arcireport
settimanale a cura dell’Arci | anno XIV | n. 11 | 24 marzo 2016 | www.arci.it | report@arci.it
L’Europa, tra fragilità e cattive politiche di Francesca Chiavacci Presidente nazionale Arci
L’idea dell’Europa unita è bella e affascinante. Ma forse ancora troppo fragile. Perché altrimenti non ci si potrebbe spiegare come in così pochi giorni sia potuto accadere che quell’idea conoscesse declinazioni terribili o profondamente sbagliate. L’Europa è stata colpita nel suo centro pulsante dagli attentati di Bruxelles. Ha deciso di chiudere le proprie frontiere a decine di migliaia di persone che scappano da guerre e persecuzioni approvando un accordo scellerato con la Turchia, che non rispetta le convenzioni sui diritti umani. Sulle sue strade si sono infranti i sogni di giovani cittadine europee (tra cui sette ragazze italiane). Ora più che mai, anche se noi lo diciamo da tempo, il progetto unitario che aveva segnato una rinascita del vecchio continente, sotto le insegne della pace e della prosperità, si trova di fronte a un bivio decisivo. Offrire al mondo una prova di maturità oppure restare intrappolato nella tragica spirale che ci ha portato ai drammi di questo tempo. In queste ore sentiamo evocare la necessità dell’unità europea, soprattutto a proposito di sistemi di intelligence e di sicurezza contro un terrorismo che pare trovare
linfa proprio tra cittadini europei, in una dinamica di radicalizzazione di sentimenti di odio e di rivendicazione. Sentiamo dire che è necessario recidere legami di complicità all’interno dei quartieri ad alta densità di immigrazione. Questioni importanti, indubbiamente. Ma certamente non sufficienti per sconfiggere la guerra che è tra noi (e che infiamma il pianeta) ed estirparne le radici. Non ci sembrano risposte esaustive per soddisfare un grande bisogno, quello di un’Europa che sappia ritrovare l’idea su cui venne fondata: quella di popoli riuniti in nome di una cultura della solidarietà, della democrazia, di diritti e libertà comuni. Per troppo tempo questa idea è stata trascurata, se non rinnegata, al punto che sono potuti riemergere, prima sommessamente, poi sempre più esplicitamente, chiusure e nazionalismi che oggi si sono tradotti nelle immagini-simbolo dei fili spinati, delle mani ‘timbrate’ dei profughi, dei controlli alle frontiere interne, del disinteresse verso le proprie periferie. Se vuole salvare se stessa, l’incolumità di chi la abita, sia nativo quanto migrante, l’Europa deve muoversi seriamente con i
mezzi della politica e con il linguaggio della verità. Evitando di dare credito a regimi che praticano al loro interno le più pesanti misure repressive, fino alla tortura e agli omicidi di stato. Sgombrando il campo da relazioni ambigue con governi ed elite che sostengono gruppi terroristici e lo stesso Daesh. Abbandonando l’idea che dai conflitti armati, dai bombardamenti indiscriminati che spesso colpiscono civili inermi e dalle possibili scomposizioni geopolitiche nel Medio Oriente possano derivare benefici e vantaggi economici. Lo ripetiamo ancora una volta: una risposta basata sull’accelerazione verso soluzioni di tipo militare non farebbe che dare respiro a una strategia terrorista e l’aiuterebbe a stringere le proprie fila. E, d’altro canto, la chiusura verso i processi migratori, con muri, filo spinato o ‘accordi’ di rimpatrio forzato, ovvero di deportazione, come quello con la Turchia, ottengono solo il risultato di accrescere la disperazione, contribuendo a creare un clima favorevole al terrorismo omicida. Dare forza a politiche di pace, di cooperazione sul fronte esterno e di integrazione e inclusione sul fronte interno ora è tanto più necessario, per salvare le idee di libertà e democrazia, quelle nostre e quelle degli ‘altri’. È facile predicare politiche di pace quando il pericolo è lontano. Assai più difficile è farlo di fronte a guerre che si estendono e a un terrorismo che agisce su uno scenario mondiale.
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Luci e ombre del Ddl sul Terzo Settore in discussione al senato di Maurizio Mumolo Reti di Terzo settore e Fondazioni
La riforma della legislazione del terzo settore sta proseguendo, non senza difficoltà, il suo cammino. Finora l’aula ha approvato gli articoli fino al 5. È interessante notare che il vero dibattito di merito si sta svolgendo in seduta plenaria, prova evidente dell’errore nella scelta di affidare la discussione alla I commissione, che non ha manifestato alcuna competenza sulle problematiche del terzo settore. Ma vediamo le novità contenute nel testo finora approvato, molto distante da quello iniziale del Governo e anche abbastanza diverso da quello approvato alla Camera. Nell’art. 1 è contenuta una definizione giuridica di Terzo settore, un termine finora confinato nel solo ambito sociologico: «il complesso degli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e che, in attuazione del principio di sussidiarietà e in coerenza con i rispettivi statuti o atti costitutivi, promuovono e realizzano attività di interesse generale, mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o di produzione e scambio di beni o servizi». Il testo è in linea con chi sostiene una funzione non economicistica e più sociale del terzo settore. Nell’art. 2 finalmente è messa sullo stesso piano l’iniziativa economica e il diritto ad associarsi, mentre nel testo della Camera, paradossalmente, l’associazionismo sembrava avere un minore apprezzamento dell’impresa. Il 3 è uno degli articoli più dibattuti del provvedimento ed anche uno dei più importanti in quanto detta le caratteristiche della futura revisione del libro I del codice civile. É prevista una semplificazione delle procedure per ottenere il riconoscimento della personalità giuridica superando il regime concessorio attualmente in vigore. Al comma 1 lett. d) vi è una delle norme più discutibili dell’intero provvedimento ove si prevede che «alle associazioni e alle fondazioni che esercitano stabilmente e prevalentemente attività d’impresa si applichino le norme previste dai titoli V e VI del ibro quinto del codice civile, in quanto compatibili e in coerenza con quanto disposto all’articolo
9 comma 1 lettera e)». É bene chiarire subito che non si tratta della trasformazione obbligatoria in impresa sociale (come voleva il testo originario del governo) ma l’applicazione, condizionata, per una parte del non profit, di norme pensate soprattutto per le imprese profit. Il problema è la definizione dell’attività di impresa, con il rischio che possa essere assimilata a qualsiasi attività economica (come prevede la normativa europea) obbligando quindi soggetti associativi, spesso piccolissimi, che svolgono una normale attività di autofinanziamento ad adottare procedure gestionali onerose ed improprie. Questo rischio viene temperato dall’inciso «in quanto compatibili» e dal recentissimo emendamento, che in parte risponde alle proteste delle associazioni, che prevede una progressività di adozione dei vincoli a seconda delle dimensioni dei soggetti (l’art. 9 comma 1 lett.e, non ancora approvato). Il pure importantissimo art. 4 lega il riconoscimento di ente di Terzo settore, con i benefici conseguenti, allo svolgimento di un’attività di interesse generale. Viene quindi superato il riferimento alle finalità come requisito primario del soggetto e proseguendo sull’orientamento che la legislazione sta tenendo a partire dal DL 460/97. L’elenco delle attività non viene più determinato da una legge ma attraverso un DPCM. Il testo comunque amplia lo spazio di attività apprezzabili di riconoscimento oltre quelle previste per le Onlus e le imprese sociali. Alla lettera d) permane un’assurda limitazione all’autonomia statutaria ove si prevede che le modalità di organizzazione degli enti devono essere ispirati non solo a principi di democrazia, trasparenza e correttezza, vincoli sicuramente apprezzabili, ma anche a quelli di efficacia, efficienza ed economicità che poco si attagliano alle attività di organismi non profit. Si pensi all’applicazione del requisito dell’economicità di gestione alle attività di un’associazione di volontariato (!). Una norma sbagliata e di difficile applicazione. Va pure citata la lett. o) ove viene valorizzato il ruolo del terzo settore
nella programmazione territoriale dei servizi socio-assistenziali, culturali e ambientali, e la lett. p) dove viene riconosciuto il ruolo delle reti associative di secondo livello anche a scopo di rappresentanza. La nuova scrittura dell’art. 5 ha sicuramente tranquillizzato chi temeva l’unificazione tra il volontariato e l’associazionismo di promozione sociale. Le differenze rimangono intatte e le uniche forme di coordinamento previste sono il registro unico nazionale e il superamento dei due osservatori nazionali che diventano il Consiglio nazionale del Terzo settore, aperto però anche all’impresa sociale e alle fondazioni. Rimane inspiegabile l’anomalia, tutta italiana, per cui un volontario che opera in una OdV sia più meritevole di un volontario che opera in una Aps e che magari svolge l’identica attività. Ma si sa quanto sia forte la lobby del volontariato cosiddetto ‘puro’ che su questo aggettivo ha costruito le proprie fortune politiche (ed anche personali). Buona parte dell’articolo è dedicato alla regolamentazione delle attività dei Centri di servizio per il Volontariato, che in queste settimane hanno dichiarato grande apprezzamento per il Ddl rivendicando a proprio merito la sua parziale riscrittura. Ma, a ben guardare, il nuovo articolato pone ai Csv numerosi vincoli: un’attività esclusivamente dedicata a «fornire supporto tecnico, formativo e informativo per promuovere e rafforzare la presenza e il ruolo dei volontari» (anche se in tutto il Terzo settore), l’obbligo di una base sociale aperta, il divieto di erogazioni dirette in denaro o in beni (addio alla progettazione sociale!), l’incompatibilità tra cariche nei centri e ruoli di rappresentanza esterni e, soprattutto, viene nei fatti prevista la ridefinizione della mappa dei centri e quindi la loro riassegnazione. Peraltro, i nuovi Comitati di gestione manterranno la loro funzione di controllo che si estenderà anche «alla qualità dei servizi erogati». Fin qui il testo approvato al Senato. L’esame del provvedimento riprenderà mercoledì prossimo e potrebbe chiudersi in settimana, se non verrà a mancare il numero legale, come è già successo più volte.
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Referendum No Triv: un sì per cambiare la politica energetica del governo di Filippo Sestito coordinatore nazionale Arci Ambiente, difesa del territorio, stili di vita
Ci siamo. È partita la campagna referendaria per bloccare il rinnovo delle concessioni per lo sfruttamento dei giacimenti da parte delle piattaforme marine entro le 12 miglia. Venerdì, 18 marzo, a Roma il Comitato nazionale ‘VOTA Sì per Fermare le Trivelle’, che unisce circa duecento organizzazioni, ha inaugurato la campagna per il Sì al referendum del 17 aprile. Un Mare Nero è il titolo del flashmob che ha aperto la campagna VOTA Sì per impedire alle multinazionali del petrolio di sfruttare sine die le concessioni di cui già dispongono. Dopo giorni di intenso lavoro, anche e soprattutto per i tempi strettissimi imposti dal Governo Renzi, si è messa in moto, in tutta Italia, la macchina organizzativa composta da tantissime associazioni grandi e piccole, da movimenti e comitati locali, dai partiti politici, oltre che dalle nove Regioni italiane che compongono il Comitato promotore del Referendum abrogativo sulle trivelle in mare: Basilicata, Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna e Veneto. Sarà essenziale, in questi ultimi 23
giorni di campagna referendaria, informare i cittadini italiani dell’esistenza del referendum contro le trivelle e aprire nel Paese un confronto pubblico, il più possibile partecipato, sulla Strategia Energetica Nazionale, nonostante il tentativo di oscurare l’esistenza stessa del voto da parte del Governo e dei grandi mezzi di comunicazione di massa. Bisognerà, necessariamente e con urgenza, affrontare il problema della transizione energetica verso il 100% di produzione di energia da fonti rinnovabili, disegnando un modello democratico e di prossimità basato sull’efficienza e sul risparmio energetico. Così come lo stesso Governo si è impegnato a fare non più di tre mesi fa alla COP21 di Parigi. Perché non discutere, allora, di aumentare significativamente, e da subito, gli oneri delle concessioni nazionali per l’estrazione delle fonti fossili che oggi sono irrisori? Scandalosamente bassi anche rispetto a tutto il resto d’Europa. Ci si chiede perché questo non sia avvenuto finora. Del resto si sa da molti anni quanto sia alto il prezzo che pagano i territori
interessati dalle attività di estrazione di petrolio e di gas in termini ambientali ed economici. Non si può far finta di non sapere che i mari italiani sono mari chiusi e che un eventuale incidente nei pozzi petroliferi offshore o durante il trasporto danneggerebbe in maniera gravissima l’ambiente e l’economia, come ha, purtroppo, dimostrato l’incidente di pochi giorni fa avvenuto in Tunisia, non molto lontano da Lampedusa, ricoprendo di greggio tre chilometri di spiaggia. Di questo e di altro si discuterà nei prossimi giorni. Di certo un risultato il Referendum ‘No Triv’ lo ha già prodotto: aprire una nuova e bella pagina di democrazia e di partecipazione, all’inizio di una importante e forse decisiva stagione referendaria che culminerà con la campagna per il No al referendum costituzionale. L’Arci, come sempre, è in prima linea nella costruzione di forme di partecipazione democratiche e popolari e attraverso il coinvolgimento di tutti i circoli è impegnata a promuovere il Referendum del 17 aprile, invitando tutti a Votare Sì!
Sei fuori dal tuo comune di residenza? Ecco come votare Il voto si svolgerà come in qualsiasi altro referendum o elezione: in ogni città si formeranno i consueti seggi elettorali in cui potranno votare tutti i maggiorenni residenti nel nostro Paese. Per quanto riguarda tutti quei cittadini Italiani che vivono o lavorano in un comune che non è quello di residenza le possibilità per partecipare al voto sono due. 1) Recarsi presso il comune di residenza, grazie agli sconti che Trenitalia ed Alitalia predisporranno come per ogni consultazione, e partecipare in questo modo al voto; 2) Proporsi come rappresentanti di lista per i seggi ubicati nel comune in cui si studia o si lavora. Il comitato referendario nazionale, quello composto dalle 9 regioni proponenti, può indicare due rappresentanti di lista per ogni seggio. Anche i partiti rappresentati in Parla-
mento hanno questa stessa possibilità. Invitiamo tutti gli interessati a mettersi in contatto con i comitati referendari territoriali e regionali Vota si per fermare le trivelle e con le segreterie locali dei partiti rappresentati in Parlamento per rendersi disponibili come come rappre-
sentante di lista. Per quanto riguarda invece i cittadini italiani residenti all’estero, secondo la circolare ministeriale http://elezioni.interno.it/contenuti/normativa/Circ_006_ServElet_01-03-2016.pdf c’è ancora la possibilità di fare richiesta entro il 16 marzo al Comune italiano di riferimento cercando l’apposito modulo sul sito internet del Comune stesso. È importantissimo che tutti si attivino per questo referendum, è importantissimo raggiungere il quorum e far votare e conoscere il referendum ad amici, familiari e conoscenti. Attivati anche tu! Partecipa, informati, diffondi le informazioni sul referendum! Per info manda una mail a info@fermaletrivelle.it
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La comunità internazionale di fronte alla necessità di una svolta decisiva delle sue politiche di Franco Uda coordinatore nazionale Arci Pace, solidarietà e cooperazione internazionale
Sono trascorse poco più di 48 ore dal brutale attacco terrorista in terra europea, nella città che, a tutti gli effetti, viene considerata la capitale dell’Europa. Un attacco che ha prodotto oltre 30 morti e circa 200 feriti, civili inermi intenti nelle azioni più ordinarie e routinarie della vita. Incredulità, dolore, persino rabbia. La preoccupazione per i tanti amici e compagni che si trovavano a Bruxelles in quel momento o che lì lavorano. Il cordoglio, il dolore, la solidarietà per tutte quelle vite e famiglie straziate da un’azione criminale e terroristica. Molte le dichiarazioni e i gesti colmi di sincera emozione. Oggi però, conservando la memoria dell’accaduto e senza alcun cedimento di pìetas, si impone un passo in avanti. In che direzione? Il dibattito nei livelli apicali degli Stati e nelle istituzioni dell’Ue si concentra sulle falle della sicurezza belga, sulla mancanza di coordinamento e scambio di informazioni tra le intelligence europee, sulla necessità di maggiori controlli degli ‘obbiettivi sensibili’, su un innalzamento di barriere a difesa dell’Europa. C’è persino qualcuno che invoca una immediata rappresaglia militare contro le centrali del terrore o di istituire il reato di «ritorno a casa per i foreign fighters»... (sic!). Ma davvero c’è qualcuno che pensa che il combinato disposto di tutte queste misure possa essere, anche parzialmente, risolutivo? Quanti sono gli ‘obbiettivi sensibili’ in Europa? Di quanti agenti, militari o videocamere avremmo bisogno per presidiarli tutti? Davvero un Vallo di Adriano in versione
moderna impedirebbe l’infiltrazione terroristica nel Vecchio Continente? Su chi o cosa dovremmo sganciare le nostre ‘bombe intelligenti’? Abbiamo tutti i mezzi tecnologici, economici, logistici per poter avere, già da oggi, un più che sufficiente controllo sulle persone, sui loro spostamenti, sulle loro vite. Il solo richiamo a un maggior controllo di polizia nelle nostre città, a un inasprimento delle procedure di accesso in Europa o a una crociata contro Daesh sarebbe esiziale. Quello che manca - ed è mancato - è la politica, la responsabilità di questa rispetto alle conseguenze che produce, la coerenza tra gli obbiettivi dichiarati e le azioni concrete. Sarebbe sin troppo facile - qui ed ora - richiamare un celebre verso di Fabrizio De Andrè sull’impossibilità di sentirci assolti, perchè siamo tutti coinvolti. Le politiche degli Stati europei e degli Usa che hanno consentito lo spostamento di migliaia di foreign fighters dalle periferie delle principali capitali europee - le stesse in cui i modelli di integrazione sono miseramente falliti trasformandole in ghetti di poveracci armandoli, addestrandoli, finanziandoli e utilizzandoli in funzione anti-Assad, il dittatore della Siria. Passando per la Turchia (alla quale continuiamo a dare miliardi di euro), si preparavano militarmente e ideologicamente con la supervisione dell’Arabia Saudita. Armarli ha significato portare la guerra
a casa nostra, eppure abbiamo lasciato che accadesse. Il prodotto di tutto ciò è una spirale perversa, che genera una arretramento delle nostre libertà individuali, insicurezza e paure, nelle quali sguazzano a proprio agio le destre più nazionaliste e neonaziste che si siano mai viste in Europa dal secondo dopoguerra, guadagnando facili consensi nei Parlamenti nazionali e in quello Europeo, agevolate da una situazione economica e sociale di crisi e di mancanza di prospettive se non quelle del rigore e dei tagli alla spesa pubblica. Daesh attinge i suoi proventi dalle ricchezze petrolifere che conquista e che riesce a rivendere, con meccanismi di dumping accertati, agli stessi Paesi che dicono pubblicamente di volergli fare la guerra ma che utilizzano lo scontro solo per fare i conti con le loro opposizioni interne: il caso della Turchia con le popolazioni curde è eclatante. Daesh non possiede fabbriche di armi, quelle che utilizza sono le stesse che sono vendute dai Paesi occidentali in maniera diretta o attraverso triangolazioni. L’informazione indipendente, i movimenti pacifisti, molti intellettuali, denunciano questo da tempo, non per essere le anime belle del mondo, né per buonismo: solo per sano pragmatismo e per la consapevolezza che è necessario cambiare passo ora alle politiche della Comunità internazionale, se non è già troppo tardi...
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migranti
arcireport n. 11 | 24 marzo 2016
L’accordo Ue-Turchia visto dalla Grecia di Sara Prestianni Ufficio Immigrazione Arci
Il 18 marzo 2016 l’Europa ha scritto una delle pagine più buie del nostro continente firmando l’accordo con la Turchia per la gestione dei migranti. Un patto che oltre a violare varie Convenzioni Internazionali lede la dignità di migliaia di persone. In cambio della liberalizzazione dei visti per i suoi cittadini e l’apertura di vari capitoli sull’annessione all’Ue, la Turchia si impegna non solo a controllare le sue coste ma anche a riammettere sul territorio quasi tutti i migranti che sbarcheranno, a partire dal 21 marzo, sulle coste greche. L’accordo si basa sulla falsa idea che la Turchia sia un paese sicuro nonostante foto: sara prestianni tutti sappiano che non lo è. Il 18 marzo, al porto del Pireo di Atene, paese europeo, fino a un tetto massimo i 4.000 rifugiati accampati da più di di 18.000 persone. un mese hanno seguito preoccupati le Gli altri, afgani, iracheni, pakistani veinformazioni che circolavano sul sumdranno la loro richiesta d’asilo analizzata mit europeo. Lì il campo si è formato sulle isole greche in procedura accelerata quando la frontiera con la Macedonia per poter essere rapidamente riammessi si è chiusa. Arrivati dalle isole, siriani, in caso di diniego. In sintesi, quasi tutti iracheni e afgani aspettano l’annuncio coloro che arriveranno sulle coste greche dell’apertura a Idomeni. saranno rinviati in Turchia. A questo Ogni giorno le tende aumentano, sono scopo l’agenzia europea Frontex ha già centinaia quelle che affollano la banchina. promesso 8 navi e 28 pullman per orgaMolte sono le famiglie, anche con bambini nizzare le riammissioni. piccolissimi. Manca poco alla fine del Poco sembra importare agli Stati europei Consiglio Europeo e un giovane siriano mi che ci siano già stati numerosi casi di chiede se è vero che lo rimanderanno in espulsione di siriani verso il loro paese Turchia. «Piuttosto mi uccido» aggiunge. in guerra e che nelle prigioni turche siano Altri mi chiedono a che ora apre la frondetenuti centinaia di migranti. tiera con la Macedonia. È difficile spiegare Questo accordo ha lo scopo annunciato di il cinismo dei Governi europei. Ancora dissuadere i migranti a prendere il mare più difficile informarli che le frontiere per la rotta egea, oltre a trasformare la dei paesi confinanti non si apriranno Grecia, con la chiusura della frontiera più e che per i quasi 50.000 profughi macedone, in un ‘campo’ a cielo aperto. presenti in Grecia due saranno le posIl Governo greco si è trovato, dopo i sibilità: pagare un trafficante e cercare mesi di apertura del ‘corridoio balcadi aggirare i militari macedoni, bulgari e no’, a dover gestire, da novembre 2015, albanesi o chiedere l’asilo in Grecia con l’arbitraria selezione fatta a Idomeni dal una bassissima possibilità di ottenerlo. Governo macedone che, su pressione Per siriani e iracheni resta sempre la delle istituzioni europee, lasciava passare possibilità di fare ricorso alla relocation. solo siriani, iracheni ed afgani fino alla Peccato che i posti resi disponibili dagli repentina chiusura della frontiera, nel Stati membri siano 7.000 da Italia e marzo 2016. Grecia sui 160.000 promessi ed i paesi A un ritmo di arrivi sulle isole di di possibile destinazione siano Porto1000/2000 migranti al giorno, in poco gallo, Romania e Bulgaria, dove pochi tempo sono rimaste intrappolate sul vogliono andare. territorio greco 47.000 persone. Un destino ancora peggiore toccherà a Circa 10.000 sono accampati a Idomeni chi arriverà in Grecia nei prossimi giorni. nella speranza che la frontiera si riapra, Dopo aver rischiato la vita su un canotto, 4.000 campano nel porto del Pireo, i se sono siriani saranno rispediti direttarestanti sono ‘accolti’ in strutture che mente in Turchia. Al posto loro - in un il Governo greco ha dovuto aprire in esercizio di estremo cinismo - sarà scelto tutta fretta. un altro siriano che non ha mai tentato la L’Unione europea vuole trasformare la traversata e che verrà reinsediato in un Grecia in un paese d’accoglienza suo
malgrado e contro la volontà di migliaia di migranti che vorrebbero andare via quanto prima. Molti dei migranti intrappolati in Grecia hanno familiari già in altri paesi europei ma non sanno come raggiungerli. Questa chiusura sta provocando il fiorire di trafficanti di ogni tipo che promettono un passaggio a caro prezzo verso l’Europa. I centri di accoglienza dispersi in tutta la Grecia, aperti su pressione europea che ha imposto il passaggio da 1.200 a 100.000 posti di accoglienza in qualche mese, sono solo degli appoggi transitori in una situazione di emergenza. Elleniko è composto da tre strutture: la sede del vecchio aeroporto della capitale e due stadi aperti per le Olimpiadi. In tutto accoglie 4.000 persone, principalmente afgani. A causa del Memorandum della Troika e dei tagli, il Governo può pagare solo 3 coordinatori per gestire strutture di tale portata. Il tutto funziona solo grazie alle decine di volontari, greci e internazionali, che giorno e notte si danno il cambio per assicurare cibo e beni di prima necessità, oltre alle organizzazioni internazionali che forniscono assistenza medica. Sono tanti i quesiti che lascia aperto questo accordo sugli effetti a breve e lungo termine per la vita di migliaia di persone. Come faranno a non violare la legge greca che prevede che le richieste di asilo siano analizzate solo da personale greco se l’Ue intende inviare 4.000 funzionari per farsi carico della gestione degli arrivi? Se il ritmo degli sbarchi rimane invariato come si gestiranno migliaia di domande sugli hotspot delle isole senza che la situazione esploda? Che sorte toccherà a chi sarà riammesso in Turchia, si procederà alla sua detenzione o sarà obbligato a vivere in un paese dove non vuole stare? È lecito anche chiedersi che fine faranno i 6 miliardi di euro promessi dalla UE alla Turchia. Finiranno nelle tasche del Governo o saranno usati per gli scopi annunciati? Viene naturale anche pensare all’apertura di rotte alternative. Come ci ha insegnato la storia delle migrazioni, la chiusura di una rotta non farà altro che provocare l’apertura di un’altra, non fermerà certo chi fugge da un paese in conflitto. Ci sono forti possibilità che la rotta per la quale decideranno di passare siriani ed iracheni sia proprio quella libico/egiziana verso l’Italia.
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Radicalizzazione? I paradossi tunisini Sintesi dell’articolo di Kamel Jendoubi, Ministro tunisino delle relazioni con le istituzioni costituzionali, la società civile e dei diritti umani. Ex presidente della rete Euromed Rights e oggi suo Presidente onorario Ed eccolo un Paese, la Tunisia, che ha messo in moto le ‘primavere’ e che prosegue in qualche modo il suo cammino nonostante le tempeste e le scosse, traendo forza dalla propria società civile, attiva, speranzosa e gratificata di un premio Nobel. Ma questo stesso Paese è anche quello che fornisce un contingente, pare il più importante, di giovani ‘radicalizzati’ partiti per ingrossare i ranghi di Daesh e per diventarne carne da cannone. Anche all’interno delle nostre frontiere una parte della gioventù è oggi fanatizzata, e alcuni sono pronti a sacrificarsi ed uccidere. Ci sono, per semplificare, due interpretazioni dominanti circa la proliferazione di questi candidati alla Jihad, due modi di vedere fondati su due approcci differenti: • L’interpretazione sociale, secondo la quale il jihadismo si nutre della disperazione della gioventù marginalizzata dei quartieri suburbani o delle regioni dimenticate dallo sviluppo. La Jihad sarebbe l’espressione estrema della rivolta della ‘Tunisia dimenticata’ contro il triangolo della ‘Tunisia produttiva’. I più poveri dei poveri contro i satolli dei quartieri buoni. La bandiera nera, il takfir e gli altri simboli del terrorismo non sarebbero che orpelli troppo religiosi di una rivolta troppo nuda. Nessuno dispone di studi esaustivi, né di indagini sufficientemente raffinate, tali da avvalorare questa interpretazione, che fa fatica a spiegare l’arruolamento, nel jihadismo, di giovani integrati nel sistema scolastico e provenienti anche dalla classe media. Tuttavia è possibile evocare, in appoggio a questa lettura, fatti e cifre da non sottovalutare. • L’interpretazione culturalista, dal canto suo, percepisce la radicalizzazione attraverso un prisma neo-orientalista, l’espressione del fallimento dell’islamismo dei ‘fratelli’ e la successiva emersione di una nuova generazione in forma di nebulosa, funzionante attraverso un principio di alleanze e di conflitti (Al Quaeda, Ansar Acharis, Daesh). A sostegno di questa tesi si invocano i rituali, i dettagli saturi di religione e ovviamente il discorso incantatorio di tutta la catena del terrorismo, dai
mandanti agli esecutori agli addetti alla propaganda. La nozione di deriva post-islamista non riesce però a spiegare alcuni fenomeni, a partire dalla presenza di un bagaglio religioso troppo leggero, esibito talvolta da criminali abituali, convertiti grossolanamente da Imam spesso semi-analfabeti. Un approccio globale al fenomeno della radicalizzazione dovrebbe esulare quindi da queste spiegazioni binarie e troppo semplicistiche, e partire da una constatazione: la tentazione della Jihad interviene in un contesto di doppio allentamento dei legami sociali e dei legami nazionali. Il sentimento di appartenenza a un’entità nazionale, a una Patria, è messo in crisi dal processo di de-socializzazione, che pone ‘fuori circuito’ intere frange di gioventù. Il contesto post-rivoluzionario, che ha aperto uno spazio di espressione senza briglie, va ad oliare un ingranaggio che favorisce la fioritura del salafismo in generale e del salafismo jihadista in particolare, facendo precipitare la conversione di alcuni salafiti ‘scientifici’ al jihadismo. Questo ingranaggio si amplifica, poi, grazie alla congiunzione fra tensione e incuria, che ha come principali manifestazioni l’indebolimento della autorità dello stato, l’eroizzazione dei capi jihaidisti, il lassismo colpevole di alcuni governanti e la guerra delle Moschee. Un immenso pasticcio insomma, che ha condotto alla proliferazione di un fenomeno quasi inesistente prima. Il tutto in un contesto geopolitico segnato da un mercato mondializzato del terrorismo. Questo il brodo di coltura del ‘daeshismo’, che si afferma come nichilismo assoluto ammantato di una ‘religiosità senza cultura’, che riconosce solo l’ordine spartano dell’egualitarismo guerriero e
configura un nuovo anarchismo autoritario dettato dall’imperativo della guerra contro tutti. Una identità nuova nella quale è possibile riconoscersi. Allora il processo di de-radicalizzazione può passare attraverso tre parole d’ordine: Riabilitare lo Stato, uno Stato di diritto che sia nel contempo uno Stato sociale esemplare capace di combattere i rapporti incestuosi fra politica e denaro. Fare Società, ritessere i legami sociali, anche partendo da gesti simbolici forti in direzione degli strati e delle regioni diseredate, e giungendo a riforme sociali profonde. Fare Nazione, valorizzando il processo costituzionale affrontato dalla Tunisia, e promuovendo un ‘patriottismo costituzionale’, come si dice in Germania. Aldilà delle grandi parole d’ordine, qualche pista politica pratica per chiarire il terreno di un grande progetto riformatore può essere quella di dispiegare su tutto il territorio un esercito di ricercatori per studiare luoghi, attori e fattori concreti della radicalizzazione, con l’obiettivo di favorire le sinergie tra esperti, società civile e lo Stato nel comprendere i meccanismi della radicalizzazione. Moltiplicare le iniziative per il reinserimento dei giovani nel dibattito pubblico. La frattura generazionale è, infatti, uno scandalo permanente nel paese della ‘rivoluzione dei giovani’. Infine mettere in campo un dispositivo giuridico per rinforzare e colmare le carenze legislative sulle associazioni, permettere, ad esempio, allo Stato di controllare i loro finanziamenti, per separare i mondi della cultura e del fanatismo. Si tratta, in breve, di demarcare lo spazio civico da quello pubblico-religioso, di incardinare un sistema, in sostituzione dell’ingranaggio mortifero della radicalizzazione, di formulare una ‘giurisprudenza’, perché la Tunisia ha già provato al mondo che continuerà la sua strada, e che malgrado i pericoli della post-rivoluzione, ha saputo rifiutare il dilemma che attanaglia i paesi del Medio Oriente, costretti a scegliere tra il caos o le avventure militari. Sintesi a cura di Antonio Di Maria
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arcireport n. 11 | 24 marzo 2016
diritticivili/cultura
I Said Yes - 2gether
Una reinterpretazione della colonna sonora di ‘Lei disse sì’ con la partecipazione di tanti musicisti indipendenti uniti dal tema dei diritti civili Dal 21 Marzo 2016 è disponibile in download gratuito I Said Yes - 2gether, la nuova versione del brano dei Rio Mezzanino già protagonista della colonna sonora del documentario Lei disse sì, ed oggi realizzata con il coinvolgimento di alcuni fra gli artisti più interessanti del panorama musicale nazionale indipendente. I Said Yes è il brano dei Rio Mezzanino composto nel 2013 per appoggiare Lei disse sì, il progetto cross-mediale che racconta, attraverso la voce delle stesse protagoniste, la storia del matrimonio fra Ingrid e Lorenza costrette a sposarsi in Svezia perché l’Italia ancora non permette matrimoni fra persone dello stesso sesso. Questo brano è poi diventato la colonna sonora del pluripremiato documentario, diretto da Maria Pecchioli, sul tema del matrimonio egualitario. Rio Mezzanino e Lei disse sì hanno deciso di coinvolgere nella reinterpretazione di I Said Yes molti musicisti che hanno voluto condividere con loro la volontà di supportare il cambiamento, il percorso verso la parità dei diritti. È nata così I Said Yes - 2gether, un’onda sonora animata da tanti artisti uniti sul tema dei diritti civili, con i quali Rio Mezzanino e Lei disse sì sono legati da stima e in molti casi da una collaborazione attiva; artisti che hanno voluto partecipare alla rilettura di questo brano e di questa idea. I Said Yes - 2gether vede insieme ai Rio Mezzanino la presenza di una quarantina di artisti tra cui Cristina Donà, Erriquez (Bandabardò), Marco Parente, Ginevra Di Marco, Enrico Gabrielli, Rodrigo D’Erasmo, Claudio Tosi (The Half Of Mary) Andrea Franchi, Alberto Mariotti (Samuel Katarro/King of The Opera), Francesca Messina (Femina Ridens), Massimiliano Larocca, Elisabetta Maulo, Scena Muta e Titta Nesti. La diffusione del brano ha lo scopo di promuovere le finalità del progetto Lei disse sì, tornato di grande attualità con il voto della legge Cirinnà in Senato, mentre nel settembre 2015 il documentario è stato proiettato alla Camera grazie alla collaborazione con Arci. Arci ha sposato idealmente questo progetto a più voci con entusiasmo, pro-
Tosi, Alfredo Vestrini, King of the Opera, Femina Ridens, La Scena Muta, Medjugori, Scandalosobrio, Train de vie, Video Diva. Autore brano Antonio Bacchiddu, produzione Rio Mezzanino, registrato da Luca Fanti e da Gianfilippo Boni, mixato da Luca Fanti, master: White Sound Mastering Studio di Tommy Bianchi e Andrea Pellegrini.
muovendolo attraverso la propria rete associativa, fatta di luoghi che elaborano e producono cultura. Cinema e musica diventano straordinari strumenti di animazione territoriale e iniziativa politica, testimonianza di impegno e passione civile, priorità di una grande associazione laica e progressista. Il brano, disponibile in streaming e per il download gratuito si può trovare a questo link: http://www.riomezzanino. com/IsY.html È accompagnato da un video di animazione realizzato da Ingrid Lamminpää e Maria Pecchioli, a questo link https:// youtu.be/uuT3OO3aScY
Scheda del videoclip I Said Yes - 2gether: Ideazione e curatela di Maria Pecchioli. Hanno detto “sì” con noi: Ginevra Di Marco, Rodrigo D’Erasmo, Cristina Donà, Erriquez, Enrico Gabrielli, Saverio Lanza, Marco Parente Alia, Andrea Angelucci, Matteo Bennici, Cinzia Blanc, Gianfilippo Boni, Francesco Frank Cusumano, Drusilla Foer, Andrea Franchi, Letizia Fuochi, Nicola Genovese, Massimiliano Larocca, Elisabetta Maulo, Alberto Mariotti, Filomena Menna, Selina Nardi, Titta Nesti, Silvia Poli, Maria Francesca Torselli, Claudio
Scheda del film-documentario ‘Lei disse sì’ Un film di Ingrid Lamminpää, Maria Pecchioli, Lorenza Soldani. Regia di Maria Pecchioli (67 minuti - colore/ audio - HD - Italia/Svezia, 2014). Lei disse sì è una storia d’amore fatta di musica, di rifiuto e abbandono, di accoglienza e condivisione, di imprevisti, speranze, amici e parenti, testimoni allegri di un sogno che si avvera. È il racconto di due donne che si amano. Lei disse sì è un frammento di Italia, di boschi e laghi svedesi ed è una festa dove il menù di nozze è a base di diritti civili. Per un bambino è facile: due persone si amano, due persone si sposano! Come nei sogni, nelle favole e nei paesi civili. Nell’Italia del 2013 invece non è tutto così semplice e sposarsi con una persona del tuo stesso sesso non è consentito. Lorenza e Ingrid da 7 anni vivono una storia d’amore e desiderano sposarsi: per questo coinvolgono amici e parenti nella preparazione del matrimonio che si svolgerà in Svezia, dove il matrimonio è per tutti, durante la festa di mezza estate: il 21 giugno 2013. Consapevoli di amplificare la voce di tutti coloro cui è negato il diritto di immaginarsi un futuro insieme, le due donne danno vita a una racconto romantico, politico, serio e scanzonato allo stesso tempo, dove il tema della felicità passa dall’importanza della condivisione, dalla scelta degli abiti e tutte quelle ‘piccolezze’ che nutrono il matrimonio come rito. La promozione musicale del brano I Said Yes - 2gether e dei Rio Mezzanino è a cura di A Buzz Supreme. Info: leonardo@abuzzsupreme.it La promozione del progetto I Said Yes 2gether è a cura di Lei disse sì. Info: leidissesi@gmail.com
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ucca
arcireport n. 11 | 24 marzo 2016
Una nuova legge sul cinema Intervista a Roberto Roversi, presidente nazionale Ucca, pubblicata da lavoroculturale.org Quasi mille circoli in tutta Italia ospitano luoghi di scambio continuo e diretto per amanti del cinema, grazie a sale presenti anche in zone altrimenti desertificate o semi-desertificate come sono ormai chiamate quelle in cui si dovrebbero altrimenti percorrere chilometri per trovare in programmazione un film che nelle grandi città si vede più facilmente. Il riassetto del settore cinematografico recentemente annunciato dal Mibact riguarda anche i film difficili (nel sito del Ministero vengono bollati così, senza nemmeno più virgolette) e le nove associazioni nazionali di cultura cinematografica, firmatarie di un documento unitario ed apparentemente escluse dallo schema di legge. Ne parliamo con Roberto Roversi, presidente di UCCA, l’Unione dei circoli cinematografici dell’Arci, e direttore della Sala Boldini, l’unicad’essai a Ferrara. Chiara Zanini: Proprio come voi, anche Confindustria, Rai, Sky, Viacom, Discovery e Prima Tv (l’alleata nordafricana di Mediaset) hanno presentato alla Commissione un documento unitario, ma il giudizio espresso su come il settore possa continuare a vivere e sulla possibilità di un prelievo di scopo è diametralmente opposto. Il loro incontro si è svolto dopo l’annuncio della riforma Franceschini, di cui le vostre associazioni non erano state messe al corrente, mentre eravate stati convocati in precedenza, quando con il ddl Di Giorgi i contenuti erano diversi. Roverto Roversi: Non mi stupisce che questi soggetti preferiscano lo schema
Franceschini - Giacomelli, perché il disegno di legge Di Giorgi era di fatto un calco del modello francese, che prevede una tassa di scopo. Invece lo schema di disegno di legge Franceschini dispone che i 400 milioni di euro annunciati arrivino dall’Ires e dall’Iva pagate dalla filiera cinematografica. In parole povere: dalla fiscalità generale. Sono due cose completamente diverse. I principali player del comparto (in particolare i broadcaster) avrebbero dovuto pagare queste imposte a prescindere; la scelta di prelevare le risorse dalla fiscalità generale, e non dall’esercizio e dai successivi passaggi della filiera, TV e web inclusi, è una scelta politica, che riguarda il modo di pensare il fisco e il relativo gettito. Per chi, come noi, ha sempre sostenuto che la cultura sia a pieno titolo parte integrante del welfare, e che quindi debba essere finanziata dallo Stato, è naturalmente una buona notizia. Purchè non si citi il modello francese. Il ddl Di Giorgi partiva dal presupposto che il cinema deve autofinanziarsi, mentre il 28 gennaio il Governo ha in sostanza detto che i principali player (i cosiddetti Over The Top) non si toccano. Come esercente di un piccolo cinema d’essai dovrei esultare: con il ddl Di Giorgi, a regime, avrei dovuto versare allo Stato il 10% di ogni biglietto emesso, e la conseguenza sarebbe stata ovvia per tutto l’esercizio: i costi supplementari si sarebbero tradotti nella maggiorazione del prezzo del biglietto. Ritengo che sarebbe stato più corretto, dal punto di vista comunicativo, ammettere che il modello francese (non dimentichiamo che le presenze annuali in Francia sono più che doppie rispetto a quelle italiane, circa 230 milioni di biglietti staccati contro i 105, nel 2015, del nostro Paese) non è replicabile sic et simpliciter e che si è preferito percorrere altre vie. C.Z.: Anche il ruolo delle vostre associazioni potrebbe cambiare con la nuova legge? R.R.: Leggi e decreti sul cinema hanno finora sempre definito attraverso specifici articoli cos’è un’associazione nazionale di cultura cinematografica. L’indicazione dell’art. 18 del Decreto Lgs del 22 gennaio 2004, n. 28 e successive modificazioni è ben circostanziata: le AANNCC non devono avere scopo di lucro, devono svolgere attività di cultura cinemato-
grafica attraverso proiezioni, dibattiti, conferenze, corsi e pubblicazioni, essere diffuse e operative in cinque regioni, con attività perdurante da almeno tre anni. E nonostante i tagli draconiani subiti negli ultimi anni (il contributo nel nostro caso era passato dal milione e mezzo stanziato nel 2005 ai 600mila euro del 2013), le associazioni nazionali, nove in totale, sono sopravvissute. Con Franceschini si è avuta una prima inversione di tendenza, tornando ad un contributo complessivo annuale di un milione di euro. In tutti gli articolati che leggo ora, però, non vedo più nominate le AANNCC. Nel testo ci sono passaggi apprezzabili riguardanti quel cinema di qualità che spesso fatica a trovare il suo pubblico, ma le uniche realtà che si danno questo
obiettivo sono le associazioni. UCCA ad esempio sta portando ovunque la quinta edizione de L’Italia che non si vede rassegna itinerante di cinema del reale con Cloro di Lamberto Sanfelice, Short Skin di Duccio Chiarini, Vergine giurata di Laura Bispuri e altri film passati ai festival internazionali senza riscontro commerciale. Le nostre associazioni si accollano costi con l’obiettivo di portare queste opere in luoghi dove le sale non ci sono affatto, mostrandoli ad esempio in sale polivalenti occasionalmente adibite a cinema. È un lavoro importante di ricucitura che facciamo solo noi, ma in questa fase nel decreto non c’è traccia continua a pagina 9
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del ruolo delle Associazioni. C.Z.: C’è il rischio che il lavoro che fate nei territori attraverso i percorsi di educazione all’immagine venga così svalutato. R.R.: Come associazione puntiamo al superamento di una fruizione pura e semplice dell’opera nella sala, proponendo innanzitutto socialità. Per noi invitare gli autori e i professionisti che hanno lavorato ai film che presentiamo è fondamentale. Nelle nuove piattaforme digitali il cinema si consuma in modo totalmente diverso, sostanzialmente solipsistico. Riaprire sale attualmente chiuse e aprirne di nuove è un obiettivo condivisibile di entrambi i decreti, ma realisticamente è difficile immaginare un ampliamento del parco sale senza la formazione di nuovo pubblico. Le dolorose chiusure alle quali abbiamo assistito negli ultimi anni sono state inevitabili, in qualche modo il combinato disposto della crisi economica, dei costi dello switch-off digitale e soprattutto dell’invecchiamento del pubblico. Cioè del mancato ricambio. Difficile sopravvivere se si programmano contenuti ‘difficili’, perché un paio di decenni di mancata alfabetizzazione cinematografica hanno comportato un mutamento del gusto. Cosa che non vale ad esempio per la Francia, che ha sempre protetto i film di qualità, soprattutto domestici ed europei. Da noi la conseguenza è che i film d’essai sono percepiti come respingenti e/o afflittivi. Riportare la gente non solo in sala ma semplicemente fuori casa richiede un vero e proprio lavoro. Nelle nostre associazioni le persone tornano a mischiarsi, discutono….e ricominceranno ad andare di più al cinema solo se non ci limiteremo ad offrire loro la proiezione di un film, perché quello stesso titolo può ora essere visto anche comodamente a casa via web. C.Z.: Come funziona attualmente il sistema dei contributi per le associazioni nazionali? R.R.: Dobbiamo presentare ogni anno entro il 28 di febbraio un’istanza di contributo, ma come anticipavo in questo momento la legge sul punto è opaca, e infatti nel sito del Ministero alla voce Associazioni appare da mesi un avviso che diffida dal presentare la richiesta nei termini consueti nonostante la scadenza annuale. Viene spiegato che a breve ci sarà il nuovo ddl, e solo il futuro decreto stabilirà con quali nuovi criteri, termini e modulistiche saranno assegnati i contributi.
Quindi viviamo una situazione di attesa: di fatto siamo impossibilitati a presentare il piano delle nostre attività per l’anno già iniziato. Di solito i contributi vengono definiti in agosto, quindi ci troviamo d’abitudine ad operare per i primi otto mesi dell’anno senza conoscere l’entità del contributo proveniente dal FUS che andrà alle associazioni e sarà disponibile per l’anno in corso. Quest’anno non conosciamo nemmeno la tempistica. C.Z.: Qual è la vostra opinione sulla gestione Franceschini? R.R.: Senza dubbio ci sembra che il Ministro abbia dimostrato una diversa sensibilità sul cinema rispetto ai suoi predecessori. Sembra finalmente terminata l’epoca dei tagli indiscriminati, anzi già dallo scorso anno le Associazioni hanno potuto recuperare parte delle risorse perdute nel decennio precedente. Il fondo di 400 milioni di euro promesso nel decreto è un altro passo in avanti che accogliamo con favore; ma per dare un giudizio complessivo sul suo operato
ucca si dovranno aspettare i decreti attuativi che allungheranno ulteriormente le tempistiche, e per chi deve programmare in continuità questo rappresenta un problema. Il risultato è un’oggettiva incertezza in tutto il comparto. Spesso leggiamo titoli ad effetto su nuovi record stabiliti con l’uscita di due o tre film, o addirittura di uno solo: ma può dirsi sana un’industria che conta gli anni in cui uscirà il nuovo film di Checco Zalone? Quo Vado? rappresenta da solo circa un decimo degli incassi di tutta l’industria cinematografica italiana: è evidente che il mercato italiano è troppo piccolo e va allargato. Non credo che un comparto possa sopravvivere soltanto grazie ai cosiddetti film-evento. Purtroppo un’intera generazione è cresciuta con banali fiction TV su cani e preti poliziotto: non mi sorprende che non appena un film è linguisticamente più complesso venga trovato ostico da un pubblico non cinefilo. Per certi contenuti il pubblico ora quasi non esiste, e non basterà un’operazione di maquillage se non si fanno interventi educativi. Per questo quando sento parlare di costruire nuove sale o ammodernarne di vecchie non posso non chiedermi se riusciremo a riempirle. C.Z.: Quali sono le scommesse di cui siete più soddisfatti? R.R.: L’interazione feconda del cinema in sala con il web. Ovvero le proiezioni on demand. L’ha capito ad esempio Movieday.it, una piattaforma digitale che ci ha permesso di attirare 400 persone in una sola sera per la proiezione di Bansky Does New York, ‘costringendoci’ ad una replica.Un risultato simile lo abbiamo riscontrato con Unlearning e Alla ricerca di Vivian Maier. È di vitale importanza raccogliere i segnali inviati dal pubblico quando ha la possibilità di esprimersi. Con Movieday e altre piattaforme simili non è più il programmatore a far calare dall’alto le sue scelte, ma sono i gusti del pubblico a trovare spazio. I risultati non sono solo incoraggianti, ma ottimi anche per l’esercente. Sono gli stessi spettatori a promuovere i film con il passaparola, anche (anzi, soprattutto) quando si tratta di film di nicchia. E ormai se ne è accorta anche la grande stampa, se è vero che si tratta di un modello che persino Mereghetti ha lodato sul Corriere della Sera. A dimostrazione che questo fenomeno comincia ad avere dimensioni importanti in tutto il circuito. Anche chi gestisce una monosala, e non può giovarsi dei benefici della multiprogrammazione, dovrebbe avvicinarsi a questi modelli virtuosi.
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A Terni ‘Stranieri Nostrani’ Stranieri Nostrani è un ‘strano’ evento, una ‘strana’ condivisione, sperimentazione, scambio, festa, laboratorio, cultura, musica, divertimento, cibo, colori, pensato da persone per le persone. Un viaggio tra cultura del tè a quella della bellezza, dalla preparazione di un piatto al condividerlo insieme a tavola, dalla musica al divertirsi curiosando! Dove la lontananza diventa più vicina. Tre appuntamenti (6 marzo/3 aprile/8 maggio) per un percorso che inizia a fine ottobre con il Laboratorio di cucina ‘Imparare l’italiano cucinando’ al quale hanno preso parte alcune beneficiarie del Progetto SPRAR Ordinari Terni, presso il Circolo Arci Europa ‘98 - Fiaiola. Obiettivo del laboratorio era quello di far entrare a contatto le utenti con la realtà gastronomica locale attraverso la preparazione di piatti della tradizione umbra e di conoscere il ‘linguaggio’ della cucina nostrana, stimolando la curiosità delle ragazze a reinventare i loro piatti tradizionali. Da qui nasce l’idea di entrare dentro gli ambienti della ristorazione, mettendo in mostra i saperi acquisiti, attraverso un confronto con delle figure professionali. Per andare oltre alla consueta modalità delle ‘cene multiculturali’, si è pensato di dare continuità alla collaborazione che è iniziata al ‘Terni Festival’ grazie a Indisciplinarte. In quella occasione alcuni beneficiari sono stati coinvolti nella ideazione e nell’attuazione del progetto Our streets are not paved with gold. Abbiamo quindi voluto mettere ‘sul piatto’ un formato nuovo che possa contenere più ingredienti possibili:
in più JOHN DE LEO + GRANDE ABARASSE ORCHESTRA + ORCHESTRA SENZASPINE FEAT. STEFANO BENNI Bologna - John De Leo e Grande
letture, musica, arti performative, documentari, artigianato e cucina. Dopo la grande partecipazione alla prima giornata di domenica 6 marzo dedicata principalmente al Senegal, con laboratori di treccine, cibo e musica, il 3 aprile il programma di Stranieri Nostrani prevede dalle ore 16, sempre al Fat CAOS di Terni, il ‘Mercato Strano’ con vendita di cibo e prodotti artigianali, in collaborazione con alcuni negozi etnici della città. L’attenzione si concentrerà poi sull’Iran e sulla tradizione del tè, con il salone principale che sarà trasformato in una Chaykunè (casa del tè) aperta a tutti, ternani vecchi e nuovi. La serata si concluderà con un apericena a sorpresa realizzato sempre dallo staff del Fat e dal gruppo delle cuoche ‘arruolate’ con grembiule e cappello da chef ‘Sns’ (stranieri nostrani). Nuove iniziative, sempre al CAOS di Terni, sono previste per domenica 8 maggio, in attesa di altri appuntamenti gastronomici e non, grazie all’impegno e all’estro creativo di Kasia, Luisa, Matteo e Sene, gli animatori infaticabili di questa bella esperienza.
A Lecco ‘Piazza l’idea’ Proseguono le iniziative organizzate dal servizio informagiovani del Comune di Lecco in collaborazione con Arci Lecco nell’ambito del progetto ‘Piazza l’idea’ dedicato a tutti i giovani della provincia di Lecco, promosso dall’Azienda speciale Retesalute. Dopo i 3 corsi gratuiti dedicati al perfezionamento della lingua inglese, tedesca e all’europrogettazione ecco nuovi percorsi di formazione pensati per promuovere la creazione e la messa in rete di spazi di aggregazione e innovazione, oltre che per stimolare la creatività e l’autoimprenditorialità dei giovani.
daiterritori
Nel mese di aprile sarà infatti la volta di conoscere Arduino e il funzionamento della scheda elettronica, oppure di apprendere nozioni fondamentali sull’organizzazione di eventi, musica e marketing, i rapporti con la stampa e molto altro ancora. I corsi gratuiti prevedono 15/16 ore di lezione e percorsi personalizzati con formazione, sperimentazione ed esposizione con Arduino, e in più messa alla prova in occasione di un evento in provincia o nella città di Milano per quanto riguarda l’organizzazione di eventi. info@pianogiovanilecco.it
Abarasse Orchestra, Orchestra Senzaspine, Stefano Benni, insieme; trenta musicisti sul palco. Protagonisti d’eccezione di un incontro tra linguaggi ed esperienze artistiche differenti che darà vita a uno spettacolo unico nel suo genere, in scena giovedì 7 aprile alle ore 21 al Teatro Antoniano (via Guinizelli, 3 - Bologna). In occasione della ristampa in vinile dei suoi ultimi lavori - Vago Svanendo e Il Grande Abarasse - il cantautore romagnolo ripropone una rilettura per orchestra del suo repertorio realizzata insieme alla giovane orchestra bolognese Senzaspine, diretta dal maestro Tommaso Ussardi. Ad aggiungere un tocco di creatività la partecipazione straordinaria dello scrittore Stefano Benni con le sue imprevedibili incursioni letterarie. Grazie a un lavoro artigianale di orchestrazione, John De Leo e il direttore d’orchestra Tommaso Ussardi accompagneranno gli ascoltatori in un percorso musicale che spazierà dalle improvvisazioni jazzistiche alle sonorità elettroniche fino a toccare le armonie rinascimentali ispirate ai madrigali di Palestrina. Il concerto si apre anche alla letteratura con una musicazione in tempo reale delle parole recitate da Stefano Benni, tratte dalle pagine di grandi scrittori del ‘900 come Joseph Conrad, Jorge Luis Borges e Italo Calvino. Una serata con molte sorprese anticipata da un divertente video spot realizzato per l’occasione insieme ai protagonisti dello spettacolo, disponibile su YouTube all’indirizzo: bit. ly/1Os5Rnh. Lo spettacolo è prodotto da Arci Bologna, Luis.it e Associazione Lugocontemporanea che hanno scelto di scommettere su un progetto culturale capace di unire le formule più tradizionali di intrattenimento a nuovi linguaggi sperimentali. Con il patrocinio di Comune di Bologna, Regione Emilia-Romagna e con il contributo di Coop Alleanza 3.0. Prevendite su www.vivaticket.it Biglietto d’ingresso – Intero: 25 euro. Ridotto soci Arci: 22 euro www.arcibologna.it
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azionisolidali le notizie di arcs
a cura di Francesco Verdolino
Workshop fotografico a Cuba
Ultimi posti disponibili per il workshop a Cuba con il fotografo Giulio Di Meo. La scadenza per le iscrizioni è il 30 marzo, la partenza dal 28 aprile al 7 maggio 2016. I Campi di lavoro e conoscenza all’Estero sono un’esperienza di volontariato internazionale Arci nata nel 2005, che ha visto in questi anni la mobilitazione di circa 750 volontarie e volontari, con più di 15 Paesi interessati dai programmi. Anche quest’anno all’esperienza di scambio di conoscenze con i partner locali, verrà affiancato per ogni campo un’attività di workshop fotografico con tutor professionisti del settore. La quota di partecipazione a questo workshop è di 2.300 euro e comprende viaggio A/R, visto, vitto, alloggio, assicurazione, spostamenti interni e ogni altro costo riferito alla realizzazione del corso in loco. Per partecipare alle attività dei campi di lavoro bisogna essere maggiorenni. È richiesta inoltre la partecipazione obbligatoria alla formazione prima della partenza e capacità di adattamento e di coinvolgimento rispetto alla realtà in cui il campo si svolge. I campi di lavoro e conoscenza internazionali dell’Arci sono un’esperienza di volontariato a breve termine dove si vive e si lavora insieme, ci si impegna direttamente in attività condivise con le comunità locali: l’obiettivo è quello di promuovere, attraverso la conoscenza diretta, la solidarietà e la cooperazione internazionale come valore collettivo, ma anche come stile di vita, per la promozione del dialogo interculturale, la pace, l’affermazione dei diritti globali. L’aggiunta di uno spazio di turismo responsabile arricchirà questa occasione di crescita culturale da non perdere. A breve verranno lanciate le altre proposte: vi aggiorneremo costantemente su mete e date attraverso il sito di ARCS.
Infinito Futuro
L’8 aprile verrà inaugurata Infinito futuro, mostra fotografica dei workshop realizzati da ARCS a Cuba e in Camerun con il fotografo Giulio Di Meo. L’inaugurazione si terrà presso Fusorari a Modena in piazzale Torti 5. Per chi fosse in zona, vi aspettiamo numerosi! www.arcsculturesolidali.org
società
Legalizziamo! Una proposta di legge di iniziativa popolare di Andrea Oleandri CILD
Legalizziamo! È la proposta di legge di iniziativa popolare depositata giovedì scorso alla Corte di Cassazione, promossa dall’Associazione Luca Coscioni e Radicali Italiani - con la collaborazione e il sostegno della Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili, Forum Droghe, Antigone, La PianTiamo, Canapa InfoPoint, Ascia, comunità di OverGrow, la coalizione ‘Legalizziamo la Canapa’ e decine di grow shop italiani. Nei prossimi sei mesi dovranno essere raccolte almeno 50.000 firme affinché la proposta possa essere presentata al Parlamento divenendo parte del dibattito istituzionale in corso. L’obiettivo è infatti quello di contribuire all’attività dell’inter-gruppo parlamentare per la cannabis legale. Il testo della proposta parte dalla versione calendarizzata alla Camera dalla quale, tuttavia, si diversifica in alcune parti grazie ai contributi delle organizzazioni della società civile, di esperti e giuristi, per rendere il modello di regolamentazione quanto più libero possibile. La regolamentazione è rivolta ai maggiorenni e prevede, tra l’altro, la libertà di auto-coltivazione individuale fino a 5 piante; la possibilità di coltivare associandosi in ‘cannabis social club’ che potranno avere fino ad un massimo di 100 componenti. Si prevedono inoltre pratiche semplificate per la produzione commerciale; il più ampio accesso possibile alla cannabis terapeutica; l’allocazione delle entrate ad attività informative e sociali; una relazione annuale al Parlamento; la depenalizzazione totale dell’uso personale di tutte le sostanze nonché la liberazione per i detenuti per condotte non più penalmente sanzionabili. Una proposta di ragionevolezza che prende atto degli ultimi trent’anni di politiche fallimentari sul tema delle droghe, fatte di criminalizzazione, repressione e stigmatizzazione sociale e che tuttavia si scontrerà contro le attuali previsioni legislative che regolano le leggi di iniziativa popolare. Nell’era della comunicazione digitale, di internet, dei social media, dove sarebbe facile costruire piattaforme web dove ciascuno - previa verifica della propria identità - possa manifestare il proprio consenso, noi dobbiamo esse-
re sommersi da tonnellate di carta, dalla necessità di avvalersi di autenticatori, dalla produzione di centinaia di migliaia di documenti e certificati elettorali. È questo l’unico modo che abbiamo, anche oggi, per superare queste barriere legislative. Sappiamo bene che sul tema delle droghe - come su altre questioni che riguardano le libertà civili - il corpo del paese è proiettato molto più avanti di quanto non sia chi siede nelle istituzioni. Sappiamo che se la raccolta firme si scontrasse con meno difficoltà burocratiche i cittadini pronti a firmare questa proposta sarebbero molti di più che i 50.000 necessari affinché una legge di iniziativa popolare sia presentata al Parlamento. Per questo l’invito che rivolgiamo a tutti è di mobilitarsi. Il tema riguarda tutti noi, la nostra salute, la nostra libertà, la nostra società. Legalizziamo! è l’occasione per far sentire la nostra voce.
arcireport n. 11 |24 marzo 2016 In redazione Andreina Albano Maria Ortensia Ferrara Direttore responsabile Emanuele Patti Direttore editoriale Francesca Chiavacci Progetto grafico Avenida Impaginazione e grafica Claudia Ranzani Impaginazione newsletter online Martina Castagnini Editore Associazione Arci Redazione | Roma, via dei Monti di Pietralata n.16 Registrazione | Tribunale di Roma n. 13/2005 del 24 gennaio 2005 Chiuso in redazione alle 18.30 Arcireport è rilasciato nei termini della licenza Creative Commons Attribuzione | Non commerciale | Condividi allo stesso modo 2.5 Italia
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