Master Drawings 2010

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catalogo a cura di Anna Orlando presentazione di Piero Boccardo testi di Teresa Barone Francesca Bottacin Cristina Geddo Federico Giannini Fabrizio Magani Fernando Mazzocca Anna Orlando Francesca Romei Annalisa Scarpa Nicola Spinosa Maurizio Zecchini


Un ringraziamento speciale a Giulia. Questa mostra non sarebbe mai nata senza il suo costante incoraggiamento e il suo insostituibile supporto m.s. Matteo Salamon e Anna Orlando ringraziano inoltre gli studiosi, colleghi e amici che hanno contribuito alla preparazione di mostra e catalogo e allo studio delle opere pubblicate, e in particolare: Galleria W. Apolloni, Daniele Benati, Jonathan Bober, Giulio Bora, Fernanda Capobianco, Marzia Faietti, Gino Franchi, Francesco Frangi, Alessandro Galli, Christian Lapeyre, Michelangelo Lupo, Clare Mahon, Marco Medici, Nancy Ward Neilson, Flavia Pesci, Marco Riccomini, Cristiana Romalli, Silverio Salamon, Timothy J. Standring, Anchise Tempestini.

Š Salamon & Co, MMX Catalogo edito in 600 copie, stampato a quattro colori offset su carta GardaMatt Art da gr. 170 al m2. Grafica: Salamon, Milano Copertina: Gino Franchi, Londra Stampa: Viol’Art Firenze Tutti i diritti sono riservati, nessuna parte della presente pubblicazione può essere riprodotta, archiviata, stampata, registrata con qualunque mezzo, o trasmessa in qualunque forma, elettronica, meccanica, fotocopiata, senza la nostra autorizzazione.


Presentazione Utilizzati abitualmente come sinonimi, “raccogliere” e “collezionare” hanno differenti sfumature in rapporto alla loro etimologia: raccogliere, composto da una r sintomatica di un’azione reiterata e da accogliere, dà l’idea di un processo formativo di una raccolta determinato dalle evenienze, quasi che i pezzi che la costituiscono fossero stati incontrati e acquisiti, ovvero appunto accolti, quasi per caso, forse secondando il destino; collezionare per contro, pur derivando dal latino colligere, che significa comunque raccogliere, rende di più il senso dell’attenzione e della cura con cui l’amatore cerca e seleziona ciò che è più adatto ad arricchire la propria collezione. In realtà, dietro uno scelto gruppo di opere grafiche come quello presentato in questo catalogo, si riscontrano entrambe le situazioni: per ottenere alcuni fogli è stato necessario impegnarsi nella ricerca, altri sono capitati imprevisti, ma apprezzandone i pregi, uniti a quelli già posseduti. Procedendo con questa sensibilità e disposizione d’animo, non è nemmeno necessario che i pezzi di una collezione siano riconducibili a un ordine o un criterio circoscritto: la varietà, quando supportata da un buon livello qualitativo, può permettersi di prescindere da ambiti culturali o temi specifici, tanto più che, come ha teorizzato Jean Baudrillard, ogni singolo oggetto - in questo caso disegno - vede ridotta la sua funzionalità originaria sostituita da un insieme di valori differenti (di carattere sociologico, storico, culturale o scientifico) che vengono determinati dalle relazioni con gli altri oggetti della collezione stessa, secondo criteri soggettivi di colui che l’ha riunita. Il “sistema di oggetti” così determinato è comunque indicativo della personalità del collezionista, sicché è pur sempre importante attribuirgli il merito di aver voluto acquisire un interessante foglio che attesta la fortuna delle invenzioni di Giulio Romano (cat. 1), prima che se ne ricostruisse la relazione col decoro di una sala del Palazzo Ducale di Mantova, o quello di Solimena (cat. 14) indipendentemente dal rapporto con un suo dipinto oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna; e se più facile e quasi impulsiva può essere stata la scelta del Cambiaso e del Ghezzi (catt. 5 e 17), tanto sono caratteristici dei due autori, altrettanto significativa nel riflettere la psicologia dell’artefice della raccolta risulta la presenza del grande Panorama di Napoli di Antonio Senape (cat. 28), come del più piccolo Caffi (cat. 30) da cui traspare una eloquente vena esotica, ancorché il soggetto, a dispetto della scritta apparentemente coeva, sia egiziano e non turco. Ma il carattere precipuo del collezionista emerge ancor più da un dato di fatto per nulla scontato: dopo aver desiderati e acquisiti questi disegni, ovvero averli amati, alla fine ha deciso di metterli a disposizione di tutti, scegliendo non solo di esporli, ma anche di documentarli in un catalogo ove le singole schede sono state redatte da studiosi di rinomata competenza. L’unico limite del catalogo è che fornisce un’immagine statica, finita e quasi consolidata di una collezione che, come tale, non può essere invece che in divenire: così come alcuni disegni ne sono entrati a far parte da tempo e altri solo di recente, analogamente in futuro nuovi disegni verranno raccolti e collezionati, forse prendendo il posto di quelli nel frattempo ceduti.

Piero Boccardo Direttore deli Musei di Strada Nuova e del Gabinetto Disegni e Stampe di Palazzo Rosso



Catalogo delle Opere


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Maestro Mantovano (1550 circa)

Laocoonte Tenta di Salvare i Figli dai Serpenti Marini penna, pennello e inchiostro bruno, rialzi in biacca, mm 361 × 530 Provenienza: Collezione Dubini, Hoepli Laocoonte, sacerdote di Apollo, temendo che il cavallo di legno fosse uno stratagemma ordito dagli Achei per entrare nelle mura di Troia, si scaglia contro il congegno di Ulisse facendo risuonare il ventre cavo dell’animale con una lancia. Poseidone, favorevole alla parte greca, invia due serpenti marini che si avventano sui figli del veggente. Questi, nel tentativo di salvarli, viene anche lui stritolato nelle spire dei due mostri. Il prodigio risulta determinante agli occhi dei troiani affinchè il cavallo venga portato in città. Il racconto della morte di Laocoonte è noto dai versi di Virgilio (Eneide, II, 40-56, 195-227); nella scena del disegno qui presentato è descritto il momento culminante della vicenda: Laocoonte, armato di clava, sta per sferrare il colpo su uno dei serpenti che lo morde a un braccio e gli blocca una caviglia; i due figli, inermi, si rivolgono verso il padre cercando aiuto; in alto a destra troviamo Apollo sulla quadriga che osserva la fine del suo adepto; dalla parte opposta Poseidone guarda verso il mare il compiersi del prodigio e due astanti si tirano indietro sgomenti. Ancora sulla sinistra, agonizzante a terra, vi è il toro che Laocoonte si accingeva a sacrificare per evitare che i suoi concittadini cadessero nell’inganno dei Danai. Il foglio è una replica con varianti dell’affresco realizzato da Giulio Romano su una delle pareti lunghe della cosiddetta ‘sala di Troia’ in Palazzo Ducale a Mantova. Questa faceva parte dell’appartamento destinato ad accogliere il nuovo duca Federico II Gonzaga, figlio di Francesco II e Isabella d’Este. La decorazione dei nuovi ambienti impegnò Giulio, l’artista più celebre della corte mantovana da quando nel 1524 era arrivato in città, e i suoi allievi - si ricordano Agostino da Como, Rinaldo Mantovano, Luca da Faenza e Anselmo de’ Ganis - dal 1536 al 1540, anno della morte del duca Federico1. La sala di Troia, citata da Vasari già nella prima edizione delle Vite2, è uno dei capolavori dell’attività mantovana del pittore ed è l’unica stanza dell’appartamento a essersi conservata nella sua magnificenza. Nel riquadro con la Morte di Laocoonte, il gruppo del sacerdote e dei figli viene privato di quella sintesi che, a partire dal ritrovamento della celebre scultura romana nel 1506, aveva costituito una scelta formale pressocchè obbligata da parte degli artisti. L’articolazione della scena in senso paratattico rispondeva a una ragione descrittiva coerente peraltro con gli altri episodi illustrati sulle pareti della stanza. Rispetto all’affresco (per il quale va detto che al caposcuola viene assegnata l’invenzione, ma il compimento è opera degli allievi), nel foglio qui presentato cambia l’ambientazione. Innanzitutto la sequenza è più raccolta, manca quasi del tutto il dettaglio delle mura di Troia e la figura di Laocoonte si colloca su uno sperone roccioso di cui nell’affresco non vi è traccia; inoltre il profilo del mare, anziché percorrere trasversalmente la scena come avviene nel modello, è relegato in secondo piano al centro. Tali varianti, come anche il diverso panneggio dei manti sui cui poggiano a terra i figli, suggeriscono che questo disegno possa essere non una desunzione diretta dall’affresco, bensì da un modello terzo, forse un foglio proprio di Giulio Romano precedente all’esecuzione parietale, foglio di cui però, allo stato attuale degli studi, non abbiamo notizia. L’energia delle figure, nelle cui fisionomie manca quella componente correggesca che permeava l’indole formale dell’affresco, rimanda a un’interpretazione densa di michelangiolismo del testo realizzato da Giulio. Ferma restando quindi la prossimità cronologica con l’originale, mi sembra attendibile una collocazione poco oltre la metà del secolo, quando in tutta l’Italia padana, dalla Ferrara di Bastianino alla Lombardia di Lomazzo, l’adesione alla poetica del genio fiorentino diventa un marchio della nuova temperie artistica. Il bellissimo foglio qui commentato - riferibile entro i confini della ‘Lombardia’ in senso storico, ben diversi da quelli assai limitati della regione attualmente chiamata con questo nome - è dunque un documento importante di questo passaggio e come tale assume un valore autonomo rispetto all’originale da cui pure è tratto. Giulio Romano, Laocoonte e i suoi figli, Mantova, Palazzo Ducale

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Federico Giannini



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Maestro Emiliano (1620 circa)

Perseo e Medusa penna, pennello e inchiostro bruno su pergamena, mm 382 x 410

Perseo, figlio di Zeus e Danae, viene inviato con l’inganno dal tiranno di Serifo Polidette a uccidere Medusa, unica mortale delle tre Gorgoni. Armato dell’elmo di Plutone, che lo rendeva invisibile, del pugnale di Mercurio e dello scudo di Minerva coglie Medusa nel sonno e la decapita guardandone l’immagine riflessa dallo scudo per non restarne pietrificato. La favola di Perseo che uccide la Gorgone, già menzionata per sommi capi da Omero, Esiodo e Pindaro, è narrata nel suo svolgimento dal cosiddetto Pseudo Apollodoro nella Biblioteca (II, 4, 2). Nella scena descritta dal disegno qui presentato Mercurio e Minerva partecipano all’azione: il primo, con l’elmo alato e il caduceo, seguendo da vicino l’eroe; la seconda sorreggendo fisicamente lo scudo con il volto di Medusa riverberato. In realtà nel testo greco, premiato nondimeno da un continuo successo a partire dalla sua compilazione (I sec. d. C.), è solo Minerva ad accompagnare Perseo e a guidargli la mano nell’atto di colpire il mostro. Il disegno è una desunzione diretta, realizzata a non più di vent’anni di distanza dall’originale, dall’affresco eseguito da Annibale Carracci in una lunetta del ‘Camerino’ di Odoardo Farnese nel palazzo romano della dinastia1. Si tratta in particolare della scena collocata nel registro superiore della parete del lato lungo, proprio sopra la porta d’ingresso dell’ambiente e a sinistra dell’ovale con Ercole che sostiene il globo terrestre. La decorazione del Camerino, spazio privato del cardinal Odoardo, era destinata all’elogio della Virtù e alla sua vittoria sul Vizio, tema celebrativo del porporato, già dedicatario nel 1586 di un carme da parte dell’umanista padovano Antonio Quarenghi foggiato proprio su questo tema2. Come Ercole e Ulisse, gli altri protagonisti del programma decorativo ideato da Fulvio Orsini, bibliotecario di palazzo, Perseo, guidato da Minerva, diventa quindi il simbolo della razionalità che ha ragione dell’istinto e dello squilibrio. Rispetto all’affresco, nel disegno il brano paesistico alla sinistra di Minerva è appena accennato; l’azione dunque risulta più raccolta e il vigore della figura di Perseo è meno temperato da quei caratteri di classicismo che allo scadere del secolo Annibale Carracci aveva ormai recepito appieno. Proprio la robustezza delle fisionomie e la resa schietta delle ombre fanno propendere per assegnare la derivazione qui proposta all’ambiente degli ‘incamminati’ bolognesi, segnati dalla lezione, più che di Annibale, di suo cugino Ludovico. L’elezione al soglio pontificio nel 1621 di Alessandro Ludovisi, col nome di Gregorio XV, del resto aveva portato a un nuovo afflusso, dopo quello degli anni 1595-1600, di artisti emiliani a Roma, il più importante dei quali, reduce anche lui da un apprendistato presso la bottega lodovichiana, fu senza dubbio Guercino. Risulta quindi altamente attendibile l’ipotesi di inserire questo foglio nell’ambito degli studi che venivano tratti dai giovani maestri da quelli che, anche sulla scorta dei lusinghieri giudizi di Giovan Battista Agucchi e Giulio Mancini, erano considerati i testi più all’avanguardia dell’ultima stagione della ‘maniera moderna’. Il confronto con gli affreschi del Camerino e della Galleria di Palazzo Farnese, a non più di vent’anni dalla loro esecuzione, era ormai divenuto un passaggio irrinunciabile per gli artisti che intendevano perfezionare la formazione proprio a contatto dei nuovi ‘classici’. Federico Giannini Annibale Carracci, Perseo e Medusa, Roma, Camerino Farnese

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Avanzino Nucci (Città di Castello 1551 - † Roma 1629 )

Approvazione dell’Ordine dei Cappuccini penna, pennello e inchiostro bruno, rialzi in biacca su carta preparata, mm 317 x 207 In un ambiente voltato a crociera e scandito dalla successione di sei campate, un papa accoglie e benedice un gruppo di frati cappuccini; all’ingresso sulla destra un armigero si rivolge verso l’osservatore, mentre dalla parte opposta una donna, abbigliata classicamente, è disposta di spalle mentre discorre con altri astanti. L’abito dei frati, dai lunghi cappucci, li qualifica come cappuccini (si possono notare anche i profili delle barbe, lasciate crescere per marcare la loro prossimità con i monaci camaldolesi), mentre la fuga classica di pilastri e la foggia ‘classica’ tenuta nell’acconciarsi da parte delle figure laiche - il soldato e la donna - identificano l’ambientazione come una chiesa romana, nella fattispecie, vista la presenza del pontefice, la basilica di San Pietro che sembra ricostruita secondo il progetto di Raffaello, con i pilastri singoli e non accoppiati come poi nella pianta di Maderno. La scena descritta è quindi l’emanazione, da parte di Clemente VII Medici, della bolla Religionis zelus, con la quale il 3 luglio 1528 il papa approvava la formazione dell’ordine dei cappuccini. In realtà la bolla venne promulgata dal palazzo dei papi di Viterbo, poiché il pontefice si era lì rifugiato dopo il sacco di Roma dell’anno precedente. Fu la vicinanza a papa Clemente in quella fase della duchessa di Camerino Caterina Cybo, legata a sua volta a Matteo da Bascio, fondatore del primo gruppo di eremiti francescani, ad assicurare loro una protezione eccellente e quindi l’approvazione dell’ordine appena formato. Il disegno, preparatorio per un affresco o una grande pala d’impianto storico, si presenta quindi finalizzato al perfezionamento di una commissione importante da parte dei Frati Minori. La datazione del foglio alla fine del Cinquecento, ravvisabile dal punto di vista stilistico, lo lega peraltro a una fase di congiuntura storica particolarmente favorevole per l’ordine, diffuso in oltre 100 conventi in Italia e, dopo la concessione di insediamento da parte di un papa molto vicino alla congregazione come Gregorio XIII, a partire dal 1574 anche in Francia. L’ipotesi attributiva più attendibile per il foglio è quella che porta al pittore umbro Avanzino Nucci, attivo in patria, nelle Marche, a Roma e a Napoli. Dell’artista, particolarmente operoso sotto i pontificati di Sisto V e Clemente VIII, parla Baglione che ci presenta gli estremi cronologici della sua vita dicendo che “al primo gennaio 1629, morì in Roma di 77 anni”1. La data di nascita va quindi collocata nel 1551. Dalla nativa Città di Castello, Avanzino si mosse verso Roma al seguito del maestro Niccolò Circignani. Delle opere ricordate da Baglione a Roma, molte sono andate perdute; le superstiti come le lunette affrescate nella cappella di San Diego in Santa Maria d’Aracoeli e la pala del Battesimo di Costantino a San Silvestro al Quirinale attestano l’attività di un pittore tardo manierista, legato ai modelli di Circignani e del Cavalier d’Arpino e non troppo vivace nelle soluzioni compositive. Stesso discorso vale per le relativamente poche emergenze scaturite dal territorio marchigiano e umbro (nella Pinacoteca Comunale di Gualdo Tadino troviamo la sua unica opera firmata, un Miracolo di san Diego, già nella chiesa dell’Annunziata2). Assai più interessante, oltre che numericamente più corposa, è la sua produzione grafica: disegni di Avanzino arricchiscono i fondi dei maggiori musei del mondo, dal Louvre al British Museum, dal Prado alle biblioteche americane. Tipica dell’artista è la capacità di interpretare in senso moderno, con frequenti rialzi in biacca, soluzioni formali di primo Cinquecento, desunte da Raffaello e dagli allievi - ad Avanzino peraltro è stato convincentemente attribuito il cosiddetto ‘Album di Polidoro’, una raccolta di 61 disegni, oggi nella collezione Frits Lugt all’Istituto Olandese di Parigi, di facciate ed elementi decorativi di palazzi romani, attribuiti già a Polidoro da Caravaggio e poi riconosciuti come posteriori3. Sorprendente, nel foglio qui presentato, appare la contaminazione tra una forza espressiva ed una tenuta degna dei maestri d’inizio secolo nelle figure in primo piano e l’indole da ‘pittura riformata’ del gruppo dei frati. L’ambientazione, mutuata dalle grandi fughe prospettiche di Raffaello e Salviati, risponde già ad un intento di storicizzazione della maniera moderna, attraverso quel meccanismo introspettivo e circolare, già individuato da Longhi, per cui ciascun secolo allo scadere recupera le premesse culturali del proprio inizio. L’attribuzione al pittore di un foglio di questa qualità, convalidata da puntuali confronti fra il disegno e soprattutto le prove conservate al Louvre, offre quindi un ulteriore documento per ricostruire l’attività del maestro, fino a questo punto trattata per sommi capi solo in contributi parziali.

Federico Giannini

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Agostino Ciampelli (Firenze 1565 - † 1630 )

Studi di Figure matita, penna, pennello e inchiostro bruno, mm 266 x 405 Provenienza: Sothebys’, Londra, luglio 1977, lotto 168 Questo foglio rappresenta un’aggiunta di rilievo al corpus di disegni del pittore fiorentino Agostino Ciampelli e allo stesso tempo il vertice per qualità e importanza della rassegna qui esposta. Si tratta di uno studio di figure per varie composizioni: vi si riconoscono sulla destra in alto una Vergine col Bambino e sant’Elisabetta, un san Giovanni Battista e a sinistra due figure con mantelli classicheggianti da identificare forse in Assuero e Vasti. Nel registro inferiore un brano per una Natività di Maria e i profili di tre popolani, probabilmente dei madriani, seduti o accasciati durante una sosta. La giustapposizione delle figure, evidente nel particolare del bastone di san Giovanni che arriva a coprire la spalla di uno dei pastori, o nel piede di quest’ultimo che tocca il fianco dell’uomo seduto sulla destra, tradisce che si tratta di un foglio di appunti presi dal pittore indipendentemente e in momenti diversi. Benchè la levatura dell’artista lo imponga oggi come una delle personalità più di spicco nel panorama fiorentino e poi romano tra Cinque e Seicento, la fortuna di Ciampelli nella storiografia non è stata costante. Baglione gli dedica una biografia nel suo volume a poco più di dieci anni dalla morte1; Baldinucci, in virtù forse del precoce abbandono del maestro della patria fiorentina, lo menziona solo en passant e Lanzi gli destina appena una riga nella sua Storia pittorica2, inserendolo fra gli allievi di Santi di Tito, in posizione paradossalmente marginale rispetto a pittori della stessa scuola, ma di gran lunga minori, come Lodovico Buti o Costantino de’ Servi. La riscoperta in tempi moderni dell’autore si deve ad una serie di contributi monografici, a opera soprattutto di Christel Thiem3 e di Simonetta Prosperi Valenti4, nonché alla splendida mostra Disegni dei toscani a Roma del 19795. Come risulta evidente, la produzione più indagata del maestro, per ragioni nondimeno squisitamente qualitative, è sicuramente la grafica: se difatti il pittore manca ancora di una monografia, d’altro canto il numero dei disegni pubblicati a lui ascritti è molto consistente e un valido conoscitore come Milan Togner, in occasione di una rassegna dedicata ai disegni di Ciampelli conservati nella Biblioteca Statale delle Scienze di Olomuc, ha potuto tentare, sia pur sommariamente, la ricostruzione del catalogo completo dei suoi fogli6. Il disegno presentato appartiene sicuramente all’attività giovanile: pur non essendo possibile riscontrare nelle fisionomie dei personaggi rapporti con dipinti degli anni fiorentini, è tuttavia tangibile il confronto tra il carattere vigoroso dei ritratti nel foglio e l’individualizzazione delle singole figure degli astanti nella bellissima Natività della Vergine, realizzata all’inizio degli anni ’90 per la chiesa di San Michele Visdomini a Firenze. A margine di uno studio (Galleria degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, inv. 8287, F r.) da riferire alla tela con Le nozze di Cana, eseguita nel 1594 per il cardinale Alessandro de’ Medici e portata da Ciampelli a Roma, opera oggi perduta, troviamo una figura di servitore sovrapponibile all’ancella che sta porgendo Maria alla nutrice nel registro inferiore del disegno. Sulla base di questi caratteri morfologici la datazione agli anni 1590-95 è la più plausibile. In questa fase il pittore tenta di svincolarsi dalla maniera di Santi di Tito, suo maestro diretto, attraverso lo studio della tradizione toscana: nel delineare la muscolatura dei personaggi qui ricorre al precedente dei disegni di Michelangelo, mentre l’indole da pittura nordica che informa le figure dei mandriani pare mutuata dagli affreschi di Pontormo nella Villa Medicea a Poggio a Caiano. Tuttavia, la profonda conoscenza dei maestri del Cinquecento non porta Ciampelli a rinunciare allo studio del vero. Parallelamente al ritorno al dato reale con cui i Carracci diedero avvio al superamento dalla pratica tardomanierista, Ciampelli, al pari di Cigoli e Passignano, interpreta i dettami tridentini come un’esortazione alla chiarezza narrativa e alla compendiarità della struttura formale. Il disegno dal vero anche per Ciampelli diventa quindi momento imprescindibile della creazione artistica e la franchezza dell’indole espressa in questo foglio fa passare decisamente in secondo piano i sia pure evidenti debiti dell’artista nei confronti della tradizione cinquecentesca. Fu dunque la contaminazione tra lo studio del modello e l’indagine sulla realtà ad assicurare al pittore un successo duraturo a Roma, dove risulta attivo per ben quattro papi, Clemente VIII, Leone XI, Paolo V e Urbano VIII. Il suo inserimento nell’impresa delle tele con le cerimonie pontificie, volute da papa Barberini per i palazzi vaticani nel 16247, testimonia ancora della fortuna dell’artista in un’epoca già segnata dalla temperie culturale del primo barocco. Federico Giannini

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Luca Cambiaso (Moneglia 1527 - † Madrid 1585)

San Gerolamo nel Deserto penna e inchiostro bruno, mm 242 x 270 Esposizioni: W. Apolloni, Dai manieristi ai neoclassici, 5 aprile - 22 aprile 1978, n. 7 San Gerolamo, ben riconoscibile per i suoi attributi, siede in ginocchio in adorazione del Crocifisso. Riconosciamo, tracciato con pochi segni sintetici di penna, il cappello sullo sfondo a sinistra che richiama alla sua carica cardinalizia; i libri ricordano la sua erudizione; il leone rimanda alle sue stesse parole quando raccontava che nei lunghi quattro anni di ritiro nel deserto aveva “come compagni solo gli scorpioni e le bestie feroci”. Il teschio - memento mori - è il simbolo della penitenza e della meditazione sulla caducità della vita terrena. Luca Cambiaso traccia la figura e ciò che la circonda con straordinaria libertà esecutiva, senza diligenza alcuna nel descrivere l’ambiente, ma piuttosto lasciando all’esuberanza di questo segno grafico deciso e vigoroso il ruolo di evocare l’intenso momento di raccoglimento, senza la definizione specifica di un luogo né di alcuna indicazione temporale. Il tratto di penna è velocissimo, ma pur sempre capace di rendere perfettamente, senza rigore ma con efficacia nel risultato visivo, la muscolatura, la mano che poggia sul teschio e finanche lo sguardo severo del leone e l’espressione languida del santo penitente. L’evidente michelangiolismo di questa figura che si impone plasticamente sul foglio si spiega con il recente studio diretto degli affreschi del grande maestro a Roma; è quel gigantismo che ritroviamo nelle figure che occupano prepotentemente lo spazio della composizione, quasi riversandosi verso il riguardante, negli affreschi eseguiti al fianco del padre-maestro nel salone di Apollo del palazzo di Antonio Doria (oggi della Prefettura)1. Luca è lì all’opera immediatamente dopo il rientro dal viaggio nella Città Eterna, e dunque intono al 1547 - 1548. A questi medesimi anni cui si può con buona approssimazione riferire anche questo splendido foglio, come conferma anche Piero Boccardo che si ringrazia. Per questo San Gerolamo sono proprio i disegni più giovanili noti a costituire i confronti più convincenti, tra i molti possibili all’interno del ricchissimo corpus grafico dell’artista, dal quale la critica sta via via faticosamente espugnando una moltitudine di fogli che non gli competono e che si conservano sotto il suo nome anche in moltissimi sedi museali nel mondo. A confronto dell’ipotesi di datazione qui proposta si vedano per esempio La cattura di un re e il Giove che ammonisce Cupido di collezione privata genovese, il Sileno ebbro del Princeton Art Museum e il San Gerolamo penitente del Blanton Museum di Austin in Texas, forse un poco antecedente, come suggerisce Jonathan Bober che si ringrazia 2. Quest’ultimo condivide con il nostro pure il soggetto, sebbene là il santo espliciti con il gesto di colpirsi il petto con una pietra l’atto di penitenza, laddove qui è intento ad adorare il Crocifisso in atto di preghiera. Al di là di questa variante sono identici i caratteri del segno grafico, sia in quelle linee veloci che accennano allo sfondo o alle ombre, nella sua ricerca sull’inserimento dinamico della figura nello spazio, sia quelle più mosse e vibranti che dettagliano l’anatomia e la muscolatura, a sottolineare la fisicità della figura stessa in quella sua fascinosa plasticità che tende all’imponenza scultorea. Anna Orlando Luca Cambiaso, San Gerolamo penitente, © Blanton Museum, Austin, TX, USA

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Maestro Genovese (1640 circa)

Battaglia con la Visione di San Francesco matita, penna, pennello e inchiostro bruno, quadrettato, mm 316 x 256 Provenienza: Collezione P.H. (L. 2086) Il disegno, eseguito con un tratto veloce e libero, è un brano di squisito sapore barocco, la cui qualità merita attenzione, pur nella difficoltà di identificarne con certezza soggetto e autore; né si conosce a oggi l’opera su tela che probabilmente seguì questo studio, come suggerirebbe la presenza della quadrettatura. Il foglio illustra una convulsa scena di battaglia con al centro un cavallo che si impenna frontalmente verso chi guarda, con uno scenografico effetto di sfondamento dei piani compositivi. Da qui, e dalla sua forza dirompente, si emana una sorta di energia centripeta che riguarda il resto della scena e che si placa solo nella parte superiore della composizione dove appare, nella serenità di un letto di nuvole, un santo che veste il saio. Un solo accenno dell’aureola e l’assenza di ulteriori attributi rendono non immediato il riconoscimento di questa figura. Una scorsa alle più accurate biografie di Francesco da Assisi lascia aperta la possibilità di riconoscere questo episodio nel momento di conversione del giovane e alla sua conseguente decisione di consacrare la propria vita alla preghiera e all’elemosina. Come è noto Francesco era figlio di un ricco mercante e al momento dello scoppio della guerra tra Assisi e Perugia il giovane vi partecipò ardentemente e con grande spirito di avventura. Fu fatto prigioniero e liberato dopo un anno (1202 - 1203). Nel 1205 si arruolò nell’esercito pontificio e partì per combattere in Puglia le truppe dell’imperatore. Ma a seguito di un sogno misterioso egli decise di tornare ad Assisi e dare seguito alla sua forte vocazione alla povertà. L’episodio della conversione è abbastanza raro. Non dovrebbe trattarsi di un’apparizione, bensì di una premonizione, allusiva del misterioso sogno di cui narrano le fonti, per cui Francesco decise di lasciare l’ attività di cavaliere per una sua battaglia più vera e importante: quella contro la povertà. Chiarito se non risolto, almeno in via ipotetica, l’aspetto iconografico del foglio, ne resta da capire la matrice culturale. Il segno grafico vibrante e alcuni dettagli - per esempio la definizione degli occhi e delle mani - riconducono alla tradizione genovese di Giovanni Battista Paggi (Genova 1554 - 1627), e ancor più di Giulio Benso (Pieve di Teco, ca. 1601-1668), quest’ultimo prossimo anche per la accentuata ricerca dello scorcio e della visione del ‘sottinsù’. Tra i confronti più interessanti con i fogli di questo maestro si può vedere la scena di battaglia con Orazio Coclite del Museo dei Tessuti e della Arti decorative di Lione1, e per i dipinti con il noto Trionfo della Fede sull’Eresia di collezione privata2; ma in generale alcune differenze stilistiche con i fogli del ricco corpus grafico del Benso, o anche del Paggi, suggeriscono un accostamento ma impediscono il pieno riconoscimento della mano dell’uno o dell’altro artista in questo foglio. Di un certo interesse, per rilevarne pur tuttavia la sua piena appartenenza agli esordi del barocco genovese, è la citazione che appare alquanto evidente e voluta nella figura del cavallo che si impenna con il cavallo che squarcia la tela del Gio. Carlo Doria di Rubens3, citatissimo in tutta la pittura locale post 1606 e idea guida quasi imprescindibile per gli sperimentatori del barocco locale. Anna Orlando

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Luca Giordano (1634 - † 1705)

La Madonna Appare a un Santo in Adorazione pennello e inchiostro bruno, rialzi in biacca, mm 265 x 184 Filigrana: Stemma con croce e lettere Cfr. Heawood da 758 a 767, databile a Lisbona, Lima, Palermo e Madrid tra il 1673 e il 1726 Il foglio, inequivocabilmente di mano di Luca Giordano, presenta strettissime affinità stilistiche, per la tecnica utilizzata (stesura ‘a macchia’ con pennello inchiostrato e rialzi in biacca), con altri disegni realizzati da Luca Giordano verso la fine del soggiorno spagnolo (1692-1702) al servizio della Corte di Carlo II d’Asburgo o, tornato a Napoli, negli ultimi anni di vita. Per resa formale il disegno in esame, di altissima qualità pittorica, per luci smaglianti e calde tonalità cromatiche pur nell’uso di sole due tinte - il bruno dell’inchiostro e il bianco della biacca - su un fondo monocromo e ugualmente brunito - e di rapidi e lievi tratti di pennello, è infatti vicinissimo, anche per la stessa resa tipologica del volto della Madonna in entrambi, al foglio con la Sacra Famiglia e i simboli della Passione di Cristo del British Museum di Londra, che viene collocato accanto ai disegni realizzati da Giordano per gli affreschi nelle volte della Cappella del Monastero di San Lorenzo all’Escorial agli inizi della sua attività in Spagna, al foglio con il Taglio di una pietra della raccolta della Casa de la Moneda a Madrid, studio per l’affresco con la Costruzione del Tempio di Salomone nella cupola della Cappella dell’Alcàzar sempre a Madrid (distrutta) e nel foglio con la Cacciata dei mercanti dal Tempio del Museo del Prado, variamente riferito al periodo spagnolo o a quello degli ultimi anni napoletani1. Il disegno in argomento, nel quale è di difficile identificazione la figura del santo in adorazione, potrebbe anche essere preparatorio o per una composizione non realizzata o per un dipinto su tela con notevoli varianti nella realizzazione finale: in entrambi i casi, con una datazione tra il 1695 e il 1705 circa. Luca Giordano, Sacra Famiglia e i simboli della Passione di Cristo. © The Trustees of the British Museum, Londra

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Nicola Spinosa



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Maestro Fiorentino (1620 circa)

Trionfo della Forza della Giustizia penna, pennello e inchiostro bruno, rialzi in biacca e tracce di sanguigna, mm 176 x 278 Filigrana: Ancora nel cerchio Simile a Briquet 468 (Venezia, XVII Secolo) Il bel disegno si distingue per l’immediatezza del chiaroscuro che dona effetto e drammaticità al tema espresso, al quale si addice particolarmente, proprio in virtù del soggetto identificato nel Trionfo della Forza della Giustizia. A sinistra avanza una figura femminile, severa, incoronata e assisa sul carro. Tiene stretta la lancia, in quanto dea della Giustizia, ma nell’accezione di Forza della Giustizia, perché mostra pure una pietra, il cui peso sta a simboleggiare la fermezza1. “Racconta Pierio Valeriano nel primo libro, haver veduto una Medaglia antica al suo tempo ritrovata, nella quale v’era impressa una donna vestita regalmente, con una corona in capo, è sedere sopra’l dorso d’un Leone, e che stava in atto di metter mano ad una spada: la quale fu per la Giustizia interpretata, e il Leone per la Forza, sì come chiaramente si vede essere il suo vero Ieroglifico” 2. Infatti una testa leonina si nota sulla ruota del carro che accompagna la dea. L’autorità di Forza trionfante è inoltre testimoniata dalle altrettanto pregevoli figure intorno a lei. Sono impaurite, come il nudo barbuto accanto al carro; in atto di chiedere clemenza, come il personaggio centrale con la mano alzata. Le caratteristiche di entrambe, rispetto alla folla appena schizzata, indurrebbero a considerare un preciso accadimento al quale potrebbero far riferimento anche le contrapposte figure maschili con spada e alabarda, anch’esse in relazione all’iconografia della Forza muliebre “Dipingeremo per il Castigo un’huomo in atto feroce, e severo, che tenghi con la destra mano una scure, o accetta che dir vogliamo, in maniera che mostri di voler con essa severissimamente dar un sol colpo” 3. Tali sono i tratti dei personaggi armati, così poco indulgenti verso un uomo che chiede perdono. Stilisticamente l’autore del disegno gravita nella Firenze dei primi decenni del Seicento. Questo si evince dalla scrittura ancora intrisa di autentico manierismo, poi divenuto di taglio internazionale. Il carro della Forza è prezioso e si rifà alla vicenda degli Argonauti, come nella versione del fiorentino Remigio Cantagallina4, la cui fonte è il vasto repertorio di carri trionfali e mascherate per la Genealogia degli dei del 1585, richiesta dai Granduchi di Toscana5. Mentre le figure associabili al Castigo esprimono un’attenzione alla realtà che, nella città toscana, crebbe grazie alla produzione grafica di Jacques Callot. Giovanni Bilivert è artista di origine olandese, ma nato a Firenze dove si formò alla scuola di Ludovico Cigoli, che seguirà a Roma tra il 1604 e il 1607. Dotato di grande estro espressivo è pure incline alla caricatura e alla vena di costume, ispirati proprio dall’assidua frequentazione di Callot. Pertanto i suoi disegni, e gli stessi dipinti, inducono (sebbene prudentemente) a riconoscerlo quale possibile autore del Trionfo della Forza della Giustizia, essendo tratti comuni anche il ductus rapido e deciso, le fisionomie dei volti, quelli femminili segnate da bocche arrotondate e semiaperte a dispetto di quelle maschili piegate in basso. E poi i riuscitissimi fasci di luce chiara che si dilatano nell’aria e sui corpi, violati solo dalle liquide pennellate scure6. Infine sullo sfondo è visibile un complesso architettonico ornato di statue femminili, forse ispirato dall’abside del tempio romano di Venere, mentre il fronte colonnato di scorcio potrebbe essere il Pantheon. Cosicché si è portati a credere che l’autore del disegno abbia avuto un’esperienza diretta con le antichità di Roma, divenute cornice ideale del Trionfo. Fabrizio Magani

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Stefano Della Bella (Firenze 1610 - † 1664)

Gallina Padovana matita nera, penna e inchiostro bruno, acquerello grigio, mm 58 x 62 Provenienza: Collezione ThomasTomkins, Londra Stefano Della Bella, uno dei più grandi incisori del Seicento, ebbe come mecenate Lorenzo de’ Medici, che finanziò il suo viaggio a Roma per coltivarne il talento. Nel 1639 è a Parigi dove trova prima la protezione del Richelieu e poi quella del Cardinal Mazzarino e, alla fine di questo percorso che tocca i poli artistici e culturali di maggior rilievo nel XVIII secolo - Firenze, Roma, Parigi, Amsterdam - nel 1650 Stefano ritorna nella sua città natale accolto di nuovo alla corte medicea, questa volta dal principe Mattias, fratello del Granduca. Personalità di respiro internazionale, Stefano realizza oltre un migliaio di lastre dai soggetti più svariati - paesaggi, marine, soggetti mitologici, capricci, studi di animali, scene di guerra, frontespizi -, ma la sua dote più viva e brillante resta quella del disegnatore: un infaticabile ricercatore che indaga puntualmente con carattere e raffinata personalità ciò che lo circonda. Il Della Bella esegue numerose serie di incisioni raffiguranti le più diverse tipologie di animali1, un tema affatto congeniale al suo estro artistico che visibilmente lo appassiona e lo porta a cimentarsi con gusto nella resa virtuosistica sia di esemplari esotici dal manto variegato o dal ricco piumaggio, sia quanto nella scrupolosa osservazione di più familiari animali domestici. Queste serie, distribuite cronologicamente su un arco temporale di circa un decennio, riscuotono un largo successo e ottengono tutte molte tirature. A testimonianza di questa sua predilezione tematica esistono anche molti disegni, non sempre in relazione con le stampe; è proprio in disegni come lo Studio di porcospino, Due aquile o la Testa di cervo conservati a Louvre2 che Stefano rivela maggiormente la sua capacità di cogliere con sottile spirito di osservazione i molteplici aspetti della realtà. Il foglio in questione, un disegno a penna con inchiostro bruno e leggere acquerellature grigie su carta, mostra la freschezza e il tocco impressionistico degli schizzi dal vero. In questa testa di gallina volta a sinistra la fissità dello sguardo e della postura animizzata fanno pensare alla compiaciuta intenzionalità, tutta umana, di chi si mette in posa per farsi ritrarre. La personalità dell’artista, non estranea a un vivace senso dell’ironia, sembra infatti trascendere la realtà del soggetto conferendo alla testa dell’animale il sussiego e la solenne autorità di un ritratto: sono sufficienti pochi tratti di penna per delineare il becco e l’occhio del volatile mentre il ricco piumaggio, reso con tenui tocchi di acquerello, sembra alludere a un prezioso turbante, sontuoso ornamento di una delle tante teste dal gusto esotico sovente raffigurate da Stefanino3. Francesca Romei

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dimensione reale


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Stefano Della Bella (Firenze 1610 - † 1664)

La Valle di Josafat matita nera, penna e inchiostro bruno, acquerello sepia, mm 232 x 438 Provenienza: Collezione Thomas Tomkins, Londra In questo intenso e suggestivo disegno Stefano Della Bella sembra voler condensare due diverse visoni profetiche mettendole in stretta relazione causale: quella di Ezechiele, che prefigura la Resurrezione dei morti, e quella del profeta Gioele il quale colloca nella Valle di Giosafat il luogo dove avverrà il Giudizio Universale (“…radunerò tutti i popoli, facendoli scendere nella valle di Jehoshafat… poiché là siederò per giudicare i popoli che affluiranno da tutte le direzioni”; Gioele 4, 2-12). La valle, il cui nome si traduce con “Dio è giudice”, è rappresentata come una vasta landa di desolazione dal cui suolo, cosparso di ossa1, teschi e cadaveri, i morti risorgono per essere chiamati a giudizio. Restituiti dalla terra alla Terra, i corpi si “riformano” e il disegno, in una sorta di sequenza dinamica, mostra i diversi stadi di questa ricomposizione, in cui sulle ossa ricompare la carne, la pelle e infine anche la vita e il movimento. Nella visione di Gioele, nella “valle del verdetto” il sole e la luna si oscurano - al centro del foglio che, verosimilmente, ha subito una riduzione, si intravedono due sfere che sembrano sovrapporsi in una sorta di eclissi - “e le stelle ritirano il loro splendore”. L’immagine raffigurata da Stefanino - forse una prima idea per un’incisione mai realizzata - esprime la potenza evocativa delle antiche scritture in una puntuale citazione del celebre passo della visione di Ezechiele, la resurrezione dei morti che prelude al giorno del Giudizio: “Il Signore mi pose in mezzo ad una valle che era piena di ossa (…) tosto si produsse un rumore che divenne un gran frastuono: le ossa si congiungevano, vidi su di esse formarsi i nervi, salire la carne e la pelle ricoprirle al di sopra” (Ezechiele, 37, 1-14). Quasi d’obbligo è il confronto con le incisioni parigine de Le cinque morti (De Vesme 87-91) e La morte sul campo di battaglia (De Vesme 93); un accostamento che, se appare inevitabile per la scelta del soggetto macabro, è altresì convalidato da stringenti affinità stilistiche. In particolare, il confronto con La morte sul campo di battaglia evidenzia in entrambe le opere la scelta di un’ampia prospettiva sullo sfondo dove il paesaggio è individuato da tenui acquerellature (si vedano al proposito i disegni preparatori conservati all’Hermitage2 e al Gabinetto Nazionale delle Stampe3), mentre tratti di penna molto semplificati delineano le figure sullo sfondo al centro di entrambe le composizioni. La figura scheletrica che si erge sulla sinistra in un movimento quasi danzante ricorda il ritmo della cavalcata della morte, mentre l’espressione inorridita della figura femminile sulla destra che, col capo ancora velato dal sudario assiste incredula alla ricomposizione del proprio corpo, è assimilabile all’urlo straziato che caratterizza Le cinque morti che trascinano i vari personaggi alla tomba. Se l’accostamento a queste incisioni pone cronologicamente quest’opera tra il 1646 e il 1648, cioè negli ultimi anni del periodo parigino, la datazione appare convalidata anche da altri due confronti. Osservando il personaggio seduto a destra in primo piano, raffigurato nell’atto di stringere un grosso volume nella mano sinistra - è probabile che l’artista abbia voluto rappresentare Ezechiele - possiamo ravvisare, nella posa quasi accademizzante, nel fitto tratteggio parallelo che definisce il chiaroscuro del torso, sino al particolare del panneggio che si avvolge sul braccio destro, L’uomo a mezzo busto assiso di profilo dell’incisione De Vesme 4124, mentre nel volto del personaggio in ginocchio sulla sinistra - verosimilmente il profeta Gioele - si può facilmente riconoscere la Testa di vecchio presente nella tavola De Vesme 3395, incisione caratterizzata dalla stessa spontaneità che ritroviamo anche nel disegno. Entrambe le opere, appartenenti a due diverse serie, sono datate 1646 e si collocano negli ultimi anni del periodo parigino. Stefano Della Bella, Uomo a mezzo busto assiso di profilo, acquaforte, De Vesme 339

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Francesca Romei



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Francesco Buonamici (Lucca 1596 - † 1677)

Progetto per un Portale penna, pennello, inchiostro bruno, tracce di olio, mm 423 x 276 Filigrana: Aquila a una testa dentro un cerchio Briquet 209, databile a Verona tra il 1582 e il 1596.

Progetto per un Portale penna, pennello, inchiostro bruno, matita nera, mm 422 x 281 Filigrana: Parte della filigrana Tre mezzelune La filigrana non è stata trovata, a meno che non sia parte di Briquet 3263 databile tra Genova e Pavia nel 1555. La doppia riga nella parte superiore del cerchio indica una mezzaluna, puo’ quindi ricollegarsi alle numerose filigrane delle tre mezzelune prodotte tra Roma e Venezia dalla metà del ‘500 fino alla fine del ‘700 Siglato in basso a destra:

Le antiche fonti biografiche su Francesco Buonamici sono scarse e frammentarie, benchè ricavate dalle guide a lui contemporanee. Nonostante una permanenza dell’architetto sia documentata a Roma, nei primi anni del Seicento, non è certo quale sia stato il suo maestro. Egli svolse la propria attività tra Lucca e Malta, dove venne chiamato tra il 1634 e il 1635, e dove dedicò i propri sforzi primariamente alla progettazione del nuovo molo e alla cupola della chiesa dei Gesuiti. Già nel 1661 risulta rientrato a Lucca, dove venne nominato “architetto primario” della città, grazie alla sua opera di progettazione per il restauro della chiesa di San Romano. A Malta, dove egli fu considerato, insieme a Mattia Preti, il primo esponente dell’arte Barocca, progettò e costruì la chiesa dell’Anima e quella di San Paolo a Rabat, a Valletta, oltre a svariati palazzi. Dopo il Grande Assedio di Malta da parte dell’impero Ottomano, sul quale i Cavalieri ebbero la meglio solo grazie alla loro forza e perseveranza nel non arrendersi ai nemici, venne studiato un progetto urbanistico innovativo e dalle grandi pretese: si costruì così la prima città, fortificata e fatta “da gentiluomini per gentiluomini”, ideata su un modernissimo sistema a griglia. Francesco Lavarelli, l’ingegnere inviato a Malta da Papa Pio IV con l’ordine di lavorare a questo ambizioso progetto, portò al suo seguito, tra gli altri, anche il Buonamici. Francesco Buonamici era certamente rientrato a Lucca già nel 1661, in quest’epoca infatti egli venne nominato “architetto primario” della città, grazie alla sua opera di progettazione per il restauro della chiesa di San Romano. I due disegni qui presentati risultano ad evidenza parte del cospiquo numero di progetti che il Buonamici eseguì a Malta nel 1636 in questa occasione.

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Pietro Liberi (Padova 1614 - † 1687)

Venere Ferita Riceve l’Omaggio della Rosa matita nera, gessi bianchi su carta preparata, mm 216 x 266 Provenienza: Collezione Margherita Cavranzola (L. 3446) L’Orlandi, nel suo Abecedario pittorico edito nel 1704, al capitolo che tratta di Pietro Liberi, dice: “…padovano studiò in Roma l’opere di Raffaello, in Parma quelle del Correggio, e del Mazzola, in Venezia quelle di Tiziano, e del Tintoretto, e con un misto perfetto di sì alti Maestri si fece una ben fondata, e spiritosa maniera, con la quale comparve applaudito dal pubblico di Venezia, e di molte altre Città…”: l’arte del Maestro di Padova è ben sintetizzata in queste poche righe. Fu infatti gran viaggiatore e soprattutto molto attratto dall’opera dei maestri antichi, in Emilia, a Firenze (dove fu legato da stretta amicizia con Stefano Della Bella) e quindi Roma. L’osservazione attenta e meticolosa degli antichi (tra quelli a lui più congeniali Michelangelo), e la presenza a Padova di numerose opere di Tiziano, influì non poco sul Liberi, che si dedicò prevalentemente a dipingere soggetti di nudo, più che altro Veneri, sulle orme del cadorino, ma pregno di una cultura aulica. La Venere ferita riceve l’omaggio della rosa descrive uno degli episodi più illustrati del mito di Venere (Afrodite), ritratta in una posa languida e accompagnata da Cupido (Eros), nato, secondo la leggenda, dall’unione della dea con il dio Marte (Ares). Una delle più note versioni di questo episodio mitologico racconta che la dea della bellezza si sarebbe ferita con la spina di una rosa nel rincorrere il giovane Adone. Il sangue, cadendo sui fiori, in origine bianchi, li tinge di un rosso scarlatto. È a questo punto che Venere riceve in omaggio una rosa da Cupido, o da una delle ninfe. Di questo episodio esistono numerose rappresentazioni, in pittura come in grafica, in molte delle quali Adone compare sullo sfondo, in secondo piano, ferito a morte durante la caccia al cinghiale. Il foglio in esame è un ‘primo pensiero’ per un dipinto di analogo soggetto eseguito da Pietro Liberi e oggi conservato a Imola, nelle collezioni di Palazzo Tozzoni. Quest’opera, che ritrae la scena in controparte rispetto alla versione delineata, è in stretta relazione con il nostro foglio, che è appunto una prima idea poi sviluppata con la Venere ritratta di schiena e rivolta a sinistra. E’ evidente la stretta relazione tra le due rappresentazioni, così come è palese la derivazione da un modello tizianesco. Pietro Liberi, Il dono della rosa, olio su tela, Palazzo Tozzoni

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Francesco Solimena (Canale di Serino 1657 - † Barra di Napoli 1747)

Recto: Studio per una Figura Virile Verso: Studio per una Figura Virile con Asta matita nera e rialzi in biacca su carta azzurra, mm 388 x 244 Iscritto al recto: Iscritto al verso:

Il foglio reca sul recto, in basso a destra, la scritta Solimena a penna, che, pur non essendo la firma del pittore, è la corretta indicazione, presumibilmente da parte del collezionista originario, dell’autore delle due figure disegnate sul recto e sul verso: Francesco Solimena. Sul recto è disegnata, a definire forme e volumi, con essenziali tratti a matita, appena toccati da lievi colpi di biacca, una figura virile, forse identificabile con quella di Cristo, sulla base degli stessi connotati (il tipo di barba in particolare) che si riscontrano in altre sue immagini, ma non solo, dipinte da Solimena nel lungo arco della sua attività. Nel foglio in esame la figura virile, se identificabile con quella di Cristo, che, avvolto in un manto dal sontuoso panneggio che ne lascia scoperta la gamba destra mentre s’incammina verso destra, potrebbe essere uno studio preparatorio per un dipinto - al momento non identificato - con l’illustrazione di due distinti episodi: o Cristo che, dopo essere risorto, incontra la Maddalena; o, più probabilmente, Cristo che, secondo quanto riferito nei Vangeli apocrifi, incontra San Pietro che si allontana da Roma per sfuggire alle persecuzioni (è il noto episodio del Quo vadis?). Sul verso invece è raffigurato, di spalle, un giovane avvolto in un ampio mantello dal ricco e voluminoso panneggio che reca nella sinistra una lunga asta: non certo un pastore, visto il sontuoso manto che indossa; né, per lo stesso motivo, un pellegrino, che nella iconografia tradizionale, indossa abiti e mantelli più semplici. Ad un esame della produzione pittorica di Francesco Solimena finora nota, sembra tuttavia evidente la stretta correlazione, pur nelle ovvie varianti che sempre comporta il passaggio da uno studio preparatorio alla versione finale, tra questa figura disegnata e il giovane armato, con lunga asta e corazza, avvolto in parte da un lungo mantello che compare, nello stesso atteggiamento nella tela con Giuditta che mostra la testa di Oloferne ai Betuliani che si conserva al Kunsthistorisches Museum di Vienna1. La tela, come è noto, fu realizzata per il viceré di Napoli, Conte von Harrach, dalla cui raccolta proviene, intorno al 1730, replicando con molte varianti e secondo le tendenze dell’epoca, una precedente composizione d’identico soggetto per la Villa Bombrini di Genova - Cornigliano. Si tratta comunque di uno dei massimi raggiungimenti del pittore nella fase avanzata, quando si ispira ai modelli del classicismo romano (Maratta in particolare), con grande attenzione a definire forme e volumi con nettezza di segno e a comporre le immagini con studiata chiarezza e ricercata sontuosità di apparenze. Qualità, queste, che ben si colgono sia nella figura disegnata sul verso che in quella meno dettagliata che Solimena ha fissato sul recto. Ne consegue che al foglio in argomento conviene una datazione proprio intorno al 1730, confermata sia dal rigore grafico che dalla eleganza formale delle due immagini, ma che trova ulteriore appoggio nelle strettissime affinità che lo avvicinano ad altri disegni solimeneschi dello stesso momento tra classicismo e purismo del pittore: come il foglio con la Scena di strage della Società Napoletana di Storia Patria2, preparatorio per un particolare della tela con il Massacro dei Giustiniani a Scio per il Senato di Genova3 o, in particolare, il foglio con sul recto Santi e sul verso una Figura di giovane inginocchiato per la distrutta pala del 1733 per la chiesa di San Gaudioso a Napoli4. Verso

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Nicola Spinosa



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“Falsario del Guercino” (Emilia, metà XVIII Secolo)

Paesaggio Fluviale con Passeggianti penna e pennello su carta bianca, mm 280 x 420 Filigrana: Probabilmente Camera Apostolica o sua variante, nota soprattutto a Roma nel XVIII Secolo. La vicinanza delle vergelle suggerisce comunque una datazione nella seconda metà del XVII Secolo Provenienza: Sotheby’s, Londra, 10 dicembre 1968, lotto n. 36 Bibliografia: Prisco Bagni, Il Guercino e il suo falsario, I disegni di Paesaggio, Bologna, 1985, n.143, pag. 173 In un paesaggio brullo, segnato dal profilo delle montagne e attraversato da un ruscello, si dispongono quattro coppie di personaggi a scalare sulla destra e un terzetto di gentiluomini a conversare dalla parte opposta. A mezza altezza, sempre sulla destra, troviamo un edificio a corpo centrale ed ali, circondato dalle fronde. Questo bel foglio è stato reso noto da Prisco Bagni nel suo volume dedicato ai disegni di paesaggio del cosiddetto ‘Falsario del Guercino’, artista dall’identità ancora misconosciuta attivo oltre la metà del XVIII secolo. La figura di questo maestro è stata per la prima volta isolata dalla studiosa ungherese Edith Hoffmann, cui si deve l’intuizione che un gruppo cospicuo di disegni, attribuiti a Guercino, conservati nelle collezione del Museo di Belle Arti di Budapest, altro non erano se non derivazioni da stampe piuttosto celebri di Jean Pesne (Rouen, 1623 - Parigi, 1700) tratte da originali del pittore centese1. Su questa base Denis Mahon, in due successivi interventi2, riusciva a ricostruire sommariamente il cospicuo catalogo dell’artista e a collocarlo nella seconda metà del Settecento: il maestro difatti per alcune sue ‘invenzioni’ aveva usato le incisioni su rame realizzate negli ultimi anni di vita da Lodovico Mattioli (Bologna, 1662 - 1747). A dimostrazione del fatto che si fosse avvalso proprio di questa serie, va riscontrato come le copie del falsario tratte dai quattordici disegni di Guercino oggi a Chatsworth (Derbyshire) nella collezione del Duca di Devonshire, siano rivolte secondo lo stesso senso degli originali; dal momento che questi, dopo essere stati incisi in controparte da Pesne a Parigi negli anni ‘70 del Seicento, erano stati acquisiti dai Cavedish di Devonshire nel 16813, è impensabile che il Falsario abbia potuto vederli; di conseguenza egli si servì delle incisioni di Mattioli, tratte da quelle di Pesne ancora in controparte e quindi orientate nello stesso verso dei disegni. Probabilmente la difficoltà degli storici a trovare un nome per il Falsario va collegata alla necessità da parte del disegnatore, che aveva ordito una frode dai numeri impressionanti (gli si riconoscono oggi circa 300 fogli, tra composizioni di figure e paesaggi), di rimanere sconosciuto. I paesaggi sono stati scanditi da Prisco Bagni in tre gruppi4: quelli direttamente derivati dalle incisioni di Pesne e Mattioli, non privi tuttavia di varianti apportate dal copista; quelli in cui elementi tratti dalle incisioni vengono combinati in modo originale; infine quelli di propria ideazione, ovviamente i più apprezzabili, in cui si possono rimarcare le qualità dell’artista nel rendere i trapassi luminosi di marca guercinesca spesso con la sola penna, senza l’uso dell’acquerello; e per giunta con esiti ancora più vicini se possibile alla sensibilità romantica che avrebbe apprezzato l’intelligenza figurativa del Guercino disegnatore come un incunabolo della vittoria, considerata ormai acquisita, dell’ispirazione sulla techné. Il foglio in mostra fa parte di questo terzo gruppo: alcune parti, come gli alberi rigogliosi sulla sinistra o i due pescatori in primo piano sulla destra, sono ricavate dalle incisioni di Mattioli, ma l’insieme è di fantasia dell’autore e trova rispondenza in altre prove importanti come il disegno dell’Ashmolean Museum di Oxford (inv. 877) già di proprietà di Robert Witt, o quello del Fogg Art Museum di Cambridge, Massachusetts (inv. 1898.16), appartenuto nell’Ottocento al poeta e naturalista bostoniano John Witt Randall (1813 - 1892). La qualità impressionista delle vibrazioni chiaroscurali attesta che il disegno, realizzato a penna, ma con brani di colore bruno dati a pennello, sia stato eseguito speditamente, come nella migliore tradizione del ‘capriccio’, ma tuttavia con una disinvoltura e una perizia assolutamente ragguardevoli, nel panorama, spesso non troppo stimolante in quanto compromesso dalla ragione accademica, della grafica italiana di secondo Settecento. Federico Giannini

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Maestro Bolognese (1720 circa )

Transito di San Giuseppe penna, pennello e inchiostro bruno, mm 406 x 268 Filigrana: Giglio nel cerchio con la lettera B Briquet 7118: databile a Salerno nel 1597 Il giglio in un cerchio e non due cerchi è una carta che, con vari spessori, è stata prodotta fin oltre la metà del Secolo XVIII Giuseppe, morente, è disteso su un giaciglio, coperto fino all’altezza del petto da un lenzuolo. Alle sue spalle Maria nasconde il volto col bordo del mantello. Sulla destra Cristo lo sta benedicendo e dalla parte opposta un arcangelo, inginocchiato e con un cero in mano, attende di condurre in paradiso l’anima del santo. L’episodio della morte di San Giuseppe non è riportato dai Vangeli canonici. In questi, e nel caso specifico nel Vangelo di Luca, la figura di Giuseppe scompare dopo l’episodio della Pasqua di Gerusalemme e del ritrovamento di Gesù nel Tempio. Il racconto della morte del padre putativo di Cristo si ricava dalla Storia di Giuseppe il falegname, un testo apocrifo redatto in lingua greca nel VI secolo e destinato ad avere larga diffusione dal Medioevo in poi. Nella tradizione iconografica, rispetto al racconto, si conserva naturalmente la figura di Cristo cui Giuseppe si rivolge per avere consolazione, ma non compaiono i figli avuti dalla prima moglie. Il foglio qui presentato reca una segnatura con grafia settecentesca che lo conferirebbe a Giuseppe Marchesi detto il Sansone (Bologna, 1699 1771). Il riferimento tuttavia non è condivisibile: Marchesi, a lungo allievo di Franceschini, si qualifica difatti soprattutto in virtù del suo primo apprendistato presso Aureliano Milani. Nel suo catalogo fitto di dipinti, come nei disegni a lui riconosciuti1, il pittore dimostra sempre un temperamento vivace, lontano da qualsiasi accademismo e dall’ossequio ai modelli più prossimi. In questo caso l’autore, la cui identità non può essere definita, tende invece a contaminare la lezione dei grandi maestri di inizio ‘700, volgendo le soluzioni formali e compositive più avanzate a un linguaggio piano e comprensibile, conveniente alle esigenze di devozione. Qui il modello redazionale dichiarato è l’ovale realizzato da Franceschini negli anni 1686 - 1688 per la cappella Monti al Corpus Domini a Bologna2; ma i profili delle figure (soprattutto gli angeli) appaiono desunti piuttosto da Creti, a testimonianza di una cultura figurativa variegata, pur nell’ambito di una pertinenza alla tradizione felsinea che pare indubbia.

Marcantonio Franceschini, Transito di San Giuseppe, Bologna, Chiesa del Corpus Domini, Cappella Monti

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Federico Giannini



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Pier Leone Ghezzi (Roma 1674 - † 1755)

Caricatura di un Avvocato matita nera, penna e inchiostro bruno, mm 243 x 185 Provenienza: Collezione Carlo Prayer, Milano (L. 2044) Collezione Bernasconi, 1977 Disegnatore, ma non solo, Pier Leone Ghezzi, già accademico di San Luca e pittore della Camera Apostolica, fu grande pittore, cantante, musicista, appassionato di anatomia umana e medicina, nonché archivista dilettante di antichità romane; insomma, un grande artista, in tutti i sensi e in molteplici campi che seppe ben interpretare e godere della propria epoca. Fu in grado di coniugare in una singola figura doti che lo fecero grandemente apprezzare dai più sensibili intellettuali, ecclesiastici, committenti pubblici e nobili famiglie private, attivi nella Roma del Settecento. Benchè appunto egli sia assai noto per i suoi splendidi e ricercatissimi disegni a soggetto prevalentemente caricaturale, non sono da meno le sue tele, e in particolare quelle che ritraggono le effigi dei personaggi allora più in voga, ove l’introspezione del rappresentato è studiata e senza alcun dubbio ben approfondita. La grande fortuna critica di Ghezzi è ben documentata fin dagli antichi storiografi, da Pascoli, Lanzi, Pio e Orlandi che lo ricordano tutti, seppure ciascuno con una propria preferenza su questa o quella vena artistica, con grande enfasi nelle loro opere letterarie. Lo menzionano anche personaggi di spicco della cultura settecentesca quali Anton Maria Zanetti, in rapporti di grande amicizia con il nostro, o accademici come il Natoire, direttore dell’Accademia di Francia, che alla morte del Ghezzi si offrì di acquistare in blocco la sua intera raccolta di disegni. Nell’Abecedario pittorico di J. P. Mariette, pubblicato a Parigi nel 1835, lo storico d’oltralpe mette in risalto l’opera grafica di Ghezzi, dicendo di lui “...a un talent merveilleux...”. Ravvisava nel disegno caricaturale non tanto una vena sarcastica, quanto una ironica capacità di percepire la vita umana nella sua schietta e implacabile realtà, certamente molto consona alla mente illuminata e illuminista del critico francese, che propendeva meno per la pittura ecclesiastica così pomposa o per quella celebrativa dei ritratti, e più per la sottile interpretazione psicologica dei ritratti disegnati, delineati con immediata naturalezza. La nostra rappresentazione di un Notabile, al cui nome del ritrattato non è stato possibile risalire (forse un giudice o un avvocato, oppure un nobile committente), è rappresentativa e caratteristica dell’intera produzione ghezziana: stile netto e conciso, pochi, abili e velocissimi segni di penna e inchiostro bruno, sopra lievi tracce a matita nera, delineati intorno alle caratteristiche fisionomiche ed espressive del personaggio, che ne mettono in rilievo l’intrinseca sostanza di persona di mezza età, benestante, elegante, seria e dedita alle proprie responsabilità.

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Abate Palliero (1770 circa)

Serie di Quattro Nature Morte con Alzata di Fiori e Frutta tempera e tracce di matita nera su pergamena, mm 225 x 285 Sulle orme di Octavianus Monfort, celebrato pittore di nature morte su pergamena, nonchè misteriosa figura artistica svelatasi nel corso degli ultimi quattro lustri, si è via via delineata la spiccata personalità di un Maestro pittore dotato di grande virtuosismo, e di un acuto spirito di osservazione naturalistica: l’Abate Palliero. Paride Chiappati e Marco Rosci1, hanno pubblicato alcuni dipinti riconducibili per via documentaria ad Abate Palliero. La straordinaria quanto inconsueta serie di quattro Nature morte con alzata di fiori e frutta in esame è da mettere in stretta relazione temporale e stilistica con i tre dipinti pubblicati dai due storici2. A un immediato esame visivo è infatti riscontrabile, oltre all’identità del soggetto trattato e del supporto pittorico, la precisa e ben identificabile cifra stilistica, con la quale l’artista ha dipinto i contorni di ciascun frutto, foglia e fiore, forse comprensibile e giustificabile proprio dal fatto che l’autore è un religioso, un colto artista dotato di infinita capacità di concentrazione e circondato da un ambiente tranquillo e privo di distrazioni esterne. Complice il perfetto stato di conservazione di questi quattro dipinti su pergamena, la cui superficie pittorica non è verosimilmente mai stata intaccata o esposta alla diretta esposizione della luce solare, si può godere appieno della infinità di microscopici punti, eseguiti con un pennello dalla punta sottilissima, forse di martora o visone, con cui l’Abate Palliero è riuscito a rendere la sensazione di ruvidità della buccia degli agrumi, e le linee sottili e cangianti che conferiscono corpo e tridimensionalità a mele, pesche, prugne, albicocche e pere. Da osservare la presenza del disegno a matita sottostante la Abate Palliero, Natura morta di frutta e fiori, collezione privata, Asti tempera.

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Giovanni Canti, cerchia di (Parma 1653 - † Mantova 1716)

Trinità matita nera, penna, pennello e inchiostro bruno, mm 126 x 259 Assisi su una coltre di nuvole vi sono Dio Padre, col globo e lo scettro in mano e il nimbo triangolare sul capo, e Cristo, che reca la croce e indica col braccio sinistro verso l’alto. Al centro lo Spirito Santo, nella forma canonica di colomba, infonde sotto di sé un cono di luce. Le figure risultano qualificate dai loro attributi consueti: Cristo è raffigurato con la croce, signum salutis dell’umanità; Dio Padre con l’aureola a triangolo a simboleggiare il dogma trinitario, il globo terrestre e lo scettro, evocativo del Giudizio Universale. Lo scettro, la croce e il cono luminoso dello Spirito Santo risultano quindi allusivi ai tre momenti di passaggio dall’esistenza terrena alla vita eterna: il giudizio, la salvezza, l’illuminazione. Questo interessante foglio, per cui non è stato possibile trovare un riferimento attributivo certo, va ascritto a un maestro d’area padana del primo quarto del XVIII secolo. Il carattere morfologico delle figure rinvia palesemente ai modelli di Parmigianino, in particolare agli affreschi di Santa Maria della Steccata a Parma. Le figure allungate e il recupero della forma serpentinata testimoniano di un revival dei moduli del manierismo settentrionale; revival che più che in Emilia, regione ancorata nel Settecento alla tradizione felsinea del secolo precedente, maturò essenzialmente in Lombardia. Un’ipotesi suggestiva potrebbe ricondurre il disegno qui presentato all’ambiente mantovano d’inizio secolo: nella città, passata nel 1707 dal dominio di Ferdinando Carlo di Gonzaga Nevers agli Asburgo, una riflessione sui modelli di Correggio e soprattutto Parmigianino era stata inaugurata dal pittore parmense Giovanni Canti (1653 - 1716). Sono pochissime le prove grafiche assegnate fino a questo punto a Canti, maestro peraltro dei due maggiori pittori mantovani del Settecento, Giuseppe Bazzani e Francesco Maria Raineri detto lo Schivenoglia, e autore noto soprattutto per la sua produzione di ‘battaglie’1. È indubbio tuttavia che fu proprio questa personalità a canalizzare la pittura del Settecento a Mantova verso la rievocazione della poetica del manierismo emiliano. È ammissibile dunque, ferme restando una datazione entro gli anni ‘20 e una qualità che non permette l’inserimento del foglio nel catalogo dei maggiori maestri (e si potrebbe pensare allo Schivenoglia), un riferimento piuttosto stringente alla cerchia del caposcuola parmense, la cui attività mantovana fu nondimeno molto densa anche in virtù di numerose committenze religiose.

Federico Giannini

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Teresa Berenice Vitelli (Attiva a Firenze tra il 1706 al 1729)

Cavalletta tempera su pergamena, mm 122 x 158

Tartaruga tempera su pergamena, mm 122 x 158 Lo scarno e attraente catalogo di Suor Veronica Vitelli, al secolo Teresa Berenice monaca in Sant’Apollonia a Firenze, attiva per lo meno dal 1706 al 1729, si arricchisce qui di due deliziose pergamene seppiate. La prima opera nota dell’artista, un guazzo raffigurante Un pappagallo, una cinciallegra e due lucertole1 è caratterizzata da un robusto disegno, di cui s’intravedono ancora i segni a matita, da colori vivaci e da una maggiore libertà compositiva rispetto ai modelli secenteschi. Tale opera ci consente di avvicinarci alla nostra Cavalletta per il tramite di una Lucertola e due mele, apparsa a un’asta di Sotheby’s, in cui la raffigurazione del piccolo rettile è palmare, per l’appunto in coppia con un’altra Cavalletta e fichi, ambedue peraltro recanti un’antica iscrizione attributiva2. I toni bruni, la cromia pastosa, l’utilizzo di un piano che simula il terreno, la descrizione essenziale la cui sostanzialità è ancor più voluta nei nostri brani dove gli animali sono raffigurati soli, sono elementi del tutto dirimenti rispetto all’appartenenza vitelliana. In effetti il lessico di Suor Veronica deriva apertamente da quello di Giovanna Garzoni: si osservi come l’impianto e la resa della lucertola già Sotheby’s siano chiaramente mutuati dal testo garzoniano Mela cotogna e lucertola3, in collezione privata. Salvo la posizione delle antenne, il nostro insetto poi è ripreso in modo quasi congruente, persino con i semi di fronte, da quello presente nella Coppa azzurra con fragole, pere e cavalletta che mangia chicchi di grano4, conservate in una collezione privata. La figura qui isolata differisce però nettamente nell’esito ostentando un tocco più calligrafico e appianato, compiaciuto nei giochi di colore tra i toni del marrone e i verdi. Il dipinto della Garzoni faceva parte di una ben nota serie di 20 realizzati per il Granduca Ferdinando II, databili tra il 1650 e il 1662 ed era originariamente esposto insieme agli altri nella villa di Poggio Imperiale5. Sicuramente dunque Suor Teresa aveva la possibilità di conoscere queste come altre opere della miniatrice ascolana, se non di persona, quantomeno tramite disegni d’aprés. C’è anche un’altra opera della Garzoni di collezione privata con un Piatto di asparagi con garofani e cavalletta6 dove compare, in controparte, il medesimo insetto: qui mostra però una semplificazione ancora più evidente e, salvo un’ombreggiatura sul dorso, la cromia è giocata sugli accordi del verde. Certamente dunque Suor Teresa prendeva spunto dai modelli forniti dall’illustrazione scientifica toscana di Cinque e Seicento Giovanna Garzoni, Coppa azzurra con fragole, pere e cavalletta che mangia e in particolare da Giovanna Garzoni ma, come dimostrano chicchi di grano, Galleria Palatina, Firenze i due dipinti in questione, la sua ispirazione di sapore ormai tutto settecentesco è decisamente decorativa e non analitica. Francesca Bottacin

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Francesco Antonio Simonini (Parma 1686 - † 1766)

Combattimento tra Cavalieri matita nera e inchiostro bruno disteso a pennello, mm 270 x 405 Siglato sulla coscia del cavallo a destra Nella produzione artistica di Francesco Simonini il disegno ha sempre rappresentato una forma autonoma di espressione nonostante le sue opere ci appaiano spesso costruite con una stesura informale che sembra voler fissare sulla carta un’idea da sviluppare in futuro in qualche dipinto. In realtà sono pensate e realizzate per decorare le pareti di una stanza o arricchire il contenuto delle cartelle di qualche collezionista secondo uno schema costruttivo nel quale la scena è contornata da una riquadratura tracciata a pennello con l’inchiostro bruno e le iniziali del suo nome ne attestano l’autografia, come in questo ‘Combattimento tra Cavalieri’ nel quale ritroviamo sia il bordo che la sigla “FS” posta nella parte destra sulla coscia del cavallo. Rispetto agli orientamenti dei contemporanei Simonini, soprattutto nei disegni, ha mostrato una libertà formale lontana dalle rigide regole che si venivano affermando nelle accademie, anticipando forme espressive che solo nel secolo successivo avrebbero trovato piena affermazione. “Suole essere come un fulmine nel maneggiare il pennello” diceva di lui il 14 dicembre 1754 il suo agente bolognese e in questo bel disegno Simonini rivela la sua grande abilità tecnica nel costruire, su alcune veloci e appena accennate tracce di matita, i contorni delle figure che animano la scena direttamente con tratti di pennello precisi e sicuri che si diluiscono a formare le ombreggiature, dando vita a un efficace effetto di chiaroscuro che conferisce alla raffigurazione un grande dinamismo, segno di estrema padronanza degli strumenti espressivi. Due anni or sono ho potuto ricostruire un lungo periodo della sua vita grazie alle notizie inedite reperite tra le carte di Muzio Piccolomini, suo committente e protettore per molti anni, conservate presso l’Archivio di Stato di Siena1. Dopo un periodo iniziale trascorso nella nativa Parma, il suo lungo peregrinare ebbe come prima tappa Bologna e lì conobbe Sebastiano Mazzanti che divenne suo agente e per oltre trent’anni ne accompagnò le vicende. In seguito si trasferì a Venezia da dove, perseguito dai creditori, dovette fuggire nel mese di settembre del 1748 e rifugiarsi a Firenze grazie all’aiuto e alla protezione di Muzio Piccolomini, per il quale già aveva lavorato nel 1726, trovando in lui il suo più grande sostenitore. Dopo la scomparsa di Muzio avvenuta sul finire del 1761, fece ritorno nella sua Parma dove morì nel 1766 e venne sepolto nella chiesa di San Giovanni Evangelista. Molte opere eseguite da Simonini sono menzionate nelle carte del Piccolomini e l’identificazione di alcune di esse mi ha consentito di definire in modo più puntuale l’evolversi del suo percorso pittorico e il succedersi delle trasformazioni che la sua maniera di esprimersi ha subito nel corso del tempo. Per quanto riguarda il nostro caso, grandi affinità sia da un punto di vista grafico che stilistico si possono riscontrare in un disegno che reca a tergo la scritta: “Bozzetto del quadro fatto fare al Sig.re Francesco Antonio Simonini per la nostra villa di Fagnano il 1752”, dipinto al quale sicuramente si riferisce Sebastiano Mazzanti in una sua lettera inviata da Bologna al Piccolomini il 13 maggio 1752 incoraggiandolo a commissionare al pittore un “Ritratto del S.e G.rale”, una grande immagine oggi perduta del suo antenato Ottavio Piccolomini a cavallo “quando era Uffiziale in atto di Comandare”, secondo le indicazioni che possiamo trovare sia nei registri contabili di quegli anni che nell’inventario della villa di Fagnano del 1757. La vicinanza tra queste due opere ci consente quindi di far risalire a quegli anni, e forse proprio al 1752, l’esecuzione del nostro disegno quando, dopo le traversie che lo avevano costretto ad abbandonare Venezia, Simonini aveva ritrovato il successo nel momento della sua piena maturità.

Francesco Antonio Simonini, Ritratto di Ottavio Piccolomini, collezione privata

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Maurizio Zecchini



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Giacomo Zoboli (Modena 1681 - † Roma 1767)

Giuseppe e la Moglie di Putifarre matita nera, rialzi in biacca su carta preparata, mm 391 x 522

Filigrana: Giglio nel cerchio con la lettera B Briquet 7118: databile a Salerno nel 1597 Il giglio in un cerchio e non due cerchi è una carta che, con vari spessori, è stata prodotta fin oltre la metà del Secolo XVIII

Venduto dai fratelli, Giuseppe era stato portato in Egitto dove era stato acquistato come schiavo da Putifarre, capo delle guardie del faraone. Questi, avvedutosi delle qualità e della virtù del giovane, gli aveva affidato la cura delle vicende domestiche e del patrimonio. La moglie del generale, invaghita dal servitore, lo aveva più volte tentato, al punto di aggredirlo fisicamente e strappargli le vesti per unirsi a lui. Al diniego da parte del giovane, questa lo calunniò presso il marito, che, prestando fede alla donna, lo fece imprigionare nelle segrete del faraone (Gen. 39, 1-20). La scena descritta da questo bel foglio è il momento culminante del racconto: la donna ha afferrato saldamente Giuseppe per un braccio e gli sta strappando di dosso il mantello. Egli si ritrae sfuggendo alla presa. Alla bellezza quasi femminea del giovane fa da contrappunto la solidità del profilo della donna. I caratteri formali di questo disegno, realizzato su carta lavorata con una filigrana a ‘giglio nel cerchio’ - emblema questo piuttosto frequente nei disegni e nelle incisioni sei-settecentesche su carta di pregio - non lasciano spazio a dubbi riguardo all’attribuzione: si tratta con tutta evidenza di un foglio ascrivibile al pittore modenese Giacomo Zoboli, attivo nella prima metà del Settecento in patria, a Bologna e a Roma. Nella recente ricostruzione del catalogo del maestro, operata da Maria Barbara Guerrieri Borsoi1, non appaiono dipinti con questo soggetto, né se ne conoscono segnalazioni da parte dei biografi antichi. Tuttavia a partire dalle splendide redazioni realizzate da Guido Reni per il marchese Ferdinando Cospi e il cardinale Giovan Carlo de’ Medici (si tratta probabilmente delle tele oggi a Los Angeles, al Jean Paul Getty Museum e ad Holkham Hall nel Norfolk), il racconto divenne fra i più rappresentati nei dipinti ‘da stanza’ del Seicento in virtù della sua natura edificante e della diretta allusione erotica della scena dell’agguato. È dunque quanto mai verosimile che un pittore molto fecondo quale Zoboli si fosse cimentato con questo tema iconografico. Diretti riscontri per le figure si possono osservare per Giuseppe nel profilo di Cesare del famoso dipinto con Le idi di marzo, già in collezione Buitoni a Perugia2, per la moglie di Putifarre nella Maria e nell’Elisabetta della Visitazione della chiesa di Sant’Eustachio a Roma3. La sostanziale sincronia delle due opere, realizzate attorno al 1725, rappresenta un riferimento cronologico quindi molto pertinente anche a questo foglio. È il periodo in cui il pittore abbandona gradualmente la maniera di tradizione reniana, a lui trasmessa dall’apprendistato a Modena presso Francesco Stringa e a Bologna nella bottega di Giovan Gioseffo Dal Sole, per diventare uno dei massimi interpreti a Roma della corrente postmarattesca. Nel disegno qui presentato, se la fisionomia femminile tradisce ancora un’impressione felsinea, e nella fattispecie proprio dalsoliana, il carattere complessivo della sequenza è chiaramente romano, a testimonianza della scelta formale operata dal pittore e di conseguenza della sua raggiunta maturità stilistica. Federico Giannini

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Maestro Veneziano (1750 circa )

Galea penna e inchiostro bruno, mm 130 x 190 Opera grafica di taglio documentario è questa bella galea con il “cagnaro” che copre la mercanzia e i remi “acconigliati”, così come si usava nel momento in cui l’imbarcazione si trovava a “riposo”. L’immaginazione porta a dire che l’occhio del maestro non pare fissarsi sull’imbarcazione in prossimità di un’ansa o di un porto. E’ come se i segni pacati che indicano il movimento dell’acqua, l’assenza d’orizzonte e i vessilli appena increspati dal vento indicassero che la galea sia stata ripresa al largo, in mare aperto. Luca Carlevarijs è autore, nel secondo decennio del Settecento, degli Studi di navigli, una serie di ventiquattro disegni conservati al Museo Correr (Venezia), repertorio per i suoi dipinti di veduta e forse ricognizione sulle imbarcazioni per conto della Repubblica di Venezia1. Il presente disegno è pure opera di un artista veneziano, per stile e per le caratteristiche della galea, ma attivo intorno alla metà del XVIII secolo in forza di una grafia elegante e sciolta, pur ispirata ai modi di Luca Carlevarijs. Fabrizio Magani

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Francesco Londonio (Milano 1723 - † 1783)

Pastore Dormiente con un Toro, due Pecore e una Capra pietra nera e gessetto bianco su carta preparata in azzurro, mm 293 x 374 Siglato in basso a destra:

La sigla dell’autore, scioglibile in “Londonio fecit”, consente di inserire questo notevole e sconosciuto disegno nel corpus grafico, cospicuo ma non ancora analizzato, di Francesco Londonio1. Il disegno, in buono stato di conservazione, è eseguito con una tecnica disegnativa predominante nella grafica di Londonio a partire dal primo studio noto, il Toro e una mucca in riposo del 1753 da me individuato alla Pinacoteca Ambrosiana2. L’artista ha utilizzato due punte di differente spessore: una sottile, servita per abbozzare e definire la composizione; una più spessa, applicata con forte pressione della mano per rinforzare le ombre e vivificare i dettagli del disegno, poi rialzato nelle parti in luce e riccamente lumeggiato col gessetto bianco, così da ottenere un vivace contrasto chiaroscurale. Le tracce di colore azzurro e rosso riscontrabili al verso e al recto del foglio potrebbero appartenere alla tavolozza dell’autore, mentre i ritocchi in grigio scuro sul cane e sul ventre villoso del toro dovrebbero imputarsi a un “restauratore”, che ha ripassato a pennello anche la sigla “L f ”, originariamente tracciata con lo stesso medium utilizzato per l’esecuzione del disegno, come accerta l’ispezione al microscopio. Con un’analoga grafia Londonio usava firmare per esteso o con la sigla “F L” dipinti, incisioni e più raramente disegni. In un aspro paesaggio, delimitato da due quinte arboree, un pastore riposa col cappello calato sul volto, mentre un toro irsuto, che sembra uscito dall’arena piuttosto che da un cascinale lombardo, osserva con aria torva un gruppo di grasse pecore accovacciate. Da quell’ammasso lanoso emerge la testa impressionante di una capra barbuta, con le fauci spalancate in un rauco belato: un elemento realistico e inquietante, che si pone agli antipodi della “bella natura” a cui Londonio ci ha abituati. Un’altra infrazione al canone londoniano è il rapporto proporzionale alterato fra l’uomo e gli animali, giganteggianti rispetto alla figura. Queste anomalie tradiscono il ricorso a modelli olandesi, assemblati in una composizione originale: sia il toro, sia il gruppo di pecore con la capra derivano infatti rispettivamente da due acqueforti del pittore e incisore Karel du Jardin (Amsterdam 1626 - Venezia 1678), datate entrambe 16553. L’analisi tecnica e stilistica conferma l’autografia del disegno, che si connette all’opera londoniana non solo nel ductus morbido ed energico e negli intensi contrasti di luce-ombra, ma anche nell’attento studio dell’ambiente rurale e dell’anatomia del toro dalla possente muscolatura, esaltata dal variare del tratteggio e dalle larghe stesure di gessetto bianco, che trova un riscontro significativo nei Due tori in corsa dell’Ambrosiana4. Il foglio resta comunque defilato rispetto al corpus dei disegni dell’artista, per il ductus più nervoso e irregolare, per le incertezze compositive e per il vigoroso realismo nella resa degli animali dovuto alla dipendenza dalle stampe di du Jardin, una delle fonti olandesi seicentesche che dovettero giocare un ruolo importante nella formazione di Londonio animalista. Queste considerazioni innervano l’ipotesi stimolante che il disegno si collochi nell’oscura fase iniziale della carriera di pittore di genere di Londonio, quando l’artista è ancora alla ricerca di quella formula impeccabile tra realtà e arcadia che gli aprirà le porte della Milano illuminista. Cristina Geddo

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Francesco Guardi (Venezia 1712 - † 1793)

Venezia, il Ponte dei tre Archi a Cannaregio penna, pennello e inchiostro bruno, mm 150 x 410 L’impronta architettonica del disegno si rivela allo sguardo dell’osservatore, che ne cattura all’istante l’essenza atmosferica e monumentale, con l’esattezza obiettiva che si dilata nei dettagli degli edifici ma anche nella dimensione della vita. I personaggi, che denotano la macchia diluita e gli essenziali volumi, partecipano alla definizione di uno spazio nitido: ogni cosa e figura è presa e fissata dal gesto che si presuppone già pittorico. L’opera, difatti, non smarrisce l’impronta vitale della presa diretta, e lo scorcio pare immerso nel silenzio. Ed è così che la “poetica” settecentesca da cui dipende la libera combinazione di architetture e figure nella chiara coscienza del trionfo dell’invenzione, sembra piegarsi a quella visione di meraviglia. Vi si riconosce la sicurezza dell’occhio portato a espandere lo spazio, e la qualità della tessitura compositiva e atmosferica, tutta virata, parrebbe, nella trasparenza di un sofisticato monocromo. Lo scorcio veneziano, appartato nel mostrare il Ponte dei tre archi alla Fondamenta di Cannareggio con Palazzo Surian, è stato interpretato da alcuni vedutisti, come Luca Carlevarijs che gli dedicò addirittura un acquaforte compresa nella raccolta intitolata Le Fabriche e Vedute di Venetia disegnate, poste in prospettiva et intagliate ... (1703). E così pure il Canaletto, che gli riserva uno schizzo da quaderno di lavoro, frutto della ricognizione panoramica sul luogo1. Per certi versi proprio alla libertà della formula canalettiana s’ispira anche la presente redazione, frutto di una calligrafia che testimonia visivamente per l’osservatore il percorso che porta all’elaborazione del dipinto. Il disegno, difatti, si compone di due fogli incollati al centro che esemplificano il momento della ripresa, avvenuta dalla Fondamenta di San Giobbe verso l’ingresso del Ghetto, e la strumentazione dell’artista, che si serve di un album in cui fissa ‘fotogrammi’ distinti per ricomporli in una narrazione capace di visone armonica. Così le informazioni sulla realtà urbana che ci fornisce il maestro risultano parlanti e vitali, ed egli per questo sembra aver compiuto quel lento processo di chi scopre il “paesaggio della verità” applicandosi al giusto angolo di riflessione. Francesco Guardi in varie altre occasioni affrontò lo scorcio. Senza dubbio, pur con modeste varianti, il dipinto di riferimento si trova alla Frick Art Reference Library di New York2, ma sono notevoli anche le prove grafiche, come il disegno, pure di grande formato e più scorciato rispetto al presente esemplare, del Kupferstichkabinett di Berlino3; ma direi anche una serie di schizzi4 in cui l’artista si concentra sulle macchiette e sul portale della fabbrica principale, al punto di essere stati raggruppati con il titolo di Ricevimento a palazzo Surian, quasi a marcare la familiarità di Guardi con quella realtà. L’edificio, infatti, ricordato dalle guide dell’epoca per il giardino in cui spesso si svolgevano le feste dell’ambasciata francese (cui era stato ceduto il palazzo nel corso del XVIII secolo), era stato realizzato dall’architetto Giuseppe Sardi, cui si deve il carattere robusto e l’uso abbondante di pietra lavorata. Nel tema guardesco si condensa l’essenzialità della caratterizzazione, la tensione della luce splendente che ne accentua la verità perspicua. Ma il maestro pare entrare anche nel cuore di una visione ‘esistenziale’, come se l’artista potesse compendiare il respiro poetico della pittura veneziana settecentesca. Francesco Guardi, difatti, è uno di quei pittori, assieme a Canaletto e a Giambattista Tiepolo, in cui il mondo degli amatori, dei collezionisti e dei mercanti hanno voluto riconoscere il mito del Settecento veneziano. Lo sguardo dell’osservatore è catturato all’istante dall’essenza atmosferica propria della pittura di Francesco Guardi, con l’esattezza che si dilata dal disegno al colore, ma anche - si vorrebbe dire - alla naturalezza dell’interpretazione che tocca le corde d’una verosimiglianza giunta dalla dimensione della vita. Fabrizio Magani

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Maestro Lombardo (1780 circa)

Passeggiata in Famiglia penna e pennello, inchiostro grigio, mm 158 x 228 Filigrana: Stella Simile a Briquet 6031: databile a Bergamo tra il 1522 e il 1527 La scena di corteo illustra una deliziosa passeggiata alla quale partecipano alcuni membri di una nobile famiglia con la loro servitù. Stilisticamente è immediato il richiamo alla gustosa vena narrativa dei veneziani, nella fattispecie di Giandomenico Tiepolo che tradusse in molti fogli, soprattutto negli ultimi anni spesi nella villa di campagna di Zianigo a Mirano, l’ozio e le passeggiate all’aria aperta di molte coppie o gruppi di persone. Uno di essi, Passeggiata campestre (insieme alla Presentazione della fidanzata), disegno della coeva serie delle Scene di vita contemporanea, permette di collocare anche il presente foglio nell’ultimo quarto del Settecento. Il riferimento al primo disegno, datato 1791, si giustifica per il particolare del servitore che tiene sottobraccio un grande ombrello; al secondo per il copricapo simile a quella della gran dama al centro1. Tuttavia nella Passeggiata in famiglia l’incedere quasi allineato, austero, il sentore neoclassico delle figure e le loro fisionomie, di contenuta allegria, indicano un artista di formazione lombarda aperto alla verve dei veneziani. E’ pur vero che in ambito regionale mancò un genere che sapesse tradurre in pittura i caratteri della società settecentesca, al pari di Giambattista Tiepolo e di Pietro Longhi a Venezia, al contrario di quanto seppe dimostrare il Parini in letteratura. La spiritosa scena inizia con il gentiluomo seguito dalla sua signora, i cui volti sono gli unici marcatamente segnati, quasi un richiamo ai ritratti bergamaschi di Paolo Maria Bonamino e, se pur di poco successivi, di Giovanni Carnovali detto il Piccio (Accademia Carrara di Bergamo). Inoltre gli abiti di entrambi, marsina con falde arretrate e sopravveste femminile con lungo strascico, denominato andrienne, sono documentati analoghi in area lombarda verso il 17802. Non mancano all’appello le forme dei cappelli che, al pari delle vesti, appaiono meno frivoli dei costumi veneziani. Quello del signore è comunque a grandi tese per proteggersi dal sole, mentre la qualità del velo della giovane donna, accanto alla gran dama, e il modello della cuffia di quest’ultima rimandano ancora al Bonamino, ma anche alla foggia riscontrabile nel ritratto di Vittoria di Savoia-Soisson, di Francesco Orso, attivo in Piemonte negli ultimi decenni del Settecento. Indizi che porterebbero a legare l’artista all’esperienza figurativa dell’Italia nord-occidentale. Fabrizio Magani

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Francesco Zuccarelli (Pitigliano 1702 - † Firenze 1788)

Paesaggio Fluviale con Figure tempera e acquarelli colorati, mm 277 x 409 Francesco Zuccarelli era già a Roma nel 1713, dove completò la sua formazione presso i pittori Giovanni Marco Morandi e Pietro Nelli, esperti nel disegno di figura. Nel 1728 si trasferì a Firenze e frequentò l’Accademia del Disegno1, portando avanti contemporaneamente la sua attività pittorica grazie all’incontro con il mecenate Francesco Maria Gaburri, esperto collezionista che lo introdusse all’interno dell’ambiente artistico mediceo. I soggetti storici furono il primissimo interesse dello Zuccarelli, sulla scia dei grandi Maestri francesi del ‘600 come Claude Lorain e Nicolas Poussin. L’esperienza maggiormente significativa per la formazione definitiva del pittore fu tuttavia il lungo capitolo veneziano; le informazioni biografiche relative a questo periodo sono molto scarse, prevalentemente dedotte da alcuni documenti relativi a un “processo di stato libero” al quale l’artista fu sottoposto nel 17352. Dall’atto giudiziario si ricava, infatti, che egli viveva a Venezia già dal 1730. L’inserimento nell’entourage artistico lagunare fu molto rapido, in virtù di alcune importanti conoscenze che si rivelarono fondamentali, tra le quali l’erudito bergamasco Francesco Maria Tassi. È grazie alla testimonianza di quest’ultimo che si apprende la consuetudine dello Zuccarelli di effettuare disegni “dal vivo”: uno scritto del Tassi menziona inoltre una Veduta di Bergamo, oggi dispersa, illustrando le figure raffigurate come “graziose e vaghe”, aggettivi che in realtà contraddistinsero i personaggi tracciati dall’artista durante tutta la sua produzione pittorica. Il desiderio dello Zuccarelli di conquistare un posto di rango tra la fitta schiera di artisti veneziani non tardò a concretizzarsi; infatti già dal 1736 il suo nome compare tra gli iscritti alla Fraglia dei pittori e solo due anni più tardi alcuni suoi paesaggi entrarono a far parte della ricca galleria del maresciallo Schulenburg3. La conquista del mercato in Germania fu solo il primo passo verso il notevole successo internazionale che arrivò definitivamente nel 1840, anno in cui conobbe Joseph Smith, considerato il principale mecenate dell’epoca e punto di congiunzione tra l’Italia e l’Inghilterra4. Il Paesaggio fluviale con figure rappresenta una summa degli elementi compositivi e stilistici che qualificano lo stile dello Zuccarelli all’apice della sua maturità artistica. Il pittore si specializzò nella pittura di soggetto pastorale durante il soggiorno veneziano, giungendo a una visione della realtà delicata, raffinata ed elegante, creando scene pacifiche con campagne dense di vegetazione. Questa forma di paesaggio fu elaborata dal Maestro pitiglianese in linea con le composizioni pacate di Marco Ricci, del quale spesso riprodusse il microcosmo protagonista della sua opera pittorica. Il sentimento arcadico, l’interesse per il colore, l’attenzione per l’atmosfera climatica composta da nubi vaporose, sono tutti elementi che consentono di annoverare l’artista tra i pittori veneziani nonostante i natali toscani5. L’attenzione verso la natura fu sempre preponderante nelle opere dello Zuccarelli, tuttavia solo verso gli anni sessanta del Settecento quest’ultimo diede vita a una straordinaria produzione di scorci campestri caratterizzati da immediatezza espressiva, scene dall’ampio taglio visivo costruite prevalentemente su più piani paralleli. In questa concezione del paesaggio puro, genuino e spogliato da ingombranti elementi architettonici fu determinante la permanenza dell’artista in Inghilterra: a seguito di questa esperienza le vedute diventarono ampi palcoscenici nei quali le figure hanno il ruolo di semplici comparse6, evidenti simboli della quotidianità. Lo sfondo assume il ruolo di protagonista, come è possibile osservare nel disegno qui descritto, traboccante di vegetazione e racchiuso da elementi boschivi con la funzione di quinte scenografiche. La poetica del quotidiano è espressa al meglio in questo paesaggio sul fiume, replicato in una quantità indefinita di varianti sebbene assolutamente distinte una dall’altra. Ritroviamo più volte le medesime abitazioni affacciate sul corso d’acqua così come la chiesa con il campanile, probabilmente riferibili a qualche località della campagna veneta. L’elemento di maggiore interesse nel disegno è dato dalle figure in primo piano, definite da pennellate morbide e tuttavia descrittive, le stesse raffigurate - spesso in controparte - in altri esemplari eseguiti dal Maestro: esiste una sorprendente affinità tra il disegno oggetto di questo scritto e un Paesaggio con figure conservato a Pitigliano7, nel quale possiamo osservare due “moduli” figurativi tra i prediletti dell’autore, la donna con la brocca sulla testa e la pastorella seduta che solleva il braccio. Teresa Barone

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Jacopo Calvi, detto il Sordino (Bologna 1740 - † 1815)

San Girolamo Emiliani Portato in Gloria dagli Angeli olio su carta, mm 265 x 198 Girolamo Emiliani è trasportato in cielo da due angeli su un manto di nubi. Più in basso altri due angeli recano in mano una spada e una catena con una sfera di marmo, segni distintivi del santo. La personalità di Girolamo, fondatore dell’ordine dei Chierici Regolari di Somasca, si inserisce con autorevolezza nel contesto degli sconvolgimenti politici e religiosi che segnarono la storia d’Italia all’inizio del Cinquecento. Comandante della guarnigione posta dai veneziani a difesa della fortezza di Quero, è costretto alla capitolazione nell’agosto del 1511 dalle milizie della Lega di Cambrai. In quell’occasione viene fatto prigioniero e rinchiuso per oltre un mese nelle segrete del castello con ceppi alle mani e ai piedi e una catena al collo fissata a una palla di marmo. Fu proprio la prigionia e la miracolosa liberazione a segnare il suo destino portandolo alla meditazione religiosa. Lasciando la casa paterna, dà avvio alla fondazione di diverse opere di carità, riunite poi in un’unica famiglia ed elevate quindi a ordine da papa Paolo III. Le armi e gli strumenti di costrizione sopportati nel corso della prigionia risultano quindi gli emblemi del santo, il cui culto conobbe un periodo di notevole fortuna nella seconda metà del Settecento, in conseguenza alla beatificazione deliberata da Benedetto XIV nel 1747 e alla successiva canonizzazione, decretata da Clemente XIII vent’anni dopo. Il bozzetto in mostra è opera del maestro bolognese Jacopo Alessandro Calvi ed è preparatorio per la tela oggi in collezione Molinari Pradelli a Marano di Castenaso (Bo)1, a sua volta versione ridotta e semplificata della pala realizzata da Calvi per il santuario di San Girolamo Emiliani a Somasca2. Una stampa, tratta dall’incisore bolognese Giovanni Fabbri nel 1767, costituisce il termine cronologico ante quem per il dipinto Molinari Pradelli (e quindi per il nostro bozzetto)3, mentre la pala del santuario va collocata qualche anno dopo, fra le imprese celebrative conseguenti alla canonizzazione del santo. D’altra parte una datazione piuttosto precoce della composizione risulta desumibile anche dalle prerogative formali, che rivelano l’adesione di Calvi nella fase giovanile ai modi, più che di Varotti, suo maestro diretto, di Creti e soprattutto di Ercole Graziani, artisti da cui mutua un calibrato classicismo e una misurata eloquenza nella resa degli affetti. Questa risulta evidente anche nel bozzetto qui illustrato, col santo che anziché aprire le braccia, come pure era consueto nelle rappresentazioni di questo genere, le porta al petto, in un gesto di ossequio più meditato che non ridondante. Una religiosità che rispondeva del resto alle disposizioni della chiesa nel momento di massima convergenza con le tesi dei philosophes illuministi: Benedetto XIV aveva fatto propri i principi di Lodovico Antonio Muratori riguardo la necessità, da parte dei cristiani, di esercitare il culto attraverso una ‘regolata devozione’ e l’arte devozionale conseguentemente aveva abbandonato i modi secenteschi per adottare un canone d’espressione più temperato, consono alle nuove istanze dottrinali. Le figure degli angeli trovano corrispondenza persino fisionomica con quelle delle numerose Assunte o Immacolate realizzate da Graziani negli anni cinquanta del Settecento. La datazione più plausibile per il dipinto (e per il bozzetto) di Calvi è dunque all’inizio del decennio successivo, negli anni del successo a Bologna delle prime opere realizzate in proprio, dopo il lungo apprendistato nella bottega di Varotti. Jacopo Calvi, San Girolamo Emiliani portato in gloria dagli angeli, Collezione Molinari Pradelli, Marano (Bologna)

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Federico Giannini



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Antonio Senape (Roma 1788 - † Napoli post 1842)

Panorama di Napoli matita, penna e inchiostro nero e bruno, realizzato su quattro fogli, mm 282 x 1518 Descritto, firmato e datato in alto a destra:

La figura di Antonio Senape si inserisce tra i più prolifici vedutisti italiani della prima metà dell’800. Alla notevole quantità di disegni prodotti dall’artista fa tuttavia riscontro la quasi totale mancanza di informazioni sulla vita: la sua attività non è citata nei repertori biografici e risulta assente anche nei vari studi di pittura di paesaggio dell’800. La data di nascita, il 1788, si ricava da un documento datato 1815 recentemente ritrovato nel quale Senape stesso dichiara di essere ventisettenne e di abitare a Roma1. Che sia vissuto fin quasi alla metà del XIX Secolo è documentato dalle sue numerose vedute che descrivono edifici realizzati in quel periodo. In una delle raffigurazioni del Maestro incentrate sul golfo di Napoli, infatti, è illustrata la ferrovia Napoli-Portici che fu effettivamente inaugurata nel 1839. Risale al 1988 uno dei primi studi approfonditi su Antonio Senape, dedicatogli in occasione di una mostra tenutasi a Roma2. In concomitanza di un’altra esposizione organizzata a Napoli alla fine del 2006 e dedicata ai Campi Flegrei3, sono stati pubblicati ulteriori aggiornamenti sulla personalità di questo interessante e tuttavia sfuggente protagonista del vedutismo ottocentesco. Un aiuto per ricostruire alcuni passaggi della vita del pittore è dato proprio dalle numerosissime iscrizioni che egli era solito apporre nei suoi disegni; scritte che indicano il luogo raffigurato, il suo nome completo, l’indirizzo dell’abitazione e qualche volta la data precisa di esecuzione. Questa pratica, in realtà, sembra essere stata molto in voga tra gli autori di gouaches a lui contemporanei e finalizzata alla vendita diretta delle opere grafiche. È sempre Senape a informarci sulla propria attività di restauratore e soprattutto di insegnante di “disegno con la penna”,

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dettaglio


come si ricava da una frase rilevata all’interno di uno dei suoi album4. Probabilmente gli allievi erano turisti dilettanti che ammiravano i paesaggi locali disegnati dall’artista, che verosimilmente praticava l’insegnamento come attività secondaria, impegnato prevalentemente come vedutista su commissione. Romano di nascita e napoletano d’adozione, Senape eseguì vedute di una straordinaria quantità di città e località italiane, spingendosi fino alla Svizzera. Una preziosa testimonianza di questo itinerario è data da un ricchissimo album contenente oltre cento disegni originali del Maestro, la più importante delle sue raccolte ritrovate finora5 e quasi certamente esito di un lungo Grand Tour compiuto al seguito di un esigente committente. Questa collezione di vedute, fino al 2001 conservata in una raccolta californiana, si caratterizza per un dato di estremo interesse: nel 1930 fu esposta all’Huntington Institution di San Marino in California con l’attribuzione a Joseph Mallord William Turner6, assegnazione del tutto improbabile ma, come vedremo, spunto di interessanti riflessioni e confronti. Il Panorama di Napoli qui presentato si caratterizza immediatamente per le sue straordinarie dimensioni che, in lunghezza, si spingono fin oltre un metro e mezzo. La veduta è composta da quattro fogli distinti nei quali è illustrata la città campana nella sua interezza, con il monte Vesuvio fumante sullo sfondo. Il punto di vista dal quale è stato tratto il disegno - senza dubbio un raro documento visivo di eccezionale completezza - è una finestra della Certosa di San Martino: come di consueto l’autore ci comunica i dettagli esecutivi dell’opera, inserendo una lunga iscrizione sulla destra che informa sul luogo di ripresa, sulla data e sul fatto che il disegno è stato compiuto “dal vero”. È stata avanzata l’ipotesi che l’artista facesse uso di particolari strumenti ottici7, in particolare di un prospettografo, indispensabile per la descrizione grafica di panorami molto ampi. Questa teoria è confermata dalla precisione delle architetture ritratte, ricche di dettagli realmente percepibili anche se illustrati lontani dal primissimo piano. Secondo una tradizione pittorica codificata nel corso del XVIII Secolo8 Antonio Senape sceglie di ritrarre Napoli dalla Certosa di San Martino, situata sulla collina del Vomero e tra i principali complessi monumentali della città. Tra gli edifici descritti è ben visibile la basilica di Santa Maria degli Angeli nella zona di Pizzofalcone, quasi al limite del margine destro del terzo foglio da sinistra. Sempre sullo stesso foglio compare la celebre piazza del Plebiscito sulla quale si affacciano il Palazzo Reale e la chiesa di San Francesco di Paola, con la sua maestosa cupola ultimata solo nel 1824. Il secondo foglio da sinistra mostra invece il noto Maschio Angioino, o Castel Nuovo, che con la sua cinta muraria emerge sul fitto tessuto urbano. Sullo sfondo è abilmente raffigurato l’intero golfo di Napoli, fino a comprendere la Penisola Sorrentina e l’isola di Capri. Dello stesso soggetto si conoscono altre versioni eseguite dal maestro romano, alcune delle quali sono conservate proprio al Museo Nazionale di San Martino; opere affini al disegno qui presentato anche per le dimensioni molto estese. Un altro Panorama di Napoli9 ugualmente realizzato su quattro fogli distinti mostra il medesimo impianto compositivo, tuttavia l’iscrizione che lo accompagna non indica la data di esecuzione10, che comunque è riferibile al 1833. Entrambe le rappresentazioni sono esemplificative del singolarissimo stile del Senape, abile nel realizzare composizioni grafiche in bicromia modulando la tonalità e la quantità di inchiostro in funzione della profondità. Due tonalità di colore, il bruno e il nero, sono utilizzate per marcare rispettivamente i primi piani e lo sfondo fino allo sfumare del paesaggio in lontananza. Come si evince dall’osservazione dei numerosi disegni di veduta dell’artista, il primissimo piano delle composizioni è quasi sempre dedicato all’illustrazione di elementi naturalistici, alberi e vegetazione che spesso fungono da quinte scenografiche. Nel Panorama di Napoli del 1834 questa funzione è svolta dalle due componenti architettoniche che delimitano il campo visivo su entrambi i lati e, contemporaneamente, vengono usate da Senape per confermare la sua esecuzione dal vero. Il lato sinistro è infatti chiuso dal realistico disegno di una parete esterna della Certosa di San Martino dalla quale sporge un piccolo balcone, ben visibile all’autore che traccia la rappresentazione proprio da una finestra dell’edificio. La pratica di creare una sorta di cornice teatrale attraverso gli elementi naturalistici avvicina Antonio Senape a Turner, pressoché suo coetaneo: i due Maestri si caratterizzano per una maniera differente di concepire la pittura di paesaggio, che per il pittore inglese si concretizzava prevalentemente in luci e colori. L’affinità tra i due è tuttavia innegabile; entrambi sono autori di panorami nei quali il passaggio tra i vari piani di profondità avviene in modo graduale e delicato, come se le tonalità in primo piano andassero progressivamente dissolvendosi fino a quasi scomparire sullo sfondo. Per Turner lo spazio era creato dal colore, mentre per Senape il volume delle forme veniva definito dal contrasto tra le linee di inchiostro abilmente dosato. Che anche Turner fosse molto affascinato dalla città partenopea è testimoniato dal vasto patrimonio di studi e schizzi esistenti dedicati a questa area geografica, realizzati durante i suoi viaggi in Italia. All’interno di queste ricche raccolte è presente un disegno che mostra una piccola parte di Napoli verso il mare11, ripreso anch’esso dalla collina del Vomero e datato 1819: si tratta forse di una delle immagini più esemplificative della vicinanza tra i due paesaggisti ottocenteschi. Teresa Barone

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Giuseppe Canella, il Vecchio (Verona 1788 -† 1847)

Mercato a Parigi pennello, inchiostro grigio, rialzi in biacca, mm 128 x 173 Firmato e datato in basso a sinistra:

“…in questo genere di pittura non è da alcuno, che si conosca, sopravanzato, di tale che portò l’arte a quel sommo grado, da non potersi, stiam per dire, spinger facilmente più oltre. Per ammirare le opere del pennello del Canella, basta avere il buon giudizio naturale; per conoscer poi le bellezze altissime, conviene avere il vero gusto nell’Arte, e quell’occhio che ne sappia intender tutte le finezze, e il magistero. I lavori del Canella offeriscono in ogni parte a che fermarsi, e quasi a non sapere andare oltre; se non che, non si lascia addietro cosa bellissima a vedere, che non se ne trovi subito innanzi un’altra similmente bellissima e nuova. Congratuliamoci con Lui, con noi, e coll’Italia nostra, che produce sì eccellenti ingegni…”. Queste parole di grande elogio, scritte su una rivista d’arte veronese (Il Foglio di Verona) in occasione di un’esposizione di tre opere del Canella a una mostra tenutasi nella città Scaligera nel 1836, lasciano ben poco spazio all’immaginazione. Giuseppe Canella era già a suo tempo ritenuto un grande maestro, soprattutto nell’esecuzione di quei suoi mirabili dipinti che ritraevano paesaggi o vedute di città. Canella fu artista dal carattere irrequieto e curioso. Già da giovane, ancora iscritto all’Accademia, decise che Verona era una città che, benché ricca d’arte e cultura, aveva dei limiti, quindi decise di lasciarla per conoscere il mondo che stava oltre le sponde del fiume Adige. A partire dalla vicina Venezia, dove Canella ebbe la possibilità di prendere visione dell’opera pittorica di Canaletto e Bellotto, di cui apprezzò e dai quali apprese soprattutto la visione luministica e la capacità di creare le trasparenze coloristiche, il nostro artista viaggiò per le principali città d’arte: la sua prima tappa fu Milano (ove fu anche nominato socio onorario della locale Accademia di Belle Arti), poi, ritenendo che il proprio virtuosismo artistico non fosse sufficiente per competere con i pittori del paese, maturò la fortunata decisione di allargare le proprie frontiere e di recarsi a conoscere le grandi realtà artistiche europee: Parigi (presentò sue opere ai Salons del 1826 e 1827), Rouen, Madrid, Baden, solo per sottolineare le tappe che furono incisive e fondamentali per il suo carattere pittorico. Questa suggestiva Veduta di mercato a Parigi si riferisce a un piccolo olio (medesime dimensioni del foglio in esame), conservato al Museo Carnevalet a Parigi, firmato e datato: “Canella 1828”. Esiste anche un altro suo disegno con il medesimo soggetto: un ‘primo pensiero’ eseguito a gesso nero e oggi conservato presso la Civica Galleria d’Arte Moderna di Milano. Canella fu insignito di una medaglia d’oro dal Re di Francia, il Duca d’Orleans, proprio in questi anni, che furono i migliori della sua strabiliante carriera artistica. Il nostro disegno, che sarà pubblicato nella monografia su Canella a cura di Flavia Pesci, si pone tra queste due opere, e’ infatti troppo rifinito per essere un semplice bozzetto, ma non ha le caratteristiche per essere considerato un dipinto vero e proprio. Si tratta appunto di un modello, probabilmente eseguito come presentazione per il committente.

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dimensioni reali


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Ippolito Caffi (Belluno 1790 - † Lissa 1866)

Il Cairo acquarelli colorati, mm 152 x 210 Firmato e datato in basso a destra:

La piccola gouache qui riprodotta si inserisce a buon titolo, a mio parere, nella produzione ‘orientalista’ di Ippolito Caffi, pittore bellunese di origine ma che artisticamente si formò tra Padova e Venezia, e soprattutto a Roma, dove giunse nel 1732 per sfuggire all’accademismo imperante in quel tempo nell’ambiente culturale veneto. Uomo irrequieto, curioso, profondamente patriota, Ippolito Caffi trasforma il vedutismo di eredità settecentesca in un linguaggio nuovo e inedito, fatto di luce, di sottili analisi atmosferiche, di visioni protoromantiche e al tempo stesso lucide e puntuali. Grande viaggiatore spinto da una irrefrenabile voglia di conoscenza, raggiunge - e documenta - città e territori con una attenzione particolare rivolta non solo all’ambiente, sia urbano che naturalistico, ma anche ai personaggi che lo popolano. Ne sono testimonianza gli innumerevoli appunti grafici, in gran parte custoditi nel Gabinetto delle Stampe e Disegni del Museo Correr di Venezia, dove si ritrovano le fisionomie, i costumi, gli atteggiamenti e le movenze che ricompaiono poi, più spesso in scala minore, nella sua produzione pittorica. Roma,Venezia, Belluno, Napoli, Genova,Torino, Firenze, di tutte queste città, dove si reca nel corso della propria turbolenta vita, Ippolito rende una documentazione precisa e affettuosa, pittoricamente ineccepibile; così come nello stesso modo egli riesce a fotografare realtà anche non italiane, da Londra a Parigi, da Granada a Siviglia. Ma l’universo che pare affascinarlo di più, è certamente quello dell’Oriente, dove si reca tra settembre del 1843 e febbraio del 1844. Visita Atene, la Palestina, l’Egitto e la Turchia. La magia di questi luoghi lo seduce. E tale seduzione è palese nella partecipazione emotiva che esprime trasferendone l’immagine nei suoi dipinti, nella resa delle sottili variazioni atmosferiche, nella luce pulviscolare che riesce a rendere con il suo pennello. Basti osservare non solo la luce abbagliante e netta delle vedute di Atene, ma anche e soprattutto quelle di Santa Sofia, ora presso la Galleria d’Arte Moderna di Ca’Pesaro di Venezia, ma anche e soprattutto la Vista dal campo degli Armeni e la Veduta dalle acque dolci d’Europa (Venezia, Ca’Pesaro) quest’ultima presa dalla riva sinistra del Corno d’Oro, dove viene colto il profilo lontano della città, punteggiata dalle cuspidi dei minareti e avvolta da una nuvola dorata. “Pittore di calda ed inesauribile fantasia, Caffi sentiva l’Oriente, e dell’Oriente fu un interprete vibrante di poesia”1. Durante le sue peregrinazioni in questo Oriente così amato, Ippolito riempie decine e decine di fogli con appunti, disegni, abbozzi, volti e figure di donne e di uomini, skylines di città, di monumenti, di colline sabbiose, in una ragnatela di percorsi possibili e di emozioni vissute. Con l’avventura napoleonica prima e con le penetrazioni coloniali poi, seguite a stretto giro dai recuperi archeologici, il viaggio in Oriente divenne ben presto una moda imprescindibile per generazioni di artisti, ma anche di intellettuali, europei. Tra i pittori italiani Ippolito fu tra i primi - se si escludono l’Aglio e l’Angelelli che assolsero per lo più il compito di documentare graficamente talune spedizioni ufficiali - ad affrontare il pellegrinaggio levantino. Nell’ultima lettera che egli invia all’amico Tessari il 18 agosto 1843 da Napoli, prima di partire, l’artista descrive le proprie aspettative su questo viaggio, ma anche la piena coscienza delle difficoltà che andrà ad incontrare, non difficoltà fisiche, ma piuttosto tutte quelle che riguardano la fatica quotidiana di sottrarsi “alla sfera comune e venir in tal modo originale”. E qualche mese dopo, il 3 novembre, descrivendo il proprio entusiasmo per quel viaggio, scrive: “….l’imponenza di Sirme e la sua posizione mi ha sorpreso non poco, ma quando fui giunto dirimpetto a Costantinopoli, a Pera, Galata e il Bosforo, io mi credea trasportato in Paradiso”. A differenza delle altre tappe mediterraneo-orientali del viaggio caffiano, gli appunti grafici che riguardano l’Egitto sono molto meno numerosi per quanto riguarda i luoghi visitati; l’attenzione dell’artista pare quasi concentrarsi essenzialmente sulle persone, sui costumi, sugli atteggiamenti. Quelle che egli chiamava le “memorie” sono qui più carenti e affidate in gran parte a quelle dipinte2. Testimonianza del primo impatto di Ippolito con l’Egitto è molto probabilmente Carovana segue a pag. 78

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Annalisa Scarpa



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Domenico Aspari (Olivone 1745 - † 1831 )

Morte di Rachele (?) matita nera, penna, pennello e inchiostro bruno, mm 260 x 317 Siglato in basso a destra: Il soggetto di questo bellissimo foglio, suggerito da Piero Boccardo come La morte di Rachele è tratto dalla Genesi e appartenente alle storie di Giacobbe. Il testo biblico narra che la moglie di quest’ultimo perse la vita mentre dava alla luce Beniamino, il minore tra i dodici figli dell’uomo. La rappresentazione di questo racconto nell’arte è abbastanza rara, infatti la maggior parte delle raffigurazioni pittoriche riferite a Rachele e Giacobbe si riferiscono al primo incontro e al matrimonio tra i due, spesso ritratti insieme anche in un altro episodio del Vecchio Testamento, L’alleanza tra Giacobbe e Labano. Questo importante foglio rappresenta la significativa e rara testimonianza della grafica di Domenico Aspari, oggi più noto nell’ambito del collezionismo per la celebre serie a bulino e acquaforte delle Vedute di Milano, realizzate tra il 1786 e il 1792, e per altre immagini legate alla storia della città, come il bellissimo acquarello rappresentante L’esplosione di una mina sotto il baluardo di Padiglia il 15 Marzo 1801 (Milano, Museo di Milano) o quello relativo al progetto di una colonna commemorativa mai realizzata1. Egli alternò infatti l’attività pittorica, assai meno nota anche perchè molte opere non sono più rintracciabili, come il monumentale dipinto allegorico oggi scomparso con cui partecipò nel 1801 al concorso, vinto da Giuseppe Bossi, sul tema della Riconoscenza della Repubblica Italiana a Napoleone, a quella più fortunata di illustratore, tra cui vanno segnalate le belle tavole per la Corneide di G. De Gamerra nel 1773, Le vicende di Milano durante la guerra di Federico I Imperatore nel 1778, la traduzione italiana della storia delle arti del disegno di Winckelmann nel 1779 e Delle antichità longobardiche milanesi di Angelo Fumagalli nel 1792 - 1793. Viceversa ha avuto una vasta e giusta risonanza il suo lungo insegnamento presso l’Accademia delle Belle Arti di Brera, dove fu nominato nel 1776 dal conte Carlo di Firmian, governatore della Lombardia austriaca, professore di Elementi di Figura, una cattedra prestigiosa che riuscì a mantenere sino alla morte nel 18262. In realtà la su formazione artistica non è legata a Milano, ma a Parma, dove fu allievo presso l’Accademia di Belle Arti di Giuseppe Baldrighi, segnalandosi nel 1771 come vincitore nel concorso di Disegno del Nudo3. Del resto nello stesso uso della penna, della acquarellatura, come nella sintassi compositiva, il nostro disegno rimanda al linguaggio del Baldrighi, molto apprezzato sia come insegnante che come pittore di corte4. Anche se una maggiore sintesi del segno e una impaginazione più rigorosa della scena, in una direzione più apertamente neoclassica rispetto al suo maestro, rimandano agli anni del ritorno a Milano e alla produzione di pittura sacra, collocabile verso la fine del secolo, tra cui possiamo ricordare la pala con Maria, il Bambino e due Santi per la Parrocchiale di Osnago (Como), la Sacra Famiglia e la Madonna, segnalate da Francesco Pirovano nella sua guida di Milano del 1822 nella chiesa di Santa Maria del Paradiso, dove però oggi non risultano più rintracciabili. La scomparsa degli affreschi realizzati in Palazzo Ducale a Parma, come la scarsa conoscenza delle altre opere pittoriche eseguite a Milano, rende molto difficile restituirgli una precisa identità in questo campo, rappresentata dall’intenso Autoritratto del 1805 conservato alla Pinacoteca di Brera e dalla bellissima tempera che raffigura Il Naviglio della Martesana a Crescenzago (Milano, Museo di Milano). Fernando Mazzocca

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Giuseppe Bossi (Busto Arsizio 1777 - † Milano 1815 )

Compianto di Andromaca sul Corpo di Ettore penna e inchiostro bruno, mm 184 x 180 Questo disegno, significativo per il soggetto rappresentato e per la qualità della sua stesura, fu eseguito da Giuseppe Bossi, tra i maggiori protagonisti del Neoclassicismo e riconosciuto come tale a livello europeo, se pensiamo all’apprezzamento da parte di Goethe e dell’ambiente di Weimar per la sua attività di artista e di studioso, in particolare per quanto riguarda la figura di Leonardo e il Cenacolo. Grande disegnatore e collezionista di disegni, che dopo la sua morte sono finiti alle Gallerie dell’Accademia di Belle Arti di Venezia dove sono ancora oggi conservati, fu molto discontinuo nella sua produzione pittorica, anche se ha saputo raggiungere risultati molto alti, quanto invece versatile e prodigioso nel disegno, come dimostrano i numerosi e bellissimi fogli presenti nei grandi musei e nelle più importanti collezioni private. Anche in questo caso l’artista ci offre una prova del suo eccezionale virtuosismo nel sapere assimilare il linguaggio dei grandi maestri del passato, che egli conosceva molto bene proprio per averli studiati e collezionati, e tradurlo con un’espressività tutta moderna. Qui la qualità nervosa del segno veloce e frantumato, esaltata da uno straordinario uso del tipico tratteggio condotto a fitte righe parallele, e la rapidità dell’esecuzione rimandano a Raffaello, i cui disegni erano molto amati e collezionati da Bossi. Il nostro foglio si può del resto accostare a una Scena di combattimento, di collezione privata, ispirata appunto a Raffaello, e allo Studio per una strage degli innocenti conservato presso l’Accademia di Brera, di cui egli fu l’autorevole Segretario, dove è presente il fondo più importante di disegni originali dell’artista1. L’uso della penna, in questo caso non accompagnata da acquerellature o dai rialzi a biacca spesso presenti nei suoi fogli, risulta a lui estremamente congeniale e sicuramente più idoneo, rispetto alla matita o al carboncino, assai meno utilizzati, a tradurre sulla carta la forza del suo estro nel sapersi confrontare con i temi mitologici, storici o allegorici da lui prediletti. In questo caso è rappresentato un momento di un celebre episodio ispirato all’ultimo libro (XXIV) dell’Iliade di Omero che è stata una delle fonti privilegiate dalla cultura e dall’arte del Neoclassicismo. Il cadavere di Ettore, dopo essere stato recuperato da Priamo che ne aveva implorato la restituzione ad Achille, viene riconsegnato ad Andromaca che si accinge a piangere la scomparsa del marito. Si tratta di un tema, quello della morte e del compianto dell’eroe, molto caro all’arte neoclassica e che era stato già trattato, con soluzioni compositive diverse da protagonisti come Gavin Hamilton nel 1764, da Angelika Kauffmann nel 1772, da Jacques-Louis David nel magnifico dipinto del 1783 conservato al Louvre2. Anche Bossi, un artista intellettuale che possedeva un’importante biblioteca, ha voluto confrontarsi con il mondo di Omero, riuscendo a rendere in una composizione molto serrata l’intenso emotivo della scena. Fernando Mazzocca

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dimensioni reali


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Giuseppe Bernardino Bison (Palmanova 1762 - † Milano 1844)

Venezia, Veduta di Piazza San Marco tempera su cartoncino, mm 145 x 208 La piazza più celebre di Venezia si rivela allo sguardo dell’osservatore pur nel ridottissimo formato della pagina, che ne cattura all’istante l’essenza atmosferica e monumentale, con l’esattezza obiettiva che si dilata nei dettagli delle architetture ma anche nella dimensione della vita. I personaggi disseminati, che denotano la macchia diluita e dagli essenziali volumi, partecipano alla definizione di uno spazio netto: ogni cosa e figura è presa e fissata nel suo gesto. L’attitudine così felice e immediata a descrivere la vita veneziana, porta a riconoscersi nelle sue chiare mattine o nei tranquilli pomeriggi che il pittore, di là del mestiere, pare abbia saputo cogliere con vivacità sentimentale. L’opera, difatti, non smarrisce l’impronta vitale della presa diretta, pur mostrandosi sensibile alla luce ferma propria della sensibilità vedutistica settecentesca. La luminosità del cielo estivo - autentico banco di prova nell’imitazione delle atmosfere canalettiane - che quasi conferisce agli edifici dipinti una sorta di metafisica sospensione, e la descrizione di un’animata città che vive la sua quotidiana trasformazione, sembrano qualità formali tali da richiamare alla mente il nome di Giuseppe Bernardino Bison. Nativo di Palmanova del Friuli, giovanissimo egli si affacciò nell’ambiente artistico veneziano, riscuotendo non trascurabili successi anche sul fronte della decorazione d’interni. Ma è nel genere paesaggistico e vedutistico ad aver ottenuto il maggior credito, tanto da trovare, a partire dal 1800 circa, uno straordinario riscontro di pubblico a Trieste, città allora abitata da una ricca borghesia attenta al collezionismo della pittura contemporanea, che quasi adottò Bison per la sua non comune capacità di unire le qualità di una pittura ‘toccata’ di squisita impronta settecentesca al necessario aggiornamento di temi e stile propri della rinnovata cultura del XIX secolo. Con queste credenziali l’artista, ormai già anziano, tentò l’ultima carta trasferendosi a Milano nel 1831, il capoluogo del Lombardo-Veneto nel quale continuò a ricevere dei riconoscimenti, come testimoniano le cronache dell’epoca. Già nell’ultima parte del Settecento, una folta schiera di giovani artisti avevano colto i vantaggi commerciali derivanti dall’imitazione di vedute veneziane di famosi maestri, e si erano dedicati a un’attività orientata a replicare gli angoli più famosi della città. Mutati i tempi, non rimaneva che affidarsi a un mercato di strada, composto dai molti viaggiatori ancora fedeli al mito del luogo apparentemente senza tempo, disposti a fissare le emozioni private in quegli scorci in cui le maggiori architetture si riflettevano nelle acque lagunari e nei cieli azzurri. Erano esemplari perlopiù messi in vendita in occasioni di fiere o festività pubbliche, realizzati da artisti di strada dalle alterne fortune: si pensi, ad esempio, alla difficile eredità raccolta da Giacomo Guardi, che traduceva in stereotipo ‘formato cartolina’ la complessità compositiva e la particolare tessitura cromatica di Francesco, offrendosi al mai allentato circuito internazionale del viaggiatore che, da aristocratico interprete del grand tour, si era trasformato in curioso, e borghese, gitante della domenica. Non è difficile scorgere la fonte canalettiana della veduta: si tratta, com’è noto, di uno dei capolavori del maestro veneziano e incluso sin dalla prima serie di incisioni pubblicata dallo stesso Canaletto e da Antonio Visentini nel 1735 per volontà di Joseph Smith: Prospectus Magni CanalisVenetiarum si legge nel frontespizio del volume, straordinaria raccolta di stampe destinata a lanciare sul mercato internazionale l’immagine di Venezia. Tratta appunto da questo esemplare, quasi non si contano le pressoché identiche redazioni del tema marciano dovute a Giuseppe Bernardino Bison1; nella ‘parafrasi’ di una tale consolidata tradizione, il maestro non abolisce le abitudini visive ereditate dal passato e rinnova quell’adesione all’essenza del fluire della vita veneziana con straordinaria immediatezza. Fabrizio Magani

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Carlo Grubacs (Perasto 1801 - † Venezia 1870)

Venezia, La Riva degli Schiavoni con la Punta della Dogana tempera su cartoncino, mm 140 x 195 Firmato in basso a destra: Principale protagonista della stagione post canalettiana e guardesca del vedutismo veneto, Carlo Grubacs tenne alte le glorie di un passato artistico illustre che segnò profondamente la storia dell’arte italiana dei secoli successivi. Nativo di una località dell’Est europeo, egli visse e operò prevalentemente nella città lagunare, circostanza che gli assicurò l’appellativo di “veneziano”. La sua formazione artistica, come quella di numerosi pittori a lui contemporanei, non è facilmente documentabile e scarse sono le notizie riguardo l’iniziale apprendistato. Nel corso dei primi decenni del XIX Secolo, Venezia continuò ad avere una posizione assolutamente rilevante nella geografia culturale italiana e tale ruolo si rafforzò notevolmente a seguito del completo rinnovamento dell’Accademia promosso dal conte Leopoldo Cicognara. Al rinomato istituto, che accolse Grubacs come allievo nel 1818, la Serenissima affidava la formazione dei suoi artisti migliori, mettendo a disposizione delle giovani menti i solidi insegnamenti accademici e favorendo i progressi della carriera attraverso le annuali esposizioni, spesso occasione di affermazione pubblica e premessa per importanti committenze. Attento conoscitore dei grandi vedutisti del Settecento, in particolare di Francesco Guardi, Grubacs maturò tuttavia un nuovo senso del colore e raggiunse presto un’assoluta padronanza del mezzo pittorico, conquistando la stima e il patrocinio dei principali estimatori d’arte e collezionisti del suo tempo. La Riva degli Schiavoni con la Punta della Dogana, certamente tra le più raffinate tempere a noi conosciute di Carlo Grubacs, ritrae il profilo delle architetture veneziane lungo la Riva degli Schiavoni e l’ingresso al più noto Canale del mondo; sebbene mostri uno dei luoghi cittadini più celebri e perciò descritto dalla maggior parte dei vedutisti settecenteschi, la nostra piccola opera non è la riproduzione di un fortunato prototipo e in particolare si caratterizza per un’assoluta autonomia grafica. L’eccezionale qualità di questa gustosa tempera, resa particolarmente ben leggibile da un perfetto stato di conservazione, e la pittura istantanea e immediata, ci portano a presupporre che l’opera sia fortunato prototipo dal quale l’artista ha in seguito eseguito altre versioni del medesimo soggetto, di inferiore livello e verosimilmente dedicate a un pubblico di turisti forestieri.

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Hercule Brabazon Brabazon (Parigi 1821 - † Sedlescombe 1906 )

Venezia, Veduta di San Giorgio Maggiore acquarelli e white china su carta preparata, mm 165 x 239 Siglato in basso a destra:

Provenienza: The Leger Galleries Ltd., Londra, 1963 Hercule Brabazon, nato in Francia da una famiglia inglese di origini benestanti, e indirizzato all’arte del disegno dalla madre, ebbe modo fin da giovane di rivolgere l’attenzione verso gli splendidi paesaggi del Sussex, che, non vi è alcun dubbio, lo aiutarono molto ad affinare la propria sensibilità artistica. Fu iscritto alla Harrow School, dove si fece notare per le proprie capacità nel suonare il pianoforte e nel dipingere, ma purtroppo, benché nella rigorosa Inghilterra del XIX secolo non ci si possa attendere di assistere a episodi di maltrattamenti tra compagni di scuola, il Brabazon fu sorprendentemente vittima di tali violenze. Fu allora che il padre lo mandò a studiare in Svizzera, dove divenne l’allievo preferito di Alexandre-Louis Albert-Durande, uno studioso erudito nel campo della pittura inglese dell’Ottocento, e in particolare di acquerellisti. Venne quindi iscritto a Cambridge, dove seguì un corso di matematica, ed ebbe come tutore il professor George Peacock, uno dei fondatori del Fitzwilliam Museum di Cambridge. Brabazon decise, contro il volere paterno, di non proseguire gli studi in legge come voleva la tradizione di famiglia, ma di lasciare l’Inghilterra alla volta di Roma (cosa che gli provocò non pochi problemi economici), città ove egli fu felice, e dove entrò in Accademia di San Luca (pittura) e in Accademia di Santa Cecilia (musica), ed ebbe la possibilità di esternare le proprie doti artistiche con assoluta naturalezza e libertà di espressione. Fu anche in Spagna, dove si innamorò perdutamente della pittura del Velasquez. Una delle principali caratteristiche di Brabazon fu quella di saper interpretare gli spazi aperti (forse la sua preparazione di matematico gli fu in ciò di grande ausilio nello studio delle prospettive) e di essere un vero e proprio maestro nell’uso dell’acquerello, soprattutto diventando un “Virtuoso” nel complesso uso del Chinese White, un pigmento bianco opaco, che ben mescolato con pigmenti colorati è una delle basi della tempera. Brabazon elaborò una propria tecnica, mai eguagliata da altri, tale per cui era in grado di intingere il pennello nella tempera prima e di bagnarne la punta con il Chinese white in un secondo tempo, e quindi di passare alla vera e propria pittura sul supporto cartaceo, ma senza mai mescolare i due pigmenti. Brabazon non vendette e non espose le proprie opere fino al 1892. Era timido, riservato e al tempo stesso terrorizzato che la propria pittura non venisse apprezzata dal raffinato e pretenzioso pubblico inglese. Fu solo nel 1892, quando aveva ormai 71 anni, che su insistenza di John Singer Sargent si decise a esporre i propri acquerelli alla Goupil Gallery di Bond Street. Brabazon non volle presenziare all’apertura della mostra, tanto che si rifugiò in Svizzera, da dove mandò un telegramma chiedendo di cancellare l’evento. I suoi amici non lo ascoltarono e inaugurarono l’esposizione; fu un successo straordinario e senza precedenti. La Veduta di San Giorgio è forse da considerarsi quale la summa artistica di un maestro che ha speso tutta la propria vita a dipingere spinto esclusivamente da una grande passione verso l’arte dell’acquarello, certo non per denaro, benché la famiglia non gli garantì mai una grande rendita, e altrettanto certamente non per premiare un proprio ego. Pochi e sapienti pennellate di acquarello e Chinese white su una carta preparata. Di fronte a questo foglio non sarà difficile capire la ragione della lode contenuta nella critica pubblicata da The Spectator (1892) in cui si legge: “…the best watercolour painter we have had since Turner…”. Hercules Brabazon, Venezia, © The Fitzwilliam Museum, Cambridge

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segue da pag. 66

nel deserto che d’Alessandria mette al Cairo: da una sua lettera al Tessari inviata da Costantinopoli il 3 novembre 1843, si può datare l’arrivo che d’Alessandria mette al Cairo: da una sua lettera al Tessari inviata da Costantinopoli il 3 novembre 1843, si può datare l’arrivo in Egitto intorno ai primi giorni di dicembre di quell’anno. Cairo: Isola sul Nilo datato anch’esso 1843 si può considerare di poco successivo al precedente e fotografa l’isola di Rodah, a sud della città. È questo, in un certo senso, un punto di vista emozionale riproposto anche nell’acquerello qui commentato, dove si diffonde una delicatezza di toni grigio-verdastri che fa emergere un fascino sottile e misterioso. Come giustamente individuato da Piero Boccardo, a contraddizione della scritta che compare in basso a destra, la piccola gouache mostra una inedita veduta del Cairo, e più precisamente vi si individua l’area cimiteriale vista dalla collina detta Gabal al-Muqattam, quella da cui sta scendendo il cammello, con il suo solitario cavaliere. Sullo sfondo, a sinistra, si stagliano i due minareti della moschea di El-Azhar; la cupola che li fiancheggia è forse quella della moschea che fu abbattuta e sostituita nel 1870 dalla moschea di Al-Hussain. All’estrema destra, vicino alle palme, compare il mausoleo del sultano Barquq, alla cui sinistra si vede la tomba di Qa’it Bay. (Si ringrazia l’architetto Michelangelo Lupo per la puntuale identificazione degli edifici.) Annalisa Scarpa

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Note (1 - Maestro Mantovano) 1 2

B. Talvacchia in Giulio Romano, catalogo della mostra (Mantova), Milano 1989, p. 392. G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, Firenze 1550, ed. a cura di L. Bellosi e A. Rossi, Torino 1986, p. 834.

(2 - Maestro Emiliano) 1 L’esecuzione degli affreschi del Camerino è stata datata da Silvia Ginzburg, con argomenti peraltro inoppugnabili, al 1599, anno di interruzione dei lavori per la decorazione della Galleria di Palazzo Farnese: S. Ginzburg Carignani, Annibale Carracci a Roma: gli affreschi di Palazzo Farnese, Roma 2000; Ead., Annibale in palazzo Farnese a Roma, in Annibale Carracci, a cura di D. Benati ed E. Riccomini, catalogo della mostra (Bologna), Milano 2006, pp. 449-457. 2 J. R. Martin, The Farnese Gallery, Princeton 1965; C. Volpi, Odoardo al bivio: l’invenzione del Camerino Farnese tra encomio e filosofia, in “Bollettino d’arte”, 83, 1998, pp. 87-95.

(3 - Avanzino Nucci) 1 2 3

G. Baglione, Le vite de’ pittori, scultori et architetti dal ponteficato di Gregorio XIII del 1572 in fino ai tempi di Papa Urbano Ottavo nel 1642, Roma 1642, p. 301 (201). G. Sapori in Pittura del Seicento: ricerche in Umbria, catalogo della mostra (Spoleto), Perugia 1989, pp. 189-191 n. 48. J. Katalan, Avanzino Nucci and the Polidoro Album, in “Master Drawings”, 28, 1990, pp. 173-180.

(4 - Agostino Ciampelli) 1 G. Baglione, Le vite de’ pittori, scultori et architetti dal pontificato di Gregorio XIII del 1572 in fino a’ tempi di Papa UrbanoVIII nel 1642, Roma 1642, I, pp. 319-321. 2 L. Lanzi, Storia pittorica della Italia: dal risorgimento delle belle arti fin presso al fine del XVIII secolo, Bassano 1809, ed. a cura di M. Capucci, III, Firenze 1974. 3 C. Thiem, The Florentine Agostino Ciampelli as a draughtsman, in “Master Drawings”, 9, 1971, pp. 359-364. 4 S. Prosperi Valenti, Un pittore fiorentino a Roma e i suoi committenti, in “Paragone”, 265, 1972, pp. 80-99. Ead., Ancora su Agostino Ciampelli disegnatore, in “Antichità viva”, 12, 1973, pp. 6-17. 5 Disegni dei toscani a Roma: 1580 - 1620. Cristofano Roncalli detto il Pomarancio, Agostino Ciampelli, Andrea Commodi, Francesco Vanni, Domenico Cresti detto il Passignano, Lodovico Cardi detto il Cigoli, Giovanni Bilivert e Sigismondo Coccapani, catalogo della mostra (Firenze - Roma), Firenze 1979. 6 M. Togner, Agostino Ciampelli (1565- 1630): disegni, catalogo della mostra, Olomuc 2000. 7 E. Fumagalli, Roma 1624: un ciclo di tele in onore di UrbanoVIII, in “Paragone”, 57, 2004, pp. 58-78.

(5 - Luca Cambiaso) 1 2

Cfr. B. Suida Manning, W. Suida, Luca Cambiaso, la vita e le opere, Milano 1958, pp. 74-76, figg. 4, 6-8; L. Magnani, Luca Cambiaso da Genova all'Escorial, Genova 1995 pp. 22, 26-27, figg. 26, 34-36. Cfr. rispettivamente P. Boccardo in Luca Cambiaso un maestro del Cinquecento europeo, catalogo della mostra (Genova), Cinisello Balsamo 2007, n. 4 p. 360; Idem in Ibidem n. 6, p. 362; J. Bober in Ibidem, n. 5, pp. 360-361; Idem in Luca Cambiaso 1527 - 1585, catalogo della mostra a cura di J. Bober (Austin), Cinisello Balsamo 2006, n.7, pp. 224-225.

(6 - Maestro Genovese) 1 2 3

Cfr. P. Boccardo in Gênes triomphante et la Lombardie des Borromée. Dessins des XVIIe at XVIIIe siècles, catalogo della mostra, Ajaccio 2006, pp. 56-57, n. 19. Cfr. G. Biavati in Genova nellà Età barocca, catalogo della mostra a cura di E. Gavazza e G. Rotondi Terminiello, (Genova) Bologna 1992, pp. 96-98, n. 9. Genova, Galleria Nazionale della Liguria a Palazzo Spinola, inv. 28405.

(7 - Luca Giordano) 1 O. Ferrari - G. Scavizzi, Luca Giordano. L’opera completa, 2 voll., Napoli 2000, I, nn. D150, D170 E D205; figg. 1037, 1050, 1068.

(8 - Maestro Fiorentino) 1 2

J. Hall, Dizionario dei soggetti e dei simboli nell’arte, Milano 1993, pp. 220, 328. C. Ripa, Iconologia, Venezia 1611, ed. 1992, pp. 148-149.


3 4 5 6

Ibidem, pp. 50-51. 1608; D. Ternois, L’art de Jacques Callot, Parigi 1962, n. 7a. Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi XXII, a cura di A. M. Petrioli, catalogo della mostra, Firenze 1966. R. Contini, Bilivert Saggio di ricostruzione, Firenze 1985; Il Seicento fiorentino, catalogo della mostra, Firenze 1996, pp. 226-230.

(9 - Stefano Della Bella) 1 2 3

D.V. 690 - 713, incisa a Parigi nel 1641; D.V. 714-719, con animali entro dei tondi, Parigi 1646; D.V. 726-729, e D.V. 730- 731 raffiguranti entrambe Tetes de differents animaux, Parigi 1649. Cfr. F. Viatte, Dessins de Stefano Della Bella. Inventaire General des dessins italiens, II, Musee du Louvre, Paris 1974, cat. nn. 339, 261, 340. Fra molti si vedano i fogli 4685, 4688 conservati a Windsor (A. Blunt,The drawings of G. B. Castiglione and Stefano Della Bella in the Collection of Her Mjesty the Queen atWindsor Castle, Londra 1954, cat. nn. 25 e 31) e soprattutto lo schizzo della testa di ufficiale polacco F.C. 126046 nel Gabinetto Nazionale delle Stampe di Roma (M. Catelli Isola, Disegni di Stefano della Bella dalle collezioni del Gabinetto Nazionale delle Stampe, Roma 1976, cat. n. 58).

(10 - Stefano Della Bella) 1 2 3 4 5

Secondo la tradizione ebraica, nel tempo della resurrezione dei morti la ricomposizione dei singoli corpi inizierà dall’osso sacro che si chiama così proprio per questo motivo. F. Viatte, Allegorical and burlesque Subjects by Stefano Della Bella, in “Master Drawings”, 1977, vol. 15, n.4, pp. 347-365, plate 6, 7. M. Catelli Isola, Disegni di Stefano della Bella dalle collezioni del Gabinetto Nazionale delle Stampe, Roma 1976, cat. n. 107. Si tratta del foglio F.C. 127608. Fa parte della serie Second recueil de divers griffonnements et preuves d’eau-forte edita a Parigi nel 1646. Appartiene alla serie di Recueil de divers pieces servant a l’art de portraiture edita a Parigi nel 1646.

(13 - Francesco Solimena) 1 Foto in F. Bologna, Francesco Solimena, Napoli 1958, fig. 176; per notizie sul dipinto: pp. 89-90 e 283. 2 In Disegni napoletani del Sei e Settecento, catalogo della mostra a cura di W. Vitzhum, Napoli 1966, p. 25, n. 33. 3 Distrutta, ma si conserva il modello a Capodimonte. 4 Ibidem, pp. 26-27, n. 37.

(14 - Falsario del Guercino) 1 2 3 4

E. Hoffmann, Neuere Bestimmungen in der Zeichnungensammlung, in “Jahrbücher des Museums der bildenden Künste in Budapest”, VI, 1931, pp. 263-270. D. Mahon in Il Guercino (Giovanni Francesco Barbieri, 1591- 1666). Catalogo critico dei disegni, catalogo della mostra a cura di M. Mahon (1968), Bologna 1969, pp. 182-185; Id., An eighteenth-century Faker of Guercino’s Drawings, in “Apollo”, 109, 1979, p. 316. P. Bagni, Il Guercino e il suo falsario: i disegni di paesaggio, Bologna 1985, p. 61. Bagni cit. 1985.

(15 - Maestro Bolognese) 1 Si vedano soprattutto i fogli di collezioni americane resi noti da Miller: D. C. Miller, Some Bolognese Drawings in California Collections, in “Master Drawings”, 18, 1990, pp. 40-47. 2 D. C. Miller, Marcantonio Franceschini, Torino 2001, pp. 153-154 n. 45.

(17 - Abate Palliero) 1 2

Octavianus Monfort, Torino 1985. Ibidem, pagg. 33-35, ill. 31-32-34.

(18 - Giovanni Canti - cerchia di) 1 Si veda a riguardo il contributo monografico di Nora Clerici Bagozzi: N. Clerici Bagozzi, Per Giovanni Canti pittore di battaglie, in “Antichità viva”, 16, 1977, pp. 13-21.

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(19 - Teresa Berenice Vitelli) 1 2 3 4 5 6

Tempera su pergamena, 150 x 190 mm, Firenze, Galleria Palatina, Inv. 1890, firmata e datata 1706: cfr. Meloni Trkullja, in Natura viva in Casa Medici. Dipinti di animali dai depositi di Palazzo Pitti con esemplari dal Museo della Specola, catalogo della mostra a cura di M. Mosco, Firenze 1985, p. 141; G. Casale in Gli Incanti dell’Iride. Giovanna Garzoni pittrice nel Seicento, catalogo della mostra a cura di G. Casale (Sanseverino Marche), Cinisello Balsamo 1996, pp. 120-121. Tempera su pergamena, coppia, cm. 11,8 x 17,8, con iscrizione sul retro: BereniceVitelli; Sotheby’s Milano, 17 Novembre 2008, lotto 110. Tempera su pergamena, 154 x 187 mm, collezione privata: cfr. L. Tongiorgi Tomasi, The flowering of Florence. Botanical Art for the Medici in The flowering of Florence. Botanical Art for the Medici, catalogo della mostra a cura di L. Tongiorgi Tomasi e G.A. Hirschauer, Washington D.C. 2002, p. 85, cat. 50. Tempera su cartapecora, 250 x 330 mm, Inv. 1890 n. 4758, Firenze Galleria Palatina: cfr. S. Meloni Trkullja , E. Fumagalli, Giovanna Garzoni. Nature Morte, Milano 2008 (Paris 2000), pp. 58-59. Cfr. G. Casale, Op. cit., pp. 76-77, cat. 25. Tongiorgi Tomasi, L. Tongiorgi Tomasi, “La femminil pazienza”:Women Painters and Natural History in the Seventeenth and Early Eighteenth Centuries, in The Art of Natural History: Illustrated Treatises and Botanical Paintings, 1400 - 1850, Symposium Papers XLVI, a cura dii T. O’Malley e A.R.W. Meyers, New Haven- London 2008, p. 170.

(20 - Francesco Antonio Simonini) 1

La vita di Francesco Antonio Simonini nelle carte di Muzio Piccolomini, in "Paragone", LIX, n. 699, terza serie, 79, maggio 2008, pp. 15-58.

(21 - Giacomo Zoboli) 1 2 3

M. B. Guerrieri Borsoi, I disegni di Giacomo Zoboli (1681 - 1767) nel Museo del Barocco di Ariccia, in Il Museo del Barocco Romano: le collezioni Ferrari, Laschena ed altre donazioni a Palazzo Chigi in Ariccia, catalogo della mostra a cura di H. B. Guerrieri e F. Petrucci (Ariccia), Roma 2008, pp. 89-105. G. Sestieri, Repertorio della pittura romana della fine del Seicento e del Settecento, Torino 1994, III, fig. 1151. La pittura del ‘700 a Roma, a cura di S. Rudolph, Milano 1983, tav. 727.

(22 - Maestro Veneziano) 1

Disegni antichi dal Museo Correr diVenezia, a cura di T. Pignatti, Venezia 1980, I, pp. 96-98.

(23 - Francesco Londonio) 1 Per un aggiornato compendio critico sull’opera dell’artista si rinvia a C. Geddo, Londonio, Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. LXV, Roma 2005, pp. 610-613, con bibliografia. 2 F 267 inf. n. 28. 3 Riprodotte in The illustrated Bartsch. Netherlandish Artists, a cura di L.J. Slatkes, vol. I, New York 1978, tavv. 24-I e 33-I. 4 F 267 inf. n. 11.

(24 Francesco Guardi) 1 2 3 4

G. Nepi Sciré, Il quaderno di Canaletto, Venezia 1997, pp. 176-177. A. Morassi, Guardi. I dipinti, Milano 1973, ristampa 1984, pp. 417-418 n.575. A. Morassi, Guardi.Tutti i disegni di Antonio, Francesco e Giacomo Guardi, Venezia 1975, pp.146-147, cat. 384. idem, cat.220, 221, 222.

(25 - Maestro Lombardo) 1 2

Giandomenico Tiepolo maestria e gioco. Disegni dal mondo, catalogo della mostra, a cura di A. M. Geate, G. Knox, Milano 1996, pp. 89-96, 206. G. Buttazzi, Note di moda settecentesca, in Settecento Lombardo, catalogo della mostra a cura di R. Boscaglia e V. Terraroli, Milano 1991, pp. 559-569.

(26 - Francesco Zuccarelli) 1 2 3 4

F. Spadotto, Francesco Zuccarelli, Milano 2007. Ibidem, pag. 13. Ibidem, pag. 18. Ibidem, pag. 19.


5 6 7

G. Rosa, Zuccarelli, Milano 1945, pag. 6. F. Spadotto, op. cit., pag. 173. Pitigliano, Cassa Rurale ed Artigiana, Francesco Zuccarelli 1702 - 1788, Atti delle onoranze, Pitigliano 1989, pag. 9.

(27 - Jacopo Calvi) 1 E. Busmanti, Iacopo Alessandro Calvi: disegni e dipinti, Bologna 1989, p. 13 n. 1; D. Benati, in Barocco italiano: due secoli di pittura nella collezione Molinari Pradelli, catalogo della mostra (Mantova), Milano 1995, pp. 178-179. 2 Il santuario di Girolamo Emiliani in Somasca, in I santuari d’Italia, III, 1930, p. 11. 3 Sulla stampa è riportata la dicitura “Jac.us Alex.er Calvi Bonon.is Pinxit”: Benati cit.

(28 - Antonio Senape) 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11

L. di Mauro (a cura di), Napoli (e dintorni) Sicilia Roma e Italia nelle vedute di Antonio Senape, Napoli 2001. P. A. de Rosa - P. E. Trastulli (a cura di), Antonio Senape e il luoghi della Sirena, catalogo della mostra, Roma 1988. Campi Flegrei tra mito, storia e realtà, catalogo della mostra, Napoli, Castel Sant’Elmo 27 Ottobre 2006 - 30 Gennaio 2007, n. 144. “Antonio Senape, Romano, Disegnatore di Paesi con la penna dà lezione nell’istesso genere e ristaura quadri antichi…”. L’album è conservato presso una collezione privata napoletana. L. di Mauro, op. cit.. I disegni dell’album sono rilegati in un album coevo sul quale compaiono le scritte: Sketches of Italian Scenery e 114 pen and ink Drawings by J. M.W.Turner signed and dated (1829). G. Alisio - N. Spinosa (a cura di), Le vedute napoletane della Fondazione Maurizio e Isabella Alisio, Napoli 2001, (scheda relativa ad Antonio Senape di I. Maietta). N. Spinosa - L. Di Mauro, Vedute napoletane del Settecento, Napoli 1990. Il disegno è conservato presso la Certosa e Museo di San Martino a Napoli. Misura mm 250 x 1470. “Panorama di Napoli preso da S. Martino disegnato dal vero da Ant.° Senape Romano. Abita strada S. Maria della neve alla Riviera di Chiaia n. 18, 2° piano Napoli”. Joseph Mallord William Turner, Naples: the Castle of the Egg, 1819. Dalla raccolta “Naples: Rome. C. Studies Sketchbook”, matita e acquerello su carta, mm 254 x 405. Londra, Tate Britain.

(30 - Ippolito Caffi) 1 2

G. Avon Caffi, Ippolito Caffi, Padova 1967, p. 71. F. Scotton, Ippolito Caffi.Viaggio in Oriente 1843 - 44, Venezia 1988, p. 14-15.

(31 - Domenico Aspari) 1 2 3 4

C. Alberici, Domenico Aspari e un suo acquerello ignorato nella Raccolta Bertarelli di Milano, in “Arte Lombarda”, 1964, pp. 239-241. I. Fumagalli, Elogio del professore emerito di disegno di figura Domenico Aspari, in “Atti della I.R. Accademia di Belle Arti in Milano”, Milano. 1840, pp. 5-17; A.M. Brizio in Mostra dei Maestri di Brera (1776 - 1859), catalogo della mostra, Milano 1975, pp. 56-58. Concorsi dell’Accademia Reale di Belle Arti di Parma dal 1757 al 1796, a cura di M. Pellegri, Parma 1988, pp. 99-100. L’Arte a Parma dai Farnese ai Borbone, catalogo della mostra, Bologna 1979, pp. 101-111; Giuseppe Baldrighi, catalogo della mostra, Stradella 1984.

(32 - Giuseppe Bossi) 1 2

Disegni acquarelli tempere di artisti italiani dal 1770 ca. al 1830 ca., a cura di A. Cera, Bologna, 2002, vol. I, nn. 11, 31. R. Rosenblum, Trasformazioni nell’arte. Iconografia e stile tra Neoclassicismo e Romanticismo, Roma, 1984, pp. 66-82.

(33 - Giuseppe Bernardino Bison) 1

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Giuseppe Bernardino Bison pittore e disegnatore (catalogo a cura di G. Bergamini, G. Pavanello, F. Magani, Milano 1997.


Indice degli Artisti Domenico Aspari, 31 Giuseppe Bernardino Bison, 33 Giuseppe Bossi, 32 Hercule Brabazon Brabazon, 35 Francesco Buonamici, 11 Ippolito Caffi, 30 Luca Cambiaso, 5 Giovanni Canti (cerchia di), 18 Giuseppe Canella, 29 Jacopo Calvi, 27 Agostino Ciampelli, 4 Stefano Della Bella, 9 - 10 Pier Leone Ghezzi, 16 Luca Giordano, 7 Carlo Grubacs, 34 Francesco Guardi, 24 “Falsario del Guercino�, 14 Pietro Liberi, 12 Francesco Londonio, 23 Avanzino Nucci, 3 Abate Palliero, 17 Antonio Senape, 28 Francesco Simonini, 20 Francesco Solimena, 13 Teresa Berenice Vitelli, 19 Giacomo Zoboli, 21 Francesco Zuccarelli, 26 Maestro Bolognese (1720 circa), 15 Maestro Emiliano (1620 circa), 2 Maestro Genovese (1640 circa), 6 Maestro Fiorentino (1620 circa), 8 Maestro Mantovano (1550 circa), 1 Maestro Lombardo (1780 circa), 25 Maestro Veneziano (1750 circa), 22


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