arcireport
settimanale a cura dell’Arci | anno XIII | n. 40 | 19 novembre 2015 | www.arci.it | report@arci.it
Usare gli strumenti del dialogo e della conoscenza contro l’odio e il razzismo di Francesca Chiavacci presidente nazionale Arci
Gli attentati di Parigi suscitano dolore, sgomento, indignazione, dimostrazioni di solidarietà, interrogativi. Queste emozioni rischiano addirittura di risultare ipocrite se si pensa che a scatenarle sia stato necessario un colpo al cuore dell’Europa e non quanto è accaduto, per esempio, poche ore prima di Parigi a Beirut, alcuni giorni addietro nello spazio aereo egiziano e da troppo tempo ai danni di civili innocenti vittime di attentati e bombardamenti. Ma soprattutto queste emozioni e domande partecipano alla storia di un grande fallimento. Il potere terroristico devastante (e attraente per molti, troppi) del Daesh, nella sua doppia dimensione sovrana in Medioriente ed extra territoriale nella ‘civile’ Europa, non è frutto del caso. Ha fallito la sciagurata politica ultrabellica nata dalla reazione all’attentato dell’11 settembre, che dopo quindici anni può vantare il merito di aver consentito la scarsa diffusione di democrazie e l’espansione del fondamentalismo religioso islamista. Ha fallito la strategia di lasciare al proprio destino la
questione israelo-palestinese. Hanno fallito le ambiguità e complicità, tanto dell’Occidente e della Turchia quanto dei governi corrotti del Golfo col jihadismo, le cui conseguenze sono state pagate pesantemente dalle forze democratiche anti-Assad, continuano a essere pagate da milioni di curdi, e via via nel resto del Medioriente e in Africa. Hanno fallito, o si sono rivelate del tutto insufficienti, le politiche di inclusione e di promozione dei diritti nelle democrazie europee, se accade che i figli della nuova Francia e dell’Europa, in nome di un brutale totalitarismo teocratico, odiano e uccidono i loro fratelli francesi e partono per andare a combattere con lo Stato islamico. Il terrorismo che arriva nel cuore dell’Europa è il risultato di un conflitto in cui il nodo fondamentale delle guerre dentro l’Islam tra sunniti e sciiti è stato usato come uno strumento per mantenere equilibri e fare affari. Si è preferito lasciare che l’Is potesse contare su ingenti risorse finanziarie. E come bene ha scritto Etienne Balibar: «In questa guerra nomade, indefinita,
polimorfa, asimmetrica, le popolazioni delle ‘due sponde’ del Mediterraneo diventano ostaggi». Non vogliamo rimanere ostaggi e dobbiamo lavorare perchè gli errori commessi non si ripetano. Per questo è il momento di riflettere, di dare una mano per una lucida analisi. Per farlo, è necessario ricordare, essere solidali, conoscere, mettere in luce pezzi di verità. E questo numero di Arcireport, dal carattere monografico, vuole, nel suo piccolo, partecipare a fare questo. Abbiamo chiesto a esponenti della società civile del Mediterraneo e del mondo, alle voci dissonanti in Italia, a chi negli anni ha studiato e approfondito le questioni del disarmo, a tanti nostri compagni di strada un contributo di analisi e di informazione che in questi giorni ci è sembrato di non ritrovare nei media, tranne rare eccezioni. Perché sapere come è stato possibile ritrovarsi a questo punto è la prima condizione per combattere i rischi di una pericolosissima tripla spirale. continua a pagina 2
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Quella che vedrebbe l’effetto incrociato della sospensione della chiusura delle frontiere e di modifiche alle libertà generato del razzismo, le equazioni rifugiato-jihadismo/musulmano=terrorista, quella di una decisa intensificazione dell’intervento militare in Iraq: non farebbe altro che sferrare altri colpi alle democrazie europee già piuttosto deboli per altri motivi, affondare qualsiasi prospettiva di pacificazione e sviluppo nelle società mediorientali, gettare benzina sul fuoco della propaganda Is. Sapere significa far conoscere che abbiamo bisogno di ripristinare l’effettività del diritto internazionale e dell’autorità delle Nazioni Unite. Sapere significa dare forza alle ragioni di ciò che questo terrorismo dall’ideologia terribile - che si fa scudo di una visione
distorta di un credo religioso - scuote alle fondamenta la cultura delle democrazie europee: la laicità che, nel momento in cui viene sfidata, non può e non deve smarrirsi ma mostrarsi uno dei fondamenti della libertà e dell’uguaglianza. Riuscire a far capire che la risposta militare non è né giusta nè efficace (e quello che è accaduto in questi anni lo sta a dimostrare), che gli strumenti del dialogo e della conoscenza sono fondamentali, far crescere il pensiero, diffondere cultura contro l’odio e il razzismo, rappresenta il compito principale dell’Arci, la più grande associazione culturale laica e di sinistra esistente in Italia. Troveremo nei prossimi mesi gli strumenti giusti per agire tutto questo in maniera capillare, nei territori, tra i
cittadini e al tempo stesso per far sentire la nostra voce di soggetto politicoculturale che , insieme ad altri, continua e continuerà a manifestare le proprie idee su tutto questo. Dovremo far capire le ragioni della pace, della democrazia, dell’inclusione e useremo tutte le nostre energie, coinvolgendo le basi associative e socie e soci, mettendo a disposizione i nostri spazi, organizzando momenti pubblici per la disseminazione di informazioni, nella consapevolezza che non sarà facile, che il 13 novembre è avvenuta una vera e propria ‘cesura’ culturale che appare in questi giorni sempre più pericolosa e negativa. Questa volta, più di altre volte, abbiamo bisogno di sapere e raccontare cosa, e come, è successo davvero.
A Parigi le autorità vietano le manifestazioni in occasione della COP21 Il comunicato della coalizione francese La Prefettura di Polizia di Parigi ha annunciato che, a causa dei tragici eventi avvenuti il 13 novembre, la Global Climate March prevista per il 29 novembre e la manifestazione del 12 dicembre non saranno autorizzate a tenersi a Parigi. «Ci rammarichiamo che non si siano trovate alternative per permettere che i nostri programmi di mobilitazione potessero andare avanti. Tuttavia, siamo più determinati che mai a far sentire la nostra voce per la giustizia climatica durante tutte e due le settimane - ha dichiarato Juliette Rousseau, coordinatrice della Coalizione Clima 21, la rete di organizzazioni di società civile che coordina la mobilitazione - ci rendiamo conto della gravità della situazione, ma ora più che mai, abbiamo bisogno di trovare idee creative per chiedere alle persone di unirsi alle azioni per il clima». E in effetti, nel fine settimana fra il 28 e 29 novembre, in occasione della COP21, milioni di persone in tutto il mondo marceranno per la giustizia climatica. Più di 2.173 eventi si terranno in più di 50 paesi, incluse 57 grandi manifestazioni in tutti i continenti e dozzine di marce in tutta la Francia.
Per quel che riguarda il 29 novembre e il 12 dicembre a Parigi, la Coalizione Francese è già al lavoro per trovare modi creativi per agire e assicura che il futuro accordo sul clima non sarà solo frutto dei negoziatori governativi ma dei popoli del mondo. Il Citizens Climate Summit, previsto per il 5 e 6 dicembre a Montreuil (Seine Saint-Denis) e l’Action Zone Climate (ZAC), previsto dal 7 all’11 dicembre a Parigi-Centquatre dovrebbero tenersi come programmato. Queste mobilitazione saranno due grandi opportunità
per dimostrare che la società civile è in lotta, propone soluzioni ai cambiamenti climatici ed è determinata a lottare contro la crisi climatica. «Il Paris Climate Summit non è fine a sè stesso. Come cittadini del mondo, continueremo a impegnarci per costruire un movimento che dopo questo summit, e oltre, si rafforzerà per chiedere una necessaria riconversione energetica per affrontare la comune minaccia dei cambiamenti climatici» conclude il comunicato della Coalizione francese.
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La gabbia della comunità Intervista alla scrittrice libanese Hoda Barakat a cura di Guido Caldiron
Tra le più note e brillanti scrittrici libanesi, Hoda Barakat vive da oltre trent’anni a Parigi, nella zona di Place de la République, epicentro dell’attacco terroristico che ha colpito la capitale francese. Profonda conoscitrice dell’opera di Marcel Proust e Robert Musil, ma anche dei poeti arabi del IX e del X secolo, indaga da sempre i simboli e la storia del paese mediorientale, restituendo della crisi di quella parte del mondo un’interpretazione che mette al primo posto la ricerca della libertà rispetto alle appartenenze comunitarie, religiose, di genere. Nata nel 1952 a Beirut da una famiglia cristiano maronita originaria del Monte Libano, trasferitasi in Francia dalla fine degli anni Ottanta, città dove è stata per oltre un decennio responsabile della redazione giornalistica di Radio Orient, una delle emittenti più ascoltate tra i francesi di origine araba, Barakat ha pubblicato cinque romanzi di grande fascino e potenza narrativa - di cui nel nostro paese sono stati tradotti Malati d’amore (Jouvence) e L’uomo che arava le acque (Ponte alle Grazie) - e la raccolta di articoli usciti sul giornale arabo aI Hayat, Lettere da una straniera (Ponte alle Grazie) sulla sua esperienza di esilio volontario. Il suo ultimo romanzo, Le Royaume de cette terre, uscito per Actes Sud nel 2012 è inedito nel nostro paese. Qual è stata la sua reazione alla notizia delle stragi a Parigi? Ho passato tutta la notte a telefonare ai miei figli per essere certa che stessero bene e fossero al sicuro. Non abito lontano dal Bataclan, per me quelli sono luoghi familiari. Non riesco davvero a dare un senso a ciò che è accaduto. Queste persone, questi assassini sono come automi usciti da un film dell’orrore di cui è difficile scorgere anche vere rivendicazioni per i loro atti. Temo che siamo entrati in una nuova era della storia umana, dominata dal terrore, ma che non siamo in grado di decifrarla appieno perché disponiamo di strumenti antiquati, superati dai fatti. Non comprendiamo il nichilismo dell’Isis e soprattutto non capiamo fino in fondo come questo appello al terrore e alla morte possa conquistare una parte delle nuove generazioni, fare proseliti in paesi che conoscono da tempo la guerra, ma anche in Europa, nei nostri quartieri. Non abbiamo a che fare con un’ideologia
che può essere sconfitta dando questa o quella risposta. Per il momento credo che l’unica cosa da fare sia cercare di affinare il nostro sguardo per capire davvero con che cosa ci stiamo misurando, certi solo del fatto che si tratta di una minaccia inedita. Dopo la strage a Charlie Hebdo lei ha scritto per le Monde un breve testo intitolato La vergogna e il rifiuto in cui spiegava come quegli assassini fossero figli della violenza integralista, ma anche delle promesse mancate della République. Quando le Monde mi ha chiesto di intervenire non ero ottimista, perché già intravedevo ciò che sarebbe seguito al quel primo momento di mobilitazione collettiva, come infatti è avvenuto. Passata la rabbia e la paura, si è infatti smesso subito di interrogarsi sui motivi che possono spingere giovani nati e cresciuti in Francia a identificarsi con un’ideologia suicida e di morte. Per molti versi sono degli ‘orfani della République’, una delle conseguenze più terribili e drammatiche del fatto che la Francia democratica non ha mai assunto fino in fondo il proprio passato coloniale e imperiale. Al centro del suo lavoro di scrittrice sembra esserci il desiderio di indagare il modo in cui i singoli possono sottrarsi all’abbraccio fatale della comunità. Si sarebbe portati a pensare che si tratti di una sorta di fuga dalle appartenenze, è così? Per molti versi credo proprio di sì. I miei personaggi tentano in tutti i modi di sottrarsi alle costrizioni e alle leggi non scritte che regolano l’appartenenza ad una determinata comunità, gruppo o fede religiosa e alla violenza cieca che rappresenta spesso il terribile corollario a questa appartenenza. Questo tentativo avviene attraverso forme diverse in ciascuno dei miei romanzi, ma si tratta di un tema che attraversa tutto il mio impegno letterario. In qualche modo è come se avessi sempre voluto prendere in esame le forme, anche le più estreme, che gli esseri umani possono dare alla
ricerca della libertà che è poi anche una fuga dal male, dalla corruzione, dall’odio. Il conflitto tra comunità è alla base della lunga tragedia libanese che, come mostra il terribile attentato avvenuto giovedì a Beirut, non si è mai conclusa del tutto. La realtà del Libano non cessa di essere analizzata nei suoi romanzi, fino a Le Royaume de cette terre, che evoca la genesi dello scontro tra gruppi confessionali che porterà alla guerra civile. Ha individuato le cause di tutto ciò? In questo romanzo ho cercato di comprendere come si sono sviluppati quei fenomeni che riguardano sì la società libanese ma più in generale la vita di tutte le minoranze culturali e religiose presenti nel Medioriente. Si potrebbe infatti dire lo stesso dell’Iraq o della Siria. Non si può infatti non interrogarsi sulle derive che hanno caratterizzato questi paesi in cui lo stato e le istituzioni, malgrado siano spesso sorte dai movimenti di liberazione nazionale degli anni Cinquanta, non sono state in grado di costituire società coese, in grado di tenere insieme le proprie differenze senza andare in pezzi o affogare nella violenza. Ho scelto una famiglia di un villaggio della montagna perché è la realtà che conosco meglio, per tentare di capire cosa è andato storto non soltanto in Libano, ma anche nel resto del mondo arabo. Il risultato è che se si sostituisce alla famiglia maronita di cui parlo una qualunque famiglia di qualunque altra comunità del Medioriente rintraccerete le stesse dinamiche che conducono questo mondo verso l’implosione. continua a pagina 3
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E ciò è avvenuto perché queste comunità non hanno mai trovato un tessuto unificante che le facesse sentire parte di qualcosa di più complesso. Malgrado abbia scelto di vivere a Parigi fin dal 1989, lei ha spesso spiegato di non sentirsi un’esiliata, perché? Credo che per me la condizione dell’esilio sia qualcosa di profondamente interiore che ha poco a che fare con la geografia. Non sono neppure sicura che il termine abbia una connotazione del tutto negativa, legata alla nostalgia, alla tristezza, alla perdita di ciò che amavamo da bambini. L’esilio può essere anche un luogo di libertà. Ad
esempio credo di aver potuto continuare a scrivere del Libano proprio perché me ne sono andata, se fossi rimasta il mio sguardo sarebbe stato meno critico, meno radicale, più conciliante verso un modo di vivere assurdo. Perciò posso dire che in realtà è in Libano, negli anni della guerra civile, combattuta tra il 1975 e il 1990, quando era diventato difficile e pericoloso comunicare con chiunque che ho conosciuto una vera forma di esilio. Per i cristiani non ero più una buona cristiana; per i musulmani appena dicevo una cosa che non gli piaceva, ero «la cristiana». Allo stesso modo, per gli ambienti della sinistra a cui appartenevo, bastava che parlassi in modo critico di qualche
weareparis azione violenta compiuta dai militanti palestinesi che vivevano in Libano perché mi si considerasse di destra, visto che ero una maronita della montagna. Questo senza contare che all’epoca per ottenere del pane o una bombola di gas bisognava appartenere ad una comunità, se no non ne avevi diritto. E quando ti imbattevi in un posto di blocco dovevi essere certa di mostrare la carta d’identità giusta, visto che un errore poteva costarti la vita. Quando ho avuto troppa paura per me e i miei figli, ho capito che era venuto il momento di partire. (per gentile concessione de il manifesto)
L’Isis non si batte con la guerra, ma rafforzando i valori della democrazia e della laicità di Giuliana Sgrena giornalista
I paradossi della guerra: l’Europa che finora si è sempre mossa in ordine sparso trova improvvisamente l’unanimità nell’appoggio militare - anche se in forme diverse - alla Francia che ha dichiarato ufficialmente guerra all’Isis, dopo i tremendi attentati del 13 novembre. Il G20 che ha discusso degli attentati di Parigi e di come far fronte all’Isis si è svolto in Turchia, il paese che ha fornito il maggiore sostegno ai terroristi dello stato islamico. Dalla Turchia sono passati i finanziamenti, le armi e i combattenti diretti in Siria e i giornalisti che lo hanno denunciato, con tanto di prove, sono finiti in carcere. Anche la Turchia alla fine si è schierata con il fronte anti-Isis, ma per fare la sua guerra contro i curdi. Anzi al vertice dei 20 Erdogan aveva proposto la creazione di una ‘fascia di sicurezza’ in Siria (non accettata), ovvero di occupare militarmente il nord della Siria distruggendo l’esperienza del Rojava, unico modello democratico della regione, annientando gli unici combattenti del Ypg-Ypj che sono in grado di contrapporsi al fanatismo religioso dell’Isis. La dichiarazione di guerra non rafforza l’Europa, anzi la indebolisce: lo si è già visto in Germania e Belgio con la sospensione delle partite di calcio. Soprattutto non è militarmente che si potrà distruggere l’Isis, come non si sono distrutti i taleban: dopo quattordici anni di guerra i seguaci di mullah Omar sono più forti di prima. E i taleban erano cosa diversa da quell’armata di fanatici di stampo
fascista dell’Isis, che ora è arrivata anche in Afghanistan. Il terrorismo globalizzato usa l’arma della destabilizzazione a livello globale. Non basta, non serve bombardare la Siria o l’Iraq per non essere colpiti a Parigi o Roma, anzi proprio nel momento in cui si avvertono difficoltà nel Califfato possono entrare in azione le cellule sparse ovunque. L’ideologia che sostiene l’Isis - l’estremizzazione massima dell’islam globale - trova seguaci in tutto l’occidente e non solo e non tanto tra i musulmani di seconda/terza generazione, ma anche tra gli europei e gli americani di classe media. Per sconfiggere l’Isis occorre innanzitutto combatterlo ideologicamente ed è importante il supporto della comunità musulmana, doppiamente vittima degli attentati che quasi inevitabilmente alimenteranno l’islamofobia, ma che
meglio conosce le dinamiche all’interno dell’estremismo islamico. E poi togliere i mezzi che alimentano la guerra: bloccare l’esportazione di armi e boicottare l’acquisto del petrolio estratto nelle zone controllate dall’Isis, i sui proventi servono per gli armamenti. Naturalmente monitorare i siti gestiti dall’Isis sia per la propaganda che per la raccolta fondi dovrebbe essere il primo impegno di chi indaga su come si muovono i terroristi. L’uso spregiudicato delle nuove tecnologie è stato sicuramente uno dei punti di forza dell’Isis per fare proselitismo. Infine, ma è l’aspetto più importante, rafforzare i valori della democrazia e della laicità, perché i terroristi sono riusciti a trovare spazio tra quei giovani che sentono la mancanza di valori forti come quelli della rivoluzione francese: liberté, egalité, fraternité.
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Le comunità islamiche contro l’orrore Intervista a Izzedin Elzir, presidente Ucoii: «Abbraccio il popolo francese» a cura di Umberto De Giovannangeli
«Vorrei anzitutto dare un abbraccio a tutto il popolo francese, e allo stesso tempo, esprimere la più ferma condanna, senza se e senza ma, degli atti vili di terrorismo compiuti a Parigi, che sono contro non solo il popolo francese ma tutta l’umanità». A parlare è Izzedin Elzir, presidente dell’Unione delle Comunità Islamiche in Italia (UCOII) ed imam di Firenze. Il mondo è inorridito e sotto shock di fronte ai sanguinosi attentati di Parigi. C’è chi ha messo sotto accusa il mondo musulmano e le sue comunità in Europa, sostenendo che fate poco o nulla per contrastare gli estremisti. Mi spiace che qualcuno pensi in questi termini non sapendo, o facendo finta di non sapere, cosa fanno i musulmani e, in particolare, le comunità musulmane in Europa. Per emarginare il pensiero estremista e quanti lo professano, noi mettiamo a repentaglio la nostra stessa vita, perché per questi violenti noi siamo considerati dei traditori. Un po’ di rispetto verso i musulmani: è ciò che chiediamo, e che le vittime innocenti di Parigi non vengano usate per calcoli
politici di quanti si sono trasformati in imprenditori di paure. Ma in concreto, in che modo cercate di emarginare questi estremisti? Anzitutto, le comunità islamiche sono parte integrante della società italiana ed europea. E quando qualcuno di queste comunità uccide una vita, vuol dire un fallimento di tutti quanti noi. Perché tutti quanti noi ci sentiamo responsabili per ciò che è successo. Cerchiamo di fare il nostro dovere: emarginare, dialogare, confrontarsi, ma è importante che tutti, per quel che compete loro, la magistratura, le forze della polizia, la politica, si assumano le proprie responsabilità. E questo vale anche per la società civile. Sono convinto che se si riuscisse a stabilire un coordinamento tra tutte queste realtà, avremmo meno fallimenti. Quanto a noi, voglio essere estremamente chiaro: chi uccide una persona, secondo l’Islam, è come se avesse ucciso l’umanità intera. In precedenza ho invocato una assunzione di responsabilità da parte di tutti, ma ci tengo a ribadire che questo non significa nel modo più assoluto venir meno alla più
ferma condanna degli attentati compiuti a Parigi. Attentati compiuti in nome di Allah. Questa è un’altra bestemmia. Perché viene usato il nome del Creatore per uccidere le persone. Invece ‘Allahu Akbar’ (Dio è grande) è una bellissima parola che si usa per entrare nelle preghiere, per avere la comunione e il dialogo con il Clemente, il Misericordioso. Per trovare l’armonia e la pace. Ma oggi le religioni, invece di unire, vengono utilizzate sovente per creare divisioni, per giustificare crimini, per lanciare la Jihad globale. Questo vale per una ristretta minoranza. Se non fosse davvero così, se la maggioranza dei musulmani fossero dei pericolosi estremisti, troveremmo violenza e terrorismo in ogni città. Invece non è così. Le religioni sono un prezioso strumento di convivenza e dialogo. Lo scontro è politico, la posta in gioco è il potere, anche se c’è chi usa le fedi religiose come copertura. (per gentile concessione de L’Unità )
Il Movimento Nonviolento: eccola qui la guerra. Ora, nonviolenza o barbarie! Ed eccola qui, la guerra. È arrivata anche alla porta accanto. Con il suo orrore, il terrore, il sangue, i corpi morti. Quando la vedi con i tuoi occhi capisci davvero perché è «il più grande crimine contro l’umanità». È un’unica guerra che si mimetizza in varie forme, che si ciba dello stesso odio e defeca la stessa violenza. È sempre la stessa cosa, compiuta da eserciti addestrati, ben armati, finanziati, le cui vittime sono soprattutto i civili innocenti. Ormai è una matassa ingarbugliata. Il bandolo non lo si trova più. Non serve sapere chi ha iniziato per primo, le ragioni sono scomparse e rimangono solo i torti. È una spirale perversa che si autoalimenta: guerra - terrorismo - violenza - odio vendetta - terrorismo - guerra... A Parigi abbiamo assistito in diretta ad un’operazione militare: un gruppo di soldati in armi che ha agito come un plotone di esecuzione, attaccando civili inermi, sequestrandoli, decimandoli, come facevano i nazisti nella Francia del
1940, violando ogni convenzione internazionale, fuori da ogni regola... d’altronde la guerra non ha regole, se non quella di eliminare fisicamente il nemico. Ed è proprio questo che i mercenari dell’odio vogliono: che ognuno di noi si senta nemico all’altro, per innalzare il livello dello scontro, dove alla fine rimarrà solo chi è più spietato, chi spara l’ultimo colpo. Già troppe volte abbiamo detto «mai più!». Dopo la guerra del Golfo, dopo le Torri Gemelle, dopo l’attacco in Iraq, dopo gli attentati di Londra e di Madrid, dopo la strage di Charlie Hebdo, dopo quella del Bardo, dopo i bombardamenti su Libia e Siria, dopo il raid sull’ospedale di Kunduz in Afganistan, dopo il massacro all’Università di Garissa in Kenya, dopo le bombe sul corteo pacifista di Ankara … ed oggi dopo gli attentati suicidi di Beirut e di Parigi. Piangere i morti ed esprimere solidarietà è importante, ma non basta se poi tutto continua come prima. Dobbiamo reagire. Non farci piegare dal
dolore e dalla paura. Non accettare lo stato delle cose. Reagire. Reagire per spezzare la spirale, ed aprire una strada nuova. La violenza ha fallito e se perpetuata peggiorerà ulteriormente una situazione già tragica. La via da seguire è quella della nonviolenza. Sul piano personale e su quello politico. La via del diritto, della cooperazione, del dialogo, delle alleanze con chi in ogni luogo cerca la pace, della riduzione drastica della produzione e del traffico di armi, dei Corpi civili di pace per affrontare i conflitti prima che diventino guerre, della polizia internazionale per fermare chi si pone fuori dal contesto legale dell’Onu. Il terrorismo e la guerra (che è una forma di terrorismo su vasta scala) si contrastano con strumenti altrettanto forti, ma con spinta contraria. Siamo anche noi dentro il conflitto, e lo dobbiamo affrontare con soluzioni opposte a quelle perseguite finora. L’alternativa oggi è secca: nonviolenza o barbarie!
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Loro seminano vento, noi raccogliamo tempesta di Messaoud Romdhani attivista dei diritti umani, Tunisia
«Dovremmo essere ben consapevoli che noi abbiamo, in gran parte, dato vita allo Stato Islamico e che siamo stati, da allora, intrappolati in un circolo vizioso» (Dominique de Villepin, ex-primo ministro francese, settembre 2014). «Tutti gli esseri umani sono uguali ma …..» «Un attacco odioso e deprecabile», è stato giustamente descritto. Tutti hanno espresso simpatia quando la Francia capitale dei Lumi, della cultura e della civilizzazione è stata colpita da numerosi barbari attacchi terroristi, che hanno ucciso 129 persone innocenti e fatto 350 feriti. Un pesante costo umano. L’atto è stato condannato dai leader politici, dalle organizzazioni dei diritti umani e da importanti gruppi della società civile. I cittadini normali sono attoniti e infuriati. Barack Obama lo ha considerato non solo «un attacco al popolo francese ma a tutta l’umanità e ai valori universali». È tutto molto vero. Ma non è tutta la verità. Prima di Parigi, migliaia di persone innocenti sono state colpite dal terrorismo in Nigeria, in Iraq, in Afghanistan, Yemen, Libia. Ma ci sono state reazioni tiepide. O non ci sono state affatto. L’ultimo caso è stato in Libano. Solo un giorno prima di Parigi, due terroristi dell’ISIS si sono fatti esplodere nel sobborgo di Shia, vicino a Beirut. Il pesante bilancio è stato di 44 morti e circa 200 feriti. Qui, non si sono notate grandi reazioni. Non è stato «un attacco alla umanità»? Per usare una parafrasi, usando George Orwell nella sua fattoria degli animali, possiamo dire che «tutti gli esseri umani sono uguali, ma ce ne sono di più uguali degli altri». La domanda vera è: chi trae profitto da questa reazione da ‘due pesi e due misure’? I gruppi estremisti, che vogliono dimostrare che i valori occidentali non sono altro che ‘ipocrisia’, come ha detto Dhawarhi nel suo video. Perchè, che piaccia o no, questa gente non sono solo fanatici con la passione di uccidere, sono capaci di costruire discorsi coerenti, sviluppare argomenti solidi e di comunicare. Islamisti verso migranti musulmani Ogni volta che c’è un attacco terrorista
in Europa, un dito accusatore si punta verso le comunità musulmane. Per questo esse si sentono coinvolte o ancora peggio ‘colpevoli fino a prova contraria’, e sono i primi a denunciare questi atti come se rigettassero una accusa. E di nuovo, qui i terroristi accumulano punti: «i paesi laici occidentali non hanno posto per i musulmani», dicono. Un argomento che condividono con la crescente estrema destra in Europa. Lentamente, ci avviciniamo sempre più ai denti della trappola estremista. Per questo dobbiamo essere molto attenti: far vivere una comunità nella paura e nel sospetto può portare a serie conseguenze. Oltre alla marginalizzazione, si possono produrre sentimenti di rivolta e di vendetta. E non mancano esempi. La guerra al terrore: il metodo Bush
La Ligue de l’Enseignement risponde al messaggio di solidarietà della presidente Arci Grazie, Francesca, per le vostre parole di solidarietà. La violenza cieca che ha colpito tanti cittadini deve essere combattuta con molta lucidità e coraggio Continuiamo a pensare come voi che la libertà vincerà solo con lo sviluppo democratico, culturale, e con il rispetto delle diverse opinioni e pensieri. Resistere per fare società, condividere le nostre esperienze per essere insieme più forti! Grazie a tutti i compagni di Arci e a presto.
Se il terrorismo è un flagello che deve essere affrontato per proteggere la civilizzazione, i diritti umani e le persone innocenti, la domanda più importante è: come? Quando i terroristi attaccano Parigi, Londra, Madrid o Tunisi, essi hanno uno scopo in mente: portare i paesi in guerra, una guerra con un nemico invisibile e sfuggente. Una guerra che essi pensano smantellerà, nei tempi lunghi, i principi di democrazia e di coesistenza. Una guerra dove ci siano, come ha detto Bin Laden, «due campi nel mondo, quello dell’Islam e quello dei non credenti». Gli statunitensi caddero nella trappola. Dichiararono la guerra al terrore ovunque nel mondo. Ricordiamo la risposta di Bush. Divise il mondo in due campi «quelli che sono con noi e quelli che stanno con il terrorismo». Lo stesso falso specchio. Il risultato? Decenni di guerra assurda, che ha generato più estremismo e più terrore. Lo Stato Islamico non sarebbe esistito se non ci fosse stata l’invasione dell’Iraq, presentata come «eliminare un dittatore e costruire una democrazia pionieristica nel mondo arabo», così come i Talebani non si sarebbero sviluppati senza l’invasione dell’Afghanistan. Se i governi occidentali non trarranno lezioni da questi esempi, i terroristi riusciranno in quello che hanno pianificato. Ma Daesh non è solo il prodotto di sbagliate e donchisciottesche guerre al terrorismo. Le ingiustizie producono umiliazione. E l’umiliazione è terreno fertile per l’estremismo: da decenni di colonialismo, di tacita e aperta protezione dei dittatori, di sostegno incondizionato ad Israele, i terroristi non mancano di trarre ‘convincente retorica’. E allora il punto è: fino a quando il diritto internazionale non sarà applicato in ogni paese nella stessa identica maniera, fino a quando l’ingiustizia rimarrà piantata in Medio Oriente, nè misure di sicurezza nè armi sofisticate saranno abbastanza per fermare il terrorismo. È come una sabbia mobile: se non capiamo come evitarla, finirà per risucchiare tutti i nostri valori umani. A buon intenditor…
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Vigilare sulla tutela dei diritti civili ed il rispetto dei diritti umani per tutti di Francesco Martone Un Ponte per...
La strage di Parigi impone uno scenario che ci chiama, in quanto pacifisti, ad un grande sforzo di collaborazione e proposta collettiva, ed uno sguardo alle dinamiche politiche e geopolitiche può aiutare a definire le direttrici per un rilancio delle iniziative contro la guerra ed il terrorismo di DAESH (o ISIS). Poche ore prima delle stragi di Parigi, a Vienna nell’incontro sulla Siria tra il segretario di stato Kerry ed il suo omologo russo Lavrov si è concordata una possibile uscita di scena di Assad – l’elemento che impediva fino ad allora un cambio di passo – assieme all’opera di mediazione dell’ ONU verso i soggetti e le fazioni in lotta tra di loro, ed un lavoro di ricognizione degli attori in conflitto per identificare possibili interlocutori e ‘nemici’ da ‘gestire’ con la forza. Presto per cantare vittoria vista la complessità delle ambizioni geopolitiche anche contraddittorie, tra Russia, Turchia, Iran, Arabia Saudita. Si è formata poi un’inedita alleanza militare tra Russia e Francia in una situazione di balcanizzazione dei conflitti tra varie fazioni islamiste, foraggiate più o meno da interessi esterni, la resistenza anti-DAESH e legittime rivendicazioni di autonomia democratica da parte dei Kurdi del Rojava osteggiata dalla Turchia che vorrebbe ‘blindare’ il suo confine sud. Eppoi la svolta nelle relazioni tra Obama e Putin (già attivo militarmente a fianco di Assad ed ancor di più dopo il tremendo attentato all’aereo di linea in Sinai) al minimo storico a causa della crisi ucraina. La strage di Parigi porta ad un’accelerazione di scelte di tipo militare che rischiano di incrinare sul campo il già labile equilibrio raggiunto a Vienna. E poco si è sentito sull’urgenza di impegnarsi di più per ricucire le lacerazioni tra mondo sunnita e sciita in Irak, altro brodo di coltura per DAESH. Il G20 di Antalya tenutosi pochi giorni dopo i fatti di Parigi ha prodotto accanto al tradizionale comunicato su scenari economico-finanziari, la collaborazione nel settore bancario,
e la gestione dei flussi migratori, un comunicato contro il terrorismo. Su questo sfondo nostro compito potrebbe essere quello di elaborare e condividere proposte di gestione ‘altra’ del conflitto attraverso strumenti di diplomazia dal basso, creando ponti con le vittime prime del conflitto, escluse dai giochi della politica e della geopolitica, quelle popolazioni civili e le reti sociali che in Siria o Irak lavorano per la pace. La questione migranti è un altro fronte che implica il monitoraggio delle politiche di gestione delle frontiere - intenzione di Hollande è di chiedere che le frontiere europee di fatto vengano sigillate - e prevenire, attraverso la costruzione di relazioni e ponti con il mondo di religione musulmana e le seconde generazioni, una possibile deriva xenofoba ed antimusulmana. E l’Italia nel quadro possibile di operazioni militari? Ad oggi, la cautela di Renzi fa il pari con la decisione di prolungare la missione in Afghanistan e rafforzare la presenza di addestratori per i peshmerga irakeni. L’Europa potrebbe rappresentare una svolta non proprio in senso positivo. Il Presidente Hollande ha infatti chiesto ed ottenuto l’applicazione di una clausola di comune difesa che impegna gli stati membri a fornire collaborazione di vario tipo su base bilaterale. Già si parla di
un possibile avvicendamento di contingenti tedeschi a sostituire quelli francesi che attualmente combattono in Mali. Il Presidente del Consiglio non nasconde le sue intenzioni di giocare un ruolo di primo piano nella crisi libica – tuttora irrisolta, vista l’esito della mediazione ONU - anch’essa in parte inquadrabile nella lotta al DAESH. La UE prenderà anche decisioni riguardo la tracciabilità dei conti bancari, ed il controllo su circolazione di armi nell’Unione, ma non basta. Dovremo chiedere un embargo sulla vendita di armi ai paesi della regione, ed aggredire le fonti di finanziamento derivanti dai profitti del contrabbando di petrolio in Turchia e paesi limitrofi. Paesi che dovrebbero invece essere centrali per un negoziato a tutto campo che veda anche partecipi Unione Europea, Francia Inghilterra, Russia, Cina e Stati Uniti. Dovremo poi vigilare sullo stato di diritto e sulle torsioni che lo stesso rischia a seguito delle misure contro il terrorismo che di fatto introducono uno stato di ‘eccezione’. Ciò riguarda non solo il discorso di Hollande subito dopo gli attentati nei quali invoca una riforma della Costituzione per permettere l’estensione dello stato di emergenza e poteri speciali ma anche - a casa nostra - le ricadute possibili di scelte quali quella di dotare le forze speciali di poteri simili a quelli dei 007 quindi agire in operazioni undercover che riportano alla memoria le rendition del post-11 settembre. Vigilare quindi sulla tutela dei diritti civili ed il rispetto dei diritti umani per tutti. Insomma uno scenario nel quale le sfide sono plurali, ma che potrebbe fornire l’occasione per un lavoro di mobilitazione dal ‘basso’, e di creazione di reti e condivisione tra realtà e soggetti non tradizionalmente legati all’arcipelago ‘pacifista’ propriamente detto. Per permetterlo sarà necessario un grande sforzo di fantasia e condivisione, di costruzione di strumenti di lavoro collettivi, di messa in comune di conoscenze e competenze, e di pratiche di ‘autogestione’ decentrata delle mobilitazioni.
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Appello per una mobilitazione nazionale e un piano d’azione delle organizzazioni sociali contro il terrorismo e la guerra Il 17 novembre, in un’affollata assemblea che si è tenuta a Roma, è stato discusso e approvato l’appello che riportiamo di seguito. Esprimiamo profonda solidarietà alle vittime e ai familiari dell’attacco terroristico di Parigi. Ci stringiamo a tutta la popolazione francese per il dolore e il lutto che hanno subito, ma non scordiamo l’angoscia in cui sono quotidianamente immersi popoli come quello siriano, iracheno o nigeriano. Condanniamo nel modo più netto e deciso la follia distruttiva della violenza e del terrore che attraversa il Mediterraneo, l’Europa, il Medio Oriente e l’Africa. La guerra è dentro le nostre società. È dentro il nostro quotidiano. È dentro il nostro modello di sviluppo. La nostra società si arricchisce con la produzione di armi che servono per fare le guerre che poi condanniamo e che vorremmo reprimere con nuove armi e nuove guerre. Una spirale che va fermata e sostituita con una diversa idea di società e di convivenza universale, fondata sugli stessi valori che oggi sono stati brutalmente attaccati in Francia: libertà, uguaglianza, fratellanza. Proviamo rabbia e delusione per il fallimento delle istituzioni, nazionali e internazionali, cui tutti noi abbiamo delegato la sicurezza, il rispetto dei diritti umani, che non hanno fatto leva su diplomazia e cooperazione per prevenire e gestire i conflitti. Non vogliamo nuove spedizioni ed avventure militari. Vogliamo costruire la pace e fermare la spirale di violenza e di follia umana con il diritto, le libertà, il dialogo, la solidarietà, la cooperazione, la giustizia sociale, il lavoro dignitoso, il rispetto dell’ambiente, la costruzione di una difesa comune europea, a partire dalla difesa civile non armata e nonviolenta con l’istituzione dei Corpi Civili Europei di Pace. Non è più tempo di ipocrisie, di tolleranza e favoritismi politici, di deroghe ai principi fondanti della nostra società, di premiare gli interessi propri sottomettendo gli interessi universali, di giustificare le occupazioni, i regimi autoritari per non disturbare i mercati o il prezzo del petrolio. Basta produrre e vendere armi per fare
zioni sociali a organizzare a partire da domani iniziative, momenti di riflessione, assemblee nelle città, nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nei circoli, nelle sedi sindacali, nelle parrocchie per definire dal basso e a partire dai territori un piano di azione nazionale contro il terrorismo, le guerre e il razzismo.
le guerre. Basta dire che non esiste alternativa alla guerra. Il razzismo e i predicatori d’odio vanno fermati per impedire che la paura e la violenza dilaghino e che in nome della sicurezza siano demolite progressivamente le nostre libertà e le conquiste democratiche. Va contrastata concretamente la deriva politico culturale che spinge l’Europa verso un ritorno al passato, dove erigere muri e indicare lo straniero, il migrante, il rifugiato, come nemico serve per raccogliere consensi elettorali e distrarre l’opinione pubblica dai problemi interni. L’islamofobia rischia di diventare un sentimento diffuso e di alzare dentro le nostre società muri invalicabili, producendo discriminazioni e divisioni. Spingendo una parte della popolazione, soprattutto le giovani generazioni, a ricercare identità e appartenenza tracciando confini invalicabili tra differenze religiose e culturali concepite come inconciliabili tra loro. Bisogna fare presto per fermare questa follia umana, con gli strumenti che già abbiamo a disposizione: le armi del diritto e della democrazia. Per evitare che l’Europa, il pianeta intero e i suoi abitanti vengano travolti in una spirale distruttiva irreversibile, a partire dagli impegni che gli stati debbono assumere alla COP21 che si terrà proprio a Parigi, dal 30 novembre prossimo, vero banco di prova del cambiamento necessario ed indispensabile. Abbiamo bisogno di fare società, tessere relazioni sociali, ricostruire spazi collettivi di confronto e di scambio culturale. Questo è il nostro impegno per ricordare il sacrificio di chi ha perso la vita e i propri affetti a causa delle guerre che non ha voluto e della follia che non ha potuto fermare. Per questo invitiamo tutte le organizza-
Adesioni: Acli, Act, Action, Adif, Aifo, Alefba, Alisei Ong onlus, Amici del Guatemala onlus, Amici dei popoli Bologna, Ansps, Antigone, Aoi, Archivio Memorie Migranti, Arci, Asgi, Assemblea genitori e insegnanti delle scuole di Bologna, Associazione Altramente, Associazione Arcobaleno, Associazione ambientalista Ambiente e lavoro, Associazione D/Striscio, Associazione Il portico, Associazione La lucerna, Associazione per la pace, Associazione Radiocora, AssoRinnovabili, Auser, Camera del Lavoro Metropolitana di Firenze, Cemea del Mezzogiorno, Centro Astalli, Centro Interculturale a Roma, Cgil, Cild, Cinevan, Cipsi, Cittadinanza e Minoranze, Cnca, Cocis, Comitato Nuovi Desaparecidos, Comitato Pace Convivenza e Solidarietà ‘Danilo Dolci’, Cooperativa Il pungiglione, Cooperativa sociale Progetto Con-Tatto, Donne in nero contro la guerra di Alba, Fiom Cgil, Flai Cgil, Flc Cgil, Focsiv, Focus-Casa Dei Diritti Sociali, Fondazione Angelo Frammartino Onlus, Fp Cgil, Forum Ambientalista, Forum Sad, Forum Terzo Settore, Green Cross Italia, Grt Italia, Habeisha, Lasciatecientrare, Legambiente, Libera, Liberacittadinanza, Link, Lip Scuola, Lunaria, Movimento di Cooperazione Educativa, Movimento Federalista Europeo, Movimento Nonviolento, Netleft, Nidil Cgil, Parma per gli altri, Peoplefree, Redazione del Post Viola, Rete Antirazzista Fiorentina, Rete della Conoscenza, Rete degli Studenti Medi, Rete della Pace, Rete G2 Seconde Generazioni, Rete Primo Marzo, Rete Roma senza frontiere, Rete Scuole senza permesso, Sei/Ugl, Sos Razzismo Italia, Spi Cgil, Tavola della Pace, Transform! Italia, Uds, Udu, Ulaia Artesud onlus di Roma, Un Ponte Per, Wilpf Italia Aderiscono inoltre: Altra Europa con Tsipras, Altra Trento a sinistra, PCdL, Rifondazione comunista, Sel, Sinistra Italiana
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Il cuore pulsante del Califfato è in Iraq e Siria, dove «governa» di Emanuele Giordana giornalista, Lettera22
La nascita ufficiale del Califfato lanciata da Al Bagdadi è del giugno 2014 ma un anno prima, nel giugno del 2013, già circolava su internet una mappa delle ambizioni territoriali di Daesh (lo Stato islamico). Non è chiaro chi l’abbia compilata e, secondo alcuni studiosi, si tratta dell’opera di qualche simpatizzante, oltretutto a digiuno di Storia visto che vi includeva il Nord della Spagna, la Slovacchia o l’Austria (mai state sotto dominazione islamica) e vi escludeva ad esempio la Sicilia. La mappa riproduce però a grandi linee le ambizioni espansive di un ‘impero’ islamico che dall’Occidente europeo si spinge sino al Khorasan (geograficamente l’altipiano iranico e zone limitrofe) e che nell’ipotesi di Daesh include anche il subcontinente indiano. Una mappa che invece esclude il meridione del Sudest asiatico dove Indonesia, Malaysia, Brunei e Sud della Thailandia contano oltre 250 milioni di musulmani. Ma al di là delle mappe e delle ambizioni, dov’è la forza
reale dell’auto proclamato Stato islamico? Il suo cuore pulsante sta, com’è noto, tra la Siria e l’Iraq dove oltre a combattere Daesh ha anche un vero e proprio controllo territoriale. Nel resto del mondo si va da piccole zone a macchia di leopardo a cellule più o meno attive e mobili. In questo momento, la minaccia più reale si potrebbe collocare a cavallo di Pakistan e Afghanistan, dove Daesh guadagna terreno anche grazie ai reclutamenti tra movimenti islamisti attivi nel Nord del Caucaso o nelle repubbliche centroasiatiche ex sovietiche che, quando non hanno cellule attive nei propri Paesi, forniscono combattenti. A Ovest di Raqqa (Siria) - la capitale ufficiale per il momento - il califfato proietta la sua ombra su una vasta area che comprende l’Egitto, dove Daesh può contare soprattutto sulla regione del Sinai (Ansar Bayt al-Maqdis e Jund al Khilafah Kinana), il Nord della Libia (Ansar al Sharia), l’Algeria (Jund al Khilafah). Più a Sud la mira è su una vasta area africana
Il comunicato del Forum Civico Europeo Venerdì scorso - dopo Beirut, Ankara, l’aereo russo che volava sopra il Sinai - la città dove il Forum Civico Europeo ha la sua sede è stata colpita da una azione terroristica. Da allora, in Francia come in tutta Europa, tante persone continuano a ritrovarsi insieme per esprimere il loro cordoglio, la tristezza, la solidarietà. Da allora, molto è stato scritto e detto. In Francia, molte associazioni hanno preso posizioni pubbliche per riaffermare i valori in cui crediamo. Hanno ribadito l’urgenza di opporsi al terrore ribadendo la forza del vivere insieme in società aperte, plurali e solidali - società della convivenza. Esattamente la società che le pallottole hanno voluto colpire. Queste associazioni credono che la proposta di reagire alla guerra con la guerra può solo portare a un vicolo
cieco, alla fine della società basata sui valori in cui crediamo. Il collegamento fatto da alcuni leader europei fra il terrorismo a Parigi e l’accoglienza dei rifugiati in Europa che fuggono dalla guerra rischiando la morte nel Mar Mediterraneo è la concretizzazione della nostra più grande paura: un’offerta politica guidata dalle guerre fra religioni, da guerre civili, da guerre di tutti contro tutti. Il Forum Civico Europeo si impegna a continuare il lavoro con le associazioni che condividono i valori di uguaglianza, solidarietà, inclusione e democrazia in Europa per proporre un punto di vista condiviso ai cittadini che vivono nel nostro continente e non solo. Una proposta comune che tenga conto di elementi di riflessione nel dibattito pubblico e dia forza agli ideali che guidano la nostra azione.
che si estende dalla Somalia alla Nigeria dove Daesh può far leva soprattutto su Boko Haram (Wilayat Gharb Afriqiyah) vicino alle sue posizioni dal luglio 2014. Nella penisola arabica c’è invece Al Qaeda in the Arabian Peninsula che ha aderito a Daesh nell’agosto 2014. A Est del cuore del Califfato le cose si fanno più confuse: in Afghanistan si va dall’Hezb islami del vecchio signore della guerra Hekmatyar, la cui simpatia verso Daesh sembra in realtà solo un modo per distanziarsi dai Talebani di mullah Mansur, a varie formazioni minori che attraggono talebani insoddisfatti e che sono attive nell’area orientale del Paese a cavallo col Pakistan, dove parte dei talebani locali del Therek Taleban Pakistan appoggiano - ma al prezzo di forti divisioni interne - lo Stato islamico. Fan da corollario piccole nuove formazioni o vecchie organizzazioni settarie anti sciite molto ben viste da Desh. Infine c’è la galassia jihadista centroasiatica - attiva sia nei propri Paesi di origine sia in Afghanistan, Pakistan, Siria, Irak - tra cui l’organizzazione più nota è il Movimento islamico dell’Uzbekistan, alleato dal 2015. In India Daesh non fa molta strada se si esclude la cellula di Ansar-ut Tawhid fi Bilad al-Hind, attiva dal 2013 ma solo sul piano di propaganda e reclutamento mentre in Bangladesh (va menzionato il caso dell’uccisione dell’italiano Cesare Tavella) sono fuori legge almeno sei gruppi islamisti tra cui Jamaat-ul-Mujahideen Bangladesh o Ansarullah Bangla, di cui non sono chiari i collegamenti con Daesh: il Paese rimane comunque una possibile area di reclutamento. Più ci si sposta a Est e a Sud meno l’influenza di Al Bagdadi si fa sentire anche se Filippine e Indonesia sono due Paesi a rischio: nel primo l’area turbolenta di Mindanao è piena di gruppuscoli contrari a far pace col governo e dunque sensibili ai richiami di Daesh. Mentre nell’arcipelago indonesiano alcune centinaia di islamisti avrebbero ascoltato il richiamo jihadista per andare a combattere in Iraq e Siria. Il quadro è dunque in via di definizione ma il contagio è tutt’altro che contenuto: secondo il centro studi Jane’s, solo negli ultimi mesi di quest’anno gli attacchi di Daesh sono aumentati a dismisura: 1.086 tra luglio e settembre e cioè circa 12 al giorno contro gli 8 registrati tra aprile e giugno. 2.978 vittime con un salto di oltre l’80% rispetto a un anno prima.
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Logiche geopolitiche nel Vicino Oriente e l’espansione dello stato islamico a cura dell’Istituto Archivio Disarmo
Logiche mediatiche portano a considerare il fenomeno dell’Isis come di natura principalmente religiosa. Certamente questo aspetto è preponderante soprattutto tra i miliziani arruolati negli ultimi tempi. Ma una lettura puramente confessionale della crisi sirio-irachena non basta, sono troppe le contraddizioni che ne risultano. Per comprendere le cause e la natura delle tensioni nel Vicino Oriente non si può prescindere da un’analisi storica e geopolitica della zona. Innanzi tutto bisogna considerare che gli attuali confini tra i Paesi furono decisi da francesi e inglesi, all’indomani della caduta dell’Impero Ottomano, in chiave di contenimento nei confronti della Turchia. La Siria si ritrovò ad avere al suo interno, dislocate soprattutto al nord, una molteplicità di popoli di varie etnie e confessioni: minoranze fino ad allora non tenute in considerazione dall’Impero e che ora potevano tenere sotto controllo i principali alleati dei Turchi all’interno della Siria, i turcofoni. Nel contempo si faceva strada l’antico sogno di una Grande Siria, al quale si cominciò a credere prima con l’alleanza tra Siria ed Egitto e in seguito con la salita al potere di Hafiz al-Assad (a cui successe nel 2000 il figlio Bashar). I rapporti di forza interni alla Siria, tra sostenitori e nemici del regime di Damasco, non sono dunque spiegabili con motivazioni di carattere confessionale. Per comprendere le motivazioni che stanno alla base della complessità di alleanza e strategie messe in campo dai vari attori hanno più efficacia le analisi svolte sulla base di ragionamenti storici e politici, e ciò non vale solo per la Siria, ma anche per l’Iraq. Per comprendere il contesto in cui ha potuto nascere e svilupparsi l’Isis bisogna prendere come punto di riferimento il 2003, anno in cui è scoppiata la guerra che ha portato alla destituzione di Saddam. La gestione della fase post-guerra da parte degli Usa ha fatto crescere il malessere sociale, creando così il terreno fertile per l’espansione dello Stato Islamico. Il governo presieduto da Al-Maliki, sciita, appoggiato soprattutto da Usa e
Iran, ha preso una svolta autoritaria, basata sulle divisioni etnico-confessionali. Con l’andar del tempo è iniziato un percorso nel quale è emersa la volontà di al-Maliki di accentrare sempre maggior potere, fino ad essere accusato da varie parti di agire alla stregua di un dittatore. Anziché risolvere i problemi del paese, ha fatto ricorso alla violenza per sfruttare le risorse economiche e corrompere gruppi e personalità di rilievo. In questo modo, al-Maliki ha creato un terreno fertile nel quale sono cresciuti e si sono attivati i gruppi terroristici nella provincia di al-Anbar e nell’area di Mosul. Nel tempo i problemi che il governo centrale non ha voluto affrontare si sono aggravati. Tra questi la questione del petrolio, la possibilità di dare al governo curdo il diritto di esportare i suoi prodotti, i territori contesi e il rapporto con l’esercito del Kurdistan (i peshmerga). Sono queste le condizioni che ha trovato l’Isis quando ha attaccato la città di Mosul, caduta senza troppa resistenza Lo scontento creato dal governo ha quindi permesso all’Isis di acquisire un sempre maggiore appoggio dalla popolazione e di espandersi in un breve tempo. Inoltre lo Stato Islamico può far affidamento su cospicue risorse economiche, alimentate da vari canali: il petrolio, estratto dagli stabilimenti che si trovano dei territori conquistati; il finanziamento che giunge dai Paesi del Golfo (soprattutto Arabia Saudita e Qatar), ma anche dall’Asia sud-orientale; le raccolte fondi che avvengono tramite i social network. Inoltre l’Isis controlla risorse agricole e idriche. Le forze dello Stato Islamico presenti in Siria, tra l’altro, hanno potuto usufruire del finanziamento destinato da vari Paesi
alle forze ribelli che combattono contro il regime siriano. Ciò ha permesso alle forze jihadiste di crearsi un notevole arsenale, in un’area geografica da sempre centro strategico del commercio mondiale di armi. Sono poche e frammentarie le notizie riguardanti le armi dell’Isis. Sembrano essere principalmente tre i canali attraverso i quali le forze jihadiste riescono a rifornirsi di armi e munizioni. Innanzi tutto l’Isis ha potuto contare sul finanziamento della coalizione che appoggia i ribelli in lotta contro il regime di Assad in Siria (ossia Stati Uniti, Turchia, Arabia Saudita e Qatar), che ha fornito ai terroristi armi, veicoli, equipaggiamento e addestramento specializzato. Non è più un segreto che questi Paesi svolgono azioni di sostegno ai ribelli siriani, purtroppo non riuscendo sempre a discriminare tra moderati ed estremisti. Ad esempio gli Stati Uniti forniscono sia addestramento specializzato, sia armi e munizioni e seppure dichiarino di armare solo i ribelli ‘moderati’, gli Stati Uniti non possono sottovalutare la possibilità che le armi possano cadere nelle mani delle forze filo-Isis e quindi essere trasferite in Iraq, dove verranno utilizzate contro il governo di Baghdad, che è alleato di Washington. Un secondo canale riguarda l’appropriazione degli arsenali lasciati incustoditi in seguito alla conquista di un obiettivo. È successo con la conquista di Mosul, dove l’Isis ha potuto mettere le mani su vari arsenali appartenenti all’esercito iracheno, dotati soprattutto di armi di nuova fabbricazione fornite dagli Usa. Tali appropriazioni hanno avuto luogo anche in Siria, dove i ribelli hanno potuto far affidamento sui depositi di armi e munizioni soprattutto di origine sovietica e cinese, dato l’appoggio che questi Paesi forniscono da tempo alla Siria. Un ultimo esempio è dato anche dall’arsenale dell’ex raiss libico Gheddafi. I suoi depositi sono diventati una preoccupazione da quando l’Isis ha ampliato la portata dei suoi obiettivi, fuoriuscendo dai territori siriano ed iracheno. continua a pagina 11
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Infine, sono stati troppi gli ‘errori’ commessi dall’aviazione, soprattutto statunitense, nel rifornire le forze che hanno aderito alla coalizione anti-Isis: casse di armi paracadutate nei territori controllati dall’Isis e che erano indirizzate invece ai gruppi che vi si contrappongono. Sono diverse le voci in tal senso e che riportiamo in quanto presenti nella stampa internazionale. Ma perché gli Stati Uniti avrebbero interesse a sostenere un’organizzazione terroristica come l’Isis? Le motivazioni, secondo alcuni analisti, sarebbero principalmente tre. La prima sarebbe data dai profitti derivanti dal commercio di armi, sia con i jihadisti sia con le forze che li combattono.
La seconda riguarderebbe invece la strategia statunitense di balcanizzare la zona, alimentando forze come quelle jihadiste per rimuovere governi ostili, tipo quello di Assad in Siria, alleato di Iran e Russia. La terza, infine, sarebbe la volontà degli Stati Uniti di realizzare un disegno geopolitico venuto alla luce all’indomani dell’invasione dell’Iraq nel 2003, ossia il progetto della divisione del Paese in tre stati: uno curdo al nord, uno sunnita al centro ed uno sciita al sud, tutti sotto un grande, debole ombrello Iraq. Comunque, indipendentemente dalle accuse più o meno fondate, attualmente è disponibile una ricerca che offre informazioni più attendibili. I primi dati certi di cui possiamo disporre ci sono forniti da uno studio finanziato dall’Unione Europea e condotto dal Conflict Armament Research, un’or-
weareparis ganizzazione che si occupa del traffico di armi. La ricerca è stata condotta sui campioni di bossoli raccolti sui territori di guerra tra Siria e Iraq. Sono stati prodotti due report, uno riguardante le armi e uno le munizioni. Dalla ricerca risulta che la maggior parte delle cartucce sono di fabbricazione cinese, russa e statunitense, mentre il campione di munizioni recuperate in Iraq è soprattutto di fabbricazione statunitense. Il commercio legale e illegale di armi può quindi facilitare la formazione e l’espansione di gruppi terroristici, di cui l’Isis è solo l’esempio più eclatante. Ciò è possibile constatarlo anche in un altro luogo dove il traffico di armi è da sempre presente, ossia l’Africa, dove si sono formati nel tempo molteplici gruppi terroristici, come quello di origine nigeriana di Boko Haram.
Sostenere le iniziative civiche sul clima Per costruire un mondo di giustizia, sostenibilità e solidarietà. Un appello di personalità internazionali e organizzazioni francesi Le popolazione di Parigi e di Beirut hanno sofferto massacri rivoltanti. Esprimiamo la nostra tristezza, il sostegno a tutte le vittime, e siamo determinati a ergerci contro gli assassinii pianificati di civili innocenti. Che cosa vogliono i terroristi? Vogliono terrorizzarci e portarci a reagire in modo cieco e brutale, facendo cose che avrebbero il solo risultato di alimentare la spirale di violenza. ISIS ci ha colpiti nei luoghi dove viviamo e dove ci incontriamo, per creare paura, spirito di vendetta, violenza, e spingerci ad odiare. Vogliono che ci uniamo a loro nel loro gioco sanguinario, nella loro logica di guerra. Siamo tutti bersagli ma non abbiamo paura. Non soccomberemo all’ansia, così come non accettiamo la ‘terapia dello shock’ che consiste nell’approfittare di catastrofi umane, sociali e ambientali per dare il via a ogni forma di regressione, per restringere le nostre libertà fondamentali e generali e produrre ripiegamento. Vogliamo che la risposta a questi crimini sia più giustizia, più solidarietà e più determinazione per combattere qualsiasi cosa si frapponga alla costruzione condivisa della nostra società. Ci appelliamo alla nostra unità e al desiderio di vivere insieme. Pensia-
mo sia essenziale affrontare le cause profonde: ingiustizia, miseria, guerra, diseguaglianza, razzismo, intolleranza, violazione dei diritti umani, saccheggio ambientale e devastazione climatica. Sosteniamo le iniziative civiche che si terranno a Parigi durante la COP21: la Marcia del clima il 29 novembre, il Summit cittadino per il clima, il Villaggio globale delle alternative il 5 e 6 dicembre, e la protesta del 12 dicembre. Questi
eventi sono occasioni per invertire la tendenza attuale e vincere il fanatismo. Sono la prova che un altro mondo sta cominciando a vivere. Una dinamica la cui forza costituente - che emana dai cittadini di tutto il mondo - decide di agire per preservare i nostri beni comuni e costruire un mondo giusto, sostenibile, basato sulla solidarietà. Sosteniamo ciò che condividiamo e ciò che ci tiene insieme.
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La costruzione di un mondo di pace è responsabilità di tutti di don Francesco Soddu direttore della Caritas Italiana
L’11 settembre 2001, una data che ha reso evidenti nuove contrapposizioni dopo le speranze precedenti. Lo scenario entro cui collocare il fenomeno del terrorismo internazionale non può non considerare alcuni frutti velenosi del progresso umano, sempre più evidenti: aumento delle disuguaglianze, accaparramento delle risorse, conflitti. Papa Francesco definisce in modo sintetico questo scenario «terza guerra mondiale a pezzi». Ogni pezzo ha ricadute e interconnessioni tangibili, sempre più incidenti sulla vita delle persone a livello globale. Lo dimostrano le stragi del 13 novembre a Parigi, che chiedono a tutti noi uno sforzo di discernimento, di decifrazione dei segni dei tempi per interpretare i cambiamenti nello scenario internazionale. La reazione monodirezionale al terrorismo, a cui già si assiste, fa saltare ruolo e utilità delle istituzioni internazionali e avvia un’escalation reattiva senza regole né limiti, se non quelli fissati da chi la promuove. Gli appelli per una pace fondata sul diritto dei popoli cadono nel vuoto. L’idea che il mondo non possa fare a meno della guerra si diffonde. Ad essa si adeguano le scelte di molti governi, servizi di intelligence, prevenzione e repressione sui
fronti interni, fino a misure selettive di identificazione delle persone, in base alla loro nazionalità o alla loro confessione religiosa. Senza computare le conseguenze nel tempo di tali scelte nelle relazioni tra persone e popoli. Certo, siamo di fronte ad un conflitto frammentato e globale, che coinvolge in particolar modo il mondo musulmano, in Medio Oriente e altrove. Se i cristiani sono le vittime più numerose, le persecuzioni colpiscono anche altre minoranze etniche e religiose in varie parti del mondo, popoli che senza alcuna colpa si trovano ad abitare un territorio dove non sono ‘voluti’ dalla maggioranza. Le stragi e le persecuzioni sono portate alla ribalta dei media internazionali dagli attentati, dalle brutali torture e decapitazioni eseguite dagli uomini dell’ISIS, e non solo. Molta dell’attuale visibilità è dovuta alle capacità comunicative dei seguaci dello Stato islamico, in grado di diffondere attraverso i social media un’efficace strategia del terrore. Occorre però una riflessione più profonda: da un verso è vero che molte violenze hanno il colore odioso della persecuzione religiosa ed è altrettanto vero che questo tipo di violenza sta crescendo; tuttavia ne va denunciata la facile strumentalizza-
zione. Dall’altro, va compreso che c’è un clima di violenza diffusa finalizzata alla pura gestione del potere e delle risorse economiche, a prescindere dalle appartenenze religiose, che diventano solo uno strumento per scopi molto terreni. Ma quale guerra ha mai risolto i problemi? E chi ne trae profitto? E soprattutto evitiamo le semplificazioni che prevedono come ineludibile lo scontro di civiltà o semplicemente l’impossibilità di vivere insieme tra culture diverse. Ecco dunque la sfida: testimoniare una via di pace attenta alla dignità di ogni persona, di ogni popolo, di ogni cultura. Questa sarà possibile se riusciamo, come ha indicato il Papa, a «pensare e agire in termini di comunità, di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni», se ci impegniamo a «lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la negazione dei diritti sociali e lavorativi», se sappiamo «far fronte agli effetti distruttori dell’Impero del denaro: le emigrazioni dolorose, la tratta di persone, la droga, la guerra, la violenza e tutte quelle realtà che tutti siamo chiamati a trasformare». La costruzione di questo ‘nuovo edificio’ è responsabilità di tutti, nessuno escluso.
Non è l’Occidente la sola vittima del terrorismo di Francesco Vignarca Rete Disarmo
I recenti fatti di Parigi hanno di nuovo portato all’attenzione dell’opinione pubblica la questione dei confitti che, in diversi modi e su diversi territori, infiammano il globo. Probabilmente sarebbe stato meglio accorgersene prima, ma è chiaro che le coscienze si smuovono più facilmente quando qualcosa di drammatico ci colpisce più ‘da vicino’. Se vogliamo però iniziare un percorso che porti alla composizione di tutte queste fratture dobbiamo capire che la testa è più importante del cuore. Servono dati ed analisi da cui partire. Due considerazioni mi paiono importanti. La prima riguarda il terrorismo e la sua diffusione. In questi giorni si sente dire che siamo ‘sotto attacco’, quasi evocando la fandonia dello ‘scontro di civiltà’ che già molti danni ha fatto. La realtà è ben diversa: secondo i recenti
dati dell’Institute for economics and peace di Sidney l’80% delle vittime del terrorismo (in forte crescita) nel 2014 hanno perso la vita in Pakistan, Afghanistan, Irak, Siria e Nigeria. È in quei luoghi che si gioca davvero la partita di questa guerra globale: altro che guerra all’Occidente! Il rischio è invece che la nostra politica e la nostra opinione pubblica si fermi a scelte dettate solamente da autoreferenzialità. Anche perché siamo noi (inteso come paesi UE e occidentali in genere, ma anche in particolare come Italia) responsabili degli invii di armamenti in quelle aree. In spregio a molte delle nostre leggi ma soprattutto a qualsiasi logica di vera soluzione dei problemi. La legge 185/90 che da venticinque anni dovrebbe regolare l’export militare è stata col tempo fortemente depotenziata
e svuotata. Con i dati diffusi oggi un parlamentare (e chi dalla società civile vuole trasparenza) non può più esercitare un reale controllo. Nell’ultimo quinquennio le autorizzazioni all’export di armi da guerra a paesi non Ue né Nato sono salite al 62,9% e tra i primi 20 destinatari solo 7 sono «democrazie incomplete» secondo la classifica del Democracy Index dell’Economist. Cinque sono regimi autoritari, due sono ibridi. In testa Algeria e Arabia Saudita, ma tra i nostri acquirenti troviamo anche Kuwait, Emirati Arabi, Nigeria, India, Pakistan. Ogni anno vendiamo armi per circa 3 miliardi di euro, e negli ultimi 25 anni il totale ha superato i 53 miliardi di euro. È davvero questo il modo con cui vogliamo contribuire alla costruzione della pace nel mondo?
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Stop ai pregiudizi e all’intolleranza contro l’Islam Il Forum dei Giornalisti iracheni senza frontiere condanna con fermezza il giornale italiano Libero e il titolo (Bastardi Islamici) dato all’articolo pubblicato dopo la recente strage a Parigi, senza che venisse identificata l’origine del terrorismo come ‘Daash’ e ‘Al Qaeda’ o altre organizzazioni terroristiche. Questa pratica contrasta con la filosofia di tolleranza e coesistenza tra culture, alimentando ulteriori tensioni e conflitti e non coadiuvando intellettuali e giornalisti a leggere l’Islam in maniera oggettiva e lontana dai pregiudizi. Per le popolazioni islamiche il terrorismo è il primo intruso, e noi che siamo in Iraq viviamo da più di un decennio la guerra contro le organizzazioni terroristiche sostenute da diversi paesi. Ricordiamo, inoltre, che la stampa e la cultura italiana mantengono relazioni reciproche con gli iracheni da decenni, che si fondano sulla diffusione dello spirito di amore e di pace tra le diverse culture dei due paesi. Dunque è sbagliato generalizzare e dichiarare che la libertà di espressione possa coincidere con la mancanza di rispetto per gli altri nelle loro religioni o nazionalità. E abbiamo già sottolineato la
necessità di affrontare il terrorismo e i terroristi e difendere i musulmani del mondo da attacchi e abusi a cui vengono ripetutamente esposti dopo ogni incidente di sicurezza o dopo un attentato terroristico o a seguito di azioni armate da parte di alcuni che affermano l’appartenenza alla religione islamica. Si torna a dire che il motivo è l’assenza di un dialogo continuo tra l’Occidente ed i musulmani moderati che vivono e lavorano in varie parti del mondo, il cui numero è stimato in centinaia di milioni, che differiscono completamente dagli estremisti che hanno stravolto ed abusato dei dettami della religione islamica e dell’essere musulmani. Devono esserci ecclesiastici ed intellet-
tuali dei paesi occidentali ed islamici abbastanza coraggiosi per sedersi allo stesso tavolo e sviluppare piani per sbarazzarsi di questi dilemmi ricorrenti che rendono il divario intellettuale, culturale e sociale talmente ampio al punto da portare il mondo intero sull’orlo dell’esplosione. La prova di ciò è proprio quello che sta accadendo ora in alcune città europee, dai crimini terroristici perpetrati da estremisti islamici contro i civili alle reazioni delle estreme destre europee. Il giornalista e conduttore di programmi del canale satellitare Al - Fayhaa, Falah Alfadhli, commenta: «Penso che ci sia stato un vero e proprio incitamento all’odio e alla violenza, condito dall’ignoranza del giornalista italiano, sulla natura della religione islamica, delle sue radici, delle ideologie di fatto aliene all’Islam e delle posizioni di quei paesi europei, in particolare quei paesi che sostengono queste credenze ‘esotiche’». Infine, la giornalista Ahrar Zalzali, capo redattore della Mirror Foundation, condanna ciò che il quotidiano italiano ha pubblicato e il suo giornalista, che avrebbe dovuto innanzitutto essere professionale nel proprio lavoro.
La petizione per radiare Belpietro dall’Albo dei Giornalisti Ha raggiunto oltre 105mila firme la petizione promossa online su Change. org diretta al presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti, Enzo Iacopino, in cui si chiede la radiazione dall’albo di Maurizio Belpietro, che sabato mattina, dopo gli attentati in Francia, ha aperto la prima pagina di Libero, quotidiano da lui diretto, con il titolo «Bastardi islamici». «Dopo l’ignobile titolo fatto in prima pagina da Libero all’indomani della strage di Parigi, chiediamo la radiazione immediata di Maurizio Belpietro dall’Ordine dei giornalisti» recita l’appello. Contro la scelta di Libero è stata presentata una querela in questura a Milano da Maso Notarianni, direttore del quotidiano online PeaceReporter. «Un giornale non è Facebook, dove prevale la pancia e non la testa. Un
giornale ha dei tempi di preparazione ben più lunghi, ed è uno strumento di riflessione che dovrebbe fornire al lettore degli approfondimenti. Chi ha fatto quel titolo lo ha fatto consapevolmente e sapendo che i mezzi di informazione possono influenzare l’opinione di decine di migliaia di persone: un titolo criminale che istiga all’odio» sottolinea a LaPresse Notarianni. Starà ora al pubblico ministero valutare se c’è un fondamento alla querela, e quindi un seguito alle accuse. Intanto sono decine le persone che sull’esempio di Notarianni, a Milano,
si sono recate in questura. «Chi fa il nostro mestiere - continua Notarianni - deve sapere che sono decine di migliaia le persone che leggono ciò che scriviamo. Una consapevolezza che non deve venire mai meno. E che sono certo non sia venuta meno neanche a chi ha scritto quel titolo, volontariamente. Un titolo che insulta e incita all’odio non ha giustificazioni, nemmeno in Italia, Paese con un livello di giornali e di giornalismo tra i più bassi in occidente. Da noi si parla sempre in modo superficiale: in radio, in televisione, sui giornali, per le strade. Ovunque si vada, in Europa e nel mondo, si nota immediatamente la qualità ben più alta dei mass media». Per firmare: su change.org cercare la petizione Radiazione di Maurizio Belpietro dall’Ordine dei Giornalisti.
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Parigi non val bene nessuna Messa di Andrea Satta Tètes de Bois
Un concerto e un massacro. Perchè? Perché la Francia, perché il rock e la musica, perché lo spazio laico, perché? C’è di mezzo la religione, la religione che impone proselitismo e non parlo della spiritualità, ma della religione che converte e salva, che condanna chi non crede, che fa la lista degli eletti e dei maledetti. E questa è stata anche in parte la storia della Chiesa Cattolica, non c’è bisogno di fare esempi. E perfino le chiese laiche hanno fatto della perpetuazione di se stesse e del loro sistema di potere la vera finalità. La musica e l’arte non possono essere conformismo. A volte le parole hanno significati che si colgono scandendo con attenzione le sillabe. Anti conformismo vuol dire che sono così perché così voglio essere e non perché, in qualche modo, condizionato. A me va bene qualunque Dio, purché non ci sia il giusto e lo sbagliato, il peccatore e il salvato e l’obbligo della conversione. I mostri nascono da lì. E un integralista in questo concetto di laicità vede il male. La libertà interiore e la convivenza di scelte differenti sono pensieri forti, come forte era il pacifismo di Ghandi schierato
in opposizione alla violenza. E il luogo e il corpo dove questo pensiero brilla è avverso e odiato. Il piacere non può esistere. Non può esistere per gli integralisti, neppure per quelli cattolici. Ricordate la mortificazione della carne, il sacrificio fisico, la penitenze, le flagellazioni e tutte le sofferenze invocate per la conversione di chi non crede? Vi sembra che da privazioni, automutilazioni e cose del genere possa nascere uno spirito di comprensione? Vi sembra questa la premessa per apprezzare la differenze? Poi, nella deriva più estrema, si fanno saltare in aria gli invasati, i disperati, i criminali e con loro tanta povera gente. E prima di tutto questo, c’è quello che sappiamo da sempre, ma, come sempre, noi che viviamo da questa parte delle telecamere e delle scrivanie non sappiamo mettere in fila le prove dei traffici delle banche, degli intrighi internazionali, delle armi che l’occidente vende ai contendenti in guerra, indifferentemente.
Essere liberi e felici, provare ad esserlo, non va bene, spaventa, significa essere incontrollabili, non ricattabili. Io raramente sono felice come certe volte sul palco e raramente lo sono come quando, da pubblico assisto, partecipo e mi immergo in uno spettacolo. E lì sto bene e non ho bisogno di altre promesse, non voglio essere promosso, riscattato, salvato, non dipendo, non ne ho bisogno e questa felicità mi regala l’immortalità dell’istante e mi rende libero finalmente e, per un momento, quasi divino. Ecco, Parigi non vale bene nessuna Messa, proprio nessuna.
L’anteprima di Left in edicola sabato Il terrore produce morte e allo stesso tempo si comporta come fosse una qualsiasi holding. L’Isis infatti punta al profitto, fa soldi con il petrolio, le opere d’arte, il mercato del porno. Un’inchiesta spiega voce per voce il ‘lucro’ di chi, come scrive il direttore Ilaria Bonaccorsi nel suo editoriale, ha «un modo di non pensare gli uomini e le relazioni, persino la vita umana». Ma c’è chi cerca di mettere in campo un’altra arma, quella del dialogo e della battaglia culturale. Come l’avvocato tunisino Abdelaziz Essid premio Nobel per la Pace 2015 insieme al cosiddetto Quartetto del dialogo nazionale. «Si possono individuare strategie insieme, bisogna dare fiducia agli altri. Se un europeo crede ancora che i tunisini o
gli egiziani, essendo arabi, sono vicini ai terroristi non andiamo da nessuna parte», dice Essid. In Società Left intervista Maurizio Landini che rilancia: un nuovo Statuto dei diritti dei lavoratori e i referendum abrogativi per cancellare leggi sbagliate come il Jobs Act del governo Renzi. «Dobbiamo riformare il sindacato ponendoci un nuovo orizzonte che deve provare a rappresentare tutto il lavoro, compreso quello autonomo», dice il segretario Fiom. Cosa accadrebbe se passasse la legge che legalizza la cannabis? Left anticipa un’inchiesta del mensile Test dove si analizza con dati ed esperti uno scenario che prevede un giro d’affari di 8,5 miliardi di euro. E ancora: la riapertura delle indagini sulla morte di David Rossi, capo della comunicazione del Monte dei Paschi, archiviata come un suicidio e l’esperimento pugliese sul reddito minimo varato dal governatore Michele Emiliano. Negli Esteri un reportage dalla ‘terra dei neri’, il Sud Sudan, il giovane Stato
africano preda dei signori della guerra. E ancora: la radiografia di Eurogendorf, la Gendarmeria europea messa a punto nell’ultimo vertice di Malta. Ampi poteri legati ai governi nazionali e non ai parlamenti. Left ritorna poi in Messico, un anno dopo la strage dei 43 studenti di Ayotzinapa. E in Irlanda, il laboratorio perfetto della Troika, altro che la riottosa Grecia. Un paradiso fiscale per le imprese internazionali e un inferno per i suoi lavoratori. È madre di un ragazzo che si caccia nei guai, Isabella Ferrari, nell’ultimo film di Mimmo Calopresti Uno per tutti. A Left si racconta a 360 gradi: da Parigi, al rapporto con i figli al suo essere attrice. Un tuffo nella storia e nel presente con lo storico francese Christian Ingrao che fa il raffronto tra giovani nazisti e giovani jihaidisti. Infine, il nuovo metodo scientifico che può scaturire dai Big data sul patrimonio genetico e per gli spettacoli l’intervista al giovane cantante Gianluca De Rubertis, diventato famoso con Pop Porno.
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Alcune iniziative di solidarietà PONTEDERA - A Pontedera il 15 novembre una marcia per la pace organizzata dall’Arci e dalla comunità marocchina, alla quale hanno partecipato adulti e bambini, che hanno sfilato sventolando la bandiera della pace, esibendo cartelli con slogan che invitano al rispetto e alla tolleranza e con la scritta «No al terrorismo». TERNI - Arci Terni ha aderito al presidio di solidarietà per le vittime di Parigi, per la pace e contro il terrorismo. Il sit-in, organizzato da Cgil Cisl e Uil, si è tenuto sotto la Prefettura di Terni mercoledì 18 novembre alle ore 17.30. COMO - Il 16 novembre in piazza Volta manifestazione di solidarietà con le vittime dell’attentato di Parigi: in prima fila, oltre al Comune di Como, rappresentanze dei sindacati comaschi Cgil, Cisl, Uil, Arci, Acli e numerose altre associazioni presenti sul territorio.
FOGGIA - In piazza per dire no alla violenza fondamentalista a poche ore dagli attentati di Parigi: sobrio e silenzioso il sit in organizzato nella serata del 14 novembre in piazza Cesare Battisti da sindacati ed associazioni. Davanti al Teatro Giordano le bandiere dei sindacati confederali, Cgil Cisl e Uil, di Arci, Legambiente, Libera ed Acli. MANTOVA - Pd, Sel, Partito Socialista Italiano, Comunità e Territori, Cgil, Cisl e Uil, Arci Mantova, Arci Servizio Civile Mantova hanno invitato i mantovani a una manifestazione in piazza Mantegna il 14 novembre.
FIRENZE - Alle 11 del 14 novembre davanti al Consolato Francese in piazza Ognissanti, manifestazione di solidarietà contro gli attentati a Parigi. Presente l’Arci di Firenze. MILANO - Il 14 novembre alle 16 alla Darsena il presidio di solidarietà dopo la strage di Parigi. Hanno aderito Arci, Anpi, Acli, Camera del Lavoro di Milano,
Emergency, Amnesty International, Altra Europa, Pd, Prc, Sel, con l’invito di portare un fiore per le vittime.
LIGURIA - Arci Genova e Liguria hanno organizzato nel capoluogo un presidio il 14 novembre alle ore 15 per invitare i cittadini a sconfiggere la paura e scendere in piazza. A Savona appuntamento alle 18 in piazza Mameli dove la campana della chiesa ha ricordato gli uomini e le donne uccise a Parigi. Bandiere francesi e italiane hanno accompagnato il corteo partito alle 17.45 da piazza Mentana alla Spezia per arrivare nella sede storica dell’agenzia consolare francese. A Sarzana invece il presidio si è tenuto in piazza Matteotti dalle ore 17. Restiamo umani, il terrorismo non prevarrà lo slogan lanciato da Arci Val di Magra. BOLOGNA - Il Comune ha lanciato un presidio solidale il 14 novembre alle 17.30 all’interno del Cortile d’Onore di Palazzo d’Accursio. Hanno aderito alla manifestazione Cgil, Cisl, Uil, Arci, Anpi e Libera Bologna che con un comunicato comune «esprimono profondo sgomento e sconcerto per il vile attentato terroristico che ha colpito Parigi». REGGIO CALABRIA - Cgil, Cisl e Uil di Reggio Calabria, insieme a Libera e Arci Reggio Calabria, hanno promosso un sit-in di solidarietà di fronte al Teatro Comunale, domenica 15 novembre. PESCARA - Il 15 novembre alle 11.30 a Piazza Salotto si è tenuto un sit in a cui hanno aderito, tra gli altri, l’Arci, SO.HA, Collettivo studentesco Pescara, Emergency, Amnesty International, Associazione Lavoratori Immigrati Senegalesi, Libera, Anpi, Associazione degli studenti e lavoratori nigeriani, Cgil, Pd e Sel. VERONA - Hanno dipinto il simbolo della pace con delle candele, perché «la luce della tolleranza vinca sull’odio». Poi hanno esposto la bandiera francese e il motto della Republique: Liberté, egalité, fraternité. Così la Rete degli Studenti e l’Udu hanno manifestato davanti alla Prefettura di Verona la loro solidarietà ai parigini. Con gli studenti, anche altre associazioni, tra cui Arci e Libera. CREMONA - Tavola della Pace, con il
sostegno del Comune, ha organizzato, il 15 novembre alle 18 in Piazza del Comune, la mobilitazione cittadina Siamo tutti Parigi, con interventi di: Gianluca Galimberti sindaco di Cremona, esponenti di Cgil, Cisl e Uil, un rappresentante del centro islamico La Speranza e don Mario Aldighieri. Presente anche l’Arci. TERAMO - L’Arci Teramo ha promosso un’iniziativa di commemorazione delle vittime di Parigi contro ogni barbarie terroristica e contro chi incoraggia la logica dello scontro di civiltà. Appuntamento giovedì 19 novembre alle 19 a Largo San Matteo, dinanzi la Prefettura di Teramo. BERGAMO - Il 16 novembre alle 17.30 in piazza Matteotti si è tenuto un presidio a Palazzo Frizzoni, con un fiore per le vittime. Presente anche l’Arci Bergamo.
arcireport n. 40 | 19 novembre 2015 In redazione Andreina Albano Maria Ortensia Ferrara Direttore responsabile Emanuele Patti Direttore editoriale Francesca Chiavacci Progetto grafico Avenida Impaginazione e grafica Claudia Ranzani Impaginazione newsletter online Martina Castagnini Editore Associazione Arci Redazione | Roma, via dei Monti di Pietralata n.16 Registrazione | Tribunale di Roma n. 13/2005 del 24 gennaio 2005 Chiuso in redazione alle 18 Arcireport è rilasciato nei termini della licenza Creative Commons Attribuzione | Non commerciale | Condividi allo stesso modo 2.5 Italia
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