Indice Editoriali ........................................................................................................................................................ 2
Interviste ....................................................................................................................................................... 29
di Caterina Taricano e Vittorio Sclaverani
L’architettura e il cinema ..................................................................................................... 4 di Steve Della Casa
I film, gli architetti e il fascino della semplicità ................................. 30 Intervista a Federico Babina di Alessandra Comazzi
L’architetto ha abbassato le ali ................................................................................... 8 Ma non per questo ha smesso di volare di Giorgio Scianca
Il soffitto di cristallo: donne architetto nel cinema .............................. 14 di Elisa Cuter
Un architetto al Museo del Cinema ....................................................................... 36 Intervista a Leonardo Mosso a cura di Caterina Taricano, Matteo Pollone e Vittorio Sclaverani
«L’Architettura Italiana» .................................................................................................... 37
Quando Torino diventò AfterVille .............................................................................. 20 di Fabrizio Accatino
anno IV, fascicolo 12, settembre 1909, Editori Crudo & C. Torino
Il cinema nella testa e nel cuore .............................................................................. 45
La scommessa di Jacques Tati architetto................................................... 24
Intervista a Massimiliano Fuksas
di Claudio Di Minno
di Giorgio Scianca
La sapienza di Eugène Green
Presidente Vittorio Sclaverani
Progetto grafico Studio R. Patrucco • Torino
Giugno 2016
Direttore responsabile Caterina Taricano
Stampa Gabo s.r.l. • Torino
Notiziario dell’Associazione Museo Nazionale del Cinema
Vice Direttore Matteo Pollone
Ringraziamenti Laura Castagno • Alessandra Lancellotti Silvia Viglietti
Anno LI – n. 98 18.24 ft/s
MONDO NIOVO
ISSN 2280 - 8760 Autorizzazione del Tribunale di Torino n. 5749 del 16/12/2003
Segreteria di redazione Via Montebello 22 • 10124 Torino www.amnc.it • http://movieontheroad.com info@amnc.it • segreteria@amnc.it Facebook Associazione Museo Nazionale del Cinema
A pagina 4 Il disprezzo di Jean-Luc Godard, a pagina 8 Obra di Gregório Graziosi, a pagina 14 Reaching for the Moon di Bruno Barreto, a pagina 29 Good Night Missy di Metod Pevec e Mon Oncle di Jacques Tati. L’immagine di copertina è tratta da Mon Oncle di Jacques Tati (1958)
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The Price of Desire di Mary McGuckian
Editoriali «M
di Caterina Taricano
ondo Niovo 18-24 ft/s» numero 98 è dedicato al rapporto tra cinema e architettura. Nello specifico, oggetto di studio privilegiato è l’analisi dell’evoluzione della figura dell’architetto nella storia della settima arte. Un numero, questo, che non sarebbe stato possibile senza le lunghe chiacchierate fatte con l’architetto e cinefilo Giorgio Scianca proprio a proposito di questo tema. Scianca è infatti autore insieme a Steve Della Casa de La recita dell’architetto, volume che analizza il binomio tra film e architetti attraverso una panoramica storica e sociale che abbraccia tutto il mondo e che sottolinea il legame duraturo e indissolubile fra l’arte del cinema e quella dell’architettura. È proprio da quelle conversazioni, dal desiderio di approfondire ulteriormente questo legame, solo apparentemente superficiale, che nasce l’esigenza di raccontare attraverso differenti prospettive i contributi fondamentali che architettura e cinema si sono scambiati nel corso di oltre un secolo. Cardine di questo rapporto è, come si diceva, la figura dell’architetto, alla quale questo numero di «Mondo Niovo 18-24 ft/s» regala ampio spazio non solo in quanto oggetto di analisi ma anche in quanto testimone diretto. Leggerete infatti di come è stata rappresentata sul grande schermo questa professione ma anche cosa racconta del cinema – del modo in cui sembrano sovrapporsi lo sguardo del regista a quello dell’architetto – chi questo mestiere lo fa per davvero. Massimiliano Fuksas, nella lunga intervista che ci ha generosamente concesso, auspica addirittura un’unione di tutte le arti: «Sarebbe bello ora mettere insieme tutte le arti e costruire un tessuto che possa aiutare tutti a capire meglio cosa sta capitando intorno a noi»; mentre Leonardo Mosso, l’architetto torinese e socio fondatore del Museo Nazionale del Cinema di Torino racconta di quale spazio perfetto (quasi uno scenario da cinema «fatto apposta per Cabiria») sia la Mole Antonelliana, che ospita appunto il prestigioso Museo. Entrambi raccontano diffusamente il loro amore per la settima arte e i film che maggiormente li hanno stimolati. E poi c’è Federico Babina, giovane architetto bolognese espatriato a Barcellona che molto si avvicina a quella dimensione ideale di cui parla Fuksas; Babina infatti sottolinea come, da sempre, abbia provato interesse per qualsiasi forma d’arte, definendosi uno «spettatore onnivoro», perché «qualcosa che mi interessi lo posso trovare da tutte le parti, con tutte le manifestazioni dell’animo umano». Il racconto della lunga storia d’amore fra cinema e architettura passa anche attraverso l’ampia introduzione di Steve Della Casa; Elisa Cuter ci parla poi della figura dell’architetto donna nella storia del cinema, Claudio Di Minno spiega in che termini il grande comico francese Jacques Tati possa essere considerato un architetto e Fabrizio Accatino ritorna su un esperimento di medializzazione della città del futuro, AfterVille. Come sempre, non mi resta che augurarvi buona lettura.
di Vittorio Sclaverani Un bambino, un insegnante, un libro e una penna possono cambiare il mondo. Malala Yousafza
I
primi mesi del 2016 sono più che mai significativi per il percorso dell’Associazione Museo Nazionale del Cinema. Per quanto riguarda la valorizzazione della memoria storica del territorio, mission principale della nostra realtà, abbiamo festeggiato tra Torino e Biella i primi novant’anni dell’Architetto Leonardo Mosso, socio fondatore dell’Associazione Museo del Cinema il 7 luglio del 1953 insieme a Maria Adriana Prolo; la sua testimonianza non poteva mancare in questo numero monografico realizzato grazie all’importante stimolo e sostegno di Giorgio Scianca. Sempre ad aprile l’Associazione ha collaborato alla presentazione del sito web dedicato ad Armando Ceste (www.armandoceste.it), uno spazio dove è possibile scoprire il percorso unico di Ceste in ambito artistico, politico e culturale, partendo dalle esperienze del Collettivo Cinema Militante di Torino fino ai primi anni 2000, dove in film come Fiatamlet, Liberaterra, Movimento, Porca miseria e Abdellah e i suoi fratelli sono stati affrontati in maniera estremamente lucida e visionaria i temi più importanti del nuovo secolo (precarietà del lavoro, trasformazione delle città, nuove mafie, immigrazione, nuove povertà, ecc..). Studenti, ricercatori, giornalisti, giovani filmaker potranno accedere in maniera libera all’Archivio Armando Ceste e studiare le contraddizioni della nostra città. Un altro archivio che è tornato a vivere, dopo la donazione da parte dell’Associazione Documentary in Europe, è il progetto Superottimisti che raccoglie filmati amatoriali di famiglia in formato ridotto e ne cura la catalogazione, l’archiviazione e la diffusione. A maggio grazie alla sinergia tra il Museo Nazionale del Cinema e izi.Travel è stata presentata l’applicazione digitale gratuita, audiodescritta in italiano e in inglese, Torino, città del cinema, che permette ai turisti e non solo di scoprire i set a cielo aperto più importanti del centro cittadino. Sempre in ambito cineturistico il progetto Movie on the Road è in fase di sviluppo grazie alla preziosa consulenza di Hangar Point della Regione Piemonte. Nell’ambito dei progetti culturali di inclusione sociale si è svolta l’ottava edizione di cinemAutismo, iniziativa che si sta diffondendo sempre di più in tutta Italia, mentre nelle prossime settimane si concluderanno la terza edizione del laboratorio di Cinema Plurale e i corsi al Centro Interculturale. In estate verrà lanciato il bando della quinta edizione di Lavori in Corto, che anche quest’anno ospiterà un premio offerto da Rai Cinema Channel, ma soprattutto collaborerà con Sapereplurale per costruire un bando dedicato alle tematiche carcerarie, già afThe Price of Desire di Mary McGuckian frontate nella rassegna l’altro quartiere. L’Associazione ama lavorare in rete e in maniera diffusa sul territorio, unica strada possibile per continuare a creare in modo sostenibile e partecipato momenti di aggregazione, condivisione, ascolto e confronto in territori lontani dal centro, in particolare negli spazi delle Case del Quartiere di Torino, recentemente oggetto del convegno nazionale Abitare una casa per abitare un quartiere. In quest’ottica, a giugno, partirà la quarta edizione di un’Estate al Cinema, un calendario ricco di proposte per cercare di divertire la cittadinanza, ma soprattutto per recuperare e avvicinare un nuovo pubblico al cinema. Questo progetto sarà dedicato a tre figure amiche per noi molto importanti che ci hanno lasciato nell’ultimo anno: lo scrittore e giornalista Luca Rastello, il maestro di cinema d’animazione Elio Mosso e Nanni Salio fondatore del Centro Studi Sereno Regis. Luca, Elio e Nanni sono dei modelli unici di vita e di lavoro, hanno avuto in comune un’incredibile coerenza, creatività e costanza nei loro progetti umani e professionali, sempre con uno sguardo rivolto al presente e al futuro attraverso un grandissimo impegno e fiducia verso le nuove generazioni.
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L’architettura e il cinema di Steve Della Casa
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ergio Corbucci, uno dei registi preferiti da Quentin Tarantino, era molto noto per il suo gusto per le battute e i giochi di parole. Incarnava lo spiritaccio romano, lo stesso che ritroviamo in molti suoi film (primo tra tutti il celebratissimo Django). E infatti furono ben pochi a essere stupiti quando disse che avrebbe fatto un film nel quale avrebbe ricostruito la città più famosa del mondo senza bisogno di contrattualizzare nessun architetto. Andò proprio così. Lui doveva girare Romolo e Remo, utilizzando i due mister muscolo più famosi che si aggirassero in quei tempi a Cinecittà, e cioè Steve Reeves e Gordon Scott. I due figli della lupa si dovevano affrontare in un duello mortale al termine del film, proprio mentre si accingevano a fondare la città eterna. E Roma era già abbozzata: era un solco tracciato da un trattore: niente di più, niente di meno. Però Corbucci pare non abbia avuto troppo tempo per gioire a causa della realizzazione della sua boutade: divisi da un’antica rivalità, i due mister muscolo si odiavano e iniziarono a picchiarsi
Hiroshima mon amour di Alain Resnais
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sul serio, e così il regista dovette risolvere l’incresciosa situazione con un dolly che si muoveva verso l’alto e si allontanava dalle due montagne di muscoli… Se Corbucci era un grande amante del cinema popolare, dobbiamo prendere atto che raramente l’architetto al cinema appare in film che hanno quella dimensione. È molto, molto più facile che l’architetto appaia in film che raccontano i fasti (o i misfatti) della borghesia. L’architetto nel cinema italiano ha spesso il volto educato di Enrico Maria Salerno o di Gabriele Ferzetti. Borghese, intellettuale, spesso donnaiolo, l’architetto del nostro cinema ha una grande ansia di piacere e di essere amato. Gli piacciono i soldi e per i soldi è disposto a fare tutto o quasi tutto, ma gli piace ancora di più sentirsi protagonista. La palazzina costruita freneticamente (soprattutto dagli anni Sessanta in poi, seguendo passo passo quanto avveniva davvero nella nostra penisola, è un mezzo, non è il fine. Serve al Gassman di C’eravamo tanto amati per fare i soldi che non ha mai visto quando stentava a nutrirsi con la “mezza porzione”, è agognata dall’Alberto Sordi sospeso tra coerenza e voglia di scrollarsi di dosso i fallimenti che rende indimenticabile Una vita difficile. Ma nessun architetto sembra credere strenuamente in quello che fa. Quando questo succede (ad esempio con Luigi Lo Cascio in La città ideale) l’architetto in questione è fortemente ideologizzato, al limite della paranoia: e infatti come paranoico viene trattato un po’ da tutti, e quel cavallo che tanti guai gli ha causato sembra un po’ la superfetazione del suo io ma anche la visualizzazione dei tanti incubi che guidano un po’ tutte le sue scelte. Fino ad adesso abbiamo parlato dell’architetto italiano, e lo abbiamo trovato bello, ricco, borghese, donnaiolo, decisamente non integerrimo. Ma se ci spostiamo a Hollywood troveremo una situazione molto diversa. Nella cultura americana, l’architetto è un archetipo del self made man, è uno che si è fatto da solo e che proprio per questo è tra i più adatti a impersonificare il sogno americano. L’architetto di Hollywood può trasformare radicalmente la realtà, e quando questo avviene è una conseguenza di-
Il Gattopardo di Luchino Visconti
retta del fatto che l’architetto non è ideologizzato, ma sta facendo bene il suo lavoro. Non è un caso, restando alla cultura americana, se il duo pop famosissimo composto da Paul Simon e Art Garfunkel ha dedicato uno dei brani del loro album più famoso (Bridge over Troubled Water) a Frank Lloyd Wright («Architets may come and Architets may go and never change your point of view»). Con il loro straordinario impasto vocale, i due raccontano la loro passione per un uomo che ha costruito tanto (in senso metaforico ma anche in senso reale). Una canzone che racconta ammirazione. La stessa ammirazione che traspare quando è Gary Cooper a interpretare l’architetto. Stiamo ovviamente parlando di La fonte meravigliosa, il film di King Vidor nel quale Cooper è un architetto testardo e capace di andare contro tutto e contro tutti pur di realizzare il proprio sogno. L’aria trasognata di Cooper nasconde però una grande forza volitiva e una tenacia inarrestabile. In La fonte meravigliosa, Vidor racconta di un uomo che crede fortemente in quello che fa e che soprattutto sa di essere lui stesso la misura del successo o dell’insuccesso. Ci proveranno in tutti i modi a impedire che i grattacieli che nasceranno siano liberi e moderni come lui vuole, preferendo lo stile “Las Vegas” con riproduzioni kitsch di architetture del passato. Tutto il film è costruito in funzione dell’arringa finale con la quale Gary Cooper spiega ciò che ha fatto e perché lo ha fatto. A dimostrazione che anche la citazione precedente a questa non era completamente peregrina, ricorderemo che il personaggio principale del film è ispirato proprio a Frank Lloyd Wright. Come volevasi dimostrare. E sempre per citare l’architetto più noto del Novecento, non possiamo tralasciare che un altro grande nome del cinema ha mosso i suoi primi passi sotto l’ala protettiva di Frank Lloyd Wright. Stiamo parlando di George Lucas. Quando il futuro inventore di American Graffiti e soprattutto di Guerre stellari faceva ancora cinema indipendente, si appoggiò proprio a un complesso architettonico che portava la firma di Wright. E L’uomo che fuggì dal futuro, il suo primo timido film, è girato in California proprio negli
uffici che Wirigh aveva pensato pere la Marina Militare, così avveniristici da funzionare bene anche in un film di fantascienza (un po’ come da noi si è fatto con il Colosseo Quadrato all’Eur, le sue atmosfere dechirichiane lo hanno più volte trasformato in palazzo futuribile nel nostro cinema fantascientifico…). Molto noto è stato anche Frank Gehry, che il cinema lo conosceva bene perché aveva lavorato con molti suoi esponenti restando in rapporti di grande amicizia (Sidney Pollack gli ha addirittura dedicato un documentario, che si intitola Frank Gehry creatore di sogni). Tra i tanti sogni creati da Gehry ci sono ovviamente le tante residenze di lusso (ma anche innovative e nelle quali il cattivo gusto yankee è decisamente bandito) da lui realizzate, ad esempio, per Dennis Hopper, per Robert Downey jr. (Gehry era anche molto amico del padre dell’attore, che era un regista sperimentale del New American Cinema) e anche per Brad Pitt. E le invenzioni di Gehry appaiono molte volte nel cinema, ad esempio in 007- Il mondo non basta,
Nata di Marzo di Antonio Pietrangeli
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oppure in Passion di Brian De Palma. E Adalberto Libera, quando nel 1942 inaugurò villa Malaparte a Capri, aveva pensato a un segno che fosse al tempo stesso moderno e rispettoso dell’accecante bellezza naturale di quello squarcio di mondo. Ne esce una villa “fuori dal mondo”, come tale utilizzata per due film davvero importanti come Il disprezzo di Godard (un film massacrato dal produttore Carlo Ponti) e La pelle di Liliana Cavani (in quest’ultimo caso come doveroso omaggio visivo a una villa che l’autore Malaparte aveva discusso in ogni suo dettaglio con l’architetto che l’aveva progettata). Ma forse l’esempio più pregnante di convivenza tra drammaticità dell’architettura e forza interiore della storia raccontata dal film riguarda Kenzo Tange, il grande architetto giapponese che per primo ha saputo tradurre in segni strutturali il dramma collettivo che ha attraversato il Giappone distrutto dalle due bombe atomiche che gli statunitensi hanno sganciato su Hiroshima e Nagasaki. È opera di Kenzo Tange il monumento con annesso giardino che è stato costruito per ricordare quanto avvenne nell’agosto 1945. Non è un caso se Alain Resnais immagina che pro-
La città ideale di Luigi Lo Cascio
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prio lì si svolga il lungo colloquio tra i protagonisti di Hiroshima mon amour, film sulla crisi dell’occidente ingenerata proprio dalla rimozione collettiva del passato. Ma sul tema del rapporto tra cinema e architetti, ovviamente, non c’è davvero nulla che manchi nel volume curato da Giorgio Scianca per Silvia Viglietti Editore, che ha dato un po’ lo spunto a questo numero speciale di «Mondo Niovo». L’architettura è comunque un’arte che al cinema viene declinata sempre e comunque, ci sia o no un architetto all’interno della storia raccontata dal film in questione. Sono innumerevoli gli architetti che hanno fatto i registi, ad esempio: viene in mente Flavio Mogherini, il regista resosi famoso per le tante commedie da lui dirette per l’interpretazione di Renato Pozzetto, che prima di esordire dietro la macchina da presa aveva firmato la scenografia di almeno una sessantina di film. E sono altrettanto infiniti e impossibili da censire nella loro interezza i riferimenti che i film contengono nei confronti dell’architettura. Uno dei rapporti più complessi, ad esempio, è quello che lega Luchino Visconti alla costruzione dei suoi film. La leggenda metropolitana vuole che lui odiasse le ricostruzioni scenografiche per il cinema e proprio per questo abbia preteso una villa vera per realizzare Il gattopardo (il suo film più colossale), obbligando il produttore Goffredo Lombardo ad un aggravio di costi che gli è poi stato fatale. Si tratta per l’appunto di una leggenda. È vero che Visconti volle quella villa “vera”, ma è altrettanto vero che per Le notti bianche fu lui a volere espressamente che a Cinecittà fosse ricostruito un intero quartiere di Livorno, restandone talmente soddisfatto da ringraziare esplicitamente nei titoli di testa le maestranze di Cinecittà per l’ottimo lavoro realizzato per l’occasione. Insomma, Visconti dava talmente tanta importanze alla costruzioni da lavorare con esse in modo completamente diverso. E tutto si spiega pensando a quanto sia costruita l’immagine (davvero architettonica, in questo caso) dei suoi film. Personalmente credo che la città del futuro delineata da Fritz Lang e Thea von Harbou in Metropolis sia il massimo della declinazione dell’argomento architettura applicata al cinema (fu Eric Kettelhut a progettare la città del futuro, sintetizzando di fatto tutto quanto in quegli anni aveva teorizzato Bauhaus). Così come credo che nessun architetto fosse presente quando l’attore Gordon Mitchell, cattivo di tanti western all’italiana, fece costruire dalle parti di Tivoli un villaggio western con costruzioni veramente in muratura, cercando (e riuscendo anche, per un breve periodo) di fare concorrenza agli stabilimenti che gli spagnoli avevano costruito in Almeria dopo che quel posto era stato scoperto da Sergio Leone. Gli architetti non c’erano perché Mitchell li aveva cacciati: avevano chiesto di essere pagati e pagati bene, lui voleva fare tutto da solo. Pare che negli anni Ottanta, quando le ruspe distrussero quelle costruzioni delle quali non rimane traccia alcuna, i demolitori si siano sorpresi nel vedere che quelle casupole non avevano i muri portanti eppure erano state in piedi fino a quel momento. Misteri dell’improvvisazione? Arte d’arrangiarsi? Anche su questi binari scorre il rapporto tra cinema e architettura. ■
Frank Gehry - Creatore di sogni di Sydney Pollack
C'eravamo tanto amati di Ettore Scola
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L’architetto ha abbassato le ali Ma non per questo ha smesso di volare di Giorgio Scianca
“L
a recita dell’architetto” è terminata un paio d’anni fa, chiusa in tipografia e cristallizzata. Ma l’architetto continua a recitare. Da quando il volume dedicato alla figura dell’architetto al cinema è uscito nelle librerie, i film hanno continuato a macinarne la figura professionale. Deve essere un mestiere particolarmente attraente, nonostante tutto, nonostante la crisi, economica e di identità. Anzi, negli ultimi anni, in giro per il mondo, sono aumentate le pellicole che non si servono semplicemente dell’architetto in quanto personaggio versatile e adattabile: si accentua la tendenza a raccontare vere e proprie storie di architettura. Veri architetti, talvolta. Nei film più recenti che hanno come protagonista un architetto mi sembra insomma di leggere una discontinuità con il passato. Forse l’architetto ha abbassato le ali. Ma non per questo ha smesso di volare. Meglio spiegarsi con degli esempi: che potrebbero formare il nostro giro del mondo in 40 film. Non si può, qui, parlare di tutti, si prepara un aggiornamento scritto di questo che è un continuo work in progress. Comunque speriamo di rendere un’idea abbastanza completa. Cominciamo con To Rome with Love di Woody Allen (2012): la giovane intellettuale americana (Ellen Page) sarebbe disposta a concedersi idealmente al giovane architetto intransigente de La fonte meravigliosa. E allora il più attempato architetto Alec Baldwin seduto sui gradini dell’anfiteatro all’aperto della Città della musica di Roma reagisce così: «Dio risparmiami ti prego. Un’altra giovane donna che vuole dare il suo corpo a Gary Cooper. Lei sembra conoscere tutte le cose giuste da dire. Conosce i
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nomi, conosce i termini di moda, conosce certe citazioni colte che fanno pensare a lei come una che sa: l’angoscia dell’influenza; i quartetti d’archi di Bartók; la perversione della dialettica; la Sagrada Familia; quel “mare tormentato dal gong”. Sono passati soltanto due anni da quando la stessa attrice interpretava una studentessa di architettura e aiutava Leonardo Di Caprio a disegnare “il mondo dei sogni” in Inception di Christopher Nolan (2010). «Due minuti per disegnare un labirinto che ne richieda uno per risolverlo». Da allora, nei film che hanno come protagonista un architetto è cambiato il linguaggio. L’architetto rappresentato dal cinema si è in qualche modo spogliato, è tornato sulla terra. Sarà stata la crisi generale in cui si sono trovati coinvolti i professionisti. Sarà la fine del concetto di “archistar” che tanto ha fatto male alla categoria in generale e in particolare alle giovani generazioni che, dimentiche dell’origine e del passato, si sono rifugiate nel gesto, nel disegno, nell’emozione. E allora nei film recenti troviamo professionisti anziani che non si arrendono all’età e sovente alla malattia: Patrick Lapp (La vanité di Lionel Baier, 2015); Khaled Abol Naga (Villa 69 di Ayten Amin). Professionisti vuoti e privi di senso critico non solo nel lavoro ma anche nella vita sentimentale: Éric Bruneau (Le règne de la beauté di Denys Arcand, 2014). E finalmente si riflette sul passato: sugli errori che hanno causato danni irreparabili alle città, all’ambiente e alla società. Essi, gli sbagli, sono alla base di diverse trame: Attenberg, Theon Talo, La comune, High-Rise, tutte pellicole interessanti. Qualche esempio: in Attenberg di Athina Rachel Tsangari
(2010), la storia degli ultimi mesi di vita di un architetto greco, malato di cancro, è raccontata in parallelo con quella del Paese che sta affondando economicamente. La figlia adolescente lo accompagna in questa amara fine, presa tra la voglia di scappare e il desiderio di vivere fino alla fine il suo destino. In Theon talo di Rax Rinnekangas (2014) Théo e Vincent, due architetti finlandesi si incontrano in un castello della Germania Est, nel 1993. È l’occasione per riflettere sui discutibili progetti degli anni ’80. Una grande operazione immobiliare ha cementificato una zona costiera demolendo centinaia di abitazioni storiche in legno. Un mea culpa tardivo e vigliacco. Poi sentiamo il peso della storia: in Obra di Gregório Graziosi (2013), ad esempio, il giovane e ricco architetto Santos trova lo scheletro di un uomo, durante lo scavo di fondazione di un nuovo edificio, a San Paolo. Entra in conflitto con la famiglia, comincia a rivalutare la professione. Il terreno appartiene al padre, morente, che a suo tempo è stato vicino alla dittatura militare brasiliana. Santos guarderà con occhi diversi quella città che non sarà più la stessa per lui. Dall’Argentina, ecco Medianeras, di Gustavo Taretto (2011). “Medianeras” sono le pareti cieche degli edifici, spazi morti normalmente occupati dalla pubblicità. L’architetto è in vetrina (nel senso di vetrinista). Il regista parte da un cortometraggio da lui prodotto vincitore di numerosi festival cinematografici e amplia l’analisi sull’influenza della città sugli abitanti. Buenos Aires è la vera protagonista di questa ironica, fresca e intelligente commedia urbana. Splendido esempio di come si possa partire da un documentario per arrivare a una fiction semplice che ha avuto milioni di spettatori nel mondo. Potenza della finzione cinematografica. Continuiamo il nostro giro del mondo attraverso gli architetti in crisi, e dall’Argentina passiamo al Cile. In En la gama de los grises, Nella scala dei grigi di Claudio Marcone (2015) Bruno, architetto trentacinquenne, vive a Santiago una vita equilibrata, forse anche troppo. È sposato, ha un figlio, una bella casa e un lavoro che gli dà poche soddisfazioni ma gli permette di vivere agiatamente. Nonostante tutto, si sente ben lontano dall’essere felice: da tempo lo assillano emozioni instabili e grigie, delle quali non capisce bene il motivo. Stanco di questa condizione d’inadeguatezza alla quale non riesce a dare un nome, vive un momento di sbandamento e lascia la famiglia. Deciso a concentrarsi su se stesso, accetta un lavoro creativo, il re-styling di un quartiere d’epoca. Lo affianca Fer, storico dell’urbanistica dichiaratamente gay. Un tipo energico e sveglio, di poco più giovane di lui. Per Bruno una vera e propria rivelazione. Ma l’architettura dei sentimenti è ben più complicata di quella della città. Andiamo in Messico, Aquí Entre Nos, Tu qui, tra di noi, di Patricia Martínez de Velasco (2011): succede che l’architetto Rodolfo Guerra, con moglie e tre figlie, si sveglia una mattina e decide di non andare a lavorare; è stanco di essere maltrattato dal capo dello studio di progettazione. Non sa che cosa l’aspetta. Chi è disposto ad assumere un uomo analogico nell’era digitale? Comincerà una nuova vita professionale come vignettista.
Attenberg di Athina Rachel Tsangari
Chronic di Michel Franco Daan gyun naam yu di Johnnie To e Wai Ka-Fai
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E negli Stati Uniti, a Washington, (The Architect di Jonathan Parker, 2016 USA), l’architetto visionario Miles Moss è incaricato da una coppia di mezza età di costruire la casa dei sogni. A poco a poco si renderanno conto che l’architetto sta costruendo il proprio sogno impossibile. Per non parlare della grande bellezza in salsa canadese. Nel regno della bellezza (Le règne de la beauté di Denys Arcand, 2014), l’estetica è la parola chiave del film. Estetica vuota perché i personaggi, primo fra tutti l’architetto Luc Sauvageau, sono in crisi perenne. Dello stesso regista, non a caso, sono Le invasioni barbariche e Il declino dell’impero americano. Ecco la penisola Scandinava, Norvegia, siamo a Rykkinn (Sønner av Norge di Jens Lien, 2011), e Figli della Norvegia è il titolo. Nella città-dormitorio vivono un padre e un figlio: il padre architetto, nudista, ex hippy, e il figlio punk. Hanno un buon rapporto, ma ognuno dei due reagisce diversamente a ogni cosa: il padre è pacifico, il figlio violento. La rabbia del ragazzo arriva da fuori, perché in casa è tutto stemperato e libero. Come si fa a odiare un genitore così? Dopo una colluttazione che lo lascia tramortito, al giovane appare in sogno Johnny Rotten, il cantante britannico, voce del gruppo punk rock dei Sex Pistols: gli dice che tutto è una montagna di merda. Solo dopo averlo capito e accettato, ogni cosa diventa possibile.
Il titolo della pellicola è anche quello dell’inno nazionale norvegese. Rotten ne ha fatto la versione punk per il film, così come fece con “God Save the Queen” nel 1977. Qui Svezia, Stoccolma esattamente, titolo Baciami (Kyss mig di Alexandra Therese Keining, 2011). Un’architetta trentenne incontra la figlia della matrigna alla festa del secondo matrimonio del padre, sapete come sono gli svedesi: Frida è una giovane libera e sensuale che immediatamente entra in sintonia con l’architetto. Fra le due donne scoppia la passione, l’architetto è iniziata alle pratiche saffiche. La soddisfazione è totale e la giovane entra in crisi con il suo vecchio mondo. Quando decide di cambiare vita e uscire dall’armadio Frida non è più lì. Le due si riuniscono sotto il sole e la libertà sessuale della Spagna, a Sitges in Catalogna. Un passo successivo potrebbe portare a Hellerup, Copenhagen con Kollektivet di Thomas Vinterberg (2016). Siamo alla comune. Non quella parigina, ma quella domestica. L’architetto Erik eredita la casa di famiglia. La villa è meravigliosa, immersa nel verde, e conquista subito il cuore di sua moglie Anna. Però ha una caratteristica fondamentale: è enorme. Rinunciare a una tale bellezza è un peccato, quindi decidono di invitare un gruppo di amici a vivere sotto lo stesso tetto. Nonostante l’iniziale perplessità del padrone di casa, alla fine prende forma una
Seconda primavera di Francesco Calogero
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Scusate se esisto! di Riccardo Milani
comune. La novità porta armonia, ringiovanisce tutti, è un’ondata di freschezza. Ma, all’improvviso, un’altra donna entra nel cuore di Erik e tutto cambia: la sua magnifica moglie, la progressista ed emancipata donna che ha sposato, la diva del tubo catodico, dovrà superare una prova durissima. Molto privato, dunque, in questi ultimi anni. Ma nello stesso tempo si ripensa alla stessa figura dell’architetto, come si diceva all’inizio: è girato a Belfast, Regno Unito, High-Rise, Grattacielo di Ben Wheatley (2015), tratto da un romanzo di Ballard. Il racconto visionario è ambientato in una torre residenziale nel 1975, alla vigilia della salita al potere di Margaret Thatcher. L’architetto Anthony Royal vive nell’attico della creatura che lui stesso ha progettato. Come in una prigione si scatena una lotta di bande per il potere. Guerra di classe che vede tribù contrapposte affrontarsi su ascensori, pianerottoli, scale. Condominio psichiatrico. In The Price of Desire di Mary McGuckian (2015) Vincent Perez interpreta Le Corbusier. Tra il 1937 e il 1938 lui realizza una serie di murales sessualmente espliciti nella villa progettata e abitata dall’architetto modernista irlandese e designer Eileen Gray. Una provocazione? Una storia d’amore mai nata? O nata e poi sopita? Nel frattempo per motivi cinematografici la villa E1027 a RoquebruneCap-Martin, che versava in pessime condizioni, è stata realmente ristrutturata e riarredata con i pezzi della designer. Il cinema incomincia a saldare qualche piccolo debito con l’architettura. Il grand tour continua naturalmente in Italia, con i film in gara a Vicenza, al Premio Dedalo Minosse Cinema. In La sapienza di Eugène Green (2014) un architetto famoso è in crisi di incomunicabilità con la moglie psico-
Kollektivet di Thomas Vinterberg
Le règne de la beauté di Denys Arcand
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loga. Gerardo è uno studente di architettura, assai legato alla sorella spesso malata. Un viaggio attraverso la “grande bellezza” italiana, a partire dalla visita nei luoghi di Borromini, salverà le due coppie. Ecco Scusate se esisto! di Riccardo Milani (2014), ispirato dalla storia vera di Guendalina Salimei, architetto romano. La protagonista Paola Cortellesi è un architetto dal talento straordinario. Dopo una serie di successi professionali all’estero, torna in Italia. Ma è una donna, e sono guai. Incontra Francesco, tra loro nasce uno strampalato rapporto, in cui entrambi mentono, con gli altri, sulla loro identità. Ha raccontato Salimei: «Il regista Milani mi aveva cercato dopo aver visto il progetto del nostro studio per rigenerare il quarto piano del Corviale dove oggi ci sono oltre 100 alloggi occupati. Nel 2007 l’Ater aveva promosso un concorso per mettere in regola questa situazione e T Studio aveva vinto con il progetto del Chilometro Verde». Il progetto è stato fermo diversi anni ma nel 2017, anticipa l’architetto Salimei, dovrebbe andare in appalto. Sarà anche merito del film? Poi arriva Seconda Primavera di Francesco Calogero (2015). Cercando acquirenti per la sua villa in riva al mare, l’architetto cinquantenne Andrea conosce la studentessa Hikma, sorella minore di un ristoratore tunisino cui deve ristrutturare un attico. Hikma è incinta, e sta vivendo un grave conflitto con il fratello, mussulmano osservante: Andrea decide di ospitarla nella sua villa, in cui è tornato ad abitare. E lei lo aiuta più di quanto lui avrebbe potuto immaginare: invogliandolo a curare il giardino al ritorno
Beijing Love Story di Chen Sicheng
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della primavera, riesce a ritrasmettergli fiducia anche nelle sue capacità professionali. In Ricomincio da Ottanta di Alex Infascelli (2015) Arturo, anziano architetto, e Riad, cingalese dalla chioma candida, vivono assieme a Roma. Riad è il badante dell’architetto, costretto a camminare con le stampelle a causa di un ictus. Nello Sri Lanka, paese che racconta come un paradiso, ha moglie, figli e una famiglia numerosa. L’architetto invece è praticamente solo. I due decideranno di trasferirsi insieme a Ceylon. Ecco infine Prigioniero della mia libertà di Rosario Errico (2016), dove si racconta il dramma di un giovane architetto, Marco Berardi, felicemente sposato e padre di una bambina, che vedrà la sua vita distrutta per una falsa accusa, un errore giudiziario che lo porterà in carcere. Uscirà dalla prigione annientato, con il desiderio di vendicarsi contro chi gli ha cancellato passato, presente, futuro. Tratto da un libro dello stesso regista Rosario Errico. Andiamo verso Oriente. Più esattamente a Istanbul (Hayatboyu di Asli Özge, 2013). Qui il film Per tutta la vita, studio minimalista del malessere della borghesia moderna. Nel quartiere “up” di Nisantasi, una coppia inglese, Can ed Eli, architetto cinquantenne e artista di pari età, sono arrivati alla frutta. La figlia è andata a studiare ad Ankara. Come nella loro casa modernista, tra i due ormai manca da tempo il calore umano, annegato dal design, dalla tecnologia, dall’arte moderna. Piccoli tradimenti, impegni di lavoro pressanti e ormai insoddisfacenti. Scene da un matrimonio a ritmo lento, a colori desaturati, e con un epilogo prevedibile. Fotografia notevole, location della città terremotata impressionante. Ci spostiamo a Tel Aviv, Israele. (Hahithalfut di Eran Kolirin, 2011). In Alternanza troviamo un “Esempio di regressione sociale e umana. Una giovane coppia israeliana ha la sua vita. Entrambi lavorano, si vogliono bene, hanno un’attività sessuale soddisfacente. Tutto apparentemente procede con serenità, come nella città israeliana sullo sfondo, che sembra anch’essa tranquilla. Ma un bel giorno il marito torna a casa perché aveva dimenticato qualcosa e improvvisamente è colpito da regressione psicologica. Diventa alienato nei confronti della propria vita, la disconosce. Tutto sembra falsato e diverso, l’uomo non riesce a capire ciò che succede e perché, e neppure noi. La chiave di lettura più facile è quella simbolicamente sociologica: la società israeliana incapsulata tra paure e ossessioni. …” (Roberto Matteucci su Expanded Cinemah, 2011). Da aggiungere la figura di Oded, la moglie architetto del dottorando in fisica, Tami. Lavora in casa e perciò segue con curiosità le stranezze del marito e del suo compagno di giochi. Ne è contagiata e persino divertita. È iniziata forse una rivoluzione silenziosa e non ce ne siamo accorti. E che succede al Cairo (Villa 69 di Ayten Amin, 2013)? Hussein è un architetto malato terminale che vive una routine solitaria nella vecchia casa di famiglia. Non rendendosi conto delle sue condizioni, la sorella di Hussein e suo nipote irrompono nella dimora avita, interrompendo uno stile di vita ben definito, e costringendolo a riesaminare le sue idee sulla vita medesima, sulle donne, sulla famiglia.
In scena l’Iran, che tanto ci viene descritto da una cinematografia assai vivace (Pele Akher di Ali Mosaffa, 2012). Assai simbolico quell’“ultimo gradino” del titolo. L’architetto Koshrow soffre da anni di depressione. Né il matrimonio né la carriera gli hanno dato le soddisfazioni che sperava: la bella moglie Leili, attrice il cui successo lo mette in ombra, gli nasconde qualcosa, e il suo migliore progetto resta quello della loro dimora, una casa perfetta eccetto per un trascurabile particolare, l’ultimo gradino della scala esterna, visibilmente più alto degli altri a causa di un errore di calcolo. Lui cerca il dolore fisico per contrastare il dolore dell’anima. Alla fine muore nella cucina di casa probabilmente per un ictus. Arriva la magica India, che spesso comprende nelle sue narrazioni cinematografiche il ballo e il canto come parti integranti. (O Kadhal Kanmani di Mani Ratna, 2015). In questo Oh caro amore siamo a Ahmedabad, e si racconta una storia d’amore nata nel campus dell’università e proseguita lungo i cambiamenti della vita, dell’architetto protagonista e di tutti gli altri. O tempora o mores, gli indiani non dicono così, ma esprimono talvolta lo stesso concetto. A Seul, Corea del Sud, ecco Geonchukhakgaeron di Lee Yong Ju (2012), Introduzione all’architettura. L’architetto Lee Seung-min riceve una cliente che vuole costruire una villa nuova al posto di quella di famiglia sull’isola vulcanica di Jeju, nello stretto di Korea. Il professionista, fidanzato, in procinto di sposarsi e in partenza verso gli Stati Uniti per lavoro, non riconosce subito la giovane e accetta l’incarico. Lei era la ragazza inarrivabile all’università. Si erano trovati a un passo dallo stare insieme, ma le circostanze avevano negato l’incontro decisivo. Ora i sentimenti di entrambi riaffiorano mentre si precisano i contorni del progetto. Non vale la pena distruggere il passato, è meglio ampliare la casa, ristrutturarla. Si chiariscono anche sui sentimenti. Bisogna guardare avanti, magari partendo per l’America o ascoltando la musica che li aveva fatti innamorare davanti al mare nella nuova bellissima casa con il tetto verde d’erba. Da Pechino, Beijing Love Story di Chen Sicheng (2014), l’adattamento della popolarissima serie televisiva cinese omonima. Cinque storie d’amore ambientate nella città moderna. Il film inizia con il giovane architetto Chen Feng investito da un autobus mentre è alla ricerca della sua ragazza. Come si dice, in un secondo “rivede tutta la vita passargli davanti agli occhi”. Alla festa di addio al celibato di un amico conosce Shen Yan. Si piacciono e lui da bravo architetto porta a spasso la bella per una Pechino moderna, sorprendente, magica (ma alla fine è solo un grande luna park). Si innamorano anche se lei è promessa a un ricco pretendente. L’avrà, la perderà. La cercherà e – magia – l’autobus questa volta lo evita. Tra commedie e riflessioni sui cambiamenti dei tempi, l’Oriente non sta fermo mai. Ultima tappa del viaggio: Waiheke Island – Nuova Zelanda, con Orphans & Kingdoms di Paolo Rotondo (2014). È un dramma commovente di un architetto ricco e solitario che torna a casa solo per essere legato e picchiato da tre ragazzi in fuga. Ridotto all’impotenza dei suoi aguzzini è costretto ad affrontare i demoni del suo passato oscuro. ■
Geonchukhakgaeron di Lee Yong-joo
La Sapienza di Eugène Green
O xenagos di Zacharias Mavroeidis
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Il soffitto di cristallo: donne architetto nel cinema di Elisa Cuter
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orse è un caso, forse no, se per parlare delle difficoltà che le donne incontrano nel tentativo di raggiungere posizioni di rilievo in campo professionale si utilizza una metafora architettonica. Si parla infatti di “soffitto di cristallo” (glass ceiling, nella formulazione originale del «Wall Street Journal» che rese nota l’espressione in tutto il mondo a partire dal suo primo utilizzo nel 1986). In che rapporto si trova questa barriera, per definizione invisibile, con il cinema, arte che ambisce a “far vedere”, attraverso l’immagine e la narrazione, le tematiche che affronta? Una delle primissime donne architetto del cinema compare nel 1937, in una screwball comedy dall’eloquente titolo Woman Chases Man (“donna insegue uomo”, tradotto in italiano Tiranna deliziosa), di John G. Blystone – che vede tra gli sceneggiatori anche Dorothy Parker. Miriam Hopkins è Virginia Travis, giovane architetto che per farsi incaricare della costruzione di un villaggio residenziale apostrofa così il suo finanziatore: «So quello che sta pensando, che sono una donna. Lo so, Mr. Nolan, ma ho il coraggio di un uomo, la visione di un uomo, l’attaccamento al lavoro di un uomo (…) Per sette anni ho studiato come un uomo, ho fatto ricerca come un uomo. Nella mia mente non c’è l’idea di una famiglia. Ho avuto una relazione con un docente anziano perché mi facesse fare carriera. Ora sono un architetto e lui è morto. Sono in grado di farle fare fortuna».
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Da queste poche ma programmatiche battute, si intuisce quanto la scelta di fare interpretare a una donna il ruolo di architetto, nella cultura occidentale, sia difficilmente scevra di connotazioni sociologiche: una donna architetto non è semplicemente un personaggio che, incidentalmente, esercita una professione, è una femmina che fa un mestiere tradizionalmente maschile, e non solo perché la donna lavoratrice è una relativa novità nella nostra cultura, ma anche perché l’architettura (a dispetto del suo nome femminile e del suo aspetto di arte, che ben si presterebbe alla concezione che vuole la donna raramente geniale ma spesso incline, anche solo per diletto, alle attività legate al bello e alla creatività) è affare da uomini, legata com’è a materiali pesanti, a strutture rigide, all’idea della solidità. Un edificio, si sa, deve essere, prima di tutto, ben ancorato al terreno. La donna che sceglie di intromettersi in questo campo è per definizione, quindi, nell’immaginario collettivo, una donna poco a suo agio con il ruolo che la natura o la società le hanno imposto. È una donna che vuole prendere il posto dell’uomo. Che mette insomma a repentaglio il tradizionale e rassicurante ordine di genere. Dunque, a seconda delle visioni e dei film che le rappresentano: una donna libera, una donna emancipata, una donna capace di essere un valido compagno per l’uomo, sul lavoro come nella vita; oppure una donna difficile, presuntuosa, condannata alla solitudine e all’infelicità; o ancora, una donna che si sostituisce al maschio,
Tiranna deliziosa di John G. Blystone
ne assume il ruolo, una separatista, insomma una lesbica. Non esiste, in questi film, come spesso nella vita delle donne (e come rivendicava lo slogan femminista “il personale è politico”), una separazione netta tra la vita professionale e quella privata: discutere il proprio ruolo sul lavoro vuol dire, necessariamente, ribaltare anche il proprio ruolo sessuale. Un ribaltamento magistralmente rappresentato nel film L’harem (1967) del solito provocatore Marco Ferreri, in cui Margherita (Carrol Baker), donna indipendente che si circonda di uomini, è, appunto, un architetto. La professione come simbolo insomma, mai come contingenza. In questi film, la questione di genere, coerentemente del resto con lo stadio di sviluppo della società attuale, è sempre tematizzata, messa al centro della narrazione. Per questo si impongono, prepotenti, questioni teoriche di difficile soluzione. Essere una donna architetto significa semplicemente essere un individuo con delle ovvie e connaturate ambizioni professionali, avere cioè diritto alle stesse possibilità in quanto capace delle stesse cose, in una prospettiva queer e gender-neutral? O piuttosto, in un’ottica più vicina a quella del cosiddetto femminismo “della differenza”, apportare qualcosa di nuovo, una ricchezza particolare consentita dal diverso bagaglio di genere a una disciplina storicamente appannaggio del maschio? Ancora, essere un architetto, per una donna, vuol dire emanciparsi dal proprio genere, affrancarsi dal proprio
ruolo tradizionale (legato nel mondo dell’architettura all’aspetto decorativo, alla “creatività”, alla fruizione, al design, alla concezione di realtà abitative che facilitino gli aspetti di comunicazione e socialità) per avvicinarsi a una professionalità più maschile, fatta di scienze dure, strutture, cantieri, progettazione innanzitutto ingegneristica? Oppure stabilire che il primo di questi due aspetti, quello che viene considerato accessorio e “successivo” all’elaborazione di edifici solidi e possibili deve essere integrato nella prima fase, nell’obiettivo di pensare un’architettura sempre più a misura di essere umano, che tenga conto degli individui che abiteranno gli spazi che vengono creati? Così come esistono molti e diversi “femminismi”, i film che mettono al centro donne architetto scelgono prospettive molto diverse tra loro, prendendo in modo più o meno consapevole posizioni divergenti su questi approcci teorici, e offrendo spesso ritratti di donne sfaccettati e complessi. Come spesso accade, la questione del genere sessuale (gender) si lega a quella del genere cinematografico (genre). Uno dei primi genres a mettere al centro le donne è stato storicamente il melodramma. In Italia troviamo infatti un perfetto esempio di quanto detto sopra riguardo al rapporto tra professione e scelte private e personali nel melodramma per la tv di Vittorio Cottafavi Una donna libera (1954), struggente vicenda della giovane Liana Franci (Francoise Christophe), assolutamente non dispo-
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Un giorno... per caso di Michael Hoffman
sta a piegarsi alle convenzioni borghesi grazie alla pur risicata indipendenza economica conquistata grazie alla sua professionalità (e alla fuga all’estero, altro elemento molto attuale di un film sicuramente in anticipo sui suoi tempi). Anche Liana però è una figura troppo “avanti” per l’Italia del dopoguerra, e la sua storia conduce alla punizione esemplare che come sempre spetta alle donne che hanno osato troppo. Punizione nella quale però Liana coinvolge
Eine flexible Frau di Tatjana Turanskyj
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anche uno degli uomini responsabili della sua caduta esemplare. Costretta a ripiegare sull’estero per fare carriera, quasi mezzo secolo più tardi, è inizialmente anche la protagonista di Scusate se esisto! (2014), intelligente film di Riccardo Milani scritto e interpretato da Paola Cortellesi ispirato alla storia vera di Guendalina Salimei. In un film che meglio di qualunque altro dimostra come la commedia, soprattutto in Italia, “metta in scena tutta una serie di modelli identitari, stili di vita e forme di relazione intersoggettiva più o meno dominanti, e soprattutto le conflittualità e gli aspetti più complessi della vita quotidiana”, come ha affermato Ilaria A. Depascalis (2012), la protagonista è costretta a fingersi un uomo per ottenere l’incarico di riqualifica del quartiere Corviale di Roma. É questo uno degli esempi migliori di come l’apporto di un approccio “femminile” all’architettura porti spesso con sé un interesse maggiore per il sociale e l’impegno piuttosto che per il profitto, facendo gioco-forza dell’aumentata sensibilità che si accompagna alla discriminazione vissuta sulla propria pelle. Scusate se esisto! è solo uno tra i tanti esempi di come il tema della donna architetto sia stato declinato soprattutto nei termini della commedia. Sempre in Italia negli ultimi anni (ricalcando però il francese Per sfortuna che ci sei) Stai lontana da me di Alessio Maria Federici. I ruoli di genere tradizionali sono ribaltati da subito: Enrico Brignano interpreta un consulente di coppia, dunque un esperto di quelle che sono tipicamente tematiche femminili, mentre Ambra Angiolini è un architetto. Questa professionalità le consente di avere lo stoicismo e la pragmaticità necessari a far funzionare una relazione che da principio sembrerebbe disastrosa.
Hollywood ha dato il suo contributo negli anni ‘90 con un film che, seppur meno patinato del suo solito standard, si inserisce nel filone in voga dal decennio precedente delle “Cenerentola” moderne, o delle “donne in carriera” (declinato nei modi più diversi da Pretty Woman a Una donna in carriera, fino a Baby boom o alla sua versione thriller Attrazione Fatale) con Un giorno...per caso (1996) in cui l’architetto Michelle Pfeiffer scopre in una giornata piena di imprevisti che la sua condizione di donna e di madre non rappresentano un ostacolo né alla sua carriera né all’incontro con il vero amore, rappresentato dal giornalista (e padre single a sua volta) George Clooney. Non manca l’indiewood da Sundance, con le sue commedie malinconiche/amarognole: Medianeras – Innamorarsi a Buenos Aires (2011) lavora sapientemente con gli spazi angusti, affollati, claustro- e agorafobici della capitale argentina per raccontare la ricerca inconsapevole dell’altro di Martin, web designer, e Mariana, architetto di formazione che lavora però come vetrinista. Il suo primo “lavoro” sul territorio è proprio l’apertura abusiva di una finestra nella parete cieca di casa sua, che le permetterà di incontrare finalmente il ragazzo a cui lo spettatore sa di essere destinata. Se nei precedenti esempi vediamo donne che utilizzano la propria femminilità (intesa nel senso più tipico della “cura” dell’altro, sia che si intenda il compagno, un figlio o la collettività) come un potenziale da sfruttare nella propria realizzazione personale (tanto lavorativa quanto affettiva), moltissimi altri film degli ultimi anni ci mostrano invece architetti lesbiche. Non necessariamente è valida l’equazione secondo la quale all’ingresso prepotente delle donne in un campo prevalentemente maschile conseguirebbe una progressiva “maschilizzazione” delle donne. La commedia italiana Io e lei (2015) di Maria Sole Tognazzi, ad esempio, presenta una storia in cui l’architetto interpretato da Margherita Buy non è diverso dai soliti ruoli di donna nevrotica e insicura che l’attrice ricopre nel cinema italiano se non per la sua relazione travagliata con la ben più volitiva e “mascolina” (secondo i canoni binari classici) Sabrina Ferilli. Va tenuto presente che la commedia, però, approfitta spesso del suo registro all’apparenza disimpegnato per operare ribaltamenti inconsueti e rappresentare realtà che nel quotidiano apparirebbero allo spettatore come “assurdi”, alle volte per ridicolizzarli, certo, ma più spesso per fungere da cavallo di troia nel cambiamento della mentalità collettiva. Un esempio di donna che assume in toto il ruolo maschile lo troviamo infatti in Flores Raras – Reaching for the Moon (2013) di Bruno Barreto, film biografico che racconta la storia d’amore tra la poetessa americana Elisabeth Bishop e l’architetto modernista Lota de Macedo Soares nel Brasile degli anni ‘50 e ‘60, una storia che termina però, come in un melodramma, con il suicidio per amore della virilissima Lota. Va aggiunto che l’apporto della visione femminile sul modernismo, con la sua attenzione innovativa per il design e l’aspetto della fruizione, è conclamato e indagato, finalmente, anche in film come The Price of Desire (2015) di Mary McGukian, che porta alla
Io e lei di Maria Sole Tognazzi
Una donna libera di Vittorio Cottafavi
Scusate se esisto! di Riccardo Milani
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Inception di Christopher Nolan
luce l’enorme debito creativo di LeCorbusier nei confronti di Eileen Green. I ragazzi stanno bene (2010) di Lisa Cholodenko è invece una dramedy “queer” a tutti gli effetti: sia la professione (designer del paesaggio) che l’orientamento sessuale di Jules (Julienne Moore) sembrano avere un peso relativo negli sconvolgimenti emotivi apportati dall’entrata in scena del padre biologico dei figli che ha cresciuto con la sua compagna Nic (Annette Being) e funzionano più che altro come espedienti narrativi in quello che è un film che punta paradossalmente soprattutto alla ricomposizione dell’equilibrio famigliare. Lo svedese Kyss Mig (2011) di Alexandra-Therese Keining utilizza invece la professione di architetto della protagonista per caratterizzarla come un personaggio concreto e
Medianeras - Innamorarsi a Buenos Aires di Gustavo Taretto
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rigoroso, ma incapace per questo di accettare l’attrazione che prova per Frida, insegnante di musica, e la sua omosessualità. Lo stesso rigore si ritrova nell’austero ma romantico personaggio di Camille, aspirante martire per amore che nel film del 2011 di Mia Hansen Løve Un amore di gioventù tenta il suicidio dopo l’abbandono del primo fidanzatino. Lo studio dell’architettura sembra riportarla sulla terra, complice la relazione con un suo professore, ma si accompagna anche alla repressione dei sentimenti più devastanti e potenti provati durante l’adolescenza, destinati a ricomparire come ogni rimosso. Sarà, come dimostrato dall’ultima sequenza, l’accoglienza della natura nella sua concezione dell’esistenza, a permetterle di lasciarsi andare senza restare bloccata nel passato. Non necessariamente l’architettura è maschile e legata al passato però: lo dimostra Inception (2010) di Christopher Nolan, raro esempio di film di fantascienza in cui compare un architetto. E l’architetto necessario per progettare i labirinti onirici in cui si svolge l’intreccio è proprio una donna, la brillante studentessa Ariadne interpretata da Ellen Page. Se finora è emerso soprattutto l’aspetto narrativo, un discorso differente è quello che riguarda il modo in cui la donna architetto nei film viene messa in relazione con lo spazio da un punto di vista formale. Anche qui, le strategie e le riflessioni sono le più diverse, e spesso sono piegate alle esigenze del genere e della narrazione. Un’eccezione può essere il film tedesco del 2010 Eine Flexible Frau, di Tatjana Turanskyi. Greta, la protagonista, è una madre single architetto il cui studio in cui lavora chiude a causa della crisi, e che si trova costretta quindi a cercare impiego in un call center. La curiosità e la passione della donna per l’architettura e l’urbanistica però non si fermano, e Greta continua a andare alla ricerca di opportunità lavorative o semplicemente alla scoperta di Berlino, la sua città, in un’epoca di gentrification selvaggia. Il film, commedia surreale, mette costantemente Greta (interpretata da Mira Partecke) al centro dell’inquadratura, inserita come un uomo vitruviano nel panorama circostante, con-
trobilanciando però questa armonia simmetrica con un prevalere degli spazi sulla figura di Greta che sembra schiacciata dalla metropoli. Quasi a sottolineare che non è lei ad essere inadeguata: sono le circostanze, il mondo, e soprattutto i maschi, a schiacciarla, ad aver creato una situazione paradossale nella quale un sistema che non ha più niente da offrire agli individui continua a farli sentire non all’altezza delle opportunità offerte dalla “flessibilità”. Un paradosso in cui, come nel folgorante incipit, una studiosa di Marx racconta le peripezie che l’hanno condotta a diventare una truccatrice. Riguarda la capitale tedesca anche un saggio apparso nel 2007 su «New Formations», che utilizza concetti e intuizioni di Sigfried Kracauer per riflettere sull’attualità. L’autore, John Allen, parla dell’architettura del Sony Center, il complesso architettonico in vetro e acciaio di Helmuth Jahn a Potsdamer Platz che si ispira al monte Fuji. L’ispirazione naturalistica, le forme sinuose, accoglienti, aperte e inclusive sembrerebbero farne l’esempio migliore di un’architettura non più fallica bensì precipuamente “femminile”. Tuttavia l’approccio fenomenologico di Kracauer alla metropoli moderna, che invita a prendere sul serio la superficie, la forma esteriore delle cose, ciò che è manifesto, svela un’altra realtà: il Sony Center (come tante altre strutture ariose e trasparenti che ospitano, oggi sempre di più, in centro o in periferia, i centri commerciali e i call center che si vedono ad esempio nel film di Paolo Virzì Tutta la vita davanti) è in realtà uno spazio chiuso, privatizzato, sponsorizzato, brandizzato come rivela non a caso il suo stesso nome. I visitatori sono invitati a entrare, senza barriere discriminanti di sorta, a prendere un caffè, fare una passeggiata tra i musei e i negozi, consumare e andarsene.
Questa spinta al consumo, all’efficienza, è a tutti gli effetti un’induzione, una forma di potere, ma, osserva Allen, “Because everything is on the surface, because nothing is hidden or covert, it makes the workings of this kind of power all the more elusive.” Il Sony Center è un luogo in cui il potere non ha più bisogno di essere visibile per essere effettivo, al contrario. Il suo è uno spazio codificato, in cui niente è lasciato al caso, in cui ogni azione avviene nel luogo preposto, ogni scambio è asettico e impersonale, ogni individuo si comporta spontaneamente come è previsto che faccia dallo stesso design del luogo. Vale a dire, da produttore o da consumatore, nel consueto gioco di ruolo capitalistico, senza riguardo per la differenza di età, di cultura, di etnia, di genere. Differenza insomma di quelle che non sono ormai nient’altro che fasce di mercato. Il sempre crescente numero di film che mette al centro storie al femminile, pur denunciando giustamente le pesanti discriminazioni che le donne continuano a incontrare nell’esercizio di una professione fondamentale come l’architettura, sembra segnalare una faticosa ma crescente emancipazione in tutto il mondo – in alcune cinematografie quasi più avanzata che in quella statunitense o europea, se tanti film (come l’iraniano Do Zan, del 1999) ci mostrano sempre più donne in cantiere, decise a conquistarsi anche quei settori che da noi ancora restano preclusi alle donne. Esiste ancora un soffitto di cristallo da far crollare? Forse questo soffitto, oggi, è una volta aperta, in vetro e acciaio, che imita il monte Fuji e che, in un’insultante parodia dell’Altro (la donna, la natura), si apre beffardamente al cielo solo per affermare ancora una volta il proprio dominio e la propria invalicabilità. ■
Un amore di gioventù di Mia Hansen-Løve
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Quando Torino diventò
AfterVille
di Fabrizio Accatino
S
pesso si disquisisce di quanto il design e l’architettura reali abbiano influenzato il design e l’architettura del cinema (in particolare di fantascienza), ma di rado accade il contrario. Quante forme del presente sono nate in precedenza dalle visioni di autori di science fiction? È su questa domanda comune che ormai più di dieci anni fa si sono incrociate le strade del sottoscritto, di Michele Bortolami, di Tommaso Delmastro e di Massimo Teghille. Un giornalista e tre architetti uniti per un progetto ambizioso lanciato dal claim “Tomorrow Comes Today”. Era il 2005 quando scattò tra noi la scintilla di AfterVille. Nel 2008 ci sarebbe stato il Congresso Mondiale degli Architetti per la prima volta in Italia (e per la prima volta non in una capitale di stato). In più lo stesso anno la nostra città sarebbe stata Capitale Mondiale del Design. Quale occasione migliore per parlare proprio di cinema, design e architettura? Dopo numerosi brainstorming (che ci impegnarono per più di un anno) buttammo giù il progetto, lo sottoponemmo all’Ordine degli Architetti di Torino (ente organizzatore del congresso), arrivò l’ok e così nacque questa rassegna di eventi basata sulla medializzazione della città del futuro. Per più di un anno AfterVille avrebbe coinvolto attivamente Torino e i suoi luoghi, venendo inserita nel cartellone degli appuntamenti Off Congress dell’UIA. Il calendario di eventi fu fittissimo. AfterVille. The Show
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propose un montaggio inedito di un secolo di fantascienza al cinema accompagnato dalle sonorità post-rock dei Larsen, all’interno del monumento-simbolo della città, la Mole Antonelliana. AfterVille. Turin Spaceship, al MIAAO (il Museo di Arti Applicate), portò alla luce un’inedita Torino fantascientifica realmente esistente. AfterVille. The Reading, al Circolo dei Lettori, accostò in maniera nuova discipline fra loro molto diverse come architettura, videoclip e fumetto, con relatori d’eccezione. AfterVille. The Syd Mead Event fu l’occasione per invitare a Torino uno dei più importanti scenografi della storia del cinema, creatore del set design di grandi classici come Blade Runner, Tron, il primo film di Star Trek. Infine la serata alle ex-OGR AfterVille. The Starchitecture Night fu a tutti gli effetti una vera e propria festa di chiusura, che celebrava la fine di un anno esaltante per Torino e (nel piccolo) anche per noi quattro. Gli eventi clou del cartellone, in ogni caso, furono due: la mostra AfterVille. The Underground Exhibition e il film di fantascienza AfterVille. The Movie. Dall’inizio del Novecento a oggi la fantascienza si è sbizzarrita nel tratteggiare il profilo delle città di domani, create per ospitare gli eroi del futuro e le loro avventure. Apparentemente infinite – e diverse l’una dall’altra – queste metropoli immaginarie presentano in realtà tratti comuni, che decidemmo di raggruppare in modelli standard
Nel 2008 la città del futuro raccontata in un film di fantascienza
AfterVille. The Movie di Fabio Guaglione e Fabio Resinar
classificati in base alle caratteristiche distintive di ciascuna di esse: il regime politico, gli elementi estetici, le infrastrutture, gli strumenti di comunicazione, le modalità di sviluppo, il ruolo ricoperto in esse dalla tecnologia. C’era TotalVille e il suo assolutismo decorativo (ammirato in film come Metropolis, La decima vittima, Pink Floyd – The Wall). C’era BetterVille e la sua democrazia scientifica (apparsa in pellicole quali La vita futura, Cittadino dello spazio, Sky Captain and the World of Tomorrow). C’era Joyville e la sua anarchia lisergica (Barbarella, La fuga di Logan, Flash Gordon). E poi la tecnocrazia digitale di NetVille (Tron, War Games, Matrix), il capitalismo estetico di TradeVille (Demolition Man, Minority Report, Io, robot), la cleptocrazia suburbana di FadeVille (Brazil, 1997 Fuga da New York, Strange Days), la plutocrazia noir di HyperVille (Blade Runner, Akira, Il quinto elemento), l’oligarchia minimale di iVille (L’uomo che fuggì dal futuro, Aeon Flux, Ultraviolet), il tribalismo atomico di PostVille (Il pianeta delle scimmie, Mad Max oltre la sfera del tuono, Waterworld) per chiudere con l’autarchia spaziale di ShipVille (2001 – Odissea nello spazio, Guerre Stellari, Dark Star). Queste dieci città utilizzavano gli immaginari della fantascienza non come generico punto di riferimento, ma come modulo costruttivo, come mattoncini. Le dieci città di AfterVille erano il risultato di un autentico progetto urbano, le avevamo create dal nulla secondo i criteri for-
Fabio Guaglione e Fabio Resinar sul set di AfterVille. The Movie
Giorgia Würth e Roberto Laureri sul set di AfterVille. The Movie
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Fabrizio Accatino, Jasmina Tesanovic e Bruce Sterling
mali con cui un certo tipo di fantascienza concepisce la città. AfterVille. The Underground Exhibition fu la mostra che mise in scena questi modelli urbani, queste dieci capitali immaginarie. Si snodava lungo un percorso che toccava le stazioni della metropolitana di Torino. Ogni stazione aveva un impianto personalizzato e un monitor, all’interno del quale una guida turistica molto particolare, proveniente direttamente dal 2058, mostrava una dopo l’altra le caratteristiche di queste dieci città di fantasia. Bastava dunque acquistare un biglietto, salire sul primo treno, scendere alla stazione successiva, sistemarsi davanti allo schermo, visitare una delle dieci città che componevano AfterVille, risalire sul treno e così via, stazione dopo stazione. La mostra venne visitata da decine di migliaia di spettatori. Soddisfazioni analoghe ci diede AfterVille. The Movie. L’idea ci era venuta durante i primi mesi del 2007. Perché – ci eravamo chiesti – oltre a esplorare gli infiniti domani della fantascienza non avremmo potuto crearne uno noi ad hoc, producendo un piccolo film visionario? Torino storicamente è sempre stata disertata dalla science fiction, grande o piccola che fosse. Il suo skyline senza picchi, la sua delicatezza cromatica e il suo rigore formale non sembravano legittimare grandi voli di fantasia. Il capoluogo subalpino negli ultimi anni era diventato centro di un grandissimo numero di produzioni, set per commedie giovanili, film in costume, thriller, horror. In più di un secolo di cinema però, solo due registi l’avevano scelta per ambientarvi le loro riflessioni su un futuro possibile. Si tratta di due opere assai diverse fra loro ma accomunate da un approccio minimalista, senza sussulti estetici, sullo sfondo di una città in tutto e per tutto identica al presente: Omicron di Ugo Gregoretti (1963) e La città del-
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l’ultima paura di Carlo Ausino (1975). Ci sembrava il momento di voltare pagina e di entrare nel futuro della nuova Torino che grazie ai Giochi Olimpici invernali dell’anno precedente si stava iniziando ad affacciare al mercato del turismo internazionale. AfterVille. The Movie si proponeva immodestamente di colmare un vuoto. E cercava di farlo in maniera molto esplicita, radicale. La Torino del 2058 in esso rappresentata era diversa – anche visivamente – dalla Torino di oggi: né migliore né peggiore, né utopica come i centri della fantascienza di inizio secolo, né distopica come la San Angeles marcescente di Blade Runner. Semplicemente diversa. La scelta dei registi cadde su Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, due giovani promettenti che tenevo d’occhio da qualche tempo. Selezionando i corti per la trasmissione di La7 di cui ero autore, “La 25a ora”, mi ero imbattuto nei loro lavori, accomunati dalla medesima verve visionaria, dalla stessa sfrontatezza nel voler osare una via italiana alla fantascienza massimalista. Intorno al film si concentrarono gli sforzi produttivi di una serie di soggetti, istituzionali e non. Innanzitutto la Film Commission Torino Piemonte, che finanziò il lavoro direttamente. Poi la casa di produzione BB Productions e i maghi degli effetti speciali computerizzati della FastForward. Fabio & Fabio stesero una prima sceneggiatura, poi una seconda completamente diversa. Dopo una serie di riunioni creative per aggiustarla, limarla, sistemarla avevamo finalmente lo spunto che ci interessava. Nello script, la Torino del 2058 era costellata di astronavi giganti che cinquant’anni prima erano calate dal cielo conficcandosi nella carne del tessuto urbano, diventandone parte, stravolgendo il profilo della città e dando vita a scenari mozzafiato. Da subito, però, era iniziato un lunghissimo countdown che una volta giunto a conclusione
Sul set di AfterVille. The Movie di Fabio Guaglione e Fabio Resinar, tetto del Politecnico di Torino
avrebbe portato all’esplosione simultanea di tutte quelle astronavi e con essa alla fine della civiltà terrestre così come la conosciamo. La vicenda seguiva i destini incrociati di due giovani che si cercavano senza trovarsi in quello che tutti sapevano essere l’ultimo giorno dell’umanità. Nel film vennero coinvolti 15 attori e una trentina di comparse, selezionati fra oltre 500 candidati da tutta Italia a seguito di un casting lanciato su Internet. Come protagonisti vennero reclutati Roberto Laureri e una Giorgia Würth che ancora non si era affacciata alle fiction TV di prima serata e alle commedie romantiche di Fausto Brizzi. Per il ruolo dell’amico dei due venne scelto Paolo Giangrasso, mentre nella parte di un acido anchorman televisivo venne chiamato per un cameo l’americano David Zed, noto per le sue performance da robot in trasmissioni televisive statunitensi, inglesi e italiane (tra cui “Domenica In” e il Festival di Sanremo). Le musiche eteree, evanescenti, ninne nanne sintetiche di grandissima atmosfera, vennero composte da Andrea Bonini mentre i passaggi più rock della colonna sonora portavano la firma di Livio Magnini (chitarrista dei Bluvertigo e produttore di Giorgia). In più per i titoli di coda riuscimmo a ottenere dai Subsonica l’uso del loro nuovissimo singolo “L’ultima risposta”, una botta d’energia che dona l’ultimo sussulto al film. La collaborazione più illustre fu senz’altro quella dello scrittore texano Bruce Sterling, unanimemente considerato insieme a William Gibson il padre della fantascienza cyberpunk. Accettò al volo il nostro invito e si entusiasmò all’idea di partecipare al film. Per lui venne ritagliata la parte dello scienziato Adam Vurias, una sorta di pensatore e profeta che aveva predetto (non creduto) l’imminente fine del mondo. Nonostante il suo italiano fosse stentato, Sterling insistette per recitare nella nostra lingua, per uniformarsi al resto del cast. La figura di Vurias venne lasciata volutamente vaga in fase di sceneggiatura per dare spazio al carisma del suo interprete. Sterling ed io lavorammo allo sviluppo del personaggio, nel corso di una lunga sessione creativa. Lui immaginava Vurias come un incursore del web, un guru inafferrabile che affiorava dalla rete per rivelare le sue verità e poi sparire nuovamente nel nulla. “Un po’ come il vostro Beppe Grillo”, mi disse, sorprendendomi. Per la giornalista che nel film intervistava lo scienziato, Sterling scelse il nome di Oriana, come aperto omaggio alla Fallaci, scomparsa l’anno prima. Lentamente dai nostri scambi di visioni la figura di Adam Vurias stava prendendo vita, insieme alle sue battute di dialogo. Le riprese (in 16 mm e HD) durarono una settimana, nel novembre 2007, coinvolgendo diversi luoghi chiave della città, dalla Mole Antonelliana (l’interno del bar) al tetto del Politecnico, su cui si apriva una vista su Torino a 360 gradi. La stanza del protagonista venne ricreata nello showroom di Gurlino, in via Carlo Alberto. In realtà nulla nel montato finale sarebbe rimasto riconoscibile per ciò che era, a causa di un uso massiccio del blue screen, che consentì di incollare digitalmente alle scene gli sfondi e i gadget tecnologici d’avanguardia di cui il film pullulava.
Le prime immagini di AfterVille. The Movie (poco più di cinque minuti) vennero presentate alle istituzioni e alla stampa nel corso di una conferenza al Cinema Massimo, il 29 febbraio 2008, suscitando aperti entusiasmi. La prima assoluta del film, invece, si svolse il 16 aprile successivo, sempre alla Sala Uno del Cinema Massimo. Quella sera via Montebello e via Verdi traboccavano di persone che premevano per entrare ad assistere alla proiezione. Un lungo serpentone di gente che potemmo accontentare solo improvvisando due repliche al termine della proiezione ufficiale, per un totale di 1500 spettatori. In realtà questo non fu sufficiente e toccò al sottoscritto comunicare a chi era rimasto ad attendere in strada che non ci sarebbe stata nessuna quarta proiezione, visto che si era ormai fatta mezzanotte e la sala doveva chiudere. Dal successo di quella sera partì il viaggio del film per l’Italia e per i concorsi di mezzo mondo. Vinse premi ai Castelli Animati di Roma, al Rhode Island International Film Festival, all’Ann Arbor Film Festival, al Festival Internacional de Cinema de Catalunya di Sitges, all’Icon di Tel Aviv. Si aggiudicò un Méliès d’Argent e andò a giocarsi le sue carte come finalista dei Méliès d’Or, gli Oscar europei del cinema fantastico. Nel giro di pochi mesi venne acquistato da Mediaset e ripetutamente trasmesso sul canale Steel di Premium. Successivamente il dvd del film varcò l’oceano e finì negli USA, iniziando a circolare di scrivania in scrivania fra gli studios cinematografici, etichettato come la “next best thing” del cinema fantastico europeo. Poco dopo i due registi vennero chiamati a Hollywood e la 20th Century Fox ci contattò per chiederci i diritti del film (che detengono tuttora), con l’obiettivo di girarne un remake hollywoodiano che chissà se vedrà mai la luce. Un risultato clamoroso per un film dal budget minimo, caratterizzato più dall’entusiasmo che dal calcolo, nato quasi per scommessa all’interno di un cartellone di eventi ben più ampio. Riguardando oggi AfterVille. The Movie, la miscela di azione e sentimento, poesia e ironia mi pare continui a funzionare bene come allora. Ho la presunzione di pensare che la Torino del 2058 – una miscela esplosiva di novità e tradizione, visionarietà ed eleganza – abbia saputo conquistare il suo pubblico, ritagliandosi un angolino nelle geografie cinematografiche dell’immaginario. Per noi rimane un posto da amare, ricordare e magari tornare a visitare, di tanto in tanto, otto anni dopo. ■
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La scommessa di Jacques Tati architetto
di Claudio Di Minno È stato quando ho letto l’intervista di Truffaut a Hitchcock negli anni Settanta che ho capito: a me non interessa l’architettura che nasce dall’architettura, ma dal cinema. La mia architettura è un montaggio. Massimiliano Fuksas
Il cinema e l’architettura sono le sole due arti dell’epoca contemporanea. Le Corbusier
L
e parole citate in esergo, espressione del pensiero di uno dei più noti architetti contemporanei e di uno dei più noti architetti di sempre, non possono non suggestionare l’esperto o l’appassionato di cinema. Come noto, Le Corbusier era attratto dalle riflessioni di Êjzenštejn – che conobbe durante un suo soggiorno in Unione Sovietica nel 1928 – sul film come “processo costruttivo” in cui il montaggio è parte fondamentale nel garantire la composizione della “macchina cinema” (per mutuare, in ambito filmico, la ben nota “machine à habiter” lecorbusiana). Il presente intervento, lungi dall’affrontare in modo esaustivo alcuna delle tematiche riguardanti il rapporto tra ci-
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nema e architettura e la figura dell’architetto nel film, si propone di avanzare alcune osservazioni sul lavoro di quello che non stento a definire – in senso simbolico ma anche letterale – uno dei più grandi architetti della storia del cinema, Jacques Tati. Se è vero che «l’architettura è una scommessa che vale la pena di tentare», Tati questa scommessa l’ha tentata ed è riuscito a vincerla e a perderla al contempo. Uno dei più importanti autori del cinema francese del dopoguerra, ha infatti realizzato con i suoi Mon Oncle (Mio zio, 1958) e Playtime (Tempo di divertimento, 1967) una delle operazioni cinematograficamente più vicine all’arte dell’architetto. La satira del progresso (in particolare di quello “a tutti costi”) è una delle cifre fondamentali del cinema di Tati sin dal suo primo lungometraggio, Jour de fête (Giorno di festa, 1949). Sull’onda del successo di questo film e del suo secondo, Les vacances de M. Hulot (Le vacanze di Monsieur Hulot, 1953), Tati ottiene la totale libertà inventiva e produttiva per la sua successiva opera, Mon oncle. Girato a colori, frutto di più di due anni di intenso lavoro e di più di sei mesi di riprese, si rivelerà un enorme successo di critica e pubblico. La trama narrativa è nota quanto priva di accadimenti eccezionali. Hulot è un uomo di mezza età che vive nel vecchio quartiere di SaintMaur-des-Fossés, piccolo centro vicino a Parigi. Qui con-
duce un’esistenza semplice, fatta di quotidianità e rapporti consolidati con i vicini e gli altri abitanti del sobborgo. Hulot ha una sorella che è sposata con il signor Arpel, titolare di una grande industria, la Plastac. La coppia vive insieme al figlio Gérard in una villa nella parte più moderna della cittadina di Créteil. La donna, completamente presa dalla pianificazione perfetta dell’abitazione, trascura il bambino, che vede nello zio Hulot il proprio punto di riferimento, tanto è diverso dai genitori, organizzati e perfetti, ma anche tanto noiosi e prevedibili. Il signor Arpel, geloso dell’influenza del cognato sul figlio, decide di assumerlo nella sua azienda, mentre la sorella, nel tentativo di omologarlo al loro stile di vita, vorrebbe farlo sposare con la loro vicina di casa. Ma i tentativi di “standardizzare” Hulot non hanno alcun esito, tanto che Arpel finirà per trasferire l’uomo in qualità di rappresentante della società all’estero. Mon oncle è il primo tassello di un percorso che porterà Tati ad eliminare progressivamente la centralità del personaggio per dare rilievo all’ambiente. Il regista costruisce interamente la moderna villa degli Arpel, partendo dal suo elaborato giardino, passando poi per l’aspetto esterno, sino a giungere alla maniacale cura dei dettagli dell’arredamento e dell’architettura dell’interno. Che ci si trovi in un universo in cui la costruzione, intesa come edificio, ha grande importanza, è certificato sin dall’inizio del film: i titoli di testa, infatti, sono scritti su un cartello di un cantiere di lavori in corso. Ma vediamo nel dettaglio i vari aspetti della moderna abitazione degli Arpel. Il giardino è caratterizzato da un lungo e articolato percorso di pavimentazione (sostanzialmente a forma di grande “S”) che unisce il cancello alla porta di ingresso della casa. Un vero e proprio percorso dell’assurdo, se consideriamo che due persone, provenienti da direzioni diverse lungo la S, tendono a compiere una camminata del tutto innaturale, al contempo di avvicinamento e di allontanamento, prima di potersi finalmente incontrare. La facciata esterna della villa è fatta di prismi grigi ed è dipinta a strisce blu verticali. Due grandi oblò sul fronte appaiono simili a grandi occhi che figurano aperti quando le tapparelle sono sol-
levate e chiusi quando queste sono abbassate. L’interno è un capolavoro di modernismo: l’arredamento, gli elettrodomestici, le pareti, tutto contribuisce a costruire un ambiente completamente asettico. Tanto asettico da risultare freddo e inospitale, al limite incompleto. Intorno alla casa degli Arpel, altri edifici ultra moderni: ville, capannoni costituiti di superfici di vetro riflettente, moduli dalle svariate forme geometriche. A contrapporsi visivamente (e di conseguenza simbolicamente) alla villa degli Arpel e al loro quartiere, lo stabile e la zona in cui vive Hulot. Un palazzo a tre piani che non presenta esternamente alcuno stile dominante: appare infatti come una sorta di collage in cui non vi sono elementi coerenti tra loro. Tutto contribuisce a un caos architettonico paragonabile al caos della vita che brulica all’interno degli appartamenti (che tuttavia non vediamo mai dettagliatamente) e nelle strade sottostanti. Quando Hulot è nella villa della sorella, quando si reca a fare il colloquio presso la ditta del cognato, si muove come un “marziano” (secondo l’efficace annotazione fatta da André Bazin all’epoca dell’uscita del film). Le architetture che lo circondano sono infatti lontane dal suo modo di intendere il mondo e le relazioni sociali. Sono cioè spazi che creano distanze, automatizzano i comportamenti, stereotipizzano le reazioni. La critica di Tati all’architettura modernista (critica che nel film successivo si allarga anche all’urbanistica) non può non far emergere il dubbio di una visione retrograda e ristretta da parte del regista. Come precisa lo stesso Tati: «Non sono contrario ai grandi palazzi, ma creiamo per essi dei quartieri appositi, alle porte di Parigi, e risparmiamo il piccolo hotel Luigi XVI che sorge all’inizio della via dove abito. Portino i comforts, installino il riscaldamento centrale, ma conservino le pietre, i muri, restaurino invece di demolire. Non sono nemico della modernità, figuriamoci. Sono nemico dei programmatori della modernità». Non è dunque un caso che nel corso del film ci si trovi di fronte a inserti che rappresentano degli operai impegnati nella demolizione di antichi edifici nel centro storico cittadino. Le parole di Tati sembrano
Ricostruzione della scenografia di Villa Arpel presente in Mon Oncle di Jacques Tati per la mostra La Ville en Tatirama
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confermate dai ricordi di Jacques Lagrange, scenografo del regista per questo e per il film successivo: «Tati non era un antiprogressista. Voleva soltanto dire che stavamo commettendo degli errori in nome della modernizzazione. Non era un nostalgico, ma voleva salvare la gente dal modo in cui rischiava di vivere nell’anno duemila». Tati non si oppone all’architettura moderna in quanto tale. Semmai ne stigmatizza la ripetitività e l’acritica fiducia che gli architetti ripongono nella capacità degli uomini di rendere i luoghi (anche quelli più asettici e formalizzati) vivibili e, soprattutto, vivi. In un aggettivo, umani. Una riproduzione in scala 1:10 della villa degli Arpel è stata costruita e mostrata in occasione della mostra “La Ville en Tatirama. Les Trente Glorieuses à travers l’objectif de Jacques Tati” organizzata dall’Institut Français d’Architecture tra l’estate e l’autunno 2002. Una mostra che è alla base delle riflessioni qui condotte e che ha permesso a chi l’ha visitata di entrare nell’universo architettonico di Tati e di cogliere quanto il regista sia stato capace di intuire e in parte di precorrere le tendenze che si stavano affacciando e che si sarebbero affermate. Circola una voce – la cui attendibilità sarebbe da verificare: il fatto che circoli tale diceria è comunque indice dell’impatto dell’operazione di Tati – secondo cui esistono delle ville molto simili a quella degli Arpel e ad essa ispirate nei dintorni di Parigi, in particolare nella zona di Massy, all’estremo nord della regione parigina. La conoscenza dell’architettura moderna da parte di Tati è provata in modo ancor più evidente nella sua pellicola successiva, Playtime. Dieci anni passano tra Mon oncle e questo film che risulterà da un lato il coronamento dei sogni del regista, dall’altro la realizzazione dei suoi più cupi incubi. In questo lasso di tempo, Tati idea l’opera e poi si mette alla ricerca dei finanziatori. In tre anni co-
struisce una vera e propria città a Saint-Maurice, sobborgo situato a nemmeno sette chilometri in direzione est dal centro di Parigi. Qui, grazie a una concessione da parte delle autorità, crea una realtà cittadina parallela: qualcosa di più e di diverso da un semplice studio cinematografico. Basti citare le cifre dell’impresa: su un terreno di oltre 15.000 mq vengono usati 50.000 mc di cemento, 4.000 mq di plastica, 1.200 mq di vetro, per non parlare del numero di persone che si sono avvicendate per portare a termine il lavoro che solo per questa fase ha un costo di circa 500 milioni dei vecchi franchi. I grattacieli, gli alberghi, i centri commerciali costruiti sono dotati di riscaldamento e, un paio, addirittura di ascensori perfettamente funzionanti. Alcuni edifici sono montati su piattaforme mobili per garantirne un più rapido spostamento per esigenze di scena. Tati sceglie di utilizzare la pellicola 70mm: il formato più “fuori norma” per la sua produzione più ambiziosa. Un film in cui si compie quello che già si avvertiva in Mon Oncle: il personaggio Mon Oncle di Jacques Tati
Playtime di Jacques Tati
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Mon Oncle di Jacques Tati
scompare, domina infatti l’ambiente architettonico. Questo non è vero solo a livello simbolico, ma anche a livello di predominanza visiva: nel film, infatti, sono numerosi i passaggi in cui l’uomo appare ridimensionato rispetto alla grandezza degli edifici, e altrettanto numerosi sono le inquadrature dedicate esclusivamente agli elementi architettonici. Inquadrature “ossessive” (per riprendere la definizione di Pier Paolo Pasolini) che nella loro ieraticità evidenziano ancor più il valore del mostrato. Se in Mon Oncle la trama narrativa si presentava scarna, in Playtime si può definire praticamente inesistente: una comitiva di turisti giunge a Parigi. Tutti si aspettano di visitare il centro storico e i monumenti più celebri, invece finiscono per risiedere e percorrere un quartiere ultra moderno che potrebbe trovarsi in qualsiasi altra metropoli del mondo. Sin dalle prime sequenze avvertiamo che non è lo spazio ad essere funzionale all’essere umano, bensì è l’uomo che deve adattarsi all’ambiente architettonico circostante. All’inizio del secondo macro segmento del film (che segue il primo ambientato all’aeroporto, al momento dell’arrivo dei turisti statunitensi) vediamo un uomo su un marciapiede. Davanti a lui, un anziano vestito da portiere sta fu-
Scenografie di Playtime di Jacques Tati
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mando. Il primo, con tanto di sigaretta alle labbra, fa al secondo un gesto che indica chiaramente il desiderio di poter accendere la sigaretta. Di fronte al gesticolare del portiere scopre – al pari dello spettatore – che tra lui e l’uomo c’è di mezzo una gigantesca vetrata. Deve quindi aggirarla, giungere alla porta di ingresso così da poter realmente entrare in contatto con l’uomo e il suo fiammifero. Situazioni simili, in cui le persone credono di essere a contatto e invece sono lontane, sono numerose. L’interno dell’edificio di cui l’anziano è portiere è abbacinante: superfici in cristallo e metallo dominano incontrastate. Qui lavorano centinaia di persone in uffici-modulo che, visti dall’alto, appaiono come dei giganteschi classificatori con dentro dei laboriosi impiegati più simili a cavie che a esseri umani. Intorno a questo edificio, decine di altri perfettamente uguali tra loro. Uguali come lo sono le stanze dell’albergo che ospita i turisti statunitensi: spazi bianchi e grigi con gigantesche vetrate che rendono ogni forma di riservatezza impossibile. Ancora una volta è l’omologazione l’oggetto della critica di Tati, come appare in modo evidente in altri due segmenti della pellicola. Nel primo, relativo alla fiera delle invenzioni, Monsieur Hulot e alcune turiste statunitensi assistono alla presentazione delle ultime
Scenografie di Playtime di Jacques Tati
Scenografie di Playtime di Jacques Tati
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innovazioni del mercato: tra queste, la porta che sbatte in silenzio e la scopa elettrica con i fanali. Intanto, a tratti, dalle ampie vetrate del palazzo delle esposizioni, si intravede il riflesso della Tour Eiffel, che a nessuno sembra però interessare: infatti, sono tutti presi da congegni sostanzialmente inutili. Nel secondo segmento – che occupa l’ultima parte del film – decine di avventori occupano la grande sala centrale di un ristorante durante la sera della sua inaugurazione. Nonostante l’apertura ufficiale, i lavori di allestimento non sono ancora conclusi, tanto che numerosi operai si muovono per portarli a termine guidati da un architetto visibilmente sotto pressione. Pressione che sale quando alcuni pezzi del pavimento della sala si smontano al passaggio dei camerieri e quando le luci al neon si spengono improvvisamente lasciando le insegne al buio. L’apoteosi del disfacimento si raggiunge quando durante un ballo sfrenato Monsieur Hulot – tra lo sgomento dei ben più ordinati altri commensali – contribuisce al crollo della controsoffittatura e del soffitto. Anche qui, come in precedenti passaggi dello stesso Playtime e in numerosi di Mon oncle, le persone, immerse in uno spazio asettico e standardizzato, si omologano. Gli esseri umani diventano quasi dei burattini sullo sfondo di un ambiente che gli è profondamente estraneo. Solo Hulot sembra sfuggire all’appiattimento, e infatti il suo passaggio lascia vere e proprie tracce di distruzione. Cosa resta di “Tativille” dopo la fine delle riprese? Cosa resta di una delle più grandi scenografie della storia del cinema? (Un paragone plausibile, forse, lo si può fare con il gigantesco progetto costruito per il suo Intolerance da Dawid W. Griffith nel 1916) Nulla. Non resta più nulla. Infatti, poco tempo dopo il termine del tournage, Tativille viene completamente distrutta a causa di un progetto che prevede il passaggio – proprio sui quei luoghi che sono stati il set di uno dei più grandi sogni della storia del cinema – di un’autostrada. Amara ironia: Playtime si conclude proprio con un ingorgo stradale. Quasi una sinistra prefigurazione da parte di Tati, che vedrà evaporare il suo progetto di trasformare Tativille in uno studio cinematografico stabile. Come noto, insieme al sogno, tramontano definitivamente anche tutti gli investimenti fatti dal regista, il quale ha offerto a garanzia la sua abitazione e i diritti di tutti i suoi lavori precedenti, perdendoli, e incontrando, da quel momento sino alla morte avvenuta nel 1982, grandi difficoltà nel portare a termine i suoi progetti. Jacques Tati, critico dell’architettura moderna in Mon Onlce e in Playtime, ricordava, non senza amara ironia, di essere stato «il primo vero progettista de La Défense», il celebre quartiere direzionale situato a ovest di Parigi caratterizzato da grattacieli, condomini e centri commerciali (la progettazione de La Défense risale al 1958: il primo edificio costruito fu la Torre Nobel, nel 1966. La scenografia di Playtime, come ricordato, fu il risultato di tre anni di lavoro. Il film uscirà in sala nel 1967). Jacques Tati, un visionario e, almeno in parte, un anticipatore, come tutti i grandi architetti. Jacques Tati, a suo modo, un grande architetto del cinema. ■
Interviste
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I film, gli architetti e il fascino della semplicità Intervista a Federico Babina di Alessandra Comazzi
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l rosso e il nero. Potrebbe avere un titolo stendhaliano il manifesto che Federico Babina ha realizzato per il Premio Dedalo Minosse Cinema, la rassegna in programma a Vicenza dall’8 all’11 giugno. Un labirinto, una mano, una matita, un filo. Tutto molto intuitivo, ma è bello che lo racconti l’autore, un architetto di 47 anni, caparbio e fantasioso segno del Toro, nato e cresciuto a Bologna, poi espatriato a Barcellona, sull’onda dell’amore per una donna catalana e nella consapevolezza che si tratti, per viverci, «di una delle città del mondo dove si sta meglio». Allora, quel manifesto rosso e nero? Dimostra l’unione tra il cinema e l’architettura. Sono sempre stato affascinato da entrambe le arti, ma poi mi piace tutto, mi interessa tutto, la musica, la grafica, il design. Sono uno spettatore onnivoro. Non che mi appartenga veramente tutto; ma qualcosa che mi interessi lo posso trovare da tutte le parti, con tutte le manifestazioni dell’animo umano. Non ho preclusioni, e tanto più cerco di evitare i pregiudizi. Comunque, dicevamo, cinema e architettura: hanno molti elementi in comune, si vede nel linguaggio espressivo di numerosi registi. Ho messo insieme gli elementi principali delle due discipline, legandole con il filo che le unisce in modo ontologico. Un’unione che non è soltanto forma, ma è sostanza. L’ar-
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chitettura, nei film, è spesso una vera protagonista della storia, fa parte della narrazione. Non mera scenografia, non un involucro: bensì la sostanza.
cità, amo pure la disciplina. Ecco spiegate quelle linee e quei colori, stendhaliani, come dice lei, per il manifesto del Dedalo Minosse Cinema.
Lo ha dimostrato nelle sue serie grafiche che abbinano attori, registi, personaggi delle pellicole, a fantastiche e fantasiose case immaginarie: ma dunque lei è cinefilo? Non c’è bisogno di essere cinefilo per disegnare. Fellini, a esempio: starebbe in una casa, così lo immagino io, il cui tetto si eleva a luminoso tendone da circo. Non sono cinefilo in senso stretto ma certo, come dicevo, mi piace pensare al cinema abbinato all’architettura. E mi piace utilizzare un linguaggio semplice, comprensibile a tutti. Poi ci possono essere più chiavi di lettura: ma l’importante è che la comprensione sia immediata, per tutti coloro che guardano. Io amo molto la semplicità, che è la vera originalità. Come diceva Bruno Munari, la semplicità è così difficile da raggiungere. Per essere semplici bisogna essere molto ben preparati, e avere tempo per sottrarre. Vale per tutte le arti. Forse vale per la vita in generale. Dovremmo imparare a togliere, non a caricare. Lo faceva Coco Chanel nella moda: quando siete davanti allo specchio e state per uscire, diceva alle donne, togliete qualcosa. E l’aforisma attribuito a Oscar Wilde che doveva scrivere un racconto? «Oggi non ho tempo per essere breve», avrebbe dichiarato.
Qual è il suo regista del cuore? Non ne ho uno in particolare, di regista del cuore. Ho molti amanti, ma non mi sposo con nessuno. Mi piacciono Kieslowski, Tarkovski, Aronofski, che è americano nonostante il nome, Fellini. Di Kieslowski, vidi La doppia vita di Veronica e mi conquistò. Ma c’è tanto da imparare da tanti film.
E l’architettura, in particolare, che deve fare, secondo lei? A me piace che l’architettura usi un linguaggio trasparente. In altre culture più che nella nostra l’architettura si respira nella cultura di tutti i giorni. Oltre alla sempli-
Va al cinema? Ci vado, ma sono molto più selettivo di una volta. Ribadisco che non ci sono generi prediletti: mi può piacere un film qualsiasi, a qualsiasi genere appartenga. Lei è chiaramente un intellettuale: le possono piacere anche le americanate, quelle dove sparano, si inseguono, cadono gli “armageddon” degli effetti speciali? A parte che io non sono un intellettuale. Poi, certo, possono piacermi anche quei film lì. È uscito da poco il seguito di Capitan America, Civil War. Non l’ho ancora visto, ma mi incuriosisce. Ne dicono bene tanti insospettabili. Ma a un mio amico, di cui mi fido, non è piaciuto. È sempre complicato fidarsi dei gusti degli altri. D’altronde, basta poco, uno stato d’animo, un’emozione, perché uno spettacolo ti colpisca oppure no. Lo stesso film, se noi stessi lo vediamo in due momenti diversi, può benissimo non farci lo stesso effetto.
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Per lei un film è al cinema, in dvd, in televisione con il palinsesto che scorre? Un film è al cinema, assolutamente. Cerco di non guardare necessariamente al passato, ma nella fruizione di una pellicola sono un romantico: per me il cinema è la sala. Quella è la magia. Ed è una magia che si sta perdendo. Ma io, sarà perché non sono più giovane, trovo in me l’insostituibile capacità di continuare a immergermi in questa magia. I dvd sono comodi, certo, mi permettono di guardare e riguardare la stessa storia. Cosa che a me piace tanto fare. Un altro architetto che ama molto il cinema, e che viene qui intervistato per questo numero speciale di «Mondo Niovo» è Massimiliano Fuksas: è vero che ha collaborato con lui? Collaborato non è la parola giusta. Sono stato una settimana nel suo studio, ma non mi sono trovato bene e sono scappato. Letteralmente. Che cosa non le è piaciuto? Era un bell’ambiente, i grandi architetti hanno sempre negli studi giovani stimolanti, pieni di creatività. Però io non sono entrato nel mood. Ed è andato a lavorare in Olanda, giusto? Sì, sono stato in un grande studio, e mi trovavo bene. Ma volevo qualcosa di mio. Quindi ho aperto uno studio nella mia città, a Bologna.
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Com’è capitato a Barcellona? Seguendo, come accennavo, l’amore con una catalana. Ho pensato che dovevo lavorare anche qui in Spagna, così mi sono cercato una collaborazione. Fuga di cervelli: ha mollato subito tutto? Per qualche tempo ho mantenuto entrambe le postazioni, Bologna e Barcellona. Poi, dieci anni fa, la scelta definitiva per la Catalunya. Il tratto pittorico dei suoi lavori grafici è evidente anche agli inesperti: come mai? Ho frequentato la scuola d’arte. Volevo iscrivermi ad Architettura, ma anche all’Accademia di belle arti. Poi ho scelto architettura, ma sempre lasciando che fosse il disegno la mia guida. Il disegno è insostituibile per trasferire le idee, così come la grafica. Sono dei tramiti affascinanti e fondamentali. E con questi tramiti grafici, torniamo al cinema: quanto sono importanti i manifesti? Fondamentali. La mia generazione è cresciuta con manifesti e poster di film in camera da letto. Adesso non sono più in camera ma nel soggiorno. Pensiamo a quanto può comunicare un manifesto. Una volta, poi, e nemmeno tanto tempo fa, negli Anni Cinquanta-Sessanta, non c’erano mica i trailer. Una locandina illustrata doveva dire immediatamente quello di cui parlava la pellicola, lanciando suggestioni, suscitando emozioni. Non a caso,
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anche allora, quei lavori erano semplici, semplici ed efficaci. Come la pubblicità, anche televisiva, dell’epoca. I Caroselli. Semplici, professionali, con messaggi molto chiari. Ha mai realizzato manifesti per il cinema? Una volta mi hanno contattato per un film di Wim Wenders, Cattedrali della cultura in 3D, dove l’autore di Paris, Texas, con l’aiuto di altri 5 colleghi, aveva deciso di creare un tributo a sei edifici, che rappresentassero non soltanto un’ideale di bellezza architettonica, ma anche gli esempi delle migliori doti dell’uomo. Abbiamo lavorato molto in fretta, ma alla fine il mio progetto non è andato in porto. Come si dice, sarà per un’altra volta. E di graphic novel, ne ha mai fatte? Ci ho pensato tante volte, ma poi no, non ho mai veramente affrontato il genere, che pure mi affascina, e non ho mai realizzato nulla. Non si sa mai, però. Un altro settore dove lei sembrerebbe molto adatto sono i titoli di testa, o di coda, di un film: che ne pensa? Ah, qui ci siamo, e fra un po’ lo vedremo. Ho fatto una cosa per un congresso che si svolge durante il Festival di Cannes. Un congresso cui partecipano produttori ed esercenti. Ho disegnato il poster del congresso, e mi hanno anche offerto uno spazio prima dell’inizio ufficiale del Festival, una sorta di titolo di testa, in effetti. Allora ho pre-
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parato un video, una specie di animazione. Mi avevano proposto di ispirarmi a Il disprezzo, che è il manifesto di Cannes, ma io ho preferito puntare su una cosa nuova. Così ci sarà questo piccolo corto, una sorta di video di animazione delle mie case del cinema. Con le note originali di un’amica musicista. E sarà lo stesso brano declinato diversamente a seconda del regista che vado a illustrare. A me sembra una buona cosa, spero piaccia. Il suo successo è stato propiziato dalla rete, le sue immagini hanno fatto il giro del mondo virtuale su internet: è d’accordo? Essere conosciuti in rete è un po’ come essere ricchi a Monopoli. Come stare in una vetrina che gira per tutto il mondo, tutti ti guardano e nessuno ti compra. Fra tutto quello che si trova in rete, d’altronde, alcune cose sono interessante, migliaia e migliaia inutili.
fatto che si intraprendano direzioni diverse può disorientare chi guarda: uscire fuori dal parametro inquieta. Però io credo si debba fare. Dobbiamo cercare il cambiamento, anche attraverso la tecnica e la forma espressiva. Sto scoprendo il mondo della grafica, amo molto Alvin Lastig, per esempio. Ma cerco di non trarre mai ispirazione da altri. Anche se mi piacciono. Li guardo, mi imbevo, imparo. E poi faccio di testa mia. Ma la mia testa è il frutto di tutto quanto ho visto, delle esperienze che ho vissuto. ■
La sua grafica rappresenta una sorta di serialità: è tutto studiato, ovviamente? La serie mi aiuta a definire meglio la mia idea generale. Sono pezzi di un puzzle che compongono l’immagine generata dal progetto. Ma talvolta mi spiace che la serie appaia come una sorta di riassunto esaustivo. A volte le scelte che faccio non rappresentano nemmeno i miei gusti, ma danno il senso. I suoi racconti grafici si mescolano? Direi di sì, a me spaventa la troppa coerenza nelle forme espressive. Mi piace sperimentare tecniche differenti. Il
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Un architetto al Museo del Cinema Intervista a Leonardo Mosso a cura di Caterina Taricano, Matteo Pollone e Vittorio Sclaverani
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u questo numero non poteva mancare un’intervista all’architetto Leonardo Mosso, il socio fondatore del Museo Nazionale del Cinema che ha da poco compiuto novant’anni. Lo abbiamo incontrato all’interno della sua casa-museo di Pino Torinese, che ospita, all’interno delle sue molte stanze, il Centro studi di Architettura programmata e di Cibernetica ambientale, l’Istituto Alvar Aalto e il Museo di Architettura Arti applicate e Design. Lei è un architetto ma anche un appassionato di cinema. Secondo lei qual è il rapporto tra cinema e architettura? Tutte le forme d’arte hanno una corrispondenza l’una con l’altra e in particolare il cinema con l’architettura. Sia il cinema che l’architettura non sono arti della contemplazione fissa bensì riguardano il movimento, il flusso vitale. Un’opera d’arte architettonica non si può contemplare come se fosse un quadro e così anche il cinema: entrambe si rivolgono al corpo e alla mente dell’osservatore. Andare al cinema, vedere il film in uno spazio adeguato diventa un’esperienza magica... Un’altra domanda che vorremo farle riguarda proprio il luogo dove poter fruire il cinema: magari per un architetto conta maggiormente lo spazio in cui si guarda il film rispetto ad altri spettatori. Per lei ha importanza la sala dove vedere un film? Preferisce delle sale rispetto ad altre nella città di Torino? Pensa che vedere un film in una sala piuttosto che in un’altra possa cambiarne la fruizione? Quando ero giovane per me andare al cinema era un’esperienza estremamente coinvolgente: si era lì in questo spazio scuro dove si poteva andare da soli o con i compagni di classe, non accompagnati dai genitori... Era una cosa quasi trasgressiva! Quando ero giovane andavo qualche volta all’Ideal, poi ho frequentato le sale dell’Ambrosio e del Corso in corso Vittorio. Il Corso, già dall’esterno con la sua facciata tra il liberty e il decò, mi trasportava in un’atmosfera molto particolare. Vicino a casa mia c’era un cinema dove andavo spesso... l’architetto che l’aveva
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progettato era un amico ed era lo stesso del cinema Statuto. L’epoca dei cinematografi era tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta: c’era l’Ideal e il cinema Doria ed erano tutti in stile decò. E poi c’era già il Romano...che è una sala antichissima. Mi sembra che ora questo amore per il cinema non solo come cinema ma anche come spazio, stia tornando... Perché è stata scelta la Mole Antonelliana per ospitare il Museo del Cinema? Il Museo del Cinema è stato realizzato in tempi differenti, in una successione di scelte e di occasioni diverse. Siamo andati alla Mole dopo essere stati anche sotto le gradinate dello Stadio Comunale, un posto infernale perché in estate era caldissimo e d’inverno faceva molto freddo. Nell’immaginario torinese la Mole è un polo d’attrazione, sembra coniugarsi perfettamente alle immagini e alle forme dei primi esempi di cinema, sembra uno scenario fatto apposta per Cabiria. È molto scenografica. Gli edifici progettati da Antonelli erano case molto all’avanguardia, dove è possente il sistema di travi e pilastri mentre le parti cosiddette “di tamponamento” sono leggere. È una struttura a scheletro, per intenderci. È il principio costruttivo ad essere all’avanguardia. Secondo lei perché sta tornando? Perché allora era anche un’occasione sociale e mi sembra che oggi si possa trovare la stessa atmosfera che c’era allora. Ad esempio mia moglie, quando aveva dieci o dodici anni e abitava in corso Alberto Picco, abitava vicino a una ragazza che aveva diciotto anni. Era il suo mito perché aveva già un fidanzato e, al cinema, loro andavano a sedersi nelle ultime file mentre lei, essendo troppo piccola, era costretta a sedersi in prima fila... Ci sono dei film che hanno saputo raccontare la figura dell’architetto e il lavoro dell’architetto in maniera credibile? Veramente non lo so. Non mi sono mai posto questa domanda.
Sappiamo che le piace molto La fonte meravigliosa... Sì, il film che riprende la figura di Frank Lloyd Wright. Poi c’è qualche film degli anni Cinquanta, come Nata di Marzo con Gabriele Ferzetti. Tuttavia in genere si preferisce raccontare le vicende personali rispetto alle questioni legate alla professione. Meglio i film che raccontano uno spazio, come quelli girati all’Eur. Spettacolari! Quei palazzi sono metafisici… L’eclisse, L’ultimo uomo sulla terra, Il caimano: lo spazio, il contesto dove si svolge l’azione di un film, è una caratteristica molto importante e che ha molto a che fare con l’architettura: lo spettatore, dopo il film è come se si svegliasse da un sogno. I film che amo di più, tuttavia, sono quelli di Rossellini. Guardarli era come viverci dentro. Soprattutto Germania anno zero: mi veniva in mente come, durante i miei viaggi, avevo visto la Germania dopo la guerra, in uno stato di terribile distruzione in cui sia le cose fisiche sia le cose morali venivano meno per il soddisfacimento di bisogni primari basilari. La fonte meravigliosa, in confronto, mi sembra un po’ patinato… l’architetto del film è senza storia, perché all’esterno sembra che non sia successo niente, che la guerra non ci sia neanche stata. Qui in Piemonte, nel dopoguerra, esisteva un’associazione di architettura organica che si chiamava A.P.A.O.. L’architettura organica era un tipo di architettura umanistica e i riferimenti erano Wright e altri. Sono stato tra i fondatori di questa associazione. Abbiamo detto che la Mole è scenografica, però volevamo sapere se c’era una motivazione particolare riguardante la scelta di mettere il museo in quello spazio che si inerpica verso l’alto... Non c’è una vera e propria spiegazione anche se poi questa scelta si è rivelata azzeccatissima. Diciamo che è stata una cosa abbastanza casuale: loro avevano a disposizione questo spazio. Penso che nel trasporto del Museo alla Mole abbia avuto un ruolo importante l’assessore alla cultura Ugo Perone, filosofo e persona intelligentissima. Nella video-intervista che è stata poi mostrata al Festival Architettura in Città lei ha detto una frase molto bella e profondamente vera rispetto al presente del nostro paese. Diceva che ogni giorno il cemento mangia terreno agricolo al nostro territorio. Lei ha sempre lavorato sulla sostenibilità delle sue strutture, soprattutto anche in ambito artistico. Tornando alla fruizione in sala, è mai entrato in questi nuovi multisala che sono il trionfo del brutto e dello spreco di cemento? Parecchie volte io e mia moglie siamo andati allo Space: un ambiente bruttissimo, da tirarsi una palla in testa. È orribile. È un enorme centro commerciale dove la gente non può passeggiare, ed è totalmente privo di un senso di umanità. Da un punto di vista plastico è sbagliatissimo: se voi vedete New York, New York è una città perfetta perché da un lato è costruita su un reticolo che viene sempre rispettato e dall’altro tutti i suoi grattacieli si compongono bene tra di loro, in maniera armonica. La parte di Torino dove invece crescono questo tipo di costruzioni è una cosa tremenda.
Da che cosa è nata invece l’urgenza formativa di spostarti dall’Italia per seguire il lavoro di Alvar Aalto, il più grande architetto dell’epoca? Ero molto interessato, da giovane, agli spazi umanistici dell’architettura, cioè a uno spazio a misura d’uomo che doveva essere un luogo sereno per le persone. Avevo letto un libro di Sigfried Giedion, importantissimo per tutti i nostri coetanei, dal titolo Spazio, Tempo e Architettura. È grazie a quel libro che mi sono innamorato dell’opera di Alvar Aalto e ho deciso di partire per la Finlandia. Da quando avevo vent’anni, ero abituato ad andare in vacanza all’estero, in Svezia e in Inghilterra, e quindi appena ho letto di questo architetto, ho fatto le valigie e ho deciso di partire. Aalto non era solo un professionista, era un anticonformista e un poeta dell’architettura. Ha poi avuto come clienti, per mio tramite, Agnelli, Ferrero e Olivetti, tre delle famiglie più importante nell’ambito dell’industria piemontese. Cosa voleva dire essere un architetto nell’Associazione del Museo del Cinema? Bisognava innanzitutto diffondere l’idea dell’urgenza di un Museo e, per farlo, ho organizzato tante mostre sia in Italia che all’estero con le immagini delle macchine da presa e degli antichi sistemi di visione. Era un problema, allora, affermare che un Museo del Cinema fosse un museo necessario e, in quello, il mio ruolo credo sia stato importante anche quando è stata progettata la prima sede ufficiale a Palazzo Chiablese. Molti non ne capivano l’urgenza e si chiedevano che bisogno ci fosse di un museo quando si poteva tranquillamente andare al cinema e basta. A Palazzo Chiablese c’erano le inferriate disegnate da mio padre, con un nastro di pellicola che seguiva le forme della porta. Purtroppo, quando hanno fatto la ristrutturazione le hanno portate via. Quali sono i suoi film preferiti? E la sua attrice preferita? La mia attrice preferita è Marilyn Monroe. I film della mia vita sono tanti, non so se riesco a sceglierne solo uno solo. Io e mia moglie siamo dei vecchi signori che hanno vissuto il dopoguerra, che è stato un periodo di grande esplosione artistica: lei, da bambina guardava i film di Esther Williams, con quei colori meravigliosi, oppure Serenata a Vallechiara con Sonja Henie che avevo anche conosciuto in occasione di una mia mostra a Oslo, all’interno di un museo finanziato da lei. Ci piaceva molto perché interpretava dei film allegri e a lieto fine. ■
Nelle pagine seguenti sono riprodotti alcuni brani tratti dalla rivista «L’Architettura Italiana» (anno IV, fascicolo 12, settembre 1909, Editori Crudo & C. Torino) con illustrazioni di opere dell’architetto Alessandro Antonelli.
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Il cinema nella testa e nel cuore Intervista a Massimiliano Fuksas di Giorgio Scianca
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architetto Massimiliano Fuksas è un personaggio molto noto e, come spesso accade a chi è molto noto, molto discusso. La critica si divide sovente sui suoi interventi. Io condivido il parere di Luigi Prestinenza Puglisi che recentemente ha scritto sulla sua fortunata «presS/Tletter»: «Fuksas può anche non esservi simpatico ma non ditemi che cose migliori le avreste sapute fare anche voi». «Cosa è che disturba di più nell’architettura di Fuksas? La violenza. Un atteggiamento che oggi sembra inconcepibile per gli architetti italiani, diventati in blocco soft tech, high touch, mulinobianchisti. L’estetica vincente ha bandito ogni aspetto stridente, disturbante. E così ha voltato le spalle a una tradizione artistica e architettonica che non cercava di abbellire il mondo ma di esprimerlo, di porlo in tensione». «Se per Mies van der Rohe Dio è nei dettagli, Fuksas è ateo. Il suo processo progettuale non va mai dal particolare al generale ma sempre viceversa. E poiché il grande per Fuksas è sempre un gesto, ci può essere benissimo qualche dettaglio che si perde per strada. Anzi è proprio la scarsa purezza del dettaglio che rafforza il senso dell’insieme». Il suo rapporto con il cinema è come lui diretto, passionale.
Architettura e Cinema. Gli architetti sono attori o registi? Ho fatto sull’argomento diversi dibattiti. Due di questi con Wim Wenders. Lui mi chiedeva perché tutti gli architetti vogliono fare i registi. Io ho sempre risposto: «Alcuni architetti sono diventati registi però nessun regista è diventato architetto». E lui ci è rimasto male perché il suo sogno era fare l’architetto. Quali film ha amato di più? C’è un film di cui non parlo mai e che invece amo moltissimo: si chiama Point Break (1991) di Kathryn Bigelow, una regista straordinaria. E la libertà di cui si racconta è quella che tutti cercano. In una sequenza, Johnny (Keanu Reeves) implorando Bodhi (Patrick Swayze) di non arrestarlo, gli chiede se fa ancora surf. Bodhi risponde «sì, di tanto in tanto» e alla luce della passione comune che li aveva legati per lungo tempo, decide di liberarlo in modo da poter cavalcare l’ultima onda insieme. Trovo che il cinema statunitense, nonostante produca ogni anno almeno il trenta per cento di film d’azione, sia diventato molto più introspettivo rispetto a un tempo. Prendiamo il western: era schematico, manicheo, formato soltanto da A e B, il buono contro il cattivo, e il cattivo si faceva odiare per tre quarti del film. Il cinema adesso è in grado
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di analizzare e di analizzarsi molto di più, tutto è diventato più complesso, più grigio. Penso per esempio a Lord of War (Andrew Niccol, 2005), uno dei film più spietati sulla globalizzazione: Nicolas Cage, mercante d’armi di origine russa, nel momento in cui viene catturato dice: «Voi pensate che io ci rimarrò molto qui? Ci sarà sempre bisogno di gente come noi, in grado di vendere armi». La Biennale Architettura di Venezia che lei ha diretto nel 2000, titolo “Less aestetichs, more ethics” aveva per la prima volta messo insieme le città reali e quelle del cinema. Che cosa voleva rappresentare? Volevo rappresentare il cambiamento della condizione umana: se un tempo la maggioranza delle persone abitava nelle campagne, ora il 62% vive negli agglomerati urbani e nelle megalopoli. Qui con gli anni abbiamo imparato ad accettare il rumore, lo stress e i pericoli perché questa inversione di marcia ha portato a un modello di vita diverso che ci è cambiato sotto gli occhi e di cui non abbiamo capito fino in fondo le conseguenze. Tuttavia il cinema registra questi cambiamenti, queste crisi piccole e grandi, non trova? Certo. Questo pessimismo è stato anticipato da un cinema più fantastico direi... Mi vengono in mente due film in cui ricorre quello che sta succedendo oggi: in THX 1138 (L’uomo che fuggì dal futuro, George Lucas, 1971) c’è la scissione tra il concetto di amore e quello di sessualità. Il sesso si fa perché una persona ama farlo mentre l’amore viene quasi eliminato completamente dal desiderio carnale. Non si riescono più a distinguere le forme, in un incrocio tra un quadro di Castellani e un altro di Manzoni; Logans’ Run (La fuga di Logan, Michael Anderson, 1976) è ambientato in una città abitata solamente da giovani. A ogni età della vita corrisponde una luce diversa: il colore della giovinezza è il verde mentre, a mano a mano che si invecchia, la luce diventa prima viola e poi marrone e a quel punto ci si deve come riciclare, entrando in una macchina per scomparire all’interno. Le persone non diventano mai vecchie e i figli nascono tutti in provetta. E
questo è un po’ quello che accade oggi: le coppie divorziano e i bambini vengono fatti nascere in provetta in Spagna... Io nel cinema non ho mai cercato la forma, cerco di vedere il modo in cui si cerca di rappresentare la nostra società. Quella stessa società che poi deve vivere gli spazi che gli architetti progettano, è così? Il mio primo cliente non è il Signor X o il Governo Y, ma è il genere umano, è quello che si dice human being. Sua figlia è regista e scrittrice. Avete un bel rapporto? Sì certo. Dopo Nina (2013), che era una sorta di elogio della solitudine, adesso è molto impegnata a dirigere un importante documentario sul Duomo di Firenze, una delle opere d’arte più straordinarie che esistano. Mi disse che avrebbe voluto fare il cinema quando andai a trovarla durante il suo master alla Columbia: andammo a cena e lei me lo confessò. Io pensavo che sarebbe diventata architetto ma lei, sentendo le mie obiezioni, mi rispose: «Ma come papà, me lo hai sempre detto tu che il cinema e l’architettura sono la stessa cosa!». Alla fine io ero contento perché penso che il cinema sia una sorgente di ispirazioni immensa, gigantesca. Con sua moglie Doriana guardate gli stessi film? No, io adoro gli action movie ambientati nelle megalopoli, specialmente a Hong Kong. Sono incredibili! Mi piace quell’idea di società avanzata e rapidissima! Doriana invece ama i film sentimentali e deprimenti, quelli dove succedono sempre cose che io non riesco a vedere perché poi ne soffro. Al cinema non voglio soffrire e non voglio accettare questo ruolo della sofferenza che ormai sembra essere diventato predominante. L’amore per il cinema continua, non si è interrotto in questi anni? Assolutamente no. È come se dovessi interrompere la voglia di leggere, di capire il mondo e quello che sta succedendo. Certo, ci sono film che detesto, film che non
Nina di Elisa Fuksas
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amo... Posso dire una cosa cattiva? Non ho mai amato Nanni Moretti, penso proprio che non mi appartenga: siamo di una diversa generazione e né lui né i suoi attori riescono a comunicarmi qualcosa. C’è questa voglia di soffrire gratuita: penso che Mia Madre (2015) sia uno dei film più brutti che io abbia mai visto. L’ho trovato banale. Noi italiani dobbiamo stare attenti quando facciamo le cose, non abbiamo grandi mezzi e rischiamo di far diventare tutto auto-celebrativo. Le piace Woody Allen? Certamente. Adoro i grandi film, come Io e Annie (1977), ma anche i film minori come Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere) (Everything You Always Wanted to Know About Sex* (*But Were Afraid to Ask) (1972). Di questa ultima serie invece, mi è piaciuto molto Match Point (2005), a differenza di To Rome with Love (2012) che ho trovato molto inverosimile: la città era falsa come gli attori, Benigni non è mica romano! Sembrava una accozzaglia di clichés presi da altri film su Roma che andavano a creare una sorta di dolce vita che proprio non sono riuscito a sopportare. I tempi della “dolce vita” di Fellini sono volti a termine: mi ricordo quando si poteva comprare una pizza caldissima agli angoli delle strade e riempirla ogni volta con un salume diverso. Erano i tempi delle serate con gli amici nelle trattorie, mi ricordo quel vino pessimo! Eravamo giovani. Poi quando capisci che quel cibo non ti va più bene e ne vuoi uno più ricercato, vuol dire che la gioventù è finita! «Scrivere di musica e come ballare di architettura». È d’accordo? Sì, me la ricordo questa frase! Io sono ferocemente contro l’illuminismo perché credo nell’unità delle plurime espressioni creative. Gli illuministi vivisezionavano l’interiorità dell’uomo e creavano un’anatomia particolare: studiandone parte per parte, si arrivava a dividere ogni cosa e così l’arte, l’architettura, la musica diventavano oggetti separati non più in grado di costruire rapporti tra di loro. Stessa ideologia quando si è aggiunto il cinema. Questo tipo di approccio alle arti è andato avanti per tanti anni, fino ad arrivare alla Critica del gusto di Galvano Della Volpe. Della Volpe, marxista kantiano, ha cercato di attribuire a ogni disciplina un suo specifico: c’era uno specifico cinematografico e uno specifico architettonico ad esempio. Ed è proprio questa specificità la cosa che odio di più. Per me che ho sempre vissuto saccheggiando il cinema, è davvero inaccettabile. Credo piuttosto che le arti facciano parte di un ecosistema in grado di ricomporsi eternamente: fino al Settecento la musica e l’architettura erano unite e così doveva essere per sempre. Sarebbe bello ora mettere insieme tutte le arti e costruire un tessuto che possa aiutare tutti a capire meglio cosa sta capitando intorno a noi. Lo diceva bene Wim Wenders – quando era più lucido – per spiegare da dove avesse preso l’ispirazione per girare Il cielo sopra Berlino (Der Himmel über Berlin, 1987): raccontava che, per farsi venire un’idea, aveva provato invano ad andare al cinema,
Point Break di Kathryn Bigelow
La fuga di Logan di Michael Anderson
L'uomo che fuggì dal futuro di George Lucas
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ma poi era stato il suo amico Peter Handke a parlargli un po’ a casaccio di alcuni angeli... Penso che Prima del calcio di rigore (Die Angst des Tormanns beim Elfmeter, 1972) penso sia stato un testo fondamentale sia per Wenders che per me. Mi è servito molto. C’è una battuta famosa in Matrix Reloaded dei fratelli Wachowski (2003): «Io sono l’architetto, tu sei l’anomalia». Che ne pensa? Sì, c’è sempre stata un po’ di ipocrisia: l’architetto lavora per una delle persone più potenti del pianeta ma poi dice che si occupa di sociale, di periferia. Viene da chiedersi se questi architetti ci vanno in barca nelle periferie oppure prendono l’autobus. Ho avuto modo di capire che il concetto di periferia è diventato davvero molto importante: io credevo di conoscere benissimo quella di Roma ma erano tantissimi anni che non ci tornavo. Sembrava davvero che non riuscissi né a entrarci né tantomeno a uscirci. Gestire una città di due milioni e mezzo di abitanti è davvero difficile: mi è capitato di andare a Tor Vergata, un luogo dove un ospedale e un’università sembrano gettati in piena campagna. La densità di popolazione di Tor Vergata è enorme, è almeno due volte il centro di Firenze e tuttavia rientra pienamente nei confini della città di Roma. Non ci siamo resi conto che avevamo le megalopoli in casa: la strada che porta da Torino a Trieste è composta solamente da grandi agglomerati urbani. Mi immagino gli abitanti di Roma che vanno a votare alle primarie e mi chiedo che città conoscano: solo il centro conta 127 mila abitanti! Anche nel cinema la città è cam-
biata di epoca in epoca: prima c’era quella del Neorealismo, poi della Commedia all’italiana; poi è arrivato Pasolini che è stato il primo a mostrare certi quartieri e certe persone che parlavano una lingua nuova, modificata, per metà romano e per metà un dialetto del sud. Nella mia carriera mi sono sempre occupato di una periferia che conoscevo e che sapevo gestire, anche se con difficoltà. Oggi non sarei in grado. La situazione ci è sfuggita di mano: sono andato a visitarle, queste nuove periferie, e ci sono alcuni quartieri dove non c’è nulla, non solo non ci sono i servizi ma non c’è neanche un bar. Le piacerebbe girare un film? Ho provato a scrivere un film una volta. Ne ho parlato con mia figlia e mi ha detto «Ecco, se tu ti metti a fare anche il regista, a me tocca cambiare lavoro». Avevo cominciato a scriverlo quando stavamo realizzando La Nuvola (Nuovo Centro Congressi dell’EUR) a Roma: parlava di un mondo che si costruiva autonomamente e le persone, invisibili le une alle altre, lo abitavano senza interagire mai tra di loro. Ha mai progettato un cinema? Sì ho progettato una multisala molto grande in Austria: sotto alcune torri di pietra sorgono dodici sale. Non ho mai capito quale fosse la dimensione adatta per una sala cinematografica. Sono sicuro che il cinema non sia destinato a scomparire né come luogo, né come logica, né tantomeno come tecnica. È una forza che riesce ancora a parlare a milioni di persone. ■ Nina di Elisa Fuksas
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