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Atlantide, l'isola misteriosa

Gli antichi greci sostenevano che tanto tempo fa, al di là del Mediterraneo, c’era un’isola così vasta da sembrare un continente. L’avevano saputo dai loro padri, informati al riguardo dai figli dei figli…

Insomma, oltre le Colonne d’Ercole, che corrispondono per noi allo stretto di Gibilterra, da qualche parte nell’immenso oceano sorgeva Atlantide, la terra delle meraviglie.

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E questa è la sua storia.

Dovete sapere che Zeus, il padre degli dei, amava la bellezza. Perciò aveva arricchito la Terra con fiori, alberi, animali di una tale diversità e perfezione da lasciare sbalorditi. Ci aveva messo anche uomini e donne, pure loro diversi e belli nella loro diversità.

Zeus, dall’Olimpo, il monte dove risiedevano gli dei, contemplava le proprie creature con occhio benevolo. Ma non lo fece a lungo. Ben presto egoismo, cupidigia, invidia, cattiveria ebbero il sopravvento fra gli uomini: scoppiarono guerre sanguinose e i bei prati verdi si colorarono di rosso. – Ecco come mi ringraziano, quegli ingrati! – disse, allora, Zeus agli dei, riuniti a banchetto nella sala con le pareti d’oro.

– Cioè? – chiese la bella figlia, Afrodite.

E Zeus continuò: – Gli uomini, invece di apprezzare quanto ho dato loro, non si accontentano, vogliono di più, e si strappano l’un l’altro i doni ricevuti. – Perché non li punisci, padre? – consigliò la splendida Atena, che in cuor suo gioiva per quanto succedeva in Terra. Lei, infatti, era la dea della guerra e non si lamentava affatto se nei campi non crescevano più i fiordalisi… – Oh! – commentò Zeus. – Preferisco scordare tutto, che si azzuffino pure quegli ingordi, assetati di ricchezze e potere!

Intervenne a questo punto la saggia Era: – Ma come? Abbandoni a se stessa la Terra, che consideravi un gioiello, la tua opera più perfetta? – Che delusione! E tutto per colpa degli uomini! Ah, però adesso non solo li sistemo, ma mi diverto anche! – Come farai, potente Zeus? – chiesero in coro gli dei che banchettavano felici. Lo stettero ad ascoltare con il sorriso sulle labbra. – A tutto c’è rimedio, se un mondo si guasta, subito è possibile crearne un altro, ancora più bello.

In un baleno, Zeus decise di creare l’universo più straordinario che fosse mai esistito: Atlantide. Dopo che gli dei lasciarono la sala per andare a dormire negli splendidi letti intarsiati con gemme preziose, Zeus si affacciò sul mondo. Fluiva nel vento la sua lunga barba, mentre dalla soglia guardava con tenerezza l’universo infinito. C’era Urano con il manto stellato che abbracciava Gea, la Terra. C’erano i monti ricoperti dalle nevi perenni, c’erano i mari e i laghi dove nuotavano le tante famiglie di pesci. Contemplò anche i deserti, il potente dio, senza di-

menticare boschi, stagni, praterie e le terre dei ghiacci perenni. Ma, quando scorse gli uomini che anche di notte si scannavano, s’infiammò d’ira. – Basta, basta: qui ci vuole un altro mondo! – esclamò.

Sollevò, quindi, lo sguardo nello spazio infinito dove si perdevano migliaia di galassie. Là si trovava il necessario per il nuovo mondo: ossigeno, idrogeno, ferro, oro e argento, nonché un’infinità di metalli; quindi, vapori e altri liquidi che si mischiavano in molteplici forme, simili a lembi di nubi. Zeus, con un soffio, ne fece cadere una minima quantità nel vasto oceano. I metalli divennero suolo; i vapori si trasformarono in acqua, assumendo la forma di fiumi e laghi; poi sorsero le montagne e le pianure.

Zeus sorrise e mille fiori sbocciarono nei prati. Il profumo arrivò fin lì, sull’Olimpo.

Da ultimo, Zeus lasciò nell’incantevole isola Clito, una fanciulla altrettanto incantevole.

Passa un giorno e passa l’altro, le stagioni si susseguivano, i semi mettevano radici nel suolo, spuntavano i germogli e le tenere foglioline, poi venivano i fiori e i frutti che la bella Clito mangiava in riva al mare.

Un giorno Poseidone, il dio del mare, passò davanti all’isola. Frenò il cocchio a forma di conchiglia, tirando le redini: gli ippocampi, mostri marini per metà cavallo, per metà serpenti, subito si fermarono.

I capelli ricci del dio, bianchi come la spuma del mare, si sollevavano alla brezza, ma erano l’unica cosa che si muoveva perché Poseidone, vista Clito su uno scoglio, era rimasto come folgorato dalla sua bellezza. Impalato, con il tridente in mano,

la guardava sbalordito.

A Clito, intanto, non era sfuggito lo splendore del cocchio dorato e, siccome sull’isola non aveva compagnia, così gli parlò: – Straniero, fermati un po’ con me, vieni a riva!

Il tridente cadde di colpo e gli ippocampi, che avevano sentito, ridendo portarono Poseidone in spiaggia, veloci come il lampo.

Da quel giorno Poseidone non fece altro che andare a trovare Clito. Lasciava gli ippocampi a giocare nel mare con Naiadi e Tritoni, altre creature marine, mentre lui corteggiava la fan-

ciulla.

Spesso lei gli chiedeva: – Se mi ami, cosa farai per me? – Trasformerò quest’isola in un luogo ancor più delizioso: farò costruire una reggia degna di te e dei nostri figli, se acconsentirai a sposarmi. Proprio al centro, sorgerà una splendida città con palazzi e templi e giardini meravigliosi e teatri e biblioteche e piazze per i mercati e luoghi per gare e giochi.

Poseidone pregò la fanciulla con tanta insistenza che alla fine Clito acconsentì alle nozze. Zeus, cui nulla sfuggiva, fu contento: quella splendida terra si sarebbe ben presto popolata. Così, infatti, avvenne. In alto, al centro dell’isola, si ergeva una città circondata da mura e da un triplice fossato. Più in basso, sgorgavano due sorgenti, l’una di acqua fredda e l’altra di acqua calda. Nei campi, a valle, crebbero piante rigogliose come magnolie, cedri, acacie, camelie, querce e sequoie. Dall’alto delle mura era delizioso contemplare quel mare di foglie. Poseidone e Clito vissero felici molti anni. La reggia risuonava delle grida di tanti bambini. Infatti, i due ebbero dieci figli, tutti maschi.

Quando raggiunsero la maggiore età, Poseidone, serio, fece loro questo discorso: – Dividerò questa terra fra voi in modo giusto. Inizio con te, Atlante. Tu avrai la parte centrale.

A lungo Poseidone parlò ai figli. Tutto sembrava sistemato per il meglio. Atlante fu anche nominato re: perciò, quell’isola da lui si chiamò Atlantide.

Il saggio re continuò l’opera del padre, innalzando sontuosi palazzi circondati da stupendi giardini. Fece poi arrivare, da terre lontane, elefanti, gazzelle, giraffe e ippopotami che sistemò nei tanti parchi dell’isola. Insomma, di generazione in generazione, gli abitanti di Atlantide divennero sempre più ricchi e sembravano i più felici della Terra. Ma era vero? Bastavano loro i palazzi di marmo, con vasti saloni arredati da mobili d’oro e avorio? Bastavano le città con così tante botteghe da far invidia ai visitatori che giungevano da paesi lontani? Bastavano forse i campi fertili che donavano messi in abbondanza e quel mare con così tanti pesci che era sufficiente immergervi le mani per pescarli?

Sembravano felici gli Atlantidi, ma non lo furono a lungo, perché a poco a poco divennero incontentabili. Ebbene, tutti quei doni che avevano ricevuto di colpo non bastarono più. Uomini e donne camminavano per strada e se il mattino si presentava limpido e caldo dicevano: – Che tempo! Sempre uguale, mai che ci sia una bella tempesta che scoperchi le case o faccia crollare qualche albero centenario!

Agli stranieri che ammiravano le loro città confidavano: – Sì, i palazzi sono belli, però ci vorrebbe più oro all’interno,

più affreschi, più colonne di marmo.

L’insoddisfazione serpeggiava nell’animo di chi aveva ogni bene, senza fatica. Qualcuno iniziò ad armare delle navi per compiere delle scorribande in altre parti della Terra.

Molti tornavano con gli animali più strani, con casse zeppe di pietre preziose, bauli con le stoffe più pregiate. E ci fu chi provò una tale invidia da decidere di rubare agli altri le ricchezze accumulate. In breve, ad Atlantide si passò dalla pace a uno stato di guerra perenne. Ci si assassinava per un pugno di monete d’oro. E si desiderava sempre più la roba altrui. Più si aveva e più si desiderava possedere. Accecati dalla follia del

possesso, gli Atlantidi infine, con una flotta così vasta da oscurare l’orizzonte, varcarono le Colonne d’Ercole per dare l’assalto ai popoli del Mediterraneo. Volevano spogliarli di ogni bene. – No, non è possibile che io tolleri la vostra ingordigia! – urlò Zeus. – Che siate dannati, Atlantidi! Di voi, a cui avevo regalato una vita felice, cancellerò ogni traccia! All’improvviso il cielo si oscurò. Lampi squarciarono le nubi, mentre i tuoni facevano tremare la Terra. I venti del Nord sollevarono ondate gigantesche.

Dalla prua delle navi i comandanti avvistarono un muro d’acqua che correva verso di loro. – Ammainate le vele! – fecero appena in tempo a ordinare ai marinai prima che l’onda gigantesca li investisse.

Per un attimo, comandanti ed equipaggi videro la schiuma sulla cresta dell’onda e poi l’abisso verde che si chiudeva sopra i loro capi. L’urlo del vento e il fragore delle onde sovrastarono le voci disperate degli uomini. Nessuno si salvò, l’oceano inghiottì anche i legni e le vele.

E ad Atlantide cosa stava succedendo?

Anche là il cielo si oscurò. Uomini, donne e bambini guardarono in alto, portando le mani agli occhi, stupiti. – È la prima volta che vedo il cielo così nero – disse un bambino alla sua mamma. – Non è niente – rispose un uomo, che era stato al mercato per vendere le sue stoffe. Aveva fretta di tornare al magazzino e la gente non lo lasciava passare. – Se fossi in lei, lascerei il carro e mi rifugerei al coperto – suggerì la donna che teneva per mano il bambino. Irritato, il

mercante le rispose: – Devi essere una straniera, non sai che qui ad Atlantide non c’è mai brutto tempo?

Voleva ribattere la donna, ma non poté: di colpo la città venne inghiottita da un buio spaventoso. Si udì un boato e il suolo incominciò a tremare. Prima crollarono le colonne di marmo, poi le facciate dei palazzi si accartocciarono su se stesse. Si aprirono voragini nelle strade, inghiottendo i passanti. Si squarciarono i muri della reggia; crollarono i soffitti d’oro; sugli affreschi si aprirono vaste crepe prima che i dipinti si sbriciolassero; i mosaici vennero spazzati via perché ormai le crepe correvano anche lungo i pavimenti. Quindi, caddero le statue che adornavano i ponti e si frantumarono in mille pezzi. Anche le potenti mura della città crollarono e le fontane gonfie d’acqua sommersero i parchi.

Un fiume d’acqua iniziò a scendere dal cielo, mentre tutti correvano disperati in cerca della salvezza. Ma nessuno venne risparmiato. Chi si rifugiava nei templi morì travolto dai blocchi di marmo che cadevano dall’alto; chi rimaneva nella propria casa scivolava con essa nelle viscere della terra; chi si rifugiava nei campi veniva calpestato dagli animali impazziti; chi correva al porto annegava in mare perché le banchine si spaccavano. I boschi si trasformarono in paludi, tanta fu la pioggia che cadde dalla volta celeste: i fiori marcirono, gli alberi crollarono. Ovunque si udivano lamenti, i primi giorni forti, poi sempre più deboli.

Una fitta nebbia avvolse ogni cosa, mentre non smetteva di piovere. Di giorno non si scorgeva il sole, di notte non si vedeva la luna. Li coprivano nubi perenni. Quando iniziarono a

sgretolarsi le montagne, i pochi sopravvissuti non se ne accorsero, perché da giorni il suolo rimbombava di un suono spaventoso. Vennero distrutti anche i villaggi degli altopiani. Poi il mare prese ad avanzare, un’onda dietro l’altra. Guadagnava terreno di ora in ora, o forse era la terra che sprofondava.

In breve l’acqua marina arrivò fino alla reggia di Poseidone e Clito. Le macerie dell’antico palazzo si inabissarono con un gorgoglio, l’ultimo suono di Atlantide, che scompariva per sempre.

•Rispondi.

• Di che cosa parla il mito? • Che tipo di divinità è Zeus? È buono, disponibile, attento ai bisogni degli uomini, oppure è anche lui vittima dei propri sentimenti? • Qual è la morale di questo mito?

Immagina che Poseidone, dio del mare, scriva una lettera al potente Zeus e lo convinca a placare la sua ira nei confronti degli Atlantidi.

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