Arcireport n 41 2015

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arcireport

settimanale a cura dell’Arci | anno XIII | n. 41 | 26 novembre 2015 | www.arci.it | report@arci.it

In marcia per la giustizia ambientale e sociale e per la pace di Filippo Sestito coordinatore Arci Ambiente, difesa del territorio, beni comuni

A pochi giorni dagli attentati terroristici di Parigi, Beirut, Bamako, la Francia ospiterà la COP21, la Conferenza delle Nazioni Unite sul clima. Non sarà facile raggiungere un accordo vincolante per limitare il riscaldamento climatico globale sotto i 2°C o opporsi al modello ‘dell’iperproduzione e dell’iperconsumo’ quando la Francia e l’occidente sembrano accecati dall’odio e parlano esclusivamente il linguaggio della vendetta. Quando il socialista Hollande chiama l’intero occidente e i suoi alleati a una nuova guerra infinita e intanto vieta tutte le manifestazioni pubbliche, vara lo stato di emergenza, sospende la democrazia; o quando il capo del governo francese, Valls, annuncia possibili attacchi chimici, amplificando la paura che spinge a modificare gli stili di vita, abbandonare ‘lo spazio pubblico’. Il clima di terrore nel quale siamo precipitati aumenta il rischio di fallimento della Conferenza di Parigi e un’altra debacle, dopo Copenaghen, non possiamo permettercela. Non possiamo più permettere che le superpotenze USA, Cina e India replichino il disastro delle precedenti conferenze e non possiamo come Europa continuare a restare alla finestra. Ma oggi qualcosa sembra essere

cambiato. L’enciclica di Papa Francesco ha rimesso al centro del dibattito il binomio capitalismo e natura e poco tempo fa, nel corso del vertice tra USA e Cina, quest’ultima ha annunciato una drastica diminuzione delle emissioni di carbone. Segni, questi, che aprono uno spiraglio importante nel raggiungere gli obiettivi minimi prefissati da tutti gli Stati prima dell’inizio della Conferenza di Parigi, nonostante l’altra grande potenza emergente, l’India, sia rimasta ancorata a posizioni di carattere rivendicativo chiedendo ai Paesi di più vecchia industrializzazione il finanziamento per la riconversione alle energie rinnovabili. I piani nazionali presentati dai 170 Paesi che prenderanno parte alla COP21 e che sono i principali responsabili delle emissioni carboniche risultano assolutamente insufficienti rispetto agli obiettivi auspicati. L’ultimo rapporto dell’ONU specifica che «con i piani attuali non si evita un aumento sostanziale delle emissioni da qui al 2030»; l’aumento previsto, infatti, arriverebbe intorno ai 2,7° C e quindi ben oltre i 2°C fissato quale limite massimo dalla maggioranza degli scienziati. L’Europa in questo contesto può e deve

svolgere un ruolo politico fondamentale, affrontando le sue contraddizioni rese ancor più evidenti dal recente scandalo della Volkswagen e senza reagire, come purtroppo sta facendo in queste ore la Francia, in maniera rabbiosa. Il no a tutte le guerre e alle politiche neocoloniali che continuano a produrre disastri umanitari ed ambientali, non può non essere legato anche al vertice di Parigi. Le guerre, frutto anche e soprattutto degli interessi legati allo sfruttamento delle energie fossili e delle risorse naturali, alimenteranno la spirale senza fine del terrorismo e produrranno un aumento considerevole dei flussi migratori. Centinaia di milioni di uomini saranno costretti a migrare alla ricerca del proprio ‘spazio vitale’ e a nulla servirà erigere muri per salvaguardare ‘la fortezza Europa’. Ecco perché noi come Arci riteniamo indispensabile, a partire dall’Italia, manifestare domenica per la giustizia climatica, contro le guerre ed il terrorismo, contro le politiche securitarie dei Governi, contro il restringimento degli spazi democratici e contro il razzismo. È importante che l’Arci scenda in piazza il 29 novembre prossimo per rendere visibili le nostre parole d’ordine, per costruire insieme a tutte le realtà che compongono la Coalizione per il clima e a tutti i movimenti e i comitati che in questi anni si sono battuti per la difesa del territorio un grande movimento sociale e politico che faccia della giustizia ambientale e delle giustizia sociale un punto fondamentale del proprio orizzonte politico e programmatico.


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weareparis

arcireport n. 41 | 26 novembre 2015

Noi non capitoleremo davanti alla paura di Jean-Michel Ducomte presidente della Ligue de l’Enseignement

Gli attentanti che hanno colpito la Francia risvegliano il doloroso ricordo di quelli che, lo scorso gennaio, avevano preso di mira Charlie Hebdo e il supermercato chacher di Vincennes. La stessa disumanità, lo stesso fine di annientare ciò che ci ha trasformato in uomini e donne libere, amanti della vita, della cultura, del dialogo, avversari di dogmi e conformismi, attori di una democrazia che alimentiamo dei nostri dibattiti. Niente giustifica il fatto che si possano assassinare uomini e donne solo perché vivono, ridono e fanno ciò che amano. L’inno alla morte intonato dagli assassini ci rende fratelli delle vittime e delle loro famiglie. Ogni vittima vive in noi perché apparteniamo alla stessa umanità. Nel mese di gennaio gli assassini perseguivano due tipi di obiettivi. Quelli che rivendicavano e quelli che sarebbero risultati dallo stupore che avrebbe colto l’opinione pubblica. In primis imbavagliare la libertà di espressione, assassinando chi derideva la loro visione oscurantista della religione, utilizzata come scusa della loro deriva criminale. Inoltre placare, una volta ancora, il loro antisemitismo. C’era anche l’obiettivo di creare una frattura nella comunità nazionale, alimentando il sospetto sull’incapacità dei nostri concittadini di religione musulmana di essere in toto attori del patto repubblicano. Infine di obbligare la democrazia ad abbandonare una parte delle garanzie che offre - a rinnegarsi in qualche modo - imponendo, in nome della sicurezza, un rafforzamento degli strumenti repressivi. Il 13 novembre gli assassini hanno voluto annientare la libertà di vivere, divertirsi, stare insieme. Una tipologia di vita, una civilizzazione della libertà mossa dalla consapevolezza della complessità di ciò che ci circonda e da una volontà emancipatrice. Non solo non rinunceremo a niente di tutto questo, ma faremo di tutto per annientare la logica assassina e l’ideologia che la sostiene. Vigileremo perché questa esigenza di resistenza non comporti il sacrificio dei principi democratici e dello Stato di Diritto, altrimenti gli assassini avrebbero vinto. Alcune strumentalizzazioni politiche si sono già manifestate. I limiti della correttezza sono stati a volte superati da derive fascistizzanti che invocano

l’espulsione dei musulmani o l’apertura dei campi d’internamento di sinistra memoria. Queste posizioni sono minoritarie. Dobbiamo vigilare perchè restino tali. Non possiamo esimerci da un’analisi delle cause della tragedia né da una riflessione sulle soluzioni che ne evitino il ripetersi. Conviene innanzitutto denunciare, perché già si manifesta, il pericolo dell’amalgama. Gli assassini non sono dei rifugiati, come vorrebbero far credere coloro che tentano di usare il dramma che abbiamo vissuto per rivedere il diritto d’asilo. La maggioranza sono cittadini francesi. Far passare i nostri concittadini di confessione musulmana come responsabili o conniventi della deriva terrorista ci renderebbe complici di quei criminali, perché se prevalesse una logica stigmatizzante faremmo il loro gioco. La religione musulmana ha gli stessi diritti delle altre religioni. Questo non ci deve impedire di vedere ciò che succede nelle prigioni o in certi quartieri di relegazione sociale, dove degli imam, portatori di un progetto integrista e criminale, alimentano l’odio e trasformano in terroristi dei piccoli delinquenti. Bisognerà che i musulmani si impegnino in una pratica volontaria di organizzazione di rappresentanza della loro religione ed esprimano chiaramente la loro condanna degli attentati e dei loro autori. Dobbiamo rivedere il nostro atteggiamento nei confronti dei dittatori del Golfo e della Turchia di Erdogan, pronti a finanziare il terrorismo. È necessario un incitamento forte al riconoscimento della dignità del popolo palestinese, riconoscendogli la possibilità di vivere

all’interno delle frontiere definite a livello internazionale. Anche se questo è responsabilità dei poteri pubblici e della società internazionale, una presa di coscienza militante può aiutare a favorire il passaggio dalle parole agli atti. Ma se tutto ciò è importante, ciò che è essenziale è la riappropriazione consapevole da parte di tutti i cittadini delle esigenze di cui è portatrice la cultura repubblicana. Bisogna poi avere il coraggio di constatare che l’esistenza di quartieri di ghettizzazione sociale, che riguardano sempre le stesse categorie di popolazione, costituisce un ostacolo alla trasmissione dei valori comuni, perché questa condizione può sviluppare la tendenza a chiusure comunitarie e a tentazioni di rivalsa. «La Repubblica deve essere laica e sociale, ma resterà laica perché avrà saputo essere sociale» scriveva Jaurés. Questa frase non è mai stata cosi attuale. Non è pensabile continuare con i richiami alla responsabilizzazione verso coloro che la Repubblica non è stata in grado di trattare degnamente. Cosa vale la promessa repubblicana di un trattamento egualitario se il colore della pelle, la povertà, l’appartenenza religiosa possono determinare la relegazione sociale? Chiedere a queste persone di dimostrare per principio un attaccamento ai valori repubblicani é soprattutto un errore politico. Quante generazioni ci vorranno ancora, per quelli sottomessi ad una logica dell’abbandono, prima che la Repubblica si svegli? Le iniziative che mirano ad un insegnamento laico della morale, che la Ligue de l’Enseignement ha reclamato e approva, costituiscono una prima indispensabile risposta. Ma è necessario che i valori insegnati non siano delle parole vuote e che siano seguite da atti politici forti. E’inoltre importante che parallelamente ciascuno, qualunque sia la sua provenienza e i suoi riferimenti culturali o religiosi, possa avere la sensazione di essere compreso dai suoi concittadini di convinzioni o cultura diversa. Questo deve essere lo scopo dell’insegnamento del fenomeno religioso. Sola allora potremo dare la qualificazione politica che meritano agli atti di criminali che sono stati commessi da terroristi che coprono il fascismo di una giustificazione religiosa, ridotta a una ideologia inumana.


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società

arcireport n. 41 | 26 novembre 2015

Il nuovo disordine mondiale Rapporto sui diritti globali 2015 Nel tempo della globalizzazione neoliberista e della crisi strutturale il mondo appare senza più rifugi: né dalle turbolenze dei mercati, né dalla destabilizzazione geopolitica, né dalla ‘obsolescenza programmata’ dei sistemi di welfare, a partire dal modello sociale europeo e delle forme e strutture democratiche di governo; né, infine, dagli effetti delle guerre e delle diseguaglianze, che nel 2015 si sono tradotti in un vero e proprio esodo, di fronte al quale l’Europa e le sue istituzioni si sono mostrate divise e orientate a riproporre la strada disumana della Fortezza. Un esodo che, a inizio novembre 2015, ha già prodotto, nel solo Mediterraneo, oltre 3400 vittime. Il numero delle persone sradicate, sfollati interni o rifugiati, è arrivato a 59 milioni e mezzo di persone; un numero cresciuto, solo nel 2014, di oltre 8 milioni, la cifra più elevata dalla Seconda guerra mondiale. La pressione migratoria verso l’Europa è, peraltro, solo una piccola parte, giacché il peso principale viene sostenuto dai paesi c.d. in via di sviluppo, che accolgono ben l’86% dei 19 milioni e mezzo di rifugiati. Eppure, il 2015 è stato l’anno dei nuovi muri eretti nel cuore del continente europeo, a tentare di isolare il contagio dai dannati della terra, cui è dedicato uno dei Focus del Rapporto di quest’anno. La ‘lotta di classe dall’alto’, in diverse aree geografiche, ha preso la forma di una guerra contro i poveri e di un divorzio progressivo tra capitalismo globale e democrazia. Secondo le statistiche europee, nell’Unione vi sono 122,6 milioni di persone a rischio di povertà ed esclusione, quasi un europeo su quattro; all’inizio della crisi erano 116 milioni. L’Italia registra il 28,4%, dato superiore alla media europea, per un totale di 17 milioni e 330mila persone. A fronte di questo drammatico quadro, nel quadriennio 2008-2012- sia pure in modo differenziato tra i diversi Stati membri - l’Europa ha disinvestito nel welfare, con un taglio sulla spesa sociale europea per un totale di circa 230 miliardi di euro. Disinvestire nel welfare ha anche l’esito di distribuire i rischi di impoverimento in modo selettivo, gravando soprattutto sui più deboli, e questo è uno dei meccanismi che porta a condizioni di povertà difficilmente reversibili. Anziché essere contrastata, insomma, la crescente po-

vertà - che riguarda sempre più anche chi ha un lavoro e un reddito - viene perpetuata, diviene una sorta di buco nero sociale nel quale è sempre più facile scivolare e da cui è impossibile uscire. Sempre più la povertà, specie se estrema, è vista e trattata come crimine, anziché come situazione necessitante sostegno. Un processo, presente da tempo negli Stati Uniti, che sta andando avanti in tutta Europa, a livello legislativo, amministrativo, del governo delle città, mediatico. Alla criminalizzazione della povertà è dedicato un altro dei Focus del 13° Rapporto sui diritti globali. Anche nell’ultimo anno, le politiche seguite non sono andate nel verso di sostenere le parti sociali più deboli e il lavoro e nel ridurre le diseguaglianze, ma, all’opposto, hanno premiato i responsabili della crisi, cioè la grande finanza. Dal 2007 le Banche centrali di tutto il mondo hanno aumentato la quantità di moneta da 35mila miliardi di dollari a 59mila miliardi. Un mare di liquidità che ha inebriato i mercati finanziari, ma non è ‘sgocciolato’ a sostenere l’economia precaria delle famiglie e delle piccole imprese, mentre è continuata la sciagurata politica dell’austerity. Una politica che, nel corso del 2015, ha manifestato appieno la propria valenza simbolica e intimidatoria nel caso della Grecia, piegata da un pesante ricatto, come viene analizzato nel Focus del primo capitolo del Rapporto. Un anno di rialzi in borsa e di grande euforia finanziaria ha visto il contrappasso di un’altrettanto grande depressione economica e sociale. La crisi è così diventata strumento di governo e moltiplicatrice dell’instabilità. E di ingiustizia sociale. Come mostrano i numeri e studi internazionali. La ricchezza delle 80 persone più facoltose al mondo è raddoppiata in termini nominali tra il 2009 e il 2014, mentre la ricchezza del 50% più povero della popolazione nel 2014 è inferiore a

quella posseduta nel 2009. Ottanta super-ricchi possiedono la medesima quantità di ricchezza del 50 per cento più povero della popolazione mondiale, 3 miliardi e mezzo di persone. E ancora: nel 2010 le 80 persone più ricche al mondo godevano di una ricchezza netta di 1300 miliardi di dollari. Nel 2014 la loro ricchezza complessiva posseduta era salita a 1900 miliardi di dollari, dunque una crescita di 600 miliardi di dollari, quasi il 50 per cento in più in soli quattro anni. Il titolo scelto per l’Expo 2015 ha posto il tema del cibo all’attenzione mondiale. Ma ha sostanzialmente eluso la riflessione sul modello attuale della produzione e consumo alimentare e sui rischi futuri, accentuati dai trattati commerciali in corso. Sulla questione alimentare si scontrano due paradigmi: l’agricoltura delle multinazionali, che si appropriano di intere regioni mondiali e le avvelenano con uso intensivo di pesticidi e fertilizzanti, cercando di imporre ovunque anche gli OGM, e quella dei piccoli contadini, che coltivano nel rispetto dell’ecosistema e delle biodiversità. L’agricoltura industriale, pur producendo solo il 30% del cibo consumato a livello mondiale, è responsabile del 75% del danno biologico a carico del pianeta, compresa l’emissione del 40% dei gas serra. Anche quella per il cibo e per l’acqua è diventata una forma di guerra contro interi popoli vittime di forme, vecchie e nuove, di colonialismo; come anche il cosiddetto land grabbing, il crescente fenomeno di accaparramento delle terre. Popoli e poveri la cui qualità di vita e la stessa sopravvivenza sono compromesse da logiche orientate al massimo profitto e alla speculazione finanziaria. Logiche che non colpiscono più solo i Sud del mondo, ma gli stessi paesi industrializzati e, in primis, l’Europa, al centro di grandi interessi soggiacenti al TTIP, il Trattato commerciale di libero scambio le cui trattative segrete sono in corso tra Stati Uniti e Unione Europea, cui è dedicato un altro dei Focus del Rapporto sui diritti globali 2015. Il Rapporto è a cura di: Associazione Società Informazione Onlus, promosso da Cgil con la partecipazione di ActionAid | Antigone | Arci | Cnca | Fondazione Basso-Sezione Internazionale | Forum Ambientalista | Gruppo Abele | Legambiente www.dirittiglobali.it


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arcireport n. 41 | 26 novembre 2015

sbilanciamoci!

Rapporto Sbilanciamoci! 2016

Come usare la spesa pubblica per i diritti, la pace, l’ambiente Sbilanciata lo è, ma dalla parte sbagliata. Sono in molti - la stragrande maggioranza - a dover attendere: i giovani disoccupati che vorrebbero lavorare o, almeno, avere un reddito minimo; molti dei lavoratori scippati dalla riforma Fornero della loro pensione alle porte; gli studenti in attesa di un piano nazionale per il diritto allo studio; i genitori in cerca di servizi per l’infanzia accessibili; i pensionati ai limiti della soglia di povertà e i lavoratori pubblici con un contratto bloccato da almeno sei anni. Per loro nella Legge di Stabilità 2016 c’è poco o niente. In compenso c’è molto per le imprese. Qualcuno l’ha definita berlusconiana, sicuramente è iniqua, di corto respiro e priva di una strategia adeguata a rilanciare l’economia, una brutta copia della Legge di Stabilità 2015. Come quella dell’anno scorso, è presentata come una manovra espansiva. Come allora l’obiettivo del pareggio di bilancio è posticipato di un anno, questa volta al 2018. Bella notizia potrebbe pensare chi ha chiesto di abbandonare le politiche di austerità. Ma più che rinunciare all’austerità il Governo si limita a rallentare il passo: il deficit programmato nella Nota di aggiornamento al Def 2015 presentata ad ottobre è del 2,6% per il 2015 e del 2,2 o del 2,4% per il 2016, comunque inferiore al limite del 3% imposto da Bruxelles. Quello 0,2% di differenza in sospeso sul 2016 dipende dal riconoscimento della clausola che propone spudoratamente all’Europa di usare i migranti per ottenere un’ulteriore flessibilità di bilancio pari a 3,1 miliardi. L’ingegno si trasforma in beffa con la destinazione della concessione eventualmente ottenuta all’anticipazione al 2016 della riduzione della tassa sui profitti delle imprese, l’IRES, programmata a partire dal 2017. Anche quest’anno il Governo sceglie come priorità la riduzione delle tasse omettendo di dire che si tradurrà in un ulteriore taglio dei servizi pubblici. Sull’abolizione della TASI ‘per tutti’ Renzi ha centrato la sua campagna di comunicazione, sapendo che, anche grazie al progressivo smantellamento dei servizi pubblici, questa misura potrà fare breccia su buona parte della popolazione. Il Governo sceglie la redistribuzione delle diseguaglianze a vantaggio di ricchi e imprese. Per queste sono previsti anche il ‘superammortamento’ fiscale per investimenti in macchinari e attrezzature e l’abolizione dell’IMU agricola e sui

macchinari imbullonati. Metà della manovra è destinata ad impedire lo scatto delle clausole di salvaguardia che provocherebbero un aumento delle accise sui carburanti e dell’Iva, anche qui rinviando il problema agli anni successivi. Tutto ciò nella totale incapacità di controllare la finanza pubblica: della famosa spending review intelligente non si è vista nemmeno l’ombra, i tagli alla spesa pubblica proseguono ma sono quelli sbagliati. Il Fondo Sanitario Nazionale passa a 111 miliardi nel 2016 rispetto ai 115 previsti, un taglio che si aggiunge a quello già effettuato con la Legge di Stabilità 2015, pari a 2,3 miliardi a partire dal 2016. Contro la povertà si prosegue la strada delle misure frammentarie, stanziando risorse aggiuntive significative (600 milioni sul 2016 e 1 miliardo sul 2017), ma rinviando ancora una riforma organica che introduca una misura strutturale di sostegno al reddito. Per i Fondi Sociali l’unica novità positiva, ma ampiamente insufficiente, sta nello stanziamento aggiuntivo di 150 milioni a favore del Fondo Nazionale per la Non Autosufficienza, mentre il Fondo Sociale Nazionale resta fermo ai 312,5 milioni di euro definiti nella Legge di Stabilità 2015. Il modello di welfare che ha in mente il Governo è quello privatistico-aziendale: l’art.12 della Legge di Stabilità favorisce fiscalmente i servizi di welfare aziendali per la cui erogazione incentiva l’utilizzo dei voucher. In materia ambientale restano gli stanziamenti per le grandi opere (2,8 miliardi) e, nell’anno della COP21, l’unico finanziamento specifico previsto è di 16,3 milioni di euro. In compenso gli allegati alla Legge di Bilancio confermano la scelta di investire nei sistemi di armamento, in primo luogo sugli F-35: la mozione della Camera che ne chiedeva il dimezzamento è carta straccia. Né sono previsti seri provvedimenti di

contrasto all’evasione fiscale. Anzi, il Governo innalza a 3mila euro la soglia del pagamento in contante. Il dibattito al Senato ha confermato la soglia di mille euro solo per i money transfer. Tanto meno si sceglie di estendere l’applicazione della Tassa sulle Transazioni Finanziarie che potrebbe portare nelle casse dello Stato diversi miliardi di euro in più. Infine, dei giovani disoccupati il Governo sembra proprio essersi dimenticato. Eccezion fatta per la previsione di sgravi contributivi per i neo-assunti nel 2016 e per l’assunzione manifesto di 1.520 ‘eccellenze’ tra professori e ricercatori, non c’è traccia di un piano pubblico serio per rilanciare economia ed occupazione. Sbilanciamoci! propone quest’anno una contromanovra di 35 miliardi di euro, come sempre in pareggio. Sul versante delle entrate: una riforma fiscale improntata all’equità e alla progressività e una spending review molto selettiva, finalizzata a eliminare la spesa pubblica inutile e nociva. Sul versante delle uscite: un intervento pubblico forte in campo economico a sostegno della buona occupazione, della riduzione delle diseguaglianze; un riorientamento della spesa pubblica per la creazione di nuova occupazione, del servizio sanitario nazionale, dei servizi pubblici di assistenza sociale, dell’istruzione, della ricerca pubblica, della cultura, della tutela dell’ambiente e delle forme di altraeconomia. Con una novità: l’introduzione di una forma strutturale di sostegno al reddito per chi non è ancora entrato nel mercato del lavoro, ne è uscito prematuramente o ne fa parte ma con un reddito insufficiente. Il segnale, prima ancora che tecnico, è politico e culturale. Alla luce della crisi economico-finanziaria e delle grandi trasformazioni del sistema economico globale, dei processi produttivi e del mercato del lavoro, sembra davvero giunto il momento di ripensare congiuntamente e in modo organico le politiche del e sul lavoro e il sistema di welfare di un paese che è ormai solo in Europa, insieme alla Grecia, a non avere nessuna misura di sostegno al reddito. Se non ora quando? Il Rapporto è disponibile on line a partire dal 26 novembre: controfinanziaria.sbilanciamoci.org


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solidarietàinternazionale

arcireport n. 41 | 26 novembre 2015

A Firenze l’Assemblea dei Parlamentari NATO di Carla Cocilova Internazionali Arci Toscana

In questi giorni si tiene a Firenze l’Assemblea dei Parlamentari NATO su Medio Oriente, Mediterraneo e immigrazione. Le vicende internazionali di questi giorni dimostrano quanto le politiche securitarie e di militarizzazione estrema portate avanti dalla NATO siano inadeguate a gestire un nuovo assetto globale in cui sempre più vittime sono civili. L’incontro pubblico, molto partecipato, che si è tenuto a Firenze il 21 novembre scorso, dal titolo Il Mediterraneo della pace non è ancora NATO ha voluto sottolineare proprio quanto ci sia ancora più bisogno di trovare e proporre con forza delle visioni alternative. Un incontro pensato prima dei fatti di Parigi, ma fortemente condizionato da quello che era successo pochi giorni prima. L’incontro si è quindi aperto con due collegamenti: il primo alla capitale francese, in cui un’attivista di Attac ha condiviso con noi le preoccupazioni della società civile nel registrare una forte restrizione della democrazia. Il secondo

collegamento invece è stato fatto da Beirut con Hussein Mansour, il vicesindaco della municipalità di Burj el-Barajneh, colpita da un attentato giusto qualche giorno prima di Parigi, con cui Arci Toscana ha attivi progetti di cooperazione. Dalle parole dell’amministratore è chiaro come esistano due pesi e due misure nel valutare i fatti. Nessun ente internazionale, a parte noi, aveva inviato loro la propria solidarietà e, sottolinea Mansour, l’importante per la sua comunità era tornare subito alla normalità, curare i feriti, seppellire i morti, ripulire l’area e ripartire con la vita di sempre, come succede a chi alla morte e alla violenza gratuita è purtroppo abituato. Le riflessioni dei relatori continuano dalle analisi sul contesto internazionale, sulla natura del Daesh, il futuro della Siria, le responsabilità del nostro paese nel commercio di armi, alla necessità di rilancio della campagna contro le armi nucleari nel Mediterraneo. Non mancano poi i contributi sulla gestione del flusso

dei migranti che fuggono dalla guerra, sulla necessità di rilanciare un impegno collettivo, a partire dalla Rete disarmo e dalla Rete della pace, per condividere strategie di mobilitazione diffusa che contrastino le politiche e gli investimenti securitari dell’attuale governo, che chiedano trasparenza sul commercio di armi e un sistema di accoglienza che metta in sicurezza la vita delle persone. Questi i punti di discussione principali insieme all’importanza di valorizzare quelle esperienze della società civile che soprattutto nella sponda Sud del Mediterraneo e nel cuore del Medio Oriente, al centro di questa terribile voragine di violenza, continuano a resistere e a praticare azioni rivoluzionarie come accogliere i rifugiati siriani in Libano o parlare di non-violenza e peace building in Iraq. Da loro, come società civile italiana ed europea possiamo trovare la forza per rilanciare la nostra visione di mondo alternativo a scapito di chi ci vuole costantemente terrorizzati e chiusi in noi stessi.

«No ai muri, apriamo le porte dell’Europa» L’appello per una mobilitazione unitaria il prossimo 18 dicembre: pace, democrazia, giustizia sociale, dignità per tutte e tutti di Raffaella Bolini Relazioni Internazionali Arci

Dopo Parigi, l’Europa blinda le frontiere. I volontari della rotta balcanica dei migranti invece propongono una giornata europea di azione il 18 dicembre per «aprire le porte». Una mobilitazione unitaria per dimostrare che c’è un modo diverso per sconfiggere la paura: togliere muri e barriere. Parigi ha dato all’Europa la scusa per completare la blindatura delle frontiere, attuando decisioni prese ben prima dell’attacco. E per chiudere l’eccezione della rotta nei Balcani. La rotta balcanica non è stata un regalo della Merkel. E’ stata conquistata dalla marcia dei migranti, la più grande azione di disobbedienza civile nonviolenta in Europa da decenni. E’ stata sostenuta da un movimento nuovo e davvero europeo, capace di stare per mesi sul campo e di trarre dal volontariato forza e credibilità per l’azione politica. Da questo movimento arriva il grido di allarme: reagire all’attacco di Parigi con la guerra, la militarizzazione, la chiusura delle frontiere, la limitazione delle libertà civili e democratiche è un regalo alla destra estrema. Che è in testa

ai sondaggi in Francia, ha conquistato la Polonia, e si sente più forte. Non è tema per gli addetti antirazzisti. Riguarda tutti e tutte. Il rischio di un’Europa che reagisce agli attacchi oscurantisti diventando sempre più nera è forte. Bisogna provare a unificare le lotte. I diritti dei migranti, la pace e la giustizia sociale sono facce della stessa medaglia. Il testo dell’appello per una giornata di mobilitazione in tutta Europa è molto breve. «Attivisti greci, turchi, dei Balcani occidentali e di tutta Europa impegnati sulle rotte dei migranti si sono incontrati a Salonicco. E propongono a tutte le persone, i movimenti, le organizzazioni sociali, i sindacati che non vogliono vivere in un’Europa e in un mondo oscuro, ingiusto e antidemocratico di mobilitarsi e agire il 18 dicembre. ‘No ai muri. apriamo le porte’. Pace, democrazia, giustizia sociale, dignità per tutti e tutte». L’appello arriva da Salonicco, dove si è tenuto un incontro per mettere in comunicazione i volontari della rotta balcanica, il movimento dei convogli da

Austria e Germania con attivisti su altre rotte, organizzazioni di diversi paesi e numerose reti europee. Doveva essere un momento di interscambio sui temi della accoglienza, fra movimenti nuovi e organizzazioni attive da anni. Si è svolto nei giorni in cui a Idomeni la Macedonia ha iniziato a bloccare migliaia di persone, mentre agli abitanti di Bruxelles era vietato uscire di casa. Quando per Madrid venne il tempo del terrore, in una sola notte un grande movimento rese chiaro che sulle risposte al terrorismo non ci sono larghe intese securitarie ma due campi opposti, quello della pace e quello della guerra. Anche oggi c’è bisogno di una risposta forte e popolare, visibile abbastanza da strappare le persone dalle lusinghe della destra e dare coraggio agli europei buoni. In questi giorni le manifestazioni previste per la giustizia climatica, aggiornate ai drammi di oggi, possono fare la differenza. Poi, insieme, confidiamo di riuscire a fare un 18 dicembre all’altezza della sfida. Le porte sono aperte.


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migranti

arcireport n. 41 | 26 novembre 2015

Abbandonati nella terra di nessuno di Sara Prestianni Ufficio Immigrazione Arci

Sono più di 2000 i migranti in attesa alla frontiera greco-macedone, in una terra di nessuno, perduta nelle lande sconfinate del nord della Grecia, di fianco al villaggio di Idomeni. È uno dei tanti snodi del ‘corridoio balcanico’ che ha visto passare da inizio gennaio 600mila uomini, donne e bambini. Sbarcati sulle isole i migranti sono obbligati a registrarsi nei centri di identificazione che si stanno trasformando in hotspot, per poter comprare un biglietto per la nave che li porterà ad Atene. Dalla capitale greca, in autobus, raggiungono Idomeni, per poi continuare verso la Macedonia, in Serbia, Croazia ed Austria. Negli ultimi mesi quello di Idomeni era un posto di frontiera come gli altri sulla rotta balcanica, dove i migranti sostavano qualche ora, per rifocillarsi e poi ripartire. Ma il 17 novembre il meccanismo è cambiato e le porte del corridoio balcanico hanno cominciato a chiudersi. Per un effetto domino, Serbia, Croazia e quindi Macedonia hanno annunciato che dalle loro frontiere sarebbero passati solo iracheni, afgani e siriani. Gli altri - iraniani, bengalesi, marocchini, subshariani, algerini ma anche somali ed eritrei - sulla base discriminante della nazionalità, sono bloccati, senza una reale spiegazione se non il fatto di non essere iracheni, siriani o afgani. Chi prova a passare per altri punti del confine viene respinto se trovato senza il timbro di ingresso della Macedonia. L’ingiustizia e la discriminazione si materializzano fisicamente in due file: da un lato quelli che possono passare, dall’altro quelli indesiderati, in mezzo la polizia. A chiudere la frontiera, un cordone di polizia greco e uno, molto più massiccio, dell’esercito macedone. Sullo sfondo una fila di carri armati e una barriera. Ad ogni passaggio di siriani, afgani ed iracheni, i migranti bloccati gridano all’ingiustizia. Ripetendo «fateci passare non siamo dei terroristi», sventolano cartelli che inneggiano all’apertura delle frontiere e al diritto di circolare liberamente. A.R. é iraniano, in perfetto inglese mi dice di essere professore universitario, di avere una casa e uno status di vita agiato a Teheran «Se sono partito un motivo ci sarà. Se ho rischiato la vita in un gommone nel mare Egeo portando con me mia moglie incinta ed i miei figli non è perché voglio venire a lavorare in Europa. Non posso tornare in Iran, là

rischio la vita». Difficile spiegare loro che la Macedonia ha deciso di violare la Convenzione di Ginevra, che prevede un’analisi personale delle storie di asilo, per applicare il principio discriminante della nazionalità basandosi su un documento fornito su un’isola greca. Nessuno chiede a A.R. di raccontare perché è in pericolo. La polizia si limita a considerarlo un migrante economico e a farlo attendere in un limbo di freddo ed ignoranza, aspettando di conoscere quale sarà la sua sorte. Da sabato mattina un gruppo di iraniani ha cominciato uno sciopero della fame per chiedere che le frontiere siano aperte. Le condizioni di vita, nonostante lo sforzo di vari volontari, restano difficili. Dormono in tende o in tendoni in totale promiscuità. Durante il giorno, se non sono a manifestare di fronte alla frontiera, i migranti si aggirano - avvolti da coperte - tra i binari del treno ed i fuochi che hanno acceso per resistere ad un clima che diventa sempre più rigido. Chiedono a chiunque quando la frontiera si aprirà, come una litania, anche se sanno che nessuno può dare loro una risposta sicura. Un nutrito gruppo di giovani del Bangladesh si riscalda attorno a un fuoco, che serve anche a illuminare l’oscurità che cala su Idomeni di notte. Mi raccontano di come hanno rischiato di morire nel mare Egeo. Il loro gommone si è sgonfiato e sono finiti in acqua. I trafficanti avevano dato loro un gommone difettoso. Hanno venduto tutto per partire. Più di 2000 euro per andare dall’India all’Iran, poi in Turchia, ed ora sono bloccati. Uno di loro, con voce concitata mi dice che se

lo rimandano indietro si ucciderà. Ha perso tutto, non può tornare indietro. Il numero dei migranti bloccati alla frontiera resta però costante. Stranamente nessuna barca è arrivata nell’ultimo giorno da Atene. È la prima volta da mesi. Se il numero degli arrivi era leggermente diminuito nelle ultime due settimane, non si era mai registrata questa assenza di partenze. Questa ‘calma’ può essere legata al clima, vista la tempesta che sta invadendo la regione, ed in quel caso appena il vento smetterà di soffiare altre barche arriveranno ed il numero dei migranti bloccati nel limbo di Idomeni sarà destinato ad aumentare. Ma può essere anche la conseguenza della decisione della Turchia di collaborare a fermare i migranti, come richiestogli dall’Ue. Se fosse così la situazione sarebbe ancora più tragica, migliaia di persone sarebbero costrette in un paese, la Turchia, già al collasso dell’accoglienza, dove lo stato non riconosce diritti ai rifugiati e la sopravvivenza - considerando i due milioni di rifugiati già presenti - è quasi impossibile. Intanto a Idomeni si preparano al fatto che il numero di migranti aumenti e l’Unhcr ha costruito un altro campo, vicino a quello già esistente. Passando tra le tende si sentono i canti in decine di lingue diverse. La frustrazione e l’attesa. Mostrano il documento che è stato rilasciato loro sull’isola greca in cui sta scritto che hanno 30 giorni per lasciare il paese. Scaduto quel tempo possono essere detenuti ed espulsi ad ogni momento. Contano i giorni e sperano che l’indomani sia quello in cui gli stati decidano di aprire la frontiera e di lasciarli passare.


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solidarietàinternazionale

Arcs, Arci e Ipsia nei Balcani Una delegazione di Arcs, Arci e Ipsia ha incontrato diverse organizzazioni, volontari, attivisti impegnati duramente nella quotidianità dei Balcani. Di seguito il racconto di Luigi Lusenti, Arci Milano, che ha fatto parte della delegazione. Una ragazza bionda, elegantemente vestita, appoggia sul bancone duemila dinari. Il ragazzo al desk le rilascia una ricevuta e inserisce i soldi in una cassetta. È una sottoscrizione personale, come hanno fatto in questi mesi di emergenza molti belgradesi. Il luogo è il centro per i profughi, l’Asylum Infocentre, aperto dalla municipalità di Sava Mala, il quartiere centrale attorno alla stazione di Belgrado, e dato in gestione a una serie di associazioni della società civile. Qui, i rifugiati che ogni giorno entrano in Serbia e arrivano in città, trovano informazioni su come proseguire il loro ‘viaggio’ verso il nord Europa, come muoversi nella capitale, a quali servizi e aiuti possono accedere, dall’assistenza sanitaria alla cura di minori non accompagnati. Sono presenti perfino delle postazioni informatiche per permettere ai migranti di comunicare con i parenti rimasti a casa. Una navetta gratuita li accompagna in un centro di raccolta dove possono riposare per qualche ora. Infatti tutti i centri aperti nel paese non sono di permanenza ma di transito. Il migrante entrato in Serbia dalla Macedonia o dalla Bulgaria ha 72 ore per raggiungere la Croazia, dato che l’Ungheria si è autoreclusa dietro a chilometri di filo spinato.

La Serbia pare oggi il paese che, nonostante una situazione economica ancora difficile, sta affrontando al meglio la crisi umanitaria trovatasi improvvisamente di fronte. Belgrado, che aveva visto in estate migliaia di uomini, donne e bambini accamparsi nelle sue piazze e nei suoi parchi, vive un momento di relativa tranquillità. Sono pochi gli asylanten che arrivano in città. La pressione è al sud dove, a tre valichi al confine con la Macedonia e con la Bulgaria, si accalca una umanità allo stremo per il lungo e faticoso viaggio ma determinata nell’obiettivo di raggiungere la Germania, la Svezia o la Norvegia. Dalla Bulgaria entrano nel paese circa 400 persone al giorno. È al valico di Presevo, frontiera con la Macedonia, dove invece l’emergenza raggiunge picchi di novemila persone in un transito ininterrotto per tutte le ventiquattro ore. Il centro di accoglienza aperto in gran fretta è simile nell’aspetto ai tanti centri di accoglienza che, purtroppo, sono sparsi per il mondo: tende dell’UNHCR, container della Croce Rossa, spazi sanitari e per bambini gestiti dall’Unicef e da molte organizzazioni internazionali di volontariato, dalla Caritas serba al Danish Refugee Council. Davanti al centro una lunga fila di pullman, predisposti dalle autorità, conducono per 15 euro, dopo la registrazione, i migranti fino alla frontiera con la Croazia. La collaborazione fra i due paesi amicinemici funziona a perfezione. Quando si

Aoi: auguri alla direttrice dell’Agenzia italiana per l’APS, Laura Frigenti Laura Frigenti è la prima Direttrice dell’Agenzia della cooperazione internazionale italiana promossa dalla L.125/2014. A lei, appena nominata, i sinceri complimenti dell’Aoi, oltre ai più sentiti auguri. Il suo percorso nel mondo della cooperazione internazionale fa sperare in una governance dell’Agenzia consapevole della complessità delle sfide, della coerenza delle politiche e dell’approccio di sistema di cui oggi vi è più che mai l’esigenza. La nuova Direttrice Frigenti è stata un’esperta Mae, un’alta funzionaria con vari incarichi nella Banca Mondiale e, in questi ultimi anni, ha promosso e sostenuto il mondo non governativo solidale, in qualità di Vicepresidente

del Global Development Practice. La cooperazione italiana è chiamata da subito a definire le scelte strategiche del contributo di sistema all’Agenda internazionale per il 2030, mentre si trova ad affrontare la drammaticità e l’appello umanitario dei flussi: immigrazione, accoglienza, sicurezza e cooperazione internazionale oggi più che mai e in tempi brevi chiedono la concretezza di politiche coerenti tra loro e di misure efficaci. L’Italia ha un ruolo determinante per riportare il tema dei diritti e della solidarietà al centro di un’Europa sempre più a rischio di intolleranza e comunque divisa all’interno.

raggiunge il migliaio di persone accalcate al confine serbo, un treno parte dal centro croato più vicino, raccoglie i rifugiati e li trasporta in Croazia, ove ricominciano il difficile pellegrinaggio verso la metà finale. La maggior parte dei profughi sono siriani, ma a Presevo c’è tutto, dagli afghani ai somali, dai pakistani ai curdi. La difficoltà a comunicare è fortissima. Alcuni parlano dialetti locali ed è difficile trovare interpreti. I pacchi cibo contengono una bottiglietta d’acqua, il pane e due scatolette di pesce. La condizione di paese non comunitario, in difficile uscita dalla crisi degli anni novanta dopo le tante guerre balcaniche, con una disoccupazione attorno al venti per cento rende la Serbia non interessante agli occhi dei migranti che la utilizzano solo come canale di passaggio. Ciò la tiene immune, per il momento, dalla ‘paura dell’invasione’. Pure la stampa, sollecitata anche dal governo che spera possa giovare al paese per accelerare i tempi di ingresso nell’UE la dimostrazione di efficienza e di rispetto dei diritti che sta dando la Serbia, mantiene i toni bassi. Potrà durare a lungo questa situazione? A differenza delle altre nazioni balcaniche che, nel summit del 25 ottobre a Bruxelles, non hanno trovato una posizione comune e nessun spirito collaborativo (vedi lo scambio di accuse fra Slovenia e Croazia) la Serbia ha ribadito che non erigerà mai muri o difese di filo spinato. Ma in uno scenario differente anche la ‘piccola’ Serbia potrebbe essere costretta a politiche diverse. Le prime problematicità si stanno già palesando. Berlino inizia a rimandare indietro i profughi che al dissolvimento della Jugoslavia avevano trovato riparo in Germania. Essenzialmente rom che non sono riusciti ad integrarsi. E poi rimane aperta la questione su che fine farà chi non otterrà lo stato di rifugiato dalle autorità tedesche. Non infondata l’ipotesi che molti possano ‘ritrovarsi’ in quei paesi considerati solo di transito: Serbia e Macedonia ad esempio. Il quadro in movimento non impedisce di porsi alcune domande: quanto costa in vite umane questa crisi? Quanto costa in soldi, in strutture, in devastazione del territorio l’immenso flusso di migranti? Certamente meno che aprire dei corridoi umanitari in Siria, come si fece con la guerra nella ex Jugoslavia, da cui portare in salvo le vittime dell’ennesimo conflitto nell’area mediorientale. Sarebbe anche un buon modo per ‘colpire’ i trafficanti di persone che organizzano i ‘tour’ all inclusive.


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diritti

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Contro ogni deriva omofobica e discriminatoria nella scuola Il Coordinamento Genitori Democratici nazionale - da sempre impegnato nella difesa dei diritti dei minori - ha lanciato un appello per arrestare una possibile deriva discriminatoria e omofobica nella scuola e ha raccolto a sostegno di questa richiesta l’ adesione di ben 16 associazioni nazionali, rappresentative della società civile, note per il grande e ormai storico impegno nella scuola e nella formazione. «Assistiamo da mesi, preoccupati e attoniti, a un attacco violento e organizzato contro qualsiasi espressione della libera scelta di ciascuno di autodeterminarsi, nel rispetto della legge e del vivere comune, in materia di affetti e scelte di vita; infatti esistono studi scientifici volti a ribadire che non esiste un solo modo di essere uomini o donne ma una molteplicità di esperienze e identità, varie nel tempo e nello spazio.

Secondo i sostenitori dell’esistenza di una ‘teoria del gender’, persino l’O.M.S. e le istituzioni del nostro Paese si muoverebbero per diffondere a scopo di indottrinamento una linea educativa volta ad azzerare le differenze di genere e ad istigare a una sessualità definita anomala, precoce e insana. In realtà è facile osservare come, ancora una volta, la sovranità delle Istituzioni laiche della Repubblica sia posta in una condizione di pressione inaccettabile in un delicato passaggio legislativo: quello legato alla proposta di legge per le unioni civili in discussione in Parlamento. Di fatto la campagna diffamatoria in atto nasconde, dietro il diritto insindacabile di credere nella famiglia tradizionale come unico modello possibile, l’odiosa pretesa che altri non abbiano lo stesso altrettanto insindacabile diritto di fare scelte diverse, dettate da orientamenti sessuali diversi, convinzioni morali, etiche e sociali non rispondenti all’omologazione convenzionale. Il punto più basso di questa campagna contro le innumerevoli forme di famiglia di cui la nostra società è composta, sarà

raggiunto il prossimo 4 dicembre a Roma, quando gli aderenti a questa campagna diffamatoria impediranno ai loro figli di andare a scuola per protesta. Si dice che in quella giornata di sciopero bianco i bambini si asterranno dalle lezioni gettando in aria i loro zainetti in segno di difesa delle scelte educative dei propri genitori. Ci chiediamo cosa proveranno in quella giornata i compagni e le compagne di classe di tutti i giorni, nel vedersi identificati come qualcosa di impuro e inaccettabile. Cosa proveranno i figli delle ragazze madri, dei ragazzi padri, dei separati, degli omosessuali, di genitori non sposati, quelli che vivono in famiglie allargate, gli stranieri. E ancora, ci chiediamo come potranno i docenti che tanto lavoro spendono quotidianamente in termini di inclusione, condivisione. La motivazione addotta dai promotori risiede nel rifiuto di riconoscere valido il disposto del comma 16 dell’art. 1 della legge 107/2015: «Il piano triennale dell’offerta formativa assicura l’attuazione dei principi di pari opportunità promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l’educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni, al fine di informare e sensibilizzare gli studenti, i docenti e i genitori sulle tematiche indicate dall’art. 5, comma 2, del decreto legge 14 agosto 2013 nr. 93 …». Denunciamo con convinzione e con apprensione estrema, la pericolosissima deriva omofoba e discriminatoria che si cela dietro l’apparente innocenza della rivendicazione di un diritto educativo di esclusiva pertinenza della famiglia. La scuola è di fatto il luogo in cui le diverse culture, inclinazioni, attitudini, esperienze vengono condivise, elaborate in una sana miscellanea di rapporti educativi e morali e declinate in arricchimenti personali dal valore inestimabile. Nelle nostre scuole vi sono studenti che appartengono a famiglie tradizionali, monoparentali, di separati, di divorziati, allargate, di omosessuali, di stranieri e molto altro ancora. Tutte le bambine e tutti i bambini, tutte le ragazze e tutti i ragazzi, hanno il diritto di essere rispettati e di veder rispettati i loro vissuti, i loro affetti, le loro inclinazioni

personali, umane e sociali. Ci preme dunque ricordare il disposto della Carta Costituzionale in materia: Art. 2 «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità ….». Art. 3 «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana…». Art. 34 «La scuola è aperta a tutti...». Esprimiamo con forza la nostra preoccupazione perché l’istigazione all’esclusione, il rifiuto di riconoscere l’altro come pari, sono inaccettabili nella nostra società e lo sono ancor di più nel contesto educativo scolastico. Il nostro appello al pubblico rifiuto di questa manifestazione di intolleranza si rivolge dunque alla società civile, alla sensibilità di coloro che hanno a cuore l’inviolabilità dei diritti di tutte le bambine e di tutti i bambini, di tutte le ragazze e di tutti i ragazzi, ma si rivolge soprattutto alle Istituzioni della Repubblica che hanno il dovere di far rispettare questo diritto. Il nostro appello si rivolge dunque, in primis, al Presidente della Repubblica Italiana, affinché eserciti con forza il suo ruolo di garante dei diritti sanciti dalla Carta Costituzionale, prima ancora che dal comune senso della giustizia sociale, e al Presidente del Consiglio e alla Ministra dell’Istruzione affinché intervengano per il ruolo istituzionale che loro compete». All’appello del Coordinamento Genitori Democratici aderiscono: Cidi, Flc Cgil, Fnism, Cgil, Legambiente, Mce, Rete Della Conoscenza, Uds, Rete Degli Studenti Medi, Link, Proteofaresapere, Agedo, Famiglie Arcobaleno, Arci, Udu.


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informazione

La guerra in tv di Vincenzo Vita esperto di comunicazione

Molto severo il giudizio autorevole di Vittorio Roidi sulla copertura televisiva della tragedia di Parigi. Si trattava infatti di fare informazione su eventi figli dell’era veloce e digitale, non certo di un passato arcaico e arretrato. Tant’è che i video dell’Isis sembrano confezionati da uno studio pubblicitario. Del resto, sotto le vesti tribali e i turbanti che inquietano l’immaginario occidentale, non mancano giovani europei. Ecco il punto, allora. La media mediatica nell’approccio ad un fenomeno così lontano dagli archetipi consueti è vittima di uno spiazzamento. Abituato a narrare omicidi singoli o plurimi, eccidi inerenti ai conflitti tradizionali, il flusso non sa come raccontare il nuovo terrorismo dell’epoca globale, confuso con l’Islam e ridotto ad una deviazione religiosa estremista. In verità, si è vista la distanza abissale tra la realtà e la sua rappresentazione. Troppo deboli e sommarie sono le culture geopolitiche e il giornalismo non riesce a tenere il passo della globalità. A parte il caso di taluni

talk trasformatisi persino nella tragedia in mediocre operetta. La quantità non è mancata. Il 13 novembre la Rai ha avuto 37,3 milioni di contatti, con un incremento di 1 milione rispetto al venerdì precedente. Il giorno dopo si è arrivati a 40 milioni, stesso tetto toccato domenica. Se li sommiamo con le reti private, e pur considerando un ampio zapping, è lecito azzardare che pressoché tutti gli italiani abbiano seguito le news televisive. Non contro la rete, bensì con la rete. Proprio Internet si è confermato cruciale per riannodare i fili di comunicazioni interrotte, per garantire un network democratico. La dieta mediale si è allargata. Tablet e Iphone hanno messo in circolazione documenti audiovisivi essenziali per la conoscenza e la memoria. Tuttavia la tv, che ci avvolge con le non stop e ci assale con l’onnipresenza, poco ci dice su che accade e perché, prigioniera della sintassi della cronaca nera. La guerra in diretta a sua volta, come hanno rilevato la sociologa Sara Bentivegna dopo la prima

avventura nel Golfo e il bel volume sui Linguaggi della guerra del semiologo Federico Montanari, non sfugge ai rischi di manipolazione e di soggezione alle strategie comunicative delle parti in campo. E, attenzione, proprio Daesh sembra provvista di una notevole capacità sul terreno dei media, vecchi e nuovi. Serve, dunque, un cambio di passo nella qualità dell’offerta e nella ricerca delle competenze necessarie. Osservare l’obbligo della verità, quando quest’ultima si fa scomoda perché ci interpella sulle scelte abnormi fatte dall’occidente in Iraq, in Afghanistan, in Libia o in Siria o sulle diffuse complicità dell’industria delle armi, è il dovere primo. È stata ricordata - a proposito di un terribile titolo di Libero - la Carta di Roma, un importante riferimento per la deontologia. È urgente, però, battersi per un’informazione sempre indipendente e libera. Per evitare che «L’état d’urgence permanent» evocato da Hollande non si risolva in un’eterogenesi dei fini. Guai a rispondere alla violenza con la censura. Sarebbe la resa.

L’anteprima di Left, sabato in edicola «Il padrone mi ha detto che dovevo lavorare alle sue condizioni o mi mandava via». Comincia così il racconto di una delle tre donne, vittime del caporalato, che Left racconta in esclusiva nella sua cover. Sono le nuove schiave d’Italia, le lavoratrici immigrate non solo obbligate a lavorare nei campi a ritmi forzati ma anche vittima di violenza sessuale. Chi si rifiuta è punita con un lavoro ancora più duro e in nero. Storie di violenza e umiliazione, e di un sistema illegale che fatica a uscire dal cono d’ombra. Left snocciola cifre, pareri di esperti, esperienze di imprenditori che si ribellano e ricerche come quella della Cgil di Grosseto che svela una gigantesca rete di caporali in Maremma. Infine il ministro delle Politiche agricole

Maurizio Martina a Left parla del nuovo disegno di legge appena approvato dal governo che prevede pene più dure, compresa la confisca dei beni degli imprenditori. Dall’inizio dell’anno l’Italia ha espulso 60 persone sospettate di terrorismo, i controlli sono aumentati e c’è chi lancia l’allarme sul fatto che in nome della sicurezza si riduca la libertà dei cittadini: Left fa il quadro delle «conseguenze del terrore» in Italia dopo gli attentati di Parigi. Come vivono i musulmani italiani questa situazione emerge poi dall’intervista a Silvia Layla Olivetti che ha scritto il libro Diario di uno Jihadista italiano. Ancora una donna che parla, Marisa Garofalo, sorella di Lea, la testimone di giustizia uccisa dal marito, che lancia forti critiche a chi poteva aiutare la sorella, compresa Libera, critiche alle quali replica Don Ciotti. Infine, la storia di Adriano Farano, giovane imprenditore campano che ha conquistato la Silicon Valley. Negli Esteri Left dedica un focus alla conferenza sul clima di Parigi, con un’analisi di Marica Di Pierri (A Sud) e una intervista

a May Boeve, direttrice di 350.org, una delle figure emergenti dell’ambientalismo globale. E ancora: l’analisi delle mosse di Hollande in Medio Oriente, la testimonianza di un cameraman al servizio dell’Isis. E la battaglia di Jaha Dukureh tornata in Gambia per combattere le mutilazioni genitali femminili. «Una storia inspiegabile - scrive il direttore Ilaria Bonaccorsi nel suo editoriale - di mutilazioni fisiche ma di identità integra, per cui tutto diventa possibile e il mondo cambia». In Cultura l’editore Sandro Ferri (E/O) spiega come è riuscito a conquistare il pubblico in America. E ancora: il regista Pietro Marcello svela il suo film Bella e perduta, Bebo Storti la sua ultima fatica teatrale Tacco 12, su una donna che fa a pezzi gli uomini («una vendetta che faremmo bene a temere»), Mario Martone sull’opera The Bassarids di Henze e un Frankie Hi-nrg inedito che va allo Zecchino d’Oro. Per la scienza la sfida della fotosintesi artificiale che, se realizzata, ci libererebbe per sempre dai bisogni energetici.


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Tre corti prodotti da circoli Ucca al Torino Film Festival di Roberto Roversi presidente nazionale UCCA

Non è la prima volta che accade ed auspicabilmente succederà ancora, ma certo è con grande soddisfazione che possiamo annunciare che ben tre lavori prodotti da circoli Ucca sono stati selezionati al Torino Film Festival. È motivo di orgoglio per l’intera associazione, ma il nostro plauso va soprattutto a quelle realtà che hanno testardamente combattuto contro mille difficoltà per portare a termine i loro progetti e che ora meritatamente possono godere di una vetrina di assoluto prestigio. Entrando nel dettaglio, ben due film (Rino - La mia ascia di guerra e Irra-

waddi Mon Amour) portano il marchio di Metavisioni, l’associazione di promozione sociale bergamasca che si ispira a principi di solidarietà, diritti umani, formazione, creatività ed ecologia. Un collettivo di film-makers, operatori e montatori video, musicisti e tecnici del suono, foundraisers, produttori, artisti, ricercatori delle scienze umane e antropologiche che produce e promuove materiale video e fotografico nel campo della fotografia sociale e di reportage, del documentario e della fiction cinematografica. Il terzo corto, Il Foglio, è frutto del lavoro

inesausto di quella straordinaria fucina culturale che è Arci Movie di Ponticelli. E in particolare di FILMaP, il centro di formazione e produzione che organizza laboratori di cinema per bambini e ragazzi condotti da filmmakers napoletani, percorsi orientati al Cinema Documentario, per giovani dai 18 ai 28 anni, con il coordinamento scientifico del regista Leonardo Di Costanzo, e funge da punto di riferimento tecnico per il noleggio di attrezzature, con personale specializzato per la realizzazione di produzioni di diversa natura.

amava la natura e i cavalli, affascinato dal cinema. La prima persona che ha intuito che un giorno avrei raccontato delle storie».

protagonisti, perché crediamo sia la modalità migliore per cogliere la repressione che aleggia e che si insinua nelle menti delle persone, pur rimanendo invisibile: una minaccia quasi impalpabile, ma non per questo meno angosciosa».

I tre film Rino - La mia ascia di guerra di Andrea Zambelli (33^TFF - Sezione: Italiana.Doc)

Irrawaddi mon amour di Valeria Testagrossa, Nicola Grignani, Andrea Zambelli (33^TFF – Sezione: Italiana.Doc)

Andrea da bambino aveva un eroe: Rino. Partigiano, comunista, diverso da tutti, Rino è stato il suo mentore. Da anni pensava di realizzare un film su di lui, ma oggi Rino non può raccontare nulla: il morbo di Alzheimer gli ha cancellato i ricordi. L’eroe di ieri oggi è un anziano da accudire: ma proprio per questo il progetto filmico sarà più complesso, profondo e sofferto. Il commento del regista: «Rino è stato per me il nonno che non ho mai avuto. Insieme abbiamo iniziato questo film vent’anni fa, senza rendercene conto. Rino mi ha dato in mano la sua telecamera video8, e con quella ho cominciato a filmarlo, nella convinzione che fosse importante raccontare la sua storia. […] Quando due anni fa Rino ha perso la memoria mi sono deciso a terminare il film, recuperando tutto quello che avevamo girato insieme e ricercando in casa sua le Vhs e i Super8 girati da lui. In quel materiale ho scoperto un Rino che non avevo mai conosciuto. Non l’eroe partigiano, ma un uomo tranquillo, che

Soe Ko e Saing Ko decidono di sposarsi, sostenuti dall’attivista Myo Nyunt. Si tratta della prima unione gay in Birmania: una scelta coraggiosa per affermare il diritto di amare in un Paese dove la libertà è ancora una chimera. Il commento dei registi: «Come in ogni lotta, la dimensione collettiva nasce dal bisogno personale di qualcuno. Abbiamo sentito vicina a noi la scelta di Myo Nyunt, Soe Ko e Saing Ko di affermare se stessi, i propri sogni, e combattere per un futuro migliore in un contesto avverso. Ci è sembrato un grido di libertà in un Paese governato da oltre mezzo secolo da una élite militare. […] Volevamo raccontare questa storia con uno stile poetico e a tratti sospeso, convinti si trattasse dello stile più appropriato per raccontare la delicatezza di questo amore. Usiamo la camera a mano per seguire i

Il foglio - di Silvia Bellotti (33^TFF – Sezione: Italiana. Corti) È notte, la città è silenziosa e le saracinesche dei bar sono ancora abbassate. Ma in via Oberdan, a Napoli, cominciano ad arrivare persone che segnano il proprio nome su un foglio attaccato al muro. Si tratta del preziosissimo elenco con il quale, in base all’ordine di arrivo, si entrerà negli uffici dell’Agenzia delle Entrate. Con questo semplice atto di autorganizzazione, persone di ogni età, provenienza e situazione economica costituiscono ogni giorno una vera e propria società democratica. Una società che si fonda su un foglio, dura lo spazio di poche ore e, come ogni associazione umana, è animata da conflitti, tensioni e solidarietà. Il commento della regista: «Desideravo fare un film sulla burocrazia italiana dal punto di vista dei cittadini. Ho scelto allora di raccontare una delle possibili strategie di sopravvivenza che le persone mettono in atto per supplire a un’inefficienza dello Stato. Il foglio osserva la fila che si crea e si organizza autonomamente fuori da un ufficio pubblico, che è la conseguenza di quello che accade dentro e, al contempo, l’espressione di quel che accade fuori, nella società». www.ucca.it


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laparolaaipresidentideicomitati

I presidenti raccontano i loro comitati

Continuiamo a pubblicare, dopo l’Assemblea dei comitati che si è svolta a Roma il 10 e 11 ottobre, gli interventi dei Presidenti dei comitati perchè raccontino la propria esperienza e che cosa si aspettano dalla direzione nazionale. Su questo Arcireport, i contributi di Alessio Artico, presidente Arci Savona e Vincenzo D’Antuono, presidente Arci Como di Alessio Artico presidente Arci Savona

58 anni e non dimostrarli….il comitato Arci Savona nasce dalla tradizione delle Società di Mutuo Soccorso nel 1957, lo stesso anno in cui si svolge a Firenze l’Assemblea costituente dell’Arci a livello nazionale. Arci Savona ha un forte radicamento territoriale nel capoluogo di provincia, nelle cittadine limitrofe e nell’immediato entroterra, basato su una rete di 76 realtà che contano più di 13.000 soci. Una rete che ha solide radici nella tradizione mutualistica, nella solidarietà, nell’antifascismo, nella lotta alle discriminazioni, nella tutela dell’ambiente e dei diritti umani. Una rete in cui il comitato svolge un doppio fondamentale ruolo: verso l’interno perché Arci Savona è formata da Società di Mutuo Soccorso e circoli che sono sostenuti attraverso dei servizi di consulenza forniti direttamente dal comitato; verso l’esterno perché Arci Savona è impegnata in molte iniziative. Comitato e circoli sono protagonisti, con il Comune, dei due più importanti progetti di riqualificazione culturale realizzati a Savona negli ultimi anni e che hanno determinato la nascita di un polo culturale (Officine Solimano) e di una sala registrazione (Music Lab) dove prima c’erano locali non più usati. Comitato e Circoli si impegnano nel sociale: nei progetti a

favore dell’invecchiamento attivo; nella raccolta e distribuzione di materiale scolastico; nel sostegno ai migranti bloccati a Ventimiglia; nel supporto alle realtà che lottano contro l’illegalità e le mafie, nelle iniziative contro l’omofobia e la xenofobia. Il comitato si schiera - assieme a molti circoli, associazioni e comitati - a difesa dell’ambiente nella vicenda della centrale a carbone Tirreno Power di Vado Ligure, portando avanti la richiesta di un ciclo produttivo rispettoso dell’ambiente e della legge, a tutela dei cittadini e dei lavoratori. Stiamo vivendo un periodo di crisi economica e sociale, in cui i valori proposti da Arci spesso non sono ‘di moda’ ed in cui i dirigenti volontari delle nostre basi, quotidianamente, devono risolvere numerosi problemi amministrativi, economici e legislativi. Pertanto, è fondamentale

l’azione del nazionale nel ‘fare squadra’, promuovendo campagne a favore di ideali comuni e sostenendo l’azione quotidiana dei comitati tramite seminari, incontri e corsi di formazione. Quando questo non avviene o avviene in ritardo si crea una frattura, una distanza tra i vari livelli dell’associazione che diventa controproducente per il suo sviluppo ed azione. L’Assemblea dei Presidenti dei comitati è un valido strumento che può permettere ai dirigenti di incontrarsi in un ambiente meno istituzionale del Consiglio nazionale, in cui conoscersi e scambiarsi opinioni e soluzioni a problemi comuni. Rispetto alla prima edizione, a mio avviso, il nazionale dovrebbe da un lato rivedere la preparazione dell’evento, coinvolgendo i partecipanti già nella fase preparatoria, distribuendo in anticipo il programma e permettendo una partecipazione consapevole. Dall’altro, ripensare alla gestione dell’evento, diminuendo i lavori plenari e studiando l’istituzione di gruppi di lavoro tematici in cui tutti i partecipanti potranno essere parte attiva dei lavori. Del resto, la vera forza ed il vero patrimonio dell’Arci, a tutti i livelli, è costituito dalle donne e dagli uomini che la compongono e che ogni giorno si impegnano per migliorare la realtà in cui viviamo.

di Vincenzo D’Antuono presidente Arci Como

La nostra definizione di Arci è la rete che fa rete, e, in quanto comitato di rete, partecipiamo attivamente e svolgiamo molto lavoro in diversi soggetti locali che abbiamo contribuito a fondare. I temi che in essi trattiamo costituiscono le nostre priorità: operiamo con Libera sul terreno dell’antimafia sociale; L’Isola che c’è, associazione di associazioni e produttori, sul tema degli stili di vita e delle pratiche ecologiste; il Coordinamento Comasco per la Pace, altra associazione di associazioni e comuni che opera sul terreno della pace e dell’antirazzismo. Con Anpi ed altri soggetti costituiamo poi una rete antifascista e di difesa della Costituzione. Attraverso i nostri circoli Xanadù e Ecoinformazioni, presenti nel capoluogo, esprimiamo forte presenza nel campo della

cultura e dell’informazione. Il comitato è costituito quasi completamente da volontari (disponiamo di una sola funzionaria part time) e questo non ci permette di seguire adeguatamente tutto ciò che andrebbe seguito: questo aspetto, a cui si aggiunge la scarsità di risorse economiche, rende problematico

investire in nuovi progetti e iniziative. Se riflettiamo sul contributo che Arci nazionale potrebbe dare alla nostra attività nel territorio, non crediamo si possa parlare di singoli contributi ma di politiche generali. Crediamo sia fondamentale accorciare la distanza fra l’associazione propriamente detta e le sue basi associative, andrebbe indagato meglio il territorio, bisognerebbe conoscere le esperienze e le eccellenze che si producono, farne nutrimento per le politiche dell’associazione. Un’Arci un pò più circolare e meno verticale aiuterebbe in questo. Servirebbe un grande investimento economico e politico sui regionali per metterli in grado di costruire politiche e iniziative omogenee sul territorio e stare veramente vicini ai circoli e ai comitati.


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arcireport n. 41 | 26 novembre 2015

daiterritori

Intervista a Massimiliano Bianchini neo presidente Arci Marche Raccontaci il tuo percorso associativo in Arci… Entro nell’Arci nel 1997 in qualità di coordinatore artistico della Festa della Musica per il comitato di Macerata. Tom Benetollo qualche anno dopo mi diede la responsabilità di coordinatore nazionale per la Festa della Musica. Poi ho avuto alcuni incarichi sostanzialmente amministrativi nell’Arci Marche e ho gestito, sempre per Arci Marche, il Cinema Diana di Jesi. Successivamente ho ricevuto incarichi da presidente sia nel comitato di Macerata che in quello regionale… Ricordo con sincera commozione due figure per me determinanti quali Fabrizio Giustozzi, presidente di Arci Macerata e Tom, con il quale iniziai i primi passi al Nazionale.

Successivamente sono stato un componente della Presidenza nazionale. Non sei nuovo al mandato di presidente regionale: quale esperienza ti porti dietro a cui fare riferimento nel prossimo percorso? Sicuramente sono più consapevole dell’importanza del ruolo...la prima volta che sono stato presidente regionale avevo poco più di 30 anni e so che per fare bene questo ruolo ci vuole una grande sintonia con i comitati territoriali e i consiglieri regionali. Mi fa piacere sottolineare che sono stato eletto all’unanimità. Quali saranno le principali proposte programmatiche che caratterizzeranno la tua presidenza? Prima di tutto costruiremo una progettazione condivisa in diversi ambiti

Intervista a Gianfranco Boiani, neo presidente Arci Pesaro Quando e come hai incontrato l’Arci? Nel 1993, insieme ad alcuni amici con il comune interesse per la comunicazione attraverso le immagini, fondammo a Pesaro un circolo culturale a cui attribuimmo il nome di Eidos, parola che nella filosofia greca indica la forma intesa non come apparenza ma come forma ideale e intellegibile. Nei primi anni il circolo Eidos promosse soprattutto iniziative legate alla fotografia artistica. Successivamente fu il cinema ad assumere un ruolo di primo piano nella nostra attività ed il circolo Eidos, che nel frattempo aveva aderito all’Ucca, divenne ben presto una struttura per la produzione di documentari di carattere culturale. Erano gli anni, a livello nazionale, della rinascita del cinema documentario; allora insegnavo cinema documentario all’Università di Macerata e diversi studenti che avevano frequentato i miei corsi e giovani neo-laureati aderirono al circolo, collaborando nella realizzazione di documentari su temi come la storia dell’arte e la storia contemporanea, in particolare il racconto delle vicende della Resistenza. Quali difficoltà vive attualmente la provincia di Pesaro, rispetto alle quali l’Arci può stabilire delle priorità di intervento? Penso che nella provincia di Pesaro, così

come in tutto il paese, la questione più profonda sia di carattere culturale. Ciò è ancora più evidente in questi giorni, dopo le stragi di Parigi, in quanto occorre superare le logica della paura e della diffidenza, e lo si può fare solo attraverso la conoscenza, l’incontro e il dialogo tra le diverse culture e visioni del mondo. L’Arci ha una storia che viene da lontano e che affonda le sue radici nel mutualismo ottocentesco e nell’Italia del dopoguerra, nata dalla Resistenza; una storia che va valorizzata in quanto non si costruisce il futuro senza memoria. La società attuale ha subito, tuttavia, trasformazioni profonde soprattutto nella sfera della comunicazione. Oggi quando si parla di social si intende Facebook, Twitter, WhatsApp; la socialità passa attraverso le tecnologie, attraverso la rete. Di fronte ai mutamenti profondi che la società sta attraversando, la nostra associazione ha l’esigenza di una trasformazione che metta al primo posto la cultura, l’innovazione, la creatività attraverso un uso consapevole dei nuovi media. Solo così può continuare ad essere quel laboratorio di idee, di esperienze e di sperimentazioni che costituisce forse la sua più grande ricchezza.

(sociale, culturale, immigrazione). Inoltre il consiglio regionale si è rinnovato fortemente e ci sono stati alcuni importanti rientri (Carlo Pesaresi). Siamo in una fase molto positiva nelle Marche in quanto ad Ancona Michele Cantarini, che ha retto il territoriale in un momento complicato, ora può dedicarsi al regionale. A Jesi e Senigallia (grazie a Bugari e Montesi fra gli altri) si sono create le condizioni politiche perché si sentissero coinvolti in prima battuta nell’Arci Marche. A Pesaro, grazie al lavoro anche di Ornella Pucci, c’è una nuova fase politica con il neo presidente Gianfranco Boiani. Infine a Macerata che ha avuto un boom di tesserati c’è un personale politico e associativo di importante profilo.

Iniziativa a Ginosa Il 26 novembre alle 17 al Teatro Metropolitan di Ginosa (TA) ci sarà l’iniziativa Scotellaro, Levi, De Martino: il Meridione tra questione e innovazione. Parteciperanno gli alunni degli Istituti ‘G. Calò’, ‘Deledda-Bosco’, ‘R. Leone’, ‘M.Bellisario’. Per l’Arci interverranno la presidente nazionale Francesca Chiavacci e il presidente Arci Puglia Davide Giove.

Diritti, ambiente, salute Nei giorni in cui si svolge la conferenza di Parigi sui cambiamenti climatici, Arci Cremona, il circolo Arcipelago, la Lega di Cultura di Piadena e la rete territoriale ‘Nutrire il pianeta è nutrire la pace’ organizzano Terra e libertà. Diritti, ambiente, salute ai tempi della globalizzazione, due serate sui temi dell’agroecologia, dello sviluppo sostenibile, del cibo come diritto, dei cambiamenti ambientali. Da Cremona a Parigi, dalla pianura padana all’economia globale, uno sguardo sul futuro del pianeta e sulle trasformazioni del paesaggio nelle nostre terre. Martedì 1 dicembre, alle ore 21, è prevista la prima serata, intitolata Fra la Via Emilia e il West, con la proiezione del documentario Food, Inc. di Robert Kenner. Venerdì 11 dicembre, sempre alle 21, sarà proiettato Il colore della bassa, documentario di Giuseppe Morandi. Seguirà un incontro con Gianni Tamino, ambientalista, docente universitario, già parlamentare europeo. I due incontri si terranno a Cremona, presso Luogocomune - Centro Sociale Culturale Arci. Ingresso con tessera Arci 2015. FB Arci Cremona


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arcireport n. 41 | 26 novembre 2015

culturascontata i tanti vantaggi della tessera Arci

w w w. a r c i / a s s o c i a r s i . i t a cura di Enzo Di Rienzo

Festival dei Popoli 56° edizione Firenze - Cinema Odeon, dal

27 novembre al 4 dicembre. L’attività dell’associazione Festival dei Popoli consiste in primo luogo nell’organizzare a Firenze il principale festival internazionale del film documentario in Italia. L’edizione 2015 prevede una sezione del programma dedicata alle derive e agli approdi dei migranti contemporanei. È tratto comune a tutti i film che vengono presentati la compresenza di un’elevata qualità tecnica ed estetica insieme ad un preciso taglio personale. www.festivaldeipopoli.org

società

Le forme nella città Dalle opere di Pasolini Ottava edizione di Strati della Cultura Forlì 26 - 27 - 28 novembre 2015 Strati della Cultura è l’appuntamento nazionale che l’Arci organizza ogni anno per confrontare le proprie proposte sulla ‘promozione culturale’ con il mondo delle istituzioni, della politica, della cultura. L’edizione di quest’anno, intitolata Le

locali. Sarà anche l’occasione per fornire strumenti per migliorare l’efficacia delle esperienze associative dell’Arci che promuovono progetti culturali e creativi. Un focus particolare sarà dedicato alla figura di Pier Paolo Pasolini, intellettuale,

forme nella città, si svolgerà a Forlì dal 26 al 28 novembre. La nostra associazione è impegnata nella promozione della cultura con reti tematiche come Arci Teatro, Arci Real-Rete, Arci Musica Live, Arci Book per la promozione della lettura, UCCAUnione dei Circoli del Cinema dell’Arci, reti che coinvolgono oltre 2.000 circoli che organizzano prevalentemente attività culturali. L’edizione 2015 si concentrerà sulle politiche a sostegno del sistema culturale e della creatività, con una particolare attenzione alle nuove forme organizzative complesse che coinvolgono associazionismo, start-up innovative, imprese profit e non profit e ruolo che queste svolgono nei progetti di rigenerazione urbana. Da tempo riteniamo che creatività, cultura e conoscenza, possano diventare gli elementi principali per un nuovo sviluppo sociale ed economico del nostro Paese. Già oggi esistono energie creative straordinarie che si esprimono in forme anche non convenzionali ed intersecano mondi diversi come quelli dei co-working, dei fablab, dell’auto-organizzazione associativa, del recupero di spazi urbani abbandonati o inutilizzati e delle produzioni culturali diffuse. Riteniamo urgente assumere politiche attive per il sostegno delle pratiche e delle produzioni culturali e della conoscenza come una delle priorità dell’oggi per dare risposte concrete all’emergenza occupazionale dei giovani e per produrre reali innovazioni dei processi culturali, produttivi e sociali. Anche in questa edizione il confronto su questi temi coinvolgerà enti ed istituzioni, intellettuali ed esperti, con grande attenzione al ruolo delle amministrazioni

scrittore, regista e poeta scomparso 40 anni fa. Pasolini ha affrontato molti dei temi oggetto di questo appuntamento a partire dalla riflessione sulle trasformazioni urbane ne La Forma della Città. Un’occasione per riflettere sullo straordinaria eredità intellettuale ed artistica del poeta.

50 giorni di Cinema Internazionale Firenze - Cinema Odeon, dal 29

ottobre al 13 dicembre. La 50 Giorni di Cinema Internazionale è nata con l’intento di regolare e raccordare fra loro ben 5 festival internazionali che si svolgono a Firenze in autunno: il France Cinéma, il Festival Internazionale Cinema & Donne, il Festival dei Popoli, River to River, Florence Indian Film Festival e il conferimento del Premio Città di Firenze indetto dal New Italian Cinema Events (NICE) Festival. L’iniziativa prevede 50 giorni di proiezioni ininterrotte fra retrospettive, anteprime, festival, incontri, film original sound, documentari, video d’arte. www.50giornidicinema.it

Roma Gospel Festival Roma - Auditorium Parco del-

la Musica, dall’8 al 31 dicembre. Il Roma Gospel Festival è ormai diventato il più grande festival di gospel d’Europa.Il gospel è una musica popolare in continua evoluzione che si misura con i temi sociali, le mode e le tendenze musicali passando dal soul, al r&b, al pop, pur rimanendo pervasa dai suoi valori morali espressi con gioia, tutto ciò fa sì che ogni concerto diventa una esperienza unica e coinvolgente. www.auditorium.com

Fotografia - Festival Internazionale XIV Edizione Roma - Macro, via Nizza, fino al 17

gennaio 2016. La XIV edizione del Festival affronta il tema del Presente. In un mondo in costante e repentina accelerazione, la pratica fotografica si presenta come arte privilegiata per fissare e definire il presente, per osservarlo e per delimitarne i confini. www.museomacro.org

arcireport n. 41 | 26 novembre 2015 In redazione Andreina Albano Maria Ortensia Ferrara Direttore responsabile Emanuele Patti Direttore editoriale Francesca Chiavacci Progetto grafico Avenida Impaginazione e grafica Claudia Ranzani Impaginazione newsletter online Martina Castagnini Editore Associazione Arci Redazione | Roma, via dei Monti di Pietralata n.16 Registrazione | Tribunale di Roma n. 13/2005 del 24 gennaio 2005 Chiuso in redazione alle 17 Arcireport è rilasciato nei termini della licenza Creative Commons Attribuzione | Non commerciale | Condividi allo stesso modo 2.5 Italia

http://creativecommons.org/licenses/by-nc-sa/2.5/it/


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