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T H E WIT N ESS
ARCHIVE BOOKS
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N O TA D E L L ’ E D I T O R E
Questo volume realizzato in occasione della mostra Tutta la memoria del mondo alla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino nasce con il desiderio di offrire al pubblico una selezione di testi in cui s’indagano alcuni aspetti del rapporto tra le diverse metodologie storiche, le immagini e l’arte. Non illudendosi di poter trattare l’argomento in modo esaustivo, il libro focalizza la sua attenzione su tre temi principali articolati nella rispettiva successione di capitoli. La narrazione che ne emerge si basa sull’analisi del documento visiv o come strumento per il recupero di una memoria “sepolta” dalla sovrapproduzione estetica. Il tempo di riflessione dedicato all’osservazione delle immagini della storia è, in questo caso, un “tempo privilegiato” che identifica la figura dell’artista come possibile unico testimone del nostro presente.
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I N DIC E
Tutta la memoria del mondo: alcune note sul nesso tra storia e immagini d i E l en a V ol p ato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . P . V I I . . . . . . . .
P. 27
S t or i a a n t i c a e an tiquar ia di Arnaldo Momigliano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
P. 31
S C H E DA I : T O U T E L A M É M O I R E D U M O N D E
CA PI T OLO I A U T O R I T À E D I S TA N Z A
FOCUS I H A R I S E PA M I N O N DA
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . TAV .I
M use i , I st i t u z i on i e r ice r ca d e l l’aute n ticità di Francis Haskell . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
P. 45
L ’ ed i f i c i o d e l muse o un a g u i d a a l l a for ma e al le fun zion i d el m use o d el l ’in ce sto d i S i m o n F u j i w ar a . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
P. 55
I t e m p i e sp a z i d e l la stor ia; il con ce tto d i r a p p r ese n t a z i o n e , l’Assir ia e il Br itish Muse um di Frederick N. Bohrer . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
P. 65
G LO S SA I : C A R LO G I N Z B U RG
Distanza e prospettiva Due metafore . . . . . . . .
P. 111
CA PI T OLO I I AL DI SOPRA DI OGNI SOSPETTO FOCUS II RO S S E L L A B I S C O T T I
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P. 117
Unu s t e s t i s L o st e r m i n i o d e g l i e b r e i e il p r in cip io d i r e altà di Carlo Ginzburg . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . P. 125 R e t or i c a di Patrizio di Massimo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
P. 135
O t t i c a . C o m p r ession e . P r op ag an d a. d i S e a n S n y d e r . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . P. 157
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. . . . . . . . . . . . . . . . . . P. 181
S C H E DA I I : C A P R I C O R N O N E FOCUS III DA N I G A L
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . P. 1 85
Possono parlare i testimoni? Sulla filosofia dell’intervista di Hito Steyerl . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . P. 193 CA PI T OLO I I I I L T E AT R O D E L L ’ E S P E R I E N Z A
I n t e r v i st a i l f utur o d e ll’ig n oto di Clemens von Wedemeyer . . . . . . . . . . . . . . . . . . P. 209 R e -en a c t m en t , e tn og r afia d i r e cup e r o e f o t o g r a f i a n e llo str e tto d i Tor r e s di Elizabeth Edwards . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . P. 221 FOCUS IV JAMES BECKETT
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Identità di Marnie Hughes-Warrington S C H E DA I I I : N AT O I L 4 L U G L I O
P. 265
. . . . . . . . . . . . . . P. 273
. . . . . . . . . . . . . . . . . P. 285
G L O S S A I : G I O RG I O AG A M B E N
F a n t a s i a e d e s p e r i e n z a . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . P. 289
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Tutta la memoria del mondo: alcune note sul nesso tra storia e immagini d i E lena Volp ato Tutta la memoria del mondo, un’espressione che è insieme sogno e abisso, rappresentò per lungo tempo l’utopico programma che, implicitamente o dichiaratamente, le discipline storiche si erano date come ultimo traguardo sulla via della v erità. Un’enunciazione apparentemente priva di soggetto, si configura piuttosto come l’oggetto per antonomasia di ogni possibile conoscenza. Racchiude la totalità di quanto può essere conservato, analizzato, imparato, o anche distrutto, dimenticato, falsato. Ma non c’è oggetto totale senza un implicito soggetto altrettanto totalizzante. Non si d à l’intera memoria del mondo senza un soggetto che sappia o pretenda di saper guardare al mondo sub specie aeternitatis. Tra Sette e Ottocento la ricerca storica si propose con sempre maggior determinazione di bandire ogni principio teleologico, per perseguire un criterio di oggettivit à che le permettesse di esercitare uno sguardo imparziale così assoluto da potersi sollevare al di sopra del fluire degli eventi e così elevato da poterne abbracciare con lo sguardo l’intero corso e l’intera ampiezza. VII
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Si trattava di un criterio per il quale tutto diveniva oggetto di storia, con unica esclusione della storia stessa.1 Proponendosi di “raccontare le cose cos ì come erano andate eff ettivamente”2 la storiografia sembrava scegliersi un compito di schietta evidenza che però affogava in un’assertiva attitudine i dubbi che il Pirronismo e il secolo dei Lumi avevano in diverso modo fatto emergere. Assimilando il principio razionalista che l’illuminismo aveva rivolto proprio contro la sua disciplina, le sue istituzioni e i suoi insegnamenti, la storia perseguiva una riforma che fosse capace di condurla ad unirsi in un unico legittimo alveo con i rinnovati criteri di veridicità delle scienze. La compilazione della storia universale non era compito che un unico storico potesse darsi, ma così come accadeva per gli studi scientifici, dove scoperta si somma a scoperta in un cammino ideale verso la completa conoscenza delle leggi di natura, così anche gli storici confidavano che, negli anni e nei secoli, affiancando dettaglio a dettaglio, tessera a tessera, si sarebbe conquistata la totale visione del mosaico in cui si pensava celato il senso del tutto. Alain Resnais diede titolo Tutta la memor ia del mondo ad un suo corto del 1956, dedicato alla Biblioteca Nazionale di Francia, modello esemplare di un’istituzione che forse più di ogni altra sembra voler approntare, o forse soltanto mimare, l’ideale ricomposizione conclusiva di ogni sapere storico. VIII
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La Nazionale di Parigi che ci viene presentata da Resnais non è unicamente un deposito di testi e documenti che costituiscono le f onti per eccellenza della moderna storiografia. Nelle sue sale e nei suoi depositi si raccolgono i più diversi tesori d’arte. C’è un gabinetto di stampe, uno di carte geografiche, una collezione di medaglie, miniature e codici antichi, una raccolta di opere visive e reperti archeologici. La stessa voce fuori campo afferma perentoria a questo proposito: “È un museo!” Al di sopra di tutto si muove l’occhio della cinepresa, sempre in posizione aerea, a tracciare un volo attraverso gli spazi, e sempre in costante movimento, con innumerevoli carrellate, a volte estremamente rapide, a raccontare il senso dell’infinita accumulazione, di libri a fianco a libri, di pile di documenti sopra documenti, di schedari accanto a schedari, di intere teorie di registri di archiviazione, di pareti, fitte di volumi, che una dopo l’altra costruiscono uno spazio labirintico e che vengono incontro al nostro sguardo come gli innumerevoli portali di una città del tempo, in cui ogni successiva stagione edifica sempre pi ù ampie cinte murarie fatte coi volumi che ne raccolgono il crescente sapere. La simbologia di cui è intessutoTutta la memoria del mondo è di chiara matrice visiva. Le prime immagini ci portano all’interno di una soffitta buia dove intravediamo la sagoma di una cinepresa, come fosse un occhio in attesa di ev enti da registrare. Dopo alcuni indagatori movimenti di IX
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macchina fra le pile di carta, il tutto accumulato senza ordine e apparentemente dimenticato, l’obiettivo si sofferma in una zona di buio indistinto in cui improvvisamente, secondo le pi ù classiche regole della suspense cinematografica, s’illumina un abbagliante faro da set, puntato contro l’obiettivo. Poi le immagini ci portano repentinamente in esterni, nella luce diurna. L’inquadratura è una ripresa sospesa, pressoch é zenitale, dei lucernari della cupola più alta della biblioteca, un elemento architettonico che si troverà riecheggiato poco dopo nel motiv o delle numerose volte che sovrastano l’immensa sala centrale di lettura, ciascuna di esse aperta da un oculo sulla sommità. La lotta contro buio e tenebre, la visione dall’alto dai lucernari attra verso cui la luce s’irradia nello spazio della biblioteca, come in quello dell’ideale museo positivista, sono tutti simboli di una ragione che tutto considera e tutto chiarifica, in virtù di un punto di vista distaccato e superiore, incastonato in una fissa eternità da cui esaminare il fluire del tempo. La stessa ricerca dell’estraneità e della distanza dalla materia di studio è un criterio di natura visiva prima ancora che concettuale. Diviene lampante proprio nel film di Resnais le cui inquadrature zenitali riducono i frequentatori della biblioteca in un rapporto di scala da f ormicaio e proprio dalla natura delle inquadrature sembra scaturire per via diretta una delle immagini finali del commento che narra quanto accade nella biblioteca quando un libro viene dato X
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in consultazione: “il libro attra versa cos ì una linea ideale, un equatore più significativo che se attraversasse la superficie di uno specchio. Non è più lo stesso libro. Fino a quel momento faceva parte di una memoria astratta, universale, indifferente, dove tutti i libri sono uguali e dove ogni libro gode della medesima attenzione, tenera come è tenero lo sguardo di Dio verso l’uomo. Viene dato in pasto ai lettori, specie di finti insetti mangiatori di carta, irrimediabilmente diversi dagli insetti della natura proprio a causa del loro essere legati ai loro punti di vista particolari, ai loro interessi specifici”. Nella visione, nell’occhio, nel punto di vista, la radice greca della nostra cultura ha inscritto un indissolubile legame con il tema della conoscenza, ma sembrerebbe di poter dire che ancor più questo legame agisce tra le declinazioni simboliche della visione e lo specifico sapere che deriva da indagini di natura storica e da ricostruzioni causali di ev enti. Del resto una tra le più potenti immagini della storia che la cultura occidentale abbia prodotto è proprio quella ravvisata in filigrana nell’impianto di uno degli apici della nostra tradizione artistica, quel sistema prospettico di visione per il quale, nella lettura simbolica che ne diede Panofsky3, ad ogni distanza nello spazio corrisponde una distanza nel tempo, all’interno di una struttura che si genera da un punto di vista particolare e termina in un punto di fuga e in una linea d’orizzonte altrettanto dipendenti dalla posizione dello spettatore. XI
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Per meglio analizzare il legame, sia eff ettivo che simbolico, tra la sf era della visione e delle immagini e il sapere storico andr à considerato anche un altro leitmotiv che informa le riprese di Resnais, ben div erso se non contrapposto a quello di sapore illuminista. Tale motivo è sv elato in prima battuta dall’incalzante accompagnamento musicale molto pi ù adeguato a un film noir che al genere documentario cui il film finge di appartenere. Gli spazi mon umentali della Biblioteca Nazionale si alternano a riprese oscure, di un’allusività insistita e mai risolta. Tra gli scaffali appaiono inquietanti presenze intente, apparentemente senza ragione, a spiare i movimenti della macchina da presa. Solo per citare un esempio, il piano sequenza dell’archivista che spinge molto lentamente un carrello di libri, inquadrato dall’alto attraverso la prospettiva di una vertiginosa tromba di scale, non sfigurerebbe nel montaggio di un film alla Hitchcock. Il registro è insomma esplicitamente quello del poliziesco. Forse, come è stato scritto, per Resnais questa scelta corrisponde ad un semplice desiderio di mescolare codici di generi cinematografici differenti perché, come in molti altri suoi film, nulla si dimostri essere quello che sembra. Ma l’accostamento di un’insistita simbologia visiva con un’atmosf era da detective story sembra implicare qualcosa di pi ù sospingendo la nostra attenzione verso uno dei momenti pi ù alti, in termini artistici, di quella classicità che, per in ciso, costituiva l’unica XII
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deroga alla positiva fi losofia del progresso propria del pensiero illuminista desideroso di vedere la storia come una traiettoria tesa ad una continua evoluzione e, allo stesso tempo, disposto a pensarla ripiegata nell’ammirazione delle proprie origini greche classiche. L’unione dei due diversi aspetti conduce alla “madre” di tutte le tragedie, a quell’ Edipo Re di Sofocle dove la ricostruzione storica degli ev enti passati, il suo essere eziologia del presente e potenzialmente del futuro, si articola proprio in un fitto dialogo tra le numerose metafore della visione e quegli elementi che nella modernit à sarebbero div entati codici tipici del racconto giallo. Chiuso tra la cecità iniziale del veggente Tiresia, che mette in guardia Edipo dal voler sapere, e la finale cecit à di Edipo stesso, punitosi per non aver saputo vedere la propria colpa, ma forse, più ancora, punito per aver voluto sapere chi fosse il colpevole, si svolge un dramma intessuto da decine di forme verbali in cui la radice del vedere si sposa con quella del sapere. Articolato da diverse occasioni, il mistero è svelato grazie al racconto di un testimone oculare, cioè da quella figura dell’autoptes che riassumeva in sé l’unica fonte e l’unica prova che Erodoto, pochi anni prima, aveva potuto consegnare alla nascente pratica storica come primo discrimine v erso la v erità. Le interazioni tra i due mondi della visione e delle indagini, nonché il loro rapporto con lo studio delle immagini e dell’arte, div engono comprensibili e significative se lette all’interno di un XIII
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paradigma della conoscenza parallelo e indipendente a quello della v erità scientifica, il cosiddetto paradigma indiziario4 che emerge in ogni occasione in cui immagini e storia si relazionano in un processo di conoscenza. Quella stessa radice del verbo eido (vedo) dal perfetto oida (so) di cui l’Edipo re è intessuto è anche l’origine di idola quella parola, traducibile con “immagini”, con cui nel Seicento Francis Bacon si sarebbe riferito a quei pregiudizi e a quei preconcetti che il suo Nuovo Organo (1620) avrebbe eliminato a favore di una rifondazione scientifica della conoscenza. Esattamente negli stessi anni Galileo Galilei fondava le basi del metodo scientifico sperimentale e Cartesio annotava nel proprio registro, il 10 novembre 1619, di aver iniziato a scoprire i principi di unamirabilis scientia espressa successivamente nel Discorso sul metodo con cui si pongono le basi del razionalismo occidentale. Mentre si assisteva alla nascita scientifica della verità, nella medesima corte papale di Urbano viii attorno a cui avrebbe trovato compimento la vicenda galileiana, Giulio Mancini, medico di corte, famoso per le sue incredibili capacità diagnostiche che gli permettevano di “divinare” la natura della malattia sulla base dei sintomi, pubblicava le sue Considerazioni, un trattato di teoria dell’attribuzione che offriva ai gentiluomini alcuni metodi per il riconoscimento dei falsi in campo artistico. Mancini riassume così più ambiti di un paradigma indiziario i cui fondamenti XIV
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si perdono nel tempo lungo una linea di tramando che come ha ricostruito Carlo Ginzburg5 risale fino a Serendippo, e pi ù indietro ancora all’arte venatoria e a quella, appunto, divinatoria. Si tratta di un paradigma che pone al centro del proprio modello l’attenta osservazione del par ticolare, inteso come caratteristica distintiva degli aspetti individuali di ogni singola realtà, di quei dettagli che non risultano in alcun modo riassumibili in termini quantitativi, come richiedeva invece il metodo scientifico, che spesso si nascondono nelle minuzie di una scena complessiva, fosse questa un dipinto, il corpo di un malato, la scena di un delitto, le tracce sul terreno lasciate da una preda, l’aspetto delle viscere di un animale sacrificato o i movimenti in v olo degli uccelli. Tutti esempi in cui è importante l’unicità del caso singolo che si dimostrerà tanto più leggibile quanto più l’esaminatore saprà cogliere in esso la cifra dello scarto visivo, della peculiarità e della irripetibilit à, agli antipodi di quella massimizzazione degli aspetti del reale che derivava alla scienza dalla necessità di rendere replicabile, e per questo valido, un qualsiasi esperimento su un’intera classe di fenomeni alla ricerca delle leggi universali della natura. Un altro medico due secoli più tardi avrebbe rinnovato l’unione di interessi medici e artistici che era stata del Mancini. Giovanni Morelli, medico, pubblicò tra il 187 4 e il 1876, alcuni articoli sulla pittura italiana dov e mise in luce l’importanza dell’osservazione di dettagli apparentemente XV
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insignificanti ai fini di una corretta attribuzione dei dipinti. Il metodo del medicoMorelli trovò un corrispettivo letterario nei romanzi del medico Arthur Conan Doyle e colp ì l’immaginazione dell’altrettanto medico Sigmund Freud che se ne sarebbe ricordato, mettendolo in correlazione con la teoria psicoanalitica, in occasione della stesura del suo unico testo di argomento storico-artistico, dedicato al Mosè di Michelangelo. Se è vero come ricorda ancora Carlo Ginzburg che nei trattati di divinazione mesopotamici potevano trovare posto anche annotazioni riguardanti diagnosi di natura medica, f orse non stupir à che in questo intreccio di medicina, studio dell’arte, e pratiche divinatorie sia proprio l’Edipo re ad offrirci una chiusura del cerchio, mettendo in scena una sorta di struttura simmetrica tra l’esercizio di un paradigma indiziario rivolto al passato e uno riv olto alla predizione del futuro. Il primo presiede alla ricostruzione storica degli ev enti, attuata dalle indagini di Edipo alla ricerca del colpevole, in cui si susseguono: testimoni oculari, identificazione della scena del delitto e riconoscimento dei segni ai piedi riportati da Edipo infante. Il secondo al continuo contrappunto scenico offerto dalla parola divinatoria: l’oracolo della Sfinge, l’oracolo fatto a Laio, l’oracolo fatto a Edipo, l’oracolo riportato a Tebe da Creonte. Allo stesso modo, gli inviti di Giocasta rivolti a Edipo a non interrogare l’Oracolo e a non credere nei suoi vaticini svolgono un ruolo pienamente simmetrico agli XVI
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insistiti ammonimenti del veggente Tiresia che esorta Edipo a non v oler indagare oltre sulla storia dell’assasinio. Dopo aver risolto l’enigma della Sfinge e a ver sfidato gli dei, convinto della propria capacità di raggiungere la conoscenza attraverso la ricerca indiziaria della verità, Edipo riesce nel proprio intento: risolv e il mistero dell’assassinio di Laio, ma inevitabilmente all’interno del medesimo paradigma, non pu ò non rendersi contemporaneamente anche strumento di dimostrazione dell’efficacia e della v eridicità dell’univ erso divinatorio: il colpevole individuato da Edipo è Edipo stesso, come gli era stato predetto prima del suo ar rivo a Tebe e come era stato predetto a Laio prima della nascita di Edipo. Il paradigma indiziario non è l’unico che il razionalismo scientifico abbia messo in ombra, ve ne è anche un altro, altrettanto correlato all’uso delle immagini, non meno importante del primo per l’individuazione di una possibile v erità storica diversa da quella scientifica. A differenza di quanto si è sosten uto per il primo, non si sviluppa storicamente in modo parallelo e antagonista rispetto a quello scientifico, ma sembra essere già presente in un unico ceppo generativo insieme con le basi del razionalismo stesso. Il simbolico punto di distacco è stato individuato da Giorgio Agamben6 nell’ego cogito cartesiano in cui apparentemente si compie la vittoria del nous, coincidente con l’intelletto divino, a scapito della psyché, ma che, sotterraneamente, XVII
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rappresenta una persistenza dell’eredit à dello spiritus phantasticus della mistica, in quel cogitare che secondo il v ocabolario della filosofia medievale indicava non l’esercizio della ragione, ma quello della fantasia. E pur sempre la mistica, nella fattispecie neoplatonica, era all’origine di quella catena di significati che univa il pneuma, attraverso le intelligenze angeliche di Dante e lo stesso spiritus medievale, proprio all’esprit cartesiano. Prima del distacco cartesiano, all’interno di un medesimo metodo di conoscenza, convivevano gli aspetti intellettivi che sarebbero stati sviluppati dal razionalismo, ma anche quelli che permet tevano a Copernico e Keplero di essere astrologi tanto quanto astronomi, cos ì come nell’alv eo della futura scienza si poteva coltivare l’alchimia. Dalla volontà di fingere una diversa radice sembra nascere la schizofrenia insita nel concetto di esperienza, divisa tra gli aspetti scientifici del metodo sperimentale che l’ha resa quantitativamente misurabile, replicabile e soprattutto completamente esterna e alla soggettività dell’individuo, e gli aspetti tipici della partecipazione, che la pensano come una conoscenza fatta sulla propria pelle, erede di quell’originario páthei máthos che era alla base dell’ineffabile sapere misterico, e di conseguenza impermeabile ad ogni astrazione. Questo secondo tipo di esperienza continuava ad esercitare la propria forma di influenza su ogni sapere pratico, come la caccia o la navigazione, almeno fino al tentativo dell’Encyclopédie di razionalizzare anche quelle. XVIII
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L’ego cogito cartesiano – spiega ancora Agamben – nascondendo questa correlazione originaria, annulla il ruolo della fantasia (parola che trova la sua origine in phantasma: immagine) e dell’immaginazione (etimologicamente: capacità di produrre immagini), che fino allora aveva avuto ruolo di mediazione tra mondo intellettiv o e mondo sensibile, presiedendo al perseguimento dell’esperienza. L’immaginazione non era ritenuta né soggettiva, n é oggettiva, ma di entrambe le nature e per questo offriva un ponte tra intelletto e natura, una garanzia di relazione e dunque di conoscenza. Ma dopo che il pensiero cartesiano razionalista aveva dichiarato l’inutilità di questo ponte e di questa relazione, la fantasia va alla deriva verso un mondo d’immagini che non hanno pi ù rapporto col reale e con il vero, viene relegata al mondo delle visioni e dalla magia, separata da ogni possibilit à di autentica esperienza e dunque di autentica conoscenza. Nell’annullare il ruolo della fantasia si apriva una ferita insanabile alla base di tutte quelle discipline che, secondo la distinzione aristotelica, rientravano nel sapere della phronesis più che nella sfera teoretica della sophia, e nel loro essere orientate all’azione concreta si caratterizzavano per la capacità, non di applicare conoscenze generali, ma di leggere le circostanze specifiche, il dato particolare e individuale di ogni situazione. È stato rilevato che il campo d’attuazione della phronesis è passato a quel latino sensus communis che pensatori come Vico avrebbero contrapposto XIX
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alla moderna scienza e che s’identificava con il fondamento non solo di saperi pratici, ma di tutte le cosiddette scienze dello spirito, e della storia in special modo per la quale, sostiene ancora Vico, bisogna spingere i giovani a nutrirsi di immagini e a produrre immagini. In altre parole, a saper riannodare i nostri legami con paradigmi diversi da quello della scienza moderna, si scoprirebbe che quello della storia non è un ripiego nell’ambito del verosimile, ma il campo di ricerca di una verità raggiungibile per via diversa da quella scientifica, secondo le parole dello stesso Bacon che definiscono l’historia alia ratio philosophandi. Una rivalutazione del valore dell’esperienza e la sua importanza ai fini del perseguimento di una conoscenza storica su basi di una v eridicità diversa da quelle dell’epistemologia scientifica, è quanto si attua nell’elaborazione della nuova filosofia ermeneutica di Hans Georg Gadamer che in Verità e Metodo, proprio passando attraverso un’approfondita riflessione sull’arte, offre una nuova critica della radice seicentesca del pensiero razionale. Dopo la sapienza medico-mantica-attributiva del Mancini opposta al metodo Galileiano, la scoperta di uno spiritus phantasticus “rimosso” nell’ego cartesiano, questa volta sono gli idola di Bacone a trovare nell’ermeneutica una n uova lettura. Nel pensiero di Gadamer i pregiudizi o prefigurazioni, solo per mantenere almeno in parte la matrice visiva della parola idola, lungi dall’essere ostacolo XX
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alla veridicità della storia offrono ad essa un fondamento. Senza di essi non si potrebbe azzardare nessuna ipotesi, n é si potrebbe rispettare la natura storica della storia stessa. Diversamente dall’univoca lettura datane dall’Illuminismo, il pregiudizio ricalca il ruolo avuto in passato dalla fantasia, di essere ponte di collegamento tra lo storico e l’oggetto del suo studio. Ne consegue una diversa valutazione della distanza storica che non rappresenta pi ù come nel pensiero illuminista una distanza visiva, garante di una completa estraneità, e dunque imparzialità del giudizio, ma all’inverso, uno spazio in cui si esplicita un legame, il propagarsi di tramando, e dunque la possibilità di un rapporto di comunicazione e comprensione tra l’orizzonte dello storico e l’orizzonte della materia ch’egli analizza. Gadamer fonda così il senso della ‘fusione degli orizzonti’ di interprete e oggetto interpretato, con cui si prev ede che lo storico, proprio in virtù di ciò che lo lega all’oggetto esaminato, sia in grado di attivare il significato di quanto sta considerando. La “fusione degli orizzonti” è anche da un punto di vista semplicemente iconico quanto di più lontano si possa immaginare dall’occhio divino capace di osservare l’intero corso della storia sub specie aeternitatis. Del resto lo storico, rileva Gadamer, non potrà mai trovarsi in quella posizione, poich é la totalit à della storia non si può dare prima della sua fine e per questo non può esistere una vera distanza zenitale XXI
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dello studioso, condannato inv ece a essere im merso all’interno del fluire degli eventi, e legato al proprio punto di vista particolare e alla propria posizione necessariamente “pregiudiziale”. I lettori finti-insetti di Resnais che nella illuministica Bibliothèque nationale strappano i libri al loro paradiso di assolutezza per cibarsene, intenti solo ai loro interessi specifici, si riv elano dunque gli interpreti ideali della v erità storica. Proprio Gadamer ricorda che gli archivi, i musei nazionali e le biblioteche universali come quella di Parigi a vevano operato una progressiva astrazione, depurando l’oggetto delle loro olimpiche attenzioni di tutta la pregressa storia materiale e collezionistica per meglio calarlo nella narrazione di un’unica e vera storia ideale in cui poco spazio potevano trovare i dati relativi a scopo, funzione, significato e contenuto. Ma questa astrazione era a tutto svantaggio proprio di quel riconoscimento di ogni natura individuale e di quella possibilità di leggere le circostanze che sono, come si è visto, il campo specifico della comprensione e della verità storica. Tra coloro che, in una delle diverse tappe del cammino occidentale verso l’astrazione della storia, si oppose alla risistemazione dei musei, ci fu quel Johan Huizinga che fu primo fra gli storici del Novecento ad interessarsi al valore delle immagini e dell’arte in relazione ai suoi studi.Huizinga, docente ad Amsterdam, lott ò stren uamente contro quel riordino del Rijksmuseum con cui si perseguì la separazione tra opere di grande XXII
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valore estetico, destinate alle raccolte d’arte, e manufatti e documenti di poca o n ulla importanza artistica ai quali, dirottati in un div erso museo, si sarebbe riconosciuto il solo valore storico. Tra il grande racconto della storia estetica e il racconto minuto custodito degli oggetti artigianali ciò che si realizza è ancora uno scarto di paradigma. Da un lato c’è il pensiero di Huizinga e il suo metodo f ondato sulla f orza della ricostruzione immaginativa di un’epoca, il suo muoversi per dettagli e particolari sensibili, il suo voler essere riattivazione di un contesto e, dall’altra parte, si assiste all’istituzione filosofica dell’arte assoluta, in qualche modo non meno asettica della scienza, quanto meno in termini di rigoroso distacco da ogni dato propriamente storico e di astensione da ogni eff ettivo legame col mondo. L’arte viene così posta al di sopra e al di l à dell’umano fluire del tempo. Ancora nella museologia della seconda metà del novecento, si parla di uno statuto “liminale” dell’opera, sospesa in una dimensione altra e di cui il museo officia l’epifania. Huizinga nella sua prolusione d’insediamento alla cattedra di storia nel 19 04 7 sembra ricostituire l’antica eredità che da Serendippo era giunta fino a Conan Doyle: la capacità di ricostruire attra verso div ersi piccoli dettagli una scena avvenuta nel passato. E fa questo rivalutando ovviamente il ruolo dell’immaginazione, ma anche il rapporto della storia con l’arte, e non certo per aff ermare la natura XXIII
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artistica del racconto storico come a vevano fatto e a vrebbero continuato a fare i sostenitori della matrice esclusivamente retorica ed esornativa dell’esercizio della storia, quanto, in tutt’altra chiave, per riconoscere l’importanza della rappresentazione, intesa non come esposizione descrittiva, ma come tessuto di relazioni tra i fatti. L’attività rappresentativa è per Huizinga possibile solo attraverso un rivivere la scena, Nacherleben8, attraverso l’esperienza immaginativa. Huizinga ricorda nel suo saggio i passaggi fondamentali della riflessione storica sull’immaginazione. Cita la posizione di Windelband che traccia una contrapposizione netta tra l’impaccio che una chiara rappresentazione ricca di piccoli dettagli costituirebbe per l’astratto studio scientifico e l’opposta necessità per lo storico di cogliere ogni tratto capace di manifestarsi con vivacità individuale. Lo storico, non solo nella sua ricerca ma anche nella stesura del suo lavoro, sa di avere il compito di far rivivere il passato di fronte ai suoi lettori attraverso un chiaro complesso di rappresentazioni, in altre parole – scrive sempre Huizinga – attraverso un’immagine. Nonostante l’importanza delle immagini e delle connessioni con la storia dell’arte che il paradigma più proprio per lo studio storico ha dunque dimostrato, dalle origini del pensiero occidentale sino alle prime riflessioni metodologiche del secolo appena passato, le f onti XXIV
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pressoché esclusive della storiografia sono state testi e documenti scritti. Uno dei pochi storici che si dedicò a ricostruire le relazioni tra l’utilizzo di f onti letterarie e l’utilizzo di fonti visive fu Arnaldo Momigliano che nel 1950 scrisse il saggio Storia antica e antiquaria che resta ancora oggi il punto di par tenza più valido per ogni trattazione dedicata al rapporto tra immagini e storiografia. Momigliano racconta come gli studi antiquari, fossero spesso disprezzati da parte degli storici e duramente scherniti da v oci del n uovo paradigma scientifico come Bacon che non esita va a definirli una forma di storia sfigurata, ma evidenzia come si siano rivelati essenziali per il progredire del metodo storiografico in due fondamentali situazioni d’impasse. La prima riguardò la storia greca e romana che per secoli si era riten uta scritta una v olta per sempre dagli storici coevi come Livio, Tacito e Svetonio, e che solo l’acribia degli antiquari e il peso delle loro disprezzate raccolte di frammenti seppero lentamente trasformare in un nuovo oggetto di studio, maturato pienamente nella seconda metà del Settecento. La seconda fu pi ù critica perch é non riguardò solo uno specifico settore della ricerca, ma l’intero metodo. Tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento, la credibilità della storia, provata da lunghi decenni di dispute sui falsi tra riformisti e controriformisti, si trovò in balia del Pirronismo alimentato da disincantati eruditi come La Mothe Le Vayer e Pierre Bayle per i XXV
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quali la storia aveva perso ogni speranza di conquista della v erità. Anche in quel frangente le conoscenze antiquarie, n umismatiche e artisti che, offrirono alla storia il metodo del riscontro esterno al testo. I dati desunti dalle fonti letterarie potevano essere incrociati con quelle delle fonti visive il cui carattere pubblico, come nel caso delle medaglie, delle monete, dei mon umenti statuari e architettonici, sembrava garantire un grado di v eridicità maggiore di quanto non potessero vantare le f onti scritte, ritrovate in archivi nascosti alla pubblica vista e riemersi alla considerazione degli storici solo dopo un lungo periodo d’oblio, come era a vvenuto in modo paradigmatico per la famigerata Donazione di Costantino. Non di meno le f onti visive erano destinate a conservare un ruolo defilato nella successiva evoluzione del metodo storico, per la mancata formalizzazione di una teoria che sapesse porsi allo stesso liv ello di rigorosit à che la filologia venne via via conquistando, fino a riv endicare in ultima istanza, anche nel pi ù recente linguistic turn delle cosiddette scienze umane, la capacità di traghettare il modello epistemologico della scienza nel campo della storia. Ma il metodo filologico si era avvicinato al rigore scientifico attraverso una progressiva astrazione del testo che a veva allontanato le f onti scritte dal campo del sensibile e del qualitativo che si ricorderà essere proprio del paradigma indiziario, per spingersi verso un universo d’immaterialità il più XXVI
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vicino possibile all’astratto campo delle scienze quantitative. Come ha ricordato Ginzburg9, prima la scrittura e poi la stampa hanno separato la parola dal corpo e dall’individualità d’accenti tipici dell’oralit à, dei codici manoscritti e così dalla possibilità di un qualsiasi dialogo con la tradizione orientale in cui è sopra vvissuta, nella pittura ad inchiostro, l’espressione congiunta di scrittura e immagine. L’astrazione che le istituzioni universalistiche come i musei positivisti hanno condotto nel campo delle arti è solo parzialmente paragonabile a quella conosciuta dalla cultura testuale. Forse il punto di massimo ravvicinamento si è a vuto nella descrizione del museo immaginario di Malraux frutto, non a caso, di un pensiero che vedeva nell’arte una purificazione del mondo e secondo il quale le opere della cultura figurativa mondiale si disponevano di fronte allo sguardo mentale dello studioso, in forma di riproduzione fotografica, senza corpo, senza peso e senza volumi che potessero rispondere al mutare della luce o del punto di vista ; tutte della stessa dimensione e per tanto facilmente paragonabili, al di l à di ogni specifico contesto e di ogni circostanza. Ma il disincar nato esempio della filologia testuale era davvero più di quanto lo studio dell’arte, ma si vorrebbe dire della storia stessa, potesse concedere al modello epistemologico scientifico, senza rinunciare alla propria natura.
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Note 1. In realtà, ad un principio teleologico di natura teologica se ne era sostituito uno di natura filosofica, con cui si stabiliva una direzione storica evolutiva dettata dalla storia del progresso. 2. Nota espressione di Leopold von Ranke a cui si deve una delle più influenti riflessioni ottocentesche sulla metodologia storiografica. 3. Erwin Panofsky, Die Perspektive als “symbolische Form”, in “Vorträge der Bibliothek Warburg”, 1927; edizione italiana E. Filippini, La prospettiva come f orma simbolica e altri scritti, (a cura di Guido D. Neri), Milano, 1961. 4. Carlo Ginzburg, Spie: radici di un paradigma indiziario, in Miti, Emblemi e Spie, Torino, 2000, pp. 158-209 5. Ibid. 6. Giorgio Agamben, Infanzia e Storia: saggio sulla distruzione dell’esperienza, in Infanzia e Storia,Torino, 1978, pp. 3-66. 7. Johan Huizinga, L’elemento estetico delle rappresentazioni storiche, in Immagini della storia. Scritti 1905-1941, Torino, 1993. pp.5-32. 8. Non dovrebbe apparire casuale la comune radice linguistica del pensiero di Warburg, con la sua centrale teoria del Nachleben, e il Nacherleben di Huizinga. Alla luce di questa familiarità l’accusa di circolo vizioso avanzata contro le argomentazioni usate in diverse tesi degli studi iconologici sviluppatisi attorno alWarburg Institut di Londra potrebbero risolv ersi nella legittimit à di quel ‘circolo ermeneutico’ a cui Gadamer ha dato fondamento. 9. Op.cit. 2000, pp158-209.
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Poiché la sua memoria è corta l’uomo accumula innumerevoli pro-memoria. Di fronte a queste traboccanti raccolte l’uomo viene assalito dalla paura di essere travolto da una mole di parole. Per salvaguardare la sua libertà costruisce delle fortezze. A Parigi le parole sono imprigionate nella Biblioteca Nazionale. Tutto ciò che viene stampato in Francia si trova qui. Ogni segno tracciato dalla mano dell’uomo è qui rappresentato nella sezione più ampia di tutte: i manoscritti. La sala di lettura dedicata ai periodici testimonia un mondo in continuo cambiamento. La maggior parte dei quotidiani di tutto il mondo si può consultare qui. Nella sala delle incisioni, ogni immagine è conservata, che sia un’acquaforte, una litografia o una fotografia. Questo è un museo.
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Resnais crea un suo testimone, Mars, un libro di scena, con copertina, titolo, indice immaginari, per condurre l’occhio della cinepresa all’interno dei meccanismi di funzionamento della Biblioteca Nazionale di Francia. Attraverso Mars spia ogni fase del rituale di archiviazione che conduce alle stanze del sapere totalizzante dove tutti i libri – come dice Resnais – sono uguali, come gli uomini agli occhi di Dio.
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Storia antic a e an tiquar ia di Ar naldo Momig liano Nel secolo XVIII un nuovo umanesimo appariva in competizione con quello tradizionale. Era organizzato in società erudite, anziché accentrarsi nelle università; era promosso da gentlemen più che da insegnanti di scuola. Essi pref erivano viaggiare, anzich é emendare testi, e ai testi letterari anteponevano sempre le monete, le statue, i vasi e le iscrizioni. Addison discuteva l a connessione tra le monete e gli studi letterari 1, e Gibbon, che aveva abbandonato Oxford, rinnovò la sua formazione acquistando per venti sterline i venti volumi delle Memorie dell’Académie des Inscriptions. L’Italia era ancora al centro dell’attenzione, sia per i dotti, sia per i curiosi. Ma era un’Italia più complessa, dove le antichità etrusche contavano poco meno delle rovine romane, e dov e si comincia vano ad ann unciare scoperte straordinarie, da Ercolano, nel 1736, e da Pompei, nel 17 48. Inoltre le antichit à del1a Grecia assumevano sempre più importanza per i pochi fortunati – soprattutto inglesi e francesi – che potevano visitarle, e per la schiera più numerosa, ma sempre più ristretta, di quanti pote-
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vano permettersi di comperare gli splendidi libri in cui esse erano illustrate: in primo luogo le Antiquities 0f Athens di Stuart e Revett (1762). Ma anche più importante è notare che a poco ci si rendeva conto di poter trovare impressioni di bellezza e un’emozione di nuovo genere osservando la chiesa parrocchiale o il vicino-castello: proprio come si poteva trovare poesia ascoltando i canti e i racconti di contadini isolati. Diffondendosi dall’Inghilterra all’Europa, la rinascita greca, celtica e gotica sancì il trionfo di una classe libera da preoccupazioni, indifferente alla controversia religiosa, non interessata alla sottigliezze grammaticali, che cercava nell’arte forti emozioni capaci di controbilanciare la pace e la sicurezza della sua esistenza.2 Questa se nn sbaglio, è la visione conv enzionale dell’età degli antiquari non comportò solo una rivoluzione nel gusto, ma ance una riv oluzione nel metodo storico. Qui f orse può intervenire uno studioso della storiografia. L’età degli antiquari stabil ì canoni e pose problemi di metodo storico che difficilmente oggi potremmo definire superati. Tutto il metodo moderno di ricerca storica si fonda sulla distinzione tra fonti originali e derivati. Per f onti originali intendiamo dichiarazioni di testimoni oculari o documenti o altri resti materiali che siano contemporanei ai fatti che attestano; per fonti derivate intendiamo storici o cronisti che riferiscono e discutono fatti ai
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quali non hanno assistito, ma di cui hanno sentito parlare o hanno inferito direttamente o indirettamente di fatti originali. Noi apprezziamo le fonti originali in quanto sono attendibili, ma apprezziamo gli storici non contemporanei – o le f onti derivate – in quanto dimostrano un sano giudizio nell’interpretare e nel valutare le fonti originali. La distinzione tra fonti originali e storici non contemporanei divenne patrimonio comune nella ricerca storica solo nel tardo secolo XVII. Naturalmente la distinzione si può trovare anche prima, ma non formulata in termini esatti e non considerata generalmente un presupposto necessario dello studio storico. Nella formazione del nuovo metodo storico, e quindi nella creazione della storiografia moderna sul mondo antico, i cosiddetti antiquari ebbero una parte cospicua e posero problemi fondamentali, insegnando a fare uso delle testimonianze non letterarie, e inducendo a riflettere sulla differenza tra la raccolta dei fatti e la loro interpretazione.
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Note 1. J. Addison, Dialogues upon the uselulness of Ancient Medals, in Miscellaneous Works, III, 1830, pp. 59-199. 2. Si vedano, ad es., c. Justi, Winckelmann und seine Zeitgenossen, 1923 (1866); L. Hautecceur, Rome et la Renaissance de l’Antiquité à la fin du XVIIIe siècle, 19I2 (Bibl. Écoles Athènes et Rome, 105); L. Cust e s. Colvin, History 01 the Society 01 Dilettanti, 1914 (1898), pp. I-XLI; E. D. Snyder, The Celtic Revival in English Literature, Cambridge (Mass.) 1923; P. Yvon, Le Gothique et la Renaissance gothique en Angleterre, Caen 1931; K. Clark, The Gothic Revival. An Essay in t he History 01 Ta ste, London 1950; H. R. Steeves, Learned Societies and English Scholarship, New York 1913.
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Musei, Istituzioni e ricerca dell’autenticità di Francis Haskell Rammentando le visite infantili al Musée des Monuments Fransçais, con il suo incomparabile patrimonio di sculture – emerse solo poco tempo prima da palazzi, chiese e conv enti al potente richiamo della Rivoluzione – private del loro piedestallo e goffamente collocate, Michelet si rifiutava di considerarle confuse o disordinate: “Per la prima v olta, al contrario, regna va tra essi un ordine possente, l’ordine vero, il solo vero, quello delle epoche. La perpetuit à nazionale si trovava lì riprodotta”1. Una simile reazione al talento di Lenoir come decoratore era comprensibile, ma era l’esatto opposto di ci ò che si era inteso fare quando, poco pi ù di un decennio prima, si era tentato di riorganizzare il deposito dei Petits Augustins in una citt à che faceva di tutto per distruggere la nozione stessa di continuità. La trasformazione di un’istituzione creata esclusivamente per lo studio dell’arte in un’istituzione capace di ev ocare profondi sentimenti nei confronti della storia nazionale non fu forse accidentale, ma certo non era inevitabile.
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Tuttavia, quasi contemporaneamente, all’altro capo dell’Europa si veniva creando un museo con lo stesso scopo. Il Tempio di Sibilla fu inaugurato nel 18 01 nel Parco di Pulawy sulle riv e della Vistola, non lontano da Varsavia. Il nome e l’architettura derivavano dal tempio rotondo di epoca romana situato pittorescamente sopra le cascate di Tivoli vicino a Roma, e danno un’idea del tutto ingannevole del contenuto dell’edificio, che in un primo tempo a veva avuto il nome molto pi ù appropriato di Tempio della Memoria. Lo attorniavano diciotto gigantesche colonne di marmo e, salendo i gradini che porta vano alle doppie porte, il visitatore poteva leggere, sopra l’ingresso, un’iscrizione: IL PASSATO AL FUTURO. Delle due sale circolari, la superiore era sovrastata da una cupola, dal cui centro proveniva la luce che illumina va gli oggetti esposti. Nel mezzo vi era un altare di granito rosa, sul quale era collocato lo Scrigno Reale con i gioielli appartenuti ai re di Polonia, oltreché i loro ritratti in miniatura, frammenti dei loro costumi e piccoli oggetti prov enienti dalle loro tombe. Nell’abside opposta all’entrata vi erano trof ei di guerre vittoriose: scudi, spade e stendardi sottratti al nemico. Questo interno castamente neoclassico conteneva anche il bottino strappato ai Turchi dopo che il re Jan Sobieski aveva salvato Vienna dall’assedio del 168 3; in due armadi
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Jean-Pierre Norblin, Tempio di Sibilla a Pulawy, 1803, matita con acquerellature. Czartoryski Museum, Cracovia.
semicircolari, con cassetti appositamente progettati, si trovavano scrigni, tabacchiere, ventagli, orologi, sigilli, monete, medaglie, costumi e altri oggetti analoghi. Alle pareti del salone inferiore, nel quale la luce naturale non poteva penetrare, pendevano scudi commemorativi di bronzo dorato. Il Tempio di Sibilla, concepito in seguito allo smembramento definitivo della Polonia, era piĂš un gigantesco reliquario che un museo. Gli oggetti esposti erano di varia natura, ma avevano tutti una caratteristica in comune:
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fornivano la prova tangibile che un tempo era esistito un grande regno polacco. Scopo del Tempio era di esibire una rappresentazione visiva coerente della storia. Esso sorgeva su uno dei n umerosi terreni della famiglia Czartoryski; la principessa Czartoryski era da tempo interessata, come molti suoi contemporanei in tutta Europa, ad acquistare oggetti storicamente significativi ovunque si trovassero. A Stratford-upon-Avon pagò venti ghinee per una sedia su cui si era seduto Shakespeare e a Londra acquistò oggetti apparten uti a Enrico viii e a Cromwell. Insieme a molti altri furono portati alla “ Casa Gotica”, un padiglione che sorgeva nella stessa proprietà e che, in un primo tempo, doveva essere la dimora del custode del Tempio, ma che presto si trasf ormò radicalmente, espandendosi a f ormare un secondo museo, anch’esso di carattere storico. La principessa Czartoryski sperava di inserirvi mattoni della Bastiglia, pietre di un castello di Francesco I e un capitello o un bassorilievo provenienti dal Pantheon o dal Campidoglio a Roma. Sopra l’entrata a veva fatto porre uno dei v ersi pi ù toccanti di Virgilio: SUNT LACRIMAE RERUM ET MENTEM MORTALIA TANGUNT. Gamma, qualità e autenticit à degli oggetti esposti erano assai variabili: Abelardo ed Eloisa erano rappresentati da frammenti di ossa (la principessa Czartoryski era in contatto con Lenoir aParigi);
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Petrarca e Laura da brandelli di abiti; Ossian da fili d’erba messi in cornice, provenienti dalla tomba di Fingal; Enrico iv, Cromwell, Newton e Carlo xii di Svezia da maschere mortuarie e l’amante di Francesco i, “La belle Ferronnière”, dal magnifico ritratto di Leonardo da Vinci Dama con ermellino, acquistato in Italia dal figlio della principessa, Adam George Czartoryski, e ribattezzato perch é si adattasse alle esigenze del museo. Collezioni storiche come quelle che si v edevano alla “ Casa Gotica” del Parco di Pulawy non erano affatto rare in Europa nei primi anni del xix secolo. Tuttavia l’idea di porre oggetti storici considerati autentici al servizio di una causa ideologica, come era avvenuto nel Tempio di Sibilla, era ancora insolita, pur essendovi molti precedenti di natura religiosa; l’esempio ebbe presto ampio seguitò. Nel 18 33, solo tre anni prima del frettoloso smantellamento e occultamento degli oggetti esposti, in occasione dell’arriv o del Granduca Costantino di Russia – giunto per soffocare l’insurrezione polacca e solo tre anni dopo l’ascesa del duca d’ Orleans al trono di Francia come re Luigi Filippo, sull’onda di una riv oluzione dinastica, si decise di convertire il palazzo abbandonato di Versailles (il più potente simbolo dell’autoritarismo borbonico) in un ampio museoche doveva contenere “tous les souv enirs historiques nationaux qu’il appartient aux arts de perpetuer”.
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Intenzione del nuovo re era di celebrare “la grandeur d e la France et la splendeur de la couronne”4 – la stessa combinazione di nazione e monarchia che, circa una generazione prima, aveva ispirato l’impresa più commovente e meno duratura della principessa Czartoryski. Innumerevoli dipinti su tela di grandi dimensioni furono commissionati a pittori di ogni genere. Dopo essere stato trascurato per alcuni anni,Faramondo fu risuscitato e l’artista a cui fu assegnato il suo ritratto fu istruito affinch é distinguesse con attenzione i costumi dei Galli da quelli dei Franchi e consultasse gli albi di Roger de Gaignières, oltre a vari volumi di incisioni e ai Monumens di Montfaucon5. Più che la contin uità della storia francese, ci ò che colpisce e la contin uità delle fonti visive utilizzate per documentarla. Il museo di Versailles era stato progettato, secondo i suoi ideatori, “non pas au point de vue de l’art, mais au point de vue de l’histoire”. Tale impostazione non era certo incoraggiante per i molti pittori impegnati a rappresentare “L’incontro tra Filippo Augusto ed Enrico vii a Gisors il 2I gennaio II88” o “Il trattato concluso tra i Crociati e i Veneziani nella Basilica di S. Marco nel 1201” o altri soggetti analoghi; si riconobbe, allora e in seguito, che il contributo del museo delle arti era, con poche notevoli eccezioni, modesto. Per quanto riguardava il contributo allo studio della storia, si avanza-
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rono pretese stra vaganti, secondo cui il museo era “la collezione più ampia e più varia di opere d’arte che qualsiasi nazione avesse mai dedicato al proprio passato. Vittorie e battaglie, conquiste, crociate, avvenimenti storici, cerimonie, perso naggi illustri per sangue, genio, coraggio, sapienza o bellezza; dipinti, ritratti, statue, tombe”6. Tutto ciò era probabilmente corretto, eppure, in base a criteri ormai aff ermati fin dai tempi di Montfaucon, la versione della storia presentata dal museo era assai lacunosa. Forse era previsto che lo f osse; certo e che sostituendo la parola “memorie” con la parola “fantasie”, diventa più facile comprendere gli oggetti esposti a Versailles. Per alcune epoche gli sf orzi d’immaginazione dei pittori moderni potevano essere integrati da testimonianze più significative, quali busti d’epoca (o più spesso copie ) e modelli di tombe arbitrariamente assemblati sia durante che dopo la loro esposizione al Musee des Monuments française. Del resto la stessa Versailles, e ci ò che rimaneva della sua decorazione a opera di Lebrun e di Coysevox, era chiaramente in grado di evocare una potente immagine della monarchia sotto Luigi xiv sebbene i dipinti di molti dei principali avvenimenti verificatisi sia a quell’epoca sia nel corso del xviii secolo fossero stati commissionati ad artisti moderni. Tali estreme disparità di stile nella documentazione dello stesso periodo dev ono aver distur-
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bato i visitatori che speravano di essere posti in diretto contatto con il passato. Vi erano per ò anche concordanze. Per quanto grande f osse l’attenzione prestata al mutamento dei costumi e alle armi, una vittoria riportata nel 1745 dai francesi sugli inglesi pu ò apparire stranamente simile a una vittoria riportata dai francesi sui russi nel 18 07, se entrambe sono dipinte da Horace Vernet tra il 1828 e il 1836 7. Era ovviamente la storia recente a f ornire le fonti più ricche e autentiche al museo, ma esse erano anche le pi ù controv erse. È v ero che, dopo essere rimaste nascoste per gran parte della restaurazione, le grandi tele commissionate a David, Gros e Girodet per celebrare i trionfi di Napoleone potevano ora essere utilizzate come potente ev ocazione del suo regime. La rivoluzione stessa, tuttavia, si poteva rappresentare solo attraverso le vittorie (sempre vittorie ) combattute sotto i suoi auspici. Quanto a Danton e Robespierre, non erano esistiti: per il museo non erano “fatti storici”. Il Tempio di Sibilla era stato eretto per tener viva la memoria di una nazione distrutta, e ciò si ottenne esibendo le rovine tangibili della sua gloria all’interno di un edificio che riuniva in se tutti gli elementi più amati dell’architettura antica. Il museo di Versailles aveva lo scopo di offuscare (se non sradicare) le memorie associate a uno degli edifici più celebrati di Francia – me-
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morie di monarchi dispotici e stravaganti, isolati dai sudditi – e per sostituirvi una serie di memorie completamente div erse: più di un millennio di monarchia e di unit à nazionale nella causa comune di sconfiggere i nemici e diff ondere la civiltà. Il Germanische Nationalmuseum, inaugurato a Norimberga il 15 giugno 1853, aveva lo scopo di creare una storia per una nazione che non esisteva ancora8.
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Not e 1. J. Michelet, Histoire de la Révolution française, Paris 1952, pp. 538-539 [trad. it. Storia della Rivoluzione francese, Milano 1981, vol. III, libro XII, cap. VII, p. 456.] 2. Per tutta questa sezione cfr. Z. Zygulski, The National Museum in Cracow. The Czartoryski Collection. A Historical Outline and Selected Objects, Varsavia 1978. 3. Anche l’imitazione pi ù curiosa del museo della principessa Czartoryski fu creata da un aristocratico polacco, il conteWladyslav Broel-Plater. Fu inaugurata nel 1870 e, dal momento che anch’essa doveva essere un “museo della memoria storica polacca”, gli oggetti esposti erano di natura molto simile a quelli esposti nel museo di Pulawy (molti dei quali, nel frattempo, erano stati trasferiti a Parigi). Questo “rifugio per gli dei della Polonia” era situato però in un castello nei pressi di Zurigo; il suo f ondatore, infatti, era stato costretto a lasciare il paese d’origine dopo l’insurrezione del 18 30: cfr. K. Pomian, Musée, nation, mu sée national, in “Le Débat”, n. 65 (maggio-agosto 1991), pp. 171-173. 4. T. W. Gaehtgens, Versailles – de la Résidence Royale au Musee Historique: La Galerie des Batailles dans le Musée Historique de Louis-Philippe, Antwerpen 1984, pp. 61-62. 5. Ibid., pp. 79 e 382. 6. E. Soulié, Notice du Musée Impérial de Versailles (2a ed.), Paris 1859-1861, vol. I (Avertissement), pp. VII e X. 7. Gaehtgens, Versailles cit., pp. 206 e 229. 8. L. Veit, Chronik de s Gennanischen Nationalmuseums, in B. Denecke e R. Kahsnitz (a cura di), Das Gennanische Nationalmuseum, Nürnberg I852-I977, München-Berlin 1978, p. 19.
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L’edific io del museo Una guida alla forma e alle funzioni del museo dell’incesto L’ispirazione dell’architetto di Simon Fujiwara L’edifico che ospita il museo è basato sul design di una “futuristica boccia per pesci” originariamente concepita da Kan Fujiwara, il padre del progettista del museo, anche lui architetto. La funzione della boccia per pesci era un test sperimentale sulla psicologia spaziale dei pesci. A tre pesciolini, chiamati con il nome dei figli dell’architetto, è stato permesso di nuotare liberamente attraverso le orbite di vetro e il loro comportamento è stato monitorato. Nonostante non si sia giunti ad alcuna conclusione concreta, l’oggetto rappresenta un’importante connessione tra il mondo umano e quello animale, che il creatore del museo considerava appropriata per il luogo dov e viv evano i nostri antenati uomini-scimmia. La boccia è disponibile per l’acquisto (visitate: www.realmdecor.com) e può essere intesa come una miniaturadell’edificio del museo, oppure usata per la sua funzione originaria.
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le gallerie Il museo è diviso in tre gallerie, ogn una delle quali è situata in ciascuna delle sfere che costituiscono la forma tripartita dell’edificio. Ogni spazio espositivo copre un periodo differente della Storia dell’incesto ed è collegato al successivo attraverso corridoi di vetro. Il museo poggia su tre supporti, tutti conficcati nelle fosse di cemento relative agli antichi scavi A, B e C, che il progettista ha scoperto essere incredibilmente disposte in modo da formare un perfetto triangolo equilatero. Mentre la struttura in vetro permette agli interni di essere illuminati dalla luce naturale, si stabilisce un’importante connessione fisica e metaforica tra l’artificialità degli spazi e la natura del paesaggio africano. La forma, che porta reminescenze degli utopici progetti architettonici degli anni Sessanta, è situata in modo stridente rispetto al panorama, come un relitto dell’era dei primi viaggi spaziali, rappresentando l’ambiguità del tempo e la confusione delle generazioni che è incorporata nel problema stesso dell’incesto.
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pianta del museo – piano terra ENTRATA VISITATORI
SALA I: MODERNO
SALA II: MEDIOEVO
SALA III: ANTICHITÀ
sezione della piramide sotterranea
GALLERIE SUPERIORI
GALLERIA SOTTERRANEA
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tre tombe connesse formano il triangolo delle fondamenta del museo
Fig. XV: Geological survey of the site showing positions A, B and C of the hominid graves. The museum foundations are positioned on the three concrete filled grave-sites.
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galleria d’immagini sotterranea: piramide del purgatorio
Dopo essere passato attraverso le tre “orbite del tempo” delle Gallerie Superiori, il visitatore discende nella Galleria d’Immagini che prende la forma di una gigantesca piramide capov olta che ospita anche la caff etteria del museo, ad una profondità di 46 sotto il livello del terreno. A partire dalla terza sala, la Galleria dell’Antico Egitto, la forma della parte sotterranea trae ispirazione dalle piramidi di Giza, riecheggiando l’intera storia dell’architettura e della civilt à occidentale, mentre l’inv ersione della sua f orma suggerisce una lettura più complessa della Storia.
Fig. XVI: The inverted pyramid structure reflects 2000 years of western history.
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Benché la piramide rov esciata sia descritta in letteratura come una f orma satanica che simboleggia il caos, la sua funzione principale all’interno del Museo dell’Incesto è quella di offrire al visitatore la vista degli strati di roccia e fargli apprezzare gli elementi geologici del terreno, una dimostrazione visiva dell’immensa storia del sito. La discesa attraverso la piramide è concepita in modo spettacolare dal progettista, come una rampa inclinata a spirale che unisce il suo ruolo di galleria d’immagini a quello di percorso verso il bar del museo. Qui le opere d’arte della storia dell’incesto sono messe in mostra in un ordine cronologico inverso, sempre meno recenti man mano che si scende, finché il visitatore non raggiunge le prime iscrizioni murali alla base della rampa. La forma della rampa stessa è descritta dall’architetto come “una visione modernista dei gironi del Purgatorio dantesco”, come una riflessione sulle implicazioni morali del design del museo. bar sotterraneo la firma dell’architetto La caffetteria è situato alla base della piramide nella zona più fresca del museo. Nonostante generalmente il bar sia considerato un luogo secondario rispetto alla galleria negli edifici museali moderni, nel Museo dell’Incesto esso rappresenta
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Fig. XVII: View into the ramp of the Museum of Incest, a satanic spiralling Picture Gallery.
una parte integrante dell’architettura, prendendo in considerazione il ruolo del pasto come un’attività di raccoglimento per la famiglia a liv ello multi-culturale. Il muro a nord della zona bar è decorato da un ampio murale, originariamente concepito come elemento scenografico per un ristorante italiano in Giappone dal padre del progettista del museo, che ritrae una famiglia idealizzata. L’immagine mostra un ritratto del progettista stesso da ragazzino ed è stata dipinta dal padre architetto, in realt à divorziato, come una raffigurazione permanente della famiglia che non avrebbe mai avuto. Il designer ha scelto di includere il dipinto non solo per la sua perti nenza al contesto della caff etteria, ma anche come una definitiva firma architettonica apposta all’intero, iconico edificio.
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Funzioni la vita segreta del museo A questo punto è importante dire qualcosa della singolare vita nascosta dell’edificio del museo. Mentre il museo punta a presentare una chiara, imparziale storia del tabù dell’incesto al pubblico, mira anche ad interrogare le strutture sociali che sono associate con l’istituzione in generale. Il museo non si a vvale di alcun personale addetto alla pulizia e rappresenta l’unico edificio museale autopulente che si conosca. In onore del design dell’originale boccia per pesci, le aperture circolari alla sommità di ogni sfera diventano oblò in ogni stanza del museo, aperti agli elementi. Mentre ciò permette alla luce naturale e alla v entilazione di penetrare negli spazi dell’edificio, questi oculi forniscono un sistema di pulizia determinato dall’ambiente naturale, permettendo alla pioggia
Fig. XVIII: A cleaner at the Wadsworth Atheneum Museum of Art, 1973.
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Fig. XIX: F açade and floor plan of the Pantheon building in Rome. Rain is allowed to enter the interior of the building, creating a self cleaning mechanism.
di penetrare e pulire l’edificio “secondo natura”. Così mentre la pulizia naturale rompe l’associazione della pulizia con la purezza morale, il museo nella sua interezza arriva non solo a rappresentare simbolicamente il conflitto fra naturale ed artificiale, ma anche ad incorporare questo conflitto nei suoi aspetti pi ù comuni. Nei motivi dei f ori possiamo anche v edere una decisa somiglianza con il Pantheon di Roma, ricostruito nel 126 d.c. come tempio politeista in cui si onorava una moltitudine di dei di una “protodemocrazia” religiosa. Inoltre le stanze completamente sferiche possono indurre un’esperienza di disorientamento, essendo priv e di superfici piatte, e il visitatore si troverà in continuo movimento e privo di una solida base, come analogia con l’amoralità della proposta dell’edifico stesso.
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riassunto Osservando i più riusciti edifici museali dalla seconda metà del ventesimo secolo è evidente un chiaro legame tra la f orma iconica degli edifici e il loro potere di influire sulla rigenerazione economica locale. È altrettanto chiaro nella singolare, futuristica forma del Museo dell’Incesto che il progettista è ben conscio delle modificazioni economiche e sociali che un’icona può generare, oltre ad attribuire alla storia dell’incesto un potente linguaggio visuale.
Fig. XX, XXI: The architect’s preliminary sketches of the Museum of Incest on site in the Olduvai Gorge.
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I tempi e spazi della storia; il concetto di rappresentazione, l’Assiria e il British Museum di Frederick N. Bohrer La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è il tempo omogeneo e vuoto, ma quello pieno di “attualità”. Walter Benjamin, Tesi sulla filosofia della storia Il passato divenne ricordo. Wallace Stevens, “Della poesia moderna”
Chi studia l’esotismo dev e necessariamente essere un perfetto conoscitore della discontinuità. Deve cioè occuparsi delle div erse varietà di un altrove imperfetto, il cui unico e autentico denominatore comune è la mancanza di un denominatore comune. Che lo si chiami esotico o Altro o primitivo, definire qualcosa come div erso da noi, invece che com’è v eramente, non è certo un’affermazione puramente neutrale o obiettiva. Questa caratteristica condivisa dell’assenza, in contrasto negativo e dialettico con l’Occidente civilizzato, è il segno della connessione perpe tua, presente nell’esotismo, tra la definizione dell’oggetto e il giudizio dell’oggetto, perch é
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con le nostre costruzioni dell’ Altro definiamo e giudichiamo implicitamente noi stessi. Anzi, il recente risveglio d’interesse verso l’esotismo artistico1 può essere messo in relazione con l’attuale, e pi ù ampia, ridiscussione dei metodi tradizionali per analizzare la rappresentazione e ricercare alternative epistemologiche. A modo suo, questo saggio è uno studio sull’esotismo, ma nel senso più ampio accennato prima. Mi occuperò di esotismo non soltanto in quanto classe di appartenenza di alcuni oggetti, ma anche in quanto processo di rappresentazione. In particolare, v orrei riflettere brev emente su alcuni aspetti delle fortune istituzionali e iconografiche di una classe importante di oggetti esotici, una raccolta di man ufatti assiri messa insieme dal British Museum intorno al 185 0. Mi concentrerò sulle diverse interpretazioni dei manufatti, e sui luoghi sociali e istituzionali in cui sono stati rappresentati. Per cominciare, però, dobbiamo prima ancorare questa analisi ad alcune problematiche teoriche affini, perch é fare di questo testo uno studio dell’esotismo artistico significa trovare un orientamento esplicito nel metodo della storia dell’arte e analizzare i musei e la natura dell’esotismo stesso. Nella storiografia artistica contemporanea, una strategia comune per affrontare temi eterogenei è il tropo del “dialogo”. Questo termine indica quasi invariabilmente influenza o confluenza
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artistica.2 Potremmo per convenzione utilizzare questo dialogo, e quindi proporci di misurare le influenze degli oggetti museali, per valutare la varietà di massime e motivi dell’arte occidentale relativi all’arte del Vicino Oriente antico.3 La nozione di “dialogo” ci fornisce una struttura capace di attribuire completa integrit à a entrambe le parti, all’osservatore e alla cosa osservata. Eppure, in una visione pi ù ampia, la relazione tra oggetto museale e osservatore suggerisce decisamente non un dialogo tra v olontà equivalenti, ma piuttosto un interrogatorio – un incontro forzato e spesso tendenzioso, in cui dominano chiaramente certe priorit à.4 L’oggetto muto e passiv o giace sotto lo sguardo attiv o e controllante dell’osservatore, ed è subordinato ai protocolli ideologici dell’istituzione che orga nizza la visione. Inoltre, oggetto esposto e osservatore sono dei costrutti. Colui che espone e colui che guarda sono legati a comuni rif erimenti specifici e funzionano in base a queste. Quindi un’analisi completa di qualsiasi “dialogo” o “influenza” artistica dev e occuparsi di problemi di classe e politici e, nel nostro caso, in particolare, di come poteri e pubblico hanno gestito la ricezione e la circolazione. Da dove attingono il loro potere questi gruppi? Come si definiscono e come si tutelano? Questo concetto potrebbe essere applicabile con una relativa ampiezza, ma diventa fondamentale nell’affrontare l’esotismo, in cui la distanza pi ù
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grande si misura tra il contesto della produzione e quello della ricezione, e quindi i manufatti sono molto vulnerabili alla ricontestualizzazione. Inoltre, queste priorità nella presentazione sono importanti non solo in s é, ma costituiscono anche un precedente per un’ulteriore circola zione. Infatti il museo non agisce solo da luogo di presentazione, ma anche da punto di partenza privilegiato della rappresentazione come “ripresentazione” – praticata dalla pittura, dalla scultura, ma anche da molti altri media, come i paesaggi, le illustrazioni per libri e riviste, i film e gli spettacoli teatrali. Da questo punto di vista, l’antichit à div enta chiaramente un altro ambito dell’esotismo, ennesima “ri-presentazione” nell’ Occidente moderno di un luogo di diff erenza culturale. Inoltre, le antichità assire e non classiche in genere (il termine “antichità” è un esempio, come l’esotismo stesso, di una caratteristica comune definita solo in base a una negazione) incarnano in maniera particolare i principi dell’esotico. Più restiamo legati alla tradizione greco-romana appartenuta ai nostri lontani antenati, più identificheremo le altre culture antiche come straniere.5 Il nodo di questo collegamento tra antichit à ed esotismo sta nel fatto che, dal punto di vista dell’osservatore, distanza geografica e distanza temporale possono essere considerate virtual mente intercambiabili. Nella Gran Bretagna
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dell’Ottocento l’immagine di un antico rito celtico poteva essere considerata esotica quanto un’immagine proveniente dall’Africa contemporanea. Questa equazione tra modi della distanza viene raramente analizzata, ma non è affatto una novità nel campo della valutazione artistica. Già molto tempo fa il “grand tour” estetico offerto dai musei d’arte univ ersalistici è stato or ganizzato per coprire una gamma produttiva di tipo storico e geografico.6 La distanza temporale e spaziale mettono in discussione l’adeguatezza della presenza fisica da cui dipende il nostro concetto di comunicazione visiva. Qui “presenza” può essere inteso come un genere del tema linguistico/epistemologico di cui la decostruzione letteraria è una critica. La presenza costituisce la base del dialogo visiv o che ho citato. Le raccolte del museo offrono apparentemente ci ò che la presenza esige, e cioè, come afferma Christopher Norris, “una visione divina che alla fine trascenderà ogni mera relatività di tempo e spazio”.7 Ma la costruzione della presenza visiva merita un’attenzione particolare. In maniera più specifica, la distanza spaziale e temporale sono forme di assenza, che va compensata dalla presenza del manufatto stesso. Eppure questa immediatezza non è garanzia di lucidit à. I musei sono composti da unità dotate di una loro integrità, e hanno le loro strategie di presenza. Tra quelli in cui, nell’Ottocento, le antichità hanno avuto un
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ruolo preponderante, le diff erenze sono stupefacenti. Oggi possiamo pensare al museo di storia naturale o al “museo dell’umanit à” come a un museo incentrato sulla sineddoche, in cui un manufatto opera come un’introduzione nebulosa a una cultura straniera, la parte di un tutto.8 Eppure lo schema didattico e spesso evolutivo sottolineato nei musei etnografici si è evoluto piuttosto tardi, verso la fine dell’Ottocento, dopo il repentino arrivo degli oggetti assiri.9 Per contrasto, all’epoca si era gi à affermato un sistema orientato verso la valorizzazione estetica: il mondo largamente metonimico e sostitutiv o dei musei d’arte, in cui gli oggetti assumevano dei ruoli in un sistema di valori occidentale. Il modo in cui il museo organizza i suoi man ufatti, la strategia di presenza che adotta, indicano il tipo di distanza che cerca di superare. Questo, a sua volta, è in relazione con le aspettative del pubblico com’è percepito. Nell’esotismo dell’Ottocento le distanze temporali e spaziali sono processi legati, ma distinti. Pochi viaggiatori occidentali nei paesi orientali mettevano in discussione le loro coordinate geografiche e la loro distanza dall’Occidente, ma molti godevano nel demolire la storia in quegli scenari n uovi, come se si fossero presi una vacanza dalla determinatezza temporale dell’Europa occidentale. Così, la descrizione di Lucie Duff-Gordon dell’Egitto intorno al 186 0 div enta una intricata stratificazione di rif erimenti storici. “Questo
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paese” annota, “è un palinsesto in cui la Bibbia è scritta sopra Erodoto e il Corano sopra la Bibbia. Nelle città è più visibile il Corano, in campagna Erodoto”.10 Nel decennio precedente, che vide anche l’inserimento di manufatti assiri nelle principali installazioni museali di Londra e Parigi, Théophile Gautier utilizzò le antichit à per identificare gli abitanti contemporanei di quel paese, affermando che “Les Fellahs et les Coptes n’ont pas varié depuis Möise; tels on les voit sur les fresques des palais ou des tombeaux d’Aménoteph, de Toutmès et de Sesourtasen, tels ils sont encore au jourd’hui [i fellah e i copti non sono cambiati dai tempi di Mosè; li si vede ritratti negli affreschi dei palazzi o delle tombe di Amenhotep, Thutmose e Sesostris, identici a come sono oggi]”.11 In entrambi i casi, mentre la distanza temporale dall’Occidente contemporaneo è ben chiara, la descrizione temporale è contrassegnata da una demolizione di scala pi ù radicale. L’ Oriente pu ò f orse non incontrare mai l’Occidente, ma negli scenari esotici il presente è invariabilmente mescolato al passato, e interdipendente da esso. Così le estensioni nel tempo e nello spazio sono tutt’altro che strettamente omologate. Per dirla schematicamente, la concezione moderna e occidentale di tempo presenta un sistema di estensione lineare, diretto, gerarchico largamente interiorizzato. Invece, l’estensione spaziale è un sistema omogeneo e omnidirezionale in cui le
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misurazioni sono molto più facili da rappresentare, confrontare e comunicare a un pubblico più ampio.12 È decisamente sintomatico di questa differenza, tra gli altri fattori, che la storia dell’arte contemporanea dedichi molto pi ù studio all’esotico spaziale che a quello temporale. La consapevolezza dell’esistenza di tali variet à di distanze e modalità espositive costituisce una matrice per mettere in relazione diverse rappresentazioni e interpretazioni. Questo genere di approccio è particolarmente appropriato nel caso di un’istituzione come il British Museum. Come luogo di raccolta di opere d’arte riconosciute e di manufatti antichi ed etnografici, provenienti da culture del passato e contemporanee, il British Museum adottò una gamma vastissima e confusa di modalit à espositive. Inoltre, i manufatti assiri apparivano davvero sui generis rispetto alle altre antichit à, e quindi potevano essere particolarmente inclini a fluttuare tra possibilità di valutazione diverse. Mentre ci spostiamo dalla tassonomia alla narrativa, superando una complessa serie d’introduzioni materiali e ideologiche per arrivare a definire l’Assiria, riusciremo a intravedere non solo una serie di posizioni div erse nell’interpretazione di questo paese, ma anche a comprendere in parte le forze istituzionali, ideologiche e perfino contingenti che le hanno formate. I primi reperti materiali di una certa importanza provenienti dalla Mesopotamia furono il frutto
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delle scoperte di un francese e di un inglese, Paul-Émile Botta e Austen Henry Layard, intorno al 1840.13 I due erano legati, in maniere diverse, ai servizi segreti dei rispettivi paesi e ottenevano il sostegno dei loro governi. Inoltre seguivano entrambi le istruzioni dei funzionari di due importanti musei nazionali, il Louvre e il British Museum. Alla fine del 18 47, entrambi i musei avevano iniziato a esporre i manufatti da loro acquisiti. La decisione di esporre gli oggetti segna l’inizio della loro ricezione e la dice lunga sulle priorità istituzionali dell’epoca. Mentre la storia dell’installazione del Louvre e della reazione che suscitò presso il pubblico fu complicata dagli enormi cambiamenti politici e culturali introdotti dalla rivoluzione del 1848, la situazione inglese fu straordinariamente coerente. Intorno al 1840 il British Museum era un’istituzione dell’Illuminismo in un mondo post-illuminista. Era stato v oluto alla fine del Settecento come centro per l’accrescimento e la diffusione della conoscenza. Tramite incessanti finanziamenti governativi e una serie di notevoli acquisizioni – tra cui la biblioteca di John Cotton, la collezione di vasi antichi di William Hamilton e i marmi di Elgin – all’inizio dell’Ottocento aveva guadagnato un prestigio quasi ineguagliato in Europa e nel mondo.14 Ma il consenso sociale che a veva reso il British Museum un’istituzione di successo unica si stava
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dissolvendo a causa di conflitti sociali e politici. Tra i cambiamenti che caratterizzarono gli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento ci fu l’ascesa sulla scena politica della classe media e del proletariato, in piena esplosione. Qui pu ò risultare particolarmente interessante la ratifica del Voting Rights Act del 18 32, che affranc ò gruppi geograficamente e culturalmente distanti dalla tradizionale sfera d’influenza del British Museum. Il museo legalmente era vincolato, per finanziamenti e gestione, al Parlamento e i nuovi parlamentari non erano affatto contenti di quell’istituzione culturale improntata al privilegio. Le loro critiche vertevano sul fatto che il museo costituiva un luogo di svago privato per i ricchi e fosse praticamente impenetrabile al pubblico appena affrancato. 15 Anzi, entrare nel British Museum richiedeva il rispetto di una procedura complessa, scomoda e intimidatoria, dopo la quale si v eniva accompagnati a compiere un tour molto rapido e sommario attraverso mucchi di oggetti non etichettati. 16 I requisiti necessari per essere ammessi al tour div entarono progressivamente meno vincolanti, anche se questo non risolse pienamente la situazione e non cambiò l’atteggiamento di f ondo dei curatori del museo. Così, il giorno di Santo Stefano del 1846, come fu ampiamente riportato sulla stampa, circa 20.000 “meccanici ben v estiti” (così li descrisse il Times), visto che quello era uno dei loro pochi
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“ Il Brithish Museum in un giorno di vacanza Brithish”., Howitt’s Journal, 16 gennaio 1847. Courtesy dei fiduciari del British Museum.
giorni di vacanza, si presentarono per visitare le collezioni.17 Furono quasi tutto rispediti indietro. Era ancora in vigore un limite massimo al n umero di persone che potevano compiere il tour del museo. L’episodio fu sfruttato e pubblicato da una delle molte riviste nate per servire ed educare le classi inferiori. L’Howitt’s Journal era stata fondata da due scrittori di materiale che doveva servire da ispirazione e istruzione per le classi la voratrici, William e Mary Howitt.18 L’articolo principale del primo n umero fu un’acida filippica di W. J. Fox, noto oratore passato dall’Unitarianismo a un atteggiamento più radicale e che inv ocava un’educazione laica e i diritti per la classe la voratrice. Fox descrisse questo episodio come un momento esemplare:
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I nostri governanti non conoscono il popolo. Si limitano a considerare le masse una moltitudine sporca e vagamente bestiale. Hanno paura di fidarsi di loro, al punto da renderli davvero poco degni di fiducia. Immaginano una quantit à di statue con i nasi spezzati, quadri con gli occhi scrostati e vasi unici distrutti in mille pezzi.19 È interessante constatare come gran parte delle proteste di Fox fossero codificate in forma visiva. L’articolo era accompagnato da un’incisione che ritraeva una folla composta da gruppi famigliari che attendevano in coda al cancello del British Museum (che allora stava subendo il processo di trasformazione nell’enorme struttura che oggi conosciamo). Quelle famiglie statiche, apparte nenti alle classi inferiori, rappresentano un contrasto con l’uomo mobile, elegante e solo che osserva la scena dal retro di una carrozza privata. Questa immagine, quindi, rappresenta il costante contrasto tra i poteri e il dibattito sulla natura privata delle attività del museo. Prepara anche il terreno per l’ingresso nella collezione degli oggetti di Layard, che avvenne più o meno tre mesi dopo. Dopo avere dato un’occhiata esterna al museo, continuiamo la storia seguendo i reperti assiri all’interno dell’edificio. British Museum costituiva un’introduzione privilegiata alla rappresentazione e agiva come luogo deputato e somma
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di una varietà di filtri pratici e intellettuali attraverso cui gli oggetti venivano esposti. In generale, al trattamento degli oggetti assiri fu in parecchi casi attribuita, purtroppo o per f ortuna, un’importanza non completamente compatibile, significativa ma non precisamente convincente secondo gli standard del museo. Infatti gli oggetti assiri furono considerati reperti antichi da tutelare ma anche un bottino dal valore nazionalistico. Erano qualcosa che stava a metà tra l’oggetto di studio vero e proprio, il trofeo e la curiosità. Per Stratford Canning, ambasciatore inglese a Costantinopoli, che a veva appoggiato i primi scavi di Layard ed era stato il primo a raccomandarlo al British Museum, quell’allestimento era un modo di surclassare i francesi, che erano ar rivati al successo poco prima degli inglesi. Come scrisse a Sir Robert Peel, “Il successo di M. Botta a Ninive mi ha indotto a tentare la fortuna nella stessa lotteria e il mio biglietto ha vinto un premio... ci sono buone ragioni per sperare cheMontague House [il British Museum] batter à il Louvre di parecchie misure”.20 Henry Creswicke Rawlinson, uno di coloro che decifrarono le misteriose iscrizioni cuneif ormi presenti sugli oggetti e che aveva garantito al British Museum, su basi documentate, il valore degli oggetti assiri, assecondò gli interessi nazionalisti di Canning.21 Il museo era chiaramente disponibile a ospitare questi trofei, ma prima dell’arriv o del primo
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gruppo di oggetti non era stato realizzato nulla per esporre in maniera permanente i manufatti assiri.22 Il British Museum li presentò ai visitatori nell’unico spazio, dotato di grandi pretese e dimensioni minuscole, dal nome generico come quello del dipartimento che a veva gestito i reperti: la galleria che nella Synopsis del museo (e cioè nella guida destinata ai visitatori ) è denominata “Antiquities Gallery”. Anzi, nel 185 0 i commissari parlamentari non la riconobbero affatto come tale; era considerata semplicemente un corridoio decorato. 23 Diversamente da quanto accadeva nelle gallerie dedicate esclusivamente a collezioni eterogenee ma molto ben definite, come quella dei vasi greci, dei marmi di Elgin o delle antichità di Figalia, i manufatti assiri si trova vano davvero in una ben strana compagnia. La Antiquities Gallery era stata riempita alla rinfusa di pezzi di sculture greche e romane prov enienti da collezioni div erse.24 Conteneva anche un insieme di “antichità britanniche”, prevalentemente resti romani e normanni v enuti alla luce in tutta la Gran Bretagna e donati da esponenti del clero, membri del Parlamento e aristocratici di varia specie.25 I man ufatti assiri che furono scelti per l’esposizione erano quelli che potevano essere più facilmente spiegati. La Synopsis descrive gli oggetti assiri in mostra come bassorilievi, soprattutto scene di guerra, caccia o vita di corte: prevalevano quindi i manufatti dotati di valore
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mimetico e narrativ o. La Synopsis afferma anche che i bassorilievi facevano parte della decorazione di un palazzo in cui era presente anche un’importante iscrizione cuneiforme continua – questo non fa che conf ermare che le iscrizioni non erano state affatto esposte. A metà 1849, dopo più di un anno in cui le collezioni assire erano state contin uamente arric chite, fu costruito un allestimento pi ù grande e in qualche modo pi ù omogeneo che poi diede origine alla Nimrud Room, una zona vuota del seminterrato attraversata soltanto da una scala di legno temporanea che sbucava proprio dietro la Antiquities Gallery. Così i reperti di La yard subirono una liev e transizione: dall’ambiente eclettico della Antiquities Gallery al mondo più determinato e rarefatto delle collezioni di antichità più specifiche. Eppure, dal punto di vista interpretativo il trattamento di queste opere nella Synopsis cambiò poco, rispetto alla precedente presentazione. 26 Per il British Museum quelle opere rappresenta vano soprattutto una curiosità, se non un fastidio. Nel 1853, quando furono installate in sale studiate appositamente, le collezioni assire acquistarono una relazione interpretativa pi ù chiara con le altre collezioni di antichit à. Però la soluzione che fu trovata per sistemarle univa il riconoscimento dell’importanza pubblica dei reperti a una resa da parte dei funzionari. Anzi, uno dei curatori più importanti del museo, William
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Hamilton, definì quegli oggetti “un mucchio di spazzatura” e si augurò che finissero “in fondo al mare”.27 Affermazioni simili furono attribuite anche a Richard Westmacott, uomo ancora pi ù influente, anche se irregolare, che nel ruolo di “consulente per le sculture” era l’unico elemento esterno ammesso alle riunioni dei curatori del museo.28 Il desiderio di presentare gli oggetti in un ambiente più coerente non veniva dai funzionari o dai curatori del museo, ma dall’architetto indipendente che gestiva l’edificio, Sydney Smirke.29 Smirke aveva notato già nel 1849 che “l’attuale disposizione delle sculture di Ninive è precaria e lo spazio insufficiente”.30 Propose così una sistemazione che sembrava logica, e cioè un grande spazio inutilizzato tra due ali occupate da oggetti antichi – i marmi di Elgin, veri e proprio paradigmi dell’antichit à classica, e i reperti di Licia recentemente riportati da Charles Fellows, che contribuirono ad ampliare e rendere pi ù complessi i concetti di produzione e qualit à nel campo delle antichità greche.31 Questa proposta piacque all’architetto, ma suscit ò le energiche proteste di Edward Hawkins, il custode delle antichità, “perché interferisce con la disposizione cronologica delle sculture greche”.32 I curatori del museo scelsero una strada intermedia. Il progetto per la disposizione degli oggetti e la richiesta di finanziamenti furono presentati al Parlamento con una frase stranamente accattivante che ben spiega la loro posizione:
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Essi [i curatori del museo] non avrebbero proposto di aggiungere questa voce al preventivo annuale se non fosse per le circostanze particolari relative alla scoperta e all’acquisizione delle sculture assire, e per il comprensibile desiderio del pubblico di accedervi in maniera conveniente nei tempi più stretti possibile.33 La notevole rapidità e quantit à di queste scoperte costituiva in parte le “circostanze particolari” appena citate, ma l’unico fattore indicato qui, e cioè l’interesse del pubblico, fu decisivo nel permettere la sospensione temporanea degli standard del museo. In questo passaggio il pubblico interesse viene utilizzato per giustificare il finanziamento, ma nella documentazione del museo, nel periodo delle scoperte di Fayard, il pubblico è citato soprattutto in relazione alla necessità di chiamare la polizia. Una volta si invocò l’intervento del commissariato perch é un afflusso particolarmente intenso di visitatori a Crystal Palace prov ocò grande confusione e una crisi dell’ordine pubblico, mentre un’altra volta fu ritenuto necessario chiamarlo nel 1848, a causa della minaccia, puramente immaginaria, di un raduno cartista in cui sarebbe stata usata “la forza fisica”.34 Il pubblico interesse non prov ocò un conflitto con la posizione ideologica del British Museum per quanto concerne la presentazione dei reperti, ma può essere servito a favorire l’assimila-
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zione degli oggetti assiri nelle collezioni di antichità del museo. Alla fine dell’anno seguente, Hawkins aveva presentato una relazione in cui raccomandava di costituire una galleria assira adeguata “e di ordinare in maniera scientifica tutte le sculture del museo”. 35 Ormai, con l’ar rivo, nell’ottobre del 1850, del grande toro e del leone alati, colossali sculture di animali che per il grande pubblico costituivano il simbolo dell’Assiria, “il comprensibile desiderio” dei visitatori era cresciuto. Tenendo conto delle possibilità di allestimento e del pubblico interesse, le sculture furono sistemate nel punto pi ù accessibile: la grande sala d’ingresso del museo, proprio accanto all’entrata sud. Però i curatori, f edeli al loro atteggiamento nei confronti del pubblico, ordinarono che i reperti fossero “protetti da un recinto adeguato”.36 Tuttavia, per quanto il British Museum possa essere sembrato autoritario, diffidente o monolitico, era comunque schia vo dell’opinione pubblica. Nelle relazioni annuali che era costretto a presentare al Parlamento il n umero dei visitatori era accuratamente riportato. Intorno al 1850 Layard descrive i funzionari del museo “felicissimi delle sale aff ollate grazie ai n uovi intrattenimenti”, mentre suo zio Benjamin gli scrive che il suo la voro ha procurato al museo più visitatori “di tutti i dieci studiosi che ti hanno preceduto”.37 A met à del 1852, in una lettera molto rispettosa, l’assistente di Hawkins, Samuel
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Birch, sottolinea come i reperti assiri siano oggetto di grande interesse da parte del pubblico: “Mi permetta di chiederle il gentile permesso di visitare il museo oggi. Ho due parenti invalidi che non vengono spesso in città, che vorrebbero vedere le sculture di Ninive e le sarebbero molto grati di riuscire a evitare la confusione delle giornate in cui il museo è aperto al pubblico”. 38 Il British Museum aveva quindi temporaneamente evitato di applicare le proprie regole ideologiche riguardo alla “sistemazione scientifica” degli oggetti per v enire incontro alle richieste del pubblico, ma il suo sistema dominante di valutazione restava fondamentalmente immutato. Questo piccolo gesto, e tuttavia straordinario, da parte del museo è la dimostrazione di un grande interesse esterno. La risposta del British Museum in questa occasione fu da vvero notevole, ed è altrettanto notev ole constatare come, in base a questi interessi “nazionali”, sui mezzi di comunicazione della cultura popolare l’ Assiria e i suoi man ufatti abbiano praticamente subito una trasformazione. La testimonianza popolare pi ù significativa venne dal grande organo culturale inglese della classe media: l’ Illustrated London News. Noto per la sua abitudine di subordinare l’aspetto verbale a quello visivo, nel 1850 era ormai il settimanale più venduto d’Inghilterra. 39 Si vantava di diffondere le notizie relative agli eventi culturali e di pubblicare incisioni che riproducevano opere
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d’arte, e si serviva di una strategia molto coerente basata sulla presenza, f ormula che guidava le sue scelte di stile e la selezione delle immagini (e dei testi ). La scelta di base era quella di trasformare quadri, sculture, opere in metallo e così via in disegni, filtro complesso che per certi aspetti visivi (come il colore, la scala e la consistenza) aveva un effetto sminuente, e per altri (linearità, ombreggiatura e temi scelti) accrescitivo. Per dirla in un altro modo, otteneva l’effetto di diventare “una mostra delle mostre”, perché sulle pagine dedicate all’arte dell’Illustrated London News finivano alla rinfusa pochi oggetti selezionati nelle loro rispettive sedi. Le illustrazioni erano subordinate alla perce zione che il giornale aveva del proprio pubblico. L’Illustrated London News parla per la prima volta dei reperti assiri nel giugno del 1847, affermando che “quando pensiamo che questa descrizione finir à davanti agli occhi delle molte persone che potrebbero non avere mai la possibilità di ammirare gli originali, questo ci basta come giustificazione dell’eccessiva lunghezza del nostro giornale”. 40 Dato il rapporto difficile tra il British Museum e il suo pubblico, questa costituisce una tacita ammissione che i temi affrontati dall’Illustrated London News per i lettori appartenenti alla classe media e inf eriore non erano notizie supplementari o rif erite, ma una fonte originale di informazione. In maniera ancora più diretta, in un’altra frase
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si deplorano “gli ostacoli che il British Museum ha messo sulla strada dei nostri artisti”. 41 Alla fine del 1848, quando fu pubblicato questo passaggio, i curatori del museo a vevano deciso di pubblicare un folio dei ritrovamenti di Layard.42 In questa guerra sulla proprietà delle immagini entrambi i contendenti, il British Museum e l’Illustrated London News, sostenevano di rappresentare il pubblico, ma lo concepivano in due modi diversi, e quindi si trattava di rappresentazioni diverse di oggetti diversi. Quindi l’identità dell’Assiria subiva una frattura nell’istante stesso in cui veniva messa in circolazione. In contrasto con l’esclusione delle iscrizioni assire dalla Antiquities Gallery, l’ Illustrated London News riprodusse, oltre ai bassorilievi figurativi, una lastra ritrovata da Layard coperta di scrittura cuneiforme (in cui era presente una cancellatura, che venne accuratamente riportata).43 Il testo che accompagna le incisioni spiega che “così potrà raggiungere anche i molti che non saranno in grado di procurarsi senza mille difficoltà una copia accurata dell’originale”.44 Anzi, in altri casi la rivista ovvi ò anche pi ù direttamente al problema di mettere le mani su oggetti del genere. L’incisione dell’Illustrated London News che ritrae la Nineveh Gallery, aperta nel 1853, descrive una stanza aperta al pubblico e popolata da pochi visitatori della classe media: un luogo accogliente, non caotico.45 Ancora più interessante
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quella che ritrae i due colossali animali alati. Gli oggetti appaiono al lettore proprio come alle figure umane presenti nell’incisione, senza intermediario, e certamente senza un recinto a oscurare la vista. Questa rilettura dell’allestimento contiene sfumature che denotano senso di possesso e antiautoritarismo: rimuove la barriera imposta dal museo per il bene del visitatore comune. Questo significa anche rimuov ere una barriera ideologica, quella imposta dai paladini della valutazione artistica tradizionale, al punto che quei manufatti non erano considerati arte, ma piuttosto semplici curiosità.46 I manufatti furono presentati all’interno della sezione della rivista dedicata alle belle arti e qui i visitatori ideali sembrano dimostrare un rispetto non inf eriore a quello che prov erebbero di fronte ai marmi di Elgin. Nel ritrarre a questo modo visitatori e oggetti, come faceva anche in tutti gli altri suoi articoli, l’Illustrated London News ci offre un’immagine della presenza: una comunicazione soddisfacente che sembra permettere al visitatore/lettore una vicinanza a ciò che in realtà è lontano. Paradossalmente, questa vicinanza si ottiene soltanto modificando l’ambiente in cui sono esposti gli oggetti, e non limitandosi semplicemente a ritrarlo. Eppure, nei testi che accompagnano le immagini, la rivista non accenna mai a questa modifica. Al contrario, la porzione di testo dell’articolo mutua la propria importanza da quella degli sviluppi in corso al British Museum.
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“Toro con testa umana e ali d’aquila” e “Leone con testa umana e ali”, Illustrated London News, 26 ottobre 1950.
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Comportarsi altrimenti avrebbe significato mettere in dubbio l’illusione della presenza, la pretesa di realismo su cui si basa l’articolo. Quindi, mentre l’aspetto dell’allestimento della sala va modificato per diventare accessibile a categorie div erse di persone, è anche essenziale cancellare o diff erire questa inf ormazione. Le strategie della presenza possono variare, ma gli oggetti devono essere considerati identici. Eppure, se anche l’articolo apparentemente più oggettivo e diretto contiene notev oli modifiche e arricchimenti, le distinzioni ideologiche e culturali tra i poteri diventano molto più evidenti negli ambienti più apertamente didattici e adeguati. La classificazione dei manufatti assiri del British Museum, e il modo di presentarli al mondo, è più esplicita nell’installazione definitiva. Dal 1853 in poi, i manufatti assiri occupavano parte di una serie di tre gallerie lunghe e strette situate nella zona occidentale del pianterreno. Le gallerie assire si differenziavano una dall’altra per la provenienza geografica del conten uto. Così, due erano identificate con Nimrud, oggetto principale della prima campagna di sca vi, e una con Kouyunjik, monticello dell’antica Ninive situato a circa venti miglia da Nimrud, oltre il Tigri, oggetto della seconda campagna di Layard. Tuttavia, benché le esposizioni assire si differenziassero l’una dall’altra dal punto di vista geografico, quando il museo sistem ò le collezioni
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assire secondo i principi “scientifici” di Hawkins, lo fece dal punto di vista temporale. Nell’ala occidentale del British Museum si trovavano quattro collezioni div erse. Partendo dalla corte centrale s’incontravano le gallerie egizie, assire, di Figalea e di Elgin. Questo schema presenta una chiara progressione cronologica che procede dal passato più remoto all’Antichità classica (esemplificata nel fregio della Figalea e nei marmi di Elgin). Le opere assire risalenti al periodo dal nono al settimo secolo a.C. erano relativamente recenti paragonate alla maggior parte dei man ufatti egizi. 47 Inoltre, dato che la maggior parte dei manufatti assiri esposti nelle gallerie consisteva di rilievi, questi potevano sembrare ai bassorilievi della galleria di Figalea della Grecia classica (comprendente opere del tempio di Apollo a Bassae, collegato allo stile del Partenone), e perci ò v ennero sistemati fra le opere classiche, benché fossero in contrasto con la loro finezza. Grazie a un’organizzazione temporale, l’Assiria trovò posto al British Museum fra due div ersi tipi di oggetti, gli indiscussi modelli estetici della Grecia classica e i curiosi man ufatti dell’antico Egitto. Che la collezione assira si possa paragonare dal punto di vista estetico a quella greca o quella egiziana, che si tratti di arte o di manufatti, è opinabile.48 In realtà, proprio come i manufatti e le installazioni, anche i testi si presta vano a diverse analisi e, quindi, a div erse interpretazioni.
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Joseph Bonomi era una specie di archeologo sregolato, noto per la conoscenza dell’Egitto e della Palestina.49 Tuttavia, in qualit à di fidato guar diano archeologo, scrisse un lungo resoconto sulla prima grande collezione assira del British Museum e una pubblicazione fondamentale per l’archeologia classica, Athenaeum.50 Nel resoconto ha dedicato molto spazio (circa lo stesso in entrambe le pubblicazioni ) alla descrizione dell’oggetto dei rilievi che domina vano il carico. Tuttavia la prolissa discussione di Bonomi circa la data dei man ufatti, inevitabile in una testata come Athenaeum, è completamente omessa dal periodico rivale. Il pezzo su The Illustrated London News, d’altro canto, mette in risalto gli oggetti stessi e la narrazione esteriore di parecchi soggetti,51 includendo persino vere e proprie illustrazioni di cinque oggetti. L’incapacità di Athenaeum di rendere le opere accessibili visivamente rinforza l’opinione di Bonomi che gli oggetti “non possono in alcun modo essere considerati opere d’arte per la loro bellezza”. Anche questo punto non è presente nella versione di The Illustrated London News. Quest’ultima non afferma direttamente il contrario, ma facilita la fruibilità degli oggetti per lo spettatore in un contesto meno preciso che potrebbe essere considerato con facilità più personale e più estetico. In queste diverse analisi, la differenza tra personale e categorico è completata da quella fra spaziale e temporale. Una classificazione temporale
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razionalizzata non avrebbe potuto essere meno importante nella presentazione delle antichit à assire nella rivista illustrata. I dettagli temporali furono ridotti in maniera drastica su quelle pagine, furono addirittura fatti crollare. I rilievi assiri si potevano trovare in una vasta gamma di oggetti, antichi e moderni, mentre il testo era soprattutto descrittivo e narrativo. L’esplicita distanza tra lettore e manufatto sulla quale si soffermava The Illustrated London News era geografica, quella forma di distanza esotica trattata spesso. A dire il vero, un altro articolo spiegava nel dettaglio la complessa procedura di trasferimento dei manufatti dalla lontana Ninive a Londra, e nei n umeri seguenti della rivista si parlò spesso del progresso delle spedizioni.52 Inoltre, questo rimaneggiamento della f orma stessa di distanza, da temporale a spaziale, non fu confinato a The Illustrated London News ma venne condiviso nelle rappresentazioni popolari dell’Assiria e fu parte fondamentale del successo che riscossero. Se Athenaeum o il British Museum facevano affidamento sull’aspetto temporale come parte del discorso di un’élite recondita, Layard, The Illustrated London News e altri sottolinearono quello spaziale per integrare l’Assiria con campi di esperienza e intrattenimento più comuni e meno eruditi. La singola pubblicazione più rilevante per pubblicizzare i manufatti assiri fu proprio Nineveh and Its Remains di Layard.53 Fra le opere pi ù
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popolari dell’intera storia dell’archeologia, fu uno straordinario best-seller fin dalla sua pubblicazione all’inizio del 1849. Eppure quest’opera è persino pi ù in sintonia con il “presente” nella rappresentazione dell’Assiria della rivista illustrata. Gran parte del libro descriv e lo stato della Mesopotamia dell’epoca e i suoi abitanti. Persino quando Layard presenta lo scavo stesso, dedica lo stesso spazio al sito, alle procedure, agli usi e alle stranezze, e ai prodotti dello sca vo. Lo stesso complicato processo di trasporto che The Illustrated London News descrive nel dettaglio era di grande interesse anche per Layard. È l’argomento delle due minuziose incisioni sul frontespizio dell’originale in due volumi.54 Inoltre, lo stesso modo di privilegiare di nuovo la distanza spaziale rispetto a quella temporale caratterizza ancora meglio le f orme visiv e della mercificazione delle scoperte di Layard. La scoperta dell’Assiria ha attivato ciò che Richard Altick ha definito “il più profondo impatto compiuto dal progresso delle scoperte archeologiche sul mondo dello spettacolo (del diaciannovesimo secolo nel mondo anglosassone)”.55 Un panorama assiro ha goduto di una certa notorietà nel Leicester Panopticon di Robert Burton.56 Il successo riscosso dalla rappresentazione dell’Assiria in Inghilterra dipese direttamente dalla sua adattabilità alle norme esistenti di mercificazione visiva, dominate da fornitori di spettacolo e intrattenimento. Tuttavia a mano a mano che
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“Processione del Toro sotto la collinetta di Nimroud”, frontespizio a Austen Henry Layard, Nineveh and Its Remains, vol. 2, George Putnam, New York, 1850.
l’Assiria si estendeva oltre gli spazi controllati del British Museum, incontrava un’atmosfera culturale molto diversa, raggiungendo ascoltatori dai gusti diff erenti. Una delle peggiori paure degli amministratori del British Museum era che i ritrovamenti diventassero più intrattenimento che cultura.57 Il libro di Layard, almeno, aveva un tono colto,58 mentre il mondo delle rassegne panoramiche era commerciale, sensazionale e diverso da quello del museo. Un panorama simile a quello di Burford, che oggi pu ò essere documentato in maniera migliore, è quello presentato nel 1851 da Frederick
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Cooper, artista che era stato inviato dal British Museum ad assistere Layard alla produzione di bozzetti veloci e accurati delle scoperte. Cooper non era affatto ciò che Layard aveva sperato e presto fu rispedito a Londra a sfruttare la breve conoscenza acquisita.59 Nel panorama di Cooper gli oggetti che La yard aveva scoperto occupavano una minima parte: solo cinque delle trentasette scene di cui era composto. Molto di più fu fatto per l’area degli sca vi, il vicino villaggio di Mosul, gli usi, i costumi e le dimore degli abitanti arabi, persino di Layard stesso e dei suoi collaboratori. Una rivista contemporanea osserva – con il caratteristico understatement – che “il carattere fosco e cupo degli sca vi è alleviato da episodi della vita selvaggia e pittoresca del deserto”.60 I prodotti temporali degli scavi furono così classificati in (apparentemente preferibili) vedute contemporanee distanti solo per ragioni spaziali. Questo atteggiamento segna il limite stesso della diffusione dei nuovi oggetti del British Museum, una sistemazione in cui gli stessi oggetti inopportuni iniziano a scomparire, il che fornisce il pretesto per un’installazione accidentale ma meravigliosa. Tuttavia questa posizione segna solo l’estensione logica della ricezione di The Illustrated London News e la relativa valutazione estetica del mondo assiro. Diventando immagini destoricizzate, gli oggetti arrivano a competere con altre immagini per lo sguardo momentaneamente interessato.
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“Scena dalla tragedia di ‘Sardanapalus’, al Princess’ Theatre – The Hall of Nimrod”, Illustrated London News, 18 giugno 1853.
In modo specifico, l’incorporazione dei man ufatti assiri alla rappresentazione culturale contemporanea avvenne con successo quando si unirono contemporaneità e coinvolgimento storico: la presentazione nel 1853 di una produzione drammatica su larga scala da parte dell’impresario Charles Kean basata su Sardanapalus di Lord Byron. L’opera fu rappresentata un centinaio di volte in un periodo di due anni. L’unica ragione per il successo che riscosse erano i costumi e l’allestimento, basati su manufatti assiri del British Museum.61
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Nonostante la novità strombazzata offerta dallo spettacolo, la produzione conta va su un certo tradizionalismo connesso al nome di Byron, che stava emergendo come rinomato maestro letterario. L’unicità e la differenza potevano solo essere mostrate e controllate in un rigido sistema di somiglianza. Come notò Kean: Fino a oggi è stato impossibile mettere in scena la tragedia di “ Sardanapalus” di Lord Byron con il dovuto effetto drammatico perché, fino a oggi, non sapevamo nulla dell’architettura e dei costumi assiri. V ale anche la pena aff ermare che, per quanto interessanti siano i bassorilievi che ci hanno f ornito tali inf ormazioni, non erano in grado di fornire spiegazioni drammatiche se non per l’esistenza dell’unica Tragedia che allude al periodo di cui trattano.62 L’originalità di Kean sta nell’a ver unito due campi di lavoro diversi per rinforzarli reciprocamente senza confonderne l’identità. Qui gli stessi oggetti assiri giocano un ruolo centrale. Essi appaiono, inoltre, come manufatti storici, il cui lontano passato è collegato a quello pi ù recente rappresentato da Byron. Fu uno degli effetti più straordinari riservati ai manufatti assiri. Il Times notò che, come Pigmalione, “i monumenti di Layard del British Museum hanno iniziato una nuova vita” e che gli spettatori “viv ono con i discendenti di Nimrod e lasciano il teatro aspettando
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le invasioni di Giulio Cesare come se dovessero avvenire in un remoto futuro”.63 Persino più efficaci furono le parole adulatorie del Lloyd’s Weekly Newspaper, uno dei principali rivali di The Illustrated London News.64 Lloyd’s disse: Quell’unica rappresentazione ci ha fatto capire meglio le usanze e le abitudini degli assiri di quanto siamo riusciti a capire dei francesi in tutta una vita. È stata una grande lezione di geografia animata, e anche accurata, trattandosi della geografia animata di una nazione morta.65 Si può immaginare quanto siano eccellenti queste lodi, che testimoniano il meccanismo della comunicativa nell’imponente apparato teatrale di Kean, che trascende le distanze geografiche, culturali e soprattutto temporali, il che è ancora più straordinario se si cosidera che sono molto maggiori rispetto a quelle che separano dallaFrancia. Kean cerc ò l’approvazione di La yard (gliela offrì spontaneamente ) per l’“autenticazione” dell’ambientazione assira. Questa conf erma, molto importante per sanzionare il fatto di aver colmato la distanza temporale dall’Assiria, evidenzia anche l’accettazione di La yard (e, come molti potrebbero aver pensato, l’accettazione del British Museum) come autorevole. Più del panorama di Cooper, la produzione di Kean è in apparenza conseguente all’atto di civilizzazione stabilito per mezzo di Layard e il British Museum
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e diffuso tramite The Illustrated London News. Tuttavia Kean, Cooper e persino The Illustrated London News condividono un approccio estetizzante in contrasto con l’orientamento classicheggiante/archeologico del British Museum. La presentazione di Kean è pi ù vicina a quella del British Museum, ma la contrasta. La caratteristica stessa del suo successo è una presenza illusoria, un’armonia drammatica completamente inammissibile per gli standard dell’ar cheologia. “L’intuito” del Lloyd è l’eff etto di adattare la presentazione alle norme del teatro del diciannov esimo secolo, tenendo a freno il non noto per il noto. Gli oggetti, sembrerebbe, possono essere acculturati allo stesso modo delle persone: con la creazione di un ibrido di norme culturali diverse, un miscuglio dinamico e mai perfettamente determinato d’identit à e diff erenza, presenza e distanza. Tuttavia, come avviene con l’esotismo, la parte occidentale del miscuglio è dominante, mentre La yard diventa importante come i ritrovamenti sono per Cooper, o come Kean li usa per spiegare Byron, o come il British Museum ammette a stento che le opere assire sono le più importanti. L’emulazione e la mercificazione degli oggetti assiri del British Museum assunse diverse altre forme, dalla gioielleria alla scultura, dalla pittura alla progettazione di libri, dall’architettura agli oggetti metallici, 66 ma gli spettatori e gli
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elettori culturali si adattarono allo stesso tipo di struttura che ho abbozzato qui. Da un lato, la collezione assira può aver giovato al British Museum raggiungendo un pubblico esteso e diversificato, aiutando a valorizzarlo. Dall’altro, mentre il museo sv olgeva la funzione di fantastica miniera culturale della Gran Bretagna, gli oggetti stessi potevano essere considerati in grado di condividere parte dell’aura degli altri oggetti canonici e dei manufatti significativi ospitati. Tuttavia la relazione non era reciproca o ugualmente vantaggiosa. Potremmo considerare il British Museum un punto privilegiato per introdursi nella ricezione globale dell’Assiria da parte della Gran Bretagna. Questo privilegio è cronologico e intellettuale, vale a dire che i manufatti avevano bisogno di passare attraverso il British Museum nella loro strada verso il vasto mondo per ragioni di efficacia fisica e ideologica. IlBritish Museum era una specie di chia ve di v olta per una serie di sistemi di valutazione, esposizione e circolazione. Se lo si considera da questo punto di vista, uno studio della ricezione dell’ Assiria consiste nel seguire un segno attra verso le inflessioni dei suoi significanti. In questa luce, ed è sorprendente, la caratteristica pi ù notevole del British Museum è la sua apertura, perch é l’Assiria era situata nel punto cruciale di una serie di opposizioni, o contraddizioni, contenute nella struttura irregolare del gov erno e della rappresentazione del museo.
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Gli oggetti assiri rappresenta vano una transizione fra le antichità e i manufatti, mettendo in mostra le differenze temporali e spaziali. Gli oggetti saltarono fuori durante un periodo in cui il museo era in fase di transizione e ne beneficiarono. Se il museo non fosse stato in espansione, difficilmente sarebbero stati alloggiati, e il trattamento speciale che gli fu riservato fu il risultato di interessare sia un pubblico tradizionale sia uno con gusti più innovativi. In realtà gli oggetti non ebbero solo il ruolo di portare la collezione del museo a un pubblico pi ù vasto, ma offrirono qualcosa per calmare i critici. Particolarmente rilevante è la diffidenza dei direttori del museo: i curatori, i funzionari e il consigliere della scultura. Nessuno si oppose ai parlamentari o all’attivista Smirke, nonostante gli oggetti assiri non riscuotessero particolare successo. Mentre le scarne basi di Layard gli avevano fornito il motivo per cercar fortuna e fama tra la massa,67 il ritiro dei direttori dalla sfera pubblica preparò il terreno per le manifestazioni popolari sorte per soddisfare l’interesse del pubblico. A malincuore o meno, questa inattività era, in un certo senso, benevola. In questo contesto, la caratteristica più decisiva del personaggio di Westmacott non era il suo gusto artistico, ma la sua avversione a parlare in pubblico.68 Le rappresentazioni assire nel libro di La yard, nell’Illustrated London News e quelle di Cooper e Kean sono sostituzioni. In un certo senso, questi
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fenomeni che rappresentano la realtà potevano essere considerati separati dall’originale scoperta ed esposizione, e anche secondari a essa.Tuttavia i due gruppi di ev enti hanno molto in comune e appartengono a un unico sistema pi ù vasto. Perché tutti, persino le esposizioni del British Museum, sono tentativi di costituire la presenza dell’Assiria per persone che certamente non sono assire. Perciò, come in tutti gli esotismi, tutti condividono una discontin uità, mentre il lontano Altro è piegato (se non rotto) in un’unità presente. L’evidenza temporale e spaziale offre diverse possibilità per la costruzione di questa presenza. Quale di queste forme di distanza si scelga come principio organizzativo la dice lunga su se stessi e sul presunto pubblico e sull’oggetto dello studio. Per la provvisarietà raffinata e l’enfasi sui manufatti stessi, l’analisi di Kean è pi ù simile a quella del British Museum. Il notevole successo riscosso dà prova di una solidarietà percettiva e sociale nell’Inghilterra di met à del diciannov esimo secolo. Le rappresentazioni più radicalmente separate di Layard e, soprattutto, di Cooper, offrono una conclusione simile. Perché, nonostante il riallestimento della presentazione vari da tempo a spazio, la classificazione degli oggetti in un contesto e una maggiore concentrazione sull’intrattenimento in sé, non offrivano alcuna minaccia alla supremazia del British Museum. Erano chiaramente formate (forse costrette) dal progetto di
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diffondere le scoperte oltre il pubblico tradizionale del museo. Il loro stesso successo, quello di Cooper quasi al limite della comprensibilità, in realtà conf ermavano la supremazia del museo. Proprio come mostrarono le operazioni militari locali del museo, i direttori avevano molto meno da temere dal pubblico di quanto pensassero. La copertura dell’Illustrated London News suggerisce anche una conclusione più generale sulla natura della popolarità e della diffusione nell’Inghilterra della metà del XIX secolo. L’interesse popolare v erso l’ Assiria si basa va soprattutto sulle opere in quanto oggetti visuali. La coper tura dell’Illustrated London News fu perciò di tipo f ondamentalmente div erso da quella di Athenaeum, che conteneva solo testi. In modo analogo, la riduzione in un volume solo del libro di La yard, che godette di enorme popolarit à, conteneva molto meno testo e pi ù illustrazioni dell’edizione originale. I teorici, da Aristotele a Lessing, hanno considerato il tempo giurisdizione delle arti linguistiche, lo spazio di quelle visuali. Secondo quest’associazione, il passaggio da temporale a spaziale può anche essere considerato una svolta dal verbale al visuale. Anche in quest’ultimo modo, il museo ha svolto la funzione di soglia essenziale sulla quale conoscenza storica e associazioni (attraverso le quali all’inizio era giustificato aggiungere opere alle collezioni del British Museum) affronta vano le sembianze contemporanee.
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Tuttavia, non si dev ono minimizzare le diff erenze esteriori fra gli oggetti assiri veri e propri e le incisioni pubblicate sull’Illustrated London News. In realt à le anonime incisioni popolari non sono nemmeno coerenti una con l’altra per quanto riguarda la scala, i dettagli, la struttura e simili. Notare simili diff erenze in una pubblicazione apparentemente completa come l’ Illustrated London News o, in misura minore, attraverso l’ambito che abbiamo esaminato, sottolinea quanto f osse provvisoria ogni singola conoscenza degli oggetti e quanto ricca, invece, fosse la gamma dei rif erimenti. In definitiva, l’efficacia dei conflitti sociali e ideologici, della vasta gamma di esaminatori, degli interessi e delle pretese di possesso significavano che persino ciò che il British Museum conteneva e, a maggior ragione, la sua importanza, poteva creare disaccordo.
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Note 1. Tre importanti paradigmi per definire l’ampiezza e l’interpretazione dell’esotismo sono Orientalismo di Edward Said (Torino, 1991), Paradise on Earth di Henri Baudet (Middletown, Conn., 1988) e Exotische Welten, Europäische Phantasien, catalogo della mostra, Staatsgalerie, Stuttgart (Stuttgart, 1987). Per quanto riguarda le immagini v edi anche Linda Nochlin, “The Imaginary Orient”, Art in America, maggio 198 3, pp. 118-25, ristampato in The Politics of Vision: Essays in Nineteenth Century Art and Society (New York, 1989), pp. 33-59. 2. Una breve antologia sul dialogo nelle sue varianti: William Rubin, Picasso and Braque: Pioneering Cubism, catalogo della mostra, Museum of Modern Art (New York, 1989), pp. 1, 15- 30 passim; Lothar Lang, “Dialog mit Picasso: Zu einem Zyklus von Renato Guttuso”, Bildende Kunst 6 (1975): pp. 262-66; M. W. Martin, “The Ballet ‘Parade’: A Dialogue Between Cubism and Futurism”, Art Quarterly 1 (1978): pp. 85-111; Reinhold Hohl, The Silent Dialogue: The Still Life in t he Twentieth Century, catalogo della mostra, Galerie Beyeler, Basel (Basel, 1979) (sul “dialogo creativo tra artisti e oggetti”); “Den globale dialog: primitivo og moderne kunst”, Louisiana Revy 26 (1986, numero speciale). 3. L’unico libro scritto sull’argomento esemplifica bene questo metodo: Hannelore Künzl, Der Einfluss des alten Orients auf die europäische Kunst besonders in 19. und 20. Jh. (Cologne, 1973). 4. Sulla funzione disarmante implicita nell’inv ocazione da parte della storia dell’arte del dialogo nell’orientalismo, v edi Çeylan Tawardos, “Foreign Bodies: Art History and the Discourse of 19th Century Orientalist Art”, Third Text ¾ (Spring/Summer 1988): p. 58. Ringrazio Carol Duncan per questa citazione. 5. Frank M. Turner, The Greek Heritage in Victorian Britain (New Haven, Conn., 1981). Vedi anche come Martin Bernal affronta la “ellenomania” inglese in Atena nera (Milano, 1997), soprattutto pp. 318-26. 6. Carol Duncan e Alan Wallach, “The Universal Survey Museum”, Art History 3 (1980): pp. 448-69. 7. Christopher Norris, Derrida (Cambridge, Mass., 1987), p. 7 0. Visto che la presenza è associata al discorso e privilegiata rispetto alla scrittura, pu ò essere accostata alla superiorit à che comunemente la storia dell’arte attribuisce alla vista dell’originale rispetto all’acquisire informazioni visive attraverso la riproduzione.
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8. Sulla sineddoche e la metonimia come categorie dell’esposizione museale, vedi Stephen Bann, The Clothing of Clio (Cambridge, Mass., 1984), pp. 77-92. V edi anche come affronta l’argomento Dean MacCannell in The Tourist (New York, 1989), pp. 78-80. 9. Su questo sviluppo posteriore, vedi David K. van Keuren, “Museums and Ideology: Augustus Pitt-Rivers, Anthropological Museums, and Social Change in Later Victorian Britain”, Victorian Studies 28 (1984): pp. 171-89; e Kenneth Hudson, Museums of Influence (Cambridge, 1987), pp. 31-34. Sulle ramificazioni delle possibilità espositiv e v edi Arthur Danto, “ Art and Artifact”, in Art/Artifact (New York, 1988), pp. 18-32; questo catalogo del Center for African Art ha trattato in maniera esemplare la varietà di contesti espositivi dell’arte non occidentale. 10. Lucie Duff Gordon, Letters from Egypt (London, 1983), pp. 67-68. 11. Théophile Gautier, “Gérôme: Tableaux, Études et Croquis de Voyage”, L’Artiste ser. 6, vol. 3 (1856): p. 34. 12. La classica elaborazione dello spazio e del tempo moderni costituisce l’argomento della sezione “Estetica trascendentale” della Critica della ragion pura di Kant. Sulle differenze dell’esperienza offerta da entrambi, vedi soprattutto sezioni I.6 e I.8. 13. Nell’ampia letteratura di Layard, vedi soprattutto, in relazione alle sue opere, Gordon Waterfield, Layard of Nineveh (New York, 1963); H. W. F. Saggs, introduzione ad A. H. Layard, Delle scoperte di Ninive (Bologna, 1855), pp. 1-64. Le informazioni biografiche più dettagliate su Botta si trovano in Charles Levasseur, “Notice sur Paul-Émile Botta”, in P. E. Botta, Relation d’un Voyage Dans L’Yémen... (Paris, 1880), pp. 1-34. Sulle sue attività archeologiche, vedi P. E. Botta, M. Botta’s Letters on the Discoveries at Nineveh... (London, 1850); Adrien de Longpérier, Notice des Antiquitiés Assyriennes... du Musée du Louvre (Paris, 1854), pp. 5-14. Resoconti più completi si trovano in Seton Lloyd, Foundations in the Dust (London, 1980) e Julian Reade, Assyrian Sculpture (London, 1983), pp. 5-12. 14. Sulle collezioni di antichit à del British Museum, vedi soprattutto Edward Miller, That Noble Cabinet: A History of the British Museum (London, 1973), pp. 191-223. 15. Vedi la testimonianza del radicale William Cobbett: “A che cos’è mai servito, per il mondo intero, ilBritish Museum?... Perché commercianti e agricoltori dovrebbero essere costretti a pagare per sovvenzionare un luogo fatto soltanto per il divertimento dei
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curiosi e dei ricchi e non per il bene o l’istruzione dei pov eri?” (Hansard Parliamentary Debates, ser. 3, vol. 16 [1833], col. 1003; citato in Richard D. Altick, The Shows of London [Cambridge, Mass., 1978], pp. 443-44). 16. Sul British Museum e il suo pubblico, v edi Altick, Shows, pp. 439-46. Vedi anche Kenneth Hudson, A Social History of Museums (Atlantic Highlands, N. J., 1975), pp. 8-10. Due fonti principali sono rappresentate dal Report from the Select Committee on the Condition, Management, and Affairs of the British Museum (London, 1835) (paragrafi 1320-30 citati in Altick, Shows, p. 444); e da Select Committee on National Monuments and Works of Art, Parliamentary Papers, House of Commons, 1841, vol. 6, paragrafi 2869-3004 (ispezione di Sir Henry Ellis, primo bibliotecario del British Museum). 17. “The British Museum”, Times (London), 29 dicembre 1846, p. 5. Il Times scrive che “durante il giorno la f olla si è radunata in strada mormorando per l’ingiustizia dell’esclusione avvenuta forse nell’unico giorno di vacanza dell’anno”. 18. Howitt’s Journal 1 (1847): p. 28, rubrica del direttore. 19. W. J. Fox, “The British Museum Closed”, Howitt’s Journal 1 (1847): pp. 29-31. Fox si riferisce a quando, nel 18 45, un visitatore ruppe il vaso Portland; vedi Altick, Shows, p. 449. 20. Stanley Lane-Poole, The Life of the Right Honourable Stratford Canning, 2 v olumi, (London e New York, 1888; ristampa New York, 1976), vol. 2, p. 149 (i numeri di pagina si riferiscono alla ristampa). 21. “Mi fa soffrire moltissimo vedere i francesi monopolizzare il campo, perché i frutti del lavoro di Botta... non sono cosa da dimenticare in un giorno, ma nelle epoche future costituiranno la gloria di una nazione”. Citato nell’introduzione di Saggs a Layard, Ninive, p. 42. 22. Le prime tracce sono costituite dai British Museum Archives (d’ora in poi BMA), Committee, 24 febbraio 1849, 7730. I numeri di riferimento, qui e nelle successive citazioni, sono quelli utilizzati dai British Museum Archives. 23. Report of the Commissioners Appointed to Inquire into the Constitution and Management of the British Museum, Parliamentary Papers, House of Commons, 1850, vol. 24, paragrafi 8142-43. 24. Questa descrizione deriva da Synopsis of the Contents of the British Museum, 53esima edizione (London, 1848) (d’ora in poi BM Synopsis). Questa guida è la prima a descriv ere la disposizione dei manufatti assiri nel British Museum.
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25. In maniera simile a quella adottata per la collezione assira, anche se più tardi, e su scala inferiore, anche la collezione di antichità britanniche trovò posto in una zona espositiva separata.Sulla decisione di allestire questa collezione individuale, affrettata, come al solito, dall’iniziativa di una commissione parlamentare, v edi Miller, That Noble Cabinet, pp. 209-13. Vedi anche T. Kendrick, “The British Museum and British Antiquities”, Antiquity 3 (1954): pp. 132-43. 26. BM Synopsis, 55esima edizione, 1850, 112-14. 27. Miller, That Noble Cabinet, p. 192. 28. Per la testimonianza di Westmacott, vedi nota 48. Un tipico esempio dell’influenza che esercita va viene descritta negli appunti del museo, in risposta a una lettera in cui Charles Fellows chiede quali parti del fregio di Xanthos da lui scoperto per il museo sarebbero state esposte nella maniera da lui consigliata. “I Curatori si sono incontrati con Sir Richard Westmacott. Il Segretario ha ricevuto istruzioni di mettere al corrente sirFellows che con le informazioni in loro possesso i Curatori non hanno alcuna intenzione di modificare la disposizione di quel fregio” (BMA, Comm., 30 gennaio 18 47, 7151). 29. Smirke attirò l’attenzione del Royal Institute of British Architects sulle scoperte di Layard poco dopo il loro arrivo e in seguito consegnò all’istituto un saggio sui reperti assiri (lettera di Smirke a Joseph Scoles, RIBA Archives, 28 giugno 1847). Vedi “Some Remarks on... the Assyrian Sculptures”, RIBA Proceedings, ser. 1, n° 10, 18 marzo 1850. 30. BMA, Subcommittee, 29 novembre 1849, p. 467. 31. Su Fellows, vedi BMA, Comm., 28 nov embre 1846, 7082-83; Comm., 30 gennaio 1847, 7151; General Meeting (d’ora in poi GM), 12 giugno 1847, 1953; Report of the Commissioners, paragrafi 43-44. 32. BMA, Subcomm., 12 gennaio 1850, pp. 471-73. 33. Ibid. 34. BMA, Comm., 12 luglio 1851, 8252-53; GM, 5 aprile 1848, 2013; Comm., 15 aprile 1848, 7496. 35. BMA, Comm., 20 settembre 1851, 8294. 36. BMA, Comm., 8 ottobre 1850, 8067. 37. Austen H. Layard, Autobiography, 2 v olumi (London, 1903), vol. 2, p. 191; Waterfield, Layard of Nineveh, p. 195. 38. British Museum Department of Western Asiatic Antiquities, Correspondence I. 1, n° 161. 39. Richard D. Altick, La democrazia fra le pagine: la lettur a di massa nell’Inghilterra dell’Ottocento (Bologna, 1990), pp. 343-44, 394.
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40. Illustrated London News, 26 giugno 1847, p. 412. D’ora in poi, ILN. 41. ILN, 16 dicembre 1848, pp. 373-74. 42. BMA, Comm., 8 gennaio 1848, 7411-14; 12 febbraio 1848, 7427; 15 aprile 1848, 7503; 6 maggio, 7514. 43.ILN, 31 marzo 1849, p. 213. 44. L’implicita speranza che disseminare queste inf ormazioni oltre i luoghi tradizionali destinati alle classi superiori a vrebbe spinto qualcun altro a offrire un contributo per decifrare e comprendere l’Assiria si realizz ò qualche decennio dopo nella persona di George Smith. Smith, incisore di banconote, aveva imparato da solo a leggere l’alfabeto cuneiforme e scoprì un passaggio cruciale nell’epica di Gilgamesh. Su Smith, vedi Lloyd, Foundations in the Dust, pp. 146-47. 45. ILN, 26 marzo 1853, p. 225. 46. Vedi il mio “Assyria as Art: A Perspective on the Early Reception of Ancient Near Eastern Artifacts”, Culture and History 4 (1989): pp. 7-34. 47. 1848 BM Synopsis elenca la maggior parte degli oggetti dell’esposizione centrale (the Egyptian Saloon) come risalenti al periodo dalla dodicesima alla ventiseiesima dinastia, un arco di tempo di più di 1300 anni che arriva fino a 1900 a.C. Per le datazioni assire, si veda BM Synopsis, 60 ed., 1853, pp. 103-5; BM Synopsis, 61 ed., 1854, pp. 95-103. 48. Si confronti Richard Westmacott “ritengo impossibile che qualsiasi artista possa considerare i marmi di Ninive opere di studio, perché certamente non lo sono; sono arte prescrittiva, come le opere dell’arte egizia (Minutes of... the Select Committee on the National Gallery, Parliamentary Papers, House of Commons, 185253, vol. 31, par. 9 053), con La yard in una lettera del 18 46: “La conoscenza [degli assiri] in campo artistico è sorprendente e di gran lunga superiore a quella di qualsiasi nazione contemporanea... I [colossali] leoni [alati] recentemente scoperti, per esempio, sono disegnati in modo supremo e i muscoli, le ossa e le vene molto realistici e descritti con genialit à (Layard, Autobiography, vol. 2, pp. 166-67). 49. Sul ruolo di Bonomi nelle spedizioni in Egitto di Robert Hay, si veda Selwyn Tillet, Egypt Itself (London, 1980), passim. Ad altri aspetti della carriera di Bonomi accenna Michael Darby nel catalogo della mostra The Islamic Perspective (London, 1983), pp. 30-31, 39. Si veda anche Joseph Bonomi, Niniveh and Its Palaces (London, 1852).
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50. Athenaeum (London), June 19, 18 47, pp. 65 0-51; Athenaeum, July 3, 1847, pp. 706-7; ILN, June 26, 1847, pp. 409-10, 412. Benché le date siano confuse, Bonomi ammette di esserne l’autore inBritish Library (d’ora in poi BL) Add. MS. 38,510, ff. 199-200. 51. “Sembra che nov e dei Rilievi si rif eriscano alle azioni dello stesso re, alcuni soggetti sembrano seguire in modo naturale e consecutivo.” 52. Per es. ILN, July 27, 1850, p. 71 ; December 21, 185 0, p. 484; December 28, 1850, p. 505; February 28, 1852, p. 184. 53. Austen Henry Layard, Niniveh and Its Remains, 2 voll., (London, 1849). Sul notevole successo e sulla storia della pubblicazione di questo libro, si veda Frederick N. Bohrer, “The Printed Orient: The Production of A. H. Layard’s Earliest Works,” Culture and History (di prossima uscita). 54. L’altro frontespizio ritrae il ritrovamento del toro dagli scavi. L’artista di queste immagini era George Scharf, in seguito direttore della National Portrait Gallery. È probabile che Scharf sia stato scelto perch é in precedenza a veva accompagnato Charles Fellows in uno sca vo archeologico in Asia Minore e aveva prodotto alcune incisioni relativ e al viaggio. Tuttavia, all’epoca, Scharfs viveva illustrando una serie di libri per John Murray. Per questa ragione era molto prezioso per Murray, l’editore, perché le sue opere avrebbero riscosso successo commerciale; e lo era altrettanto per Layard perché le immagini rappresentavano la realtà. 55. Altick, Shows, p. 182. 56. Burford contattò persino Layard (che pare non abbia mai risposto) per dei disegni panoramici. BL Add. MS. 38, 979, ff. 316-18. 57. Si vedano le parole di ammonimento di John Ward, uno dei primi curatori del British Museum, citate in Miller, That Noble Cabinet, p. 62. Cfr. il commento di Harold Rosenberg sul museo di arte moderna: “Nella direzione [il museo] non ha preso niente eccetto la trasformazione in un basso mezzo di massa”(“The Museum Today,” nel suo The De-definition of Art [New York, 1972], p. 242). 58. Il tono del racconto è simile a quello dei primi contributi di Layard sulle riviste specializzate, come “ A Description of the Province of Khúzistán,” Journal of the Royal Geographic Society 16 (1846): pp. 1-105. 59. “Il signor Cooper, l’artista, non avrebbe mai dovuto lasciare lo Strand” (lettera da A. H. Layard, Mosul, July 7, 1850, British Museum Department of Western Asiatic Antiquities, Correspondence I.1, no. 3154.
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60. Una delle parecchie timorose recensioni nel catalogo della mostra, Diorama of Nineveh. Painted by Frederick Charles Cooper (London, 1851), interno della copertina. Citato in The Wesleyan Times. 61. George Gordon, Lord Byron, Sardanapalus... Adapted for Representation by Charles Kean (New York, s.d.). Cfr. Martin Meisel, Realizations (Princeton, N.J., 1983), pp. 181-83. 62. Kean, prefazione a Lord Byron, Sardanapalus, pp. 5-6. 63. Times (London), June 14, 1853, p. 7. 64. Altick, Common Reader, p. 394, lo considera terzo quanto a circolazione, dietro solo a – Illustrated London News e News of the World. Nel 1851, la rivista affermava di avere una diffusione di circa 150.000 copie (Lloyd’s Weekly Newspaper, May 11, 1851, p. 6). Statistiche più affidabili di quelle di Altick indicavano circa un terzo di quella cifra. 65. Citato in Inge Krengel-Strudthoff, “ Archäologie auf der Bühne – das wiedererstandene Ninive: Charles Keans Ausstattung zu Sardanapalus von Lord Byron,” Kleine Schriflten der Gesellschaft für Theatergeschichte 31 (1981): p. 19. 66. Mi occuperò di questo tipo di produzione in uno studio futuro. 67. Samuel Birch, intendente del mondo antico al British Museum, che sosteneva le scoperte di Layard, offrì questo fondamento logico: “Le amministrazioni inglesi sono pi ù influenzate pi ù dall’esterno che dall’interno” (Waterfield, Layard of Nineveh, p. 180). 68. Così, quando qualcuno al “the Sunday papers” chiese una spiegazione a Westmacott riguardo alla sua aggiunta al British Museum, la scultura con frontone che adorna l’entrata principale, non rispose direttamente ma si riv olse al principale bibliotecario (vale a dire, il direttore esecutiv o), spiegando: “ Ho il terrore di comparire in stampa.” BL Add. MS. 38, 626, ff. 198-201.
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Distanza e prospettiva Due metafore di Carlo Ginzburg [...] Chi saccheggerà, chi farà propria la nostra nozione di storia, magari respingendone il nucleo concettuale, incorporato nella metaf ora della prospettiva? A questa domanda non sono in grado di rispondere. Ma una cosa è indubbia: due dei tre modelli identificati fin qui sono stati di recente messi in discussione, anche se in ambiti di ben diversa importanza. Il modello basato sull’adattamento è attaccato dai f ondamentalisti di ogni sorta ; il modello basato sul conflitto è stato respinto sprezzantemente come un’anticaglia da quanti parlano o parla vano di “fine della storia” 1. Il modello basato sulla molteplicità è invece sempre più di moda, anche se in una versione scettica, secondo cui ciascun gruppo sociale, basato sul genere, sulla provenienza etnica, sulla religione e così via, aderisce a una serie di valori di cui, in ultima analisi, è prigioniero. La prospettiva – così ci vien detto – è buona perché sottolinea la soggettivit à; ma è anche cattiva perché sottolinea la distanza intellettuale, anziché la prossimità (o l’identificazione) emotiva.2
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L’argomentazione che citavo all’inizio, secondo cui la memoria, per la sua maggiore prossimit à all’esperienza vissuta, riesce meglio della storiografia a stabilire un rapporto vitale col passato, proviene da questa temperie anti-intellettualistica. Una discussione adeguata su questi atteggiamenti richiederebbe un altro saggio.3 Mi limiterò a un’unica osservazione. Per motivi diversi, anzi opposti, i fondamentalisti e i neoscettici respingono o ignorano ciò che in passato ha fatto della prospettiva una metafora cognitiva così potente: la tensione tra punto di vista soggettivo e verità oggettive e v erificabili, garantite dalla realt à (come in Machiavelli) o da Dio (come in Leibniz). Se questa tensione sarà tenuta aperta, la nozione di prospettiva smetterà di costituire un ostacolo tra scienziati e scienziati sociali, per diventare invece un luogo d’incontro, una piazza in cui conversare, discutere, dissentire.
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Note 1. E. Gellner, Postmodemism, Reason and Religion, London 1992. Il libro di F. Fukuyama, The End o fHistory and t he Last Man, New York 1992 (basato su un saggio apparso nel luglio 1989) è discusso, e inserito in un ampio contesto intellettuale daP. Anderson, The Ends of History, in Id., A Zone of Engagement, London 1992, pp. 279-375. 2. M. Iversen, Warburg – neu gelesen, in Denkräume zwischen Kunst und Wissenschaft, a cura di S. Baumgart, Berlin 1993, pp. 32-45 (che ho letto per suggerimento di Karen Michels). Cfr. anche G. Bock, Der Platz der Frauen in der Geschichte, in Neue Aufsätze in der Geschichtswissenschaft, Wien 1984, pp. 108-127; D. Haraway, Situated Knowledge. The Science Question in Feminism and the Privilege of Partial Perspective, in “Feminist Studies”, 14 (1988), pp. 575-599, soprattutto pp. 581, 58 3 (che ho letto per suggerimento di Nadine Tanio). 3. Ne ho discusso in vari saggi pubblicati in riviste (per esempio Unus testis. Lo stenninio degli Ebrei e il principio di realtà, in “Quaderni storici”, n. s., 80, agosto 1992, pp. 529-548) e nelle Menachem Stern Lectures, di prossima pubblicazione.
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IMMAGINI: YOU HAVE TO BE FOCUSED , 2008 REPRODUCTION OF FBI SURVEILLANCE PHOTOGRAPHS, RED MARKER
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Unus testis Lo sterminio degli ebrei e il principio di realtà di Carlo Ginzburg a Primo Levi 1. Il 16 maggio 1 348 la comunit à ebraica di La Baume, un piccolo villaggio provenzale, fu sterminata. Quest’ev ento è solo un anello di una lunga catena di violenze innescate nella Francia meridionale dal manif estarsi della Peste Nera, nell’aprile dello stesso anno. L’ostilità contro gli ebrei, che molti ritenevano colpevoli di aver diffuso la pestilenza spargendo v eleno nei pozzi, nelle fontane e nei fiumi, si era cristallizzata per la prima v olta a Tolone, durante la settimana santa. Il ghetto era stato assaltato, uomini donne e bambini erano stati uccisi. Nelle settimane successive violenze analoghe si v erificarono in altre località della Provenza, come Riez, Digne, Manosque, Forcalquier. A La Baume vi fu un solo sopra vvissuto: un uomo che dieci giorni prima era partito per Avignone, dove era stato convocato dalla regina Giovanna. Costui lasciò un commosso ricordo dell’evento in poche
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righe scritte su un esemplare della Torah, oggi conservato presso la Osterreichische Nationalbibliothek di Vienna. Joseph Shatzmiller, combinando in un bellissimo saggio una nuova lettura del brano scritto sulla Torah con un documento tratto da un registro fiscale, è riuscito a identificare il nome del sopravvissuto: Dayas Quinoni. Nel 1349 egli si era stabilito a Aix, dove ricevette l’esemplare della Torah. Se sia mai tornato a La Baume dopo il massacro, non sappiamo.1 Adesso parlerò brevemente di un caso div erso, anche se in qualche modo connesso. L’accusa di diffondere la peste lanciata contro gli ebrei nel 1348 ricalcava da vicino uno schema che era già emerso una generazione prima. Nel 1321, durante la settimana santa; una voce si diffuse improvvisamente attraverso l’intera Francia e in alcune zone circostanti (Svizzera occidentale, Spagna settentrionale ). I lebbrosi o, secondo altre versioni, i lebbrosi sobillati dagli ebrei, oppure i lebbrosi sobillati dagli ebrei sobillati dai re musulmani di Granada e di Tunisi, avevano ordito un complotto per avvelenare i cristiani sani. I re musulmani erano ovviamente irraggiungibili: ma per due anni lebbrosi ed ebrei divennero il bersaglio di una serie di violenze messe in atto sia dalla popolazione sia dalle autorità politiche e religiose. Altrove ho cercato di districare questo complesso intreccio di ev enti.2 Qui v orrei analizzare un passo tratto da una cronaca la-
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tina, scritta all’inizio del XIV secolo dal cosiddetto continuatore di Guglielmo di Nangis: un monaco anonimo che, come il suo predecessore, viveva nel convento di Saint-Denis. Dopo la scoperta del presunto complotto molti ebrei, soprattutto nella Francia settentrionale, furono uccisi. Vicino a Vitryle-Françoise, dice il cronista, circa quaranta ebrei furono imprigionati in una torre. Per evitare di essere messi a morte dai cristiani essi decisero, dopo lunghe discussioni, di uccidersi vicendev olmente. Del gesto s’incaricarono un v ecchio, molto autorevole, e un giovane. Poi il vecchio chiese al giovane di ucciderlo. Il giovane accetta con riluttanza: ma inv ece di suicidarsi s’impadron ì dell‘oro e dell’argento contenuto nelle tasche dei cadaveri giacenti al suolo. Poi cerca di scappare dalla torre con l’aiuto di una corda fatta con lenzuola annodate. Ma la corda non era abbastanza lunga: il giovane cadde al suolo rompendosi una gamba, e fu messo a morte.3 L’episodio non è di per sé implausibile. Tuttavia esso presenta alcune innegabili affinità con due passi della Guerra giudaica di Flavio Giuseppe. 1) Il primo passo (III, 8) parla di quaranta individui che, dopo essersi nascosti in una grotta vicino a Jotapata, in Galilea, si suicidano tutti, tranne due: Giuseppe stesso e un soldato suo amico che accetta di non ucciderlo; 2) il secondo descrive il celebre assedio di Masada, la disperata resi-
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stenza degli ebrei riuniti dentro la f ortezza, seguita da un suicidio collettivo, anche qui con due eccezioni: due donne (vii, 8-9).4 Come interpretare le analogie tra i due passi di Giuseppe e quello, già menzionato, della cronaca scritta dal continuatore di Guglielmo di Nangis? Dobbiamo supporre una conv ergenza nei fatti, o, al contrario, la presenza di un topos storiografico (che nella versione più recente includerebbe anche un’allusione a un altro topos, l’avidità ebraica)? L’ipotesi di un topos storiografico e già stata formulata cautamente a proposito del resoconto degli ev enti di Masada f ornito da Giuseppe.5 L’opera di Flavio Giuseppe, largamente nota nel Medioevo sia in greco sia nella famosa versione latina preparata sotto la direzione di Cassiodoro, era particolarmente diffusa (a quanto si pu ò giudicare dal numero dei manoscritti che ci sono pervenuti) nella Francia del Nord e nelle Fiandre.6 Sappiamo che Flavio Giuseppe faceva parte delle letture prescritte durante la quaresima nel monastero di Corbie attorno al 1050; le sue opere tutta via non sono menzionate in un elenco trecentesco di letture prescritte ai monaci di Saint-Denis, tra i quali c’era, come si é detto, il continuatore di Guglielmo di Nangis.7 Inoltre, manca una prova diretta della presenza di manoscritti della Guerra giudaica di Flavio Giuseppe nella biblioteca di Saint-Denis.8 Ma l’anonimo cronista avrebbe potuto consultarli senza dif-
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ficoltà: tra i molti manoscritti posseduti dalla Bibliothèque Nationale di Parigi ve n’è uno (risalente al xii secolo) proveniente dalla biblioteca di Saint-Germain-des-Prés.9 Tutto ciò consente di affermare che il continuatore di Guglielmo di Nangis può aver conosciuto la Guerra giudaica di Flavio Giuseppe (o il suo adattamento del iv secolo nota come “Hegesippo”).10 Ma da ciò non consegue necessariamente che il suicidio collettivo vicino a Vitry-le-Françoise non si sia mai verificato. Sulla questione si dovrà lavorare ancora: anche se f orse sar à impossibile arrivare a una conclusione certa. 2. Queste vicende risalenti a un passato remoto e semi-dimenticato sono connesse attraverso fili molteplici al tema che ho indicato nel sottotitolo. Di ciò si mostra acutamente consapevole Pierre Vidal-Naquell, visto che ha deciso di ripubblicare nello stesso volume (Les Juifs, la mémoire, le présent, Paris 1981 ) un saggio su “ Flavio Giuseppe e Masada” e “Un Eichmann di carta”: una discussione particolareggiata di quella storiografia detta “revisionista” che sostiene l’inesistenza dei campi di sterminio nazisti. 11 Ma la presenza di contenuti analoghi – la persecuzione degli ebrei nel Medioevo, lo sterminio degli ebrei nel xx secolo – è a mio parere meno importante dell’analogia dei problemi di metodo posti da entrambi i casi. Provo a spiegare perché.
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Le analogie tra i due passi di Giuseppe, riguardanti rispettivamente l’episodio di Jotapata e l’assedio di Masada, vertono oltre che sul suicidio collettivo, sulla sopravvivenza di due individui: Giuseppe e il soldato suo amico nel prima caso, le due donne nel secondo. 12 La sopravvivenza di un individuo era un requisite necessario perché si desse una testimonianza: ma perch é due? Penso che la scelta dei due testimoni si spieghi con il ben noto rifiuto, presente sia nella tradizione giuridica romana sia in quella ebraica, di riconoscere in sede di giudizio la validità di un unico teste. 13 Entrambe le tradizioni erano, com’è ovvio, familiari a un ebreo div entato cittadino romano come Flavio Giuseppe. Più tardi l’imperatore Costantino trasf ormò il rifiuto dell’unico testimone in una legge vera e propria, che venne poi inclusa nel codice di Giustiniano.14 Nel Medioevo l’allusione implicita a Deut 19, 15 (Non stabit testis unus contra aliquem) diventò testis unus, testis nullus: una massima ricorrente, in forma implicita o esplicita, nei processi e nella letteratura legale.15 Proviamo a immaginare per un momento che cosa succederebbe se un criterio del genere v enisse applicato nella ricerca storica. La nostra conoscenza degli ev enti che si v erificarono a La Baume nel maggio 1 348, vicino a Vitr y-leFrançoise in un giorno imprecisato dell’estate del 1321, e nella grotta nei pressi di Jotapata nel
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luglio 67, è basata su un testimone pi ù o meno diretto. Si tratta, rispettivamente, dell’individuo (identificato come Dayas Ouinoni) che scrisse le righe che si leggono sulla Torah oggi conservata presso la Nationalbibliothek di Vienna; il continuatore di Guglielmo di Nangis; Flavio Giuseppe. Nessuno storico sensato respingerebbe queste testimonianze definendole intrinsecamente inaccettabili. Secondo la normale pratica storiografica il valore di ogn una di esse dovr à essere accertato attra verso una serie di confronti. In altre parole, si dovrà costruire una serie che includa almeno due documenti. Ma supponiamo per un momento che il contin uatore di Guglielmo di Nangis, nella sua descrizione del suicidio collettivo avvenuto nei pressi di Vitr yle-Françoise, non abbia fatto altro che riecheggiare la Guerra giudaica di Flavio Giuseppe. II presunto suicidio collettiv o finirebbe col dissolversi in quanto fatto: ma la sua descrizione costituirebbe pur sempre un documento importante della diffusione (che è anch’essa, tranne per un positivista inv eterato, un “fatto” ) dell’opera di Flavio Giuseppe nell’Ille-de-France al principio del xiv secolo. Il diritto e la storiografia hanno dunque, a quanto pare, regole e fondamenti epistemologici che non sempre coincidono. Pertanto, i principi giuridici non possono essere trasferiti di peso nella ricerca storica.16 Questa conclusione sembra contraddire
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la stretta contiguità sottolineata da studiosi cinquecenteschi come François Baudouin, lo storico del diritto che dichiaro solennemente che “gli studi storici devono poggiare su di un solido fondamento legale, e la giurisprudenza deve essere unita alla storiografia”17 In una prospettiva diversa, connessa alla ricerca antiquaria, il gesuita Henri Griffet, nel suo Traité des différentes sortes de preuves qui servent à établir la vérité de l’histoire (1769), paragonò lo storico a un giudice che accerta l’attendibilità dei vari testimoni.18 Oggi quest’analogia ha un suono decisamente fuori moda. È probabile che molti storici odierni reagirebbero con un certo imbarazzo alla parola cruciale del titolo del libro di Griffet: preuves, prove. Ma alcune discussioni recenti mostrano che la connessione tra prove, verità e storia, sottolineata da Griffet, non può essere messa facilmente in disparte. Questa è la traduzione di un paper (titolo originale: Just One Witness) presentato al convegno The Extermination of the Jews and the Limits of Representation tenutosi a Los Angeles, presso l’UCLA il 25-29 aprile 1990. Cfr. ora Probing the Limits of Representation. Nazism and the “Final Solution”, a cura di S. Friedlander, Cambridge (Mass.) 1992. Ho modificato in qualche punto il testo originale.
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Note 1.Cfr. J. Shatzmiller, Les luifs de Provence pendant la Peste Noire, in “Revue des etudes juives”, 133 (1974), pp. 457-480, specialmente pp. 469-472. 2. Cfr. Storia notturna, Torino 1989, pp. 5-35. 3. Cfr. Bouquet, Recueil des historiens des Gaules et de la France, Paris 1840, vol. xx, pp. 629-630. 4. Cfr. Flavio Giuseppe, La guerra giudaica, a cura di V. Vitucci, Milano 1982. Cfr. P. Vidal-Naquet, “Flavius Josephe et Masada”, in Les Juifs, la mémoire, le présent, Paris 1981, pp. 43 sgg., che analizza con acume i parallelismi tra i due passi (per la traduzione italiana di questo saggio, non compreso nella raccolta Gli ebrei, la memoria e il presente, Roma 1985, si v eda P. Vidal-Naquet, Il buon uso del tradimento, tr. it. di D. Ambrosino, Roma 1980, pp. 161-183). 5. Cfr. P. Vidal-Naquet, “Flavius Josèphe”, cit., p. 53 sgg. 6. Cfr. The Latin Josephus, a cura di F. Blatt, Aarhus 1958, vol. I, pp. 15-16. Cfr. anche G. N. Deutsch, lconographie et illustration de Flavius Jqsephe au tempsnde Jean Fouquet, Leiden 1986, p. XI (cartina). 7. Cfr. Ph. Schmitz, Les lectures de table à l’abbaye de Saint-Denis à la fin du Moyen Age, in “Révue bénedictine”, 42 (1930), pp. 163167; A. Wilmart, Le couvent et la bibliotheque de Cluny vers le milieu du XIe siecle, in “ Revue Mabillon”, 11 (1921), pp. 89-12 4, specialmente pp. 93, 113. 8. Cfr. D. Nebbiai-Dalla Guarda, La bibliothèque de l ’abbaye de Saint-Denis en France du IXe au XVIIIe siècle, Paris 1985, a proposito di una richiesta mandata da Reichenau a Saint-Denis per ottenere una copia delle Antiquitates Judaicae di Flavio Giuseppe (p. 61; cfr. anche ivi, p. 294). 9. B. N. Lat. 12511: cfr. The Latin Josephus, cit., p. 50. 10. Hegesippi qui dicuntur historiarum libri V, a cura di V. Ussani (“Corpus scriptorum ecclesiasticorum latino rum”, v ol. LXVI), Vindobonae 1932, 1960, prefazione di K. Mras (sull’assedio di Masada cfr. vol. v, pp. 52-5 3, 407-417). La Bibliotheque Nationale di Parigi possiede dodici manoscritti di “Hegesippus”, scritti tra il x e il xv secolo: cfr. G. N. Deutsch, Iconographie, cit., p. 15. 11. Una traduzione inglese di quest’ultimo saggio e apparsa in “ Democracy”, aprile 1981, pp. 67-95: A Paper Eichmann?
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(si noti il punto interrogativo, assente nel titolo originale francese; per la traduzione italiana cfr. “Un Eichmann di carta”, in Gli ebrei, cit., pp. 195 sgg.). 12. Meno convincente mi sembra la proposta di Maria Daraki, menzionata da P. Vidal-Naquet (Les Juifs, cit., p. 59 nota 48; tr. it. Il buon uso, cit., p. 173 nota 50), secondo cui nel primo caso il parallelismo dovrebbe essere riferito alla donna che denunciò Flavio Giuseppe e i suoi compagni. 13. Cfr. H. Van Vliet, No Single Testimony (“Studia Theologica Rheno-Traiectina”, IV), Utrecht 1958. Il vantaggio di disporre di più di un testimone è sottolineato da un punto di vista generale (ossia logico) da P. Vidal-Naquet, Les Juifs, cit., p. 51. 14. Cfr. H. Van Vliet, No Single Testimony, cit., p. 11. 15. cfr. per esempio A. Libois, À propos des modes de preuve. et plus spécialement de la preuve par témoins dans la jurisdiction de Léau au xve siècle, in Hommage au Professeur Paul Bonenfant (18991965), Bruxelles 1965, pp. 532-546, specialmente pp. 539-542. 16. Su quest’argomento si v edano gli accenni, alquanto rapidi, di P. Peeters, Les aphorismes du droit dans la critique historique, in “Acadernie Royale du Belgique, Bulletin de la classe des lettres...”, vol. XXXII (1946), pp. 82 sgg. (pp. 95-96 a proposito di testis unus, testis nullus). 17. F. Baudouin, De institutione historiae universae et ejus cum jurisprudentia conjunctione, prolegomenon libri II, citato da D. R. Kelley, Foundations of Modern Historical Scholarship, New YorkLondon 1970, p. 116 (ma tutto il libro è importante). 18. Ho consultato la seconda edizione (Liège 1770). L’importanza di questo breve trattato venne acutamente sottolineata da A. Johnson, The Historian and Historical Evidence (1926), New York 1934, p. 11 4, che 1 0 definì “the most significant boo k on method after Mabillon’s De re diplomatica”. Cfr. A. Momigliano, “Storia antica e antiquaria”, in Sui fondamenti, cit., p. 19.
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Retorica di Patrizio di Massimo “In qualche remoto angolo dell’universo, tra innumerevoli, brillanti sistemi solari, c’era una volta una stella sulla quale alcuni animali intelligenti inventarono”1 la retorica. Il significato del termine retorica cambi ò poi molte v olte nel corso dei secoli e la ricchezza dei suoi significati diede vita ad innumerevoli teorie. Secondo i dizionari di lingua contemporanei il significato più comune del lemma è: “ L’arte della comunicazione e della persuasione attraverso il parlare e lo scrivere, soprattutto tramite l’uso di figure retoriche o altre tecniche compositive”2. Spesso associata all’uso del linguaggio nelle arti oratorie o letterarie, la retorica conobbe un notevole sviluppo nella Grecia antica, specialmente grazie ad Aristotele. Anche in epoca romana, nel Medioevo e nel Rinascimento, conservò un ruolo di primaria importanza nella metodologia compositiva del discorso e del testo. Fu verso la seconda metà del diciottesimo secolo che la retorica cadde temporaneamente nell’oblio, quando emerse un nuovo modo di concepire la poesia e la letteratura, spontaneo e non condizionato da
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regole rotoriche: il romanticismo 3. Questo fino a che il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche non riportò di nuovo in auge la materia ponendola al centro della discussione filosofica. Scopo di questo testo è tracciare una linea descrittiva ed esplicativa per l’interpretazione del termine “Retorica” attraverso le lenti della filosofia e della storiografia contemporanee. Partendo da Nietzsche e dalla sua riscoperta delle arti retoriche in relazione alla conoscenza e alla verità, analizzerò poi le teorie di Roland Barthes e Hayden White. Questi ultimi, influenzati dalla visione scettica e nichilista di Nietzsche, vedono la retorica e la storiografia come sinonimi, convinti che non ci sia nessuna diff erenza tra una storia inventata e gli eventi realmente accaduti. Passerò poi a una visione opposta, analizzando l’idea di retorica di Arnaldo Momigliano e Carlo Ginzbug, i quali, scettici nei confronti dello scetticismo di Barthes/White, hanno cercato di riportare la retorica alla sua visione aristotelica, considerando prova ed evidenza come punti cardinali del discorso. “La Retorica è l’essenza della filosofia di Nietzsche”4 e infatti la raccolta di appunti delle lezioni tenute all’Università di Basilea tra il 1872 e il 1873 intitolata “Antica Retorica” dimostra che il filosofo era interessato all’argomento sin dall’inizio della sua carriera. Nietzsche studi ò a fondo la retorica greca, associandola alla v o-
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lontà che “si sviluppa tra persone che vivono ancora d’immagini mitiche e che non hanno per tanto sperimentato l’immotivata necessit à dell’accuratezza storica: persone che preferirebbero essere persuase piuttosto che istruite” 5. Questi studi lo portarono ad alcune conclusioni sulla relazione tra retorica e linguaggio (con il termine linguaggio intenderò sempre in questo testo l’uso della parola – sia scritta che orale ): Nietzsche sosteneva che una conoscenza completa e sostanziale del mondo f osse impossibile, perché la consapevolezza non coglie mai le cose, ma semmai impulsi o copie imperfette delle cose, e tali impulsi sono rappresentati solo dalle immagini che percepiamo. Queste immagini non sono cose di per sé, ma solo una nostra interpretazione delle cose. Inoltre gli impulsi, generati da sensazioni ed esperienze, sono segni di per sé, e per questo “il linguaggio stesso è retorica” 6. Ciò significa che il linguaggio esprime un atteggiamento o un’opinione, una visione parziale piuttosto che una conoscenza sostanziale della cosa. Da questo punto di vista, quindi, non si può prescindere: il linguaggio è sempre retorico ed è impossibile parlare di naturalezza del linguaggio a prescindere dalla retorica. “[...] pensiamo soltanto in f orma di linguaggio [...] smettiamo di pensare quando ci rifiutiamo di farlo nei
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limiti del linguaggio; siamo a malapena sfiorati dal dubbio che v ede questa limitazione come una limitazione. Il pensiero razionale è inter pretazione secondo uno schema che non possiamo respingere”7. L’implicazione di tale assunto è che i concetti sono strettamente associati al linguaggio con cui sono espressi, e che quindi la retorica assume una posizione centrale nella f ormazione della conoscenza. Ma poich é conoscenza ed etica sono radicate nell’uso del linguaggio stesso, si rivelano sempre parziali; non esistono verità assolute perché la nostra esperienza e la nostra conoscenza sono basate sul linguaggio. Secondo Nietzsche, il linguaggio è sempre parziale, trasferibile e reversibile nella sua relazione con la realtà. È parziale perché non esprime mai qualcosa in modo completo, ma enfatizza solo alcune caratteristiche che sembrano cospicue, e quindi il linguaggio è una rappresentazione sineddochica o parziale delle cose. È trasferibile perché alle parole possono essere assegnati metaforicamente nuovi significati, quindi le parole hanno una trasferibilità che non appartiene invece alle cose rappresentate. È reversibile perché i segni possono sostituire metonimicamente causa ed effetto, il linguaggio rovescia la natura delle cose o dei processi.
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Nietzsche conferisce alla retorica un significato vasto e complesso, che confina con la ricerca della verità. La retorica è un ampio insieme che contiene, e spesso è ridotto a, il linguaggio. Ma poiché il linguaggio ci f ornisce solo una copia della realtà, questo è limitante e ingannev ole. Come sappiamo, lo strumento principale della retorica è la figura retorica, che solitamente viene classificata in schemi e tropi. L’idea di Nietzsche è che tutte le parole sono di per s é tropi sin dall’inizio, e questo è il motivo per cui le parole non si avvicinano mai alla verità. Esse invece esprimono, fin dall’origine, un’interpreta zione mediata delle cose. Inoltre, Nietzsche afferma che l’esistenza di così tante lingue parlate al mondo è una dimostrazione dell’inaffidabilità della parola. Le domande che Nietzsche pone sono: “I termini coincidono con le cose ? Il linguaggio è l’adeguata espressione di tutte le realtà? Cos’è una parola?”8. A questo punto sorge per la prima volta la distinzione tra v erità e menzogna e la questione diventa “cos’è la v erità?” (La ricerca della verità sarà un punto centrale nella teorizzazione della retorica anche per gli storici Momigliano e Ginzburg, due autori che citer ò più avanti nel testo). La risposta di Nietzsche è mediata dalla seguente considerazione: la “cosa-inse-stessa” (verità disinteressata) è incomprensibile per il creatore di linguaggio che non ricerca il
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vero valore delle cose, quindi questa misteriosaX della cosa appare prima come stimolo nerv oso, poi come immagine (prima metafora) e in seguito viene rimodellata come suono (seconda metafora). Quello che abbiamo non è altro quindi che metafore di cose che non corrispondono per nulla alle entità originarie: perché tutte le parole sono tropi. Alla questione “Cos’è la verità?” Nietzsche dà la seguente risposta: Un esercito mobile di metafore, metonimie, antropomorfismi, in brev e una somma di relazioni umane che sono state elevate, trasferite e adornate poeticamente e retoricamente, e dopo un lungo utilizzo sembrano solide, canoniche e legate a una nazione. Le verità sono illusioni di cui si è dimenticato che sono illusioni, metafore logore senza impatto sensoriale, monete che hanno perso la loro effigie e ora possono essere usate solo come metallo, non pi ù come monete.9 Ora, vorrei fare una considerazione sul modo in cui Nietzsche descrive la nostra percezione della verità. In retorica c’è un tropo chiamato catacresi, una sorta di figura retorica normalizzata che si usa per designare qualcosa che non pu ò
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altrimenti essere descritta con una terminologia precisa10. Si tratta solitamente di antiche metafore o metonimie non pi ù considerate tali. La catacresi accade quando utilizziamo un tropo senza pensare che lo sia, perché esso è diventato d’uso comune. Non sembra questo simile all’analisi di Nietzsche sulla nostra percezione della realtà? Possiamo affermare che per Nietzsche la v erità non sia altro che una catacresi ? Può una figura retorica a vere un ruolo tanto fondamentale nella ricerca della v erità? La verità è la gamba di un tavolo?11 Nella ricerca della verità e nella millenaria diatriba tra f orma e conten uto, Nietzsche restituì alla retorica un ruolo centrale. Di conseguenza, il suo interesse per l’argomento influenz ò gran parte della filosofia del ventesimo secolo. Oggi, una premessa f ondamentale per la comprensione della retorica è che gli strumenti sono imprescindibili dal significato, cioè il come si dice qualcosa trasmette significato tanto quanto il cosa si dice. Quest’antica diatriba, nata dalla dicotomia Contenuto/Forma, trova molti aspetti interessanti nella storia della retorica, tra cui il fatto che la materia stessa ha sempre funzionato nell’associazione dei due concetti. Se Cosa e Come erano chiamati dai Greci rispettivamente Logos e Lexis, e dai Romani Res and Verba, in maniera più tecnica sono definiti dai retori (studiosi di Retorica) Topics of Invention (che hanno
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a che fare con cosa di dice ) e figure retoriche (che sono i modi di dire le cose ). È nella relazione tra queste due sfere che si concentra l’interesse per lo studio della retorica: nel comprendere che il come qualcosa si dice diventa sempre il microcosmo di che cosa si dice. A questo punto mi preme fare una distinzione tra Rhetoric e Rhetorics (distinzione che non adotterò in questo testo ma che è importante capire). Come ha specificato Paolo Valesio nel suo Ascoltare il silenzio bisognerebbe distinguere tra retorica intesa come “l’insieme dei fenomeni da descrivere” (Rhetoric), e poi retorica intesa come “la descrizione e l’analisi sistematica di quei fenomeni” (Rhetorics). Da questa distinzione si passerebbe poi a quella tra Retore (il parlante/scrittore e l’ascoltatore /lettore) e studioso di Retorica (il parlante/scrittore e l’ascoltatore/lettore che, in modo sistematico, sono coinvolti nella decodificazione dei discorsi). Per gli studiosi di Retorica contemporanei, la comprensione della materia oggi è limitata: la per suasione non dipende unicamente dalla comunicazione, ma cambia secondo il significato e secondo il modo in cui il significato è costruito e trasmesso generando un ampio corpus di teoria critica e sociale, di filosofia e di metodologia delle scienze sociali. L’insistenza odierna degli studiosi di Retorica nel dichiarare che le parole e la loro espressione sono da considerare
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alla pari con gli ideali e le idee di filosofia astratta, ha quindi portato la retorica sullo stesso piano d’importanza della religione, della filosofia e delle scienze. Vorrei citare qui brev emente un brano del famoso saggio Las Meninas, in cui Michel Foucault si avvicina alla visione nietzschiana della retorica: Ma la relazione tra linguaggio e pittura è una relazione infinita. Non è che le parole siano imperfette o che, quando confrontate con il visibile, si dimostrino eccezionalmente inadeguate. E neppure possono essere ridotte ai termini dell’altro: invano esprimiamo quello che vediamo; ciò che v ediamo non si trova mai in quello che diciamo. Ed è vano cer care di dimostrare quello che stiamo dicendo utilizzando immagini, metafore o simili: lo spazio in cui raggiungono il loro massimo splendore non è quello occupato dai nostri occhi, ma quello definito dagli elementi sequenziali della sintassi12. Tenendo a mente la riduzione della retorica a linguaggio teorizzata da Nietzsche, è chiaro che una visione così scettica ha influenzato l’idea di
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Foucault per cui ci ò che v ediamo non pu ò in alcun modo essere spiegato, riassunto o espresso da ci ò che diciamo (l’impossibilità di cogliere la realt à tramite il linguaggio è il punto di partenza di quello che è chiamato il nichilismo nietzschiano). “Il termine rappresentare deve essere compreso nel senso più stretto: il linguaggio rappresenta il pensiero così come il pensiero rappresenta se stesso.” 13 Ma come può il linguaggio rappresentare il pensiero ? È evidente che per Foucault il linguaggio è, per usare una metaf ora, come un cane che si morde la coda e, per cause inerenti alla sua stessa origine, non può che esprimere (tautologicamente) altro che se stesso. La ricerca della verità portata avanti dai filosofi trova uno dei suoi sviluppi pi ù interessanti nell’associazione con la storiografia 14. La v erità è una delle finalità della filosofia e anche una delle finalità della storiografia. Non dovrebbe quindi meravigliare che gran parte della discussione filosofica sulla retorica e sul linguaggio si concentra sul significato di questa materia. Sta a questa scienza fornire un metodo per scrivere i saggi storici, e la creazione di questo metodo è plasmata e diretta dalle parole: evidenza e prova. Questi due termini ci ricollegano alla questione sollevata da Nietzsche sulla verità e la menzogna, questione centrale negli studi sulla retorica. Tra gli studi di filosofia postmoderna che segui-
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rono Nietzsche, è di estrema importanza, nel nostro discorso, la visione di Roland Barthes e Hayden White. Entrambi attuano una riduzione tra storiografia e retorica, creando un’arma letale nell’attacco al positivismo. Con un modo di presentare i fatti che si basa su espedienti linguistici, tentano infatti di convincere il pubblico che l’efficacia dell’oratoria pi ù che il valore delle cose è il fine ultimo del “cercatore di verità”. La loro visione rivoluzionaria può essere riassunta cos ì: il lavoro degli storici crea un mondo testuale a se stante, la cui relazione non può essere esaminata con un mondo extratestuale; inoltre, i testi storici e quelli di fiction condividono – ed è imprescindibile – una dimensione retorica comune. La domanda di partenza che Roland Barthes formulò per scriv ere il suo saggio intitolato Il discorso della storia pubblicato in Comparative Criticism è (in parafrasi): la narrazione di eventi passati (storiografia) – generalmente soggetta alla sanzione della “scienza” storica – è davvero diversa dalla narrazione di finzione che ritroviamo nell’epica, nel romanzo e nel dramma ? Con questa visione cos ì scettica Barthes mette in dubbio la credibilità del lavoro degli storici nel momento in cui assicurano una transizione dall’enunciato all’atto di enunciare. Sostiene egli, infatti, che grazie all’utilizzo di vari “stratagemmi” (in genere appunto figure retoriche )
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che possono cambiare la velocità o il tempo cronologico del discorso, lo storico può generare un testo che esprime la propria soggettività. Di conseguenza, anche questo testo ha un tempo proprio – diverso dalla realtà – che potrebbe essere chiamato (in inglese perch é intraducibile ) the paper-time. Come scrisse Barthes: Per riassumere, la presenza nella narrazione storica di espliciti segni d’enunciazione rappresenterebbe un tentativo di “decronologizzare” il “filo” della storia e di restituire, anche se potrebbe sembrare semplicemente una questione di reminiscenza o nostalgia, una f orma di tempo complesso, parametrico e per nulla lineare: una forma di tempo le cui profondità spaziali ricordando il tempo mitico delle antiche cosmogonie, anch’esso legato essenzialmente alle parole dei poeti e degli indovini.15 Qui possiamo ricollegarci alla frase di Nietzsche citata all’inizio di questo saggio, cioè che la retorica “nasce in un popolo che vive ancora d’immagini mitiche e che non ha pertanto sperimentato l’immotivata necessità di accuratezza storica: preferirebbe essere persuaso piuttosto che istruito”.
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Barthes sostiene persino che la storia positivista condivide la situazione del discorso schizofrenico, perché entrambi sono incapaci di sottomettere un enunciato a una trasformazione negativa. Introduce quindi il concetto di “units of content”, ciò di cui si parla nella storia, che noi prima abbiamo definito “topics of invention”. Queste unit à sono classificate in esistenti (cose che sono) e accadenti (cose che succedono ), e possono essere intese come un insieme di termini, argomenti e temi che fanno oscillare il discorso storico tra il polo degli indici e quello delle funzioni. Se le unità di significato linguistico (gli indici) sono predominanti, la storia è espressa in forma metaforica e sfiora il lirico e il simbolico. Quando, inv ece, sono le unit à funzionali a prevalere, la storia assume una forma metonimica e diventa parente stretta dell’epica. La teoria di Barthes è che l’essenza del discorso storico è immaginaria, un’elaborazione sempre basata sull’ideologia. Come discepolo di Nietzsche, la sua idea è che, essendo il linguaggio implicato nella descrizione del fatto, il fatto pu ò essere definito soltanto in maniera tautologica. Al contrario, seguendo questa considerazione, il fatto pu ò esistere soltanto in relazione al linguaggio e la struttura narrativa div enta al tempo stesso il segno e la prova della realtà. “La narrazione storica sta morendo perché il segno della Storia, d’ora in poi, non sar à più il reale, ma l’intelligibile”16.
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Affine alla teoria di Barthes è Hayden White17, il quale arrivò alla conclusione che la scrittura della Storia, come qualsiasi altra forma di letteratura, costruisce la realt à scegliendo specifici modi di discorso, e che lo storico è come qualsiasi altro narratore: come il retore, esso dipende dai suoi modi di narrare. White, nella sua teorizzazione sull’uso del linguaggio, riduce le figure retoriche a quattro modelli: la metafora, che era in uso tra il sedicesimo e il diciassettesimo secolo, la metonimia, in uso nel diciottesimo secolo, e la sineddoche, diffusa nel diciannovesimo, mentre ora dovremmo essere nell’epoca dell’ironia (o meglio nell’ultima parte dell’epoca dell’ironia, caratterizzata dall’ironia sull’ironia). Per quanto queste quattro figure retoriche f ondamentali possano sembrare un numero esiguo, poche per la vasta gamma di atteggiamenti del diciannovesimo secolo, White arricchisce e complica la sua analisi associandole ai generi letterari, come la commedia o l’epica. Nella sua teoria, questa classificazione è collegata agli atteggiamenti sociali dei singoli storici e ogni categoria retorica corrisponde al modo di recitare del narratore. Per White, gli eventi sono organizzati dal narratore, perch é un evento storico è un evento che può essere descritto come elemento di una storia. Di conseguenza, un evento esiste soltanto se può essere trasmesso come storia.
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Se Nietzsche e i pensatori che seguirono le sue orme hanno capovolto la relazione tra retorica e verità in una direzione radicale e f ondamentalmente scettica, troviamo una compensazione nell’opera di Arnaldo Momigliano e Carlo Ginzburg, che cercarono inv ece di dirigerla n uovamente verso Aristotele e Quintiliano, gli studiosi di retorica che avevano attuato una f orte unificazione tra il significato di evidenza e quello di retorica. Il punto principale nell’idea di storiografia diMomigliano18 è che “gli storici dovrebbero essere coloro che scoprono la v erità”. La ricerca per la verità è dunque un comune denominatore nella relazione tra retorica e scrittura della storia, ma, se per Nietzsche è impossibile esprimere la v erità tramite il linguaggio e se per Barthes e White il linguaggio (nel senso di composizione del discorso – espedienti retorici ) e la storiografia sono entrambi frutto della finzione, per Momigliano il punto di contatto tra linguaggio e scrittura della storia è un’evidenza nuova e affidabile. Secondo le sue stesse parole: Ma ho buoni motivi per diffidare di qualunque storico che non abbia niente di n uovo da dire o che produca novità, sia nei fatti che nelle interpretazioni, che si riv elino poi inaffidabili. Gli storici dovrebbero essere coloro che scoprono la verità.
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La storia non è epica, non è romanzo, non è propaganda, perch é in questi generi letterari il controllo dell’evidenza è opzionale, non obbligatorio.19 Abbiamo già analizzato l’epica e il romanzo in relazione alla scrittura della storia tramite Barthes e White, ora vorrei concentrarmi sulla propaganda. Oggi capita spesso di sentir confondere la parola “retorica” con patetico. In realt à, seguendo l’analisi condotta in questo testo, i due termini non hanno nessun contenuto in comune. E allora perché sono associate nel parlato quotidiano? Solitamente gli espedienti retorici sono utilizzati in propaganda per diffondere più efficacemente i dogmi di un regime, l’immagine f orte di un dittatore attraverso le caratteristiche grafiche della comunicazione. Questo tipo di propaganda tende a essere considerata retorica dalla cultura alta, arte piegata al potere, e per questo motivo il termine retorico e patetico sono stati considerati per parecchio tempo sinonimi. L’introduzione di una n uova e affidabile evidenza che, secondo Momigliano, dovrebbe interessare ogni storico è, ciò nondimeno, il punto di contatto tra la storia e la verità, un punto di contatto che crea un’assenza di retorica. Tale evidenza, cos ì importante per ridare fiducia alla storiografia, può essere sia spiegata che inter pretata: “ Spiegare significa riconoscere come
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autentici i motivi che gli attori danno per giustificare le proprie azioni, mentre interpretare significa sostituire le spiegazioni f ornite dagli attori con le nostre stesse spiegazioni”20. Se questa evidenza può essere dimostrata, allora le storie sono vere e quindi possono diventare Storie, non fittizie. Quindi lo storico non solo dev e capire il significato dell’ev ento, ma anche assicurarsi che sia stato un evento”21. Possiamo qui collegarci all’opera di Carlo Ginzburg dando un brev e esempio che ci f ornisce lui stesso nel libro, “Rapporti di forza: storia, retorica, prova”: la donazione di Costantino. La donazione è un editto imperiale romano contraffatto che fu scritto intorno all’VIII secolo, ma che fino al Rinascimento, quando Lorenzo Valla22 scoprì la v erità, fu considerato l’editto originale del 314. In questo editto, l’imperatore Costantino concedeva al Papa Silvestro I il dominio su molte terre (il potere temporale ). Lo storico Lorenzo V alla scopr ì che l’editto era stato scritto molti anni dopo quel periodo allo scopo di dimostrare la validit à del potere della chiesa cattolica sui beni materiali. Non è questa la sede adatta per indagare le sorti dell’editto, ma ciò che conta per noi è come Valla scoprì la verità. Fece una meticolosa ricerca sulla lingua (romana) paragonando il vocabolario di due periodi differenti: quello in cui l’evento avrebbe dovuto aver luogo e quello in cui inv ece era stato
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prodotto il documento contraffatto. Scoprì vari errori, e grazie a quella prova, a quell’evidenza, riuscì a dimostrare che la donazione di Costantino era falsa. Fornendo un esempio del genere, che oltrepassa epoche e storie diverse, Ginzburg dimostra l’esistenza di un collegamento tra l’utilizzo del linguaggio e la ricerca della verità e in questo modo ci rivela l’importanza del linguaggio come prova. Retorica e prova sono strettamente intrecciate. La sua teoria è contraria al fatto che la narra tiva di romanzo sia paragonabile alla narrativa storica. Ginzburg sostiene che la conoscenza è possibile e che per raggiungerla si debba seguire quel sentiero di fonti o prove che porterebbero lo storico a un corretto uso della retorica.Ma Ginzburg differenzia il suo atteggiamento da quello del positivista che guarda alle prov e come diretta spiegazione dei fatti. Egli associa a queste fonti la metafora degli specchi deformanti, rilevando che chi le utilizza come f onti di accesso immediato alla realtà è il primitivo, chi le considera come finestre è, come sta vo appunto dicendo, il prototipo del positivista, mentre chi le guarda come sbarre che ostruiscono la visuale è lo scettico. Ginzburg tenta di riavvicinare la storiografia ad Aristotele ripetendo spesso che “Aristotele individuò un n ucleo razionale nella retorica: le prove”23. Secondo lui, la riduzione tra retorica e storiografia (quella di Barthes e White)
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deve essere respinta, riscoprendo inv ece la tesi centrale di Aristotele: le prov e sono il n ucleo fondamentale della retorica. Questo nucleo razionale, secondo Ginzburg, si trova negli entimemi24, gli stessi che troviamo nella retorica aristotelica classica. L’immagine dello storico proposta da Ginzburg implica metodi di lavoro più realistici e complessi di quelli solitamente applicati. Egli propone una soluzione che trasferirebbe all’attualità della ricerca la tensione tra narrazione e documentazione, allo scopo di dimostrare che la discussione sulla retorica (e quindi sulla storia e sulla verità), tocca una questione che riguarda tutti noi: “la coesistenza e lo scontro tra culture”25. Si tratta per noi di un punto cruciale, che sposta il discorso su un livello diverso, quello della nostra epoca: stiamo vivendo ancora in epoca postmoderna o abbiamo gi à tra valicato i suoi confini? L’epoca contemporanea, quella della post globalizzazione, è uno scontro di culture che ha spostato il centro della discussione culturale v erso n uovi territori e questa è probabilmente la principale causa di quello che potremmo considerare la fine del postmodernismo. In epoche passate, la civiltà occidentale si è sentita in diritto di imporre le proprie leggi, tradizioni e valori (spesso tramite le colonizzazioni) a popoli di altre culture, perch é si riteneva superiore, o semplicemente per il diritto del pi ù potente.
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Oggi la necessit à della coesistenza sta inv ece portando all’impossibilità di colonizzare l’altro in senso territoriale. Il prossimo territorio da colonizzare potrebbe quindi essere il tempo, tempo inteso come Storia. E chi potrebbe assumersi questo compito meglio del cercatore di verità?
Note 1. Friedrich Nietzsche, On truth and lying in an extra-moral sense, p. 246, (F.N. on language and rhetoric edited by Gilman, Blair, Parent). 2. Dal dizionario inglese. 3. È nel manif esto del romanticismo inglese che Wordsworth spiega la sua idea di una poesia che dovrebbe essere espressione spontanea di sentimenti forti e sbarazzarsi della dizione poetica. 4. Hans Blumenberg, Work on Myth, p. 272. 5. Friedrich Nietzsche, Ancient rhetoric, p. 3. 6. Ibiden, p. 23. 7. Friedrich Nietzsche, Will to power, p. 522. 8. Friedrich Nietzsche, On truth and lying in an extra-moral sense, p. 248, (F.N. on language and rhetoric edited by Gilman, Blair, Parent). 9. Ibiden, p. 68. 10. La catacrèsi (dal greco katáchr sis, “abuso”, derivato da katachráomai, “io adopero”) o abuso è una figura retorica ormai normalizzata, impiegata per designare qualcosa per cui la lingua non offre un termine specifico. Si tratta soprattutto di antiche metafore e metonimie non più avvertite come tali. 11. Tipico esempio di Catacresi. 12. Michel Foucault, The order of things, Chapter 1, Las Meninas, p. 9. 13. Ibiden, Chapter 4, Speaking, p. 78. 14. Dal dizionario inglese: the study of historical writing – the writing of history. 15. Roland Barthes, The discourse of history, Comparative criticism, p. 10.
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16. Ibiden, p. 14. 17. Hyden White (nato nel 1928) è uno storico. Attualmente insegna alla University of California, Santa Cruz e alla Stanford University. 18. Arnaldo Momigliano era uno storico italiano noto per la sua ricerca sulla storiografia ; studiò per parecchi anni all’ University College of London e alla Scuola Normale Superiore di Pisa. 19. Arnaldo Momigliano, The rhetoric of history, Comparative Criticism, p. 260. 20. Arnaldo Momigliano, The rhetoric of history, Comparative Criticism, p. 265. 21. Ibiden, p. 266. 22. Lorenzo (or Laurentius) Valla (1406 – August 1, 1457) era un umanista italiano, retore, ed educatore. 23. Carlo Ginzburg, History, Rhetoric and Proof, Chapter 1, p. 54. 24. Entimeme: il metodo informale di ragionamento tipico del discorso retorico. L’entimeme viene talvolta definito come “sillogismo troncato”, visto che la premessa maggiore o minore che si trova in quel metodo di ragionamento più formale spesso rimane implicita. L’entimeme è solitamente rappresentato da una conclusione accompagnata da una ragione. 25. Ibiden, p. 50.
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Ottica. Compressione. Propaganda. di Sean Snyder
Nonostante l’incredibile quantit à d’immagini a cui siamo costantemente esposti, è possibile ormai ipotizzare che “v ediamo” sempre meno. Vediamo meno dell’immagine stessa, schiacciata dal significato imposto dal contesto deduttivo in cui compare. Ma cosa succede se si sposta l’immagine su schermo o stampa, la si ingrandisce e si tenta di esaminarla ? Se prendiamo un video, lo rallentiamo e lo analizziamo?
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Il titolo Ottica. Compressione. Propaganda. è il sottotesto generale per una serie di esperimenti che sto conducendo sulla malleabilità e le tecniche di produzione delle immagini. La ricerca, che attinge a f onti multimediali e d’archivio, oltre che a riferimenti alla storia del cinema, alla fotografia e all’arte, tenta di definire un v ocabolario cumulativo per affrontare il ruolo capillare che le tecnologie di imaging rivestono nella formazione dell’ideologia. Tramite una serie di esempi specifici, il progetto esamina la rappresentazione in modo speculativo.
Ottica L’Archivio Carl Zeiss fornisce al progetto una struttura concettuale e di consultazione. Carl Zeiss AG è un’azienda che produce una vasta gamma di prodotti per la visualizzazione: microscopi, telescopi, lenti per macchine fotografiche, e tutte le possibili ottiche specializzate immaginabili. La società ha perpetuato a livello industriale quello che il cineasta sovietico Dziga Vertov sottolineò nei suoi appassionati manifesti sulle possibilità percettive dell’immagine tecnologica: “Non possiamo migliorare la struttura dei nostri occhi, ma possiamo perf ezionare all’infinito la macchina fotografica”.1
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Esempio 1. Ho selezionato dall’ Archivio Zeiss un’immagine in bianco e nero, non datata, (probabilmente degli anni Venti), di un “frammento di vetro ottico allo stato grezzo” (numero d’archivio BII 03423). Il pezzo fallato di materiale non elaborato, la cui produzione fu sospesa e che è stato documentato per motivi a noi sconosciuti, di fatto non rappresenta nulla di specifico nell’immagine. Ho chiesto quindi all’archivio di procurarmi una scansione digitale del negativo alla massima risoluzione (75,4 MB/4461 x 59 06 pi xel). Alla base dell’oggetto si legge Glasbearbeitung Schleifen versandfertig (traducibile più o meno come: “fase di lavorazione del vetro: lucidatura, pronto per la spedizione”). Ho sottoposto l’immagine a varie trasformazioni tecniche riassumibili in una serie di quattro processi e risoluzioni di imaging: provino digitale fotografico (fotografia), mezzatinta colore (rivista), mezzatinta bianco e nero (quotidiano) e JPEG (schermo del computer). Diversificando questa particolare immagine nei registri standard con cui la maggior parte delle immagini viene diffusa, ho cercato di sottolineare la disper sione percettiva del suo conten uto. Le diverse riproduzioni della stessa immagine hanno assunto caratteristiche variabili e inaspettate. Per esempio, i graffi e le impronte sulla superficie del vetro sembrano più definite nell’immagine JPEG che nel provino fotografico, nonostante la bassa risoluzione dei dati dell’immagine.
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Con la documentazione contenuta nell’archivio si può generare un collage immaginario della storia visiva di oltre un secolo. Una sequenza di quattro immagini dalla prospettiva di un periscopio sottomarino (BI 1 3100/2) mostra una delle prime applicazioni militari dell’ottica. Un’immagine non datata (BI 14915) mostra una lente Carl Zeiss Jena Olympic Sonar 180 mm f/2.8. La stessa lente Zeiss denominata fast focus telephoto, che fu sviluppata durante ilSocialismo Nazionale per documentare le Olimpiadi di Berlino del 1936, fu in seguito utilizzata dai fotoreporter sovietici per registrare l’invasione dell’Afghanistan. Tre diverse applicazioni sollevano la questione della posizione privilegiata degli strumenti ottici nell’intersezione tra scienza e ideologia, formulata dal teorico del cinema francese Jean-Louis Baudry nel 1970: “È possibile affermare che la natura tecnica degli strumenti ottici, direttamente collegata alla pratica scientifica, contribuisca a nascondere non solo il loro utilizzo nei prodotti ideologici, ma anche i loro potenziali eff etti ideologici? La base scientifica degli strumenti ottici assicurerebbe loro una sorta di neutralità, cosicché non vengano eventualmente messi in discussione”.2 La fabbrica Zeiss di Jena fu in parte salvata dal bombardamento strategico degli alleati –
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che avevano colto l’importanza futura di quel tipo di produzione – negli ultimi giorni della Seconda Guerra Mondiale. In seguito all’accordo di Yalta e la divisione della Germania, le forze armate americane requisirono rapidamente gran parte dei macchinari, perch é la fabbrica sarebbe ricaduta sotto la giurisdizione sovietica. I dipendenti dell’azienda v ennero trasferiti e gli strumenti ottici non danneggiati furono trasportati in Germania dell’Ovest e in Unione Sovietica. Due immagini nella rubrica “ Demontage” evidenziano la serie di ev enti. Un’immagine (BI 165 47) datata luglio 19 45, mostra delle casse da trasporto pronte per essere inviate nella parte Ovest di una Germania che sarebbe stata ben presto divisa. Una seconda immagine (BI 16547), datata 19 46, mostra lo smantellamento della fabbrica Zeiss e grandi scatoloni con scritte in cirillico pronte per essere spedite in Unione Sovietica. Non possiamo fare altro che ipotizzare i conten uti delle casse e il loro successivo utilizzo durante la Guerra Fredda da entrambe le parti dello spartiacque ideologico. Nel film di Alfred Hitchcock La finestra sul cortile, del 195 4, il logo sulla macchina f otografica che il personaggio impersonato da
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James Stewart utilizza per spiare i suoi vicini è stranamente nascosto. La macchina fotografica è identificabile comunque come una Contax VX. Prodotta nella DDR comunista, div enne un feticcio per i fotografi americani ed europei che ne apprezza vano la tecnologia a vanzata. Questo caso di tecnologia ottica che b ypassa l’ideologia è anche un esempio, apparentemente inopportuno, del riconoscimento capitalista di un prodotto migliore. Se paragonata al livello di segretezza e invisibilità che caratterizzarono la Guerra Fredda, la strategia del potere odierna sembra mirare all’ipervisibilità.3 Tuttavia, si possono individuare interessanti questioni complesse nella sfera degli attuali mezzi della diffusione delle immagini e delle informazioni inerenti alle tecnologie stesse.
Compressione La compressione è la codificazione matematica utilizzata per ridurre le dimensioni dei file e accelerare la trasmissione dei dati digitali. La formattazione di compressione standard, come i video MPEG, le immagini JPEG e i documenti PDF, permette la diffusione immediata via internet delle immagini e dei testi.
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La distanza tra gli ev enti attuali e la loro rappresentazione è ampiamente riconosciuta. In relazione al suo film cult Blow Up (1964), Michelangelo Antonioni rifletteva già sull’ambiguità del contenuto in un’immagine: “Sappiamo che sotto l’immagine mostrata c’è un’altra immagine che è più vicina alla realtà e sotto quell’immagine ce n’è un’altra e poi un’altra ancora, e poi un’ultima, fino alla v era immagine della realtà, assoluta, misteriosa, che nessuno v edrà mai, o forse fino alla decomposizioni di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà”.4 Esempio 4. Un confronto di fotogrammi estratti da Blow Up di Antonioni in f ormato NSTC DVD e PAL DVD e in copie pirata V HS prodotte in Russia riv ela il deterioramento della qualità delle immagini durante i vari trasf erimenti dal formato in 35 mm originale. Molte immagini di culto recenti sono state realizzate dai cosiddetti “giornalisti cittadini”, equipaggiati con apparecchiature di imaging di uso comune. I comuni cittadini hanno in parte sostituito il ruolo dei f otoreporter, che spesso arrivano sulla scena solo a evento concluso. Per esempio, dopo le esplosioni nella metropolitana di Londra, nel 2 005, le immagini più diffuse erano le foto sgranate e i video filmati dai cellulari dalle persone direttamente coinvolte nell’evento.
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In modo simile, nei conflitti globali attuali, il contenuto informativo delle immagini che cir colano è spesso scarso. Basta mettere a confronto, per esempio, la guerra d’inf ormazioni tra le varie sezioni del Dipartimento della Difesa USA (DoD) e la sezione comunicazione di Al Qaeda, As Sahab. Se paragonato a quello prodotto dalle agenzie di stampa – Associated Press o Reuters – l’abbondante materiale del Dipartimento della Difesa di rado arriva alla stampa, tranne per operazioni in cui l’unica fonte di immagini disponibile è quella prodotta dall’esercito USA (ad esempio, cattura di nemici, scioperi, etc. ). Nonostante utilizzino strumenti diversi, sia il governo USA che Al Qaeda diffondono il materiale via internet: le immagini ufficiali del dipartimento della difesa sono archiviate su siti web complessi, mentre i materiali di Al Qaeda sono postati in modo anonimo e diffusi tramite bollettini elettronici. Avendo analizzato i vari aspetti delle strategia visive del Dipartimento della Difesa e di As Sahab negli ultimi anni, penso di poter ipotizzare che l’efficacia nell’espressione dei messaggi sta nel concetto di realismo, che dipende da una certa fiducia emotiva da parte del soggetto/spettatore, pi ù che dall’alto liv ello di tecnologia e professionalità. Inoltre, si pu ò aff ermare che l’estetica alla base delle attuali tecniche di imaging riveste un ruolo importante nello stabilire
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un “senso” di autenticità. Che questo sia vero o meno, la compressione dei dati si risolve nella disintegrazione della qualit à delle immagini, lasciando spazio per l’interpretazione (o la sovra interpretazione). In seguito agli eventi dell’11 settembre 2001, sono circolate varie v oci sul fatto che la posizione e l’orientamento dell’orologio da polso portato da Obama Bin Laden potesse indicare degli indizi sui nuovi attacchi. Ora che i video degli jihadisti trasmessi via internet sono gli unici dati a cui gli “esperti” e le agenzie gov ernative hanno accesso, sembra banale utilizzare gli stessi metodi per analizzare le registrazioni. Secondo il concetto che ogni sf ondo, posa e gesto nell’immagine potrebbe essere significativ o, si potrebbe supporre che ogni f otogramma del video contenga potenzialmente un significato in codice. Esempio 5. Una breve scena di un recente video di Al Qaeda include il funzionamento di una videocamera registrata da una seconda videocamera. In moviola, si v ede che la videocamera filmata è un modello Sony (simile a quello che ho comprato a Hong Kong qualche anno fa ). Dopo aver ingrandito e stampato una serie di fotogrammi della videocamera e averli confrontati con vari apparecchi Sony simili, sono riuscito a identificare il modello specifico, un Sony
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DCR-PC120E. Ho scoperto che proprio questo modello (per consumatori di fascia alta ) era stato il primo a sfruttare la tecnologia Bluetooth, che da va la possibilit à, tra le altre cose, di caricare video sul cellulare ovunque ci si trovasse. Un dépliant della Sony conferma che la videocamera pu ò trasmettere dati in f ormato MPEG con una risoluzione di 240 x 320 pixel.5 Su uno schermo televisivo, la qualità dell’immagine “appare” equivalente alla risoluzione del formato di una videocassetta VHS. Esempio 6. Dopo a ver identificato il modello della videocamera Sony, ne ho comprata una di seconda mano a un’asta Ebay. Ho imparato a usare le funzioni di base, tra cui come accedere a internet, trasferire dati etc., poi ho filmato un video in cui la videocamera registra se stessa in uno specchio mentre viene fatta funzionare con un telecomando. Ho quindi incominciato a smontare la videocamera (mentre registrava e veniva registrata) fino al punto in cui ha smesso di funzionare. L’intento iniziale di questo gesto di “disinnescare” i meccanismi della telecamera andava di pari passo con l’accettazione del fatto che la telecamera non era altro che lo strumento utilizzato nella produzione di un video di propaganda. A prescindere da chi la manipola, la telecamera non è solo uno strumento tangibile, ma anche un “apparato” metafisico.6
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Esempio 7. I metodi per decodificare l’illusione filmica utilizzando software comuni possono essere mostrati utilizzando due esempi dalla storia del cinema. Una sequenza del cinegiornale muto degli anni v enti di Dziga Vertov, Kino Pravda, mostra un mago che mostra il gioco dei bussolotti. Se viene trasferito in un programma di videoediting come Quicktime, è possibile rallentarlo e smantellare l’editing complesso per seguire i trucchi del mago. Il film di Robert Bresson, L’argent (1983) contiene varie sequenze di mani impegnate in gesti furtivi e di transazione. Una scena mostra un primo piano di un criminale che rimuov e con uno strumento le bande magnetiche dalla f essura di un bancomat, digita un codice pin e prende il denaro. Quando si guarda il film nel suo normale tempo cinematico, i numeri digitati dal criminale non si possono distinguere, ma se è rallentato, il codice si pu ò facilmente identificare. Cosa si ottiene in questo modo ? Di fatto nulla, visto che il codice segreto appartiene ovviamente alla fiction cinematografica. Tuttavia, l’utilizzo di tecniche come il rallentamento del ritmo dei f otogrammi e l’analisi dei metodi di editing, può essere applicato in altri campi.7 La fotografia digitale permette di registrare le circostanze attuali dello scatto fotografico. I dati embedded sono le inf ormazioni elettronica-
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mente codificate negli algoritmi delle immagini JPEG durante la loro elaborazione. Le inf ormazioni possono identificare la data di esposizione della f oto, la marca e il modello della macchina fotografica, la lunghezza focale (distanza del soggetto), i software usati successivamente per manipolare l’immagine e perfino il posizionamento geografico grazie alle coordinate GPS. Questi sviluppi nella tecnologia dell’imaging sono successivi all’affermazione di Antonioni (che si riferiva alla fotografia analogica) sulla decomposizione delle immagini, perché l’immagine digitale fa rif erimento alla realtà non solo con la f orza della somiglianza (rappresentazione visiva) ma anche grazie alle informazioni non-visive che racchiude. Tuttavia, anche i dati embedded possono essere manipolati (per esempio cancellati). Esempio 8. Un’immagine non datata del dipartimento della difesa americano (DoD), presa nel centro di detenzione Camp Delta a Guantanamo Bay, Cuba, nasconde con il pi xellaggio l’identità dei soggetti fotografati (dal momento che i visi dei soggetti f otografati sono nascosti da sciarpe bianche, si potrebbe pensare a una misura eccessiva).8 Le figure ritratte, apparentemente impegnate in lavori di giardinaggio o di costruzione, non sarebbero lavoratori immigrati o mediorientali (come l’immagine suggerisce ),
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ma civili o militari americani, assunti o di guarnigione. Fatto curioso, insieme al nome del fotografo, tale Jose. H. “ Mediavilla”, l’unica informazione che si trova nei dati embedded è il software utilizzato, Photoshop. Esempio 9: un’immagine DoD anonima, datata 12 novembre 2001 riporta nella didascalia: “Truppe delle forze speciali USA a cavallo, insieme a membri dell’ Alleanza Settentrionale in Afghanistan”. Nell’immagine in bianco e nero diffusa in bassa risoluzione, (770 KB/987 x 758 pi xel) è impossibile distinguere i soldati afgani da quelli americani. L’immagine presenta tracce di manipolazione digitale, non nel senso che è stata alterata, ma che gli indici di compressione sono stati abbassati. Partendo dal presupposto che il fotografo abbia seguito le direttive della produzione di immagini elencate nei manuali del dipartimento della difesa americano, l’immagine sarebbe stata scattata con un apparecchio professionale d’alta qualità e il file avrebbe avuto una dimensione minima di 4.5 megabyte.9 La “Guida allo stile delle immagini e delle didascalie” del DoD definisce “l’Elemento di Interesse Primario”, come “il soggetto dell’immagine o la scena” di cui “potrebbero essercene pi ù d’una”10.
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Il fatto di “croppare” e zoomare i dettagli secondari di qualche immagine ad alta risoluzione svela forse più di quello che si intendeva.11 Esempio 10. La didascalia di un’immagine pubblicata sul sito web del DoD in alta risoluzione (17.2 MB/3008 x 2000 pixel) mostra l’ex segretario della dif esa Donald Rumsfeld che ricev e un briefing al Centro di Addestramento Militare di Kabul, in Afghanistan, il 1° maggio 2003. Una volta selezionati e ingranditi, i dettagli dell’immagine mostrano piani di battaglia simulati utilizzando scatole di fiammiferi e tappi di bottiglie di plastica. Una seconda immagine, con la didascalia “Il Segretario della Difesa Donald H. Rumsfeld riceve un briefing dall’Ambasciatore Paul Bremer in Iraq, il 4 di settembre 2 003” mostra i due seduti a tavola con una Diet Coke e una Fanta. Le lattine sono appoggiate su un grosso foglio sui cui si legge chiaramente, nei dettagli dei dati digitali (16.9 MB/3008 x 1960 pixel), “Mappa di consultazione dell’Iraq”. Ben lungi dall’essere scandalosi nel contenuto, questi dettagli mostrano un valore metaforico che potrebbe essere letto quasi come una parodia involontaria.12 Inoltre, entrambe le immagini ad alta risoluzione includono i dati delle inf ormazioni embedded, che a quanto pare non sono stati eliminati dai photoeditor del DoD.
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Propaganda Il concetto di propaganda si riferisce originariamente alla diffusione delle idee; nel contesto storico, la propaganda viene generalmente considerata come una scienza di persuasione politica, o secondo la famosa aff ermazione, come uno strumento bellico meno costoso dell’eser cito. Al giorno d’oggi, la connotazione prevalentemente negativa del termine è sinonimo di manipolazione arrogante e, in ultima analisi, di menzogna.13 Poco dopo gli ev enti dell’11 settembre 2 001, i media ci hanno f ornito numerose descrizioni a tinte forti dell’Afghanistan sotto il dominio talebano. Televisioni penzolanti come impiccati, alberi avvolti in nastri estratti da videocassette e computer “giustiziati” nelle strade di Kabul alludevano alle inimmaginabili azioni dell’altro. 14 Forse l’efficacia di questi ritratti sta nelle immagini che rimangono invisibili. Dato il facile accesso alla tecnologia delle immagini, la propaganda “ufficiale” è ben lungi dall’essere l’unica f onte di rappresentazione. L’utilizzo di macchine f otografiche digitali da parte dei membri dell’esercito USA è div enuto tristemente noto con la diffusione pubblica delle immagini del centro di detenzione di Abu Ghraib.
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Ammettendo la difficoltà nel mantenere il controllo sulle immagini digitali, l’e x Segretario della Difesa Donald Rumsfeld ha aff ermato: “Nell’era informatica, la gente se ne va in giro armata di macchine fotografiche digitali, scatta queste fotografie incredibili e poi le passa illegalmente ai media, prendendoci alla sprovvista”. L’uso della f otografia come strategia tattica è spesso citato in un presunto man uale di addestramento di Al Qaeda che le autorit à inglesi hanno trovato a Manchester nel 2001. Un brano di una traduzione inglese del documento postato, parla addirittura di competenza in camera oscura: “Il fotografo dovrebbe essere esperto sviluppo e stampa della pellicola. È rischioso utilizzare un laboratorio di stampa esterno”. L’ultima parte di questa affermazione, sulla manipolazione secondaria del materiale visiv o, è stata resa obsoleta dall’avvento del digitale. Verso la fine degli anni Novanta, alcuni gruppi ceceni furono i primi jihadisti a produrre e distribuire video di propaganda in VHS.15 Ironia della sorte, il loro utilizzo tattico delle videocassette è simile ai metodi citati nei primi manuali americani PSYOPS (psycological operations, operazioni psicologiche) per la “distribuzione dei messaggi”. 16 Con tecniche di montaggio fai-da-te, i videoeditor jihadisti utilizzano grafica, animazione
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e suoni con u n effetto altamente drammatico. Spesso montati come clip musicali, i video mescolano suoni e immagini e dimostrano l’abilità degli editor. La sovrapposizione di elementi grafici e la ripetizione di clip da video precedenti crea vari momenti “iconografici”17. Molti dei video, oltre a dare una visione spettacolare della guerra, sono concepiti per offrire una prospettiva “realistica” delle routine banali e quotidiane che portano a realizzare un’operazione militare. Inoltre, i video dimostrano che un atto di violenza relativamente minore ha il potenziale, se viene registrato, di moltiplicare il proprio impatto. Esempio 11. Un video prodotto da As Sahab nel 2005, intitolato Harb Ul Mustadhefeen, segue il reggimento di un’operazione militare in Afghanistan, includendo dettagli di vita quotidiana: le cucine, gli acquartieramenti, lezioni di addestramento, produzione di bombe e attività di campo. Il video non documenta soltanto i risultati di una missione impegnata nel combattimento con il nemico, ma ritrae anche “l’evasione”, suggerendo che l’implementazione della guerra richiede anche ingegno e metodo. Al giorno d’oggi, i media occidentali si rif eriscono spesso alla diffusione jihadista di “videocassette”, insinuando l’utilizzo di una tecnologia arcaica o inferiore.
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È poco probabile, tutta via, che qualsiasi videocassetta, nastro, o film venga usato nella produzione o distribuzione delle attuali registrazioni As Sahab. Una sequenza di un video recente mostra il trasferimento di un computer sottratto all’esercito USA e un agente che usa un computer (modello Sony Vaio) per aprire un PDF contenente informazioni sulle proprie tattiche (Al Qaeda ). Questa dimostrazione sottolinea ancora una v olta l’utilizzo dei jihadisti di software d’uso comune come armi tattiche. Esempio 12. Una sequenza di un video prodotto da As Sahab nel 2 002 mostra una figura che spara a uno schermo su cui è proiettato un video in loop. Non si tratta solo della documentazione di un addestramento, ma di un atto (evidentemente coreografato con e per la videocamera ) che mostra il livello dell’integrazione della riproduzione di immagini nella guerra tecnologica.18 In molti dei video di As Sahab le funzioni tecniche della telecamera sono utilizzate a tutto campo: riprese in notturno a infrarossi per illuminare le operazioni al buio, zoom alla massima lunghezza focale per mostrare i movimenti del nemico, e f orse anche il caricamento di dati video via Bluetooth. Il massimo sfruttamento delle capacità della videocamera rende i videomaker di Al Qaeda i consumatori finali?
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Esempio 13. I sottotitoli in arabo nella scena di un recente video di As Sahab mostrano la posizione di un’operazione in una base americana abbandonata in Afghanistan. I jihadisti si aggirano per il sito documentando l’occupazione degli spazi. Un’inquadratura fortuita mostra brevemente alcuni tascabili su un ta volo, probabilmente dimenticati dai militari US. Rallentando il filmato e ingrandendo i dati dell’immagine, si riescono a leggere i titoli di alcuni romanzi di Tom Clancy. La trama di uno dei libri, Potere Esecutivo, scritto nel 1997, ruota intorno a un attacco al Campidoglio di Washington lanciato da più fronti, un aereo di linea, un virus letale e uno scandalo sessuale presidenziale. Che si verifichi o meno un’identificazione, romanzo e realtà, in questo caso, si incontrano al punto di partenza. Ho scelto le strategie visiv e esplicitamente politiche del DoD e di Al Qaeda come esempi estremi della rappresentazione attuale. Il motivo per cui ho analizzato queste particolari immagini di pubblico dominio come materia prima, era principalmente una curiosità personale nei confronti di quello che giaceva al di sotto della superficie dei più recenti reportage dei media sulla “guerra al terrore”. Tuttavia, la metodologia analitica di base adottata in questo progetto è concepita per l’applicazione ad altri soggetti.
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La mia intenzione qui non è tanto di usare le immagini per dimostrare delle cospirazioni, o fare affermazioni dogmatiche sulle strategie politiche che si celano dietro le cospirazioni stesse, ma di partire dal presupposto che le immagini sono definite dalla loro irriducibile materialità (o immaterialità); inchiostro su carta, celluloide o videocassetta, o algoritmi e pixel. La velocità con cui le immagini (politiche o meno) scivolano nella banalit à è proporzionale ai progressi tecnologici. Questo vale anche per i metodi di sperimentazione artistica o “ricerca” che contestano la loro produzione. Per esempio, due riferimenti che operano in un regime analogico di produzione di immagini (che in parte sono stati lo stimolo di questa ricerca) sono il riconoscimento della materialità delle immagini nell’analisi fotogramma per f otogramma del critico francese Raymond Bellour e il la voro ossessivo riguardante la televisione della video artista americana Dara Birnbaum. Gli sforzi di comprensione e le domande rimangono apparentemente validi se riformulati secondo lo stato dell’attuale tecnologia di imaging. Inoltre, mi premeva ribadire ci ò che Walter Benjamin affermò nel 1931: “L’analfabetismo sarà ignoranza non tanto della lettura o della scrittura, ma della fotografia”.
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Note 1. Vertov, Dziga, Kino-Eye: The Writings of Dziga Vertov, ed. Annette Michelson, trans. Kevin O’Brien (University of California Press, 1995), p.15. 2. Baudry, Jean-Louis e Alan Williams, Ideological Effects of the Basic Cinematographic Apparatus, Film Quarterly, Vol. 28, No. 2 (Winter, 1974-1975), pp. 39-47. 3. Per esempio, i siti web di molti dei produttori di imaging e di tecnologie per armamenti per l’esercito israeliano(Israeli Defense Forces, IDF) mostrano apertamente la qualit à e le possibilità offerte dai loro prodotti. Oltre a far sapere che l’attrezzatura hi-tech utilizzata dall’IDF è superiore ai mezzi usati dall’avversario, la visibilità sembra indicare un ulteriore strato di sorveglianza e impenetrabilità. 4. Antonioni, Michelangelo, “Interview. Rome, July 29, 1969” in Encountering Directors, ed. Charles Thomas Samuels (G.P. Putnam’s Sons, 1972, New York), pp. 15-32. 5. In una ricerca di immagini in Internet ho trovato le immagini diffuse all’ufficio stampa della Sony del modello DCR PC-120E lanciato sul mercato giapponese il 4 settembre 2001, con il World Trade Center nel visore. Inoltre, la telecamera Sony utilizza va lenti Carl Zeiss. 6. Baudry, Jean-Louis e Alan Williams, Ideological Effects of the Basic Cinematographic Apparatus, Film Quarterly, Vol. 28, No. 2 (Winter,1974-1975), pp. 39-47. 7. Si veda Bellour, Raymond, The Analysis of Film, ed. Constance Penley (Indiana University Press, 2000). 8. Un interessante precursore dell’utilizzo dei software per la manipolazione delle immagini è l’opera A Second History, 2005, dell’artista cinese Zhang Dali. In un’ampia serie di pubblicazioni ufficiali mostrate insieme alle fotografie originali, i personaggi insignificanti o non voluti vengono rimossi, dando un esempio conciso di alterazione delle immagini nei materiali politici. 9. “ DoD Archival Digital Camera Image Guidelines, Decision Logic Table, DoDI 5040.6-M-1”. http://dodimagery.afis.osd.mil/ 10. “DoD imagery and Caption Style Guide”. http://dodimagery.afis.osd.mil/
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11. Come nell’opera di Marcel Broodthaer, Tableaux Bateaux, in cui l’artista produce un film dai dettagli di un singolo dipinto, si può costruire una narrazione abbreviata dai dati di alcune immagini DoD individuali. 12. Queste immagini riportano alla mente un incidente diverso, che riguardava la diffusione di informazioni segrete in seguito alla cattura degli ostaggi nell’ambasciata americana di Teheran nel 1979. Quando i dipendenti dell’ambasciata distrussero rapidamente i documenti, gli assalitori iniziarono la meticolosa ricostruzione di informazioni segrete che furono in seguito pubblicate in più di sessanta libri. Le pubblicazioni iraniane svelarono, semplicemente mostrandoli, dei procedimenti solitamente segreti del governo USA. 13. Per esempio, nei man uali PSYOPS (operazioni psicologiche) americani compare spesso il termine propaganda, e il suo utilizzo è differenziato, a seconda degli utilizzi, in bianco, grigio, nero. “DoD Dictionary of Military and Associated Terms”. www.dtic.mil/doctrine/jel/doddict/ 14. Burns, John F., “Trucks of the Taliban: Durable, Not Discreet”, The New York Times, 23 novembre 2001. 15. Per altre spiegazioni della produzione video jihadista, si v eda “Intel Center Evolution of Jihadi Video v1. 0”, 11 maggio 2 005. www.intelcenter.com. Intel Center è un’organizzazione che analizza e segue le comunicazioni jihadiste. Questi video, e altri fatti da varie organizzazioni jihadiste, possono essere ricondotti a una serie limitata di generi: prodotto, operativ o, ostaggio, aff ermazione, tributo, addestramento interno, istruttivo. 16. “La videocassetta, un derivato della televisione, è uno strumento eccellente per registrare e proiettare messaggi. Può riprodurre una scena dalla telecamera subito dopo a verla registrata. La videocassetta può essere usata sia con un riproduttore portatile che in studio, poiché viene elaborata elettronicamente durante la riproduzione nel registratore videotape” in Department of the Army Headquarters, “Psychological Operations Field Manual No.33-1”, Agosto 1979 (Washington DC). 17. Nei suoi film, Dziga Vertov riciclava spesso metraggi filmati precedentemente.
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18. L’iconografia quasi pop del video (visto che i media diff ondevano continuamente video simili di addestramenti Al Qaeda) ricorda le opere allegoriche sulla televisione dell’artista americana Dara Birnbaum e in particolare il video Technology/Transformation: Wonder Woman, 1978-1979, in cui “Le tecniche e le tecnologie televisive sembrano diventare autoreferenziali e trasparenti, come istanza finale in cui l’ideologia è strutturata e contenuta”. Si veda Buchloh, Benjamin H. D., “Allegorical Procedures: Appropriation and Montage in Contemporary Art”, Artforum, Volume XXI, No.1, Settembre 1982. Illustrazione: Alfred Hitchcock, Finestra sul Cor tile, 1954, fotogrammi, foto: courtesy Universal Studios.
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Era il 1978 quando uscì nelle sale questo film di Peter Hyams,Capricorn One, storia di una spedizione su Marte che, fallita per motivi tecnici, veniva “sostituita” dalla ripr esa cinematografica della stessa da parte di un Governo Americano disposto a tutto pur di non annunciare la mondo il fallimento dell'impresa. Chiara l’allusione alla missione lunare dell’Apollo 11 che, proprio in quegli anni, cominciava a essere messa in discussione dai numer osi teorici del complotto lunar e, a cominciar e da quel Bill Kaysing che nel 1976 aveva dato alle stampe il volume We never went to the moon (in ItaliaNon siamo mai andati sulla Luna , Cult Media Net, 1997). Ma il film di Hyams era comunque un tentativo, al di là delle teorie del complotto, di rimettere il cinema davanti alle altre forme di comunicazione. Anche se rappresentato come arte del falso.
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D-Day plus 20 1944-1964 A commemorative documentary recording and Photographic Album of the Allied Invasion of Normandy, June 6th, 1944 “Soldiers, sailors and airmen of the Allied Expeditionary Force – you are about to embark upon the great crusades toward which we have striven these many months. The eyes of the world are upon you, the hopes and prayers of liberty loving people everywhere mar ch with you.” Dwight D. Eisenhower Before the most important day in the history of the 20th century passes into legend it is a good thing to have the authentic happenings of D-Day presented as they actually unfolded. If you were there D-Day this is what you would have heard. Quentin Reynolds, narrator
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Man on the Moon Narrated by Walter Cronkite Produced by CBS News We go into space because whatever mankind must undertake, fr ee men must fully shar e... I believe that this Nation should commit itself to achieving the goal before this decade is out, of landing a man on the moon and r eturning him safely to earth. No single space project in this period will be mor e exciting, or mor e impressive to mankind, or mor e important for long-range exploration of space; and none will be so dif ficult or expensive to accomplish. President John F. Kennedy, May 25, 1961 One small step for man, one giant leap for mankind, 10:59 PM EDT, Sunday, July 20, 1969
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Benito Mussolini — I Discorsi vol.2 Documenti del nostro tempo. l Fascismo in Italia: Testimonianze Sonore La presa di Addis Abeba 5 Maggio 1936 La proclamazione dell’Impero 9 Maggio 1936 Noi registriamo la Storia. Questa nuova collezione “Documenti del Nostr o Tempo” vuole coglier e i momenti essenziali e gli atteggiamenti fondamentali della storia antica e contemporanea, attraverso documentazioni e testimonianze precise e imparziali tratte dalle più diverse fonti, anche da collezioni private, ove l’occhio della cronaca coglie la drammatica dialettica dei consensi e dei dissensi, un inventario di materiale d’archivio, una rassegna di testimonianze sonore che trascendono la passione di parte per assolver e la lor o funzione informativa e culturale…
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The Actual Voices and Events of Four days that shocked the world: the complete story – nov.22-25, 1963 The telling of this story in the limited time of a r ecording has been a great challenge. Compiled from more than 85 hours of audio tapes, this unpr ecedented example of audio journalism takes you directly into the scenes as they happened and places you in the action‌ to cr eate this memorable document in sound of the most dramatic four days in our times.
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Is Freedom Academic? KPFA – Pacifica Radio Presents a documentary of FREE Speech Movement at the University of California Berkeley – Fall 1964 There is a time when the operation of the machine becomes so odious, makes you so sick at heart that you can’ t take part; you can’t even passively take part, and you got to put your bodies upon the gears and upon the wheels, upon the levers, upon all the apparatus and you’ve got to make it stop. Mario Savio, Sit-in Rally , Dec.2, 19 64
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From the Sound Library of the BBC a review of ‘68 ‘Instant journalism’ has many pitfalls which we try to avoid day by day. But what of the perils of ‘instant history’? Many problems arise even in compiling an end-of-the-year pr ogramme intended only for one transmission on the air . A still gr eater challenge emerges when the decision is taken to issue the pr ogramme as a r ecord for sale to the public which we hope will be worth listening to r epeatedly for many years to come. This is the first time that BBC Radio has attempted to meet this particular challenge and of course the pr oducers and presenters of this Review of 19 689 have been faced with many formidable problems of selection and compression. Judgements that can only properly be made by futur e historians have been eschewed, but we have also thought it right not simply to play safe. It will, we hope, be of interest to those who hear this r ecord in 1989 as well 1969 to learn how the world seemed and sounded thr ough BBC microphones in 1968.
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Arrendersi o Perire: le giornate del 25 aprile, a cura di Giovanni Pirelli La resistenza è opera degli italiani. Essa è un episodio della storia d’Italia, la continuazione del nostro risorgimento. Grazie ad essa il nostro Paese ha oggi la democrazia e la libertà e procede verso la meta luminosa della giustizia sociale… Sono le parole che andiamo ascoltando mentre si succedono le cerimonie celebrative del ventesimo anniversario della Liberazione, tra orazioni, cortei, solenni funzioni alla presenza delle massime autorità civili r eligiose e militari, e via dicendo. E poiché era facile prevedere che in quest’Italia 19 65 le cose sar ebbero andate così, ci siamo messi al lavoro per proporre ai vecchi e nuovi compagni qualcosa che riportasse il duro senso, l’aspro sapore di una guerra che fu anche guerra civile, di una lotta che fu anche lotta di classe; da rivivere al presente, perché sempre presente, finché vi saranno oppressi e oppressori, è la necessità di insorgere.
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“…was die geschichtliche Stunde jetzt möglich macht.” Bonn 28. November 1989 – Dresden 19. Dezember 1989 – Berlin 22.Dezember 1989 Liebe Fr eunde, ich möchte Ihnen ganz einfach zurufen: Haben wir jetzt die Geduld und das Augenmaß, mit den Schritten, die notwendig sind, in eine gemeinsame Zukunft zu gehen. Dann werden wir diese Zukunft haben. Es kommt auf uns an. Es kommt vor allem auf die vielen jungen Leute an, die hier auf dem Platz stehen, die wieder eine Zukunft haben, die Zutrauen haben dürfen zu ihrer eigenen Zukunft, weil sie auch hier in Berlin ihr Glück für ihr Leben finden können. Ich grüße Sie alle sehr, sehr, sehr herzlich. Ich wünsche Ihnen und uns ein gesegnetes Weihnachtsfest und ein neues Jahr 1990, in dem die Menschen durch das Brandenburger Tor zueinander Kommen.
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Possono parlare i testimoni? Sulla filosofia dell’intervista di Hito Steyerl Nel film Tout va bien di Jean-Luc Godard e Jean-Pierre Gorin (1972) vediamo un’intervista insolita: durante uno sciopero selvaggio all’interno di una fabbrica di insaccati, una giornalista (Jane Fonda) dialoga con le operaie. Chiede loro di parlare delle condizioni di lavoro, dei lavori domestici e di altri aspetti della vita lavorativa. Godard e Gorin non ci permettono, però, di avere un’esperienza diretta dell’intervista: la vediamo, ma il sonoro è il monologo interiore di una donna che osserva in silenzio, in piedi in un angolo. Ascolta le testimonianze che parlano di condizioni che la riguardano, ma per quanto tutti i fatti siano corretti, l’intervista le sembra sbagliata. C’è qualcosa di sbagliato nel tono. L’intervista non farà che riaffermare tutti i cliché sulle operaie. Avrà lo stesso eff etto di tutte le altre interviste – e non dirà nulla. Anche se i fatti sono giusti, il tono è sbagliato. In breve: l’intervista è kitsch. Nonostante le migliori intenzioni, la giornalista Jane Fonda non riuscir à a trasmettere la v oce delle la voratrici – proprio perché quella voce ci arriva attraverso i media.
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In un’intervista del film La politique et le bonheur Godard stesso riarticola il problema. Permettere ai lavoratori di parlare a nome proprio, permettere loro di partecipare alla produzione del film, non significa necessariamente che possano prendere la parola. Un operaio, uomo o donna che sia, che parla a nome proprio, viene perce pito dai media come non particolarmente intelligente, come qualcuno da commiserare. Diventa oggetto di uno sguardo v oyeuristico a cui interessa “l’autenticit à”, ma non il mutamento. Qualsiasi cosa dica, il suo ruolo è già predeterminato: è la parte in causa e dunque non è il caso di prenderlo sul serio1. Gli operai possono parlare quanto v ogliono, ma manca il sonoro. Godard e Gorin sono consapevoli del dilemma: in Tout va bien sentiamo la voce dell’operaia – ma solo nella forma dei suoi pensieri muti. Testimonianze documentarie Ma se, come sostengono Godard e Gorin, le interviste sono in utili in certe circostanze, la cosa ha conseguenze disastrose per la f orma documentaria. Nessuno può raccontare un evento più credibilmente di un testimone che l’abbia visto coi propri occhi e udito con le proprie orecchie2. Ed è per questo che tra i metodi più diffusi con cui il documentario giustifica la propria accuratezza fattuale figurano la testimonianza oculare, le interviste con gli esperti o con i testimoni di un’epoca.
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Tuttavia esiste una sfiducia cronica nei confronti dei testimoni. Perché il testimone pu ò dire la v erità, ma può anche mentire. Per mettersi al riparo da una simile imponderabilità, il sistema legale ha ripetutamente inv entato n uovi sistemi di controllo. Già nel diritto della Roma antica era scritto: testis unus, testis nullus – un testimone solo equivale a nessun testimone. Per dare credibilità a un esposto occorrono almeno due testimonianze concordi. Le f orme documentarie si rifanno a queste regole attra verso la giustapposizione di molteplici testimonianze e punti di vista per creare “l’oggettività” – un concetto cronicamente controverso nella teoria del film documentario3. Eppure anche questo metodo pu ò solo produrre probabilità e non certezze: e se entrambi i testimoni mentissero? Ad essere intrinsecamente incerta è proprio la figura del testimone, attraverso cui lo spettatore cerca rassicurazione sulla veridicità di quanto gli viene mostrato. Il testimone si bilancia sul filo della memoria come su una ringhiera che esiste soltanto nell’immaginazione. Per questo motiv o l’intervista ha sempre dato adito a sospetti. Secondo Michel Foucault, queste tecniche derivano storicamente da dubbi inter rogatori quali l’ordalia o la confessione4. A detta di Foucault, nel Medioevo la produzione della verità era assai pi ù spietata che ai giorni nostri. Si gettava qualcuno in acqua: se galleggia va, aveva detto la v erità, altrimenti a veva mentito. Nelle tecnologie della v erità come l’ordalia o il
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duello, era la sorte o un potere pi ù alto a determinare il risultato. Nelle tecnologie pi ù recenti quali l’esperimento scientifico, la confessione religiosa o giudiziale o, ancora nell’ambito legale, la tortura, seguono regole più complesse ma, sostiene Foucault, funzionano secondo il medesimo principio. Anche le tecniche documentarie della testimonianza o dell’intervista appartengono a questa tradizione. Sono basate su tecnologie della verità storiche, legali o giornalistiche. Porre i testimoni a garanzia di una v erità documentaria significa dunque correre il rischio di una fiducia illimitata. Perché i testimoni comprovano davvero un accesso alla realtà privo di filtri? Non è forse fondamentalmente opaco il testimone – colorato di soggettività, segnato dall’interesse, sedotto dalle figure linguistiche, affascinato dalla propria verità? Ciò che viene testimoniato non è forse la realtà come avrebbe dovuto essere, piuttosto che la realtà come è realmente accaduta? La testimonianza potrà non essere decontestualizzata, distorta, o falsamente riportata? Per esempio dalla mancanza del sonoro, come nell’intervista alle operaie di Tout va bien? Violenza epistemica Anche la critica letteraria e teorica f emminista Gayatri Chakravorty Spivak sostiene che ci ò che è detto non sempre viene udito, perch é al-
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cuni gruppi della popolazione sono esclusi dall’articolazione sociale. Anche se parlano, non li sentiamo. La domanda che pone Spivak è: “Possono parlare i subalterni ?”6 Per subalterni intende in particolare le donne in situazioni egualmente caratterizzate dal colonialismo e dal patriarcato. E la risposta apodittica alla sua domanda è: no. Come esempio del silenzio a cui sono condannati i subalterni cita i documenti dell’archivio coloniale che dovrebbero f ornire le prove della “volontaria” sottomissione delle vedove indiane, durante il periodo della dominazione britannica, alla crudele pratica dell’immolazione sulla pira funeraria del marito. Per Spivak i documenti non comprovano la volontà delle donne in questione, ma solo l’impossibilità di esprimere la loro volontà. Perché, se una donna voleva opporsi ai valori dei padroni coloniali, non le restava che adattarsi ai valori del patriarcato locale che le ordina va di gettarsi “v olontariamente” nel fuoco. I suoi interessi erano dunque inesprimibili in entrambi i sistemi di valori, e non ne aveva altri a sua disposizione. La conclusione di Spivak è che la subalterna non parla, la donna non è in grado di essere testimone di se stessa. Intervistarla è dunque inutile. La situazione è simile a quella di Tout va bien. Anche se le operaie rendono la loro testimonianza, non v engono comprese poich é, similmente alle subalterne, sono considerate soltanto
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in grado di comunicare “l’esperienza concreta” 7. Tuttavia chiedere a qualcuno di parlare della propria “esperienza concreta” presuppone implicitamente che questa persona non abbia altro a sua disposizione, che le sue esperienze siano crude e non passate al vaglio di una riflessione, e che pertanto vadano spiegate sia agli ascoltatori sia alla persona stessa. Il concetto di “esperienza concreta” impone una certa divisione gerarchica del lavoro: tra quelli che fanno esperienza di qualcosa e altri che sono in grado di comprendere e interpretare tale esperienza. La loro presunta autenticit à ha eff etti politici immediati: le voci che paiono totalmente “autentiche” vengono strutturalmente interdette. Questi problemi sono stati argomento della teoria e della critica cinematografica f emminista fin dagli anni Settanta. Nel 1975, Claire Johnson sosteneva che i film f emministi non possono rendere o descriv ere l’oppressione delle donne nella societ à patriarcale, perch é anche quelle che vengono definite semplici riprese sono gi à parte del problema. Il dolore dell’altro Tuttavia il dubbio strutturale sulla testimonianza ci trasf orma anche in autistici. Se in certi casi testimoniare è in utile, il problema non si limita a toccare le f orme documentaristiche che fanno affidamento su testimoni per
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comunicare accuratamente gli accadimenti, ma va più in profondità. I testimoni non presentano solo il mondo, ma prima di tutto lo creano in senso politico e sociale. Se vogliamo superare il solipsismo della nostra esperienza individuale, non possiamo rinunciare alla testimonianza. Se vogliamo sapere quel che accade in una guerra lontana, di solito dobbiamo fare affidamento sui testimoni. Nel complesso, riconoscere un testimone rappresenta il tentativ o di aprirsi alle esperienze altrui. È un passo nella direzione del compito paradossale che Wittgenstein ha vividamente descritto come sentire il dolore nel corpo dell’altro 9. Ma la testimonianza assume un ruolo importante al di là dell’esperienza individuale. Hannah Arendt considerava la “verità fattuale”, di cui la testimonianza dovrebbe essere prova, come la condizione del sociale per eccellenza. Per Hannah Arendt essa è “la terra sulla quale stiamo e il cielo sopra di noi”10. Riassumendo: la testimonianza è inattendibile e incerta, ma indispensabile. La testimonianza è spesso ostacolata o – come in Tout va bien – inascoltata. D’altra parte può anche testimoniare ci ò che non pu ò essere detto all’interno delle relazioni di potere. “Anche ferito a morte, un semplice rettangolo di 35 millimetri è in grado di salvare l’onore di tutto il reale” ha scritto Jean-Luc Godard11 . Può esprimere l’inimmaginabile, ci ò che è
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stato zittito, l’ignoto, ciò che redime, e perfino il mostruoso – creando cos ì la possibilit à del cambiamento. E contrariamente a ogni probabilit à, perfino nella storiografia ufficiale, nei media egemonici, negli archivi, nei discorsi e nelle storie, si trovano testimonianze che non dovrebbero neppure esistere. Naturalmente non è la regola. Ma affermare, come fa Spivak, che non sono possibili, significa cancellarle completamente dalla storia – e imbavagliare perfino i pensieri muti dell’operaia in Tout va bien. Sono un Muselmann “La testimonianza contiene, però, una lacuna”12. Questa è la conclusione a cui perviene Giorgio Agamben studiando le testimonianze dei sopravvissuti alla Shoà, che rappresentano il caso limite della testimonianza. Affondano le radici in un paradosso insormontabile: i sopra vvissuti ai campi di concentramento non si sentono autorizzati a testimoniarne l’esperienza. Primo Levi ha scritto che non i sopravvissuti sono i veri testimoni, ma i morti 13. Quindi solo coloro che possono dimostrare l’annientamento essendone vittime. Ma quelli non possono più parlare. Questa contraddizione essenziale è il leitmotiv delle riflessioni di Agamben sul ruolo dei testimoni.
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“Qui la testimonianza vale essenzialmente per ciò che in essa manca, contiene, al suo centro, un intestimoniabile, che destituisce l’autorità dei superstiti”14. La testimonianza è al tempo stesso necessaria e impossibile, testimonia la propria impossibilità. Secondo Agamben, quest’impossibilità è incarnata dalla figura del Muselmann, il musulmano. Il “musulmano” è il prigioniero che ha perso la volontà di vivere e vegeta sul confine della morte. Non riesce più a parlare – e ciò che il superstite può testimoniare su di lui è mediato e incompleto. Agamben perviene alla conclusione che lo sdoppiamento della testimonianza non pu ò essere cancellato. Il testimone diviene testimone nel momento in cui riferisce l’impossibilità della testimonianza. Questi testimoni esprimono il dilemma che insieme dà forma al loro compito. La testimonianza non è solo impossibile, è anche ugualmente indispensabile. Se il “musulmano” non parla, qualcuno deve parlare per lui. E come se non bastasse, il libro di Agamben termina con le testimonianze pi ù sorprendenti, ovvero le testimonianze che non dovrebbero neppure esistere. Una di queste comincia con le parole: “Io sono un Muselmann”15. A testimoniare sono coloro di cui si è detto che non erano in grado di farlo. Come se per miracolo, qualcuno di loro tornasse in vita a raccontare della loro esistenza di “Muselmänner”. Al tempo stesso, questi
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improbabili racconti testimoniano il fallimento intermittente della violenza fascista e insieme la sua tremenda efficacia. In quanto eccezioni assolute, confermano la regola. Secondo Agamben non cancellano il paradosso, ma lo confermano pienamente16. Per quanto impossibili, esistono. Immagini malgrado tutto Lo storico dell’arte Georges Didi-Hubermann racconta un altro caso, questa volta collegato alle immagini17. Nel suo testo Images malgré tout descrive foto che sono di fatto improbabili: le uniche quattro foto rimaste scattate da prigionieri nel campo di concentramento di Auschwitz. Non che manchino immagini di Auschwitz: bench é il campo fosse un territorio in cui la fotografia incontrollata v eniva rigorosamente proibita, c’erano ben due camere oscure al suo interno. Per la maggior parte le f otografie scattate nel campo avevano scopi legati alle attività di polizia e circa 40.000 sopravvissero alla distruzione degli archivi avvenuta prima della liberazione. Le uniche quattro fotografie fatte da prigionieri, d’altro canto, appartengono a un contesto totalmente div erso. Le scattarono i membri di un commando speciale che doveva fornire prove visive della distruzione di massa. Per poterle fare, dapprima i partigiani della resistenza polacca dovettero introdurre una macchina fotografica
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nel campo. Poi venne messo in atto un piano complicato per distrarre le SS di guardia. Solo a quel punto un uomo di nome Alex poté scattare le quattro f otografie. Due mostrano cada veri che vengono bruciati all’esterno. Un’altra mostra le donne condotte alla camera a gas. L’ultima foto è la pi ù misteriosa: mostra dei rami e uno scorcio di cielo18. Le immagini non illustrano solo i fatti dello sterminio di massa, ma esprimono anche le circo stanze e la prospettiva della loro creazione. Particolarmente nella quarta fotografia, quella che mostra solamente rami sfuocati e il cielo, la fretta e il pericolo si sono virtualmente impressi sulla grana fotografica. La costellazione storica, la situazione di sorveglianza totale, l’oscurità e il pericolo in cui queste immagini sono state riprese, tutto è espresso nella f otografia: attraverso la prospettiva, la sf ocatura, la perdita di controllo sull’inquadratura. Naturalmente, le f otografie in s é non sono prove in senso legale o storico. Solo attraverso la ricostruzione dell’ambiente storico si pu ò vedere, fino a un certo punto, che cosa rappresentano esattamente quelle immagini, dov e sono state fatte e in quale contesto19. Tuttavia questo contesto ha in sé un’espressione figurativa, mostra gli sforzi infiniti necessari a produrre queste poche immagini frammentarie.
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Tali fotografie sono testimonianze improbabili quanto le parole dei cosiddetti Muselmänner. È stata usata un’enorme quantità di violenza non solo epistemica per impedirle – eppure esistono. Sostenere che ciò non è possibile è falso e il risultato di una simile aff ermazione sarebbe di cancellare dalla storia dei documenti pro dotti nonostante immense opposizioni. Tuttavia anche le quattro f oto dei prigionieri restano, in un certo senso, mute. Anche se si riusc ì a farle uscire dal campo di concentramento, non ebbero alcun impatto.
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Note 1. Elisabeth Cowie descrive l’identificazione documentaria con “la parte in causa” come ambivalenza empatica, che sostiene l’autoimmagine accudente e sensibile dello spettatore. Per raggiungere quest’effetto non servono testimoni, ma vittime. Questo ruolo inscrive le vittime nelle categorie degli “inermi” e “muti”, che non possono presentare tesi e analisi, per non competere con il pubblico – e con il film – quale soggetto consapevole. (cfr. Elisabeth Cowlie, “Identifizierung mit dem Realem – Spektakel der Realität” in Marie-Luise Angerer e Henry P. Krips [cur.] Der andere Schauplatz. Psychoanalyse – Kultur – Medien, Vienna, Turia + Kant 2001, pp. 151-181, qui p. 169). 2. Cfr. fra gli altri Klaus Arriens, Wahrheit und Wirklichkeit im Film. Philosophie des Dokumentarfilms, Würzburg, Königshausen & Neumann 1999, p. 19. La testimonianza come principio ricorre già nel Vangelo di Luca, quando l’apostolo sostiene che il suo racconto degli avvenimenti è vero poiché gli è stato trasmesso da “coloro che ne furono testimoni fin da principio”. 3. I cosiddetti cognitivisti cercano di recuperare un concetto limitato dell’oggettività o di “verità approssimativa” (cfr. Brian Winston, Claiming the r eal: the Griersonian do cumentary and it s legitimations, Londra, British Film Institute 1995, p. 2 47). Questo assunto si basa implicitamente sul concetto liberal-pragmatico, e in parte perfino comunitario, di “buon senso” (cfr. Carl R. Plantinga, Rhetoric and Representation in Non-Fiction Film, Cambridge, Cambridge University Press 1997, p. 212 ); per esempio nell’articolo di Noël Carroll’s “Der nicht-fiktionale Film und ‘postmoderner’ Skeptizismus” (in Eva Hohenberger [cur.], Bilder des Wirklichen. Te xte zur Theorie des Dokumentarfilms, Berlin, Vorwerk 1998, pp. 35-69). Secondo Carroll, mettere in dubbio l’informazione oggettiva sul mondo è div entato “uno sport popolare”. A sostegno della tesi ricorrono sempre gli stessi argomenti, come la selettività del materiale filmico organizzato, che significa l’ar bitrarietà della selezione del segmento, ripresa, durata e ritmo del montaggio e che vanifica ogni pretesa di oggettività. Carroll tenta di confutare questo argomento sottolineando che esistono degli standard di oggettività che non solo relativizzano la selettività, ma anzi la inquadrano nel processo perfettamente normale dell’argomentazione. Sostiene che, se certi criteri di oggettivit à vengono
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rispettati, è allora possibile parlare di un’oggettiva resa delle realtà fattuali nel medium documentario. Tuttavia, Bill Nichols sostiene che si possono interpretare i costrutti intersoggettivi che portano a questo genere di accordo come relazioni di potere: “In questo caso l’oggettività adombra il punto di vista dell’autorità istituzionale stessa. Qui troviamo non solo le inevitabili preoccupazioni sulla legittimazione e la dif esa della propria posizione, ma anche forme di difesa dei propri interessi sia storiche sia collegate all’ar gomento specifico, che sov ente non sono esplicitate, ma v engono efficacemente travestite da tendenze e precondizioni.” (Citato in Carrol 1998, p. 55). Gli standard di soggettività sono di conseguenza meno indicativi di una “sana intersoggettività” (Carl. R. Plantinga, Rhetoric and Representation in Non-Fiction Film, Cambridge University Press, Cambridge, 1997, p. 219) quanto piuttosto indicativi di interessi particolari e di relazioni di potere all’interno della società, presentati come bene comune. Raymond Williams indaga l’emergere della dicotomia tra oggettivit à e soggettivit à nel XIX secolo. In quel periodo il concetto di oggettività era legato a quello di fatticità e quindi anche a discorsi e f orme di rappresentazione positiviste e realiste (cfr. Raymond Williams, Keywords: A Vocabulary of Culture and Society. Londra, Fontana 1976, p. 310 e segg.). 4. Cfr. Michel Foucault, “Technologien der Wahrheit” in Jan Engelmann (cur.), Foucault – Botschaffen der Macht. Reader Diskurs und Medien, Stoccarda, DVA 1999, pag. 133-144; e Toby Miller, Technologies of Truth. Cultural Citizenship and the Popular Media, University of Minnesota Press, Minneapolis, 1998, p. 4. 5. Cfr. Michel Foucault, “Tecnologien der Wahrheit”, op. cit. p. 134-137. 6. La domanda, nella sua piena f ormulazione, è la seguente: “Dall’altra parte della separazione internazionale del la voro dal capitale socializzato, all’interno e all’esterno del circuito di violenza epistemica della legge imperialista e dell’istruzione che integra il testo economico precedente, può la subalterna parlare?” – Gayatri Chakravorty Spivak, “Can the Subaltern Speak?”, in Cary Nelson e Lawrence Grossberg [cur.], Marxism and t he Interpretation of Culture, Urbana, University of Illinois Press, pp. 271-313, qui: p. 283. 7. Cfr. ibidem, p. 275. 8. Cfr. fra gli altri “ Che la macchina da presa possa ritrarre ‘la verità’ è una mistificazione idealistica [...]” (Claire Johnston, Notes on Women’s Cinema, Londra, Society for Education in Film and
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Television 1975, p. 28 ). Come spiega Rosi Braidotti nel suo libro Soggetto Nomade, un concetto binario di genere genera anche una visione del mondo binaria, in cui la conoscenza è riservata al soggetto normalizzato, che si sottintende essere maschile e associato ai concetti di universalità, razionalità, capacità di astrazione, consapevolezza e incorporeità. Al confronto, il f emminile viene percepito come deficitario, un non-soggetto, irrazionale, incapace di discernimento, incontrollato e identificato con il corporeo.Ulteriori coppie di opposti sono, ad esempio, oggetto vs. soggetto, attiv o vs. passivo, oppressore vs. oppresso, etc. – Cfr. Rosi Braidotti, Nomadic Subjects, Columbia University Press, New York, 1994, “Sexual Difference as a Nomadic Political Project”, p. 146-172, trad. it. Soggetto Nomade. Femminismo e crisi della modernità, Donzelli, Roma, 1995; Teresa De Lauretis “ The Tecnology of Gender” in Tecnologies of Gender. Essays on Theory, Film and Fiction, Bloomington & Indianapolis: Indiana University Press, 1987, pp. 1-30; e Chandra Mohanty, “Under Wesstern Eyes: Feminist Scholarship and Colonial Discourses”, in Feminist Review, N. 30 (1988), pp. 61-88. In questi testi la posizione dell’etnologo occidentale in quanto soggetto e in relazione con l’oggetto della sua ricerca viene problematizzata nel contesto dell’analisi del potere, che interpreta la “conoscenza” documentaria come estensione del regime di conoscenza imperiale e coloniale. Su questo argomento si v eda anche Trinh T. Minh-Ha, “Cotton and Iron”, in Madeleine Bernstoff e Hedwig Saxenhuber [cur.], Trinh T. Minh-Ha. Te xte. Film. Gespräche, Monaco, Vienna e Berlino, Kunstverein München / Synem Gesellschaft für Film und Medien 1995, pp. 5-16, particolarmente p. 5. 9. Ludwig Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen in Werkausgabe. Vol 1. Francoforte sul Meno, Suhrkamp 1995, Sezione 243 e segg. (p. 356 e segg.), trad. it. di R. Piovesan, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 2009. 10. Hannah Arendt, “Wahrheit und Politik” in Wahrheit und Lüge in der Politik, Monaco, Piper 1967, pp. 44-92, qui p. 92, trad. it. di V.Sorrentino, Verità e Politica, Bollati Boringhieri, Torino, 2004 [1995], p. 76. 11. Jean-Luc Godard, Histoire(s) du Cinema, Gallimard/Gaumont 1998, Parigi, p. 86. 12. Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Bollati Boringhieri, Torino, 1998. p. 30. 13. Cfr. ibidem, p. 30. 14. Ibidem, p. 31.
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15. Ibidem, p. 166. 16. Ibidem, p. 165. 17. Il testo è stato frattanto pubblicato in tedesco (Georges DidiHuberman, Bilder trotz allem, Monaco, Fink 2006, trad. it. di D. Tarizzo Immagini malgrado tutto, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2005), ma faccio riferimento alla trascrizione inedita di una conferenza tenuta nel 2003 all’Accademia di Belle Arti di Vienna. 18. Ibidem. 19. Il contesto dev e spesso essere laboriosamente ricostruito, come si può evincere dalla controversia che si è sviluppata intorno al modo in cui la mostra della Wehrmacht ha trattato alcune delle fotografie che documentavano i crimini. Dopo che altri storici avevano messo in discussione se le immagini esibite mostrassero davvero i crimini perpetrati dall’esercito tedesco o dai servizi segreti sovietici, venne condotta una meticolosa ricostruzione delle circostanze dei crimini, tutt’altro che evidente in ciò che si poteva v edere nelle fotografie. Perciò gli storici hanno dovuto assolvere al compito di leggere ed etichettare con precisione ciò che Benjamin ha definito il compito del fotografo: scoprire la “colpa” nelle immagine e “indicare il colpevole” (Walter Benjamin, “ Kleine Geschichte der Fotografie” in Gesammelte Schriften, Vol. II.1, op. cit, pp. 368-385, qui p. 385 tr. it. E. Filippini “Piccola storia della fotografia” in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 1966 p. 77). La ricostruzione ha portato non soltanto a etichettare le immagini in questione, ma anche a una riflessione più precisa dello status delle fotografie come documenti: “La fotografia viene considerata il medium che dipinge la realtà in modo puro e veritiero. Eppure la fotografia è sempre soltanto un segmento di quello che accade davanti all’obiettivo, mostra solo un momento della progressione temporale. Come qualsiasi documento scritto, la f otografia richiede un’interazione critica nei confronti delle fonti. A differenza di un testo astratto, la rappresentazione visiva induce l’osservatore a credere di essere testimo ne degli eventi. Non si fa ancora un grande uso della f otografia come fonte. I problemi di v erificarne l’autenticità e la veridicità sembrano troppo variegati. Al tempo stesso, qualsiasi informazione mancante o contraddittoria negli archivi intensifica l’insicurezza che esiste quando si tratta con fonti illustrate. Non sono ancora stati sviluppati degli strumenti appropriati per l’interpretazione delle f otografie.” (Hamburger Institut für Sozialforschung, Verbrechen der Wehrmacht. Dimension des Vernichtungskrieges 1941-44, catalogo della mostra, Hamburger Edition, Amburgo 2002, p. 106).
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CA PI T OLO I I I
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INTERVISTA IL FUTURO DELL’IGNOTO
di Clemens von Wedemeyer Bozza Agosto 2008 Per un cortometraggio, circa 35 minuti, loop La telecamera relativamente vicina, lo riprende frontalmente. Parla alla persona (Clemens) seduta dietro la telecamera.
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ABSTRACT
Nella sala conferenze del Barbican Centre: Un amico del ricercatore parla direttamente alla telecamera. Ha appena concluso la sua conferenza “First Contacts” su invito di un’azienda commerciale. I passati avvenimenti con il ricercatore (si veda il film “Against Death”) hanno portato, in questo momento, l’amico a ipotizzare che gruppi etnici finora non esposti al mondo esterno dovrebbero essere lasciati in pace dalle civiltà esterne, già meglio difese. Fattori psicologici potrebbero essere d’aiuto nell’assicurare il confine e prevenire che il contatto abbia luogo.
Clemens von Wedemeyer, How to Deal With the Uncontacted?, intervista con Geoffrey Frand, HD video, 35 min., Londra, aprile 2009.
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DOMANDA:
Mr. Frand, di cosa ha appena parlato?
Ho tenuto una conferenza per banchieri d’affari di un’azienda privata. Sono totalmente a mia discrezione per quanto riguarda l’argo mento. Tengo questi discorsi ogni tanto. In questi giorni meno frequentemente... (ride). FRAND:
DOMANDA:
Quali sono le aspettative dell’azienda?
Come ho detto, tengo queste conf erenze piuttosto frequentemente e sono pagato bene per farlo. L’azienda spera che i suoi impiegati possano imparare a pensare “fuori dagli schemi”. Questo è un qualcosa in più per la compagnia: gli impiegati sono incoraggiati a provare i limiti dei loro lavori, ovviamente nell’interesse dell’azienda. Sottopongo loro qualcosa di veramente radicale a cui pensare. Perché non dovrebbero perseguire anche idee al di fuori del loro ristretto campo di pensiero e della loro routine quotidiana?
FRAND:
DOMANDA:
Di cos’ha parlato?
FRAND: Ho affrontato il caso della f oresta pluviale Brasiliana. Di come, quali amici degli indiani, è nostra responsabilità proteggere le loro vite anche se significa sacrificare se stessi, per esempio nell’essere colpiti da una freccia errante per impedire l’accesso ai taglialegna nel territorio indiano. Questa è stata la rivelazione, abba-
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stanza buona per uno shock. Poi sono andato a fondo nel dilemma, cioè il fatto che il contatto con una popolazione isolata debba essere proibito per proteggerli dalla distruzione – è pieno di esempi di una simile contaminazione culturale ! D’altra parte, se ci asteniamo dal contatto, evitiamo uno scambio, e rischiamo di perdere la visione di un territorio dell’esistenza umana affascinante e molto prezioso. DOMANDA: Cosa
intende esattamente con questo?
Sto parlando delle f ormazioni etniche protette come oggetto di ricerca scientifica. Esistono realtà là fuori, nella foresta pluviale, che non possiamo ancora comprendere. Traiamo informazioni dal loro modo di viv ere, dal momento in cui ci consente di capire come gli umani hanno imparato a far fronte alla civilizzazione. Ci sono stupefacenti scoperte che le neuroscienze potrebbero fare, per esempio nel determinare quanto vecchie siano certe funzioni del cervello, e quali di queste funzioni si siano presentate in specifiche circostanze. Allo stesso modo in genetica, ci sono fantastiche opportunità di confronto. Si prenda ad esempio le pozioni di erbe utilizzate dagli uomini di medicina, che possono essere ricreate dalle industrie farmaceuti che, e inoltre c’è il codice genetico umano: per comprendere la genetica post-genomica. Ma a un certo punto la ricerca si è interrotta.
FRAND:
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Non sono sicuro, ma forse una certa parte dell’umanità ha trovato qualcosa nella foresta pluviale che in se stessa ha molto pi ù valore del nostro frettoloso sfruttamento scientifico, potrebbe essere? O qualcosa che è forse molto più pericoloso con cui possiamo confrontarci a questo livello d’ignoranza? Per questo sto parlando in favore del preservare questa ignoranza per il tempo presente. È il motivo per cui voglio aiutare gli Indiani. Per conto della nostra civiltà. DOMANDA: Questo mi ricorda il libro “Brave New World”, in cui c’era una staccionata intorno alla riserva. Tutte le persone eccetto gli Indiani vivono in un perenne Fordismo... FRAND:
Molto bene! È vero!
Ma ora lei intende proteggere gli Indiani reclusi, invece che il Fordismo. Vuole salvaguardare uno sconosciuto modo di viv ere o semplicemente la vita di per se stessa? Perché?
DOMANDA:
FRAND: Essere
o non essere! Questo è il problema. (risate). Aldous Huxley aveva ragione, poteva veramente predire il futuro, anche se si sbagliava!... L’ultima speranza è la riserva! Grazie per questa citazione. E Shakespeare è salvo in questo caso! Possiamo solo v edere una simile riserva come una chance! Oggigiorno i veri selvaggi sono le persone civilizzate e le loro ideologie!
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Di solito proclamiamo che i cosiddetti selvaggi dovrebbero essere protetti da loro stessi, e a noi spetta convertirli al Cristianesimo. Oggigiorno sembrerebbe che noi siamo i cosiddetti selvaggi da cui bisogna salvaguardarsi. Siamo forse giunti, attra verso questa contraddizione, a un punto morto ? Può l’antropologia continuare a essere difesa come una scienza razionale oggi?
DOMANDA:
FRAND: La
ricerca non si ferma al campo dell’antropologia, o della psicologia, o della neuroscienza. Come esempio attuale, solo recentemente la ricerca sul funzionamento del cervello umano è stata condotta con l’aiuto degli Indiani: una serie separata di test su studenti di Harvard e membri della trib ù di Shiwiar riv elarono che persino le persone che conducevano l’esistenza più semplice erano in grado di scoprire l’inganno! (risate) Astenendoci dal contatto con un gruppo, stiamo preservando simili indagini per il futuro. Come possiamo acquisire maggiore consapevolezza riguardo al nostro passato quando lo stiamo distruggendo ? Questi gruppi isolati hanno così tanto da offrire, ma dobbiamo mantenerli isolati! Un altro esempio: il mio precedente compagno di spedizione prese parte a un rituale in Brasile – qualcuno potrebbe dire che è stato il soggetto di un esperimento scientifico – dal momento che ci ò ebbe eff etti duraturi, per non dire avversi... su di lui. (cade il silenzio)
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DOMANDA: Non credo di seguirla... (o: nessuna domanda?)
(pausa) Mi sembra piuttosto pericoloso, prendere parte a questi rituali... Non riesco a spiegarlo bene. Vedi, credo che questi rituali abbiano un significato particolare, non solo per il gruppo delle persone che li eseguono,ma anche per un estraneo che ne fa esperienza, così come per coloro di cui dovrei raccontare l’esperienza di... (fa un respiro profondo)
FRAND:
DOMANDA:
Era davvero magico?
Forse... Sebbene la mia convinzione sia che tutte le persone sono uguali, loro non lo sono. Di solito pu ò essere attribuito alla diff erenza culturale, vale a dire, se qualcuno che non ha familiarità con la cultura dei Tahoris partecipa a uno dei loro riti, potrebbe avere effetti collaterali di natura diabolica. E non solo eff etti collaterali fisici, ma specialmente quelli psicologici possono essere fatali. E solo unendosi al gruppo – diventando uno di loro – questi effetti collaterali possono essere sublimati.
FRAND:
Come diceva prima, non potrebbe qualcuno spingersi a esplorare questo reame per scelta? Per esempio, per ricavarne beneficio per la propria società? O per sperimentare una tale trasformazione fisica?
DOMANDA:
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FRAND: Questo già capita appena la narrazione comincia a ev olversi. Attraverso di me come medium e le storie che ho raccontato questa sera, tu hai gi à preso contatto con questo gruppo nella giungla. Uno diventa un legame tra punti div ersi nello spazio e momenti nel tempo. Un ricercatore abbandona il punto di vista della propria cultura e fa esperienza di ciò che può solo riferire. Quando egli fa ritorno al campo di visione della sua cultura, riceve molte attenzioni. Egli ha creato uno scisma tra sé e la sua cultura. Ora egli può riferire questo stacco. Più altamente sviluppata appare la sua cultura, più grande la sua urgenza di indagare popoli e parti del mondo lontane. Meno conosciuti sono le società o i piccoli gruppi visitati, più eccitante e incredibile – ma anche meno verificabile – apparirà il suo racconto. Noi esploratori e antropologi conosciamo bene del nostro impatto sulla nostra società. Guadagniamo il nostro sostentamento da esso. Siamo parte del problema. DOMANDA: C OSA SPINGE UN ESPLORATORE ? C OME LO VUOI FERMARE?
C OME
COSA
M O T I VA U N E S P L O R AT O R E ?
PROGRAMMI DI TRATTENERLO ?
Sai, in certi casi un esploratore cerca gli esseri umani indigeni che gli sembra condividano il suo stesso essere indifeso – rispetto al potere della natura e di fronte alla propria morte. Il ricercatore è attratto sia verso il proprio desiFRAND:
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derio di morte sia verso la paura di quella morte. Accanto ad altri fattori. Non sono sicuro di come cambiare ci ò, ma anche se lo accettiamo non possiamo fermare quell’istinto umano. Dobbiamo imporre un “tabù” – per fermare le persone dal contattarsi a vicenda in modi distruttivi. Qualsiasi mezzo per farlo è giustificato. Mi sembra strano che l’isolamento debba essere positivo. Ai miei occhi è precisamente questa rivelazione, anche in riferimento alla globalizzazione, che porta a un n umero minore di conflitti, perché le persone possono capirsi meglio a vicenda, o come potrebbe essere, la comunicazione diventa possibile attra verso il commercio ? A parte ci ò, perché dovremmo decidere per gli altri: non possiamo imprigionare la libert à degli Indiani, e così negare loro la libertà di decidere?! DOMANDA:
Questa è la tua opinione. Anche se fosse vera, si applicherebbe solo a societ à simili, pi ù precisamente a quelle globalizzate. Ciò potrebbe essere effettivamente vero. Ma chi salvò le scoperte dei Greci, di Aristotele, di Platone, dalla distruzione? Furono i monaci Cristiani isolati nei loro monasteri. Lì i libri venivano copiati a mano ancora e ancora, mentre intorno a loro il mondo sprofondava in un’epoca buia. Isolamento. Nel Rinascimento i manoscritti furono riscoperti. Certamente, la vita nella giungla è qualcosa di diverso. La vita è fragile. Non è un libro che può
FRAND:
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essere copiato. Presto non rimarr à nessuno da visitare nella foresta. Dobbiamo porre un freno al nostro desiderio di scoperta. Ma ci sono altre possibilità. Dirò qualcosa a tal proposito tra un momento. Ovviamente il pericolo pi ù scontato deriva dalle persone che abbattono gli alberi e cercano il petrolio – cosa che tutti sanno. Ma anche il contatto pacifico con turisti e scienziati, come me, è probabilmente anche più distruttivo, perché noi utilizziamo trucchi per evitare quel conflitto che f orse a vrebbe potuto aumentare l’opposizione alla nostra società. Dobbiamo proteggere i gruppi restanti – cioè quelli che sono sopravvissuti alla storia del nostro colonialismo – dal nostro minaccioso presente, per il bene del loro futuro. Ci sono dei gruppi che possono difendersi relativamente bene, o nascondersi. Ma le armi non aiutano a lungo.A volte possiamo difendere la libertà solo con recinzioni. Lo sai. DOMANDA: Ma
non è una loro decisionespontanea!
FRAND: La
nostra società impara continuamente. Ciò spaventa molte persone, ma è una possibilità. Magari ci occorreranno 500 anni per comprendere veramente le cose, per preservarle,e per dominare la magia degli uomini medicina che vivono da qualche parte nella f oresta. Fino allora è assolutamente necessario non prendere contatto e abbandonare completamente l’idea che abbiamo il diritto di farlo. L’isolamento pos-
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siede una f orza immensa e incredibile. Le cose possono svilupparsi nell’isolamento. Non dobbiamo rinunciare al valore dell’isolamento. Al contrario: dobbiamo rifiutare l’idea del contatto... DOMANDA: E
fatto?
se perseveriamo: cosa deve essere
FRAND: Suggerisco di analizzare la cosa con pi ù attenzione: dove vivono questi gruppi? Di quanta terra hanno bisogno ? Ma restando a distanza ! Allora abbiamo la possibilità di stabilire un confine che sia il più efficace possibile per entrambe le parti. Non deve essere una recinzione elettrica, lo sai – oggigiorno siamo sicuri di a vere tecnologie più sofisticate a nostra disposizione. Le tecniche di controllo del confine. Certamente è importante pensare alla permanenza del confine: a mio parere dovrebbe durare sicuramente 500 anni. È ovvio che l’ingresso in questa zona dovrebbe essere proibito e punibile con la massima pena. Ma come possono essere convinti coloro che vivono all’interno dell’area a non oltrepassare la recinzione? Allo stesso modo del deterrente dei fuochi d’artificio, del v oltaggio elettrico, etc., ci sono forse nuove tecniche illusorie – di un genere che faccia credere al gruppo all’interno di trovarsi di fronte ad una barriera naturale piuttosto che a espedienti tecnici di separazione.Per esempio, in un film un suono o un’immagine
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possono creare l’illusione o un’atmosf era spaventosa. Qualcosa di simile potrebbe essere utilizzato nella progettazione dei confini. Lo sviluppo tecnologico della nostra civilt à dev e aiutarci a rimanere separati dalle nostre origini così come a conservarle. Il costo di un simile confine certamente non sarebbe basso. Ma mi creda: non abbiamo altra scelta. Se da una parte si cerca di abitare su Marte, di sbarazzarsi delle scorie atomiche nelle miniere, dall’altra si dev e trovare le risorse necessarie per preservare il vecchio, sconosciuto futuro dell’umanità. Un’organizzazione deve essere fondata oggi, e l’ho menzionato nella mia conferenza: con fondi privati possiamo comprare il terreno nella foresta pluviale. Allora sarebbe possibile, in cooperazione con il gov erno locale e le Nazioni Unite, creare zone di buffer permanente e aree protette riconosciute sul piano internazionale. In questo modo avremmo un’organizzazione fondata privatamente supportata a livello nazionale e salvaguardata internazionalmente, cos ì da poter avere il controllo effettivo sopra le aree protette con un contratto della durata di almeno 5 00 anni – o per l’eternità.
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Re-enactment, etnografia di recupero e fotografia nello stretto di Torres Elizabeth Edwards Fotografie in difetto? Il valore della verità antropologica, che trova il suo fondamento nella rappresentazione culturale, è stato estratto dal tempo reale, v erificato con l’osservazione in tempo reale, catturato e fermato dall’azione della macchina fotografica. Dati questi presupposti, le immagini che si allontanano dal tempo reale sono state considerate in un certo senso epistemologicamente difettose dal punto di vista dell’etica scientifica della disciplina. Tuttavia, è proprio una forma particolare di queste ultime immagini che v orrei analizzare, le immagini di re-enactment, perché costituiscono una forma di visualizzazione della scienza nel periodo dell’antropologia proto-moderna, che unisce il metodo all’oggetto dell’osservazione. Il re-enactment potrebbe essere definito come una ricostruzione performativa di azione sociale che è al di fuori dei contesti nor mali o naturali e degli accadimenti costitutivi. Inoltre, rappresenta un atto di citazione, che rimanda all’azione sociale. Studiando in modo
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particolare la relazione tra f otografia, scienza antropologica e re-enactment, vorrei analizzare come, pur essendo soltanto una parte di una metodologia pi ù ampia e ricca d’implicazioni storiche, il re-enactment era uno strumento fondamentale per visualizzare dati antropologici e scientifici, prodotti dalla scienza stessa. Non mi preme pertanto di valutare le pretese naturalistiche del re-enactment, ma di esplorare le pratiche metodiche che trasf ormano un passato culturale non visto o non visibile in una rappresentazione visiva di “vedere” e “sapere”.1 Il re-enactment non può essere spiegato – con anacronistici giudizi di valore come “falso” o “non vero” – in un confronto con le affermazioni degli specialisti o dei successivi lavori sul campo. Il re-enactment ricorre in densità e intensità diverse in buona parte della fotografia antropologica del periodo compreso tra il 1885 e il 1925 circa, e persino, di tanto in tanto, nel lavoro di Malinowski per esempio, il cui metodo apparentemente rifiutava l’intervento nel tempo reale dell’osservazione. Inoltre, spero di dimostrare – tenendo in considerazione che i limiti tecnologici da una parte e il desiderio di “mostrare come” dall’altra sono chiari fattori determinanti a livello superficiale – che il reenactment non era un metodo illustrativ o sconsiderato, ma anzi era integralmente collegato a nozioni storicamente specifiche di validità intellettuale, oggettività e metodo scientifico.
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Simultaneamente, nel contesto dell’etnografia di recupero, si basa va su un presupposto di assenza, perdita, desiderio e resurrezione di una integrità culturale frammentata, perché proprio le sue qualità performative la rendono luogo di convergenza di soggettività multiple. In questa prospettiva, la mia analisi si baserà su una fotografia in particolare, anche se ne mostrerò altre. L’immagine fu scattata il 21 settembre 1898 sull’isola Pulu da A. W. Wilkin, sotto la direzione di A. C. Haddon, capo della Spedizione antropologica organizzata dell’Università di Cambridge nello stretto di Torres, un gruppo di isole tra l’ Australia e la Nuova Guinea. È un’immagine “buona per pensare” perché “condensa[va] una vasta gamma di forze e relazioni sociali”. Passerò poi a prendere brev emente in considerazione alcune altre f otografie che potrebbero essere definite “re-enactment” alla luce della mia analisi di quella f oto in particolare e dei temi cui è associata. Cercherò anche di dimostrare che, per gli abitanti dello stretto diTorres coinvolti, il re-enactment div enne un meccanismo importante tramite il quale documentare o mantenere il controllo della loro etnografia nei parametri della situazione coloniale. Questa tesi ha anche varie implicazioni per lo studio delle prime visualizzazioni in antropologia, specialmente, in questo caso, per i famosi quattro minuti di pellicola sullo stretto di Torres. Molte analisi si sono basate su modelli omogeneizzanti
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di antropologia coloniale e su nozioni di veridicità nelle documentazioni visiv e che risultano anacronistiche e non riescono ad aff errare le premesse scientifiche da cui la fotografia e il cinema operavano negli ultimi anni del diciannovesimo secolo e, in modo pi ù specifico, il ruolo del re-enactment al loro interno.2 Invece di chiedersi perché documentazioni non sono riuscite a raggiungere questo scopo coerentemente con la nostra idea di verità, bisognerebbe invece domandarsi che tipo d’idea di realt à e autenticit à portò alla possibilit à di un certo tipo di rappresentazione; quindi, non tanto “qual è il loro status ontologico, [ma] qual è la loro rilevanza... cosa in esse viene espresso”, e di conseguenza come possono essere percepite come intellettualmente valide. E ancora una volta dobbiamo chiederci, come venivano fatte le fotografie? Che cosa si v oleva provare con e per le f otografie? Quali pratiche erano implicate? Le questioni riguardanti il valore probativo della fotografia nella scienza antropologica del xix secolo, come discusso nel capitolo precedente, devono riflettere non solo i significati più ampi che vengono attribuiti alla f otografia in ter mini culturali, ma anche le alterazioni della pratica scientifica in siti particolari e mutevoli. I progressi e la disponibilit à tecnologica costituivano una gamma di possibilit à storicamente specifiche che potevano essere applicate ad ambienti epistemologici ed euristici mutevoli, in an-
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tropologia e in altri campi. Il re-enactment, e per estensione, il concetto di “fotografia di posa”, ponevano dei problemi solo quando la v eridicità e l’autenticità, come vengono percepite ora, diventarono tecnicamente dimostrabili, e le f onti furono analizzate partendo da una base diversa; di conseguenza i dubbi sull’autenticit à e l’autorit à si fondarono su premesse diverse. Di rado queste pratiche venivano messe in dubbio, tanto erano radicate nel discorso dell’osservazione scientifica; tuttavia, nel materiale antropologico prodotto tra il tardo diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo c’è una sufficiente quantit à di prov e per analizzare la questione più a fondo.3 Da molti punti di vista, le questioni riguardanti autorità, rappresentazione, v eridicità, estetica, etica scientifica, intervento e posa, elaborate da Gregory Bateson (che era stato allievo di Haddon) e Margaret Mead nel loro tour de force sulla fotografia antropologica di posa Balinese Character (1942) emergono tutte nelle pratiche visive della Spedizione nello Stretto di Torres. Questi elementi sono stati fin da allora analizzati come le questioni principali dell’antropologia visiva. La generale ambivalenza nei confronti del visiv o e la sua svalutazione come f orma inquisitoria attiva in antropologia che, come ho accennato in relazione alle f otografie di Jenness, si manif estava come un movimento dal processo al prodotto nell’indagine antropologica, pu ò f orse essere attribuita al declino del paradigma del
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laboratorio scientifico nella pratica antropologica e allo spostamento della validit à probante dall’uso di strumenti all’occhio scientifico non mediato, rappresentato dal ricercatore sul campo. Come abbiamo visto in relazione ai sistemi di scambio degli antropologi, le fotografie create all’interno del precedente paradigma non sembravano più valide, come prov e, nei n uovi metodi di spiegazione e osservazione. Nelle ricostruzioni fotografiche qui analizzate si possono individuare due registri di autenticità. In primo luogo “l’autentico” era un tropo f ondamentale nell’etnografia di recupero. L’operazione di recupero potrebbe essere descritta come un gesto di mediazione, e oserei dire, di appropriazione, della scienza occidentale, per “salvare” l’oggetto di studio dall’oblio, rendendo così legittima la pratica della rappresentazione. Malinowski lamentava il modo in cui l’oggetto dello studio etnografico scompariva quando era riconosciuto scientificamente. Quest’opinione è basata su esperienze collettive e personali di ciò che una perdita del genere potrebbe implicare. Le idee di autenticità definivano e seleziona vano, in termini di contenuti, ciò che andava preservato. In altre parole, avevano il potere di autenticare. In secondo luogo, collegato al primo punto, l’autenticit à dell’osservazione definiva l’autorit à dello scienziato e dell’antropologo. La genuinità e l’autorità dell’osservazione si basava sulla verosimiglianza della fotografia; grazie alla prevalenza dell’indi-
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cizzazione e della concentrazione di spazio e tempo, l’atto del re-enactment definisce l’originale. Tuttavia, per quanto affascinanti, le teorie di Baudrillard, Eco e altri, che hanno enfatizzato la scomparsa dell’originale in relazione al simulacro, non possono essere convalidate qui, perché lo scarto tra realtà e re-enactment, passato e presente, e configurazioni d’autorit à è troppo complesso per rientrare in un modello dicotomico. Invece, nelle f otografie di re-enactment, ci si trova di fronte a una percezione di autenticit à fluida, negoziata, storicamente e culturalmente fondata; autenticità come processo sociale attraverso il quale aspettativa, credibilit à, veracità e autorità, operando all’interno di certi parametri, costituiscono un re-enactment altrettanto valido come testimonianza. Tutte queste considerazioni hanno varie implicazioni, dal punto di vista delle prove e delle dimostrazioni nella ricerca etnografica e antropologica del tardo xix secolo. Inoltre, i concetti che convergono nel re-enactment hanno implicazioni significative nella strutturazione del sapere, nelle relazioni tra osservatore e osservato, e negli spazi soggettivi nel contesto della pratica antropologica del periodo. Perché, se il ruolo della fotografia nella rappresentazione della realtà culturale è problematico, così è l’idea di rappresentare la realtà tramite il recupero e il re-enactment.Tuttavia, pi ù che questa doppia mimesi che porta semplicemente a una doppia non-autenticit à,
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proporrei la creazione di un autenticità basata su un incontro trans-culturale complesso che incrocia la storia, perché il re-enactment implicava, letteralmente, sia la costruzione che le possibilit à teatrali della storia attra verso le sue intrinseche proiezioni immaginative. La scienza nello stretto di Torres 1898 La Spedizione dell’Università di Cambridge nello stretto di Torres, su cui si concentra il mio studio, è considerata uno spartiacque nello sviluppo dell’antropologia britannica, una forma nascente della scuola moderna di la voro sul campo sistematico, scientifico e condotto su basi sociologiche. La Spedizione era guidata da A. C. Haddon, uno zoologo che studiava sia a Cambridge che a Dublino, e che si era convertito all’antropologia durante una precedente ricerca sul campo nello stretto di Torres, condotta nel 1888. Aveva scelto quell’area per studiare la biologia marina della barriera corallina, su consiglio del suo mentore, T. H. Huxley, che aveva visitato lo stretto di Torres in qualità di medico a bordo dell’HMS Rattlesnake nel 1848. Durante la Spedizione del 1888, Haddon aveva lavorato con assistenti locali. Oltre a fare fotografie e raccogliere esemplari di storia naturale e manufatti, aveva parlato con la gente del posto, visitato luoghi sacri con gli anziani, annotato storie e ascoltato i racconti delle imprese dell’eroe totemico Kwoiam. Le isole dello
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stretto di Torres a vevano subito un’enorme trasformazione a causa delle attività coloniali, e soprattutto delle missioni. Sentire i v ecchi raccontare dell’epoca precedente alla Missione LMS del 1871 portò Haddon a riflettere sul concetto di perdita e sulla necessit à di tramandare l’integrità culturale, e di conseguenza sul ruolo cruciale del lavoro antropologico. Haddon desiderava quindi ritornare nello stretto di Torres per studiare e documentare le culture dell’isola con un approccio di etnografia di recupero, prima che fosse, a suo avviso, troppo tardi. Verso la fine degli anni Novanta del 1800, la seconda Spedizione stava divenendo realtà. Includendo elementi di etnologia, antropologia fisica, psicologia, sociologia, linguistica, etnomusicologia e antropogeografia, la Spedizione intendeva condurre uno studio scientifico sistematico, approfondito e multidisciplinare di quella regione culturale. Haddon voleva radunare la migliore squadra di scienziati disponibile, che rappresentassero una vasta gamma di talenti scientifici. Oltre ad Haddon, la squadra includeva tre medici, McDougall, Seligmann e Myers. All’ultimo momento si aggiunse un quarto medico, W. H. R. Rivers, pioniere di un disciplina emergente, la psicologia sperimentale. 4 La squadra era completata da Sidney Ray, un insegnante esperto di lingue melanesiane, e Anthony Wilkin, un giovane laureato di Cambridge, responsabile della f otografia e di alcuni aspetti di studio della cultura materiale.5
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Come ho dimostrato altrove, la visualizzazione era un tema centrale della Spedizione dello stretto di Torres, sia nel lavoro svolto nelle isole dello Stretto che nel Golfo di Papua, dove alcuni membri della Spedizione, inclusi Haddon e Wilkin, passarono due mesi a raccogliere dati comparativi per l’indagine regionale. L’aspetto visivo ricorre costantemente nei metodi utilizzati e negli obiettivi dei loro studi: i test psicologici di Rivers, lo studio della cultura materiale e i suoi contesti e la visualizzazione del passato mitostorico attraverso il paesaggio, costituiscono un approccio che potremmo ora definire cultura visiva. Ciò che mi interessa in questo ambito è il metodo con cui l’osservazione etnografica di recupero fu costruita e resa permanente tramite la mediazione della fotografia, un metodo in cui il re-enactment potrebbe essere incluso nei costrutti contemporanei della documentazione obbiettiva della cultura. Uno dei principali obiettivi metodologici della Spedizione era ricostruire (riprodurre) le condizioni della ricerca di laboratorio delle scienze naturali nell’esperienza antropologica sul campo. Gli esperimenti con la rappresentazione fotografica e le condizioni di laboratorio condotti nello stretto di Torres dovrebbero essere visti nel contesto di nuove forme di produzione sperimentale di prov e o dati e di dimostrazione delle scienze laboratoriali di questo periodo. Nelle pratiche di laboratorio del tardo XIX se-
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colo (molte delle quali erano collegate a scienze di tipo museale, come la storia naturale e la fisiologia), i fenomeni naturali considerati più significativi venivano riprodotti – di fatto re-enacted – in laboratorio per isolare e studiare caratteristiche specifiche di fenomeni imitati in condizioni controllate. Per esempio, il contributo della camera a nebbia (la riproduzione delle condizioni atmosferiche) e la fotografia (il rendere visibile) agli albori della fisica delle particelle a Cambridge, veniva studiato proprio quando i membri della Spedizione dello stretto di Torres stavano pubblicando i loro primi risultati.6 Le pratiche di laboratorio trasformavano (e senza dubbio continuano a farlo) “esemplari invisibili o non analizzati in dati esaminati visivamente, codificati, misurati, analizzati graficamente e presentabili pubblicamente”. Gli studiosi di scienze naturali di Cambrige furono i protagonisti di questo sviluppo. Il docente di Haddon, Michael Foster, stava sviluppando l’insegnamento laboratoriale delle scienze naturali, 7 e sia Haddon che Rivers erano senza dubbio entusiasti di questi nuovi metodi per f ornire le prov e e definire lo status dei dati. L’elaborazione di idee visiv e e la relazione tra gli strumenti mimetici del disegno e della fotografia (e in seguito della pellicola ) nella rappresentazione della mimesi e della citazione del re-enactment, dovrebbero essere collocate all’interno di questo paradigma mutev ole e dello status delle condizioni mimetiche della
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sperimentazione in quell’epoca (Galison e Assmus 1989; Schaffer 1994:20). Considerando che Haddon si era f ormato con la cultura delle scienze naturali, non è irragionevole vedere la strategia e la pianificazione visiva della Spedizione come una sorta di ripetizione dell’esperimento attraverso la f otografia: una replicabilità basata sulla relazione tra la fotografia e il suo referente, per verificare i risultati dell’osservazione scientifica. Quest’idea una dimensione morale alla produzione e alla trasmissione delle prove. La natura laboratoriale scientifica e sistematica della Spedizione era enfatizzata dalla tecnologia “all’avanguardia” utilizzata. Questa combinazione tecnologica, con i portati che implicava, fu deliberatamente sviluppata come cultura materiale di laboratorio per essere riconoscibile. Ad esempio, c’erano le più recenti attrezzature per i test psicologici, con cui Rivers sperava di replicare sul campo le condizioni di laboratorio. Gran parte delle attrezzature servivano per testare l’acuità visiva, le capacità e le prestazioni di visualizzazione, il riconoscimento e la differenziazione del colore. Tuttavia, gli strumenti mimetici della rappresentazione erano n umerosi. Includevano il cinematograf o prodotto dalla Newman and Guardia, varie macchine fotografiche per la f otografia d’immagini in posa, tra cui una Newman and Guardia Series B, il processo fotografico a colori sviluppato da Ives e
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Joly e due f onografi con la possibilit à di registrazione e playback del suono. Essendo fondamentale dimostrare l’integrit à della tecnologia materiale della sperimentazione per la perce zione dell’integrità del sapere che l’apparecchiatura contribuiva a produrre (Shapin e Schaffer 1985:30) è significativ o che l’attrezzatura f otografica, dal cinematografo alle sostanze chimiche alle piastre, f osse della Newman and Guardia, una prestigiosa azienda londinese famosa per i suoi prodotti d’alta qualità. La scelta della macchina fotografica Newman and Guardia Series B, altamente flessibile e sofisticata, come elemento principale dell’apparato fotografico, è particolarmente significativo, perché sottolinea l’importanza che la Spedizione attribuiva alla produzione delle testimonianze visiv e. In tutto, la Spedizione produsse circa 300 fotografie dallo stretto di Torres e altre 300 dalla ricerca comparata sulla Nuova Guinea Britannica.8 Wilkin era il responsabile della f otografia, ma anche se fu lui di fatto a scattare la maggior parte delle immagini, era Haddon ad a vere il controllo direttivo. L’enfasi tecnica sulla visione e la visualizzazione esprime chiaramente gli obiettivi intellettuali principali. Si potrebbe ipotizzare che un interesse sfaccettato e stratificato per il visiv o fosse considerato parte integrante della presentazione, dimostrazione e trasmissione delle prov e, allo scopo di convalidare le scoperte fatte dalla Spedizione. Molte di queste
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immagini raffigurano rituali e siti sacri, una selezione fotografica che riflette l’interesse di Haddon per il totemismo e le credenze religiose come elementi coerenti dell’organizzazione sociale, nella sua percezione della cultura dello stretto di Torres nel periodo antecedente al contatto. Come la f otografia, il re-enactment pu ò essere associato anche ad altre pratiche scientifiche della Spedizione, specialmente la produzione di riproduzioni e copie. Come ha ipotizzato Herle, le copie, come le maschere e le riproduzioni, erano prodotte come parte del programma di recupero della Spedizione. Se le fotografie restituivano azioni passate, le copie e le riproduzioni restituivano gli oggetti del passato. Queste procedure rivestivano un ruolo importante in alcune delle scienze di cui Haddon si occupa va, per esempio l’anatomia. Come Herle giustamente sostiene, bisogna però fare una distinzione tra la riproduzione come attivit à di laboratorio che convalida tesi specifiche e la produzione di esemplari mobili (composizioni mobili immutabili) per l’analisi successiva ai fatti. Tuttavia le fotografie, specialmente quelle di re-enactment, sembrano operare su entrambi i registri. Le rappresentazioni agiscono come esemplari convalidati, mobili, prodotti grazie all’integrit à scientifica della strumentazione e della natura indicizzata della fotografia stessa. Abbiamo a che fare, letteralmente, con quello che Latour ha definito il “teatro dell’espetrienza”.
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Come già accennato, il re-enactment e la f otografia sono strettamente collegati all’etnografia di recupero. Era evidentemente cos ì che Haddon li percepiva, e nei suoi contributi alla terza (1899) e quarta (1912) edizione di Notes and Queries, è evidente che l’etnografia di recupero costituiva per lui il fondamento logico per l’utilizzo della f otografia. Haddon prova va anche un senso di necessit à morale, perch é il fallimento del progetto di recupero a vrebbe avuto effetti negativi nel futuro. Nell’introduzione a The Study of Man, Haddon scrisse: “ Ora è il momento di documentare... stiamo per perdere i materiali di studio più interessanti non solo perché il tempo li cancella, ma anche per l’apatia di coloro che dovrebbero provare piacere nel documentarli prima che scompaiono dalla nostra vista e dalla nostra memoria”. Paradossalmente, è nel re-enactment, nei registri della tradizione razionale della dimostrazione nelle scienze fisiche e biologiche che emerge la mito-poetica del passato. Il re-enactment è rappresentato equamente da oggettività scientifiche e dall’immaginazione soggettiva, tramite la quale l’attenzione è concentrata in una serie di “visualizzazioni drammatizzate”. Qui la necessità morale si traduce nell’intensità dello sforzo scientifico e di desiderio soggettivo, dove la sensazione di perdita dell’integrità si manif esta in una nostalgia romantica.9 In questo tipo di registro, l’effetto realistico della fotografia soddisfa sia il desiderio di
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rappresentare che di rendere completo. Eppure, si trattava anche di un’antropologia che sottolineava certe f orme di descrizione empirica, generando, come a veva sostenuto Gruber: “una sorta di miopia intellettuale”. C’è ovviamente un forte elemento di oggettivazione nei concetti di recupero e di re-enactment che, in quanto tale, diventa una politica di riproduzione. L’oggettivazione, in termini di rappresentazione, pone il recupero dei popoli e degli oggetti in un continuum visivo di visione focalizzata e sguardo scientifico. Tramite la fotografia, veniva reificata un’essenza culturale percepita, un’autenticità. In senso pi ù ampio, l’oggettivazione riproduceva la modalità distaccata, visivamente privilegiata del separare il soggetto osservante dal soggetto osservato, e in questo caso, l’oggetto desiderato, costruito. Questi metodi erano usati per produrre una vasta gamma di visualizzazioni f otografiche isolate, considerate intrinsecamente preziose grazie alla loro natura indicizzata. Fu questa visione che rese la fotografia lo strumento di recupero per eccellenza. Come ha dimostrato Fabian, gli eff etti ideologici della visualità fanno parte di quel discorso di atemporalit à che abbraccia va un’oggettività, basata sulla distanza cultuale e temporale, e un’oggettivazione che nega va la contemporaneità. La natura citazionistica del re-enactment lo associa inevitabilmente al passato. Tramite il re-enactment, lo spazio tempo-
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rale in cui Haddon poneva la cultura dello stretto di Torres era distante e passato, uno sprofondare in un tempo dicotomico di allora (autentico) e ora. Al tempo stesso, la restituzione del realistico, come la morte diKwoiam, è essa stessa postulata come reazione a una senso di perdita. È su questo che v orrei ora soff ermarmi, perch é è nelle immagini riguardanti Kwoiam – e specialmente la sua morte – raccolte durante la Spedizione, che il metodo del reenactment è sia esemplificato che rappresentato al massimo del suo effetto retorico e rivelatore.10 La morte di Kwoiam Haddon incominciò a interessarsi alle storie di Kwoiam durante la sua prima visita nello stretto di Torres nel 1888. Alla fine di quel viaggio Haddon fece, come disse lui stesso un “ultimo pellegrinaggio” nei luoghi associati a Kwoiam, a Mabulag nella zona occidentale dello stretto.11 Kwoiam era l’eroe totemico, il cui culto mitico, che si era sviluppato specialmente nell’isola di Pulu, era f ondamentale in tutte le cerimonie rituali e funebri dell’area occidentale dello stretto. Gli elementi spaziali sono evidenti: il paesaggio era mappato e segnato dalle interazioni sociali di Kwoiam e dal contatto con il corpo dell’eroe e delle sue vittime. Le sue orme sono impresse nella roccia, le doppie file di massi sono le teste delle sue vittime, un ruscello che
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non si prosciuga mai è il punto in cui conficcò la lancia nella roccia; e ancora, i solchi sulla pietra contro la quale raddrizzava l’eroe il suo giavellotto, le pianure erbose punteggiate di pandano che ospitavano i suoi giardini, la sua casa e il suo pozzo d’acqua. Wilkin e Haddon mapparono fotograficamente questa topografia sacra. Ma la fotografia più rivelatrice è quella che mostra il momento mitico che definì lo spazio topografico e sociale nello stretto di Torres occidentale – la morte dello stesso Kwoiam. Le storie narrano le imprese di Kwoiam, che solitamente scatenavano terribili stragi – inclusa la morte di sua madre Kwinam – e le conseguenti battute di caccia alla testa. Ma alla fine Kwoiam cadde in un’imboscata dei suoi nemici, gli uomini di Moa. Si rifugiò sulla cima di una collina dove, inginocchiato a terra, morì. È interessante notare gli slittamenti retorici nella scrittura di Haddon: “I cespugli sul fianco della collina di Kwoiam hanno le foglie chiazzate di rosso, e alcune sono totalmente ricoperte di rosso. È il sangue sgor gato dal collo di Kwoiam quando fu mozzato ; ancora oggi i cespugli testimoniano questo oltraggio al corpo di un eroe.” 12 L’utilizzo del presente come lingua indicativa in questa descrizione – le foglie sono totalmente ricoperte di rosso – intensifica il senso di presenza e realismo voluto dal fotografo. Grazie al re-enactment, il corpo
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Re-enacting della morte di Kwoiam, 21 settembre 1898. Stampa alla gelatina d’argento. Fotografo: A. C. Haddon/A. Wilkin. (Per gentile concessione del Cambridge University Museum of Archeology and Anthropology T.Str.66.).
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fisico è reinserito in uno spazio mistico con una ri-presentazione realistica, che si esprime nell’obbiettivo realista della fotografia. Perché nel paragrafo precedente a questo, Haddon scrive: “Volevo che uno dei nativi che ci accompagnava assumesse la stessa posa di Kwoiam in punto di morte, cos ì potev o documentare la sua posizione, fotografarlo nel punto in cui era davvero morto...”. La fotografia fu pubblicata sul Rapporto della Spedizione, e la didascalia sottolinea la particolarità spaziale del re-enactment. “La fotografia fu scattata nel punto esatto in cui lui [Kwoiam] era morto. Il groviglio temporale è straordinario, perché il momento mitico di un tempo parallelo, f ondante e presente al tempo stesso, è fermato, tramite le richieste scientifiche del re-enactment, nel “tempo reale” della storia. La stessa mescolanza di validit à intellettuale e soggettività è visibile in altre re-enactment meno palesemente teatrali: Quando tutto è pronto, la fotografia viene scattata e ci sediamo; chiedo a un nativo di raccontarmi la “storia” [in italiano nel testo ] e io la annoto, tentando di usare tutte le sue parole, o perlomeno tutti gli eventi con alcune frasi riportate parola per parola... È stato di grande interesse sentire queste leggende, narrate da nativi che ci credono.13 Avevamo con noi i Mamoose, Enocha, Jimmy Dei, Ulai e Kaige, e tutti appartenevano allo zogo.14 Ci insegnarono i nomi delle pietre e poi, su nostra
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richiesta, gli uomini zogo assunsero la posizione e l’atteggiamento giusti per consultare lo zogo, e infine furono fotografati. Fu molto interessante vedere l’aff etto rev erente degli anziani per lo zogo, sembravano grati per l’attenzione con cui era stato ripulito e documentato. Esistono altri esempi di ricostruzione della cultura materiale. Il re-enactment o la ricostituzione, attuato con la chiarezza e precisione della documentazione scientifica attribuite alla f otografia, viene ripetutamente ribadito: Ogni tanto bisognava sistemare verticalmente alcune pietre, o mettere insieme quelle rotte.Fu necessario scegliere attentamente la prospettiva migliore per il fotografo e sfoltire ulteriormente la boscaglia; a v olte si dov ettero potare alcuni rami più lontani se proiettavano ombre fastidiose. I rametti, le foglie o le piante più piccole dovettero essere rimossi dal terreno, o se si trova vano tra sassi e conchiglie, per non complicare inutilmente l’immagine... In un paio di casi girai una pietra scolpita per metterne meglio in evidenza il disegno; qualche volta spostai leggermente le conchiglie, perché si v edessero meglio, ma solo se non avevano una posizione precisa. L’attenzione a piccoli dettagli come questi è f ondamentale per produrre fotografie nitide, ma bisogna accertarsi di non esagerare o di non modificare in alcun modo l’oggetto o il santuario.
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Mentre fotografava gli Au Kosker zogo nella loro caverna: “Sostituì la testa ma non riusc ì a fare la stessa cosa con l’altra, che sistemai accanto al corpo – dopo parecchi problemi riuscimmo a mettere a fuoco e lasciammo l ì la macchina f otografica per un’ora circa, per l’esposizione. Con nostra grande sorpresa la sera, quando sviluppammo il negativo, scoprimmo che era piuttosto buono”.15 In tutti questi casi Haddon aveva diretto delle rappresentazioni. Con il gesto di rendere visibile e ricostituire qualcosa “com’era prima”, il re-enactment passa al congiuntiv o, al “come se” – che Dening ha identificato con il reenactment e la modalit à teatrale della Storia. È significativo che tutti i siti di re-enactment dello stretto di Torres, indipendentemente dalla loro densità, siano in relazione con siti dal significato sacro e rituale. In questo senso, le f otografie di re-enactment diventano articolazioni di desideri, presupposti e intuizioni dello stesso Haddon, confermati dagli effetti di realtà conferiti dalle fotografie. Haddon si realizza nei suoi desideri soggettivi attraverso un processo di simulazione di mondi storici e mitici. Tuttavia è f ondamentale notare che, mentre l’etnografia di recupero coglie ciò che esiste, nel re-enactment ciò che non esiste pi ù o ci ò che è invisibile viene ricostruito e reintegrato, a volte portando con s é un elemento di resurrezione. Nel modello di Lynch della pratica metodica del re-enactment, l’invisibile si trasforma in rappre-
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sentazione visiva, prima attraverso il “teatro” e poi attraverso la fotografia. L’etnografia di recupero, che tenta di impedire la scomparsa dell’autenticità, ha aperto lo spazio per la metafora, per l’allegoria e una possibilità di teatro: “La comprensione della transitorietà delle cose e la preoccupazione di recuperarle ed eternarle costituiscono uno degli impulsi pi ù forti verso l’allegoria”. Forse in questo contesto è utile intendere il re-enactment come una performance. Qui div enta centrale la definizione di perf ormance data da Peacock: vita condensata, distillata e concentrata, occasione in cui le energie sono altamente polarizzate. Infatti la fotografia, il cui soggetto viene racchiuso ed esaltato dalla cornice, assume una qualità performativa. Come la perf ormance o il teatro, la f otografia concentra visione e attenzione in un determi nato modo. Le perf ormance sono una realt à a parte, e anche le f otografie, perché appartengono ad altri tempi e ad altri luoghi. In questo senso, la f otografia di Kwoiam è “buona per pensare” perché racchiude le qualità performative della cornice f otografica, che costruisce e concentra la performance per quanto riguarda il contenimento e la proiezione del soggetto all’interno della cornice. Le performance, come le fotografie, incarnano il significato attra verso proprietà significanti e sono tentativi deliberati e consci di rappresentare, di dire qualcosa su qualcosa. Qui l’etnografo diventa, attraverso il
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re-enactment, un facilitatore, colui che immagina o dirige la contin uità, attivo nella perf ormance della cultura. Le immagini relative alla morte di Kwoiam permettono una lettura molto pi ù profonda delle tematiche dell’etnografia di recupero, non solo nello stretto di Torres, ma anche per quanto riguarda l’intero concetto di re-enactment e di verità storica, di fluidit à tra passato e presente e del modo in cui viene documentata. Queste immagini possono anche essere messe in relazione con paradigmi molto più ampi che abbracciano l’antropologia, e questo offre al re-enactment delle possibilit à intellettuali. Molte f otografie prodotte all’interno di questa ampia cornice di possibilità intellettuali sono state suggerite, come le fotografie dello stretto di Torres, dalla scomparsa del soggetto desiderato. Ricostruzione e posa Dopo averla identificata, vediamo che un’ampia gamma di materiale f otografico di stampo antropologico appartenente a questo periodo, e anche oltre, è in grado di attingere le proprie certezze, e più tardi anche i propri dubbi, dai paradigmi f ondanti che abbiamo gi à descritto. Questo materiale potrebbe allo stesso modo essere analizzato con il concetto di re-enactment e la confluenza tra validità scientifica e soggettività. Qui posso solo indicare alcuni esempi, che
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però costituiscono la rappresentazione di un paradigma altamente complesso. Tra i più noti ci sono le ricostruzioni o re-enactment realizzati da Franz Boas davanti all’obbiettivo, per documentare tecnologie e attività culturali Kwakiutl, come la lavorazione della corteccia di cedro o i danzatori Hamatsa, per “far v edere come”. È significativo che in origine Boas avesse studiato medicina e, come Haddon e Rivers, sottolineasse il valore dell’educazione scientifica per compiere un lavoro sul campo basato su obiettivi rigorosi (Schaffer 1994:28-33; Morris 1994:64). Boas racchiuse la sua indagine antropologica, anche se non identica a quella della spedizione nello stretto di Torres, in termini scientifici e utilizzando i valori della strumentazione scientifica. Queste tecniche erano importantissime per il metodo di Boas, fondato su un’antropologia e un metodo di raccolta museali.16 Tuttavia molte delle sue immagini hanno una f orte qualità dimostrativa. Per esempio, in una f otografia di una donna Kwakiutl che fila,17 gli orli del tessuto in secondo piano, sorretti da George Hunt, assistente e collaboratore Kwakiutl di Boas, e lo steccato alle sue spalle, sono chiaramente visibili, documentando così la costruzione della documentazione scientifica della foto, anche se in seguito le tracce furono cancellate. L’utilizzo del re-enactment durante la spedizione nello stretto di Torres ha un parallelo contemporaneo nella spedizione Jesup nel Pacifico del Nord. Come la
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spedizione nello stretto di Torres, si tratt ò di un’ampia ricognizione etnografica, diretta da Boas, di una regione culturale, che contribuì con numerose discipline specifiche a un’etnografia di recupero dei popoli di cacciatori e raccoglitori della tundra russa e della costa americana del Pacifico nord-occidentale. In base ai metodi museali di Boas, i popoli indigeni furono reclutati per la drammatizzazione di culture precedenti mentre, al tempo stesso, fu attuata una soppressione deliberata di oggetti e comportamenti percepiti come ibridi e poco autentici.18 Anche Malinowski, nell’ambito dell’osserva zione partecipante, utilizz ò il re-enactment per dimostrare azioni culturali passate: per esempio, nelle sue f otografie riguardanti la magia di guerra (Young 1998:123). Anche se le fotografie in posa o di re-enactment sono relativamente poco frequenti nel corpus f otografico di Malinowski, lui non le considerava necessariamente incompatibili con la sua nozione di osservazione: “Se conosci bene un tema e riesci a controllare gli attori indigeni, le f otografie in posa sono quasi valide come quelle scattate in flagrante”. Tuttavia Malinowski fa molta attenzione a tracciare una distinzione, che diventa così una potente affermazione dell’importanza dell’osservazione. Per esempio nella didascalia della ta vola 100 di Coral Gardens, “Bwaideda che compie una magia della coltivazione”, Malinowski continua a sottolineare l’immediatezza e la naturalezza della foto-
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grafia in questione: “Questa fotografia non è stata costruita, ma scattata durante lo svolgimento del rito gibuviyaka e mostra la concentrazione sul viso del mago...”. 19 Questa preoccupazione per l’osservazione diretta e la documentazione non mediata fa parte del paradigma mutev ole di autorità e autenticit à. In altre parole, sono stati avanzati dei dubbi sulla validità del re-enactment come prova valida. Le fotografie di re-enactment hanno un legame (ma devono essere distinte) con le fotografie limitate dalla tecnologia disponibile per documentare le immagini desiderate. Tuttavia, questo ha un equivalente scientifico, perch é le tattiche degli sperimentatori erano ovviamente dettate dal tipo di strumenti di cui erano dotati. Queste dimostrazioni, determinate dalla situazione tecnologica, spesso si traducevano nel chiedere alle persone di sv olgere delle attivit à alla luce del giorno, in modo che fosse possibile fotografarle. In Australia centrale, pare che Spencer e Gillen abbiano chiesto di assistere a un corroborree di giorno. La fotografia di Malinowski che ritrae il cadavere di un uomo decorato con oggetti di valore fu ricostruita all’esterno della capanna in modo che fosse possibile scattarla. Jenness chiese ai bambini di Bwaidoga di giocare da vanti all’obbiettiv o e anche Malinowski chiese che si giocasse di giorno. Alcuni anni dopo Bateson spiegò chiaramente la distinzione concettuale tra re-enactment,
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fotografia di posa e creazione del “contesto, permettendo all’azione di sv olgersi naturalmente mentre vengono scattate foto e presi appunti”. Bateson sostenne che quest’ultima strategia, per esempio pagare qualcuno per ballare o chiedere a una madre di ritardare il bagno del bambino finché il sole non f osse stato alto, era molto diversa dall’organizzare fotografie in posa, perché non influenzava il comportamento, ma semplicemente lo faceva scattare. Tuttavia il valore dominante era la spontaneità senza mediazioni: “Cercammo di scattare immagini di ciò che accadeva normalmente e spontaneamente, invece che decidere cosa f otografare e poi chiedere ai balinesi di compiere determinate azioni nella luce più adatta”. Questo suggerisce non solo nozioni div erse di “posa”, ma anche che certe forme d’intervento sono div entate naturali all’interno delle relazioni dell’osservatore scientifico sul campo.20 La validità documentaria del re-enactment, nata dalla pratica scientifica, ha forse causato l’ambiguità dell’identità scientifica di alcuni dei progetti più noti. Per esempio, il magnifico la voro fotografico di Edward Sheriff Curtis sulle culture native americane era decisamente basato sulla ricostruzione, il re-enactment e la rappresentazione di un passato storico, venato di nostalgia e di desiderio di recupero. Stranamente, mentre accadevano queste cose, nel 1919 Haddon incontrò Curtis in una sweathouse Blackfoot in Mon-
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tana e scrisse un diario, pieno di poetica del recupero, di quell’evento e delle loro esperienze con i Blackfoot.21 Anche nel film di Curtis, In the Land of the Headhunters (1914), viene in parte impiegato il re-enactment, come f ece anche Robert Flaherty nel suo film sulla vita degli In uit, Nanook of the North (1922). Entrambi utilizzarono una forma di allegoria etnografica attraverso la manipolazione narrativa del soggetto, che consisteva nell’uso interv entista di popoli indigeni come attori in sequenze dirette di ricostruzioni dettagliate delle loro culture.22 Questo non significa sostenere che questi reenactment f ossero ingen uamente visti come “reali”, e nemmeno che avessero lo stesso valore di verità. Dal punto di vista perf ormativo, i reenactment non erano nemmeno tutti uguali ; si andava da quelli prodotti dagli attori a quelli voluti e sollecitati dagli etnografi. Anche se la fotografia li ha naturalizzati, attribuendo a tutti lo stesso valore, come sostenne Bruner (1994) parlando di autenticità, ciascuno va visto all’interno della matrice mutevole di ciò che è storicamente specifico, storicamente determinato e storicamente implicito. Tuttavia, come ho gi à sostenuto, le pre-condizioni intellettuali per l’espressione della cultura concedevano al reenactment una validit à dimostrativa e, attraverso la fotografia, il congiuntivo del “come se” diventa la forma attiva del presente. Il re-enactment soddisfaceva sia le richieste scientifiche sia
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una valutazione di ci ò che era credibile e convincente all’interno di determinati parametri culturali. Qui sta certamente la chiave affettiva del rapporto tra recupero e fotografia. Counter-narrative Tuttavia, esistono accenni di un’altra prospettiva sul re-enactment; quella della gente dello stretto di Torres, che supera l’approccio scientifico e allegorico discussi fin qui. Inoltre, è una prospettiva che non è possibile ridurre alle facolt à mimetiche dell’alterit à utilizzate nell’incontro come spiegato da Taussig (1993). Sarebbe un errore, e sicuramente lo sarebbe nel caso dello stretto di Torres, caratterizzare necessariamente coloro che compiono il re-enactment, o attori, come oggetti demoralizzati o passivi, costretti a esibirsi davanti all’obbiettivo da un’implicita autorità coloniale. Questo non significa dire che l’azione non abbia una risonanza coloniale, ma che si tratta va di relazioni pi ù ambigue, complesse e sfumate. L’azione, come ho sostenuto in relazione alle fotografia di Acland dei samoani, si basa sull’idea che gli attori a vrebbero potuto comportarsi diversamente. Qui il re-enactment diventa un luogo di etnografia negoziata, influenzata dalle diverse soggettività dei presenti – attori, registi e pubblico. In questo senso, il reenactment è parte dei “contrassegni indigeni nei testi coloniali, il marchio obliquo delle azioni, dei
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desideri e dell’influsso indigeni sull’immaginazione imperialistica”. Ne emerge il potenziale per riconoscere diversi livelli di documentazione, autorità e direzione etnografiche che hanno operato nella documentazione antropologica dell’Ottocento, dal punto di vista visiv o e testuale. È paradossale che i punti di frattura appaiano più visibili attraverso il re-enactment che, agli occhi degli studiosi della fine del XX e dell’inizio del XXI secolo, appare la f orma più interventistica di documentazione antropologica. Il re-enactment e la perf ormance sono strumenti sociali potentissimi in molte culture, e nei processi cognitivi della conservazione di elementi culturali è profondamente implicita la mimesi, che costituisce la base dell’acquisizione dell’esperienza collettiva.23 I re-enactment commemorativi del mito erano, come in molti altri luoghi, f ondamentali per il sistema religioso dello stretto di Torres. Rituali come le danze Malu Bomai traducono il tempo mitico parallelo al presente attraverso la performance, una performance che, come la fotografia, cita continuamente il passato. I re-enactment costituivano un’espressione conscia degli elementi soppressi dalle Missioni nell’ultimo quarto dell’Ottocento. Inoltre, il re-enactment o perf ormance basata su citazioni era un’espressione del passato che era familiare agli uomini dello stretto di Torres. Liberava la soggettivit à delle Storie personali degli abitanti delle isole, perché l’atto di raccon-
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tare storie in una tradizione di Storia orale è un atto di riaff ermazione performativa – un reenactment verbale. In tutto questo, come in molte fotografie, è implicito un senso dell’oralità.24 Le fotografie sono, come hanno sostenuto molti commentatori, immerse nella lingua. Si ha la forte sensazione che le f otografie di re-enactment scattate nello stretto di Torres, e f orse anche le f otografie di Boas, siano emerse dalla narrazione. Haddon, come Boas, sottolineò l’importanza dei “testi” orali e i resoconti della spedizione sono pieni delle voci di isolani che hanno un nome.Furono Papi, Ailumai, Nomoa, l’ex capo, e Waria, capo nel 1898, a raccontare a Haddon la storia della morte di Kwoiam.25 Inoltre Haddon collega l’oralità e la f otografia nelle f otografie zogo: “Quando è tutto pronto viene scattata la f otografia e poi ci sediamo e io chiedo a un indigeno di raccontarmi la ‘storia’ [in italiano nel testo]...”26 e vengono nominati sia le immagini sia i narratori, sottolineando il forte legame tra orale e visivo. Tutto questo fa parte del processo attraverso cui frammenti e “ storia” [in italiano nel testo] si traducono in Storia, fondendo immaginazione e prova. Uno schizzo della morte di Kwoiam, che è stato trovato su un f oglio staccato nelle annotazioni che Haddon scrisse sul campo,27 è quasi identico alla fotografia. Che si tratti del risultato di una narrazione, una traduzione finalmente fissata
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con la f otografia? Qualunque sia l’identit à di questo particolare documento, il rapporto tra oralità e f otografia va oltre la cornice, grazie alla teatralità, al gesto e alla performance della narrazione. Ascoltare attentamente ciò che avevano da dire gli isolani fu una delle caratteristiche della spedizione dello stretto di Torres, anche se in alcuni casi fu fatto nel modo sbagliato. Anzi, furono proprio la f orte base orale della spedizione e la sua attenzione a chi parlava a rendere i documenti così preziosi come risorsa e strumento nel rinnovamento culturale per la gente dello stretto di Torres oggi. Per contro, le esperienze soggettiv e nelle relazioni di potere inerenti alla produzione del reenactment vengono a galla anche nella morte di Kwoiam. La richiesta di re-enactment avanzata da Haddon mette a fuoco questa asimmetria. Haddon annota che l’attore ebbe bisogno di molte insistenze per convincersi a togliersi i vestiti e adottare la posa di Kwoiam morente. Esistono parecchie letture di questo comporta mento, che non si escludono l’un l’altra.Haddon lo attribuisce a una timidezza in qualche modo incongrua – le convinzioni degli isolani sulla nudità erano molto forti e peculiari; tuttavia, si può ipotizzare che questa non fosse l’unica motivazione. Forse è significativo che dove Haddon elenca i nomi degli uomini che presero parte ai diversi re-enactment e dimostrazioni nello stretto di Torres, l’attore resti anonimo e non
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Abbozzato nella narrazione? La morte di Kwoiam. Disegno a inchiostro nel taccuino di Haddon (Per gentile concessione del Cambridge University Museum of Archeology and Anthropology, Haddon papers Env. 1053).
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identificabile, il viso nascosto.28 Forse dal punto di vista di Haddon chiamare per nome l’attore non era necessario: in questo caso non rientrava nel discorso su autorità e autenticità, perché l’attore era Kwoiam, mentre l’autenticit à del reenactment dello zogo si basava precisamente sulle identità degli attori e, di conseguenza, sulle loro genealogie. Inoltre, forse l’attore non voleva essere identificato – forse non aveva alcun diritto, in base all’organizzazione religiosa dello stretto di Torres, di essere identificato con Kwoiam. Dato il potere della storia di Kwoiam e l’importanza delle divisioni della conoscenza nella società occidentale dello stretto di Torres, possiamo comprendere pienamente la preoccupazione dell’attore per queste trasgressioni multiple. Però Haddon riuscì a persuaderlo. Questo ci riporta a spiegazioni radicate nelle asimmetrie dei rapporti di potere coloniali, e ci permette di rievocare l’affermazione di Brunner secondo cui l’autorit à di autenticare è una questione di potere. Anche se la morte di Kwoiam è forse una elaborazione problematica dei rapporti trans-culturali, a causa della complessità del soggetto e dei significati che gli sono attribuiti, in termini pi ù ampi è chiaro che gli isolani dello stretto diTorres furono parte attiva, e fino a un certo punto anche autori, dei re-enactment, e che si inserirono nell’etnografia tramite la v ersione della cultura data all’etnograf o. Per esempio, Pasi e altri uomini di Mer, nello stretto di Torres orien-
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tale, interpretarono re-enactment come le danze del cane e del piccione a Las o le danze della morte, esaurientemente fotografate da Haddon, Wilkin e Myers e comparv ero nel film delle danze Malu Bomai. Come ha sosten uto Herle, questi re-enactment non erano semplicemente “un tentativo disperato di etnografia di recupero, ma uno spostamento, un riposizionamento, che enfatizza la performance e l’esperienza”. La descrizione di Haddon dell’evento come “una fantasia in rosso e v erde illuminata da macchie di sole” sottolinea la poetica della situazione. È chiaro che gli uomini di Mer erano partecipanti attivi ed entusiasti. Ci si chiede quale ruolo possa avere ricoperto il re-enactment, con i suoi insistenti riferimenti al passato, nella “rivolta” riferita dal dipartimento del ministero degli Interni del Queensland nel 1899, nonostante il n umero limitato di attori. 29 L’entusiasmo per questi reenactment concentra l’attenzione sul disagio per la morte di Kwoiam. Ci fu grande eccitazione quando furono costruite le copie delle maschere in cartone per Haddon, e gli uomini coinv olti, Wano ed Enocha, furono estremamente soddisfatti del prodotto finale. Le maschere furono segretamente mostrate agli anziani, che ebbero una reazione emotiva ;30 anzi, quando Haddon indiscretamente mostrò le maschere alle donne, ci fu una certa preoccupazione. 31 Così, se Haddon può essere stato un catalizzatore e a vere dato inizio all’azione con le sue richieste e con il
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suo ampio controllo, la “prova” specifica da documentare fu dettata dagli isolani, che “recitarono” azioni sociali e miti ma alle loro condizioni.32 Schechner ha descritto il ruolo registico dell’etnografo sul campo come intrinsecamente teatrale: “Esiste in una condizione liminale, in una situazione di transizione. Non è l’attore, e certamente non è uno spettatore. Si trova nel mezzo... tra due sf ere di attualit à”. Anche se Haddon considerava il re-enactment e la fotografia come racchiusi all’interno della cornice dell’indagine scientifica, la sua situazione rimane ambivalente. Sembra che questi atti di re-enactment e ricostruzione, tramite i loro legami con la soggettività e gli elementi allegorici dell’etnografia di recupero e con l’attivit à degli uomini dello stretto di Torres, riattribuiscano un significato alle azioni sociali passando attraverso l’incarnazione soggettiva e sensoriale. Questa posizione riecheggia nei commenti di Haddon all’inizio del primo volume (in realtà pubblicato per ultimo ) dei resoconti della spedizione: “ Dal 1888 ho costantemente cercato di recuperare la vita passata degli isolani, non solo per offrire un’immagine della loro condizione esistenziale precedente e delle loro attivit à sociali e religiose, ma anche come metro per la valutazione dei cambiamenti che si sono avvicendati da allora”. L’interazione di re-enactment e realt à fotografica suggerisce una prof onda stratificazione etno-
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grafica nel lavoro della spedizione, delle relazioni tra scienza, allegoria e immaginazione nella creazione di un’autenticità, in termini sia soggettivi sia scientifici. Come ha suggerito Dening, è nel teatro della Storia che “capiamo la trama”, che vediamo il significato delle cose. In origine la parola fictiones – fiction – significa “qualcosa di creato”, un atto di immaginazione ; tuttavia, non si tratta necessariamente di esperimenti falsi, irreali o semplici “come se”, ma di strade diverse per ottenere l’espressione di realt à storiche. La performance rende sfocata la distinzione tra apparenza e fatto, superficie e profondità, illusione e sostanza. Attraverso la proiezione, l’intensificazione e la concentrazione, lo scientifico e il poetico si uniscono ; attraverso la sua mutev olezza l’immagine fotografica è in grado di operare in due registri diversi. Conclusione La morte di Kwoiam si spinge oltre l’etnografia di recupero dell’esistente. Come ho gi à suggerito, passa al modo congiuntivo, al “come se” – “come se f osse andata cos ì”, che Dening ha identificato con il re-enactment e la modalit à teatrale della Storia. Qui è particolarmente pertinente l’affermazione di Certeau, che il “come se” sia la fede nell’intelligibilità di quelle cose che più resistono ad una piena comprensione, come forse i miti. Attraverso il re-enactment, i modelli
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scientifici si ricollegano a ciò che manca loro, ai discorsi soggettivi che li influenzano, spostando in un altro ambito possibilità di documentazione e interpretazione. Nel re-enactment il non pi ù esistente o l’invisibile si ricostruiscono e riaffermano, acquistano perfino un elemento di resurrezione. Intanto, le fratture tra f otografia e il suo effetto di realtà danno un’apparenza di esistente: la Storia mito-poetica diventa reale, visibile, tangibile. Al tempo stesso, conf onde la distinzione tra Storia e poesia, e quindi la natura della prova, lo studio degli eventi realmente accaduti, distinti dall’immaginazione degli ev enti che sarebbero potuti accadere. Inoltre, il reenactment è teatrale non solo perché replicabile, ma è l’accentuazione della realtà attraverso l’intensità f orzata dell’istante f otografico, come azione e come immagine. L’aspettativa culturale della veridicità della f otografia, le tensioni tra ambiguità temporale e spaziale e le certezze mimetiche della fotografia, naturalizzano le qualità teatrali del re-enactment nella creazione di effetti di realtà. Qui la fotografia affronta l’idealismo platonico che diffida delle rappresentazioni della realtà e quindi anche della performance. Trovo che questa sia un’immagine straordinaria, se riflettiamo sul conten uto per quanto riguarda le retoriche ontologiche del mezzo. Racchiude il rapporto tra la fotografia, agente sociale di documentazione scientifica, performance e Storia e l’affermazione che “è nel
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teatro che troviamo la v erità”, e qui ci convinciamo dell’attualit à e della realt à di Kwoiam. Ecco perché la fotografia di Kwoiam è così utile per riflettere. È doppiamente mimetica grazie al re-enactment e alla f otografia, e nel punto di contatto tra due Storie che s’intersecano. Se questa esplorazione del re-enactment e della fotografia ha oscillato tra scienza e teatro, è stato intenzionale, perché non esiste un metodo sicuro per separare in queste fotografie ciò che è scientifico dall’allegoria. L’affermazione di Stafford sembra riassumere questo problema: “Fare arte è come condurre un esperimento, nella misura in cui queste due azioni producono f enomeni artificiali... le situazioni sono escogitate per costringere un comportamento culturalmente invisibile ed eventi non visti a manifestarsi. Quindi un’esemplificazione pittorica convincente potrebbe sostenere di essere ‘storicamente [o culturalmente/antropologicamente] accurata’”. Come è stato sostenuto, spostare i valori della verità dalla scienza di laboratorio all’osservazione rappresentata in situazioni di ricerche antropologiche sul campo sposta anche i confini dell’accettabilità metodologica e probatoria e della moralità scientifica che vi è associata. Mentre il re-enactment, all’interno del paradigma da laboratorio della dimostrazione controllata di f enomeni isolati, rispettava le norme riconosciute della moralità scientifica, all’interno dei n uovi paradigmi dell’osservazione sul campo, priva di mediazioni, questo intervento non supera l’esame della moralità scientifica nella produzione di prove. Spero di 260
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avere suggerito il modo in cui il re-enactment acquista un’identità ambigua: la sua razionalit à intellettuale è emersa dalle tecniche della scienza di laboratorio e dal desiderio di controllo e obiettività, ma il re-enactment è anche capace di articolare l’opposto, l’articolazione di desideri soggettivi e il luogo di Storie che si intersecano: “I passati sono passato e presente insieme: se ne sono andati, li possiamo conoscere solo come Storie, attraverso i loro detriti variamente “testualizzati”, scritti, visualizzati, parlati, ricordati ; ma le Storie sono sempre atti presenti di concezione e rappresentazione”. Tutti questi fili di Storia complessa, identificati da Douglas, si incrociano nella fotografia della morte di Kwoiam. Quindi questo costituisce un documento scientifico in quanto oggetto rivelatore, nesso tra l’intenzione scientifica, la natura della prova e la struttura del sentimento e della compulsività romantica tipici del paradigma del recupero. La fotografia, attraverso la sua mutevolezza e le sue capacità “performative”, “soddisfa le aspettative contemporanee del... valore inf ormativo, non perché obiettive o mimeticamente autentiche, ma a causa della loro particolarit à e capacità di condensare sensazioni complesse...”.
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Note 1. Qui sto seguendo il modello tracciato da Lynch (1988: 203). 2. Un’eccezione degna di nota è Griffiths (1996/7). 3. Tuttavia, la posizione non è limpida. Nell’ambito del film documentaristico l’idea di una giustificabile ricostruzione degli ev enti che avevano avuto luogo, o che erano pratica normale, era distinta dalla ricostruzione di ev enti che non a vevano mai a vuto luogo. Mentre l’ultimo caso era inaccettabile, il primo era accettabile essendo la ricostruzione di eventi che potevano essere accaduti (Winston 1995: 120-3). 4. Rivers era f orse il membro pi ù importante della spedizione in termini di future imprese come scienziato e di energia intellettuale che infuse nella Spedizione e contemporaneamente guadagn ò dalla sua esperienza nello stretto di Torres. Si v eda (Slobodin (1978); Langham (1981). Di recente Rivers è stato reso ancora più famoso dalla trilogia di Pat Barker Ghost Road, e dal film che ne fu tratto, Regeneration. 5. Per un resoconto dettagliato del reclutamento dei membri della spedizione si vedano Stocking (1995:98-126); Quiggen (1942:95-9). Il documento della Spedizione è rappresentato dai sei v olumi del rapporto della Spedizione 1901-1935. Per una valutazione dettagliata dei traguardi raggiunti dalla Spedizione dello Stretto di Torres e del suo nell’antropologia britannica si veda Urry (1993:6182). Si veda anche Rouse (1998:56-7). 6. Si potrebbe anche estendere alla f otografia: per esempio, l’isolamento del movimento di fronte alla macchina f otografica in funzione di verifica, nel lavoro di Marey e Muybridge tra il 1870 e il 1890. 7. Con Huxley, Foster trasformò negli anni successivi al 1879 l’insegnamento delle scienze biologiche, insistendo sul lavoro pratico. 8. Ora nelle collezioni del Cambridge University Museum of Archeology and Anthropology. 9. Ho analizzato altrove la relazione tra l’etnografia di recupero romantica e l’intensit à fotografica (Edwards 1998, 2 000). Vedi anche Tobing Rony (1996: Capitolo 4). 10. Essendo interessato all’interpretazione dell’ev ento data da Haddon, ho pref erito la sua translitterazione, “ Kwoiam” all’attuale “Kuiam”. 11. CUL. HP Journal 1888-89:67.
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12. Per un resoconto completo della storia di Kwoiam e della sua morte, di veda Haddon (1901-35, V:67-83) 13. CUL. HP Diary 1898:190. 14. Zogo è un luogo sacro che pu ò assumere varie sembianze, come oracolo o oggetto potente, oppure gli sono attributi poteri speciali. 15. CUL.HP Box 10/1030 Diary 1898:85. 16. Per una discussione della f otografia di Boas si v eda Jacknis (1984:14, 50-1). Boas stava riproducendo (re-enacting) la cultura per il cinema dal 1930; si veda Morris (1994:63-4). 17. Presa per Boas da Oregon C. Hastings a Fort Rupert, 1894. 18. Per esempio il festival Sakha ys akh fu celebrato fuori stagione per venire incontro al programma di Jochelson, l’etnografo russo che lavorò in Kamchatka con la Spedizione Jesup. 19. Malinowsky fece anche una serie di re-enactment dell’atto sessuale, che descriv e in dettaglio ne La vita sessuale dei selvaggi. Comprensibilmente, non vennero mai pubblicate e poiché gli attori erano dei ragazzi giovani, furono soggette a interpretazioni er ronee. Si veda Young (1998: 21-2). 20. Un commentatore recente ha reso omogeneo e glossato in modo significativ o queste sfumature d’interv ento definendole “messe in scena” (Sullivan 1999; 21-2). 21. Haddon scrisse a Clark Wissler: “Chi è Mr. E. S. Curtis... Si è offerto di accompagnarmi in qualche spedizione ma non so chi diavolo sia o cosa diavolo faccia.” Citato in Gidley (1982). 22. Per una discussione di Nanook si veda Tobing Rony (1996:99115); anche Ruby 1979. 23. In questa associazione, Poignant (1996b) ha analizzato un’interessante serie di fotografie (prodotte come cartoline) della rievocazione di un evento storico, la sommossa di Fort Dundas del 1824, fatte da Ryko (Edward Reichenbach) intorno al 1916. La storia stessa della sommossa fu re-enacted nella danza Tiwi, stabilendo una catena di associazione tra le cartoline e le letture Tiwi della storia, entrambe trasmesse tramite re-enactment incrociati. 24. Ringrazio la mia collega Laura Peers per a ver sollevato la questione e per la sua interessante discussione del tema. 25. Per una moderna narrazione della storia, si v eda Mosby (1998:22-3). 26. CUL. HP Diary 1898:90 27. CUL. HP Env. 1053.
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28. Sono grato a Jude Philp per avermi fatto notare la questione e per la discussione che ne è sfociata. 29. CUL. HP Envelope 1022. 30. Per un’analisi approfondita della creazione delle maschere di cartone e il loro effetto si veda Herle (1998: 121-5). 31. Sebbene le fotografie fossero parte della relazione reciproca tra la Spedizione e gli abitanti delle isole (si veda Edwards 1998: 121-5) non si hanno prove che la fotografia di Kwoiam o le immagini dei relativi siti sacri fossero state mostrate ai nativi. Anche se esistono delle lastre pare che siano state fatte in seguito per usi “scientifici”. 32. Per esempio non riv elarono mai ad Haddon il significato del sacro Bomai. Sharp afferma (1999: 542-3) che oggi gli anziani diMer credono che i loro bisnonni abbiano preservato parti importanti della loro cultura negli unici modi che avevano a disposizione all’epoca.
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FOCUS IV: JAMES BECKETT
BAGNOLI AND ITALSIDER (AS EXTRACT-ARRANGEMENT) LIMBURGERHOF (THE AGRICULTURAL EXTRACT-ARRANGEMENTS) DALMINE (AND OTHER INDUSTRY EXTRACT-ARRANGEMENTS)
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1 Manuale per l’utilizzo e la manutenzione di macchinari dal ‘Dipartimento per la Produzione di Cose Inutili’. (estratto 1), 2009 Un manuale romanzesco per il “Dipartimento di Produzione di Cose Inutili”, progetto dell’artista Giancarlo Neri per il dipartimento, fondato in occasione della chiusura della fabbrica Italsider nel 1992. 9 pagine del manuale, incorniciate, 35 x 25 cm (ciascuna), collezione privata, Roma.
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2 Attività Ricreative di Bagnoli, 2009, La banchina dell’ “Ilva Circolo Canottieri”, gravemente inquinata dalle ex attività industriali, è ora praticamente inaccessibile, insieme ad un ritrovato manifesto per un evento musicale al “Circolo Ilva”, club per gli impiegati dell’ex fabbrica. Mensola di legno, archivio fotografico rinvenuto, cartolina, manifesto, trofeo, 92 x 29 x 5 + 42 x 30 cm + 23 x 28 x 21 cm, Collezione Giovanni Capasso, Napoli
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7 Manuale per l’utilizzo e la manutenzione di macchinari dal ‘Dipartimento per la Produzione di Cose Inutili’. (estratto 2), 2009 Per spiegazione si vedai: “Manual … (extract 1)” # 1) 2 pagine di manuale, incorniciate, 35 x 25 cm (ciascuna), Collezione privata Arezzo
3 Bambini di Bagnoli, 2009
8 Mensola 2, (busta e altro), 2009 Mensola di legno, vetro, cravatta originale, raccoglitore, busta, documentazione del progetto,170 x 34 x 5 cm, Collezione privata Torino
L’immagine mostra un programma di attività ricreative per i figli degli operai della fabbrica Italsider. Macchina da cucire montata su tavola, 35,5 x 27 cm, Courtesy Galleria T293, Napoli
9 Cravatta, 2009 Copia della cravatta commemorativa, Bagnoli-Italsider, circa 1960. Mensola di legno, vernice, vetro, 92 x 22 x 5 cm, Courtesy Galleria T293, Napoli
4 Filtri 1, 2009, Filtri dell’olio rinvenuti, vetrina, 77 x 74 x 12.5 cm, collezione privata Roma
5 Positivo 1 e 2 (ruota), 2009 Quando una grande parte del macchinario è danneggiata o deve essere sostituita, viene costruito un facsimile di legno in preparazione alla realizzazione dello stampo. Facsimile ritrovato della parte di un macchinario, modello in legno, vernice, originale: 46 Ø x 10 cm, modello: 20 Ø x 6 cm, Courtesy Galleria T293, Napoli
6 N.19, 2009 Archivio di documentazione Italsider dipinto a mano, china e acrilico bianco su carta, incorniciato, 130 x 90 cm, Courtesy Galleria T293, Napoli
10 Cose verdi provenienti da Bagnoli, 2009. Oggetti trovati in loco nell’ex complesso industriale di Bagnoli: grembiuli, spremiagrumi, vetrina, 94 x 36 x 34 cm, Collezione privata Arezzo 11 Scatola 1 e 2, 2009 Panoramica di una scatola contente i cerchi per tagliare la gomma, ‘O’ cerchi con copia. Scatola originale, legno, acciaio, vernice grigia, 40 x 23 x 9 cm, Collezione Agi Verona 12 Argento su bianco, 2009 Opuscolo ritrovato per il processo industriale automatico introdotto nel 1984, che fu causa della riduzione del numero degli impiegati da circa 8.000 a circa 4.000 a Bagnoli. Opuscolo rinvenuto con scarabocchi a matita, doppia cornice di vetro, Collezione privata Napoli 13 Positivo 5 (Cross section), 2009 Per la spiegazione si veda: “5) Positivo1 e 2”. Facsimile ritrovato della parte di un macchinario, modello in legno, vernice, 20 x 17 x 12 cm, Courtesy Galleria T293, Napoli
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LIMBURGERHOF (THE AGRICULTURAL EXTRACT-ARRANGEMENTS)
14 Grano uno e due, 2008, Documentazione del trattamento chimico fertilizzante di due diverse coltivazioni. China, gouache, e penna bianca su carta, dittico, 52,5 x 52,5 cm ciascuno, Collezione Alexander Ramselaar. 15 Portacenere uno e due (Fire Extract-Arrangements), 2008 Vetrina, modello scultura posacenere in legno, posacenere con logo BASF, 12 x 40 x 28 cm, Collezione Antoine Acthen, Rotterdam 16 Sacco d’argento, 2008, Portachiavi in argento, 10 x 3 x 2,5 cm, Courtesy l’artista e Wilfried Lentz Gallery, Rotterdam.
17 Sacco uno e due, 2008 Sacco originale del 1919, contenente 100kg di Sanitro, sostanza esplosiva comune come fertilizzante. Vetrina, sacco ritrovato con la struttura, multiplo con innesco,100 x 80 x 35 cm (vetrina) 79 x 57 x 26 cm (scultura), Collezione privata Asiago.
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LIMBURGERHOF (THE AGRICULTURAL EXTRACT-ARRANGEMENTS)
23 Senza titolo (grano), 2009,
27 Senza titolo (Fire Extract-
32 Mensola 2, 2008
Vari trattamenti fertilizzanti chimici di colture di cereali, della documentazione del centro di ricerca generale Limburgerhof China, gouache and matita bianca su carta, 62 x 90 cm, Collezione Mauritz Hertzberger.
Arrangements), 2008 Boccale BASF capovolto in vetrina da orologio bavarese del XIX secolo, 48,5 x 31 x 17 cm, Courtesy l’artista e Wilfried Lentz Gallery, Rotterdam.
Pubblicazioni del centro di ricerca Limburgerhof, 30 x 100 x 10 cm, Courtesy l’artista e Wilfried Lentz Gallery, Rotterdam
24 Senza titolo (vasi), 2009
Tre fasi di crescita di fiori in cui è stato utilizzato il trattamento fertilizzante. Macchina da cucire. Trittico, 9 x 45 cm ciascuno, Courtesy l’artista e Wilfried Lentz Gallery, Rotterdam.
Un’immagine del 1921, presa da uno zeppelin, a seguito di una grande esplosione di nitrato di ammonio e solfato nel magazzino di attrezzature di BASF a Oppau. China, gouache, evidenziatore e matita bianca su carta, 52,5 x 82,5 cm, Courtesy l’artista e Wilfried Lentz Gallery, Rotterdam
29 Piatti e coltelli, 2008
34 anelli porta chiavi, 2008
Vetrina, 2 piatti, 2 coltelli, 50 x 110 x 24 cm, Collezione Gaby Miketta Monaco
Il Pyramin è un elemento chimico tipico degli anni Ottanta. Il portachiavi ha la forma di una carota e si raddoppia come un apri bottiglia. Vetrina, e due portachiavi ritrovati, 22 x 100 x 16 cm, Collezione Francesca Ferrarini
Vari trattamenti fertilizzanti chimici di colture, della documentazione del centro di ricerca generale Limburgerhof. China, gouache and matita bianca su carta, 59 x 153 cm, Courtesy l’artista e Wilfried Lentz Gallery, Rotterdam.
25 Die Landwirtschaftliche … and Im Reiche der (ExtractArrangements di Dalmine e altre fabbriche), 2008. Vetrina, libri ritrovati dell’industria chimica BASF, biglietto, 10 x 145 x 45 cm, Courtesy l’artista e Wilfried Lentz Gallery, Rotterdam.
26 Falce 1 (Late Limburgerhof Extract-Arrangement), 2009 Falce ritrovata, bronzo, legno e corda in una vetrina in legno di quercia, 220 x 130 x 19 cm, Courtesy l’artista e Wilfried Lentz Gallery, Rotterdam.
28 Fiori, 2008
30 Cucchiai da insalatiera (BASF/Luran), 2008 Posate da insalata di una collaborazione di BASF con la casa di design “Luran”, trasposte come logo su una maglietta. Vetrina, posate ritrovate, maglietta ricamata, 50 x 100 x 40 cm, Collezione privata Asiago 31 Gelaende und Gebaeude der Landwirtschaftlichen Versuchstation Limburgerhof (veduta aerea), 2008. Panoramica dall’alto dei campi di ricerca Limburgerhof, per la sperimentazione dell’agricoltura industriale chimica. China, gouache e matita bianca su carta, 69 x 102 cm, Collezione Antoine Achten, Rotterdam
33 Cratere, 2008
35 Mensola 1, 2008 Pubblicazioni del centro di ricerca Limburgerhof, 40 x 130 x 10 cm, Courtesy l’artista e Wilfried Lentz Gallery, Rotterdam
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B AGNOLI (AND ITALSIDER AS EXTRACT-ARRANGEMENT)
18 Filtri 2, 2009. Filtri dell’olio ritrovati, vetrina, 67 x 56 x 13 cm, Collezione AGI Verona. 19 Manuale per l’utilizzo e la
20 Mensola 1, (disegni tecnici)
22 Ascensione, 2009
2009. Mensola di legno, vetro, disegni tecnici ritrovati a Bagnoli – sotto un fermacarte, 170 x 34 x 5 cm, Courtesy Galleria T293, Napoli
Archivio di documentazione Italsider dipinto a mano, china e acrilico bianco su carta, incorniciato, 154 x 111 cm, Courtesy Galleria T293, Napoli
manutenzione di macchinari dal ‘Dipartimento per la Produzione di Cose Inutili’. (estratto 3), 2009 Per la spiegazione si veda: ‘Manuale … (estratto1), 2 pagine di manuale, incorniciate, 35 x 25 cm (ciascuna), Courtesy Galleria T293, Napoli
21 Positivo 4 e 4 (braccio con articolazione), 2009. Par la spiegazione si veda: “5) Positivo 1 e 2”. Facsimile ritrovato della parte di un macchinario, modello in legno, vernice, originale: 30 x 30 x 8 cm, Collezione privata Arezzo.
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DALMINE (AND OTHER INDUSTRY EXTRACT-ARRANGEMENTS)
36 Ein Blick in die Halle mit der Anlage zur Chlor-Alkali-Elektrolyse im Jahre 1913, 2008, China, gouche, evidenziatore e matita bianca su carta, 47 x 62 cm, Lüttgenmeijer, Berlino 37 Falce 4 (Late Limburgerhof Extract-Arrangement), 2009 Copia in bronzo di falce in una vetrina in legno di quercia,105 x 75 x 14 cm, Lüttgenmeijer, Berlino 38 N.L.19) – Pensilinia Stazione Ferroviaria – Napoli, 2008 China, gouche e matita Bianca su carta, 63 x 83 cm, Lüttgenmeijer, Berlino 39 N.L.13) – Tribune per Teatro all’Aperto – Castello Sforzesco – Milano, 2008 China, gouche e matita bianca su carta, 63 x 83 cm, Lüttgenmeijer, Berlino
40 Bambini, 2008 Programma ricreativo per i figli degli operai della fabbrica di Dalmine Macchina da cucire, 35,5 x 27 cm, Lüttgenmeijer, Berlino 41 Dalmine-1906-1956 / Mildew, 2008. Vetrina, libro ritrovato (pubblicazione dell’anniversario del 50° anno), singole pagine, 10 x 145 x 45 cm, Lüttgenmeijer, Berlino 42 N.L 20) – Pensilinia Mostra del Metano – Piacenza, 2008. China, gouache e matita bianca su carta, 63 x 83 cm, Lüttgenmeijer, Berlino 43 Valvole, 2008. Documentazione di parti di macchinari logori trasposti su maglietta. Vetrina, libro trovato, acciaio inox tagliato al laser, maglietta ricamata, 10 x 145 x 45 cm / 31 x 41 x 15 cm, Lüttgenmeijer, Berlino
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43 Valvole, 2008. Documentazione di parti di macchinari logori trasposti su maglietta. Vetrina, libro trovato, acciaio inox tagliato al laser, maglietta ricamata, 10 x 145 x 45 cm / 31 x 41 x 15 cm, L端ttgenmeijer, Berlino
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FLOOR SPACE SHOWS
44 Mulino 1, 2008 (da DALMINE (AND OTHER INDUSTRY EXTRACT-ARRANGEMENTS) Ingrandimenti di modellini di case, basati su un plastico ritrovato. Plastico originale, plexiglas a doppia zigrinatura, piedistalli, 90 x 107 x 30 cm, L端ttgenmeijer, Berlino
45 Pala, 2009 (da BAGNOLI (AND ITALSIDER AS EXTRACT-ARRANGEMENT), Pala di raffreddamento, vernice nera, 250 x 40 x 4 cm, Collezione AGI Verona. 46 Mulino 2, 2008 (da DALMINE (AND OTHER INDUSTRY EXTRACT-ARRANGEMENTS) Ingrandimenti di modellini di case, basati su un plastico ritrovato. Plastico originale, plexiglas a doppia zigrinatura, piedistalli, 70 x 107 x 21 cm, L端ttgenmeijer, Berlino
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Identità di Marnie Hughes-Warrington Il film è ambientato in America. Ma non voglio andare negli Stati Uniti. Non voglio andare da nessuna parte, per non parlare degli Stati Uniti. Quindi siamo andati in Svezia. Assomiglia agli Stati Uniti, o almeno cos ì mi è stato detto. Per me, l’America è mitologica. Non facendo cose dove dovrebbero essere fatte, qualche volte puoi ottenere un valore aggiunto. Lars von Trier, 100 Eyes: The Making of Dancer in the Dark (1998) Lo studio del processo d’identificazione e della reazione emozionale ha ricevuto maggiore attenzione nella storiografia piuttosto che negli studi cinematografici, sebbene, come possiamo vedere, l’orientamento convenzionale verso questi concetti è anche di diffidenza e sospetto. Nella storiografia il termine “identit à” è connesso con una variata collezione di concetti affini la cui popolarit à è cresciuta e dimin uita a seconda dei tempi. Nel Diciottesimo secolo per esempio, scrittori quali David Hume e Adam Smith argomentarono che l’identificazione raggiunta per simpatia fosse indispensabile alle
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attività morali e sociali. Hume riteneva che la simpatia fosse resa possibile attraverso le credenze e i sentimenti sovrapposti della gente, ma notava come non potesse essere manten uta a lungo prima che venisse erosa da gelosia e da tendenze egoistiche. Possiamo guardare alle esperienze altrui attraverso la simpatia ma alla fine solo al di fuori della preoccupazione per quello che possiamo imparare intorno a noi stessi. Similmente, Smith considera va la simpatia come pi ù facilmente funzionante quando consideriamo i sentimenti che approviamo, guardiamo alle esperienze di persone che conosciamo bene o giudichiamo il dolore causato da forze esterne come un colpo di vento. Viceversa, per conoscere le cause e anche il tono dei sentimenti altrui – come la rabbia che ci provoca repulsione – o il duro lavoro per contemplare le esperienze degli estranei. Il dolore per cause interne, come l’emicrania, genera una scarsa possibilità di simpatia, perchè è personale di chi soffre. 1 Il termine simpatia ha contin uato ad essere utilizzato in scritti storici attraverso il Ventesimo secolo, come dimostrato nella dichiarazione di A. B. Hart che “un po’ di immaginazione ci aiuta a simpatizzare con i grandi uomini del passato”2 o nella conclusione di Harold Ritter che l’allineamento simpatetico ed emozionale è necessario per la comprensione storica: Contrariamente la spiegazione, la comprensione, non è un processo logico ma perlopiù un’esperienza
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emozionale ed intuitiva attraverso la quale lo specialista delle discipline umane stabilisce un “rapporto psicologico” con l’oggetto del suo studio... Attraverso questo processo egli “interiorizza” il passato “immaginando quali emozioni possono essere sorte dall’impatto di una data situazione o ev ento”... Immergendo se stesso nelle testimonianze del passato, lo storico può entrare intuitivamente in una relazione simpatetica con il passato e pu ò ad un certo punto rifare esperienza del passato e riconsiderare i pensieri dei personaggi storici.3 Mentre gli scrittori moderni inglesi hanno organizzato i lori dibattiti sull’identificazione sotto il concetto di simpatia, gli scrittori tedeschi generalmente hanno optato per il termine einfühlen, Einfühlung o mitfühlen, che significa letteralmente “in-sentimento” o “con-sentimento”. In Yet Another Philosophy of History, per esempio, Johann Herder esortava i suoi lettori a “entrare nel secolo, nella regione, nell’intera storia – a entrare in empatia con essa o a “percepire” (sich einfühlen) ciascuna parte di essa. 4 Nella distinzione, Wilhelm Dilthey dichiarò una preferenza per il termine nachfühlen e nacherleben, che significano rispettivamente “ri-sentire” e “ri-vivere”. L’uso del prefisso nach- è molto importante in questo caso, perchè suggerisce la distanza critica della persona che contempla l’esperienza altrui. Enfühlen, d’altra parte, im-
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plica un coinv olgimento emozionale ed etico.5 Per gli scrittori tedeschi i prefissi ein-, mit-,e nachsegnalavano importanti distinzioni concettuali, distinzioni che non sono state riportate in Inglese dopo che Vernon Lee coniò il termine empatia nel 1904. Dopo quel momento, un numero di scrittori inoltre sciolse i confini tra simpatia ed empatia utilizzando i due termini in maniera interscambiabile.6 Il compito di districare i termini “simpatia” e “ri-vivere” fu intrapreso nella prima met à del Ventesimo secolo da R.G. Colingwood. Attraverso diversi scritti, Collingwood illustrò la teoria della ricostruzione storica rafforzata da una visione sociale del linguaggio. Uno storico e un agente storico, sostiene, possono condividere “gli stessi” pensieri, con i quali egli intende una generalità di concetti mentali. “ Ri-costruzione” è un’identità concettuale ma non un’identit à numerica, spaziale o temporale. Collingwood dimostra la distinzione tra questi div ersi generi d’identità citando gli esempi di una persona che pensa “gli angoli sono uguali” per cinque secondi e una persona che pensa “gli angoli sono uguali”, divaga da quel pensiero e ritorna a esso dopo tre secondi. Non parliamo forse di queste due persone che f ormulano lo stesso pensiero, sebbene ci sia stato un intervallo e un ritorno nel secondo caso e ci possano essere due o più “numericamente diff erenti” ma specificatamente identici pensieri nel primo caso? Dato ciò, perché
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non parlare dello stesso pensiero f ormulato da persone diverse in momenti diff erenti?7 Collingwood rinforza questo punto quando domanda: Se un oppositore sostiene che nessun genere di ri-costruzione sia possibile, solo perch é niente può ripetersi due volte, dobbiamo trattare questa contestazione con meno cortesia: dimostrando che egli stesso non esiterebbe a dire di cenare due volte nella stessa locanda, o a fare il bagno due v olte nello stesso fiume, o a leggere due volte lo stesso libro, a ascoltare due v olte la stessa sinfonia. Il teorema binomiale è come egli sa, v orremmo domandare, lo stesso teorema scoperto da Newton, o no? Se egli risponde affermativamente, avrà ammesso quello che v ogliamo. Se inv ece risponde negativamente, possiamo facilmente convincerlo della sua contraddizione: perchè egli sta assumendo che nel nostro reciproco discorso abbiamo idee comuni e ciò è incoerente con la sua tesi.8 Attraverso la ri-costruzione, possiamo condividere gli stessi concetti come agenti storici, incluso quelli emozionali. Anche se quel “decreto” fosse concettuale e non presupponesse nessuna identità numerica, spaziale o temporale. Come ad esempio pensare a un teorema e poi ritor narci, o ritornare a un bagno, a una sinfonia, a un libro, così è con le emozioni. Se mi sento arrabbiato, poi il sentimento si placa e poi mi sento
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ancora arrabbiato, si tratta sempre di rabbia.Se chiudi un libro sul pollice e io faccio la stessa cosa allora è perfettamente ragionevole dire che proviamo lo stesso dolore. Se le emozioni sono private, asserzioni comuni quali “ Sei felice?” o “Sembra doloroso” non a vrebbero senso. Inoltre, se ho imparato il significato del concetto di gioia dalla mia stessa esperienza, allora una persona che non abbia mai provato gioia non sarebbe in grado di utilizzare il concetto, così come un cieco non sarebbe capace di usare la parola “vedere”. Tutto questo ci dice che emozioni quali la “gioia” non sono sensazioni private; sono concetti attraverso il linguaggio, il cui uso presuppone di conoscere la grammatica. Allora un concetto non è f ormato puramente dall’esperienza di una sensazione. Possedere un concetto significa conoscere come una parola viene utilizzata, essere capaci di seguire le regole che governano l’uso della parola. Questo richiede un linguaggio condiviso o pubblico. 9 Il linguaggio pubblico è il mezzo attraverso cui possiamo condividere gli “stessi” pensieri ed emozioni degli altri, passati e presenti. L’identità concettuale rende possibile la consapevolezza, la distanza critica e la riflessione – non siamo trasportati o classificati con la per sona con cui ci identifichiamo – da qui l’utilizzo di Collingwood del prefisso “ri-“ prima di “costruzione”. Nella sua visione, tutta via, questa consapevolezza e distanza critica è assente dal
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concetto di simpatia; siamo semplicemente soddisfatti dal condividere l’emozione di qualcun altro. Nella visione di Collingwood, la ri-costruzione appartiene all’investigazione storica, mentre la simpatia fa parte della biografia, che è fondata al di fuori della malizia e dei materiali selezionati per motivi di pettegolezzo e snobismo. Una critica f emminista potrebbe recepire la coppia coniata da Colingwood di simpatia e biografia come simile alla conv enzionale destituzione del dramma in costume negli studi dei film storici e leggere entrambi come una reazione maschilista alle emozioni e alle relazioni interpersonali denigrate quali femminili. Questo, il fatto di sottolineare le destituzioni di biografia e dramma in costume è una distinzione comune tra ragione e emozione, e l’allineamento della razionalità con la mascolinità e dell’emozione e dell’irrazionalità con la femminilità. In questo capitolo, ho interrogato la dicotomia del pensiero e dell’emozione, e v oglio reiterare sul punto focalizzato nel capitolo I, che l’allineamento di ogni categoria e forma d’identificazione con un genere può supportare piuttosto che mettere in discussione gli stereotipi e servire per oscurare altre ragioni per risposte critiche ai generi. Un buon caso esemplificativ o è il saggio di Eric Hobsbawm sull’identit à e sugli studi storici. In Identity history is not enough, Hobsbawm chiarisce la sua pref erenza per una posizione sco lastica di
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distaccato “univ ersalismo”, argomentando che l’identificazione di uno storico con la comunità può portare alla produzione di un’erudizione che f omenta miti nazionali e risulta come “una certa versione di oppio del popolo” o “pericolose...sentenze di morte”.10 I suoi criticismi non sono espressi in termine di dicotomia di genere di ragione e di emozione ma sono una risposta a due “minacce”: l’utilizzo pubblico della storia per promuovere programmi politici e addirittura atti di violenza, e il postmodernismo. Il saggio di Hobsbawm fu scritto durante la disintegrazione della Yugolslavia attraverso combattimenti armati, ed esprime la sua convinzione che un troppo vicino coinvolgimento tra gli storici e i materiali oggetto del loro studio può intralciare una riflessione critica. Questo è un ragionevole comune presupposto storiografico, che trova eco attraverso i giornali e le monografie. Come Lars von Trier, gli storici sostengono che essere un “outsider” pu ò aiutare a v edere ciò che passa inosservato “all’interno” di una comunit à. Come certi altri storici, Hobsbawm sostiene che essere un “insider” accresce il rischio di risultati politici ed etici pericolosi. Fu in primo luogo per questo motivo, per esempio, che Theodore Moody, D.B. Quinn e R. Dudley Edwards dibatterono per la scrittura “scientifica” e distaccata della storia Irlandese.11 Questa argomentazione per una posizione distaccata attira due critiche. Primo, essa presuppone una connessione necessaria e univ ersale
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tra l’identificazione storiografica e i pericolosi risvolti sociali. Non possiamo assumere che tutte le realtà storiche siano politicamente dissolutive e perci ò immorali. L’inv erso potrebbe essere vero, come con la protesta di Brendan Bradshaw che un trattamento distaccato della Carestia Irlandese sia servita per oscurare la tragedia su vasta scala coinv olta.12 Secondo, rimane aperta la questione se una posizione distaccata sia raggiungibile. Una delle critiche degli studiosi postmoderni – la seconda fonte di minaccia nell’articolo di Hobsbawm – è che posizioni “distaccate”, “scientifiche” e “univ ersali” sono veramente i principi, le credenze, le speranze di un precetto in generale di studiosi maschi, occidentali, europei. Diversamente da Hobsabawm, gli storici postmoderni non vedono la possibilità di farsi da parte o uscire al di fuori dai legami della propria comunità. Si potrebbe affermare, a loro avviso, che l’identit à storica prof essata sia pi ù onesta di coloro che proclamano posizioni pi ù universali. Per il pensiero postmoderno, non vi è una singola, distaccata, meta o punto di vista divino degli ev enti storici. Ogni discorso storico plasma ed è plasmato sopra altri discorsi che presuppongono un intreccio di comunit à: etniche, politiche, religiose, di genere, di classe e così via. Come con gli spettatori di un film, allora, il senso dello storico di connessione con una comunità può essere complesso e ambiguo e pu ò cambiare nel corso della narrazione. Perciò,
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mentre dobbiamo essere consapev oli degli usi delle storie d’identit à, ha poco valore condannare completamente l’identificazione. Non vi è accordo, ordinatamente a un concetto confezionato d’identità nella storiografia e negli studi di film storici. Mentre è stato pi ù spesso connesso con nazioni “immaginate”, può essere utilizzato anche per rif erirsi a un potenzialmente illimitato numero di comunità. In questo capitolo, abbiamo preso visione del concetto nel modo in cui gli spettatori e gli storici parlano delle loro connessioni con le comunità attraverso mezzi come film storici e testi scritti. Abbiamo inoltre contestato i terreni sopra i quali l’identificazione è stata licenziata come processo storiografico, mettendo in risalto come i pensieri e le emozioni siano uniti nell’essere cognitivi, che è possibile condividere “gli stessi” pensieri ed emozioni degli altri e che l’identificazione non comporta risultati sociali immorali. Inoltre, abbiamo visto che la discussione intorno all’identit à negli studi dei film storici è rafforzata attraverso la considerazione delle reazioni dello spettatore cos ì come il discorso di ricerca. Tutti questi punti sollevano una questione cruciale che rimane irrisolta alla fine di questo capitolo e più in generale nella storiografia: vi è un’identit à individuale e singolare che lega insieme i nostri incontri con le comunità immaginate?
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Note 1. D. e M. Norton (a cura di), D. Hume, A Treatise on Human Nature (1739), Oxford University Press, Oxford, 2000, parr. 3.2.2, 2.2.5; L.A. Selby-Bigge (a cura di), Enquiry Concerning Principles of Morals, (1772), Oxford Univeristy Press, Oxford 1975, par. 6.1; A. Smith, The Theory of Moral Sentiments (1759), Lyberty, Indianapolis, 1969, parr. 1.1.1, 1.1.4, 1.2.1, 1.2.3, 1.3.1, 7.3.1. 2. A.B Hart, Imagination in History, in “American Historical Review”, 1910, vol. 15, p. 240. 3. H. Ritter, Undesrtading, in Dictionary of Concepts in History, Greenwood Press, p.436, Westport, Conn. Si veda anche H. Butterfield, History and Human Relations, Collins, London, 1951. 4. J.G. Herder, Yet Another Philosophy of History (1774), in M. Bunge (edizione tradotta a cura di ) Writings on Religion, Language and History, Augsburg Fortress, Minneapolis, 1993, p. 39. La traduzione è stata leggermente modificata per richiamare il senso che i lettori a vrebbero potuto percepire prima che Lee coniasse il termine inglese “empathy” (empatia) nel 1904. 5. A. Harrington, Dilthey, empathy and Verstehen: a contemporary reappraisal, in “ European Journal of Social Theory”, 2001, vol.4 (3), pp.311-29. 6. V. Lee e C. Anstruther Thomson, Beauty and Ugliness and Other Studiesin Psychological Aesthetics, Browne, New York, 1904. 7. R. G. Collingwood, The Idea of History, p. 286. Si veda: R. G. Collingwood, Religion and Philosophy (1916), Thoemmes, Bristol, 1994, p.116. 8. R. G. Collingwood, Outlines of a Philosophy of History in The Idea of History, ed. rivista a cura di W.J. van der Dussen, Oxford University Press, Oxford, 1995. 9. Per un approf ondimento sulla ri-costruzione si v eda M. H. Warrington, “How Good an Historian Shall I Be?”: R.G. Colingwood, the Historical Imagination and Education, Imprint Academic, Exeter, Thorveton, cap. 2. 10. E. Hobsbawn, Identity history is not enou gh, in On History, Free Press, New York, 1997, pp. 266-77.
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11. C. Brady, “Constructive and instrumental”: the dilemma of Ireland’s first “new historians”, in C. Brady, Interpreting Irish History: the Debate on Historical Revisionism 1938-1994, Irish Academic Press, Blackrock, Co. Dublin, 1994, pp.1-31. 12. B.Bradshaw, Nationalism and Historical Scholarship in Modern Ireland, in Irish Historical Studies, 19888-89, pp.191-216. Una simile rivendicazione fu mossa intorno alla mancanza di “simpatia” e “empatia” di Keith Weidschuttle nello scrivere la storia Australiana delle Origini. Si veda H. Reynolds, Terra Nullius Reborn, in R. Manne (a cura di ), Whitewash, Black Agenda Inc., Melbourne, 2003, p.133.
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Film Maker/Storico Robert A. Rosenstone Per tutti coloro che negli anni Sessanta hanno vissuto in un campus universitario, deve essere un trauma vedere la sequenza filmica della dimostrazione contro la guerra in Nato il 4 Luglio (1989), il film di Oliver Stone basato sulla vita in Vietnam del veterano Ron Kovic. La sensazione di avere già assistito proprio a quella scena, di aver visto quegli stessi studenti sulle scalinate dell’Università, con le loro barbe, i capelli lunghi, le acconciature Afro, i jeans levi’s, le bandane; di essere stati testimoni di quegli stessi gesti, le braccia alzate e i pugni serrati; di avere udito lo stesso arringare di Bianchi e Neri, le denunce della guerra, le parole gridate. Nixon, Sciopero, Basta!, Forza! Sulle gradinate anche quella figura di mezza età, che indossa il dashiki e invoca la Marcia su Washington, appare stranamente famigliare – ma allo stesso tempo in qualche modo troppo vecchia e fuori luogo.
Ron Kovic
Inaugurazione della convention di Nixon a MIami Beach 1972, Ron Kovic sulla destra
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Fritz Efaw, delegato dei democratici all’estero, abbraccia Ron Kovic alla convention nazionale dei Democratici a New York il 15 luglio 1976. (AP Photo/Harry Haris)
Tom Cruise e Ron Kovic in Born on the Fourth of July.
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Ron Kovic con Oliver Stone
Prima che i lacrimogeni esplodano e i poliziotti discendano agitando i manganelli, noi (che eravamo lì negli anni Sessanta) possiamo realizzare: che è Abbie Hoffmann, Re degli Yippies, che sta dicendo precisamente il genere di cose che dovevano essere dette in una simile manifestazione, di circa venti anni precedente la realizzazione del film. La sequenza è basata su un fatto reale. Il film ci fa capire che si tratta della Syracuse University appena dopo l’“incursione” in Cambogia e della sparatoria nell’Università di Kent State, agli inizi di Maggio 1970 quando centinaia, migliaia, di studenti liceali e universitari manifestarono. La Syracuse era tra quelle, ma lì la dimostrazione fu molto diversa da quella che vediamo sullo schermo. Le parole avrebbero potuto essere violente, ma il
pomeriggio fu pacifico; la polizia non lanciò lacrimogeni e non si aggirò tra la folla con i manganelli. A quella dimostrazione non prese parte Ron Kovic, l’eroe del film, e l’autore del libro su quale si fonda. Né la sua ragazza, poiché egli non aveva una ragazza. Né Abbie Hoffmann tenne alcun discorso. È una creazione del regista Oliver Stone, questa sequenza non è totalmente un’invenzione ma, piuttosto, un’astuta fusione di diversi elementi visivi – fatti accanto a fatti, fatti dislocati, finzione. Si riferisce al passato, sprona la memoria, ma possiamo chiamarla storia? Sicuramente non storia come generalmente utilizziamo questa parola, non la storia che cerca accuratamente di riprodurre uno specifico, documentabile momento del passato. Ma la verità che simili dimostrazioni erano comuni negli anni Sessanta. La verità del caos, della confusione, della violenza di molti siffatti incontri tra gli studenti e la polizia. La verità delle questioni storiche con cui la sequenza obbliga gli spettatori a confrontarsi: Perché questi studenti si riuniscono qui? Perché stanno protestando? Perché sono così critici nei confronti dei loro leader nazionali? Perché la polizia irrompe con così tanto impeto? Cosa vi è in ballo sullo schermo per la nostra comprensione degli anni Sessanta? Dell’America più recente? Degli Stati Uniti oggi?
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Fantasia ed esperienza di Giorgio Agamben Nulla può dare la misura del mutamento intervenuto nel significato dell’esperienza quanto il rovesciamento che esso produce nello statuto dell’immaginazione. Poiché l’immaginazione, che è oggi espunta dalla conoscenza come “ir reale”, era inv ece per l’antichit à il medium per eccellenza della conoscenza. In quanto mediatrice fra senso e intelletto, che rende possibile, nel fantasma, l’unione fra la f orma sensibile e l’intelletto possibile, essa occupa nella cultura antica e medioevale esattamente lo stesso luogo che la nostra cultura assegna all’esperienza. Lungi dall’essere qualcosa di irreale, il mundus imaginabiIis ha la sua piena realt à fra il mundus sensibilis e il mundus intellegibilis, ed è anzi, la condizione della loro comunicazione cioè della conoscenza. E, dal momento che è la fantasia che, secondo l’antichit à, forma le immagini dei sogni, ciò spiega il particolare rapporto che, nel mondo antico, il sogno intrattiene con la v erità (come nella divinazione per somnia ) e con la conoscenza efficace (come nella terapia medica per incubazione). Ciò è ancora vero nelle culture
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primitive. Devereux riferisce che i moha ve (in questo non dissimili da altre culture sciamaniche) ritengono che i poteri sciamanici e le conoscenze dei miti delle tecniche e dei canti che vi si riferiscono, si acquisiscono in sogno. Non solo, ma se v enissero acquisite nello stato di v eglia esse resterebbero sterili e inefficaci finch é non venissero sognate: “cosi uno sciamano, che mi aveva permesso di annotare e imparare i suoi canti terapeutici rituali, mi spieg ò che io non avrei avuto ugualmente il potere di guarire, perché non avevo potenziato e attivato i suoi canti attraverso l’apprendimento onirico”. Nella formula in cui, l’aristotelismo medioevale riassume questa funzione mediatrice dell’immaginazione (“nihil potest homo intelligere sine phantasmate”), l’omologia fra fantasia e esperienza è ancora perfettamente evidente. Ma, con Cartesio e la nascita della scienza moderna, la funzione della fantasia è assunta dal nuovo soggetto della conoscenza: l’ego cogito (da notare che, nel v ocabolario tecnico della filosofia medioevale, cogitare designava piuttosto il discorso della fantasia che l’atto dell’intelligenza. Tra il nuovo ego e il mondo corporeo, fra res cogitans e res extensa, non c’è bisogno di alcuna mediazione. L’espropriazione della fantasia, che ne consegue, si manifesta nel nuovo modo di caratterizzarne la natura: mentre essa non era – in passato – qualcosa di soggettivo”, ma era, piut-
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tosto, la coincidenza di “soggettiv o”, ma era, piuttosto, la coincidenza di soggettiv o e oggettivo, di interno e esterno, di sensibile e intellegibile, ora è il suo carattere combinatorio e allucinatorio, che l’antichit à relega va sullo sfondo, a emergere in primo piano. Da soggetto dell’esperienza, il fantasma div enta il soggetto dell’alienazione mentale, delle visioni e dei fenomeni magici, cioè di tutto ci ò che resta escluso dall’esperienza autentica.
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R I F E R I M E N T I BI BLIO GR A F IC I
Arnaldo Momigliano, Storia antica e antiquaria, in Sui fondamenti della storia antica, Einaudi, Torino, 1984, pp. 3-5. Francis Haskell Musei, illustrazioni e ricerca dell’autenticità, in Le immagini della storia, Einaudi, Torino, 1997, pp. 247-249. Simon Fujiwara, The Incest Museum: A Guided Tour, Archive Books, Berlin, 2009. pp. 17-23. Frederick Bohrer, The Times and Spaces of History: Representaiton, Assyria, and t he British Museum, in Museum Culture: Histories Discourses Spectacles, Univerversity of Minnesota Press, Minneapolis, 1994, pp. 197-218. Carlo Ginzburg, Occhiacci di legno: Nove riflessioni sulla distanza, Feltrinelli, Milano, 1998, p. 186. Carlo Ginzburg, Unus testis: lo sterminio degli ebrei e il principio di realtà, in Il filo e le tracce: vero falso finto, Feltrinelli, Milano, 2006, pp. 205-208. Sean Snyder, Sean Snyder: Optic, Compression, Propaganda, Walter König, Colonia, 2007, pp. 89-92. Hito Steyerl, Die Farbe der Warheit, Vienna, Turia + Kant, 2008. Lo script dell’intervista Il futuro dell’ignoto è stato realizzato per la mostra, The Fourth Wall, di Clemens von Wedemeyer, curata da Francesco Manacorda, al Barbican Art Centre di Londra dal 28 maggio al 30 agosto 2009. Elizabeth Edwards, Raw Histories: v. 13: Photographs, Anthropology and Museums (Materializing Culture), Berg Publishers, Oxford, 2001, pp. 157-180. Marnie Hughes-Warrington, History Goes to the Movies: Studying History on Film, Routledge, London, pp. 92-96. Robert A. Rosenstone, History on Film / Film on History, Longman, New York, 2006. Giorgio Agamben, Infanzia e Storia: distruzione dell’esperienza e origine della storia, Einaudi, Torino, 2001, pp.18-19.
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COLOPHON MO S T R A
A cura di Elena Volpato Ufficio mostre Arianna Bona Gregorio Mazzonis Elisabetta Vannozzi Allestimento sale EdilCA, Torino Fabbricanti d’Immagine, Torino Farad, Torino Gondrand Spa, Torino Grafica in mostra Labxyz, Roma Assicurazioni Intermedia Broker Trasporti Gondrand Spa, Torino Bergen Movers and Fine Art Logistics, Istanbul
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C O L O PHON L I B RO
A cura di Elena Volpato In collaborazione con Paolo Caffoni, Archive Books Contributi Giorgio Agamben, Frederick N. Bohrer, James Beckett, Rossella Biscotti, Patrizio Di Massimo, Elizabeth Edwards, Haris Epaminonda, Simon Fujiwara, Dani Gal, Carlo Ginzburg, Francis Haskell Arnaldo Momigliano, Robert A. Rosenstone, Sean Snyder, Elena Volpato Marnie Hughes-Warrington Clemens von Wedemeyer Traduzioni Ada Arduini, Roberta Bernascone, Paola Ghigo, Gioia Guerzoni, Anna Musini, Laura Traversi Ideazione grafica Chiara Figone Redazione Archive Books Crediti Fotografici Studio Fotografico Gonella, Torino Stampa Edicta, Torino
L ARCH I V E B O O KS
Dieffenbachstrasse 31, 10967 Berlin info@archivebooks.org www.archivebooks.org
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R I NGR A Z I A M E N T I
Antoine Achten, Marco Altavilla, Galleria T293, Napoli, Valentina Angeleri, Roberta Bussone, Giovanni Capasso, Loredana Cozza, Alessio Degli Castelli, Marc Dickenson, Neue Alte Br端ke Gallery, Berlino, Pier Paolo Falone, Giorgio Fasol, Francesca Ferrarini, Emi Fontana, Claudio Gargini, Jacopo Giacomini, Paola Guadagnino, Galleria T293, Napoli, Christoph Jenny, Maurits Hertzberger, Wilfried Lentz, Wilfried Lentz Gallery, Rotterdam, Sylvia Kouvali, Rodeo Gallery, Istanbul, Norma Mangione, Robert Meijer, L端ttgenmeijer, Berlino, Gaby Miketta. Monica Minghetti. Franco Noero, Giulia Paciello, Silvia Sgualdini, Lisson Gallery, Londra, Alexander Ramseelar, Giorgio Ravetto, Alexandra Spaulding, Sasha Rossman, Galerie Neu, Berlino, Anna Maria Soverini, Galleria De Carlo, Milano, Jose Roberto Shwafaty; Jean-Claude Freymond-Guth, Freymond-Guth & Co. Fine Arts, Zurigo
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