A. Orlando, “Ben imitar coi colori quant’ha di bello il mondo”

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“Ben imitar coi colori quant’ha di bello il mondo”1 Dalla nascita dei generi al gusto rococò nella pittura a Genova nel ‘600 e ‘700 Anna Orlando

“...per le belle piagge i cari suoi tesor versa Pomona e ride ognora inghirlandata Flora” Questa l’immagine di Genova tracciata in pochi versi del poeta savonese Gabriello Chiabrera (1552-1638). La città ligure gode dei favori di Pomona, la divinità latina che presiede alla maturazione dei frutti e alla coltura degli orti e dei giardini, e di Flora, la dea italica della primavera, dei fiori, della gioventù, delle forze rinnovatrici della natura. I versi sono tratti dal poemetto Galatea, o vero le Grotte di Fassolo, stampato a Genova presso l’editore Giuseppe Pavoni nel 1620, e il titolo fa esplicito riferimento alla zona dell’immediato suburbio genovese, allora rinomata per le splendide ville immerse nel verde e affacciate sul mare, tra le quali primeggiava quella di Andra Doria. Pochi anni dopo, nel 1627, l’architetto tedesco Joseph Furttenbach visitò Genova; le sue entusiastiche descrizioni sono una testimonianza quanto mai preziosa, in grado di restituirci l’immagine perduta di una città di ville immerse nel verde, circondate di parchi, di orti e agrumeti. Egli descrive accuratamente sette giardini genovesi sottolineandone i risvolti ludici, nei curiosi spazi riservati allo svago dell’aristocrazia: ricchi di automi, curiosità, grotte, giochi d’acqua, enormi uccelliere, grandi peschiere2. Tutto ciò aveva già colpito Pietro Paolo Rubens, che dopo una prima visita a Genova nel gennaio del 16043, vi tornò per accompagnare il duca di Mantova, ospite nella villa di Sampierdarena di Pasquale e Giulia Grimaldi dalla fine di giugno alla fine di agosto del 16074. E di questo resta traccia nelle due note incisioni dal titolo Il giardino d’amore (fig. 1)5. Negli anni Trenta il pittore fiammingo Cornelis de Wael inviò a Cassiano dal Pozzo a Roma una “veduta di Nervi in Riviera di Genova” (fig. 2), “Per

servirsi nel Libro degl’Agrumi”. Cassiano stava partecipando attivamente alla raccolta di dati utili alla pubblicazione del testo di Giovanni Battista Ferrari Hesperides sive de malorum aureorum cultura et usu, pubblicato poi solo nel 16466. Non è un caso che la Riviera venga additata per questo tipo di coltivazioni, e non è un caso se una delle incisioni inserite nel volume a stampa, mirata a illustrare l’allestimento di una limonaia, sia immaginata da Guido Reni (che fornì il disegno all’incisore J. F. Greuter) in un giardino inequivocabilmente genovese (fig. 3)7. Andando invece a ritroso di alcuni decenni, tra le Rime del poeta dialettale Paolo Foglietta del 1583 si legge: grandi ville abbiamo intorno alla città che vincono con l’arte la natura, che han sempre bei fiori, frutti e verdura, e paradisi terrestri son chiamati 8 L’immagine del giardino, che da reale diviene paradisiaco agli occhi dei poeti, ricorre più volte. In un anonimo Dialogo datato agli anni Ottanta del Cinquecento, un vescovo genovese esalta il giardino come luogo di perfezione del rapporto tra l’uomo e il creato, con un coinvolgimento totale dei sensi; il non meglio specificato “marchese” suo ospite vive “tra tutte le comodità e contentesse...perciocché la sua villa era un paradiso terrestre, et egli un Angelo che gli abitava dentro” 9. Il paesaggio ameno di questa regione affacciata sul mare era già stato celebrato nelle note parole di Francesco Petrarca ai genovesi, nel 1352: “...viva sempre al pensiero ho la memoria dell’incantevole aspetto che di sé porgeva a levante e a ponente la vostra riviera, bella così da parere meglio di celeste che non terrena dimora, simile a quella che la fantasia dei poeti dette nei campi Elisi stanza a’ beati, fra colli ameni, e deliziosi sentieri aperti nel senso delle verdeggianti convalli... vincitrice della natura l’arte vestiva gli sterili gioghi de’ 11


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Fig. 1. Christophe Jegher da Pieter Paul Rubens, Il giardino dell’amore. Fig. 2. Cornelis De Wael, Veduta di Nervi, penna, inchiostro e bistro su carta. Roma, Biblioteca dell’Accademia dei Lincei e Corsiniana Fig. 3. J. F. Greuter da Guido Reni, I limoni di Aretusa.

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vostri monti di cedri, di olivi, spiegando all’occhio la pompa di una perpetua verdura”. In un perenne, plurisecolare oscillare tra realtà e fantasia, tra fedele trascrizione del reale e poetica trasfigurazione del creato, l’occhio dei letterati e dei pittori filtra un mondo ormai passato e ci restituisce sulla carta o sulla tela l’immagine perduta di una città in tutto il suo splendore. Il primo quarto del XVII secolo vede la Superba all’apice del suo potere economico, con una classe dirigente – un’oligarchia aristocratica – che riscuoteva grandi consensi a livello internazionale. Il fervore della scuola pittorica locale, che accoglie non pochi maestri stranieri, soprattutto dalle Fiandre,

consente di ricostruire, come numerosi tasselli di un enorme mosaico, l’immagine variata, coloratissima, animata di questo glorioso momento della storia della città. Per il tema del rapporto tra Arte e Natura, la pittura – i “fiori, frutti & animali”, i “paesi” di cui questa mostra narra – è uno degli elementi in gioco in uno dei temi più sentiti dell’estetica seicentesca. Il tema si sviluppa con una molteplicità di approcci e diverse visioni nel corso del XVII secolo, non sempre in rigorosa scansione cronologica, ma più spesso in alternanza e con uno sviluppo non così lineare verso il trionfo della sensibilità barocca e del gusto rococò. Si va dallo studio attento del dato naturale con intento o approccio scientifico, alla trasfigurazione arcadica del paesaggio (sezione II), dal realismo del fatto quotidiano narrato in tutta la sua semplicità (sezione I), al ricorso al mito che traspone nella favola anche l’oggi (sezione V). Il tutto è avvolto dal senso del tempo: il tempo che scorre senza sosta, che passa e distrugge, che con il tema della Vanitas giunge alla massima esemplificazione visiva. Qui il fiore trionfa sempre come simbolo-guida, con la sua bellezza che irrimediabilmente svanisce (sezione V). Nel canto XVI della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso, stampata a Genova in ben quattro edizioni tra il 1590 e il 1617 (cfr. cat. 90, 105), si legge: Così trapassa al trapassar d’un giorno De la vita mortale il fiore e ‘l verde Ne perché faccia indietro april ritorno Si rinfiora ella mai né si rinverde...

L’aristocratico collezionista e letterato genovese Gio. Vincenzo Imperiale nel suo poema Lo Stato rustico, dato alle stampe nel 1606, paragona la vicenda umana a quella del divenire della natura: tal che in un tempo ha triplicato germe il sen fiorito del pregiato padre; questi nasce, quei cresce, e l’altro invecchia al rinverdin dell’un, l’altro rosseggia; e pargoletto un altro in fior biancheggia 10. E anche questo è un topos letterario, giacché si può andare a ritroso e scorgere tra le parole del Libro di Giobbe un monito del tutto simile: “L’uomo... come il fiore nasce e si avizzisce, fugge come l’ombra e mai si ferma”11. L’arte della pittura consente di fermare l’attimo, quel momento che è irripetibile e unico. Ed ecco che l’orso accovacciato, ritratto con meticoloso occhio da miniatore da Sinibaldo Scorza, riposa e mai si alzerà (Genova, Gabinetto Disegni e Stampe di Palazzo Rosso, inv. D 2879); il gatto che entra furtivamente nelle dispense dipinte da Jan Roos (cat. 12) o Anton Maria Vassallo (cat. 15 e 16) mai avrà il tempo di creare un vero scompiglio, giacché è irrimediabilmente fissato nel fotogramma dipinto sulla tela, per sempre; il coltello o il piatto in bilico nella ricca composizione di oggetti ritratta da Giacomo Legi rimarrà in equilibrio per sempre, senza cadere (cat. 9 e fig. 4)12; non sfiorirà la rosa che il Tempo offre alla Giovinezza in un’allegoria di Domenico Piola (cat. 98), né la rigogliosa messe floreale che un fanciullo reca in una cesta in una tela di Abraham Brueghel e Giovanni Battista Gaulli perderà la sua vitale cromia (cat. 86a). L’artista del secolo del Barocco si compiace di questo artificio. E noi con lui. Il vero del quotidiano Con l’affermazione della classe borghese e mercantile, come è noto, la committenza artistica mostra nuove inclinazioni verso generi pittorici autonomi rispetto ai temi di storia e di religione, di cui può rimanere traccia, magari nel soggetto accennato in secondo piano della composizione. La pittura sempre più diviene specchio della società contemporanea, nei suoi aspetti di vita sociale, di usi, costumi, mestieri, ecc. La gigantesca evidenza che i quadri del pittore anversano Pieter Aertsen e del nipote Joackim Beuchelaer conferiscono alla scena di cucina e di mercato rispetto all’eventuale spunto evangelico – che funge da monito morale –, fino alla definitiva scomparsa dello stesso con l’incondizionato dominare degli oggetti sul primo piano e il conferimento di un ruolo monumentale a figure di umile estrazione, è da sempre indica-

to come un precedente fondamentale per la nascita del genere della natura morta, quale tassello imprescindibile della “preistoria” del genere13. Come evidenziato a suo tempo da Marco Rosci14, questi aspetti, peculiari della cultura manieristica dell’Impero cattolico di lingua tedesca trovano rispondenza anche nelle aree italiane più direttamente legate, culturalmente ed economicamente, all’Impero di Carlo V. In quello che è ricordato come “il secolo dei Genovesi”, tra Cinquecento e Seicento, i banchieri e i mercanti di questa città avevano accumulato tanti e tali beni da condurre vita da “principi assoluti” (Rubens). La ricchezza derivava, da un lato, dalle imprese commerciali condotte in Europa, soprattutto nelle Fiandre, dove alcune famiglie si insediarono stabilmente (Balbi, Cattaneo, Spinola). Dall’altro, venivano dagli interessi derivati dai prestiti al re di Spagna, dei quali detenevano il 51% dalla metà del secolo precedente. Nel 1576 i banchieri liguri avevano il 75% degli asientos (prestiti a breve termine) di Filippo II. Inoltre Genova offriva uomini di guerra, condottieri e ammiragli alle forze armate dell’Impero Asburgico (Giovanni Andrea Doria e Ambrogio Spinola, per esempio). Un duro colpo fu inferto al lusso dei genovesi quando la Spagna interruppe i pagamenti nel 1627. In quegli stessi anni (1625-1627) la città dovette difendersi strenuamente dagli attacchi dei Savoia: il Piemonte premeva allora come non mai per assicurarsi con Genova uno sbocco sul mare. Ma fino a tutto il primo quarto del secolo, la storia gloriosa della Repubblica ha ben poche zone d’ombra15. La presenza delle famiglie genovesi nelle Fiandre, oltre alla naturale vocazione allo scambio di città portuali come Genova e Anversa, rese naturale e intenso il giungere di quadri dal Nord, che andavano ad arricchire le quadrerie dei palazzi in Genova16. Tra questi, alcuni testi pittorici dovettero risultare alquanto rivoluzionari e incidere non poco sulla maturazione di un gusto collezionistico, da un lato, sull’immaginario degli artisti, dall’altro. Uno per tutti è doveroso richiamare il caso emblematico proprio di grandi tavole con La cuoca (1559) e con una Scena di mercato (1561) di P. Aertsen, rispettivamente a Genova (Palazzo Bianco; cat. 1) e Budapest (Szépmuvészeti Museum), o la Scena di mercato di J. Beuckelaer (Palazzo Bianco; cat. 2), tutti giunti in casa Balbi a Genova tra il 1595 e il 1617 al più tardi17. Sono riferimento d’obbligo per la Cuoca dello Strozzi, dipinta a Genova verso il 1625 (cat. 13), ma anche per una più generale e graduale diffusione di tematiche di genere, che altri fiamminghi seppero divulgare in una parlata che da nordica si faceva gradualmente 13


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Fig. 4. Giacomo Legi, La cuoca. Ubicazione ignota Fig. 5. Frans Snyders, Mercato con cacciagione, frutta e verdura. Chicago, The Art Institute Fig. 6. Jan Roos, Natura morta con figura. Genova, collezione privata Fig. 7. Giacomo Legi, Testa di caprone, gallina e carciofi. Collezione Francesco Queirazza Fig. 8. Giacomo Legi, Figura in un interno con vaso di fiori, cesta di limoni e ortaggi. Già Milano, mercato antiquario

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intrisa di elementi dialettali (locali, o più genericamente italiani), in un fenomeno di contaminazioni culturali che nel primo quarto di secolo trova in Genova uno dei più significativi ed emblematici campi d’azione. Le contaminazioni linguistiche, tuttavia, non avvengono solo tra i nordici e i genovesi, giacché anche il verbo caravaggesco giunse ben presto in Liguria18, e anche nel campo della pittura di genere nonché per la nascita della natura morta ebbe un ruolo non secondario. Emblematico si fa allora il caso di Giacomo Legi, artista fiammingo che nella Superba giunge dopo un breve soggiorno di due anni a Roma. Breve, ma sufficiente per essere folgorato dalle novità del naturalismo intenso dei caravaggeschi. Egli dovette arrivare nell’Urbe intor-

no al 1618-1620 circa19, non proprio agli esordi dell’operare dei seguaci del Merisi, ma certamente nel momento di maggiore diffusione della nuova pittura della realtà sia in senso capillare nelle collezioni, sia come generale influenza stilistica presso una gran quantità di artisti non solo italiani. Sappiamo dalle fonti che il giovane Caravaggio, nella bottega del Cavalier d’Arpino, “fu applicato a dipinger fiori e frutti si ben contraffatti, che da lui vennero a frequentarsi a quella maggiore vaghezza che oggi tanto diletta”20; sappiamo poi dal marchese Vincenzo Giustiniani che “tanta manifattura gli era fare un quadro buono di fiori come di figure”21. Se questo atteggiamento di un artista nei confronti del vero che gli si pone innanzi, nella sua semplicità e quotidianità poteva essere già diffuso nella cultura borghese delle Fiandre, nella Roma cattolica di primo Seicento quella del Merisi dovette apparire come una vera e propria rivoluzione. Anche a Genova ne giunse un’eco più o meno pallida, ma quanto basta per innescare, almeno in alcuni, un nuovo approccio alla realtà e alla pittura. I “mercati”, le “dispense” e “cucine” di Giacomo Legi (cat. 3-9; fig. 4), impostate sugli schemi compositivi di Frans Snyders (fig. 5), adottati anche dal cognato Jan Roos (cat. 11-12; fig. 6)22, si fanno più mediterranee nella luce tagliente che egli dosa sapientemente su cose e persone. L’esuberanza materica e luministica del suo materiale quotidiano, quasi populista, sono di tale efficacia e di tale qualità da imporre di annoverarlo tra i più importanti episodi a Genova di pittura della realtà (figg. 7 e 8)23. I soggetti “di genere” delle sue opere furono apprezzati dal collezionismo locale, che ne richiese a lui, al cognato Jan Roos, e anche ai genovesi che, forse in ragione proprio del successo di mercato, decisero di dedicarvisi. Tra questi, soprattutto Anton Maria Vassallo, il cui contributo alla natura morta locale, quale artista dei più “fiamminghi” tra i genovesi, è stato già accertato da tempo24. I ravvicinati confronti visivi che questa mostra consente (cat. 12 e 16), rendono palese quanto già più volte teorizzato, in merito a un eccezionale e fittissimo scambio di reciproci stimoli, e finanche di strette collaborazioni per opere a più mani, nelle botteghe fiammingo-genovesi del primo Seicento a Genova. Il vero di natura tra scienza e mito Il paesaggio, la natura e i suoi elementi si presentano agli occhi dell’artista del Seicento che li guarda con occhi nuovi. Un impulso notevole che, nel corso dei decenni precedenti, aveva suggerito ad

artisti e intellettuali un nuovo approccio visivo è dato dalle ricerche in ambito scientifico. Fino alle vere e proprie rivoluzioni seicentesche la conoscenza della natura e dell’uomo doveva essere guidata dall’autorità dei testi classici. Umanesimo e Rinascimento avevano aiutato a liberarsi dall’idea della fissità e dall’immobilismo insiti nel trascendentalismo medievale incentrato sull’assolutismo di Dio, recuperando gradualmente l’idea di Aristotele secondo cui la natura è “sostanza delle cose che hanno il principio del movimento in se stesse”. L’idea dello sviluppo, del passare del tempo con il rincorrersi ciclico delle stagioni, diviene così uno dei temi più cari agli artisti del Cinquecento e del Seicento, che lo scelgono come soggetto per gli arazzi (cfr. cat. 45), per gli affreschi (cfr. cat. 88-89, 100), quando non per serie di tele, dalle quattro stagioni (spesso come sovrapporta; cfr. cat. 91, 99, 106), ai dodici mesi (cat. 39-44). Il “paesaggio” diviene un genere pittorico autonomo con il Seicento, e il sentimento di cui è pervaso, nasce dall’idea che la natura sia anche luogo di svago o di meditazione: dal concetto intellettuale dell’otium al luogo di evasione nella finzione del mito. In ambito locale è di estremo interesse il poema di Gio. Vincenzo Imperiale, Lo Stato rustico, già ricordato, in cui si elogia la pacifica vita appartata nella villa lontana dagli affanni cittadini; sicché “l’ammirata descrizione del paesaggio e delle meraviglie architettoniche della Genova contemporanea diventa la celebrazione del “vanto” dell’arte sulla “schernita natura”, grazie all’opera dell’“habitatore industre”25. Come nota ancora Franco Vazzoler, il pathos con cui l’Imperiale descrive la campagna è sotteso da un forte realismo, “in cui trovano spazio l’ammirazione non per la sua fertilità spontanea, ma per l’industriosa fatica dei contadini (i campi arati, le vigne, i canali per l’irrigazione, l’allevamento del bestiame, l’innesto degli alberi da frutta) e la meditazione sul peso del lavoro”26. Risultano allora emblematici i documenti figurativi che questa mostra propone, quasi come corrispettivo visivo del pensiero che non dovette essere esclusivo dell’Imperiale, ma coincidere almeno in parte con la mentalità della classe dirigente, e, in fatti d’arte, committente. Si osservino allora il Paesaggio con contadini che raccolgono le zucche di Antonio Travi (cat. 37), dove sullo sfondo troneggia, appunto, una villa; I giardinieri in villa di Cornelis de Wael, dove una gentildonna pare sovrintendere ai lavori (cat. 25); il Pastorello di Sinibaldo Scorza, ove il giovane siede all’ombra di un albero e intrattiene, novello Orfeo, i propri animali al pascolo27; la serie dei Mesi di Jan Wildens, ove il pae15


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saggio si anima nel susseguirsi delle varie attività che le leggi della natura impongono all’uomo perché ne abbia il controllo e ne ricavi i suoi frutti (cat. 39-44). L’Agosto, o Siesta dopo la mietitura, che ricorda, senza enfasi né dramma, anche la fatica del lavoro, con la scena del riposo illustrata sul primo piano (cat. 41, 44). Lo Stato rustico narra di un lungo viaggio del gentiluomo, il pastore Clizio-Imperiale, a scoprire le campagne del Nord Italia, a partire dalla Val Polcevera: come non pensare allora, alle innumerevoli scene con viandanti, nelle tele di Cornelis e Lucas de Wael, o dello Scorza (cat. 27; fig. 9)28? Ma la natura è anche luogo di svago, ed ecco che gli artisti lasciano traccia di come l’aristocrazia trascorreva le ore più liete e serene all’aperto, in opere come Il banchetto di Cornelis de Wael (cat. 26), la Musica in giardino realizzata con l’aiuto della sua bottega, conservata a Villa Durazzo a Santa Margherita Ligure29, o i Nobili trattenimenti in campagna (Maggio) di Wildens (cat. 40). Tra le attività preferite dell’aristocrazia, allora come oggi, vi è la caccia: si osservi allora questo inedito Paesaggio con cacciatori e pescatori di Lucas de Wael (fig. 10)30, cui richiama fortemente questo disegno a penna che allo stesso artista fiammingo può essere riferito (fig. 11)31. Si lega al tema della caccia anche questo inedito dipinto mitologico di Jan Roos con Meleagro e Atalanta, che narra l’episodio dell’Iliade e delle Metamorfosi. Il padre di Meleagro aveva offeso Diana, la dea della caccia, che per vendicarsi aveva mandato un cinghiale a devastare le loro terre. In una battuta di caccia per annientare l’animale la prima a colpirlo fu Atalanta, una giovane amata da Meleagro, alla quale egli farà dono della testa e della pelle dell’animale (fig. 12)32.

Fig. 9. Lucas De Wael, Paesaggio fluviale con viandanti. Collezione privata Fig. 10. Lucas De Wael, Paesaggio con cacciatori e pescatori. Collezione privata Fig. 11. Lucas De Wael (?), Paesaggio con cacciatore. Genova, collezione privata

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“Dipinger col vero avanti” 33 Il corso della storia è segnato dalle rivoluzionarie scoperte scientifiche dell’inizio del XVII secolo, cui giunsero diversi scienziati, all’estero e in Italia quasi contemporaneamente, come spesso accade per la segretezza delle ricerche e per lentezza delle comunicazioni di allora. Galileo Galilei aveva messo a punto “un occhialino per veder da vicino le cose minute”, che è alla base del microscopio per il quale in diversi si contendevano, in quegli stessi anni di primo Seicento, l’invenzione. Sia Keplero che Galielo ripresero le teorie copernicane e confutarono le teorie del sistema aristotelicotolemaico che era appoggiato dalla Chiesa. Galileo si avvalse, a partire dal 1609, di un cannocchiale, che fu denominato telescopio, perché egli lo utilizzò per osservare il moto dei pianeti. I suoi Dialoghi sopra i due massimi sistemi, con le nuove

Fig. 12. Jan Roos, Meleagro e Atalanta. Ubicazione ignota

teorie cosmologiche, valsero a Galielo la condanna nel 1633, ma intanto il corso della storia era cambiato. I nuovi metodi condotti dal gruppo di filosofi e scienziati raccolti attorno alla figura di Federico Cesi nella sua Accademia dei Lincei, nata a Roma nel 1603, presupponevano l’osservazione diretta e l’empirismo, con l’obiettivo di raccogliere tutti gli oggetti che si presentano in “questo gran teatro della natura”. Theatrum totius naturae era il titolo previsto per il suo grande volume enciclopedico che egli non riuscì a terminare; furono date alle stampe, solo nel 1630, venti tavole, dette Tabulae phylosophicae, che di fatto costituiscono il primo libro che raccoglie in modo sintetico ma chiaro e preciso i fondamenti della morfologia, fisiologia, sistematica, patologia e nomenclatura delle piante. Vero e proprio precursore della botanica moderna, il Cesi invitò altri scienziati a perseguire le ricerche mediante la continua osservazione della natura: medici, naturalisti, astronomi, fisici, filologi, antiquari, disegnatori, incisori e pittori lavorarono in squadra per costruire un grande archivio visivo del mondo, senza precedenti. E ciò non poteva che influenzare anche i circoli intellettuali più all’avanguardia nella Penisola, che accoglievano, sovente, anche gli artisti. In campo più specificatamente artistico un noto scritto di Vincenzo Giustiniani a Theodor Ameyden del 1620, attesta in qualche modo, a quella data, la cosiddetta “nascita dei generi” e la prima codificazione di quella che oggi chiamiamo la natura morta. Lo scritto enumera i “dodici modi di dipingere”, tra i quali il “ritrarre fiori, ed altre co-

se minute”, il “dipingere con avere gli oggetti veri davanti”34. Nel caso di Genova, è di particolare interesse la notizia che Gerolamo Balbi (1546-1627), il collezionista genovese che acquistò direttamente nelle Fiandre dove visse molti dipinti fiamminghi, possedeva un’importante biblioteca dal carattere prettamente scientifico. Suo figlio Bartolomeo sembra peraltro essere stato in contatto diretto con Galileo35. Il collezionista e mecenate Gio. Carlo Doria mostra anch’egli spiccati interessi sia in ambito scientifico che artistico. La sua grande collezione, oggi per lo più documentata da tre inventari di beni mobili (databili tra il 1617 circa e una data successiva alla sua morte, avvenuta nel 1625) era composta di una quadreria, di una piccola sezione di grafica, di una serie di oggetti curiosi, conservati assieme ai dipinti in vari «scagnetti», ossia stipi, nonché di alcune mirabilia, tra cui “due osse o’ sia schene di balena larghe palmi 25”, cioè più di sei metri, esposte nel portico del palazzo36. In casa sua si aprì la prima Accademia del Disegno, diretta da Giovanni Battista Paggi, maestro di Sinibaldo Scorza37. A informarci sul primo sodalizio che si riuniva nella loggia del palazzo Doria, con ogni probabilità già alla fine del primo decennio del secolo, sono sia Raffaele Soprani38, sia, nella dedica della sua Galeria (1619), il poeta Giovanni Battista Marino, amico del gentiluomo e poi intimo dello stesso Scorza39. Ebbene, in casa Doria, i giovani disegnavano “a concorrenza degli altri pittori”. Il Soprani racconta di una gara indetta dal mecenate che aveva mostrato agli “Accademici” la testa di “un pesce di strana e molto fantastica figura” degno di essere fissato su carta40. In questa chiave vanno lette allora le presenze nella collezione Doria di 24 “quadretti di uccelli”, di 8 “quadretti di frutte sopra il camino” o altri con “fiori e frutti”: un interesse naturalistico che corre parallelo all’incentivo dato agli artisti di ispirarsi direttamente al vero. A scorrere gli inventari Doria41 vi sono diversi quadri con animali attribuiti allo Scorza, dei quali purtroppo nessuno identificabile con opere note42. Il biografo Raffaele Soprani lo definisce “pittore e miniatore insigne”43, e ciò va tenuto a mente poiché anche le sue nature morte sono soprattutto opere di piccole dimensioni, che lo avvicinano piuttosto alla stagione del primo Seicento lombardo e soprattutto piemontese; non a caso egli soggiornò alla corte dei Savoia tra il 1619 e il 1625 e studiò, sempre a detta del Soprani, le opere del Cerano. Del milanese conobbe certamente quadri in casa Doria, come attestano sempre gli inventari. Il 17


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Fig. 13. Sinibaldo Scorza, Studio di animali. Varsavia, Museo Nazionale

Fig. 14. Pieter Boel, Studio per pappagalli. Parigi, Musée du Louvre Fig. 15. Pieter Boel, Elefante del Congo. Parigi, Musée du Louvre, Dép. Arts Graphiques

dipinger minuto derivò al pittore di Voltaggio forse anche dalla giovanile pratica nella copia dalle stampe di Dürer, e sempre dal Soprani sappiamo che si mise a dipingere dal naturale “fiori, paesaggi, uccellini, quadrupedi”. Dovette utilizzare non solo tele di piccole dimensioni, ma anche supporti quali il rame, la tavola e la pergamena che resero ancor più nordico il sapore delle sue opere. Basti osservare il rame con Paesaggio con pastorello che suona e animali dell’Accademia Ligustica (cat. 35) o il tondino con piccioni e con un tordo di Palazzo Rosso (cat. 29), entrambi dipinti in punta di pennello e concettualmente assai fiamminghi; o, ancora, la rara tempera su pergamena con Il riposo durante la fuga in Egitto di Palazzo Bianco (cat. 36). Nel narrare della fortuna dello Scorza non solo a Genova ma anche a Roma e in altre città d’Italia, presso diversi Signori, altri pittori e “curiosi”, il Soprani ricorda: “ho più volte veduto di miniatura una starna, un pulcino di colomba nel nido, moltissimi pesci, & uccelli, diversi fiori, e infiniti altri piccioli animalucci: delle quali cose conservo presso di me una mosca, degna invero di non essere discacciata; un pesce per virtù dello Scorza vivente fuori delle acque; un uccellino, la tenerezza delle cui piume è sicuramente impareggiabile, & alcuni fiori, non come quei di Primavera, e caduchi”44. “In una parola se coloriva fiori, superava la verità istessa; con frutti faceva invidia all’Autunno; ma nel formar Animali è poco il dire, che egli in ciò fosse divino: tanto bene esprimeva nel cavallo la superbia, la ferocità nella tigre, l’agilità nel cervo; nel leone la magnanimità; la rapacità nel lupo”45. Con i tipici artifici retorici del 18

proprio tempo il Soprani riesce a rendere il fare minuto dell’artista. Negli ultimi anni della sua attività lo Scorza si esercitò anche nella tecnica dell’acquaforte. Il Soprani descrive con precisione quella con un giovane pastore con gregge all’ombra di un albero, di cui si rende finalmente noto per la prima volta in questa occasione un rarissimo esemplare46. Se in sede di Accademia lo Scorza e i suoi colleghi potevano osservare alcuni oggetti e piccoli animali, per esercitarsi nella ripresa diretta dal naturale si vedano gli studi con Pere in mostra, o il ben noto tondino di Palazzo Rosso (cat. 28, 29, 34) - gli artisti dovettero spostarsi anche a dipingere “en plain air” e appuntare quanto necessario per poi eventualmente ultimare l’opera in bottega, o comunque conservarla per servirsene in futuro (fig. 13) . Si veda la straordinaria serie di disegni per lo più acquerellati del Gabinetto e Stampe di cui da conto una sezione curata da Piero Boccardo in questa occasione: rivivono dinnanzi ai nostri occhi gli animali che il pittore osservò con attenzione, sapendone cogliere finanche il carattere, la vivacità d’espressione, l’immediatezza della postura. Anche per Anton Maria Vassallo il Soprani afferma che “felicemente essercitavasi in paesi, fiori, e frutti prendendo ogni cosa dal naturale quale restava immitato da esso con grand’arte, e maestria”47, e a proposito di Jan Roos ricorda che “si mostrò oltremodo eccellente in gareggiar con la natura nell’espressione di frutti, fiori, & animali”48. Questo artista fiammingo, ammiratissimo dal Soprani che ne italianizza il nome in Giovanni Rosa, è oggetto anche di un paio di aneddoti, che lo sto-

scontornare

riografo riporta con l’intento di enfatizzare la capacità dell’artista nell’imitare la natura: “Vaga fu la maniera che tenne questo ingegnoso coloritore in dipingere naturalissimi i frutti, e con tenerezza i fiori: ma la vivacità, che dar fu solito agli animali tanto volatili quanto terrestri, e marittimi, fu così stupenda che ingannati una volta alcuni cani, & avidi di preda s’avventavano a sbranare le lepri da Giovanni dipinte, & alla vista di alcuni ben coloriti pesci, si avvicinò per cibarsene un gatto, e si rinnovarono in ciò gli antichi stupori dell’uve di Zeusi , e del velo d’Apelle”49. Il manoscritto di Carlo Giuseppe Ratti, a proposito di Stefano Camogli, riporta un curioso episodio “che egli spessissimo raccontar solea, allorché discorrer solea come il pittore debba dipinger col ve-

ro avanti”. Racconta della paura del Camoglino per aver dovuto ritrarre un “lupo cerviero” di “un certo millord inglese” che, in assenza del suo padrone “cominciò a ruggire ed a fremere sì fortemente che certo temea di vedersi far qualche brutto scherzo”50. Curioso rammentare allora anche il racconto riportato a proposito di Pieter Boel, un animalista fiammingo nipote di Cornelis de Wael e attivo anche a Genova nel 1647-1650 circa e poi approdato a Parigi come pittore di corte impiegato da Luigi XIV soprattutto per approntare cartoni o modelli con animali per la fabbrica dei Gobelins (fig. 14)51. E’ infatti quasi certamente Pieter Boel il pittore del Re Sole alle prese con un elefante, protagonista di un episodio narrato con dovizia di particolari nelle Mémoires di Perrault (1734) : “un pittore lo voleva disegnare in una posa straordinaria, cioè quella in cui teneva la proboscide alzata e la bocca spalancata; un valletto del pittore, per farlo restare alcuni istanti in quella posizione, gli gettava in gola dei frutti, ma più spesso fingeva di gettarglieli, facendolo seccare al punto che, avendo capito che la causa di quei gesti impertinenti era il desiderio del pittore di ritrarlo in quella posizione, invece di prendersela con l’inserviente, si rivolse direttamente al maestro sputandogli dalla lunga proboscide un forte getto d’acqua” (fig. 15)52. Non solo nella Parigi del Re Sole esistevano serragli dove poter ammirare animali esotici, fiere, uccelli e bestie rare. Nel già citato Dialogo datato agli anni Ottanta del Cinquecento tra un vescovo genovese e il marchese suo ospite, racconta della raccolta “per delitia sua...di tante si belle e varie sorti d’animali...terrestri, acquatici, aerei”, dai cervi, daini, e caprioli che “si veggiono comparire fra un albero e l’altro”, alle lepri, ai conigli e atri “piccoli quadrupedi” raccolti nel fossato, ai pavoni, galli d’India, cicogne, struzzi in un apposito “cortile circondato da muraglie” e infine una gran quantità di volatili d’altre sorti” collocati nella voliera53. La villa di Orazio Di Negro nella zona di Fassolo nel suburbio genovese di Ponente, fu descritta con ammirazione sia da Joseph Furttenbach che da Jhon Evelyn. Il primo ne ricorda il giardino “provvisto di tutte le delizie”, con uccelliere e peschiere; il secondo, un virtuoso inglese che visita la villa di Orazio Di Negro nel 1644, annota “maestosi alberi, pastori, bestie selvagge...”54. Scampoli di una pittura floreale a Genova In un continuo alternare verità e fantasia, aneddoti e favole, i pittori si muovevano tra lo studio dal vero e immagini di repertorio: taccuini, album, 19


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Fig. 21. Bartolomeo Guidobono, il Prete di Savona, Diana e Callisto. Collezione privata Fig. 22. Giovanni Maria Delle Piane, il Mulinaretto, Allegoria della Primavera. Milano, Cariplo

Fig. 16. Valerio Castello e Bartolomeo Biscaino (?), Allegoria delle arti come Vanitas. Collezione privata Fig. 17. Anton Maria Vassallo, Il gioco della mosca cieca. Roma, collezione privata Fig. 18. Anton Maria Vassallo, Natura morta con vaso di fiori e altro vasellame. Roma, Palazzo del Quirinale Fig. 19. Valerio Castello, Danza di amorini. Collezione privata Fig. 20. Domenico Guidobono, Natura morta con upupa. Collezione privata 20

ria biblica o mitologica, pur sempre aventi uno spunto narrativo (fig. 16-21, 22)56. Non a caso, in precedenti analisi sulla nascita di questo genere pittorico a Genova lo si è voluto definire “natura morta animata”, con un ossimoro che ne vuole evidenziare la specificità57. Anche il fiore dunque è quasi sempre funzionale a una storia (cat. 68, 70, 71, 81), all’identificazione di un santo (cat. 74, 82, 84), o forte elemento simbolico che definisce un’allegoria (cat. 98, 102). Un capitolo a sé costituiscono infine i ritratti con fiori58, alcuni dei quali sono effigi istoriate o allegoriche di particolare interesse, come la Paola Lomellini Adorno come Flora di Domenico Parodi (fig. 23) o il Ritratto di dama come Flora che Domenico Guidobono ha dipinto con squisito gusto rococò (fig. 24). A Genova non mancano i fioranti - pittori specialisti nel dipingere fiori -, ma sono presenti in numero minore rispetto ad altre città59: va ricordato Stefano Camogli (fig. 25 e cat. 63-64, 87), che

raccolte di stampe, miniature di maestri forestieri, e per ciò che concerne i fiori nello specifico soprattutto dei Florilegi, volumi illustrati destinati a contenere unicamente incisioni di fiori, editi ad Anversa, Utrecht, Francoforte e Parigi tra la fine del XVI e il primo quarto del XVII secolo55. In questo scenario, la pittura di fiori a Genova, o piuttosto la presenza del fiore in pittura, segue un percorso che è peculiare rispetto ad altri ambiti di cultura artistica. Si deve di fatto constatare, da un lato, una certa predilezione da parte di artisti e committenti per la pittura di animali, per lo più vivi in scenari di natura; dall’altro, il gusto per scene istoriate, facciano esse riferimento alla sto21


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Fig. 23. Domenico Parodi, Ritratto di Paola Lomellini Adorno come Flora. Collezione privata

Fig. 25. Stefano Camogli, il Camoglino in Domenico Piola e Stefano Camogli, Allegoria di Pace e Abbondanza. Santa Margherita Ligure, collezione privata (cat. 95, dettaglio)

Fig. 24. Domenico Guidobono, Ritratto di dama come Flora. Collezione privata

Fig. 26. Peirano Genovese, Fiori e vaso istoriato. San Pietroburgo, Ermitage (firmato) Fig. 27. Bernardo Strozzi, il Cappuccino, Natura morta con vaso di peonie. Collezione privata

quasi deteneva il monopolio del genere, favorito da una lunga esistenza che gli garantì di vivere due generazioni artistiche, prima attivo con il fiammingo Jan Roos suo maestro, e, a partire dalla fine degli anni Quaranta con Domenico Piola suo cognato (cfr. cat. 94-95, 99)60. Si dovrà attendere la fine del secolo, con il misterioso caso di Peirano Genovese (cat. 93 e fig. 26), per poter incontrare un altro fiorante. Ma di lui sappiamo ben poco, e l’appellativo genovese pare piuttosto suggerire che abbia lavorato lontano dalla sua patria d’origine61. Si conoscono poi splendide composizioni di nature morte con la netta predominanza dell’elemento floreale per Bernardo Strozzi (cat. 104 e fig. 27), che tuttavia, non si potrà certo circoscrivere negli angusti confini del genere. Di lui sappiamo che già negli anni genovesi si dovette dedicare alla pittura di natura morta. I primi riscontri documentari si hanno dagli inventari della raccolta di Gio. Carlo Doria62; successivamente, da un’importante testimonianza contenuta negli atti del processo del 1625-1626 che lo vede accusato dal Tribunale Arcivescovile di Genova per uso illecito della pittura, sappiamo che “faceva più e più sorte di quadri, paesi et verdure secondo che l’era ricercato”63; da intendersi forse come paesaggi, e dunque opere di genere. 22

Inserti di natura morta o più specificatamente floreali si trovano in opere certamente confezionate negli anni genovesi: dalla canestra caravaggesca nella bella Madonna col Bambino di Palazzo Rosso64, alle ghirlande di rose che incorniciano i Misteri nella giovanile pala di Framura (figg. 28-29), alle stesse rose, similissime nella lievità di tocco, che si scorgono nel grembiule di santa Zita (fig. 30 e cat. 81). Ma è negli anni veneziani che dovette accentuarsi nello Strozzi e nei suoi committenti il gusto per una pittura di natura morta, e anche di fiori. Ben lo dimostrano le numerose tele con questo soggetto, sue o di suoi collaboratori, annoverate tra le opere rimaste in bottega al momento della morte, avvenuta a Venezia nel 164465. Le rare testimonianze autografe di nature morte del Cappuccino, una volta che si è fatta una doverosa scrematura di tutto ciò che è di pertinenza piuttosto di seguaci, allievi, o imitatori, sono opere di straordinaria efficacia. Si osservi la splendida Natura morta con vaso di peonie di collezione privata (fig. 27, 31)66, e la Natura morta con fiori e frutta esposta in mostra (cat. 104), la prima dominata dalle lievi tonalità rosa delle peonie, la seconda dal bianco spumeggiante delle boules de neige. Il pittore riesce mirabilmente a coniugare la trasparenza materica, dall’effetto quasi traslucido per l’uso di tonalità delicate e di stesure leggere in alcune parti, con l’effetto tutto pittorico di una pittura data a corpo, in altre parti. In questo senso il pittore è come se adottasse e facesse proprie, contemporaneamente, la lezio-

ne di Van Dyck (e Jan Roos), di una pittura delicata per velature, con la lezione di Rubens, intesa come senso materico forte di colore puro. Nei suoi anni veneziani, inoltre, il Cappuccino incontra la luce lagunare, che lo porterà a rischiarare e ad alleggerire la tavolozza. Per tornare nuovamente ai primi esemplari di pittura di fiori a Genova, si dovrà analizzare la

produzione relativamente consistente di ghirlande con all’interno immagini sacre67. Un genere questo, cui la mostra dedica un’intera sala (cat. 59-66), che a Genova, come altrove, è diretta filiazione dai prototipi nordici conosciuti soprattutto per la presenza di opere siffatte nelle collezioni locali68. Senza contare poi la presenza degli artisti in persona, come per esempio 23


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Fig. 28. Bernardo Strozzi, il Cappuccino, Madonna del Rosario. Framura (La Spezia), Chiesa di San Martino

Fig. 33. Domenico Guidobono, Dettaglio di una volta. Genova Palazzo Casareto De Mari, detto Il Melograno

Fig. 29. Bernardo Strozzi, il Cappuccino, Madonna del Rosario. Framura (La Spezia), Chiesa di San Martino (dettaglio)

Fig. 32. Anton Maria Vassallo e Giovanni Battista Carlone, particolare del fregio con il Trionfo della ricchezza di Mare e Terra, detto “Fregio Balbi”, parete nord, Genova, Palazzo Balbi Senarega

Fig. 30. Bernardo Strozzi, il Cappuccino, Il Miracolo di Santa Zita. Genova, collezione privata (dettaglio) Fig. 31. Bernardo Strozzi, il Cappuccino, Natura morta con vaso di peonie. Collezione privata (dettaglio)

dettaglio da sostituire con fotocolor in arrivo

Jan Brueghel il Giovane, tra il 1622 e il 1624, probabilmente ospite dei fratelli De Wael, giacché Lucas de Wael era stato allievo di suo padre Jan Brueghel il vecchio, detto Brueghel dei fiori o dei Velluti. Il genere delle ghirlande fu divulgato al di fuori delle Fiandre in particolare da Daniel Seghers (Anversa 1590-1661), anch’egli allievo di Jan Brueghel il Vecchio. Il maestro fu attivo in Italia tra il 1590 e il 1596 e venne accolto dal cardinale Federico Borromeo, cui si deve l’ampia diffusione in Italia delle ghirlande con immagini devozionali, funzionali alla sua missione di propaganda della Fede cattolica. Se Brueghel risulta il primo ad aver adottato questo schema iconografico, il Borromeo è il primo collezionista a possederne un esemplare. I contatti con l’ambiente milanese di primo Seicento sono ben noti e consistenti, e soprattutto la famiglia Doria giocò un ruolo non indifferente di scambi culturali e più specificatamente artistici e 24

di grandi tele di Abraham Brueghel in collaborazione con Giovanni Battista Gaulli e con Giacinto Brandi sono infatti dipinte non a Genova ma nella Capitale (cfr. cat. 86). Alcune spiegazioni sono possibili, anche volendo indagare una situazione “al negativo”. Innanzi tutto la già ricordata predilezione genovese per le tele istoriate, e, infine, la consacrazione dell’affresco come spazio principe del fasto decorativo delle dimore. Nello “spazio dipinto” di tanti interni genovesi, per cui la città svolge un ruolo da protagonista nella storia della “grande decorazione” di età barocca in Italia72, non sono rari i variopinti inserti con festoni (fig. 32)73 e grandi vasi (fig. 33)74, dal primo Seicento fino al rococò.

collezionistici69. Tra i più precoci esempi di ghirlande per mano di un artista locale, va annoverata per Genova una tela di collezione privata con un Gesù Bambino Addormentato di mano di Giovanni Battista Paggi (cat. 62)70, e successivamente quelle di Anton Maria Vassallo, allievo di Malò, a sua volta allievo di Rubens (cat. 65-66). Ma il vero specialista del genere è Stefano Camogli, che vediamo attivo come figurista e fiorante nella ghirlanda dell’Accademia Ligustica (cat. 61) e invece in collaborazione con Gioacchino Assereto (cat. 59) e soprattutto Domenico Piola in esemplari in parte inediti che la mostra rende noti (cat. 63-64). L’im-

Dal mito come spazio di evasione alla Vanitas Uno dei più importanti poeti del barocco letterario italiano, Giovanni Battista Marino (Napoli 1569-1625), in stretto contatto con l’ambiente

patto visivo di un buon numero di ghirlande inequivocabilmente di mano del Camogli consentirà di guidare in futuro nell’attribuzione di opere di tal sorta al pittore, giacché fino a tempi recenti, ogni corona di fiori su tela rinvenuta in ambito locale gli veniva automaticamente assegnata, indipendentemente da come fosse dipinta, in virtù della sola fama del pittore come specialista in questo campo71. Giacché l’elemento floreale delle ghirlande è ancora una volta funzionale al soggetto, ovvero secondario rispetto al fulcro iconografico religioso, si fanno davvero rari gli esemplari rintracciabili a Genova di una pittura floreale tout court. Ritroviamo spesso il fiore in associazione a un’immagine sacra o in un ritratto, con specifica funzione di attributo o di simbolo – due specifiche sezioni indagano in mostra questi due aspetti –, ma mancano all’appello i grandi trofei floreali dipinti su tela, dallo smagliante impatto decorativo, come accade per esempio nella Roma barocca. La coppia

culturale genovese nei primissimi anni del Seicento75, dedica a un dipinto dello Scorza raffigurante Orfeo una delle sue “favole” de La Galeria, la cui prima parte, dove i componimenti sono ispirati ai dipinti, è dedicata da Parigi nel 1619 a Gio. Carlo Doria. Canta, e’l canto sì dolce tempra il maestro de la Thracia cetra, che le selve non pur lusinga, e molce, non pur rapisce, e sperra con la virtù de’ ben spiegati carmi i fiumi, i tronchi, i marmi, non pur le tigri, e l’orse ferme gli stanno, e mansuete appresso; ma quell’aspido istesso, che’l bianco piè della sua Donna morse pentito forse, e senza tosco, & ira gli lambisce la lira76 Orfeo, mitico cantore e poeta, è l’eroe civilizzatore per eccellenza, è colui che meglio di ogni altro 25


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Fig. 34. Sinibaldo Scorza, Orfeo incanta gli animali. Collezione privata Fig. 35. Giovanni Benedetto Castiglione, il Grechetto, Paesaggio con pastorello. Collezione privata

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sa richiamare al sentimento panico di positiva unione tra uomo e natura che pervade tanta pittura seicentesca. Un testo esemplare è il ben noto Orfeo incanta gli animali di Scorza (fig. 34): dipinto su tela con una materia brillante e traslucida da parer su tavola, l’opera mostra un’infinità di piccoli animaletti sul primo piano, una moltitudine di uccelli sull’albero, e poi un grande leone accanto al giovane, e poco distante uno straordinario elefante. Opera maestra del pittore, tra fedeltà descrittiva e invenzione, tra natura e mito. La natura non è solo oggetto di indagine, ma anche il teatro dell’amore, del gioco e della poesia77. La pittura è per molti il corrispettivo visivo della poesia, secondo il concetto oraziano dell’ut pictura poesis, sposato per esempio da Giovanni Battista Paggi, maestro dello Scorza, del Grechetto, del Fiasella, e altri. Uno dei testi più diffusi e apprezzati a Genova, come già ricordato, è la Gerusalemme Liberata del Tasso, e l’inizio del XVI canto con Rinaldo e Armida trova molteplici riscontri in ambito pittorico (cat. 90, 105). Ma “proprio il Tasso aveva mostrato l’impossibilità di un luogo artificioso in cui regna “eterna primavera” svelando la natura illusoria della struggente bellezza del giardino di Armida”78 e della stessa Armida. Anche le “boscherecce” del Chiabrera, favolette dal tema mitologico di gran successo, in realtà divengono “travestimento e specchio dell’ozio aristocratico”; “non sempre il travestimento pastorale ha questa funzione decorativa ed auto-celebrativa della vita di villa. Gli stereotipi del mondo pastorale possono, al contrario, nascondere problematiche ben più realistiche ed attuali”79. Nella favola mitologica e nella finzione della raffigurazione dipinta si dà spazio all’evasione, con tutto il fascino dell’artificio di cui il barocco è capace; la natura in tutto ciò, non è sempre misurata, controllata, armonica, ma è anche misteriosa e selvaggia. Ben lo dimostrano i rari paesaggi del Grechetto (fig. 35)80, e in generale le tematiche filosofiche che sottendono tante sue opere. La corrente filosofica dello stoicismo, evidentemente sposata dal Castiglione dopo il contatto con alcuni ambienti di cultura “del dissenso” probabilmente a Roma più che a Genova81, lo portano a proporre soggetti quali la Circe, la Melanconia, il Diogene la Temporalis Aeternitas (figg. 36-38, 40)82, spesso intrisi di simbologie di Vanitas, cioè della meditazione sul tema della morte e della transitorietà della vita terrena83. Con lui si percepisce, forse in lieve anticipo rispetto alla maturazione del barocco in pittura per Genova, quel senso di irrequietezza, di precarietà, di mistero che gradualmente predo-

mina lo scenario, via via che ci si addentra nei decenni centrali del secolo. La pittura del Seicento maturo, anche quella genovese, s’infittisce di simboli e allegorie, che pur nella loro natura polisemantica – nell’impossibilità dunque, il più delle volte, di proporne una lettura univoca e inequivocabile – mostrano i tanti aspetti di quel senso malinconico del tempo che passa, inesorabilmente. La mostra ne vuole dar conto, nell’ultima sezione, con capolavori come la Natura morta come allegoria della Vita (e della Passione e Resurrezione) di Jan Roos (cat. 102). L’altra faccia del Barocco vede calarsi sulla realtà, quella vista, vissuta e percepita, un velo di malinconia. Il fiore, che si è voluto scegliere come uno degli elementi-guida per una nuova indagine sulla nascita e sviluppo della pittura di genere a Genova nel ‘600 e ‘700, è quanto mai funzionale a illustrare proprio il concetto di Vanitas: la rosa recisa che il Tempo, armato di falce, canuto e stanco, dona a una bella fanciulla è, questo sì, simbolo inequivocabile. La giovane vedrà sfiorire allo specchio – simbolo di illusione – la propria bellezza , come la rosa, il fiore più bello, che una volta reciso ha breve durata. Rosa, riso d’amor, del Ciel fattura, rosa del sangue mio fatta vermiglia, pregio del mondo e fregio di natura, della Terra e del Sol vergine figlia d’ogni ninfa e pastor delizia e cura, onor de l’odorifera famiglia, tu tien d’ogni beltà le palme prime, sovra il vulgo de’ fior Donna sublime Stupore e meraviglia, sensuale e fantastico, si miscelano nelle parole musicali di Giovanni Battista Marino del suo Adone (1623). Il tema floreale, in particolare legato alle allegorie delle stagioni, si ripropone con le opere allestite nell’ultima sala espositiva. Ma il fiore, l’elemento naturale ancora protagonista, non è più visto con l’occhio di chi ne indaga i misteri, di chi della natura scopre le leggi e vive con essa un idilliaco rapporto di armonia, ma è colto dallo sguardo dell’artista tardo-barocco, che nell’artificio – compositivo, cromatico, iconografico –, nella decorazione anche fine a se stessa, si compiace di fermare il tempo. I pittori inscenano su tela il corrispettivo degli artifici retorici e delle alchimie poetiche dei letterati, in un’iperbolica ricerca del meraviglioso. Pur nella consapevolezza che esista una strana legge di fato e di natura che dell’umane tempre il fragil misto congiunta abbia al natural la sepoltura e svanisce qual fior appena visto84. 27


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Da R. Soprani, Le vite de’ Pittori, Scoltori, et Architetti Genovesi, e de’ Forastieri, che in Genova operarono con alcuni Ritratti degli stessi, Genova 1674, p. 323, a proposito di Jan Roos. 2 J. Furttenbach, Newes itinerarium Italiae, Ulm 1627. 3 E’ incaricato da Vincenzo I duca di Mantova, presso il quale svolge l’attività di pittore e diplomatico, di recuperare dal suo banchiere, Nicolò Pallavicini, le spese relative al viaggio appena sostenuto in Spagna (M. Jaffé, Rubens. L’opera completa, Milano 1989, p. 108). 4 Ibidem, p. 110. 5 Cfr. D. Bodart in Rubens e Genova, catalogo della mostra a cura di D. Bodart, Genova 1977, pp. 84-85, nn. 157-158. 6 Cfr. A. Anselmi in I segreti di un collezionista. Le straordinarie raccolte di Cassiano dal Pozzo 1588-1657, catalogo della mostra a cura di F. Solinas, Roma 2000, pp. 109-110. 7 Per una chiara scheda sul volume cfr. E. Campolongo in Immagini degli dei. Mitologia e collezionismo tra ‘500 e ‘600, a cura di C. Cieri Via, Roma 1996, p. 320. 8 Qui liberamente tradotto dal dialetto genovese. Su Paolo Foglietta cfr. S. Verdino, Cultura e letteratura nel Cinquecento, in La Letteratura ligure. La Repubblica aristocratica (1528-1797), Genova 1992, I, pp. 112-120. 9 Dialogo per lode della Casa di Spagna, ms. sec. XVI, Archivio di Stato di Genova, n. 280; cfr. L. Magnani, Il tempio di Venere. Giardino e villa nella cultura genovese, Genova 1987, passim. 10 Sull’Imperiale cfr. R. Martinoni, Gian Vincenzo Imperiale politico, letterato e collezionista genovese del Seicento, Padova 1983; F. Vazzoler, Letteratura e ideologia aristocratica a Genova nel primo Seicento, in La Letteratura ligure. La Repubblica aristocratica (1528-1797), Genova 1992, I, pp. 274-294; P. Boccardo, Gio. Vincenzo Imperiale (1582-1648), in L’Età di Rubens. Dimore, committenti e collezionisti genovesi, catalogo a cura di P. Boccardo, A. Orlando, (Genova), Milano 2004, pp. 279-282. 11 Giobbe, 14,2. 12 L’opera che qui si illustra, una di una coppia, mi fu segnalata da Mina Gregori; cfr. A. Orlando, Le ‘nature morte animate’ del Seicento Genovese, in Fasto e rigore. La natura morta nell’Italia Settentrionale dal XVI al XVIII secolo, catalogo della mostra a cura di G. Godi, (Colorno), Milano 2000, p. fig. 4 p. 17, nota 35 p. 25. 13 Impossibile anche solo dare menzione della sterminata bibliografia che affronta questo argomento. Per la specificità della trattazione rimando a E. A. Honig, Painting & the Market in Early Modern Antwerp, New Haven-London 1998. 14 Cfr. tra gli altri M. Rosci, La natura morta, in Storia dell’arte italiana. Forme e Modelli, (parte terza, volume quarto), Torino 1982. 15 Per un recente contributo sulla storia economica di Genova in questo periodo cfr. P. Massa, Il secolo dei Genovesi (1528-1627). L’attività creditizia e finanziaria tra privato e pubblico nel Sei-Settecento, in Genua abundat pecuniis. Finanza, commerci e lusso a Genova tra XVII e XVIII secolo, catalogo della mostra, Genova 2005, pp. 11-23. 16 Cfr. P. Boccardo, Dipinti fiamminghi del secondo Cinquecento a Genova: il ruolo di una collezione Balbi, in Pittura fiamminga in Liguria. Secoli XIV - XVII, a cura di P. Boccardo, C. Di Fabio, Cinisello Balsamo 1997, pp. 151-175; P. Boccardo, Ritratti di collezionisti e committenti, in Van Dyck a Genova: grande pittura e collezionismo, catalogo della mostra a cura di S. J. Barnes, P. Boccardo, C. Di Fabio, L. Tagliaferro, (Genova), Milano 1997, pp. 29-58. 17 Cfr. P. Boccardo, A. Orlando in L’Età di Rubens 2004, pp. 168171, nn. 16-17. 18 Cfr. P. Boccardo, A. Orlando, L’eco caravaggesca a Genova. La presenza di Caravaggio e dei suoi seguaci e i riflessi sulla pittura genovese, in Caravaggio e l’Europa. Da Caravaggio a Mattia Preti, catalogo della mostra, Milano 2005, pp. 103-115; con rimandi ai contributi precedenti. Cfr. anche D. Sanguineti, Bartolomeo Cavarozzi e le ‘Sacre Famiglie’: tracce per una congiuntura caravaggesca tra Genova e la Spagna, in Bartolomeo Cavarozzi ‘Sacre Famiglie’ a confronto, catalogo della mostra a cura di D. Sanguineti, (Torino), Milano 2005, pp. 13-39. 1

Fig. 36. Giovanni Benedetto Castiglione, il Grechetto, Temporalis Aeternitas, acquaforte Fig. 37. Giovanni Benedetto Castiglione, il Grechetto, Diogene, acquaforte Fig. 38. Giovanni Benedetto Castiglione, il Grechetto, Circe, acquaforte Fig. 40. Giovanni Benedetto Castiglione, il Grechetto, Melanconia, acquaforte Fig. 39. Salvator Rosa, Democrito, acquaforte

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Sul Legi cfr. A. Orlando in Genova nell’Età Barocca, catalogo della mostra a cura di E. Gavazza, G. Rotondi Terminiello, (Genova), Bologna 1992, pp. 208-209; A. Orlando, Un fiammingo a Genova: documenti figurativi per Giacomo Legi, in “Paragone”, n. 4 (549), novembre 1995, pp. 62-85, tavv. 51-71 e successivi aggiornamenti in A. Orlando, I fiamminghi e la natura morta a Genova. O del trionfo dell’Abbondanza, in Pittura fiamminga in Liguria. Secoli XIV-XVII, a cura di P. Boccardo, C. Di Fabio, Cinisello Balsamo 1997, pp. 260-283. 20 G. P. Bellori, Le Vite de’ Pittori, Scultori e Architetti moderni, Roma 1672 (ed. critica a cura di E. Borea, Torino 1976), p. 213. 21 M. G. Bottari, S. Ticozzi, Raccolta di Lettere sulla Pittura, Scultura ed Architettura scritte da’ più celebri personaggi nei secoli XV, XVI e XVII pubblicata da M. Gio. Bottari e continuata fino ai nostri giorni da S. Ticozzi, Milano 1822 (ed. anastatica, New York 1976), p. 123. 22 Il dipinto di Jan Roos che qui si illustra (cm 123 x 175) è inedito ed è stato cortesemente sottoposto alla mia attenzione da Maria Teresa Orengo su gentile segnalazione di Piero Donati e Carla Oberto. È in restauro presso il Laboratorio regionale di Restauro di Genova, Elena Bolognesi, Laura Tacelli, Ornella Viano, e Titti Zaninetti. In fase di restauro è apparsa traccia di una sigla sul bordo del tavolo. La sua ipotetica lettura come “ER” consiglia di confrontarla, non appena possibile, con quella analoga del dipinto attribuito a Legi del museo Civico di Modena, qui illustrato alla fig. 1 a cat. 5 e con la Cuoca qui a fig. 4, anch’essa recante un monogramma. 23 Il dipinto della collezione Queirazza, già pubblicato come opera di Vassallo (L. Salerno, La natura morta italiana 1560-1805, Roma 1984, p. 148, fig. 37.4 p. 151 Vassallo; A. Cottino, Anton Maria Vassallo, in La natura morta in Italia, direzione scientifica di F. Zeri, a cura di F. Pozio, Milano 1989, I, p. 134 e fig. 143 p. 138) è stato poi restituito a G. Legi da chi scrive: Orlando 1997, nota 69 p. 283; A. Orlando, Anton Maria Vassallo, Genova 1999, n. III.2, p. 146; A. Orlando in Arredi, Dipinti e Oggetti d’arte dalla collezione di Francesco Queirazza, catalogo della Galleria Porro & C., n. 21, Milano 2005, n. 181, pp. 220-221. Il dipinto illustrato alla fig. 8, di cui si ignora l’attuale ubicazione, compare in un catalogo della Galleria d’arte Manzoni di Milano come “Giuseppe Ruoppolo, attr.” (cfr. La natura morta arte “giovane”. Qualità, valore reale delle nature morte, Milano 1969, n. 8). Sulla base dei confronti oggi possibili (si guardino in particolare il modo di disporre le diagonali nella luce; il dettaglio del cassetto del tavolo, ecc.), ritengo possa essere restituito al Legi, allora pressoché sconosciuto (sulla riscoperta del Legi cfr. Orlando 1995). 24 Orlando 1999 passim; A. Orlando, Il ‘fregio Balbi’. Artefici, fonti iconografiche e committenza, in “Studi di storia delle arti”, Università degli Studi di Genova, IX, 1997-1999, pp. 128-142. 25 Vazzoler 1992, I, p. 277. 26 Ibidem, p. 278. 27 La lettura dell’opera come Orfeo che incanta gli animali proposta dal Torriti (La natura morta e il paesaggio, in La pittura a Genova e in Liguria dal Seicento al primo Novecento, II, Genova 1971, p. 356) è un po’ forzata, ma certamente non molto lontana da uno dei possibili significati dell’opera. 28 Cm 74 x 106; inedito. Ringrazio il proprietario per la segnalazione. 29 Cfr. A. Orlando in Quaderni di Villa Durazzo di Santa Margherita Ligure. I dipinti, a cura di A. Acordon, Genova 2005, n. 7, pp. 22-23. 30 Cm 74 x 106; in serie con il precedente. 31 Carta, disegno a penna, inchiostro bruno acquerellato; mm 130 x 200, collezione privata. Il foglio reca sul verso uno schizzo con alcuni studi di figure e una scritta in lingua fiamminga antica. La scritta è stata sottoposta ad Alison Stoesser che ne ha dovuto confermare la scarsa leggibilità. Mia l’attribuzione a Lucas de Wael proposta in questa sede, sulla base dei confronti sempre più numerosi oggi, con opere coerentemente appartenenti al suo corpus pittorico (su Lucas de Wael cfr. da ultimo A. Orlando, voce biografica in La pittura di paesaggio in Italia. Il Seicento, a cura di L. 19

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Trezzani, Milano 2004, pp. 378-380 con bibliografia). 32 Ubicazione e misure ignote. 33 Dal manoscritto del Ratti a proposito di Stefano Camogli: Carlo Giuseppe Ratti. Storia de’ pittori scultori et architetti liguri e de’ forestieri che in Genova operarono secondo il manoscritto del 1762, a cura di M. Migliorini, Genova 1997: la biografia di “Steffano Camoggi”, trascritta da chi scrive (pp. 34-35) è alla c. 42r, p. 35. 34 M. G. Bottari, S. Ticozzi, Raccolta di Lettere sulla Pittura, Scultura ed Architettura scritte da’ più celebri personaggi nei secoli XV, XVI e XVII pubblicata da M. Gio. Bottari e continuata fino ai nostri giorni da S. Ticozzi, VI, Milano 1822-1825 (ed. anastatica, New York 1976), pp. 122-123. 35 Cfr. P. Boccardo, Gerolamo (1546-1627) e Gio. Agostino (15821621) Balbi, in L’Età di Rubens 2004, pp. 163-165, con bibliografia. 36 Sulla collezione di Gio. Carlo Doria cfr. da ultimo il catalogo della mostra L’Età di Rubens 2004, pp. 189-195. 37 Sull’Accademia del Disegno in casa Doria cfr. P. Boccardo, I grandi disegni italiani del Gabinetto Disegni e Stampe di Palazzo Rosso a Genova, Cinisello Balsamo 1999, pp. 28, 30. 38 Soprani 1674, nella vita di Luciano Borzone (p. 180), in quella di Gioacchino Assereto (p. 168), Cappellino (p. 186) e Benso (p. 237). 39 Sui rapporti di Gio. Carlo Doria e del fratello Giacomo con poeti e letterati, e anche con lo Scorza cfr. il bel saggio introduttivo di Viviana Farina nel suo lavoro Giovan Carlo Doria promotore delle arti a Genova nel primo Seicento, Firenze 2002, pp. 11-93. 40 L’impostazione dell’Accademia del Disegno in casa Doria rispecchia esattamente quella di cui si ha notizia a Roma, all’inizio del Seicento, in casa di Giovanni Battista Crescenzi, dilettante di pittura e imprenditore nella cerchia del Cardinal Borghese: “Il Signor Gio Battista havea gusto, che sempre nella sua Casa si essercitasse la virtù, e continuamente vi facea studiare a diversi giovani, che alla pittura erano inclinati (...); et anche talvolta havea gusto di far ritrarre dal naturale, et andava a prebder qualche cosa di bello, e di curioso, che per Roma ritrovavasi di frutti, d’animali ed altre bizzerrie, e consegnavala a quei giovani, che la disegnassero” (G. Baglione, Le Vite de’ Pittori, Scultori et Architetti..., (1642), II ed. Roma 1649, ed. cons. a cura di C. Gradara Pesci, Velletri 1924, p. 305). 41 Gli inventari Doria sono stati pubblicati integralmente per la prima volta in Farina 2002. Cfr. anche V. Farina in L’Età di Rubens 2004, pp. 192-195. 42 Cfr. A. Orlando in L’Età di Rubens 2004, p. 342, con bibliografia. Anche altre raccolte documentate da inventari o fonti successive, attestano il diffondersi di questo genere di opere dello Scorza nelle quadrerie locali: si veda il quadro “con due aquile”, insieme a uno “con due cani” e un altro con “tre cani” nella collezione di Giovanni Battista Balbi (cfr. l’inventario del 23 maggio 1658; P. Boccardo in L’Età di Rubens 2004, nn. 117, 140, 142, p. 400); “due quadri di animali di Sinibaldo” del defunto Nicolò Orero (cfr. l’inventario del 6 maggio 1669; V. Belloni, Penne, pennelli e quadrerie. Cultura e pittura genovese del Seicento, Genova 1973, p. 57); “un cane dipinto da Sinibaldo” stimato da Domenico Piola in casa di Francesco Torriglia il 5 giugno 1677 (Ibidem, pp. 61-62); “un quadro con alcune scimie” nel palazzo della signora Maria Margarita de Caurion de Nisas Spinola in Strada Nuova (C. G. Ratti, Instruzione di quanto può vedersi di più bello in Genova in pittura, scultura ed architettura, Genova 1780, p. 277; attualmente Palazzo Spinola in via Garibaldi, n. 5); “un quadro piccolo d’uccellami” in quello di Benedetto Spinola sempre Strada Nuova (Ibidem, pp. 289-290, oggi Banco di Chiavari, via Garibaldi, 2); “un altro con anitre” nel palazzo di Nicolò Brignole in via San Luca (F. Alizeri, Guida illustrativa del cittadino e del forastiero per la città di Genova e sue adiacenze, Genova 1875, p. 132); senza contare quelli, numerosissimi, più genericamente descritti come dipinto con animali e spesso di piccole dimensioni. 43 Soprani 1674, p. 127. 44 Soprani 1674, p. 131. 30

Soprani 1674, p. 132. Cfr. l’altro saggio di chi scrive in catalogo dal titolo Ritrovamenti per Scorza e Vassallo incisori. 47 Soprani 1674, p. 228. 48 Soprani 1674, p. 323. 49 Soprani 1674, p. 323. 50 Carlo Giuseppe Ratti [1762] 1997, c. 42r, p. 35. 51 A. Orlando, Gli anni genovesi di Pieter Boel, in “Paragone”, 20, luglio 1998, pp. 14-25, tavv. 18-39; Sono di particolare interesse i saggi di Elisabeth Foucart-Walter e di Madeleine Pinault Sørensen nei due cataloghi delle belle esposizioni parigine del 2001, da loro rispettivamente curati: Pieter Boel 1622-1674. Peintre des animaux de Louis XIV. Le fonds des études peintes des Gobelins, catalogo della mostra a cura di E. Foucart-Walter, Paris 2001; Sur le vif. Dessin d’animaux de Pieter Boel (1622-1674), catalogo a cura di M. Pinault Sørensen, Paris 2001. 52 C. Perrault, Mémoires pour servir à l’historie naturelle des animaux, Paris 1671, 1676, 2 voll. 53 Dialogo per lode della Casa di Spagna, ms. sec. XVI, Archivio di Stato di Genova, n. 280. Cfr. Magnani 1987, p. 112. 54 The Diary of John Evelyn, a cura di E. S. de Beer, London 1959; per Villa di Negro, pp. 97-98; cfr. Magnani 1987, p. 142. 55 Sull’argomento cfr. N. Iodice, Evoluzione e tecniche nell’illustrazione dei florilegi tra Cinque e Seicento, in Fiori. Cinque secoli di pittura floreale, catalogo della mostra a cura di F. Solinas (Biella), Roma 2004, pp. 105-113; A. Bosazza, La breve stagione del florilegio, in ibidem, pp. 114-117. 56 L’ipotesi di un intervento dell’allievo Biscaino nella tela di V. Castello si deve a C. Manzitti, Valerio Castello, Torino 2005, p. 230, n. 260 con bibliografia. 57 A. Orlando, Il secolo d’oro della “natura morta animata genovese”, in Natura morta italiana tra Cinquecento e Settecento, catalogo della mostra a cura di M. Gregori, J. G. Prinz von Hohenzollern (Monaco di Baviera), Milano 2002, pp. 298-302. 58 Per i quali si rimanda agli specifici contributi di Daniele Sanguineti in catalogo. 59 Per un quadro d’insieme si veda La natura morta in Italia, direzione scientifica di F. Zeri, a cura di F. Porzio, Milano 1989; Natura morta italiana 2002. 60 Su Stefano Camogli cfr. A. Orlando, Per Stefano Camogli, un fiorante genovese, in “Bollettino dei Musei Civici Genovesi”, nn. 52-53-54, Gennaio/Dicembre 1996, pp. 65-73; A. Orlando, “Pittore eccellente di arabeschi, di fogliami, di fiori, di frutti”. Stefano Camogli in Casa Piola, in D. Sanguineti, Domenico Piola e i pittori della sua “casa”, Soncino 2004, I, pp. 77-100. 61 Sul Peirano cfr. A. Orlando, Il barocco floreale di Peirano genovese, in “Paragone”, 14 (569), luglio 1997, pp. 46-60, tavv. 5161; C. Garcías-Frías Checa, Cuatro nuevas pinturas de flores de Peirano genovese en la Colección del Patrimonio Nacional, in “Reales Sitios”, XL, n. 158, IV trimestre 2003, pp. 71-74; A. Orlando, Nuovi ritrovamenti per Peirano Genovese in Spagna, in “Paragone”, in c.d.s. (2006). 62 Si veda in particolare nell’inventario redatto anteriormente al 1621, “quattro pecore entro un quadretto del prete” (n. 38), “uno longo bardo del Prete” (n. 80); “uno cavagno de fungi del Prete” (n. 84); “un quadretto di vari uccelli del Prete” (n. 311); “hun respice finis del Prete” (n. 385); “uno quadro dove sono molte teste e schiovi e uselli e fiori del Prete” (n. 589); “uno cane barbuto mano del Prete” (n. 594); cfr. V. Farina in L’Età di Rubens 2004, pp. 192-195. 63 Cfr. per la pubblicazione di questo importante documento A. Assini, Gli atti del processo del 1625: un nuovo documento, in Bernardo Strozzi. Genova 1581/82 - Venezia 1644, catalogo della mostra a cura di E. Gavazza, G. Nepi Scirè, G. Terminiello (Genova), Milano 1995, pp. 365-372. 64 Cfr. da ultimo P. Boccardo in Caravaggio e l’Europa 2005, pp. 352-353, n. IV.31, con bibliografia precedente. Per la questione dell’inserto di natura morta cfr. nello specifico A. Orlando in Natura morta italiana 2002, pp. 306-307. 65 Nel suo atelier veneziano, al momento del decesso nel 1644, fu45

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rono registrati come giacenti in bottega un suo esemplare di natura morta autonoma e due con figure, insieme a molti altri riferiti ai suoi collaboratori: di Francesco Durello 25 di frutta, 6 di fiori, 2 di pesci, uno con una “merenda” e una copia da Strozzi con pennuti; di Ermanno Stroiffi 12 di frutta e di fiori; di Giovanni Eisenmann 1 con volatili, otto copie di frutta e fiori; di Clemente Bocciardo uno con grancevola e uno con un fiasco giallo; di Giovanni Sluf (forse Jan Slooth) uno con spornici e sporta. Infine, assegnati a non meglio specificati giovani apprendisti e collaboratori 20 copie di frutta. Certo è, dunque, che la produzione di repliche, copie e composizioni ispirate ai prototipi del maestro, era prassi consolidata. Cfr. per la pubblicazione dell’importante documento L. Moretti, L’eredità del pittore: l’inventario dei quadri “al tempo della sua morte”, in Bernardo Strozzi 1995, pp. 376-378. 66 Cfr. D. Sanguineti in Bernardo Strozzi 1995, n. 66, pp. 230231 con bibliografia. 67 Oltre a quanto segue cfr. anche il testo introduttivo della relativa sezione in catalogo e le schede di questa sezione (cat. 59-66). 68 Si veda ancora il caso ben documentato di Gio. Carlo Doria, che possedeva entro il 1621 “tre tondini del Brughel” (n. 261262); “un paesetto dove c’è Nostra Signora che va in Egitto del Brughel vecchio” (n. 316); “l’Inferno dei Brugel” (n. 393); “la Madona di Savona del Brilla” (n. 440); “un paese in tavola del Brughel” (n. 443); “un paesetto del Brughel dove è un ballo sopra il ghiaccio”; “uno paese di Paulo Brilla” (n. 486); “uno Cristo del Brugel Monte Calvario” (n. 541); “uno insendio de Sodoma del Brugel vechio” (n. 542); senza contare quadri come per esempio i “due quadretti di fiori di Fiandra” (n. 314-315). I numeri si riferiscono alla sequenza come indicata in V. Farina in L’Età di Rubens 2004, pp. 192-195. Cfr. anche quanto osservato da P. Boccardo in L’Età di Rubens 2004, pp. 486-487, n. 124 a proposito dei due tondini di H. Avercamp della raccolta Brignole-Sale, oggi in Palazzo Rosso. 69 Cfr. in particolare M. C. Galassi, I Lombardi e i loro “amici” genovesi: pittori e collezionisti fra Genova e Milano, 1610-1630, in Procaccini, Cerano, Morazzone. Dipinti lombardi del primo Seicento dalle civiche collezioni genovesi, catalogo della mostra a cura di C. Di Fabio, Genova 1992; Farina 2002, pp. 31-34. 70 Reso noto in Orlando 1996, fig. 8. 71 Per Camogli cfr. nota 60. 72 Si rimanda agli importanti lavori di E. Gavazza sull’argomento, in particolare E. Gavazza, La grande decorazione a Genova, Ge-

nova 1974; Idem, Lo spazio dipinto. Il grande affresco genovese nel ‘600, Genova 1989. 73 Colgo l’occasione per rivedere la mia precedente proposta attributiva per gli inserti di natura morta nel fregio con Trionfo della ricchezza di Mare e Terra, detto “fregio Balbi”, parete nord, in Palazzo Balbi Senarega (Orlando1997-1999, pp. 128-142 e Orlando 2000, fig. 8), che credevo del Roos. Alla luce di nuovi appigli figurativi relativi al Vassallo (cfr. cat. 15). Per averne certezza si dovrebbe poter visionare da vicino l’opera che si trova nell’estremità in alto, subito sotto la volta, e non è quindi agevolmente raggiungibile. 74 Sul Palazzo del Melograno cfr. P. Boccardo, A. Orlando, Il Palazzo “del Melograno” a Genova, Genova 2004; sugli affreschi del Guidobono cfr. M. Newcome Schleier, Bartolomeo e Domenico Guidobono, Torino 2002, pp. 28-32. 75 Cfr. Vazzoler 1992, pp. 304-309; Farina 2002, pp. 41-51. 76 Ed. cons. Venezia 1647, p. 40. 77 L. Magnani, L’altra superficie del mito: decorazione e tematiche mitologiche tra XVII e XVIII secolo a Genova, in Metamorfosi del mito. Pittura barocca tra Napoli Genova e Venezia, catalogo della mostra a cura di M. A. Pavone, (Genova), Milano 2003, pp. 31-39. 78 Magnani 1987, p. 147. 79 Vazzoler 1992, pp. 235-236. 80 Reso noto da chi scrive in Giovanni Benedetto Castiglione, il Grechetto, in La pittura di paesaggio in Italia. Il Seicento, a cura di L. Trezzani, Milano 2004, fig. p. 265. 81 Si rimanda allo splendido saggio di L. Salerno, Il dissenso nella pittura. Intorno a Filippo Napoletano, Caroselli, Salvator Rosa e altri, in “Storia dell’Arte”, 5, 1970, pp. 34-65. 82 Per le acquaforti del Grechetto cfr. P. Bellini, L’opera incisa di Giovanni Benedetto Castiglione, catalogo della mostra, Milano 1982; G. Dillon, Dall’acquaforte al monotipo, in Il genio di Giovanni Benedetto Castiglione il Grechetto, catalogo della mostra, Genova 1990, pp. 179-182. 83 B. Suida Manning, The Transformation of Circe. The significance of the Sorceress as Subject in 17th Century Genoese Painting, in Scritti di storia dell’arte in onore di Federico Zeri, Milano 1984, pp. 689-708; E. Gavazza, F. Lamera, L. Magnani, La pittura in Liguria. Il secondo Seicento, Genova, 1990, passim; S. Macioce, Melanconia e pittura nel Seicento, in Scienza e miracoli nell’arte del Seicento. Alle origini della pittura moderna, catalogo della mostra a cura di S. Rossi, (Roma), Milano 1998, p. 142. 84 G. B. Marino, Adone, Parigi 1623, canto XIX.

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