Arcireport n 37 2014

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settimanale a cura dell’Arci | anno XII | n. 37 | 13 novembre 2014 | www.arci.it | report @arci.it

di Mao Valpiana presidente nazionale del Movimento Nonviolento

Le reti pacifiste, nonviolente e disarmiste che hanno dato vita all’Arena di pace e disarmo del 25 aprile 2014 a Verona, sono le promotrici della Campagna Un’altra difesa è possibile: una legge di iniziativa popolare che porta il titolo Istituzione e modalità di finanziamento del Dipartimento della Difesa civile, non armata e nonviolenta. Si tratta ora di raccogliere 50mila firme autenticate, per poi presentare il testo di legge alla Camera dei Deputati, chiedendone la discussione. Vogliamo dare finalmente concretezza a ciò che prefiguravano i Costituenti con il ripudio della guerra (art. 11), e attuare il sacro dovere di difesa della patria (art. 52) poichè la Costituzione si riferisce semplicemente alla difesa e già oggi è previsto dalla legge e confermato dalla Corte Costituzionale che anche la difesa nonviolenta è una valida alternativa alla difesa militare. Nel concreto, la proposta di legge che i cittadini potranno sottoscrivere vuole l’istituzione e il finanziamento di un Dipartimento che comprenda i Corpi civili di pace e l’Istituto di ricerche sulla Pace e il Disarmo e che abbia forme di interazione e collaborazione con il Dipartimento della

Protezione civile, il Dipartimento dei Vigili del Fuoco e il Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile nazionale. Di fronte alla drammatica crisi economica e sociale del Paese, che sostanzialmente non ha sfiorato lo strumento militare, vogliamo spostare fondi dalle spesa militare a vantaggio della difesa nonviolenta. Non si tratta di spendere di più, ma di spendere meglio. Il finanziamento della nuova difesa civile dovrà avvenire grazie alla possibilità per i contribuenti di destinare una quota pari al sei per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche all’incremento della copertura delle spese di funzionamento del Dipartimento per la Difesa civile non armata e nonviolenta. La difesa civile, non armata e nonviolenta, per essere efficace, deve essere preparata, organizzata, sviluppata, finanziata. Il Dipartimento garantirebbe una dignità istituzionale e una dimensione strutturale alla ‘difesa civile’. I dipartimenti già istituiti, ai quali la proposta di legge fa riferimento (servizio civile e protezione civile), hanno specifiche competenze e strutture organizzative ad esse funzionali che, pur essendo parte integrante della ‘difesa civile, non armata

e nonviolenta’, non la ricomprendono nel suo insieme. Con l’istituzione del Dipartimento per la difesa civile s’intende dare fondamento istituzionale e autonomia organizzativa al principio fondante della legge, che vuole il pieno riconoscimento repubblicano di difesa alternativa a quella militare. Il necessario raccordo tra i dipartimenti avverrà all’interno del Consiglio Nazionale della difesa civile, non armata e nonviolenta, analogo al Consiglio supremo di difesa per quanto riguarda la difesa armata. Con lo strumento della Legge di iniziativa popolare diamo anche attuazione all’articolo 1 della Costituzione, là dove dice che «La sovranità appartiene al popolo», il quale ha solo due forme per esercitarla: il referendum e le proposte di iniziativa popolare. La Campagna, per svilupparsi, ha bisogno che in ogni città e paese si formino dei Comitati promotori locali. La raccolta firme è prevista dal 28 novembre 2014 al 28 maggio 2015. La segreteria nazionale della Campagna ha sede c/o il Movimento Nonviolento, in via Spagna a Verona. info@difesacivilenonviolenta.org          www.difesacivilenonviolenta.org


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palestina

La morte di Arafat, 10 anni fa L’11 novembre di dieci anni fa morì Yasser Arafat, storico leader palestinese, premio Nobel per la Pace e presidente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Per alcuni è stato un eroe nazionale, per altri un complice degli atti di terrorismo contro gli israeliani e per altri ancora una figura fondamentale per il processo di pace in Medio Oriente. Le circostanze della sua morte restano oscure, anche se le forze di sicurezza israeliane, che lo tenevano in stato di detenzione ‘domiciliare’ a Ramallah, furono subito sospettate di averla deliberatamente provocata. Sono in molti a chiedersi se la morte di Arafat abbia cambiato la storia del conflitto tra Israele e Palestina. Non è semplice rispondere a questa domanda. Certamente lo Stato indipendente per il quale Arafat lottò è ancora un progetto da realizzare. E certamente, si è incrinata la fiducia nella cosiddetta ‘soluzione dei due Stati’ che è ancora la posizione ufficiale di tutti i negoziatori che si sono succeduti nel tempo, ma che in molti non considerano ormai più

realizzabile. L’altra cosa certa è che la figura e l’autorità di Arafat, negli ultimi anni della sua vita, erano già messe in discussione da più parti. I primi anni di vita li trascorse al Cairo, dove si laureò in ingegneria civile. Fu tra i fondatori di Fatah, la principale organizzazione della resistenza armata palestinese che si poneva l’obiettivo di uno Stato indipendente, e al Congresso Nazionale Palestinese che si svolse al Cairo nel ‘69 divenne leader dell’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. La sua storia di quegli anni si intreccia con quella della Giordania e del cosiddetto ‘settembre nero’, con quella del Libano e dei massacri di Sabra e Shatila

Più di cento generali israeliani chiedono negoziati regionali Di seguito, pubblichiamo stralci di un’importante presa di posizione di 104 ex generali israeliani, fra cui anche gli ex capi del Mossad, in cui chiedono al Primo Ministro Netanyahu di aprire negoziati con gli Stati arabi moderati e con i Palestinesi (sia della Cisgiordania che di Gaza) nella prospettiva di Due Stati per Due Popoli, sulla base dell’iniziativa di Pace Saudita come proposto a Israele dal Presidente dell’Egitto Al-Sisi nella recente conferenza internazionale del Cairo e dal Principe saudita Al Faisal lo scorso mese di luglio. «Caro Primo Ministro, siamo comandanti IDF e ufficiali di polizia della riserva che hanno combattuto nelle guerre di Israele. Conosciamo per esperienza il pesante e doloroso prezzo pagato per queste guerre; abbiamo combattuto con convinzione per il nostro Stato nella speranza che i nostri figli potessero vivere in pace. Ma la realtà è che stiamo ancora mandando i nostri ragazzi nei campi di battaglia. È tempo di assumerci la responsabilità del nostro futuro. Pertanto ti chiediamo di adottare un approccio politico-regionale e iniziare le negoziazioni con gli stati arabi moderati

e con i palestinesi (nella West bank e a Gaza) basati sull’iniziativa di pace Saudi-araba. Tu sai che gli stati arabi moderati vogliono promuovere insieme a noi un accordo politico che ci permetta di affrontare i nostri comuni nemici insieme e stabilizzare il medio-Oriente. Sai anche che solo un approccio politico-regionale e un accordo con gli Stati arabi moderati ha la possibilità di produrre un accordo con i Palestinesi, la stabilità, la sicurezza e la prosperità economica. Solo questo approccio può determinare un cambiamento politico reale che porti alla crescita politico economica e faccia diventare Israele una società modello per tutti i cittadini, per gli ebrei della Diaspora e per le Nazioni di tutto il mondo. C’è un’alta chance che questa iniziativa abbia successo! Ma se non dovesse avere successo, tu la devi comunque al popolo di Israele. Solo così potremo guardare i nostri figli e nipoti negli occhi e dire ‘ci dispiace, abbiamo provato, ma non ci siamo riusciti’».

e, naturalmente, con quella di Israele. Arafat svolse un’importante attività a sostegno della causa palestinese e del suo riconoscimento internazionale, impegnandosi per una soluzione diplomatica del conflitto soprattutto dal novembre del 1988, dopo cioè la proclamazione dello stato di Palestina del quale fu eletto presidente. Il 13 settembre 1993, alla Casa Bianca, Rabin, primo ministro israeliano, e Arafat firmarono quelli che passarono alla storia come gli accordi di Oslo. Era la prima volta che i due paesi si riconoscevano come legittimi interlocutori, era la prima volta che i due leader si stringevano la mano in pubblico ed era la prima volta che gli israeliani riconoscevano nell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina l’interlocutore ufficiale che parlava per il popolo palestinese. Per quegli accordi Arafat ricevette insieme a Rabin e a Shimon Peres, all’epoca ministro degli Esteri, il premio Nobel per la Pace. Nel 1995 Rabin e Arafat firmarono un’altra serie di accordi, Oslo II, che garantivano all’OLP il governo di numerose città e villaggi a Gaza e nella Cisgiordania, ma lo scetticismo per una soluzione stava già crescendo da entrambe le parti. Arafat e l’OLP non avevano il controllo su tutti i gruppi militari che combattevano per la liberazione della Palestina, aumentarono gli attacchi contro Israele e nel1995 la situazione precipitò: Rabin fu ucciso da un fanatico religioso ebreo e nel 1996 il partito di destra Likud, ostile agli accordi, vinse le elezioni. Quella che solitamente viene considerata come la fine degli accordi di Oslo, è l’incontro di Camp David, nel luglio del 2000. Il mediatore fu nuovamente Bill Clinton, ma i negoziati fallirono e pochi mesi dopo scoppiò la cosiddetta Seconda Intifada, una serie di scontri molto duri tra palestinesi e israeliani che sarebbe terminata soltanto nel 2005. Si può ripercorrere la straordinaria vicenda della vita di Arafat, Abu Ammar per la sua gente, ma non si può non riconoscere, pur scontando errori ed esitazioni a volte fatali, che siamo di fronte ad uno dei protagonisti della storia mondiale del ventesimo secolo. La dedizione al suo popolo fu assoluta. Il suo sforzo e il suo merito grande fu di sapere tenere unito il suo fronte. Oggi, che non c’è più, lo si apprezza ancora meglio. Nessuno, più e meglio di lui, seppe farsi carico della più grande questione morale della seconda parte del Novecento (come la definì Nelson Mandela): la questione palestinese.


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europa/mediterraneo

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Una piattaforma comune per connettere le reti Euromed e Mediterranee di Raffaella Bolini

Si è tenuto a Beirut nei giorni scorsi il seminario organizzato dalla Rete Araba delle Ong e dalla Piattaforma Euromed a cui hanno partecipato anche Solidar, la Rete Euromed per i diritti umani, Concord, l’Arci e la Cgil. In passato, un seminario del genere si sarebbe dedicato a come rendere più efficace il dialogo con la Commissione Europea nell’ambito delle politiche euromediterranee: le due reti promotrici ne sono state protagoniste per più di un decennio. Questa volta la discussione è di tutt’altro tenore. Ne è emersa una denuncia impietosa e senza appello delle politiche europee. La dimensione politica Euromed non esiste più, così come una strategia politica europea nella regione.

Rimane solo la relazione bilaterale della UE con i paesi Maghreb Mashrek per imporre loro il libero mercato. Per anni la società civile del Sud Mediterraneo ha confidato nella possibilità che l’Unione Europea potesse aiutarli ad affermare democrazia e giustizia sociale nei loro paesi: nessuno ci crede più. L’Europa attuale sta dalla parte del capitalismo finanziario che è all’offensiva ovunque nel pianeta. Il tradizionale dialogo con le istituzioni europee perde dunque di centralità: ciò che serve è una mobilitazione per cambiare i rapporti di forza nella regione, e per fermare i mostri che la frustrazione sociale produce al nord e al sud: oscurantismo, razzismo e violenza. Bisogna farsi più forti, perché nessuno

ce la può fare da solo, e per questo serve unità. Avanza anche a Beirut il bisogno di una piattaforma comune capace di connettere tutte le reti Euromed e mediterranee, per metterle in diretta comunicazione non solo con le istituzioni ma con gli attori sociali, politici, intellettuali, con le vertenze e le campagne. È un processo da fare insieme, su un piano di parità fra nord e sud e fra attori sociali diversi, in una relazione nuova verso le istituzioni. Anche la Piattaforma Euromed ha accettato di far parte del percorso ‘Alternative Mediterranee’ che costruiremo a Tunisi nel Forum Sociale Mondiale a marzo, proseguendo il cammino comune cominciato con Sabir a Lampedusa.

La mancanza di un progetto di futuro alimenta violenza e oscurantismo «Non è il tempo della speranza, questo è il tempo della disperazione» dice qualcuno nella sessione di apertura. E effettivamente, ascoltando le organizzazioni sociali libanesi nell’incontro organizzato da Solidar, vengono i brividi. In un paese dove i libanesi sono 3,8 milioni, vivono oggi anche 2 milioni di rifugiati dalla Siria. Se si aggiungono i palestinesi che vivono in Libano senza diritto alla residenza e al lavoro dal 1948, i rifugiati sono 2,7 milioni. È una massa di persone senza diritti e senza assistenza, in gran parte costretta a una situazione di illegalità. Un esercito di forza lavoro informale, che costringe anche i lavoratori libanesi ad accettare lavoro nero, sottopagato e senza protezione sociale. I palestinesi scappati dalla Siria non hanno status di rifugiati e vivono nascosti nei campi profughi palestinesi già sovraffollati in condizioni inumane. La pressione è grandissima, aggrava la tensione già alta in un paese ad alto rischio di tenuta, che risente in modo drammatico della situazione di guerra e di tensione in Siria e nella regione. La politica europea, di fronte a questo disastro, non cambia: l’unica attenzione è per l’apertura dei mercati e per le privatizzazioni, e la conferma di non voler accogliere i rifugiati in Europa. L’imbroglio europeo più grande, a cui

l’incontro di Beirut dedica una intera sessione, è quello dei programmi di sviluppo. Grazie al ‘blending’ (che significa mescolare) l’UE è capace di fare miracoli: e così per esempio un fondo pubblico di investimenti per lo sviluppo di 1,2 miliardi diventa la considerevole somma di 32 miliardi. Peccato che, a contribuire a fare questa cifra, siano banche di investimenti private e commerciali. I paesi mediterranei del sud si ritrovano così beneficiati di aiuti che impongono grandi opere inutili e dannose, e comunque destinate a produrre profitto. Si tratta per la maggior parte di programmi che riguardano il settore dell’energia, dei trasporti, dell’acqua. Sono il cavallo di Troia attraverso cui le multinazionali entrano nei paesi, e si avviano i programmi di privatizzazione. Impongono un modello di sviluppo, così come gli accordi di libero mercato, distruggono il ruolo del pubblico insieme alla sovranità e ai diritti. Dunque, nè la crisi nè la perdita di egemonia nello scenario globale da parte dell’Europa fermano l’offensiva liberista e la dimensione neocoloniale della relazione euro-mediterranea. Ma, il seminario di Beirut avverte, attenzione a non guardare alle trasformazioni che comunque si sono prodotte nella regione. La società civile del sud deve smettere di parlare di una

Europa come se fosse un blocco unico e omogeneo, il Sud Europa diviene una categoria essenziale. Maghreb e Mashrek a loro volta si sono diversificati al loro interno, e c’è bisogno di rafforzare il dialogo sud-sud. E bisogna guardare in faccia la crescita dell’estremismo religioso. Una sessione intera, quella sulla dimensione culturale, ne discute. Sono soprattutto gli attori del sud a parlare. Sicuramente esiste una infrastruttura violenta che è embedded nella struttura islamica, ma il discorso religioso e culturale non può essere isolato dalla dimensione sociale ed economica: la mancanza di prospettive di futuro alimenta violenza e oscurantismo. Alcuni interventi ricordano anche che l’ISIS paga fino a 4.000 dollari i suoi combattenti. La storia di molte religioni, poi, è intrisa di violenza. E allora, forse, più che di dialogo inter-religioso sarebbe importante sviluppare un dibattito approfondito su queste questioni all’interno delle singole religioni. Da questa, come da tutte le altre discussioni, a Beirut è emersa la stessa esigenza: serve una visione forte, un progetto alternativo e credibile di società e di economia. La politica progressista non lo produce più, ma il bisogno è enorme: dobbiamo dimostrare, come ha detto un relatore, che esiste un’altra via tra le dittature e l’estremismo.


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società

La legge elettorale deve garantire rappresentanza e stabilità di Gaetano Azzariti docente di Diritto costituzionale

È del tutto evidente che non può essere la Consulta a scrivere la legge elettorale. Essa - con la famosa sentenza n. 1 del 2014 - si è limitata a dichiarare costituzionalmente illegittime alcune norme; pertanto si può ben affermare che «l’arco delle scelte del legislatore [rimane] molto ampio» (come ha ricordato lo stesso Presidente della Consulta). Ciò non vuol dire però che il Parlamento possa adottare qualsiasi nuovo sistema di elezione. Non è dunque possibile condividere l’idea che, fatta salva la reintroduzione integrale delle disposizioni dichiarate illegittime, il Parlamento sarebbe legittimato a fare adottare qualunque sistema, compreso quello che va sotto il nome di ‘Italicum’. Va affermato, invece, che la nuova legge elettorale, se non vuole incorrere in una nuova incostituzionalità, deve assicurare la necessaria rappresentanza alle diverse articolazioni della società. È possibile introdurre meccanismi di stabilizzazione dei governi, ma questi non possono essere sproporzionati, poiché rischiano di comprimere irragionevolmente alcuni principi costituzionali fondamentali quali l’eguaglianza del voto e lo stesso fondamento pluralistico, che sono caratteristiche costitutive della nostra democrazia. È tutto un problema di ‘equilibri’, dunque. Se così è, il primo problema che dovrebbe porsi una classe politica consapevole è quello di garantire una corretta proporzione tra la ragione della stabilità e quella, costituzionalmente ineludibile, della rappresentanza. In concreto ciò vuol dire chiedersi se un premio assegnato alla lista o coalizione che raggiunge il 37% dei voti (ma in realtà anche meno, se al raggiungimento della soglia indicata dovessero contribuire anche partiti che non potranno poi partecipare alla distribuzione dei seggi, non avendo superato il 4,5%) possa conseguire la maggioranza assoluta dei seggi. Se non si fosse accecati dal pregiudizio credo che si dovrebbe riconoscere l’alterazione eccessiva di un simile meccanismo premiale. È l’ossessione della governabilità che fa velo a una più ragionevole valutazione. Lo scopo unico ed assorbente della nuova legge è stato esplicitamente dichiarato: bisogna garantire che la stessa sera

delle elezioni si conosca chi dovrà governare per i successivi cinque anni. Ma quest’obiettivo non può essere ottenuto se non a scapito della rappresentanza. Non dunque ‘bilanciando’ o ricercando un ‘equilibrio’, bensì ‘sacrificando’, fin tanto che è necessario, il valore costituzionale del pluralismo sull’altare di una governabilità imposta oltre ogni possibile limite di adeguatezza. Forse prima di varare un nuovo meccanismo premiale con il rischio di incorrere in una seconda sentenza di incostituzionalità per irragionevolezza bisognerebbe fermarsi un attimo per pensare ad una soluzione più adeguata. Anche per quanto riguarda le liste bloccate s’è fornita un’interpretazione di comodo della decisione della Consulta. Vero è che nella sentenza sui sistemi elettorali la Corte non ha ritenuto di per sé in contrasto con la nostra costituzione i diversi sistemi di presentazione delle liste (da quelli con preferenza a quelli uninominali, compresi i meccanismi ‘bloccati’ di piccole dimensioni). Ma, anche in questo caso, con ciò non si è preteso di rendere immune da vizi di costituzionalità qualunque possibile criterio di composizione delle Camere. Rimangono espressamente esclusi, ad esempio, tutti quei sistemi che rendono difficilmente conoscibili i candidati e impediscono il concorso dei cittadini alla scelta dei propri rappresentanti. È questo lo specifico criterio di valutazione che la Corte impone al legislatore. C’è allora da chiedersi se il meccanismo formulato nel disegno di legge in discussione alla Camera rispetti questo principio. Vale a dire se è garantita la possibilità di conoscere i candidati che verranno poi scelti in base alle indica-

zioni degli elettori nei singoli collegi. In questo caso la risposta negativa (e dunque il rischio di incostituzionalità) è nascosta dietro un velo d’ipocrisia, ma non per questo è meno preoccupante. Si deve, infatti, costatare come, nel nostro caso, la lista bloccata che si presenta in ogni circoscrizione, con pochi nomi ‘riconoscibili’, non garantisce per nulla l’elettore, il quale, votando per ‘quei’ candidati, può in realtà concorrere a eleggere tutt’altro esponente politico presentato in altra circoscrizione. Ciò grazie al riparto proporzionale dei seggi che viene effettuato a livello nazionale o pluricircoscrizionale. Da qui la non conoscibilità del candidato votato e il permanere di un sistema in cui la composizione delle Camere continua ad essere determinata dalle modalità di composizione delle liste e la loro distribuzione nel territorio, senza che l’elettore possa influire sulle scelte dei partiti. Con il rischio, quindi, di una nuova dichiarazione di incostituzionalità della legge. Il pericolo che corre l’intero sistema politico è enorme. Rifiutandosi di affrontare con serietà le questioni di fondo poste dalla Corte costituzionale e scritte a chiare lettere nella sentenza n. 1 del 2014, impegnati solo in un temerario gioco di forza volto ad assicurare il governo, in qualsiasi modo e a qualunque condizione, ad uno dei due partiti maggiori (Pd o Forza Italia), i nostri parlamentari potrebbero alla fine trovarsi tutti corresponsabili di una definitiva delegittimazione politica. Nel caso in cui una nuova sentenza del giudice delle leggi dovesse ‘limitarsi’ a dichiarare costituzionalmente illegittime le nuove norme, in base ai già enunciati principi di necessaria ragionevolezza ed equilibrio tra le ragioni della governabilità e quelle della stabilità; ovvero nel caso in cui dovesse ribadire che senza il sostegno consapevole degli elettori che devono poter scegliere non solo le liste di partito ma anche i propri candidati «si ferisce la logica della rappresentanza consegnata nella costituzione». Speriamo che qualcuno si fermi a riflettere oltre le proprie convenienze immediate e si preoccupi di far valere le ragioni della superiore legalità costituzionale. Prima che sia troppo tardi.


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serviziocivile

Il X Rapporto di Arci Servizio Civile di Licio Palazzini presidente nazionale Arci Servizio Civile

Il 12 Novembre ASC Nazionale ha presentato il suo X Rapporto Annuale sulle attività di servizio civile nazionale realizzate nel 2013. La presentazione è stata l’occasione per chiamare ad un confronto il Governo, con il sottosegretario Bobba, la Regione Emilia Romagna, con l’assessore Marzocchi, Postiglione del Dipartimento Nazionale della Protezione Civile, Di Francesco della Direzione Regionale Emilia Romagna dei Beni Culturali e Paesaggistici, oltre che il Capo Dipartimento Gioventù e SCN, Mauceri, e il Presidente della Consulta Nazionale del Servizio Civile, Bastianini. Una partecipazione così composita si spiega con l’oggetto del X Rapporto e cioè i risultati raggiunti con la realizzazione del Progetto Ri-partire dalla cultura e dal patrimonio artistico che era inserito nel bando speciale che nell’estate del 2012 fu emanato in risposta agli effetti del terremoto che aveva colpito Emilia Romagna, Lombardia e Veneto. Un progetto per 50 giovani, attivato sulle province di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio Emilia per il quale furono

presentare 430 domande. Le peculiarità di questo progetto rispetto a quelli ordinari di ASC non si esauriscono con il numero (la media di posti dei progetti di ASC è di 6-7 persone) e la dimensione territoriale (4 province) ma riguardano anche i soggetti attuatori. Infatti 25 giovani erano impegnati presso le sedi di attuazione della Direzione Regionale dei Beni Culturali, 13 giovani per realizzare un progetto di IUAV di Venezia e 12 presso le ASC di Bologna, Modena e Reggio Emilia. Il risultato principale di questo intervento è stata la produzione di un prototipo di progetto adatto a inserire nel SCN soggetti anche istituzionali che non hanno esperienza pregressa di servizio civile senza snaturare la finalità educativa alla pace e all’impegno civico del SCN. Allo stesso tempo, il livello di aspettative dei giovani selezionati (il 76% era già laureato) di specializzarsi con un anno di SCN nei campi di loro studio è stato gestito in modo che al termine del periodo di servizio ben il 58% ha detto di aver acquisito ulteriori competenze. Tutto bene, ma se ci fossimo fermati qui

sarebbe stato un tirocinio. In aggiunta a questo dato il 78% ha affermato di aver scoperto realtà nuove che detto da un blocco di giovani che per i 4/5 erano residenti apre scorsi interessanti sulla capacità di effettiva conoscenza dei luoghi di residenza. Adesso questo prototipo è a disposizione delle istituzioni in una fase interessante perché il sottosegretario Bobba ha annunciato l’interesse di alcuni Ministeri a investire sul SCN, come è a disposizione per le associazioni socie di ASC che operano nei settori dei Beni Culturali. Ma l’aspetto associativo più interessante è stato quella parte di progetto realizzata da Modena che ha riguardato il censimento della situazione delle associazioni colpite dal terremoto e da Bologna con un intervento finalizzato a restituire alla cittadina di Pieve di Cento un locale che fosse un centro di aggregazione. Il risultato lo abbiamo vissuto tutti insieme agli inizi di Aprile del 2014 quando con i 50 giovani abbiamo festeggiato la conclusione del progetto direttamente nei locali finalmente disponibili e nel restaurato Teatro Comunale.


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carovanaantimafie

Il viaggio europeo della Carovana antimafie si concluderà a Barcellona di Maria Giovanna Italia carovaniera

Continua il viaggio della Carovana Antimafie durante l’anno del suo ventennale. Dopo aver lasciato l’Europa dell’Est, il 12 novembre ha ripreso l’avventura nella Francia del Sud per poi chiudersi il 21 novembre a Barcellona. Bucarest, Romania, è ancora nei nostri occhi, nelle nostre orecchie, nei nostri olfatti. Così scrive di quella tappa il giornalista Christian Elia di Q Code: «Da venti anni c’è una Carovana che porta in giro un messaggio forte e chiaro: è attraverso la legalità che si possono curare i mali delle società contemporanee. Sembra semplice, ma non lo è, non lo è stato mai. Perché è necessario un passo in avanti culturale, prima che di polizia, per agire su quei cittadini che diventano parte di un processo di illegalità. In Romania la Carovana diventa teatro importante dove ragionare di legalità. Dimenticate le immagini degli anni Novanta, quando finito il regime di Ceausescu il Paese si svegliava drammaticamente povero, ma pieno di speranze. Oggi le vie di Bucarest hanno luci e colori, sapore di disponibilità, odore di divertimento e affari. Solo che in città

convivono due anime, una diurna e una notturna, una emersa e una sotterranea, sommersi e salvati. Disuguaglianze, contrasti, contraddizioni che sono l’humus ideale per il proliferare dell’illegalità. La Carovana Antimafie ha incontrato il progetto Cartt (Campaign for Awareness Raising and Training to fight Trafficking), confrontandosi sul tema della tratta nei differenti aspetti di sfruttamento del lavoro, anche di quello domestico, come in Italia, o per quello agricolo, fino all’edilizia in Francia, o al turismo a Malta. Il focus per la Romania è stato il disagio minorile. Ambito nel quale, da più di diciotto

Le tappe in Spagna ♦ mercoledi 19 novembre - ore 19      presso Casal de Joves Obriu Pas Barberà del Vallès     Presentazione della Carovana Antimafie ♦ giovedì 20 novembre - ore 19     presso Casa autogestita dei giovani della Mola    Carovana Antimafie    Esperienza dei giovani che hanno partecipato ai campi antimafie    Teatroforum Barreras con la compagnia Teatrando ♦ venerdì 21 novembre - ore 19    Tavola rotonda con la Carovana Antimafie e Joan Queralt    (autore di Gomorra catalana)    Tutti i giorni cene solidali dopo le attività

anni, opera Parada. Tutti ricordano la storia del clown franco-algerino Miloud, che arriva nel 1992 a Bucarest e si trova di fronte a una situazione disperata, con centinaia di minori che vivono per strada, vittime del collasso dello stato rumeno e di una società sull’orlo del tracollo socio-economico, oltre che della politica indiscriminata della natalità perseguita dal regime. Un naso rosso, la giocoleria, e pian piano nasce e cresce la storia di Parada che oggi continua - ogni giorno - a lavorare per le strade di Bucarest». Il viaggio in Francia comincia da Toulon e da un centro culturale giovanile della Ligue de l’enseignement (partner ormai da qualche anno dell’iniziativa), dove una folla di giovani ventenni incalzano di domande i carovanieri, ascoltano stupiti i dati sulle mafie in Francia, ci/ si chiedono il senso della lotta in un mondo rapito dagli individualismi e da forti poteri corrotti. E noi tentiamo di rispondere loro con le parole che possediamo, raccontando della scelta di voler lottare anche se a volte il nostro fare antimafia pare sia minuscolo rispetto alla sopraffazione delle mafie e alla corruzione del potere, ma cerchiamo di portare forte la convinzione della necessità per ogni uomo e donna di prendere un impegno, nei confronti del mondo martoriato dal principio del facile denaro illegale, attraverso la propria partecipazione alla vita sociale e politica nel tentativo di sottrarre sempre più territori alle mafie e liberarli. A renderci forti di un messaggio che sembra lasci balenare qualcosa negli occhi dei giovani sono i ricordi di tutte le tappe precedenti, i dati spaventosi raccolti in ogni città, ma anche e soprattutto le forze e le energie di quanti in maniera differente lottano quotidianamente per l’arretramento delle mafie e per il sostegno di chi ne è vittima. Così, con l’indignazione crescente per ogni dato sconfortante sullo sviluppo delle mafie e con la forza e la determinazione di lottare raccolta da quanti lavorano duramente nei vari territori, con ogni città e le sue contraddizioni, con i tanti indifferenti e l’entusiasmo di alcuni come noi che credono nell’impegno e nella lotta, ripartiremo da Toulone e saremo pronti a ricominciare a Marsiglia. E poi ancora. www.carovanaantimafie.eu


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migranti/diritti

Fermiamo i respingimenti Stralci dell’appello al Governo e all’Alto Commissario Pesc della UE firmato da associazioni che si occupano di diritti dei migranti La Corte Europea per i Diritti dell’Uomo (Cedu) ha nuovamente condannato il Governo Italiano per aver violato il divieto dei respingimenti collettivi e «perché le autorità italiane hanno esposto i ricorrenti, rimandandoli in Grecia, ai rischi conseguenti alle falle della procedura di asilo in quel paese». La Cedu «condivide la preoccupazione di diversi osservatori rispetto ai respingimenti automatici attuati dalle autorità frontaliere italiane nei porti dell’Adriatico, di persone che sono consegnate immediatamente ai comandanti dei traghetti per essere ricondotte in Grecia, essendo in tal modo private di ogni diritto procedurale e materiale». È infatti notizia del 29 ottobre che al porto di Ancona le forze dell’ordine abbiano respinto in Grecia 16 persone di cittadinanza iraniana, siriana e irachena imbarcatisi su un traghetto della Minoan, nascosti tra le ruote dei Tir o in mezzo al carico. Notizie di questi giorni parlano poi del respingimento di 50 egiziani giunti a Pozzallo in un’imbarcazione con a bordo 329 persone. Questi respingimenti non si collocano certo nell’ambito di applicazione del regolamento Dublino perché

nessuno dei respinti ha potuto o voluto formalizzare una richiesta di asilo. Si é data applicazione ancora una volta da una parte all’Accordo tra Italia e Grecia del 1999 che prevede modalità ‘semplificate’ per le procedure di respingimento verso la Grecia senza nessuna delle garanzie previste per l’ingresso nel territorio di uno stato appartenente all’area Schengen, e dall’altra agli accordi bilaterali di riammissione tra Italia ed Egitto. Paese che non può essere definito un «paese terzo sicuro», come risulta dai rapporti internazionali. Queste procedure semplificate di respingimento collettivo privano i migranti dei più elementari diritti di difesa e di informazione e si pongono in totale contrapposizione con le disposizioni europee e con la giurisprudenza della Cedu. Per tali ragioni le nostre organizzazioni, consapevoli che queste pratiche collettive e sommarie di respingimento verso Paesi non sicuri rischiano di moltiplicarsi anche come conseguenza del termine dell’operazione Mare Nostrum, che potrebbe comportare un maggiore afflusso di potenziali richiedenti asilo o comunque di migranti alle

La Corte di Strasburgo contro il rinvio in Italia di richiedenti asilo da altri paesi europei La Corte di Strasburgo ha stabilito che l’Italia è un Paese che non offre sufficienti garanzie ai richiedenti asilo per l’alloggio. Il giudizio è parte della sentenza che condanna la Svizzera se rinvia in Italia una famiglia di richiedenti asilo, quando il governo italiano non indica prima come si prenderà cura di loro. Il caso riguarda una famiglia di afghani, padre, madre e sei figli nati tra il 1999 e il 2012, che al momento vivono in Svizzera. Il nucleo familiare era arrivato sulle coste calabresi nel 2011 dall’Iran e quindi, in base al regolamento di Dublino, il Paese competente per decidere della loro richiesta d’asilo era l’Italia. Ma la famiglia preferì andare prima in Austria e poi in Svizzera per vedersi riconosciuto questo diritto, temendo che nel nostro paese le condizioni di vita sarebbero state poco adatte, soprattutto per i bambini. E la Corte europea dei diritti umani gli ha dato oggi ragione. I giudici hanno

infatti stabilito che qualora il governo svizzero dovesse rinviare la famiglia in Italia senza prima aver ricevuto da questa dettagliate informazioni su dove e come la famiglia verrebbe alloggiata, si concretizzerebbe una violazione del loro diritto a non essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti. Secondo i giudici, «non è infondato ritenere che i richiedenti asilo rinviati adesso in Italia da altri Paesi europei, in base al regolamento di Dublino, corrano il rischio di restare senza un luogo dove abitare o che siano alloggiati in strutture insalubri e dove si verificano episodi di violenza». È la prima volta che la Corte di Strasburgo si pronuncia contro un invio in Italia di richiedenti asilo da un altro Paese europeo. Una decisione simile finora era stata presa solo nei confronti della Grecia. In base alle informazioni fornite dalla Corte di Strasburgo ci sono circa 20 ricorsi pendenti simili a quello della famiglia afghana.

frontiere, chiedono al Governo Italiano l’impegno a far cessare immediatamente qualsiasi procedura di respingimento, in ottemperanza a quanto sancito dalla Cedu nonché dalle convenzioni internazionali e direttive europee in tema di Protezione internazionale e diritto all’Asilo. Chiediamo che venga imposto il rispetto del divieto di espulsione o respingimento collettivi - anche in applicazione del Regolamento frontiere Schengen 562 del 2006, che deve essere interpretato e applicato in conformità alla Cedu con l’esame individuale di ogni persona - anche agli altri Stati membri e ciò in forza del ruolo dell’Italia in questo semestre di Presidenza dell’Unione Europea.

Arci nazionale e Arci Roma sulle violenze a Tor Sapienza Di fronte a quanto avvenuto la notte dell’11 novembre fuori del centro d’accoglienza a Tor Sapienza, nel condannare gli episodi di violenza l’Arci nazionale e l’Arci di Roma ritengono necessario impegnarsi da subito per ripristinare un clima di serenità nel quartiere, tutelando tanto i diritti degli abitanti quanto i diritti dei rifugiati e richiedenti asilo che vivono nel centro d’accoglienza. L’Arci propone la costituzione di un tavolo di consultazione tra abitanti, associazioni, operatori e istituzioni. Un modo per avviare un confronto aperto, necessario per arrivare velocemente a risposte condivise e concrete. Solo attraverso la partecipazione e il confronto democratico si può infatti arrivare ad una risoluzione dei conflitti. Bisogna impegnarsi concretamente da subito al fine di arginare ogni deriva populista, isolando i violenti e tutti coloro che vorrebbero sfruttare questa difficile situazione per alimentare odio e intolleranza. La società civile non può rimanere spettatore passivo. Le istituzioni devono far sentire la loro vicinanza ai cittadini senza militarizzare il quartiere che deve tornare ad essere vissuto, da tutti, come un luogo di incontro, di integrazione, di socialità e di crescita collettiva.


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benicomuni/ambiente

Un convegno utile e partecipato di Ugo Zamburru presidente Arci Torino

Venerdì 7 e sabato 8 novembre si è tenuto, tra Torino e Almese, il convegno nazionale Grandi opere, controlli, comunità locali promosso dal Controsservatorio Valsusa. Numerosi i relatori, tra cui il Segretario del Tribunale Permanente dei Popoli Gianni Tognoni, i magistrati Paolo Maddalena e Livio Pepino, i tecnici ed esperti Gian Vito Graziano, Ivan Cicconi e Guido Viale, i docenti universitari Luca Masera, Alessandra Algostino, Alberto Vannucci, alcuni amministratori della Valsusa, rappresentanti nazionali di associazioni ambientaliste e dell’Arci, esponenti di movimenti impegnati nel denunciare i danni delle grandi opere con un’opposizione radicata sui territori. Nell’autunno 2013 significative realtà associative torinesi e singole persone sottoscrivono un appello. Dalla denuncia dell’accerchiamento politico, mediatico e giudiziario della ultraventennale opposizione popolare al TAV Torino-Lione si arriva alla proposta di promuovere iniziative alla ricerca di nuovi spiragli di democrazia. Nasce così

il Controsservatorio Valsusa. Nella primavera successiva il Controsservatorio si costituisce in associazione. Il convegno di questi giorni ha avuto grande successo di pubblico: nella giornata di venerdì presso il Centro studi Sereno Regis di Torino, così come sabato al teatro di Almese, le sale erano al completo. Tutti i relatori, scelti nell’ambito accademico, scientifico e dell’associazionismo, hanno concordato nell’individuare una serie di caratteristiche che rappresentano il terreno comune sul quale le grandi opere da sempre prosperano: inutili, dannose, senza controlli da parte delle istituzioni che anzi le utilizzano per perfezionare una rete clientelare basata sulla corruzione e l’impunità a scapito dei cittadini.

Il convegno rientrava nelle attività realizzate per raggiungere l’obiettivo che il movimento NoTav persegue da oltre 20 anni e che vede, come prioritaria, la necessità di formare una comunità territoriale competente e informata per diffondere la conoscenza e creare le condizioni per un cambiamento dal basso che permetta, nel pieno rispetto della Costituzione, di partecipare alle decisioni da prendere sul proprio territorio e che riguardano l’uso dei fondi pubblici, la tutela della salute e dell’ambiente e il rispetto della legalità. Il convegno, inoltre, si è inserito nel percorso avviato dal Controsservatorio Valsusa, unitamente a un folto gruppo di sindaci e amministratori delle valli di Susa e Sangone, che ha portato alla decisione del Tribunale Permanente dei Popoli di aprire un procedimento per appurare «le finalità e l’effettività delle procedure di consultazione delle popolazioni coinvolte e l’incidenza sul processo democratico» esaminando il caso Valsusa ed altri simili nel panorama internazionale.

Sblocca Italia: una legge sbagliata. Legambiente lancia la Campagna #sbloccafuturo di Maria Maranò Legambiente

È legge il decreto ‘SbloccaItalia’. Mai un provvedimento legislativo è stato così antiambientale e carico di interventi sbagliati. Per la mobilità il 50% delle risorse va a infrastrutture stradali e extraurbane e, attraverso la defiscalizzazione, si rilanciano autostrade inutili come la Orte-Mestre. Per la prevenzione del rischio idrogeologico si favoriscono vecchie opere di ‘sistemazione idraulica’ e non c’è nulla sulla delocalizzazione e sugli interventi che favorirebbero l’effetto spugna del territorio. Per la gestione delle risorse idriche si cerca per l’ennesima volta di aggirare i risultati del referendum rendendo obbligatoria l’unicità della gestione per tutto l’Ambito Territoriale. Si rilanciano i ‘rigidi’ termovalorizzatori, nonostante gli impianti siano sovradimensionati in molte regioni, con ripercussioni negative sulla raccolta differenziata e sulla filiera industriale green di recupero delle materie prime seconde. Per le bonifiche aumenta la confusione tra ‘siti di interesse nazionale’, il cui iter è gestito dal Ministero dell’Ambiente, e ‘aree

di rilevante interesse nazionale’ affidate a un commissario. La ciliegina sulla torta è servita con il famigerato art. 38 con cui si autorizzano e rilanciano ricerche, trivellazioni ed estrazioni a mare e a terra, con royalties irrisorie e trasferimento d’autorità dalle Regioni al Ministero dell’Ambiente delle procedure di VIA sulle attività a terra. Dietro la retorica del cambiamento si trovano ricette del Novecento non più efficaci, quelle sì da rottamare, e regali alle lobby del petrolio, dell’incenerimento, del cemento. E, a differenza di ciò che viene sbandierato, non c’è snellimento delle procedure né delegificazione per favorire una politica ordinaria efficace ma deroghe, commissariamenti, accentramento delle decisioni. Si è già dimostrata un’illusione, oltre ad aver fatto molti danni, l’idea di superare i tanti e diversi ostacoli con la gestione commissariale e con leggi ‘liberatutti’. L’estensione della trattativa privata e l’introduzione del criterio dell’ ‘estrema urgenza’, con numerose deroghe al codice

dei contratti, faranno aumentare i rischi di corruzione e clientelismo. La mobilitazione durante l’iter parlamentare è riuscita a limitare qualche piccolo danno. Ora bisogna agire sui territori per bloccare le opere inutili e dannose. Stiamo sollecitando le Regioni a impugnare l’art. 38 sulle trivelle. Molti sindaci, parlamentari, consiglieri regionali, operatori economici stanno sostenendo la diffusa mobilitazione contro lo sblocco delle trivelle. Alle vecchie idee di Sbloccaitalia rispondiamo con #sbloccafuturo (http:// www.legambiente.it/sblocca-futuro) segnalando le numerose opere che sono bloccate e che, quelle sì, servono a vivere meglio. Ferrovie, trasporti urbani, mobilità dolce, messa in sicurezza del territorio, bonifiche, depurazione, riqualificazione urbana, abbattimento di manufatti abusivi, impianti per chiudere il ciclo dei rifiuti, efficienza energetica. Noi l’Italia la vogliamo sbloccare davvero, per costruire un paese più moderno e con più lavoro.


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informazione

Il salto con l’asta del manifesto di Norma Rangeri e il collettivo del manifesto

Entro la fine dell’anno i liquidatori della vecchia cooperativa del manifesto metteranno all’asta la nostra testata. E questa esperienza, con le sue debolezze, i suoi limiti, i suoi inciampi, questa nostra perigliosa navigazione, arriverà al suo ultimo, decisivo giro di boa. Per noi che lo abbiamo curato, difeso, inventato per oltre quarant’anni, il manifesto non è mai stato solo un posto di lavoro, rappresenta un luogo dell’anima, nel quale mettiamo testa e cuore ogni giorno per coltivare idee, progetti e, oggi, anche per realizzare un obiettivo che perseguiamo da anni. Per dare corpo a questa speranza, adesso dobbiamo presentare la nostra offerta di riacquisto della testata dalla liquidazione. Affrontiamo questa sfida durissima con determinazione e convinzione. Siamo arrivati fin qui superando dolorose divisioni politiche, vincendo spinte contrastanti, riuscendo, e lo possiamo dire con un pizzico di orgoglio, a ricostruire un gruppo di

lavoro in grado di garantire al manifesto identità, vendite, lavoro. Con tutti gli alti e bassi di un’avventura senza rete. Per realizzare questa grande impresa abbiamo bisogno di una spinta collettiva. I liquidatori metteranno all’asta la testata entro la fine del 2014, come ultimo atto, finalmente, di una vicenda iniziata ormai due anni fa, quando le difficoltà economiche portarono il collettivo alla decisione di liquidare la vecchia cooperativa per tentare di dare vita a un nuovo inizio. Dobbiamo, vogliamo fortemente diventare «padroni» (parola che stavolta possiamo usare), di noi stessi. E quindi della testata che dal 28 aprile 1971 mandiamo ogni giorno, tranne il lunedì, in edicola. Padroni di noi stessi perché non c’è chi più di noi possa reclamarne il diritto di esserlo. Perché in tutti questi anni abbiamo imparato che l’indipendenza è stata ed è la grande forza del manifesto. Non abbiamo un editore, né un socio finanziatore, nessuno che ci dica quello che dobbiamo fare

o non fare. Perché non si può cambiare la natura di questa particolare voce della sinistra: un editore unico snaturerebbe la storia di un collettivo coerente tra ciò che è, ciò che dice e ciò che fa. È proprio l’esito che vorremmo scongiurare: evitare che il manifesto finisca in altre mani. Questo compito non può essere affrontato e garantito solo dal collettivo. Perciò abbiamo bisogno di una forte mobilitazione di tutti. La crisi divide, isola, spinge ciascuno ad affrontare le difficoltà della vita individualmente. Per riuscire è importante ritrovare una risorsa, un valore che la sinistra sembra avere smarrito: la solidarietà. Che in questo caso significa capacità di donare anche poco, facendolo però in tanti, tantissimi. E chissà, forse sotto l’albero del prossimo Natale potrebbe esserci un grande, bel regalo per tutti. Partecipa alla campagna e dona su: http://miriprendoilmanifesto.it

Editoria a rischio

Mentre decine di giornali chiudono, il governo azzera il fondo editoria nella legge di stabilità 2015 di Vincenzo Vita

Chissà se il maestro Muti vorrà portare - davanti a Palazzo Chigi - la Messa da Requiem di Verdi, così mirabilmente diretta lo scorso 10 ottobre a Chicago. Testo e musica ben si addicono alla imminente morte dell’editoria non profit, cooperativa, locale - circa cento testate, di cui un terzo è già defunta o in agonia - alla cui esistenza dovrebbe contribuire la specifica posta istituita presso la presidenza del consiglio. Il Fondo fu introdotto e aggiornato da una lunga sequenza normativa per controbilanciare lo strapotere televisivo e l’iniqua distribuzione della pubblicità. Proprio la l. 103/2012, ora in vigore, vincola i finanziamenti ai contratti di lavoro a tempo indeterminato e alla diffusione effettiva. Sempre in attesa della tanto agognata riforma del sistema, di cui c’è tanto bisogno in un’Italia scivolata al 49° posto della classifica per la libertà di informazione e retta da una normativa figlia dell’era dei grandi gruppi e del conflitto di interessi. Ricapitoliamo. Il Fondo è passato da 506 milioni di euro del 2007 agli attuali 55,9: cifra calcolata al netto delle spese

‘fisse’, che curiosamente premono sulla stessa voce (rimborso a Poste Italiane, convenzioni della Rai, e così via). In realtà del Fondo se ne sono perse le tracce. Il sottosegretario con delega all’editoria Lotti sembrerebbe preoccupato. E ne ha motivo, visto che la fine di un così rilevante numero di testate sarebbe un unicum nella storia nazionale: neppure con il fascismo era successo qualcosa di simile. Ma non finisce qui. Il delitto diviene perfetto con il capitolo 2183, Tabella C della Legge di stabilità 2015. I virtuali 98,5 milioni stanziati - tolte le solite spese ‘fisse’ - spingono il contributo editoria

premio morrione è giunto alla quarta edizione il Premio Roberto Morrione, sezione del premio giornalistico televisivo Ilaria Alpi dedicato alla memoria e all’impegno civile e professionale di Roberto Morrione, fondatore della rete Rainews24 e di Libera Informazione. Possono partecipare, entro l’8 dicembre, giovani giornalisti che non abbiano superato i 31 anni di età. Info su premiorobertomorrione.it

sotto lo zero. C’è sempre una prima volta, incredibilmente. Quindi? Libri in tribunale, per non rischiare persino involontari falsi in bilancio. E sì, perché il taglio arriva alla fine dell’anno, a resoconti stilati ed approvati. È un’improvvida e grave deriva, che si collega alla complessiva riduzione della spesa per la cultura, la scuola, l’università, la ricerca, i saperi. Meglio cittadini poco informati? Il sospetto non è infondato. Come ha denunciato la Federazione della stampa in una bella iniziativa promossa insieme a Stand up for journalism sul lavoro, nel 2013 altri 800 giornalisti hanno perso il posto. Inoltre, si parla della scomparsa di una trentina di fogli locali, per non parlare dell’emittenza. Attenzione, qui parliamo della parte nota ed ‘emersa’, da moltiplicare se volgiamo lo sguardo all’inferno del precariato. Ai nuovi servi della gleba. Eppure, lo stile del governo Renzi potrebbe apparire conversativo e pieno di promesse: in verità la pratica reale è drammatica. Il Parlamento tace? Intanto, si apra una stagione di lotta, perché il silenzio non paga mai.


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daiterritori

Nasce il comitato Arci in più Cuneo-Monviso Intervista al neo presidente Massimiliano Flora Sabato 8 novembre a Cuneo si è tenuto il primo Congresso del comitato Arci Cuneo-Monviso. Dopo un lungo percorso di incontri e valutazioni ponderate in merito alla questione, il comitato Arci Savigliano-Monviso e il comitato Arci Cuneo hanno deciso di procedere all’unione dei due territori, per dare vita ad un nuovo comitato nella provincia Granda. È stato eletto presidente del nuovo comitato Massimiliano Flora, a cui abbiamo rivolto alcune domande.

genere: nei precedenti comitati, con un numero limitato di associazioni, era difficoltoso creare legami e collaborazioni, valorizzarne le esperienze e creare nuovi stimoli. Dobbiamo costruire un comitato territoriale più partecipato e strutturato, per supportare in modo adeguato le basi associative, e per saper cogliere i disagi ed i bisogni del territorio. È necessario ripartire e riaffermare la nostra presenza attiva, puntuale ed attenta alle tante esigenze del nostro contesto.

Da quali esigenze nasce l’unione dei due comitati Savigliano (Monviso) e Cuneo? L’unione dei due comitati nasce dalla forte esigenza di potenziare e strutturare in maniera più efficiente le attività dell’Arci in un territorio così esteso ed articolato, come la provincia Granda. Tutti noi sentivamo il bisogno di un rilancio forte delle attività ed iniziative fino ad ora promosse, al fine di potere essere più presenti e vicini alle esigenze dei nostri circoli, dei nostri soci e di coloro che vedono nell’Arci un punto di riferimento importante sia per gli ideali che la identificano, sia per le azioni che la caratterizzano.

Quali saranno le priorità del nuovo comitato? Gli obiettivi da perseguire sono molti, in primis organizzare una struttura dirigenziale che possa rispondere in modo efficace alle attuali e future problematiche del nostro nuovo comitato. Non mancherà l’impegno nel consolidare e promuovere le attività delle realtà esistenti, ma sarà altresì necessario impegnarsi per la nascita di nuove basi associative. Ci aspetta un lavoro intenso, ma siamo certi che i nostri sforzi saranno ripagati. L’entusiasmo e la voglia di fare si è percepita in modo evidente tra le delegate ed i delegati al primo Congresso Arci Cuneo-Monviso: grazie all’aiuto di tutti ed in particolare con il sostegno del nostro regionale sarà possibile dare uno nuovo impulso alla nostra associazione.

Quali difficoltà comuni, su cui intervenire, vivono i due territori? Sul territorio convivono realtà che propongono attività e finalità di vario

Torna il TFF OFF a Torino Torna a Torino, presso la sede Arci, durante le giornate del Torino Film Festival (dal 21 al 29 novembre) il TFF OFF. Il TFF OFF nasce nel 2011, in occasione della 29esima edizione del Torino Film Festival, con l’obiettivo di offrire uno spazio alternativo di discussione e confronto sul TFF, per dare alla cittadinanza la possibilità si esprimersi e confrontarsi su uno dei principali eventi culturali della città. Lo spazio OFF è stato concepito come luogo di confronto orizzontale, lontano dai riflettori, dove gli appassionati di cinema possono incontrare i protagonisti del Festival e costruire una riflessione critica sulla rassegna, in un flusso orizzontale di saperi e opinioni. Il TFF OFF è uno spazio complementare al Torino Film Festival e allo stesso tempo inedito, dove si incontreranno ospiti del

Festival (registi, sceneggiatori, ospiti) al di fuori delle sale cinematografiche e si proporranno presentazioni di libri, dvd e incontri tematici, con un programma di eventi collaterali al Festival che fornirà quindi un supporto logistico alla kermesse cinematografica torinese. La prima proiezione è in programma sabato 22 novembre con il documentario Felliniana di Simone Cangelosi e Luki Massa (Italia, 2010) tributo alla celebre transessuale Marcella di Folco, tra i fondatori del MIT Movimento Italiano Transessuale, sempre presente in tutte le battaglie LGBT, scomparsa nel 2010. La proiezione è un’anteprima della Trans Freedom March, marcia organizzata dal coordinamento Torino Pride in occasione del TDoR (Transgender Day of Remembrance). www.arcipiemonte.it/torino

STABILE PRECARIATO COMO Allo Spazio Gloria il 14

novembre alle 21 ci sarà la serata Stabile precariato: sarà presentato il progetto Bottega lavoro di Arci e Acli, che ha lo scopo di favorire l’avvicinamento al mondo del lavoro dei giovani tra i 15 e i 30 anni, inoccupati e disoccupati in provincia di Como. A seguire, il reading di Carlo Albè, giovane scrittore indipendente e giornalista freelance e la musica della Piccola orchestra precaria e dei Balkan imported. Ingresso libero. www.spaziogloria.it

spettacolo teatrale VALLE SUSA Sabato 15 novem-

bre a Exylles, frazione Deveys, in Valle Susa, l’associazione Artemuda presenta lo spettacolo teatrale Distillare è imitare il sole, regia di Renato Sibille, con gli attori del laboratorio permanente di ricerca teatrale di Salbertrand. Musiche dal vivo eseguite dai Parenaperde, ingresso libero con prenotazione obbligatoria. Due repliche, una alle 17 e l’altra alle 23. www.artemuda.it

aratro incisioni PEGOGNAGA (MN) Dal 14

al 16 novembre c’è il festival Aratro incisioni, eventi sulla musica indipendente italiana che si svolgeranno tra il centro culturale e il circolo Arci Casbah. Ci saranno presentazioni di libri a tema musicale, dj set, esposizioni di cd, vinili e libri, showcase di artisti collegati a varie etichette. L’evento è organizzato da Comune di Pegognaga, dal centro culturale ‘Livia Bottardi Milani’ e da Arci Mantova. www.livearcimantova.it

nuova sede per il casapertini TRECASTAGNI (CT) Il 14 no-

vembre alle 19.30 in via Proiette 16 ci sarà l’inaugurazione della nuova sede del circolo Arci CasaPertini. Sarà uno spazio aperto, autogestito, culturale, creativo e sociale, un luogo nel quale i giovani di adesso e i non giovani che vogliono ancora farsi sentire e far qualcosa di creativo potranno esprimere le proprie idee, conoscere gente, trascorrere il proprio tempo, realizzare qualcosa di bello per sé e per la comunità. Ingresso libero. catania@arci.it


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‘Sapori di giustizia’: a Genova il progetto per una cultura della legalità di Silvia Melloni Arci Genova

La notte del 2 novembre trenta persone di età compresa fra i 17 e i 60 anni hanno cosparso i muri del quartiere della Maddalena, nel centro storico di Genova, di volantini contenenti stralci delle ultime relazioni della Commissione parlamentare antimafie, della Dia, della Fondazione Caponnetto. «È allarmante il ritardo con il quale la società civile ha compreso il pericolo della presenza sul territorio della regione (e non solo nel Ponente Ligure) della criminalità organizzata di stampo mafioso e la scarsa consapevolezza dei rischi ai quali il tessuto socio economico è attualmente esposto» vi si legge. Usura, riciclaggio di denaro sporco attraverso l’acquisizione di esercizi commerciali e imprese artigianali, infiltrazione negli appalti, gestione di videopoker, oltre ai più tradizionali traffico di stupefacenti e dello sfruttamento della prostituzione sono le aree di attività delle mafie a Genova e nel quartiere della Maddalena. I cittadini però, proprio a causa del basso profilo tenuto dalle organizzazioni mafiose, faticano ad accorgersene, a volte si rifugiano nel mito della malavita cantata da De Andrè. Il progetto Sapori di giustizia - promosso da circolo Arci Belleville, Arci Genova e San Benedetto con l’adesione del presidio Francesca Morvillo di Libera, del CIV Maddalena, dell’associazione AMA di cittadini della Maddalena e la partecipazione di scout, Gas e parrocchie - nasce con l’obiettivo di allargare la consapevolezza di questo fenomeno e promuovere l’attivazione mutuamente solidale di cittadini ed esercizi commerciali del quartiere. Per spezzare l’isolamento in cui si trova chi oggi –in particolare esercizi commerciali - è stretto dalle pressioni mafiose. L’attacchinaggio del 2 novembre è una citazione. Dieci anni fa Addiopizzo esordì a Palermo nello stesso modo; lo slogan «Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità» ha fatto storia. E il 5 novembre Alessandra Celesia e Chiara Utro di Addiopizzo sono venute alla Maddalena, insieme a Filippo Sestito, a raccontarci la storia di chi, nel Meridione d’Italia, ha alzato la testa e intessuto reti contro le mafie. E a rispondere alle moltissime domande di associazioni e cittadini. Hanno partecipato all’incontro quasi 100 persone, che li hanno seppelliti di domande. Chiedendo ai cittadini di scegliere per i loro acquisti i negozi che si riconoscevano nel disciplinare di Addio Pizzo, l’associazione saldò in un patto di solidarietà reciproca commercianti e cittadini antimafia, offrì la possibilità a ognuno di combattere la mafie attraverso una scelta semplice e quotidiana come fare la spesa, coniugò lotta alle mafie e consumo critico. È un’esperienza che vorremmo mutuare, pur nel nostro diverso contesto. Da noi la crisi stringe i commercianti nella morsa dei debiti, della liquidità che manca, delle banche restie a concedere prestiti. Molti cadono nella rete degli usurai, alcuni sono costretti a cedere l’attività ai mafiosi. Sostenere i commercianti che resistono alle proposte della mafia significa, come cittadini, sceglierli nei consumi di ogni giorno. Sapori di giustizia promuove la nascita di una rete di commercianti, ristoranti e locali che condividono un disciplinare antimafia e scelgono di rendersi identificabili attraverso un adesivo che li connoti come ‘antimafia’. Allo stesso tempo i cittadini del quartiere - che già si stanno battendo attraverso moltissime iniziative comunitarie contro la presenza della criminalità alla Maddalena - si impegnano a sostenere questi negozi attraverso i loro consumi. Sapori di giustizia è anche un progetto di comunicazione, che mira a raccontare la Maddalena come quartiere antimafia e a diffondere fra i turisti l’abitudine di visitarla per sostenere i commercianti antimafia.

daiterritori

Rassegna a teatro Si intitola Divertiamoci a teatro la rassegna organizzata dall’Arci Empolese Valdelsa che prevede la messa in scena di sei commedie tra il circolo Allende di Montespertoli e la Casa del Popolo I’Poggio di Ortimino. Il primo spettacolo si terrà sabato 15 novembre, ore 21.30, a Ortimino: qui la Compagnia della Ginestra presenta O per via di che ne, regia di Giovanni Mangani.

Filmando a Figuralia Il cibo e la cucina come occasione di scambio e di convivialità; il cibo come espressione di cultura e di sapere, come elemento rappresentativo di una condizione sociale e dell’esistenza. Il cibo come passione o come memoria, legame con il territorio e con antiche tradizioni gastronomiche; l’educazione alimentare e i problemi legati alla nutrizione. Il cibo è l’ospite d’onore della quarta edizione di Filmando a Figuralia CIneBO: racconti sul cibo al cinema, il festival nazionale di cortometraggi promosso da Arci Bologna che sfida la creatività e la visionarietà dei giovani videomaker ogni anno su un tema diverso. Il concorso è organizzato in collaborazione con Circuito 051 (il network dei circoli giovanili Arci della provincia di Bologna) e con il contributo della regione EmiliaRomagna, e si rivolge ai videomaker, in erba o più esperti, dai 14 ai 35 anni. C’è tempo fino al 17 novembre per partecipare. La serata di premiazione si terrà a dicembre 2014 al circolo Arci Kino di Pieve di Cento. www.arcibologna.it


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azionisolidali le notizie di arcs

a cura di Francesco Verdolino

CAPODANNO in Camerun

Restano solo due settimane per iscriversi al workshop di fotografia sociale Acqua è vita che si terrà in Camerun dal 28 dicembre al 6 gennaio prossimi. Il viaggio è organizzato all’interno del programma pluriennale dei campi di lavoro all’Estero di Arcs ed Arci, insieme al fotografo Giulio Di Meo e al partner camerunense Codebank 2000. La scadenza per le iscrizioni è stata fissata per il 25 novembre. Il corso ha l’obiettivo di guidare i partecipanti nello sviluppo di un racconto fotografico sulla realtà interessata, ma allo stesso tempo sarà anche occasione per avvicinare i partecipanti alle problematiche legate all’acqua in Camerun e di documentare la realtà del villaggio di Bankondji attraverso la fotografia. Il workshop si svilupperà in 9 giorni durante i quali si analizzeranno le diverse fasi necessarie alla realizzazione di un reportage: l’idea, la pianificazione del progetto, il lavoro di gruppo, il lavoro sul campo, l’editing e la presentazione finale del progetto. Ogni giorno si andrà in giro a fotografare, provando a catturare ‘istantanee’ che raccontino la vita e le attività del villaggio di Bankondji, che documentino le problematiche legate all’approvvigionamento di acqua e che denuncino le difficoltà affrontate dalla popolazione. La quota di partecipazione al workshop è di Euro 1950 e comprende viaggio aereo da Roma a Yaoundè, visto, vitto, alloggio, assicurazione, spostamenti interni e partecipazione al workshop.

L’Avana: settimana della cultura

Ogni anno, a fine novembre si celebra all’Havana la settimana della cultura italiana e come ogni anno, oltre gli appuntamenti istituzionali organizzati dall’ambasciata italiana, Arci, insieme ai suoi partner, organizza eventi che promuovono lo scambio culturale tra i due paesi. Il tema centrale dell’azione Arci di quest’anno sarà dedicato alle arti audio visuali proponendo a Cuba il lavoro di due artiste di Arci Liguria dal titolo MAPS2, un progetto internazionale, che ha avuto una tappa a Santa Fè lo scorso giugno, costituito da due azioni artistiche di Giuditta Nelli e Anna Positano che consistono nell’inclusione attiva della comunità nella lettura, rilettura e traduzione del proprio paesaggio.

società

È partita la campagna ‘Col pareggio ci perdi’ Nel 2012 l’allora governo Monti e l’ampia maggioranza che lo sorreggeva introdusse nella nostra Costituzione, attraverso la modifica in particolare dell’articolo 81, il principio di pareggio di bilancio, ovvero l’impossibilità per lo Stato di spendere più di quanto ha incassato con le entrate fiscali nel corso dell’anno, salvo limitatissime eccezioni. Lo fece con una maggioranza parlamentare amplissima, superiore ai due terzi, che rendeva impossibile la convocazione di un referendum. Malgrado questo, molti costituzionalisti ed economisti sostennero che era un errore. Il tempo ci sta dando ragione. In primo luogo è sempre errato introdurre in Costituzione norme stringenti che attengono alle manovre economiche che un governo fa attraverso le leggi finanziarie. Infatti alla prima occasione lo stesso governo Renzi ha chiesto di fare scivolare l’entrata in vigore dell’obbligo al 2017. In secondo luogo non è vero che ce lo chiedeva l’Europa. Infatti la Francia non l’ha fatto, lasciando la propria Costituzione inalterata. In terzo luogo l’esperienza storica delle grandi crisi del passato, come quella degli anni Trenta, dimostrano che proprio quando le cose vanno male è necessario l’intervento diretto in economia dello stato, anche in deficit, per garantire quella ripresa che altrimenti non avverrebbe. Naturalmente bisogna che gli investimenti pubblici siano oculati e in settori innovativi. Solo in questo modo si può ottenere quell’allargamento di gettito fiscale - beninteso se si lotta contemporaneamente contro evasione ed elusione fiscali - che permette di riportare il bilancio in pareggio o addirittura in attivo. In quarto luogo se si pone in Costituzione un limite di spesa invalicabile non si può fare fronte alle spese derivanti dall’assolvimento dei bisogni e dei diritti dei cittadini, a cominciare da quelli previsti nella prima parte della Costituzione e non si può garantire la ricerca della piena occupazione, il che è contradditorio con il primo articolo che dice che la nostra Repubblica è fondata sul lavoro. Tutti gli studi più seri, a cominciare da quelli dello stesso Fondo Monetario Internazionale, hanno rivelato che il moltiplicatore in termini di sviluppo economico dell’aumento della spesa sociale è ben superiore a quello della diminuzione delle tasse. Sulla base di questi principi è stata organizzata la raccolta delle firme per una proposta di legge di revisione costituzionale, attivato

il sito www.colpareggiociperdi.it e si sta procedendo alla costituzione di comitati locali in tutte le regioni. Nel testo della proposta di legge popolare si ribadisce, anche sull’esempio delle migliori costituzioni vigenti, comprese quelle più recenti di paesi latinoamericani, che prima vengono i diritti delle persone, che sono di rango costituzionale, poi la contabilità dello Stato. Prima le persone, quindi.

arcireport n. 37 | 13 novembre 2014 In redazione Andreina Albano Maria Ortensia Ferrara Carlo Testini Direttore responsabile Emanuele Patti Direttore editoriale Francesca Chiavacci Progetto grafico Avenida Impaginazione e grafica Claudia Ranzani Impaginazione newsletter online Martina Castagnini Editore Associazione Arci Redazione | Roma, via dei Monti di Pietralata n.16 Registrazione | Tribunale di Roma n. 13/2005 del 24 gennaio 2005 Chiuso in redazione alle 18 Arcireport è rilasciato nei termini della licenza Creative Commons Attribuzione | Non commerciale | Condividi allo stesso modo 2.5 Italia

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