1732 su progetto di Bendetto Alfieri e su committenza del marchese Tommaso Ghilini. Il suo piano nobile conserva ancor oggi una serie di magnifici saloni, decorati in stile rocaille, che la critica ha attribuito al pittore Giovanni Antonio Cucchi” (Cifani 2013). L’esecuzione degli affreschi, e dunque dei relativi bozzetti preparatori, si
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data intorno al 1745, in occasione delle nozze tra Vittorio Amedeo Ghilini e Gabriella Dal Pozzo della Cisterna. I soggetti degli affreschi sono infatti di tema amoroso, tratti dalla mitologia: La nascita di Ercole (fig. 1), Venere si presenta a Giove, Le nozze di Ercole ed Ebe, Giove invia Mercurio, Paride e Venere, Bacco e Arianna. Dei primi due sono conservati i bozzetti preparatori che qui si espongono, assolutamente fedeli alla soluzione finale dell’affresco. Il primo illustra Venere, la dea della bellezza, al cospetto di Giove, re dell’Olimpo. La scena si svolge subito dopo l’episodio della sua vittoria come dea più bella su Minerva e Giunone, quando conquista il pomo dorato messo in palio da Paride, il giudice che la scelse, e che qui vediamo nelle mani di Venere che lo porge a Giove. Il secondo inscena la nascita di Ercole, il bimbo presentato da Mercurio, sulla sinistra, al padre Giove, in alto tra le nubi con il simbolo del suo potere, l’aquila. Giunone si scorge addormentata a destra, con un putto che abbraccia il pavone, attributo della dea. Le stanno tramando un inganno, facendole allattare il piccolo durante il sonno, così da renderlo immortale.
Nativo del biellese, del Cucchi non si sa nulla fino ai suoi vent’anni circa, se non che si sia trasferito molto presto a Milano e vi abbia frequentato l’Accademia Ambrosiana, dove ancora si conserva il suo autoritratto. A Milano è documentato dal 1716 mentre le sue prima opere note si datano a partire dal 1730: per la parrocchia di Campiglia Cervo in Valsesia, nella provincia di Biella, e per la villa Alari Visconti a Cernusco sul Naviglio in provincia di Milano. Secondo Vittorio Caprara, che ne ha redatto la voce biografica nel Dizionario biografico degli italiani (vol. 31, 1985), riportato nell’enciclopedia Treccani on-line (www.treccani.it), il Cucchi “è oggi considerato uno dei più prolifici pittori decorativi attivi in Lombardia, mentre un tempo era noto soprattutto per alcune opere eseguite nel Biellese e a Varallo” e “sembra essere stato tra i più richiesti cantori delle glorie delle famiglie patrizie milanesi, coprendo, in minore, il ruolo che C. Carloni rivestì in varie corti europee”. Molte le opere documentate o attribuite in Lombardia e Piemonte, dalle quali si evince la sua adesione convinta allo stile rococò.
Fig. 1. G.A. Cucchi, Nascita di Ercole, affresco, Alessandria, Palazzo Ghilini
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Giovanni Stefano Danedi (o Daneda), detto il Montalto (Treviglio, Bg, 1612 – Milano 1689)
Gesù Bambino e san Giovannino Olio su tela, cm 103 x 109 Collezione privata Inedito La tela raffigura il piccolo san Giovanni Battista, figlio del sacerdote Zaccaria ed Elisabetta cugina di Maria, con le mani giunte e inginocchiato dinnanzi a Gesù Bambino, di cui il Battista, è considerato il precursore. Il tema dell’incontro tra i due bambini non trova riscontro nelle Sacre Scritture e compare nella pittura italiana a partire dal Rinascimento, mentre per esempio nelle Fiandre si ha già nel XV secolo. La croce di canne con il cartiglio con la scritta “Ecce Agnus Dei” è l’attributo del Battista e ricorda la frase tratta dal Vangelo che si riferisce all’annuncio del Battista che riconosce in Cristo il salvatore. È abbastanza inconsueto il modo in cui sono qui relazionati l’uno all’altro: Gesù Bambino è in piedi in una posizione di rilievo rispetto al cugino; è illuminato da una luce divina mentre l’altro è più in ombra; l’uno nudo e quindi senza peccato, mentre l’altro è coperto. Il dipinto, opera matura del pittore lombardo Giovanni Stefano Danedi
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detto il Montalto, mostra forti tangenze con la pittura ligure e piemontese, utile in questa sede a illustrare l’incrocio di reciproci scambi tra le scuole pittoriche di queste tre regioni. L’attribuzione al Montalto è stata confermata con comunicazione scritta alla scrivente da Filippo Ferro, autore di una monografia sui fratelli Nuvolone, il cui percorso si intreccia con quello del Montalto (G.M. Ferro, I Nuvolone: una famiglia di pittori nella Milano del ‘600, Soncino 2003) e da Odette D’Albo, studiosa di riferimento per il Montalto (cfr. Giovanni Stefano e Giuseppe Montalto. Due pittori trevigliesi nella Lombardia barocca, a cura di O. D’Albo, Milano 2015.). La D’Albo precisa: “Il dipinto appartiene alla fase matura della produzione di Giovanni Stefano, senz’altro dopo gli affreschi eseguiti dal pittore nel presbiterio del Duomo di Monza, datati 1648. La pittura così morbida mi fa pensare ad un momento tra la metà degli anni ‘50, quando l’artista esegue una bella Decollazione del Battista per la parrocchiale di Barzio, in Valsassina e l’inizio degli anni Sessanta, quando affresca il Trionfo della Chiesa nel salone di Palazzo Arese Borromeo a Cesano Maderno”.
Si conosce l’atto di battesimo del pittore, nato in provincia di Bergamo nel 1612. Con suo fratello Giuseppe, anche lui pittore, è ricordato attivo a partire dal 1640. Già dal 1630 però si deve far iniziare l’attività del Montalto, fortemente suggestionato dai maestri milanesi Francesco Cairo, Giulio Cesare Procaccini e Pier Francesco Mazzucchelli, detto il Morazzone. È autore di quadri a destinazione privata e pubblica, e anche come frescante, anche in collaborazione con Ercole Procaccicni a partire dagli anni Cinquanta. I pittori milanesi a cui si ispira il Montalto sono formati con non poche influenze genovesi e per quanto lo riguarda direttamente “è stata opportunamente riscontrata nel pittore una componente genovese, dovuta soprattutto al contatto con Giovanni Battista Carlone” e in alcuni casi “si rivela sensibile alle grandi scene affrescate” da questi, attivo nel 1660 alla Certosa di Pavia, dove il Montalto è documentato nel 1671 (M. Bona Castellotti in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 41, 1992, anche su www.treccani.it). Estraneo dunque, a rigore, dai limiti geografici che questa mostra indica, il pittore vuole qui testimoniare, con uno dei tanti possibili testi pittorici, il circolare di idee e modi, il vicendevole guardarsi tra gli artisti.
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Orazio De Ferrari (Genova-Voltri 1606 – Genova 1657)
L’estasi di san Francesco* Olio su tela, cm 90 x 116,5 Collezione privata Inedito *Opera non esposta in mostra Orazio De Ferrari, il pittore genovese a cui va indubbiamente riferito questo inedito, risolve il tema dell’estasi di Francesco (o san Francesco confortato dall’angelo) con un’impaginazione scenica diversa rispetto alle due versioni note dello stesso soggetto, che hanno formato verticale. La prima (cm 123 x 100) è conservata nei Musei di Strada Nuova a Genova in Palazzo Rosso ed è pubblicata nella monografia che Piero Donati dedica al pittore (P. Donati, Orazio De Ferrari, Genova 1997, n. 15, p. 129). La seconda è passata a un’asta genovese nel 2008 e da lì giunta nella collezione Terruzzi, oggi in parte esposta a Villa Regina Margherita a Bordighera, sede della Fondazione Terruzzi (cm 126 x 99; cfr. catalogo asta Wannenes, Genova, novembre 2008, con una scheda a firma di chi scrive). Questa seconda versione, è di una certa importanza per la presenza della
data 1636, che costituisce punto fermo nella cronologia del ricco corpus dei dipinti di Orazio De Ferrari. Più vicina, per impostazione scenica e anche per datazione al dipinto qui esposto è il San Francesco penitente della chiesa di San Michele Montesignano a Genova (cm 133 x 172), per la quale Donati nota giustamente che Orazio, nella piena maturità, “non si lascia sfuggire l’occasione per fornirci un’ulteriore prova della sua impressionante padronanza dell’anatomia maschile” (cfr. Donati, 1997, cit., n. 87, p. 158). Tra le opere più simili, e forse anch’esso un quadro “da stanza”, si veda anche un San Gerolamo e l’angelo (fig. 1), che conosco dalla sola fotografia e di cui ignoro dimensioni e ubicazione, non presente nella monografia di Donati del 1997 e forse a tutt’oggi inedito. Entrambi i dipinti dovrebbero potersi datare dopo il 1640, quando, senza più traccia alcuna del tardo manierismo del maestro Ansaldo, De Ferrari è capace di coniugare la lezione di Luciano Borzone, Gioacchino Assereto e anche di Van Dyck, con l’adozione di una tecnica di stesura molto delicata.
Non imparentato con gli altri pittori De Ferrari, deve il cognome al mestiere del padre Andrea, fabbro, in dialetto “ferré”. Nativo di Voltri, nell’immediato ponente di Genova come Andrea Ansaldo, diviene di questi allievo e ne sposa la nipote (figlia del fratello). La sua attività si svolge inizialmente per le comunità religiose di varie località della Liguria di Ponente, ma dopo il trasferimento a Genova (1634), lavora anche per il capoluogo, dove lascia soprattutto pale d’altare. Più rari i quadri “da stanza” e soprattutto le tele a soggetto profano, così come solo di recente ne è stata riscoperta l’attività ritrattistica non esplicitamente ricordata dalle fonti, ma che ben si addice al suo interesse per la fisiognomica, e in generale a quel naturalismo espressivo che gli deriva probabilmente anche dalla frequentazione dell’”accademia” in casa di Gio. Carlo Doria. Nel 1652 Onorato II Grimaldi Principe di Monaco gli conferisce, a nome di Luigi XIV, il titolo di Cavaliere dell’Ordine di San Michele. Inizia un rapporto con la corte monegasca che lo vede attivo come pittore e anche come intermediario per l’acquisto di opere d’arte sul mercato italiano.
Fig. 1. O. De Ferrari, San Gerolamo e l’angelo, misure e ubicazione ignote
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Cornelis De Wael (Anversa 1592 – Roma 1667)
Scaramuccia Olio su tela, cm 32 x 42,2 Novi Ligure (Al), collezione privata Inedito Lo storiografo genovese Raffaele Soprani, a cui dobbiamo molte delle notizie di prima mano sui pittori genovesi del Seicento, compresi i “forastieri che in Genova operarono”, ci informa della fortuna che il fiammingo Cornelis de Wael avrebbe ottenuto in Spagna per la fama di “virtuoso in far battaglie”. (R. Soprani, Le vite de' Pittori…., Genova 1674, p. 326). A lui si deve l’introduzione di questo specifico genere pittorico all’interno di un’ampia diffusione della pittura “di genere” che proprio i fiamminghi esportarono a Genova nella prima metà del secolo e del quale furono in loco stimati e ricercati protagonisti. Uso a dipingere scene di vita quotidiana, questo “bambocciante” fiammingo-genovese coglie anche battaglia di terra o di mare nei suoi momenti anche meno eroici; dove la lotta è condotta non dai “grandi” ma dalla popolazione minuta. Cornelis esegue grandi tele deco-
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rative, ma anche un gran numero di telette che, solitamente in serie, arredavano i salotti o gli ambienti secondari dei palazzi nobiliari di città come di villa. La bella qualità di questa piccola Scaramuccia, impone di assegnarne la piena autografia a Cornelis, altre volte uso a farsi assistere o a delegare in toto la bottega, proprio per l’esecuzione di opere, grandi o piccole che fossero, atte a soddisfare la moda da lui stesso inaugurata a Genova, per i soggetti “di genere”. Le figure sono ciascuna caratterizzata da un’espressione non stereotipata e il tratto leggero e veloce che definisce gli abiti è diligente e attento, pur nell’immediatezza del tocco, a creare una gran varietà di cromie sulla base ocra e argentea che caratterizza le opere di De Wael. Pur essendo molto difficile datare le opere di Cornelis de Wael, è possibile ipotizzare una datazione alla seconda metà degli anni Venti; un momento prossimo all’arrivo del pittore a Genova e soprattutto alla guerra della Repubblica di Genova contro il ducato di Savoia (1625-26) che certamente diffuse maggiormente in abito locale il gusto per questi soggetti.
Figlio dell’incisore Jan e fratello minore di Lucas, Cornelis, nato ad Anversa, si reca con il fratello in Italia verso il 1610, facendo una prima sosta a Genova. Da qui prosegue per Roma ma rientra a Genova prima del 1616, anno in cui firma e data la pala di Sant’Eusebio. Nel 1619 Lucas affitta una casa in Genova, sede della cosiddetta “colonia fiamminga” di pittori che facevano sosta nella Superba per lavorare e che si appoggiavano alla casa-bottega dei connazionali (tra questi Antoon Van Dyck). Durante la guerra di Genova contro i Savoia, nel 1625-1626, Cornelis è a Roma e frequenta i Bamboccianti, ossia quei pittori di origine nordica, raccolti intorno alla figura leader di Pieter van Laer detto il Bamboccio, attivo a Roma tra il 1625 e il 1638, che si specializzano in pittura “minore” con scenette “di genere” tratta dalla vita quotidiana del tempo. Dal 1627, anno del ritorno in patria di Lucas, alla peste (1656/1657), Cornelis lavora continuativamente a Genova. L’ultimo decennio della sua attività si pone nuovamente nella capitale, dove muore nel 1667. Opera quasi esclusivamente per la committenza privata e per il libero mercato dipingendo scene di genere e battaglie marine e terrestri. La sua “bambocciata fiammingo-genovese”, evidentemente suggestionata dagli esempi degli Oltramontani conosciuti a Roma, è un unicum per Genova, dove la sua attivissima bottega sforna anche opere di seguaci e imitatori.
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Bartolomeo Guidobono, il Prete di Savona (Savona 1654 – Torino 1709)
Maddalena penitente Olio su tela, cm 80 x 58 Collezione privata Inedito Capolavoro della giovinezza di Bartolomeo Guidobono questa inedita Maddalena penitente viene ad aggiungersi al ricco catalogo del pittore ligure messo a punto di recente da Mary Newcome Schleier nella monografia che raccoglie le opere dei due fratelli pittori (Bartolomeo e Domenico Guidobono, Torino 2002). La evidente vena caraveggesca, con il gioco di luci che colpiscono trasversalmente la figura, ritagliata in uno spazio buio, illuminato da un lato, e la poesia che la dolcezza di questa giovane colta in un intimo momento di meditazione, fanno di questo quadro uno dei più intensi dipinti “da stanza” di Bartolomeo. Nato evidentemente per l’ammirazione di un collezionista privato e forse conservato in un ambiente riservato visto che la sensualità della figura forse prevale sulla sua sacralità, la Maddalena presenta tutte le caratteristiche stilistiche del Guidobono giovane, ma già nel pieno possesso delle sue capacità espressive.
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Dominano i bruni nello fondo scuro, da cui emerge la figura lievemente china in avanti secondo quell’effetto ricercato dal Prete di Savona, forse per ottenere un maggior coinvolgimento emotivo del riguardante e una sua più intima partecipazione. L’incarnato chiaro della giovane è parzialmente coperta da un drappo dal colore acceso che indica una diagonale nel quadro, come a voler scombinare i piani della visione. È inclinata, come a creare un certo senso di disorientamento, anche la roccia davanti alla Maddalena, secondo un espediente scenico sovente adottato dal pittore. Sul primo piano giacciono le perle della collana di cui si è spogliata la Maddalena, a indicare l’atto di pentimento, il vasetto con gli unguenti che richiama all’episodio del Vangelo in cui lava i piedi di Cristo, e il teschio, vero pezzo di bravura pittorica, simbolo di vanitas, ossia meditazione sulla morte e sulla transitorietà della nostra esistenza. La capacità del Prete di Savona di unire la sacralità del soggetto, del tema e della figura, con la sua profonda umanità, il suo turbamento, il timore, la tristezza e l’incertezza, fanno di questo saggio precoce del Guidobono una delle sue prove magistrali.
Dopo la carriera ecclesiastica, Bartolomeo esordisce come decoratore nel laboratorio del padre, titolare di una fabbrica di maioliche a Savona, loro città natale. Nel 1679-1680 esegue la sua prima opera nota da pittore autonomo (affreschi al santuario della Madonnetta di Savona). Nel 1680 è già a Genova, pagato per un lavoro da Rodolfo Brignole-Sale. I suoi viaggi di studio a Venezia e Parma, verosimilmente tra il 1680 e il 1685, spiegano in parte il suo distaccarsi dalla cultura figurativa dominante in ambito locale, specie quella di Domenico Piola, amico del padre e suo padrino di battesimo, verso una cultura più sofisticata e complessa. Bartolomeo è a Torino col fratello Domenico tra il 1684 circa (anno del bombardamento francese su Genova) e il 1689, e poi dal 1702 alla morte e rientra a pieno titolo anche nella storia del tardo barocco piemontese. La sua pittura elegante e preziosa, il suo rococò sui generis, lo collocano in una posizione eccentrica e del tutto particolare, con una sigla stilistica oggi ben riconoscibile, se si esclude l’insidioso problema della distinzione dal fratello Domenico, suo stretto collaboratore. Le sue opere si caratterizzano per una molteplicità di ricercati effetti luministici, non solo forti contrasti, ma anche sottili vibrazioni con effetti di grande suggestioni nell’adozione della luce artificiale; la pennellata è libera e per lo più corposa e densa, sebbene i panneggi si gonfino entro campiture spesso ben delimitate e nette. A livello compositivo predilige gli schemi scaleni, le asimmetrie e i forti scorci.
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Bartolomeo Guidobono, il Prete di Savona (Savona 1654 – Torino 1709)
Presepe Olio su tela, cm 71,3 x 61,5 Novi Ligure (Al), coll. Cesare Autera Inedito Nell’intimità buia della capanna si svolge la scena dell’adorazione dei pastori che, guidati dagli angeli, giungono a salutare il Salvatore. Il Bimbo è al centro della scena, illuminato da una luce intensa - e divina -, che lo rende Egli stesso fonte di una luce che da Lui, giunge a colpire il volto di Giuseppe, in primo piano a destra, e dei pastori, sulla sinistra. Questo inedito Presepe si aggiunge alle numerose opere note del Guidobono, raccolte nella monografia che gli dedica Mary Newcome Schleier (Bartolomeo e Domenico Guidobono, Torino 2002) e va annoverato tra le sue prove giovanili. Il soggetto è ricorrente nel catalo-
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go del pittore ligure e questa bella teletta per la devozione privata può essere paragonata all’ovale di collezione privata (fig. 1), per il quale la Newcome ravvisa giustamente un richiamo alle incisioni di Bartolomeo Biscaino e alle opere di Domenico Piola, numerose con questo stesso soggetto, ma in cui è anche evidente il rimando alla Notte del Correggio. Il pittore emiliano è un punto di riferimento costante per il savonese, ma soprattutto nelle opere giovanili è presente come fonte ispiratrice di quella grazia intima e profonda che in quadri come questi il Guidobono riesce a rendere. Altra fonte indiscutibilmente presente per i Presepi del savonese è la pala di San Luca che il Grechetto realizza per la chiesa gentilizia degli Spinola in San Luca a Genova nel 1645. L’opera dovrebbe datarsi entro il XVII secolo.
Fig. 1. B. Guidobono, Adorazione dei pastori/ La notte, cm 129 x 101, collezione privata
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Maestro asseretiano (Attivo in Liguria 1630-1650 circa)
Il ritrovamento di Mosè* Olio su tela, cm 97,5 x 123 Collezione privata Inedito *Opera non esposta in mostra Il dipinto è desunto da una tela nota di Giacchino Assereto (fig. 1), rispetto alla quale presenta alcune varianti in alcune tipologie facciali, generalmente meno aggraziate, e per la presenza di un adulto, invece che un bambino, sull’estremità destra della scena. Quella splendida opera mostra una narrazione – a più figure in sequenza ravvicinata - e un formato – orizzontale di dimensioni medie - che corrispondono a quelli delle opere maggiormente replicate e copiate non solo dagli allievi diretti, ma anche da altri, come ricordano le stesse fonti coeve: “V’era in Genova chi per mano d’altri Pittori facendo ricavar molte copie dagli originali, andavale mandando con suo gand’utile in quella città (Siviglia) e ve ne cavò grossa somma di contante” (R. Soprani, Le vite de' Pittori…, Genova 1674, p. 172). Una sorta di commercio di falsi che sfruttava la fortunata formula messa a punto dall’Assereto, di una narrazione piana, dal naturalismo convincente, con figure grandi, di tre quarti.
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Nonostante i tentativi della critica di individuare, sulla scorta di dati certi inesistenti, non solo il nome degli allievi e dei seguaci, quanto di opere a loro riferibili con certezza, il problema dei “maestri asseretiani”, tra i quali rientra anche l’autore del Ritrovamento di Mosé qui illustrato, è questione ancora aperta. Il gruppo più convincente è quello del cosiddetto Maestro di Monticelli d’Ongina (dalla località che conserva due suoi quadri), secondo la ricostruzione critica avviata da Angela Acordon, proseguita da chi scrive e poi da Tiziana Zennaro. Quest’ultima dedica al problema un intero volume (Gioacchino Assereto e i pittori della sua scuola, Soncino 2010, II), e tenta una divisione in gruppi non del tutto convincente, ma piuttosto caotica con una distinzione tra allievi diversi, imitatori, seguaci, copie eccetera, non ancora risolutiva anche perché la studiosa, qui come per alcune opere autografe dell’Assereto che impropriamente scarta, si trova a commentare dipinti di cui non ha preso visione diretta, ma che analizza dalle sole fotografie. Precisata questa questione metodologica, converrà attendere qualche certezza prima di insistere nel voler dare nomi ai tanti seguaci che come questo, emulano la grande arte dell’Assereto.
Fig. 1. G. Assereto, Il ritrovamento di Mosè, cm 156,7 x 193,8 , già Londra, Sotheby’s, 7-7-2005, lotto 35
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Vincenzo Malò (Cambrai 1606/07 ca. - Roma 1650 ca.)
Baccanale Olio su tela, cm 111 x 164 Collezione privata Inedito L'opera si ispira ad alcuni dipinti a soggetto bacchico di Pietro Paolo Rubens: il grande Sileno ebbro conservato alla Alte Pinakothek di Monaco di Baviera (cm 205 x 211) in cui, in una scena affollata, il corpo grasso di Sileno si trascina barcollante per il troppo vino; il Sileno ebbro sostenuto da satiri della National Gallery di Londra (cm 137 x 197); il Baccanale del Puskin di Mosca (cm 91 x 107). Sono tutti analogamente caratterizzati dalla presenza di figure di grandi dimensioni in una caotica composizione, che altro non vuole rendere se non il caos dei festini in onore di Bacco, in cui si mangiava e soprattutto si beveva in abbondanza. Nell’inventario delle opere trovate in casa di Rubens alla sua morte, nel 1640, compare “un Bacco con una tazza in mano” identificato da Michael Jaffe con l’opera oggi all’Ermitage (cm 191x161,3). Qui, Sileno, ha una postura non molto diversa da quella del quadro qui esposto. Tutte queste opere, e altre simili del
ricco catalogo del prolifico maestro fiammingo, furono d’ispirazione per i suoi allievi diretti, come per le generazioni a venire. Tra coloro che frequentarono la sua bottega ad Anversa e ne appresero il mestiere sappiamo esserci stato Vincenzo Malò, pittore che poi ha una certa fortuna a Genova, proprio come divulgatore della maniera rubensiana, dopo il fugace passaggio dello stesso Rubens a Genova all’inizio del secolo. Sulla base di alcune opere documentate o siglate è stato possibile ricostruire la fisionomia artistica del Malò, con uno stile a cui questo inedito sembra corrispondere. Scuro in molte parti e consunto nei bruni, il dipinto mostra alcuni passaggi tipici del Malò, come l’alternanza di una pittura a corpo, più densa, con altri dalla stesura più leggera. Tra le fisionomie più convincenti per l’assegnazione al Malò è certamente quella femminile accanto a Sileno. Per un confronto con un’opera simile, che reca la data 1625, già assegnata al Malò, si veda il Baccanale di collezione privata milanese (fig. 1): un fregio diviso in due parti, che nella tela di sinistra mostra figure del tutto simili (cfr. A. Orlando, Anton Maria Vassallo, Genova 1999, p. 13, fig. 1).
Le poche notizie su questo allievo di Rubens tramandate dalle fonti hanno generato alcune confusioni in sede critica che negli ultimi anni si stanno risolvendo verso una migliore definizione della sua personalità artistica, sulla base di un’opera documentata e alcuni dipinti siglati. Nativo di Cambrai, nell’estremo nord della Francia ai confini con l’attuale Belgio, Malò è registrato nella gilda, ossia la corporazione dei pittori, ad Anversa già nel 1623-24 e poi nuovamente nel 1629. In questo intervallo di tempo dovrebbe collocarsi il suo primo viaggio in Italia, con una tappa anche genovese durante la quale apre bottega e vi accoglie il genovese Anton Maria Vassallo. Nel 1634 il Malò non è più ad Anversa e quindi da questa data è probabile che risieda stabilmente a Genova, dove esegue un’opera pubblica (la pala con Sant’Ampelio per S. Stefano), e dove è attestato in un documento del 1637 (in cui si dichiara trentunenne). La lunga permanenza genovese del fiammingo lascia una traccia evidente nella pittura locale, soprattutto nell’opera del Vassallo, ma anche più in generale per il ruolo di divulgatore dei modi e dei temi rubensiani fin verso la metà del secolo.
Fig. 1. V. Malò, Trionfo di Bacco, cm 158 x 198, Milano, collezione privata
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Domenico Parodi (Genova 1670 – 1742)
L’infanzia di Bacco Olio su tela, cm 94 x 128 Siglato “DP” al centro (sulla brocca) Collezione privata Bibliografia: A. Orlando in Galleria Giamblanco Dipinti Antichi. Pittura italiana dal Seicento al Settecento: venti anni di attività, Torino 2013, pp. 66-67 Il dipinto è stato presentato per la prima volta dalla Galleria Giamblanco di Torino nel 2013, accompagnato in catalogo da una scheda critica di chi scrive, che, sulla base della presenza della sigla “DP”, ha argomentato l’attribuzione al pittore genovese Domenico Parodi, già peraltro evidente per i suoi caratteri di stile. La sigla è importante perché costituisce un punto fermo per la ricostruzione dell’opera del pittore, più noto come ritrattista, frescante o autore di pale d’altare a soggetto religioso, ma poco conosciuto finora per opere a soggetto profano a destinazione privata. Il suo biografo Carlo Giuseppe Ratti ricorda poche opere per privati, tra i quali va segnalata però, per affinità iconografica con l’opera qui studiata, la tela con “una carrozza
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con vaghissimi scherzi di puntini, che cosa preziosa fu reputata” per il Principe Andrea Doria (C.G. Ratti, Vite de' Pittori …, Genova 1769, p. 214). Questo baccanale di putti rimanda per soggetto anche all’affresco realizzato per Stefano Pallavicini in Strada Nuova, ossia nel Palazzo Nicolosio Lomellino ora proprietà Bruzzo in Via Garibaldi 7 a Genova. La decorazione, già menzionata dal Ratti, è tuttora esistente e splendida nella sua esuberanza compositiva e cromatica (cfr. Palazzo Nicolosio Lomellino di Strada Nuova a Genova, a cura di G. Bozzo, B. Merlano e M. Rabino, Milano 2004). Al centro della volta vi è Bacco che regge la corona di Arianna e tutt’intorno un gioire di putti. Un monocromo parietale illustra poi Bacco fanciullo a cavalcioni su una capra che richiama la nostra tela. Essa tuttavia non ha la stessa impronta neoclassica e dovrebbe essere precedente, forse databile ai primissimi anni del Settecento. Il nostro dipinto, come poche altre opere del Parodi, si avvicina, anche per il cromatismo, all’arte di Gregorio e Lorenzo De Ferrari, maestri del primo rococò in ambito ligure, riferimento imprescindibile per il giovane artista ai suoi esordi.
Figlio dello scultore barocco Filippo, non va confuso con l’omonimo Domenico Parodi (1668-1740), ossia lo scultore che sposa una figlia di Domenico Piola. Il nostro, dopo l’apprendistato nella bottega paterna, fa un viaggio di studio a Venezia, dove va a bottega da Sebastiano Bombelli (entro il 1694), e poi a Roma, dove studia con Carlo Maratta. Rientrato a Genova allo scadere del secolo, partecipa al concorso del 1700 per Palazzo Ducale e diviene titolare della bottega di famiglia alla morte del padre (1702). È scultore, frescante e pittore ritrattista. Nella sua produzione genovese, oltre agli affreschi, restano alcune opere religiose e soprattutto ritratti. Qui le vaghe ascendenze della formazione veneziana e romana si innescano su un tessuto di tradizione locale, e in particolare sui fortunati schemi del Mulinaretto, di poco più anziano di lui. Dal Mulinaretto, sotto il cui nome sono passati e tuttora passano molti suoi ritratti, il Parodi si distingue perché il suo tratto è più disegnativo e calligrafico; le espressioni dei suoi visi generalmente più astratte e trasognate; le tinte sono spesso tendenti al pastello. Rispetto al terzo ritrattista noto di quest’epoca, Gio. Enrico Vaymer, poi, è dotato di minor realismo e l’impostazione dei suoi ritratti è sempre più convenzionale. Il suo stile, oramai ben riconoscibile, rimane costante nel corso degli anni. Molto più rari rispetto ai ritratti sono i dipinti a soggetto storico, allegorico o sacro.
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Domenico Piola e Stefano Camogli, detto il Camoglino (Genova 1628-1703; Genova 1610 ca. – 1690)
Putto entro ghirlanda di frutti Olio su tela, cm 127 x 97 Collezione privata Inedito Un putto, forse Gesù Bambino, siede su un drappo blu e coglie una ciliegia, frutto paradisiaco, da una folta ghirlanda. Ha in mano una pesca, con una foglia attaccata al picciolo, considerata un richiamo al cuore e alla lingua, e quindi traslato in simbolo di verità. Nella ricca cornice vediamo anche prugne, melograni, uva bianca e nera, pesche, fiori di papavero e fichi. Alcuni di questi frutti hanno un significato simbolico: il melograno allude alla fertilità; l’uva è simbolo cristologico; il fico rimanda al concetto di peccato, perché Adamo ed Eva dopo aver trasgredito si coprirono le nudità con una foglia di fico. Ai simboli si somma il gusto decorativo di un’opera dove il bimbo è riconducibile al pennello di Domenico Piola, mentre l’ampio brano di natura morta si deve alla maestria di Stefano Camogli, qui alle prese con un vero capolavoro di natura morta. Egli si basa sui modelli studiati e imitati fin da quando era nella bottega del fiammingo Jan Roos. Rispetto al maestro fiammingo, il suo modo di dipingere
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è però più deciso e basato su tonalità più forti e più calde. Le collaborazioni del Camogli con il cognato Piola non si esauriscono negli inserti di natura nelle grandi scene istoriate in cui il Piola realizza le figure. Si conoscono infatti molte ghirlande di fiori, talvolta anche con frutti, che occupano la parte predominante della tela e che ospitano all’interno una figura di Domenico: una Maddalena, un Salvator Mundi, un san Giovannino o un putto addormentato. In precedenti studi sulla natura morta fiammingo-genovese ne ho pubblicato diverse ghirlande, a conferma della grande fortuna del genere presso la committenza genovese (I fiori del Barocco. Pittura a Genova dal naturalismo al rococò, a cura di A. Orlando, Cinisello Balsamo 2006, pp. 186197; A. Orlando, Dipinti genovesi dal Cinquecento al Settecento. Ritrovamenti dal collezionismo privato, Torino 2010, pp. 58-62 e Pittura fiammingo-genovese. Nature morte, ritratti e paesaggi del Seicento e del primo Settecento. Ritrovamenti dal collezionismo privato, Torino 2012, pp. 24-26). La cornice variopinta rende gradevole l’immagine puramente devozionale, con una soluzione che nella sua commistione di sacro e profano si rivela tipica della stagione del barocco.
Domenico Piola è il protagonista del rinnovamento della pittura genovese in direzione barocca dopo la peste del 1656-57. Allievo di Valerio Castello, al quale è fortemente debitore per le opere della fine degli anni Quaranta - inizi anni Cinquanta, nel 1659, dopo la morte del maestro, mette a punto una maniera tutta sua, fondata sul recupero del fondamento del disegno come supporto nell’iter creativo, ma anche come elemento strutturante. Le forme sono via via più sode, la pennellata più corposa e le campiture più nette. All’abbondante produzione di affreschi conduce la bottega più importante in città contendendosi le maggiori commesse con quella dei Carlone -, alterna l’esecuzione di innumerevoli pale altare (con molti aiuti soprattutto verso la fine degli anni Settanta) e di eleganti quadri da stanza. Nel 1684, poco dopo il bombardamento francese su Genova, Domenico intraprende un viaggio nel nord Italia con tre allievi, i figli Anton Maria e Paolo Gerolamo e Rolando Marchelli. Le tappe sono Milano, Bologna, Bergamo, Venezia, Parma, Piacenza (1685) e Asti. Tra i suoi collaboratori va ricordato anche Stefano Camogli, il Camoglino, marito di sua sorella Angiola, spesso autore dei brani floreali e di natura morta nei suoi dipinti a partire dalla fine degli anni Quaranta. Egli si forma però con il fiammingo Jan Roos, con il quale probabilmente collabora negli anni Trenta, specializzandosi come pittore di fiori (“fiorante”) e di nature morte (“naturamortista”).
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Paolo Gerolamo Piola (Genova 1660 – 1724)
Allegoria della Vittoria Olio su tela, cm 145 x 121 Collezione privata Inedito Una splendida figura di giovane donna si mostra fiera al riguardante. Ha un diadema sul capo e grande ali. Reca una lancia nella sinistra e regge un globo con la destra. Un angioletto le porta una palma e un altro, in primo piano, le porge una corona di alloro. Il complesso tessuto allegorico di questo dipinto rimanda alla figura della Vittoria. Era l’inviata degli dei, una sorta di angelo che scendeva in terra per incoronare il vincitore di una gara o di un combattimento. Al trionfo in guerra allude la lancia, alla gloria ottenuta alludono la corona di alloro e la palma, mentre il globo indica la sovranità sul mondo. La bella figura è ben riconoscibile come generata dal pennello di Paolo Gerolamo Piola, figlio e allievo di Domenico, al quale rimanda la tipologia dei due putti, eseguiti sul modelli dei tanti con cui Domenico
amava affollare le sue scene istoriate, sacre o profane. Il volto della dea, dall’espressione fiera ma al contempo dolce, è tipico di Paolo Gerolamo. Basti guardare, per un solo confronto, la Fanciulla di collezione privata (fig. 1), forse un ritratto allegorico o forse personificazione della Fortezza, per la presenza della colonna simbolo di solidità sulla sinistra (cfr. A. Orlando, Pittura fiammingo-genovese. Nature morte, ritratti e paesaggi del Seicento e del primo Settecento. Ritrovamenti dal collezionismo privato, Torino 2012, pp. 114-115, con bibliografia precedente). Per essere certi della lettura corretta sul significato di quella immagine bisognerebbe conoscere il suo contesto d’origine, cioè la committenza o se era accostato ad altri dipinti che ne completavano il significato. Questo vale in parte anche per l’Allegoria della Vittoria che qui si presenta, perché poteva essere parte di una serie di sovrapporte con illustrate altre allegorie, come accade in diversi casi di saloni in palazzi aristocratici, secondo le descrizioni antiche o come si vede in alcuni rari casi ancora conservati come in origine.
Tra i figli pittori di Domenico, Paolo Gerolamo è certamente il più dotato. Collabora ben presto con il padre salendo già nei primi anni Ottanta sui ponteggi dei numerosi cantieri d’affresco. Nel 1684-85 è con il padre, col fratello Anton Maria e col collega Rolando Marchelli nel nord Italia (Milano, Bologna, Bergamo, Venezia, Parma, Piacenza e Asti). Alla fine degli anni Ottanta esegue per suo conto l’affresco della galleria Brignole (oggi Palazzo Rosso; pagato nel 1689). Il viaggio a Roma si colloca tra il 1690 e il 1694 circa: qui lavora nella bottega di Carlo Maratta, osserva le novità anche luministiche di Giovanni Battista Gaulli ed esegue copie da opere di Maratta come di altri maestri. Al ritorno da Roma acquisisce importanti commesse sia pubbliche che private, sostituendo gradualmente il padre anziano nella conduzione della bottega. Nella maturità si vede la sua peculiare sigla stilistica, ancora debitrice della maniera del padre, ma permeata di classicismo e caratterizzata da una pennellata ancor più costruita e salda nel confine del disegno. Le fisionomie dei protagonisti delle sue tele, con gli occhi tondi e spesso sgranati verso il riguardante, aiutano a distinguerlo da Domenico.
Fig. 1. P.G. Piola, Fanciulla, cm 100 x 85, collezione privata
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Pietro Paolo Raggi (Genova 1637 ? – Bergamo 1711)
Baccanale di putti Olio su tela, cm 131 x 104 Collezione privata Inedito Pietro Paolo Raggi attende ancora uno studio sistematico che ne illustri l’opera complessa e caratterizzata da alternanze stilistiche e di gusto che solo in parte si giustificano con la sua longevità e la sua attività in diverse città della Penisola. Uno studio recente di Maurizio Romanengo ha precisato alcuni dati biografici e meglio inquadrato un capitolo del suo catalogo, relativo alle tante opere aventi come soggetto la storia romana (M. Romanengo, Pietro Paolo Raggi Pittore senza patria: appunti sulla cronologia e sulla produzione di dipinti a soggetto romano, in “Argomenti di Storia dell’Arte”, 3, 2013, pp. 91101), mentre Mary Newcome aveva pubblicato alcune opere giovanili evidenziandone il rapporto con il Grechetto (M. Newcome Schleier, Pietro Paolo Raggi’s paintings inspired by Castiglione, in Mélanges en hommage à Pierre Rosenberg, Parigi 2001, pp. 356-362). Proprio facendo riferimento ad alcune delle opere pubblicate dalla Newcome è possibile attribuire
al Raggi questo inedito baccanale, dalla pellicola pittorica abbastanza consunta e con un accentuato contrasto chiaroscurale di matrice neo-caravaggesca, tale da ritagliare le sagome dei putti dallo sfondo. Essi restano tuttavia leggibili, con le loro fisionomie tipiche e le altrettanto tipiche posture sgraziate e sghembe, proprio nei modi del Raggi. Oltre al Baccanale di collezione privata illustrato dalla Newcome (cit., fig. 3) - una scena istoriata più complessa del nostro con più figure inserite in un paesaggio - , si vedano anche l’aggrovigliarsi di figure nel dipinto con Baccanti e satiri del Musée des Beaux-Arts di Bordeaux (Newcome Schleier 2001 cit., fig. 4), oppure la complessa impaginazione scenica, con il sovrapporsi dei piani e delle figure sugli stessi, nella grande tela con Il sacrificio di Ifigenia che qui si illustra a confronto (fig. 1; Sotheby’s New York, 28-1-1999, lotto 298). Questo inedito Baccanale di putti, con un’immagine che tralascia l’aspetto narrativo per dare più rilievo alle sole figure, potrebbe essere letto più generalmente come Allegoria della Lussuria, significato a cui rimandano la capretta, antico simbolo di lascivia, ma comunque sempre associata al culto di Bacco.
Pietro Paolo Raggi è un artista assai longevo, ma la cui data di nascita resta ancora incerta (cfr. Romanengo 2013, cit.). La sua attività di pittore itinerante lo mette in contatto con diverse scuole pittoriche e ne fa un artista abbastanza eclettico. Lavora inizialmente in Liguria (Genova, Lavagna, Porto Maurizio, San Remo e Savona), poi in Piemonte (Torino, circa 1682-1686) e a Bergamo (dal 1690 circa). È inizialmente influenzato dal Grechetto, come si evince dalle sue opere giovanili con soggetti come paesaggi con viaggi biblici e baccanali. Nella sua prima maturità dovrebbe aver realizzato le tele a destinazione privata dove predilige riprese più ravvicinate di figure grandi, disposte in progressione orizzontale in uno svolgimento piano del discorso, secondo la più tipica tradizione del naturalismo locale, che da Gioacchino Assereto giunge fino a Stefano Magnasco, attraversando i decenni centrali del secolo. In questa fase si fa evidente anche il “neocaravaggismo” con certe affinità con quello dei due fratelli Guidobono, gli altri liguri trasferitisi anch’essi in Piemonte nei medesimi anni. Con gli anni Ottanta, quando opera a Torino e poi a Bergamo, le composizioni si fanno più complesse, scalene fino alla bizzarria.
Fig. 1. P.P. Raggi, Il sacrificio di Ifigenia, cm 173 x 228, già New York, Sotheby’s, 1999
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Jan Roos, detto Giovanni Rosa (Anversa 1591 – Genova 1638)
Natura morta con fiori e falena (Vanitas) Olio su tela, cm 72 x 98 Collezione privata Inedito Su un piano che pare di marmo antico poggiano un vaso di fiori, un piatto con fragoline di bosco e alcuni frutti. Il tripudio floreale si staglia sul fondo scuro, quasi di notte. Sono rose, tulipani, garofani, gelsomini e narcisi, peonie, boule de neige, una calendula gialla, in un mix di forme e colori che conferiscono al dipinto tutta la valenza decorativa che garantì la fortuna di questo genere di opere. Eppure, a ben guardare, se ne può cogliere un più profondo significato simbolico. Alcune piccole farfalle svolazzano tra i fiori; in primo piano c’è una falena e sulla sinistra un bruco. Questi elementi sottendono un significato di vanitas, che in latino significa vacuità. Il dipinto è dunque un monito a meditare sulla caducità delle cose terrene e sulla transitorietà della vita umana: un fiore reciso vive poco più di un giorno, come la farfalla; il bruco, la falena e le farfalle richiamano le fasi dell’esistenza – vita terrena, morte e resurrezione –, e suggeriscono una
chiave di lettura anche sacra. Le ciliegie e le fragoline di bosco, per la loro dolcezza, sono un rimando al Paradiso, e la foglia di vite in primo piano può rimandare al tema del peccato. L’autore va riconosciuto nel fiammingo Jan Roos, specialista in questo genere di composizioni. Tra i tanti confronti possibili si veda la Natura morta come allegoria della vita (e della Passione e Resurrezione) di collezione privata (fig. 1), anch’esso dalla simbologia complessa (cfr. A. Orlando in I fiori del Barocco. Pittura a Genova dal naturalismo al rococò, Cinisello Balsamo 2006, n. 102, pp. 278-279). Non sfugga un dettaglio interessante: il vaso e la coppa, come pure l’altra coppa nel dipinto a confronto (fig. 1), apparentemente pezzi di porcellana di Delft, sono più probabilmente maioliche di Savona o Albisola. La tipica decorazione bianco-blu detta “calligrafico-naturalistica”, con motivi floreali e vegetali tra i quali è frequente la presenza di uccelli, è qui diffusa nella prima metà del Seicento. La loro presenza nelle composizioni è un forte indizio per la loro realizzazione in Italia e non nelle Fiandre, e la datazione intorno al 1630 per il dipinto (Jan Roos muore nel 1638), funziona anche con l’epoca delle maioliche.
Nasce ad Anversa, dove si forma come pittore alla bottega di Jan de Wael, padre di Lucas e Cornelis che come il Roos si trasferiscono in Italia. La sua attività come esperto di natura morta inizia con l’insegnamento di Frans Snyders, nel cui atelier entra intorno al 1610. Nel 1614 intraprende il viaggio in Italia: si reca due anni a Roma e poi, nel 1616, giunge a Genova con l’intenzione di partire presto. La quantità di lavoro che gli viene offerto lo fa restare in città, dove nel 1631 sposa una ragazza del luogo e dove apre la più importante bottega, attiva ininterrottamente e con successo fino all’anno della sua morte, nel 1638. Collabora con diversi artisti genovesi e con Van Dyck nei suoi soggiorni a Genova (1621 e 1625-1627), chiama a lavorare con sé il cognato Giacomo Legi, specialista di natura morta, e forma un pittore locale, Stefano Camogli, rendendolo il più importante “fiorante” genovese. Jan Roos è anche ritrattista mirabile, e pittore di storie bibliche o mitologiche, ma la sua abilità nell’eseguire nature morte sui modelli dello Snyders è forse il contributo più significativo che egli dà alla cultura pittorica locale, definita anche per il suo specifico imprinting, “fiammingo-genovese”.
Fig. 1. J. Roos, Natura morta come allegoria della vita (e della Passione e Resurrezione), cm 85 x 113, collezione privata
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Sinibaldo Scorza (Voltaggio, Al 1589 – Genova 1631)
Paese nella campagna innevata Olio su tela, cm 106 x 134 Collezione privata Inedito I paesaggi di Sinibaldo Scorza sono ispirati a suoi luoghi natii. La sua Voltaggio, sull’Appennino Ligure-Piemontese, allora parte della Repubblica di Genova, è alla base di molte sue opere, dove gli elementi tratti dal vero sono poi rielaborati con inserti di fantasia o citazioni di opere di altri artisti. Egli studiava infatti i pittori nordici e utilizzava le stampe, che iniziavano a circolare abbondantemente e che sappiamo essere collezionate dal suo maestro a Genova, Giovanni Battista Paggi, come fonte per inserire alcuni dettagli nelle sue composizioni. Uno studioso straniero ha potuto brillantemente dimostrare, per esempio, che singole figurine o gruppi di animali dei disegni dello Scorza sono trascritti da opere del fiammingo Jan Wildens (J. K. Ostrowski, Studi sui disegni di Sinibaldo Scorza al museo Czartoryski di Cracovia: serie di “Allegorie dei mesi”, in Disegni genovesi dal Cinquecento al Settecento. Giornate di studio 9-10 maggio 1989, Kunsthistorisches Institut in Florenz, Firenze 1992, pp.
117-161). Al di là di un aspetto decisamente nordicizzante, tanto che in passato alcuni suoi quadri sono stati riferiti ai fratelli De Wael, suoi contemporanei a Genova, i paesaggi dello Scorza contengono sempre un’architettura, uno scorcio, un’atmosfera generale di sapore nostrano. Sia nelle grandi che nelle piccole dimensioni, la poetica dello Scorza si mantiene costante, ben ancorata a una visione incantata della vita di campagna, nella serenità di un rapporto positivo con la natura. Il suo ritratto idealizzato del mondo campestre è sempre idilliaco, come trasognato, e i suoi bellissimo paesaggi somigliano a mondi fiabeschi. Per confronti convincenti che consentono di riferire questo splendido inedito al suo pennello si vedano le recenti pubblicazioni che approfondiscono il capitolo dello Scorza paesaggista, con molte opere davvero prossime a questa (fig. 1; cfr. A. Orlando in I fiori del barocco. Pittura a Genova dal naturalismo al rococò, Cinisello Balsamo 2006 e A. Orlando, Pittura fiammingo-genovese. Nature morte, ritratti e paesaggi del Seicento e primo Settecento. Ritrovamenti dal collezionismo privato, Torino 2012, pp. 134-135)
Nato in seno a una famiglia aristocratica di Voltaggio, nell’Alessandrino, nella campagna tra Liguria e Piemonte, Sinibaldo si trasferisce a Genova nel 1604, quando entra nella bottega Giovanni Battista Paggi, il pittore allora più rinomato in città. Dopo aver conosciuto il poeta Giovanni Battista Marino, si sposta a Torino, dove risiede e lavora per i Savoia dal 1619 al 1625. Rientra a Genova nel 1625, ma viene accusato di tradimento politico ed è dunque esiliato a Massa; da lì si trasferisce a Roma dove rimane tra il 1626 e il 1627, durante la guerra tra Genova e i Savoia. Fa ritorno a Genova all’inizio del 1627 e lavora fino alla morte come pittore e miniatore di successo, tanto che verrà tassato di una somma ingente rispetto ai suoi colleghi per la costruzione delle nuove mura della città nel 1630. Va indicato come uno dei primi pittori attivi in Liguria nel campo della pittura di genere e di paesaggio, con particolare attenzione per i soggetti con animali che, dopo di lui, diverranno una tematica frequente e molto caratteristica della scuola genovese del Seicento.
Fig. 1. S. Scorza, La nevicata, cm 66,5 x 93, collezione privata
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Sinibaldo Scorza (Voltaggio, Al 1589 – Genova 1631)
Albero con grande pavone e altri uccelli Olio su tela, cm 224,5 x 80 Novi Ligure (Al), collezione privata Bibliografia: A. Orlando, Pittura fiammingo-genovese. Nature morte, ritratti e paesaggi del Seicento e primo Settecento. Ritrovamenti dal collezionismo privato, Torino 2012, p. 133 Annoverato tra i cosiddetti “animalisti” genovesi insieme a Gio. Benedetto Castiglione detto il Grechetto e Anton Maria Vassallo, lo Scorza si distingue per uno stile tutto suo, vicino a quello del Castiglione, ma sempre accompagnato da una visione incantata della realtà. Lo Scorza è meno “filosofo” e guarda la natura con la curiosità di chi la ama, non con l’ansia di chi ne deve scoprire i misteri. Il risultato è un’opera pittorica più descrittiva, la quale, unita a un’abilità tecnica e a una diligenza da miniatore, quale infatti era, giunge a esiti di straordinaria fedeltà al vero. Questa splendida composizione, singolare per formato e impostazione scenica, mostra tutte le suggestioni che il pittore subisce dai suoi contemporanei: da Antonio Travi nella parte di paesaggio; dal fiammingo Jan
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Roos e dal Grechetto l'idea di sovradimensionare gli animali in primo piano con una sorta di ribaltamento prospettico intrigante; dal Castiglione, ancora, la minuzia descrittiva, per esempio nel pelame degli animali, ma anche la vivacità del loro sguardo. Il formato insolito di questo quadro dovrebbe potersi spiegare con una sua probabile collocazione originaria tra le grandi finestre di un salone ed è probabile che fosse in serie con altri analoghi all’interno di un più articolato apparato decorativo. Mentre una tartaruga volge lo sguardo verso di noi, con una trovata singolare del pittore, la scena è decisamente dominata dal grande pavone, con le piume di un blu intenso nel collo e una lunga coda che si accende con numerosi “occhi”. Sui rami in basso poggiano altre specie di uccelli, mentre alcuni volano nella parte alta della composizione. A dimostrare lo studio attento di ogni specie da parte dello Scorza possono essere utili i confronti con due acquerelli inediti provenienti dalla nota collezione dello scultore Santo Varni (1807-1885); uno dei due indica la sua attribuzione, pienamente condivisibile, proprio a Sinibaldo (figg. 1 e 2).
Figg. 1 e 2. S. Scorza, Studio per uccellini in volo e Studio per upupa, acquerello su carta, mm 260x270 ciascuno, collezione privata
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Finito di stampare nel maggio 2015