Guerrieri di Roma La vita, le battaglie, il valore degli uomini che forgiarono una civiltà e fondarono un Impero.
Guerrieri di Roma Copyright © 2009 Area51 Publishing Srl All rights reserved. Collana: Spirito Guerriero Testi: Marco Busetta Traduzione e adattamento dal latino: Marco Busetta Traduzione e adattamento dal greco: Simone Bedetti Cover Illustration: © Waltraud Ingerl – www.istockphoto.com Cover design by Matteo Zuffolini Published 2009 by Area51 Publishing srl at Smashwords www.area51publishing.com Smashwords Edition 1.0, December 2009 Questo e-book è solo per uso personale. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta o memorizzata in sistemi d’archivio, o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo, noto e futuro, senza l’autorizzazione scritta da parte di Area51 Publishing e ad eccezione di brevi passaggi per recensioni. Se intendi condividere questo e-book con un’altra persona, scarica legalmente una copia per ciascuna delle persone a cui lo vuoi fare conoscere. Se stai leggendo questo e-book e non lo hai acquistato, accedi a www.area51publishing.com e acquista legalmente la tua copia. This e-book is licensed for your personal enjoyment only. This e-book may not be re-sold or given away to other people. If you would like to share this e-book with another person, please purchase an additional copy for each person you share it with. If you’re reading this e-book and did not purchase it, or it was not purchased for your use only, then you should return to www.area51publishing.com and purchase your own copy. ~~~~
Indice dei guerrieri . XII secolo a.C. Enea Ascanio . VIII secolo a.C.
Romolo (771-716 a.C.) . VII secolo a.C. Orazi . VI secolo a.C. Orazio Coclite Lucio Giunio detto Bruto (545-509 a.C.) Muzio Cordo Scevola (ca. 530 a.C.) Coriolano (527-490 a.C.) Cincinnato (ca. 520 a.C.) . V secolo a.C. Furio Camillo (446-365 a.C.) Marco Curzio (ca. 400 a.C.) . IV secolo a.C. Manlio Torquato Imperioso (ca. 390 a.C.) Decio Mure (m. 295 a.C.) Curio Dentato (330-270 a.C.) Fabrizio Luscino (ca. 310 a.C.) . III secolo a.C. Atilio Regolo (299-250 a.C.) Fabio Massimo (275-203 a.C.) Marco Claudio Marcello (268-208 a.C.) Scipione L’Africano (235-183 a.C.) Catone il Censore (234-149 a.C.) . II secolo a.C. Scipione Emiliano (185-129 a.C.) Mario (157-86 a.C.) Silla (138-78 a.C.) Lucullo (117-57 a.C.) Crasso (115/114-53 a.C.) Pompeo (106-48 a.C.) . I secolo a.C. Giulio Cesare (101-44 a.C.) Marco Antonio (83-30 a.C.) Agrippa (63-12 a.C.) Varo (47 a.C.-9 d.C.) Tiberio (42 a.C.-37 d.C.) Druso Maggiore (38-9 a.C.) Germanico (15 a.C.-19 d.C.) . I secolo d.C. Tito (39-81)
Traiano (53-117) . II secolo d.C. Marco Aurelio (121-180) Settimio Severo (146-211) . III secolo d.C. Aureliano (214-275) Costantino (274-337) ~~~~
XII secolo a.C. ~~~~
Enea Biografia Il progenitore di Roma Enea (in latino: Aeneas) è una figura leggendaria, nota alla mitologia greca e romana. Figlio di Anchise e di Venere, dea della bellezza, era cugino per via di padre di Priamo, re della città di Troia, ma anche suo genero, ed egli stesso principe dei Dardani. Guerriero di straordinario valore partecipò alla fase conclusiva della guerra che devastò la sua città natìa, e venne tradizionalmente considerato dai Romani come loro capostipite, latore di un glorioso passato e di un eccelso senso di pietas, ma anche capace di quella determinazione che fu orgoglio dei Romani. Fuggito da Troia Enea giunse attraverso un avventuroso viaggio, narrato da Virgilio nel suo capolavoro epico Eneide, fino alle coste del Lazio, dove fondò Lavinium, mentre suo figlio Ascanio diede vita alla città di Alba Longa, vera culla della futura Roma. L’amore del padre, uomo di eccezionale bellezza, desiderato da Venere, venne punito severamente da Giove che, geloso, rese storpio Anchise, il quale oltretutto si era macchiato di aver rivelato il suo incontro sacrilego. Enea nacque sul monte Ida, circondato da ninfe e dal centauro Chirone. Crebbe forte e valoroso e divenuto adulto sposò Creusa, figlia del re Priamo, da cui nacque Ascanio. All’inizio Enea decise di non prendere parte alla guerra con gli Achei, disapprovando il comportamento di Paride e il ratto di Elena. Ma quando Achille, venuto in terra straniera, depredò le mandrie che Enea faceva pascolare sul monte natìo, egli decise di prendere il suo posto al fianco di Paride e del valoroso Ettore, e impugnare le armi. Molti furono i guerrieri di parte avversa uccisi da Enea. Tra essi i temibili fratelli Cretone e Orsiloco, il valoroso Afareo, e Medonte, sostituto di Filottete alla guida delle navi achee. In cerca di una nuova patria Quando i Greci, con l’espediente del cavallo, misero sotto scacco Troia, Enea fece un sogno, con il quale gli veniva annunciato il destino della città e la sua missione di fondare una nuova e gloriosa stirpe in altra terra. L’eroe caricò allora sulle spalle il padre Anchise vecchio e storpio, prese Ascanio per
mano e insieme alla moglie Creusa si rassegnò a partire. Durante la fuga, però, Creusa fu avvolta dalle fiamme e morì. Poco tempo dopo lei stessa gli apparve in sogno e lo spinse a proseguire il viaggio. Il racconto che ci fa Virgilio degli anni seguenti passa attraverso numerosi imprevisti e avventure, prima in Tracia e poi a Creta, sempre alla ricerca della futura patria, finché un ennesimo sogno non rivelò all’eroe troiano che la meta destinata si trovava in Italia. Così i Troiani sbarcarono in Sicilia, a Erice, dove Anchise morì, e da lì presero nuovamente il mare. Una terribile tempesta scatenata da Giunone, dea da sempre ostile ai Troiani, li fece naufragare sulle coste settentrionali dell’Africa. Qui, nella città di Cartagine, che poi diverrà acerrima nemica di Roma, Enea ebbe una relazione amorosa con Didone, regina della città, finché, richiamato alla propria missione da Ermes, non si rimise in viaggio, rinunciando ai favori della regina. Dopo un lungo peregrinare nella penisola e una discesa nel regno dei morti foriera di importanti rivelazioni, finalmente Enea poté approdare alla foce del Tevere, il luogo che gli era stato predestinato. Quelle terre appartenevano al popolo dei Latini, il cui re concesse l’unica figlia Lavinia a Enea, proprio com’era stato predetto da un oracolo. Ma questo gesto suscitò le ire di un altro pretendente, Turno, potente re dei Rutuli. Il pretesto fu l’uccisione di una cerva da parte di Ascanio. Nell’epico scontro, con cui si conclude il racconto dell’Eneide di Virgilio, Enea ebbe la meglio, anche grazie alle armi che la madre Venere aveva chiesto di fabbricare a Vulcano, dio del fuoco e della forgiatura dei metalli, e poté trionfare nella sua nuova terra. Secondo la tradizione Enea, passati quattro anni di regno, fu assunto al cielo nel corso di una battaglia contro gli Etruschi, popolo lungamente ostile ai futuri Romani. In mezzo a un saettare di lampi e l’esplodere di poderosi tuoni Enea veniva accolto dall’Olimpo. Il primo grande eroe della storia romana tornava alle proprie origini e assicurava a Roma un destino luminoso e protetto dall’occhio benevolo degli dèi.
Grandi Battaglie Guerra di Troia Il valore di Enea in battaglia fu eccezionale, secondo solo all’ineguagliabile Ettore. Figlio prediletto dell’Olimpo, nel corso dei suoi scontri non fu raro che gli dèi stessi intervenissero in suo soccorso. Dopo che Menelao e Paride si furono scontrati, Enea salì su un carro da guerra e si fece incontro ai nemici al fianco di Pandaro. Il Greco Diomede riuscì a uccidere Pandaro e gli altri Achei tentarono di infierire sul corpo e portarlo al loro campo. Ma Enea balzò dal carro e armato di lancia e scudo difese come un leone il corpo dell’amico ormai spirato. Nessuno poteva avvicinarsi e chiunque provasse a farlo veniva ucciso. Nel confronto diretto con il fortissimo Diomede, Enea venne ferito da un masso che quello gli aveva scagliato contro, ma fu tratto in salvo da Venere, intercessa in suo aiuto. Lo spavaldo Diomede allora osò attaccare la stessa dea, così che dovette scendere sulla terra Apollo per difendere i due e accogliere l’eroe ferito nel proprio tempio di Pergamo dove venne amorevolmente curato. Dopo che Patroclo fu ucciso, Achille ruppe gli indugi e si gettò di nuovo in battaglia. Enea cercò il duello col semidio greco e gli scagliò contro la sua lancia, fallendo il bersaglio. Achille allora rispose lanciando la sua arma che invece centrò lo scudo rotondo di bronzo e pelle di Enea, trapassandolo e facendolo risuonare come un tamburo. Nessuno poteva confrontarsi con Achille e allora gli dèi intervennero ancora una volta, perché Enea non venisse ucciso. Una spessa nebbia inviata da Poseidone lo avvolse, e lo portò fino alle ultime file dell’esercito, traendolo in salvo. Nel Lazio: scontro con i Rutuli Quando Enea arrivò nel Lazio trovò subito un contendente di grande valore. Turno, re dei Rutuli,
mostrò presto la sua bellicosità. Frustrato dall’essersi fatto precedere nella conquista della bella Lavinia, al primo pretesto scatenò la sua rabbia contro i Troiani. Radunati i suoi uomini gli si fece incontro, mentre Enea risaliva il Tevere per arrivare da Evandro, re degli Arcadi e amico di Enea. Mentre Enea preparava le sue alleanze con gli Etruschi, il campo troiano venne assediato da 1400 Rutuli, e nonostante il coraggio di Eurialo e Niso, che cercavano di raggiungere Enea per avvertirlo di ciò che stava accadendo ma che furono invece sorpresi e trucidati, i Troiani rimasti nell’accampamento subirono l’attacco dei Rutuli. Il massacro era già cominciato quando Enea, alla testa dei suoi uomini e insieme agli Etruschi guidati da Tarconte e agli Arcadi con alla testa Pallante, riuscirono a venire in soccorso dei compagni. Lo scontro mieteva centinaia di vittime e Turno faceva strage dei nemici. Lo stesso Pallante, fedele compagno di Enea, perì per sua mano. Alla vista dell’amico morto l’ira si impadronì del capo troiano, che venendo meno alla moderazione per la quale si era sempre distinto, fu accecato dalla rabbia e dalla sete di vendetta. Scagliatosi contro Tarquito, un valoroso nemico, lo uccise e lo decapitò, gettando il busto livido in un fiume, poi passò a Mesenzio, comandante dei Rutuli, che ferì gravemente, e al figlio Lauso, trafitto per essere accorso in aiuto del padre. La spada del troiano quindi si chetò, mentre Giunone traeva in salvo Turno, sottraendolo all’ira terribile di Enea. Enea rese gli onori funebri a Pallante, poi marciò alla testa dei suoi uomini contro la città dei Latini. Le truppe dei Rutuli, capitanate dal superstite Turno e da Camilla, la regina guerriera dei Volsci, si schierarono in battaglia. I cavalieri agli ordini di Turno assalirono i fanti troiani, mentre Camilla, alla testa dei suoi, puntava contro gli Etruschi. Fu un nuovo scontro di epiche dimensioni. Camilla perì e Turno decise allora di giocare le sorti della battaglia in un duello personale con Enea. Poco ci volle perché l’eroe troiano piegasse il re dei Rutuli e, scacciata l’esitazione di lasciarlo vivo, lo trafiggesse a morte.
Fonti antiche Apollodoro, Epitome; Omero, Iliade; Ovidio, Metamorfosi; Tito Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione; Virgilio, Eneide ~~~~
Ascanio Biografia Alle origini di Roma Figlio del mitico Enea, eroe troiano superstite della guerra di Troia e antenato dei fondatori di Roma e della stirpe romana, Ascanio ereditò dal padre risolutezza e virtù, coraggio e timore degli dèi. L’altro nome di Ascanio, diffuso ai tempi di Virgilio, è Iulo. È proprio da lui, dunque, che avrebbe avuto origine la gens Giulia, gloriosa stirpe romana che annoverò tra i più noti esponenti Gaio Giulio Cesare e Ottaviano Augusto, primo imperatore romano. La madre di Ascanio, Creusa, figlia di Priamo e prima sposa di Enea, morì mentre insieme abbandonavano la città di Troia avvolta dalle fiamme dei Greci. Virgilio racconta che durante questa terribile notte, Ascanio, ancora fanciullo, venne avvolto da una misteriosa lingua di fuoco con cui gli dèi intesero proteggerlo. Al seguito del padre Enea compì il lungo viaggio fino alle coste del Lazio dove gli esuli troiani vennero accolti dal re dei Latini.
Le origini di Roma Qui, per errore, nel corso di una battuta di caccia, Ascanio uccise una cerva, che era domestica e proprietà di Silvia, fanciulla latina. Ciò causò le ire dei pastori cui si unirono molti cortigiani. Nello scontro che ne seguì Almone, fratello di Silvia, rimase ferito mortalmente da una freccia alla gola. Si narra che questa morte fu l’occasione per scatenare una guerra tra latini e troiani, nel corso della quale Ascanio trafisse a morte Numano, cognato di Turno, il re dei Rutuli, popolo dell’Italia preromana, stanziato sulle coste del Lazio, ostile ai Romani. Il loro centro principale era Ardea. Alla morte del padre Enea, Ascanio fondò Alba Longa, che governò fino alla morte, e alla cui guida gli succedette l’altro figlio di Enea, Silvio. È proprio ad Ascanio, figlio di Enea, che si fa risalire l’ascendenza dei fondatori dell’Urbe, Romolo e Remo.
Grandi Battaglie Guerra contro i Rutuli Nella furibonda battaglia che si scatenò tra i Troiani e gli Italici, Turno, re dei Rutuli, si era presentato al campo dei Troiani acceso di una profondissima ira e attaccando furiosamente alla testa dei suoi uomini. I Troiani cercarono inizialmente di difendersi come potevano, ma una delle loro due torri che avevano nell’accampamento fu data alle fiamme e crollò rovinosamente. Nella confusione Ascanio aveva nel frattempo ferito Numano, cognato di Turno, il quale, sebbene colpito, cominciò a irridere i Romani, invitandoli a occuparsi di altro visto che non erano veri uomini adatti alla guerra. A quel punto Ascanio non poté ulteriormente trattenere la rabbia, mise mano all’arco e lo trafisse mortalmente, spargendo il panico tra le file nemiche.
Fonti antiche Tito Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione; Virgilio, Eneide ~~~~
VIII secolo a.C. ~~~~
Romolo (24 marzo 771-5/7 luglio 716 a.C.) Biografia Il primo re di Roma Romolo (in latino: Romulus; Alba Longa, 24 marzo 771 a.C. – Roma, 5 o 7 luglio 716 a.C.), fratello gemello di Remo, fu secondo la leggenda il fondatore di Roma e suo primo re. Figlio di Rea Silvia, era discendente di Ascanio, primogenito dell’eroe troiano Enea. Questa ascendenza segna l’appartenenza all’antichissima e prestigiosa gens Iulia, fondata proprio da Ascanio, e detto dai Romani anche Iulio. Condottiero di grandissimo coraggio fu uomo dal carisma eccezionale e, non disdegnando di assimilare le tradizioni dei popoli vicini che intanto sottometteva, guidò la neonata Urbe, dotandola di un carattere inconfondibile e di ordinamenti rigorosi che nei secoli avrebbero consentito il predominio di Roma sul mondo conosciuto.
Il racconto, reso assai celebre da Livio e Ovidio, narra che Silvia fu costretta da Amulio, fratello del padre Numitore re di Alba Longa, a farsi Vestale in modo da non procreare discendenti che potessero rivendicare il potere, ma rimase comunque incinta. I due gemelli che partorì erano il frutto di un violento amore con cui l’aveva posseduta Marte, dio della guerra. Amulio, temendo che questa prole avrebbe messo in pericolo il suo ramo della famiglia, ordinò che i due bambini fossero uccisi, ma il servo incaricato non ne ebbe il coraggio e si limitò ad affidarli al fiume Tevere, dopo averi riposti in un cesto. Quando le acque del Tevere si ritirarono il cesto finì in secca lungo gli argini. Qui il pastore Faustolo trovò i due bambini, mentre una lupa li allattava sotto un maestoso fico, detto ruminale e divenuto in seguito luogo sacro. Adottati da Faustolo, Romolo e Remo crebbero forti e determinati. Si dice che tra i due Romolo possedesse maggiore capacità di giudizio e un’innata predisposizione al comando. Entrambi erano in grado di affrontare bestie feroci e tendere imboscate ai banditi che rendevano insicure le zone, spartendo poi i bottini con i pastori. Quando furono adulti e conobbero da Faustolo i particolari della loro nobile origine, i due fratelli unirono le proprie forze e uccisero Amulio, per riconsegnare il trono di Alba Longa al vecchio nonno Numitore. Lì dov’erano stati cresciuti con generosità decisero di fondare una nuova città, dopo averne ottenuto il permesso dal re Numitore. Fratricidio e fondazione di Roma I due fratelli si misero a scrutare il cielo in cerca di presagi. Remo salì sull’Aventino, Romolo sul colle Palatino. Entrambi videro degli avvoltoi volteggiare sopra le proprie teste, segno di ottimo auspicio: Remo fu il primo ma ne scorse in minor numero, a differenza di Romolo che ne distinse un numero doppio sebbene qualche tempo dopo. Queste differenze convinsero entrambi di dover essere l’unico fondatore. Quando i due si apprestarono alla costruzione delle prime mura, Remo, in segno di oltraggio, valicò il solco tracciato da Romolo. La lite che scoppiò tra i due fratelli fu furibonda e portò alla morte di Remo, le cui spoglie vennero seppellite sull’Aventino, in una località detta Remuria. Intorno al Palatino nacque dunque il cuore di Roma, racchiuso entro il solco primigenius. La data di fondazione venne fissata al 21 aprile 753 a.C. Il valore di Romolo fu grandissimo. Grande guerriero e capo carismatico guidò la giovane città agli esordi di un percorso che avrebbe riservato all’Urbe gloria imperitura. La città fu dotata di solide mura, che dettero vita al mito della Roma Quadrata, che cingeva i colli Palatino e Germalo. Ratto delle Sabine Livio racconta che la città poteva ormai rivaleggiare con chiunque nei dintorni, se non fosse stato per la penuria di donne. Romolo acconsentì perché queste venissero procurate in parte con l’astuzia in parte con la forza, nel cosiddetto Ratto delle Sabine, ed egli stesso in questa circostanza trovò moglie in Ersilia, donna sabina di rara bellezza. Romolo fu capo molto severo, incline a mantenere l’ordine con la forza della spada, attento a rafforzare la sua città-stato. I pilastri di quella che diverrà, tramontata l’epoca dei re, la Repubblica romana, vero faro di civiltà, vengono in gran parte attribuiti a Romolo. Egli organizzò un forte esercito, che arrivò a contare 6mila fanti e 600 cavalieri, istituì il Senato scegliendo cento patres che avrebbero dato vita alla classe dei patrizi. La tradizione vuole che lo stesso fondatore dell’Urbe abbia istituito alcuni tra i fondamentali ordinamenti tra cui il diritto di asilo, il primo calendario romano e i principali lineamenti del diritto romano. Sotto di lui, coreggente per cinque anni Tito Tazio, i popoli sabino e romano si unirono, fondendo le
due tradizioni. Molte furono le nuove feste istituite, e tra queste i Lupercalia, importantissima cerimonia datata il 15 di febbraio, e celebrata nel Lupercal, ossia la grotta presso il Palatino dove leggenda vuole che la lupa avesse nutrito i gemelli. Per 38 anni Romolo regnò su Roma. A 54 anni il mito racconta che sia stato assunto in cielo nel corso di una tempesta, avvolto da una nube, mentre passava in rassegna l’esercito. A lui, proclamato dio con il nome di Quirino, i Romani dedicarono un tempio sul colle poi detto Quirinale. Figlio di Marte, padre e fondatore di Roma, Romolo diveniva simbolo stesso dell’Urbe.
Grandi Battaglie Guerra con i Ceninensi Organizzato un grandioso spettacolo in onore di Nettuno equestre per attrarre i popoli vicini, i Romani, giunti al momento culminante dei giochi, fecero scoppiare un tumulto e rapirono le ragazze. Sabini, Ceninensi, Antemnati e Crustumini reagirono a questo affronto, ma solo i Ceninensi usarono le armi. Inizialmente riuscirono ad invadere i territori romani, ma poi subirono una pesante sconfitta. I due eserciti si fronteggiarono nella pianura circondata dai colli romani, ma grazie al valore eccezionale di Romolo, fu sparso il sangue di un solo uomo. Romolo, infatti, che era avanzato davanti a tutti i Romani, compì un balzo contro Acrone, il loro fiero comandante, e lo uccise sgozzandolo. Spogliatone il cadavere offrì le spolia opima a Giove Feretrio, erigendo sul Campidoglio un tempio in suo onore. Il loro villaggio, Caenina, cedette al primo attacco e scomparve, ma le famiglie ceninensi furono assorbite dall’Urbe. Romolo, per questa grande e importante vittoria, celebrò il Trionfo. Guerra con i Sabini Dopo aver sconfitto i Ceninensi, toccò agli Antemnati, che subirono un destino simile. Anche Antemnae, loro città, venne occupata, procurando a Romolo un secondo trionfo. Poco dopo cedettero i Crustumini, che vennero sconfitti quasi immediatamente. Nella loro città, posta in territori assai fertili, vennero inviati dei coloni, mentre alcuni Crustumini entrarono a far parte della cittadinanza romana. Rimanevano tuttavia i più forti da sconfiggere, ossia i Sabini, portatori di una grande e importante civiltà. Il racconto parla di una vestale di nome Tarpeia che, fattasi corrompere in cambio di oro da Tito Tazio, comandante dei Sabini, fece entrare il nemico nella roccaforte del Campidoglio. Sabini e Romani si confrontarono così ai piedi del colle, lì dove un giorno sarebbe sorto il Foro romano. Il comandante designato dei Romani era Ostio Ostilio, il quale però, nel corso della battaglia, venne ferito a morte. Le truppe romane ripiegarono allora verso la porta del Palatino. Fu allora che Romolo, dopo aver invocato Giove padre di tutti gli dèi e giurato di erigere un tempio in suo onore in caso di vittoria, si scagliò nel cuore della battaglia, rianimando i soldati e guidando un contrattacco poderoso. Infuriava la battaglia e i Romani l’avrebbero avuta vinta, ma le donne sabine, che erano ormai mogli dei Romani, si fecero largo tra le schiere di contendenti e portarono la pace. Tra esse, prima di tutte, Ersilia, sposa di Romolo. Dopo quest’atto di profondo coraggio da parte delle donne sabine, venne stipulato un trattato di pace, che consegnò le città alla gestione congiunta di Romolo e Tito Tazio. Molte furono le battaglie ancora combattute da Romolo, che conquistò Medullia, Fidene e seppe sconfiggere sul campo la fortissima Veio: esse tutte ci parlano del suo grande valore di condottiero.
Fonti antiche Diodoro Siculo, Bibliotheca Historica; Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane; Eutropio,
affrontare i popoli latini riuniti nella Lega latina. Molti conflitti precedettero la battaglia del Trifano. Prima dello scontro finale Decio Mure, collega di Manlio, fece un sogno, che gli dettò il sacrificio personale per cui la Storia più volte lo indicò ad esempio di valore. Grazie anche al gesto eroico di questi i Romani, guidati valorosamente da Manlio, riuscirono a sconfiggere la coalizione avversa. Si trattò di uno scontro terribile, in cui per lungo tempo le sorti rimasero incerte. I superstiti latini, nei giorni successivi allo scontro, cercarono di riorganizzarsi, sotto gli ordini di Numizio, ma con un’abile mossa Manlio e i suoi riuscirono a disperderli definitivamente, impedendo loro di sferrare un vero attacco. Vi furono anche alcune città in rivolta e numerose furono le scorrerie che continuarono a tormentare le città di influenza romana, tra cui Ardea e Ostia, finché l’anno successivo, il 338 a.C., i Romani riuscirono a sciogliere definitivamente la Lega latina e ad affermare la propria supremazia nella regione.
Fonti antiche Appiano, Guerra Sannitica; Cicerone, Dei doveri; Eutropio, Breviarium ab Urbe condita; Tito Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione; Valerio Massimo, Fatti e detti memorabili; Seneca, Sui benefici ~~~~
Decio Mure (m. 295 secolo a.C.) Biografia Eroica devotio Publio Decio Mure (in latino Publius Decius Mus; m. 295 a.C.), figlio di Publio Decio Mure, uno dei primi plebei ad arrivare alla carica di console, fu console anch’egli per ben quattro volte, censore e valentissimo condottiero. La sua fama è legata al sacrificio personale che permise ai Romani di sconfiggere i Galli Senoni e i Sanniti. Nato in una famiglia che presto divenne assai famosa per il valore militare, sia il padre che il figlio seguirono la stessa vocazione al sacrificio, secondo quella speciale forma che i Romani chiamavano devotio. In casi di estrema gravità, il comandante poteva decidere di consacrare sé stesso agli dèi per riceverne i favori necessari a ribaltare le sorti. Indossava la toga praetexta, montava a cavallo e, con in mano un giavellotto, pronunciava la complessa formula della devotio. Dopo aver compiuto il rito, poteva lanciarsi con impeto tra le file nemiche cercando la morte più gloriosa per un condottiero. Il padre di Decio Mure si consacrò nella battaglia di Veseri, mentre il figlio si sacrificò allo stesso modo contro Pirro. Eletto per la prima volta console con Marco Valerio Massimo Corvino nel 312 a.C., quando scoppiò il conflitto con i Sanniti, Decio Mure era costretto a Roma da un malanno e fu il suo collega a farsi carico di guidare le legioni romane negli scontri. Nel 309 a.C. Roma ebbe poi necessità di un dittatore, che fu Lucio Papirio Cursore, e sotto il suo comando Decio Mure servì la Repubblica in qualità di legatus. L’anno seguente fu ancora console, insieme a Quinto Fabio Massimo Rulliano. Insieme a questi affrontò i Sanniti e li sconfisse (seconda guerra sannitica). Nel 306 Decio Mure fu eletto magister equitum dal dittatore Cornelio Scipione Barbato.
La fine gloriosa Quando nel 297 a.C. Mure e Rulliano furono eletti nuovamente consoli, ancora i Sanniti rimanevano i principali nemici da sconfiggere. Era la terza guerra sannitica, che contrapponeva Roma a una formidabile coalizione formata da Etruschi, Sanniti, Umbri e Galli Senoni. Quando Rulliano fu eletto nuovamente console nel 295 a.C., egli accettò a condizione che suo collega fosse ancora una volta Decio Mure, che in questo modo fu console per la quarta volta. Questa volta Publio Decio Mure poté affrontare il combattimento e si rese partecipe dell’eroica devotio, che guidò i suoi uomini verso la vittoria.
Grandi Battaglie Battaglia di Sentino Anno 295 a.C. I piani della coalizione anti-romana prevedevano una manovra a tenaglia da nord e da nord-est per schiacciare le legioni. Il comandante era il sannita Gellio Egnazio. In battaglia le due ali dell’esercito di Roma erano comandate rispettivamente da Decio Mure e Rulliano. Mure, alla testa dell’ala sinistra, ebbe di fronte i Galli. Questi, irrompendo sul campo con carri carichi di arcieri, attaccarono subito con grande ferocia e gettarono gli uomini di Mure nel panico. Ciò che si stava chiaramente profilando era un accerchiamento da parte dei Sanniti. Per questo, Decio Mure, vista la maglia nemica stringersi sui suoi uomini, recitò il rituale della devotio e si scagliò contro i nemici, gettandosi ad armi sguainate nella mischia. Il solenne sacrificio di Decio impressionò enormemente i nemici e grazie anche al valore dimostrato da Rulliano e dai soldati romani, incoraggiati da un simile gesto, la battaglia si concluse con la vittoria di Roma e dei Piceni, fedeli alleati. Gellio Egnazio stesso morì nel tentativo disperato di difendere gli accampamenti, che vennero investiti dalla furia romana. 25mila furono i morti tra i Galli e i Sanniti, e 8mila i prigionieri, mentre l’Urbe contò tra i suoi 8mila caduti. Roma non conquistò altri territori con questa vittoria ma decretò il suo potere, affermandolo a gran voce su tutta la penisola. L’Italia era romana: i Sanniti erano sottomessi e i Galli avevano perduto i loro migliori comandanti. Questi ultimi di lì a poco sarebbero usciti definitivamente di scena dalle pianure a nord dell’Appennino.
Fonti antiche Tito Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione; Valerio Massimo, Fatti e detti memorabili ~~~~
Curio Dentato (ca. 330-270 a.C.) Biografia Guerriero ed eroe contro i Sanniti Manio Curio Dentato (in latino: Manius Curius Dentatus, m. 270 a.C.), fu un generale e grande uomo politico della Repubblica romana. Nato plebeo si distinse per il suo grande valore nella guerra contro i Sanniti ed ebbe dischiuso l’intero cursus honorum. Fu detto Dentato perché nacque già con i denti.
La prima apparizione di Manio Curio Dentato sulla scena politica dell’Urbe fu come tribuno della plebe, tra il 295 e il 291 a.C. Già l’anno dopo riuscì a ricoprire la prestigiosa carica di console, facendosi valere sia come amministratore che come comandante militare, prima contro i Sanniti e poi contro i Sabini, al punto da meritare due trionfi nello stesso anno. In qualità di pretore, consul suffectus (“console supplente”) e infine dittatore nel 284 a.C. resse il governo dell’Urbe, riuscendo poi ad arrestare l’avanzata dei Celti e rovesciare l’esito della battaglia di Arezzo, nel corso della quale Lucio Cecilio Metello Denter aveva subito una cocente sconfitta. Nuovamente console nel 275 a.C. seppe anche respingere definitivamente Pirro, re dell’Epiro, nella celebre battaglia di Benevento. Dentato sconfisse anche i Lucani nell’anno seguente per approdare infine alla carica di censore nel 272 a.C. Un modello di virtù Nella vita civile Dentato si rese protagonista di grandi lavori pubblici, tra cui la costruzione del secondo acquedotto di Roma, l’Anio Vetus, per la cui realizzazione venne utilizzato il bottino di guerra della vittoria contro Pirro. Del 271 a.C. è l’inizio dei lavori per la costruzione di un canale che bonificasse completamente il lago Velino, permettendone il deflusso delle acque stagnanti. La sua vita era frugale e il suo spirito incorruttibile, al punto da divenire un modello di comportamento per lo stesso Catone il Censore. Si racconta che quando i Sanniti gli inviarono ambasciatori con ricchi doni per convincerlo a essere più conciliante nei loro confronti, essi lo trovarono seduto su un semplice sgabello, intento a mangiare delle rape in una ciotola di legno. Egli allora non solo rifiutò i loro doni ma affermò sorridendo che Curio Dentato era uomo che preferiva comandare sui ricchi piuttosto che essere ricco quanto loro e che riferissero pure ai loro signori che era invincibile con le armi e incorruttibile con il denaro.
Grandi Battaglie Battaglia di Benevento Anno 275 a.C. Quando all’inizio del III secolo a.C. le mire espansionistiche di Roma cominciarono a volgere la propria attenzione verso le città della Magna Grecia, i Tarantini, alla testa delle altre colonie dell’Italia meridionale, chiesero l’intervento di Pirro, re dell’Epiro, affinché li difendesse. Pirro vide in questa richiesta una straordinaria occasione per mettere le mani sul meridione d’Italia, la Sicilia, ed eventualmente anche l’Africa. Così, sbarcato in Italia nel 280 a.C. alla testa di un fortissimo esercito, sfidò i Romani, vincendoli prima a Heraclea e più tardi ad Ascoli Satriano. Dopo una parentesi in Sicilia, Pirro nel 275 a.C. si riaffacciò sulla penisola, al comando di un esercito rinfoltito anche dai Sanniti. I Romani questa volta però erano pronti. Avevano già conquistato molte città dell’Italia meridionale e lo aspettavano al varco a Maleventum, città della Campania. Alla testa dei 18mila Romani c’era Manio Curio Dentato, ormai stimatissimo generale di grande esperienza. Pirro disponeva di più soldati (forse 25mila), di una forte cavalleria macedone, opliti greci, valenti arcieri e frombolieri. Inoltre, come già era successo a Heraclea, quella volta con esiti disastrosi, era forte di molti elefanti. Ma in questo confronto però i Romani fecero tesoro delle precedenti sconfitte e affrontarono con lucidità e scaltrezza il formidabile esercito di Pirro. Il re dell’Epiro aveva tentato di sorprendere i Romani di notte, ma per alcuni suoi stessi errori il piano era fallito, rivelando anzi a Dentato le proprie intenzioni strategiche. Così i due eserciti si affrontarono in campo aperto. Al segnale di Dentato gli arcieri romani scagliarono frecce infuocate contro i pachidermi, che atterriti dal fuoco crearono scompiglio tra le fila epirote. Egli stesso ne ferì uno.
Catone il Censore (234-149 a.C.) Biografia Straordinario esempio di romanità Marco Porcio Catone (in latino: Marcus Porcius Cato; Tusculum, 234 a.C. circa – 149 a.C.) è stato un generale e uomo politico romano di straordinaria levatura morale. Fu soprannominato “il Censore” (Censor), ma anche Sapiens, Priscus, Maior per distinguerlo dal suo bis-nipote, Catone il giovane. Il suo limpido cursus honorum ne fa uno straordinario esempio di romanità e di lungimiranza politica e civile. Sebbene non di origine patrizia, Catone nacque in una famiglia benestante, di tradizione agricola. Seguì le orme dei padri fino al momento di prestare servizio in armi per Roma e fu il primo della sua famiglia ad assumere cariche pubbliche. Nel 204 a.C. fu in Africa, in qualità di questore, al seguito di Scipione l’Africano, con il quale però ebbe molto da ridire, soprattutto a causa della vita piena di agi e poco adatta a un militare che il celebrato generale conduceva. Dopo aver abbandonato Scipione raggiunse la Sardegna, dove, assunta la carica di pretore, si batté contro gli usurai, e infine la Spagna. Qui si distinse, come proconsole, per un comando ferreo e capace di grandi successi, fino a vedersi attribuito un trionfo nel 194 a.C. Tre anni dopo fu tribuno militare agli ordini di Manio Acilio Glabrione combattendo contro Antioco III il Grande Re di Siria, distinguendosi nella battaglia delle Termopili combattuta quello stesso anno. Dopo avere servito Roma da soldato nelle province lontane della Repubblica, Catone decise di tornare nell’Urbe, dove si rese anzitutto protagonista di quel rinnovamento morale che intendeva riportare Roma al suo originario splendore. Catone il moralizzatore La sua carriera politica proseguì insieme a quella militare, finché venne eletto console nel 195 a.C. L’elezione a censore è del 184 a.C. Il censore rappresentava per Roma antica una delle cariche più elevate e prestigiose. Questa magistratura fu attiva tra il 443 a.C. e il 350 d.C., aperta ai plebei già dal 339 a.C. Nei cinque anni in cui i censori restavano in carica dovevano occuparsi di censire la popolazione vigilando sulla dichiarazione pubblica dei redditi dei cittadini, aver cura dei costumi morali dei singoli e della cittadinanza tutta, e infine decretare chi fosse degno di ricoprire la carica di senatore. Nel suo ruolo di curator morum Catone identificò una delle minacce principali nella cultura ellenistica, che stava dilagando nell’Urbe e a suo parere corrompendo l’autentico spirito romano. Tutto ciò che era di origine straniera e specialmente greca suscitava in lui repulsione. Molti furono però anche i cittadini romani che caddero per indegnità nelle sue maglie e dovettero rinunciare a cariche politiche di fronte alle sue accuse. Così ammoniva: “I ladri di beni privati passano la vita in carcere e in catene, quelli di beni pubblici nelle ricchezze e negli onori.” (Aulo Gellio, Notti attiche, XI, 18) Per ridurre le stravaganze e gli abusi del lusso Catone impose pesanti tasse su abiti e gioielli, nonché limitazioni sugli schiavi acquistati come amanti. Regolamentò il numero di invitati ai ricevimenti e nel 169 a.C. propose persino una soglia massima per la ricchezza che una donna poteva possedere. “Compra solo ciò che ti è davvero necessario, e non quello che ti pare opportuno; il superfluo è caro anche quando costa un solo soldo.” (Seneca, Lettere a Lucilio)
Per Catone Roma doveva trionfare ovunque e imporre il proprio ordine. Fu così che, quasi ottantenne, incitò i concittadini ad affrontare la Terza guerra punica che avrebbe cancellato Cartagine. Lo fece con parole divenute proverbiali: “Ceterum censeo Carthaginem esse delendam.” (“Ritengo che Cartagine debba essere distrutta.” – Plutarco, Vita di Catone, 27, 2) Sebbene dopo quella di censore Catone non ricoprì nessun’altra carica pubblica, grande fu l’influenza che continuò a esercitare come senatore su ogni aspetto della vita romana. Censore inflessibile Pur disdegnando le influenze filosofiche e letterarie greche fino agli ultimi anni di vita, Catone fu anche uno straordinario oratore, storiografo e trattatista, sublime esempio di letteratura romana antica. Celebri sono i suoi discorsi in Senato, per i quali Cicerone non esitò a definirlo il primo grande oratore romano. Amava dire: “I saggi traggono profitto dagli stolti molto più che gli stolti dai saggi, perché mentre i saggi evitano gli errori degli stolti, questi non imitano le accortezze dei saggi.” (Plutarco, Vita di Catone, 9, 4) La sua visione tradizionale è pienamente rispecchiata anche nei pochi scritti, a volte frammenti, che ci sono pervenuti. Nella sua concezione un ruolo centrale possiede il pater familias, e determinante per il successo di un singolo come della nazione è la ferrea disciplina cui ciascuno deve sottoporsi. Tito Livio riporta un suo celebre discorso: “Molte volte mi avete sentito protestare per le spese eccessive, che le donne come gli uomini, compiono, e così non solo i privati cittadini, ma anche i magistrati; e molte volte mi sono già lamentato che avarizia e lusso, due vizi opposti ma ugualmente tenaci nel travagliare la nostra città, sono i due gravi e pestilenziali malanni che sempre hanno portato a rovina i grandi imperi.” (Tito Livio, Storia di Roma, XXXIV, IV) Come testimoniato da molte cronache antiche questi elementi ne fecero un marito severissimo, un censore inflessibile e un padre solo poco più tenero. Sebbene inviso a molti, mai nessuno si permise di giudicarlo e i Romani gli furono molto riconoscenti considerandolo sempre una luce di autentica romanità.
Grandi Battaglie Campagna di Spagna Anno 197 a.C. Catone era anzitutto un militare esemplare. Nel corso della campagna di Spagna fu ammirato per il suo modo di vivere sobrio e disciplinato, che gli faceva condividere cibo e lavoro con i soldati semplici. Da comandante i suoi ordini furono lucidi e concreti, e ricorse alle forze di mercenari autoctoni quando ve ne fu bisogno. La campagna di Spagna fu durissima. La Spagna Citeriore fu ridotta nel 197 a.C. al dominio romano con una prontezza e un’efficacia fino ad allora ineguagliate. Le capacità strategiche di Catone segnarono una netta differenza rispetto ai generali romani che già si erano cimentati con questi difficili territori, e che non avevano mai ottenuto tali successi. Molti furono i massacri e le città distrutte, al punto che egli stesso – per niente aduso ad autocelebrazioni – si vantò di aver occupato città in un numero superiore ai giorni stessi trascorsi in Spagna. Ridotta un’ampia parte della penisola iberica all’obbedienza, egli si volse alle riforme amministrative e migliorò l’estrazione di metalli preziosi come argento e ferro, perché diventasse una provincia preziosa per Roma. Quando fu di ritorno in patria, nel 194 a.C. ricevette gli onori di uno straordinario trionfo e tre giorni di festa gli furono dedicati dal Senato. Battaglia delle Termopili
Anno 191 a.C. In qualità di Tribuno militare del console Manio Acilio Glabrione, Catone si trovò a fronteggiare l’invasione della Grecia da parte dei Seleucidi, comandati dal Re Antioco III il Grande. Decisiva fu la battaglia delle Termopili, in cui Catone si distinse grazie al suo straordinario valore e a una magnifica lucidità strategica. Sorprendendo tutti per prima cosa affrontò un avamposto di ausiliari della regione montagnosa dell’Etolia assoldati da Antioco e che si erano appostati in cima al monte Oeta, lì dove credevano di essere inespugnabili. Così si era rivolto ai soldati: “La vostra non è una guerra solo per liberare la Grecia; non soltanto sarà vostro tutto ciò che troverete negli accampamenti regi; a voi spetterà come preda anche tutto quello che a giorni arriverà da Efeso, se voi dischiuderete alla potenza di Roma le porte dell’Asia e della Siria, e di tutti i ricchissimi regni che si stendono fin dove sorge il sole. Niente potrà allora opporsi a che da Cadice al Mar Rosso, i nostri confini si stendano fino a tutto l’Oceano che abbraccia l’intero globo terrestre. Niente potrà impedire che tutti i popoli, l’intero genere umano, dopo gli dèi, veneri il nome dei Romani. Siate quindi degni di questi grandi premi, ed esercitate l’animo vostro perché domani, con il favore degli dèi, si giunga a una battaglia decisiva.” (Tito Livio, Storia di Roma, XXXVI, XVII) Dalle Termopili, forte di aver sgominato i primi nemici nel loro stesso ambiente naturale, si gettò sul campo del Re più a valle, seminando il panico tra i Seleucidi. L’azione fu talmente perfetta e repentina che i Romani riportarono un successo clamoroso e Catone, si vide riconosciuti da Glabrione stesso tutti i meriti della vittoria. Il futuro Censore fu talmente rapido persino a tornare a Roma e ad esporre ai senatori stupefatti il resoconto della battaglia, che Lucio Cornelio Scipione, partito qualche giorno prima di lui, arrivò in città che la notizia era già sulla bocca di tutti e Catone veniva legittimamente acclamato.
Fonti antiche Aulo Gellio, Notti attiche; Plutarco, Vita di Catone; Tito Livio, Storia di Roma dalla fondazione
~~~~ II secolo a.C. ~~~~ Scipione Emiliano (185-129 a.C.) Biografia Eroe della Terza guerra punica Publio Cornelio Scipione Emiliano, detto anche Africano minore e Numantino (in latino: Publius Cornelius Scipio Aemilianus Africanus Numantinus 185 a.C. – 129 a.C.), fu generale e politico romano. Adottato da Publio Cornelio Scipione, figlio del grande Africano, prese il suo nome, ma mantenne il patronimico di Emiliano, in quanto figlio di Lucio Emilio Paolo Macedonico. Uomo di grandi capacità e di eccellenti doti strategiche, si mostrò magnanimo e generoso in molte occasioni. In politica fu sempre un fiero conservatore. Benché considerasse la guerra una extrema ratio il suo apporto si rivelò decisivo per concludere la Terza guerra punica e riportare la Spagna sotto il
Pompeo; Valerio Massimo, Fatti e detti memorabili ~~~~
I secolo a.C. ~~~~
Giulio Cesare (13 luglio 101-15 marzo 44 a.C.) Biografia L’uomo che cambiò la storia Caio Giulio Cesare (in latino: Gaius Iulius Caesar, Roma, 13 luglio 100 a.C. – Roma, 15 marzo 44 a.C.) fu generale e dittatore romano, discendente della antica e nobile gens Iulia, quindi secondo tradizione erede di Ascanio, figlio di Enea, e dello stesso Romolo. Considerato a ragione il più grande condottiero di Roma antica, e uno dei più valorosi e capaci generali di tutti i tempi, Cesare dimostrò una straordinaria fulmineità d’azione e una visione strategica eccezionale. Sottomise la sterminata e ricca Gallia e aprì la strada di Roma verso la Britannia. Uomo capace di trasformare attorno a sé e al proprio carisma le istituzioni stesse di Roma Repubblicana, affrontò numerosi nemici interni e seppe essere un comandante giusto e amato dai soldati, che condusse in battaglie entusiasmanti e piene di gloria. Combatté strenuamente la miope oligarchia senatoriale, costruendo sull’appoggio del popolo un’ascesa luminosa interrotta soltanto da una congiura. Come pochi seppe coniugare un’intelligenza fuori dal comune, testimoniata dai memorabili scritti e da un’avvincente capacità oratoria, a un senso rarissimo del comando e una determinazione invincibile. Il suo nome stesso, per i posteri di ogni nazionalità, divenne sinonimo di supremo regnante. Nato nel quartiere popolare romano di Suburra, il giovane Cesare ebbe come maestro Marco Antonio Gnifone, un grammatico di origine gallica, e crebbe in un periodo in cui la penisola e la stessa Repubblica erano tormentate da lotte intestine, sfociate in guerra sociale, mentre ai confini orientali Mitridate diventava un pericolo sempre maggiore. Il padre era stato pretore e da parte della madre Aurelia Cotta, la famiglia aveva contato diversi consoli. Tuttavia, nel I sec. a.C., la famiglia di Cesare non era né abbiente né influente. Appassionato alla poesia così come alle scienze, sottopose fin dall’adolescenza il corpo a severi addestramenti, che ne forgiarono un fisico magro e forte, ma anche estremamente elegante. Le prime scelte politiche del giovane Cesare furono indubbiamente influenzate dalla carismatica presenza di Gaio Mario, suo zio acquisito. Mario era capo dei populares e fermamente avverso a Lucio Cornelio Silla, rappresentante di spicco del partito senatoriale e aristocratico. Mario era morto ormai da alcuni anni quando nell’82 a.C. Silla tornò a Roma e, reduce vittorioso delle campagne orientali, affrontò con successo le forze militari dei populares nella battaglia di Porta Collina. A seguito di quella vittoria nell’Urbe si instaurò una feroce dittatura. La politica di Silla non ammetteva deroghe e lo stesso Cesare rischiò la morte. Cesare infatti aveva sfidato gli ordini del dittatore rifiutandosi di ripudiare la moglie Cornelia, sposata giovanissimo, e appartenente a una famiglia di accaniti oppositori di Silla. Grazie all’intervento di influenti amicizie Silla desistette ma, riconoscendo nel giovane uomo già
un’immensa potenzialità e il valore di un futuro comandante, biasimò quei consiglieri che l’avevano convinto a risparmiare colui che sarebbe divenuto un nemico fatale della fazione aristocratica. Cesare in ogni modo si rifugiò lontano da Roma finché non fu inviato in Asia minore come legato del pretore Marco Minucio Termo. Prime esperienze militari e politiche In Oriente il giovane legato portò a termine un’importante missione presso Nicomede IV, sovrano di Bitinia. In Asia Cesare ebbe le sue prime esperienze militari, distinguendosi per il valore e meritandosi i primi importanti riconoscimenti. Quando nel 78 a.C. anche Silla morì, molti dei populares cercarono di organizzare una sommossa sanguinosa, ma Cesare, dotato già di grande intelligenza politica, una volta rientrato a Roma si limitò a un’intensa e pacifica attività politica. Sono gli anni in cui la sua arte retorica, brillantemente esercitata, si sforza di consolidare le posizioni dei democratici e mettere in luce il suo profilo. Nel 74 a.C. decise di lasciare nuovamente Roma e recarsi nell’isola di Rodi, alla scuola di Apollonio Molone, per apprendere lingua e cultura greche. Ma nel viaggio fu rapito dai pirati, che chiesero un ingente riscatto. Cesare riuscì a far pervenire i talenti richiesti, e anche di più, ma una volta liberato dopo trentotto giorni di prigionia si mise a capo di una nave, catturò i pirati e li uccise tutti. Dopo un altro anno di guerre contro Mitridate VI del Ponto, Cesare tornò a Roma e qui fu eletto tribuno militare. Nell’Urbe ebbe così modo di stringere intensi rapporti con molti personaggi importanti e fra essi il ricchissimo Marco Licinio Crasso, che nel 70 a.C., veniva eletto console insieme all’ormai celebre generale Gneo Pompeo Magno. A 31 anni, nel 69 a.C., Cesare fu eletto questore e inviato nella Spagna Ulteriore. A Cadice ebbe modo di ammirare la statua di Alessandro il Grande, che alla sua età aveva già sottomesso un Impero vastissimo e, si dice, di biasimare sé stesso per il poco fatto a paragone del condottiero macedone. Eletto edile curule nel 65 a.C. e pontefice massimo due anni dopo, Cesare avviava in questo modo una brillante carriera politica, supportata con sempre maggiore favore da ampi strati del popolo. Nel frattempo però accadeva che un oscuro personaggio, Lucio Sergio Catilina, aristocratico decaduto, cercava di impadronirsi del potere. Cesare finì effettivamente coinvolto nella congiura - almeno nel primo tentativo -, ma l’intervento autorevolissimo di Cicerone di fatto lo scagionò, mentre l’abilità retorica dello stesso Cesare riuscì a portargli addirittura notevoli vantaggi dalla vicenda. Nel 61 a.C. tornò in Spagna in qualità di Propretore, vale a dire Governatore della regione e comandante militare. Qui impose il suo dominio, sottomettendo Lusitani e Galati, che imperversavano nella regione. Al suo comando i soldati di Roma si spingevano fino all’Atlantico combattendo contro Calaici e Lusitani. Intanto le alleanze politiche a Roma, necessarie dopo i tumulti civili che avevano imperversato, lo legavano con il Primo Triumvirato a Pompeo e Crasso, permettendogli di divenire console a sua volta nel 59 a.C. Il patto stretto tra i tre uomini era in effetti un’alleanza strategica di carattere privato, ma essa ebbe tali ripercussioni sulla vita politica della Repubblica da assumere lo status di una vera magistratura. Fu questa una svolta fondamentale per la sua carriera politica. Dei tre Pompeo era certamente il militare più brillante: da generale contro Mitridate aveva ottenuto straordinari successi. Crasso, invece, già solerte finanziatore di Cesare, era considerato l’uomo più ricco di Roma. Dal canto suo Cesare si avvaleva delle risorse di Crasso e meditava di raggiungere e superare presto la gloria di Pompeo. I rapporti tra Crasso e Pompeo erano piuttosto difficili e altalenanti ma Cesare riuscì a moderare le posizioni di entrambi con abili mosse. Il suo potere effettivo crebbe così enormemente e le sue azioni spiegano bene la strada politica tracciata. In parte per ridimensionare il Senato, ma anche per compiacere il popolo, Cesare introdusse gli Acta diurna e gli Acta senatus, veri e propri antesignani del moderno giornalismo.
Tra i suoi primi atti da console vi fu anche una riforma agraria che puntasse a una più equa distribuzione delle terre, anche attraverso espropri, con una speciale attenzione per i veterani di Pompeo mentre, per assecondare Crasso, furono ridotte le tasse dovute allo stato dall’ordo equestris. Grazie a queste e altre ponderate mosse, il Primo Triumvirato diveniva un’alleanza fortissima, che prevedeva sottobanco una vera spartizione dei territori e dei poteri della Repubblica romana, e che di fatto faceva di Cesare un uomo imprescindibile. In Gallia Alla fine del consolato, grazie alla Lex Vatinia, gli venne affidata per cinque anni la Propretura della Gallia Cisalpina, baluardo settentrionale del dominio romano, insieme a tre legioni. Poco dopo Cesare riceveva anche la Gallia Narbonense, insieme a una quarta legione. Province turbolente e di difficile amministrazione, erano tuttavia i luoghi ideali per mettere in luce le sue doti di straordinario generale, eccellente nel mestiere di gestire e motivare gli uomini, eccezionale sul piano strategico. Il Senato non si era opposto perché sperava in questo modo di allontare a sufficienza Cesare, esponente sempre più di spicco dei populares, da Roma. Dal canto suo Cesare vedeva nella Gallia la possibilità di ottenere immense ricchezze e accrescere il suo prestigio militare a dismisura. Il 2 aprile del 58 a.C. Cesare raggiungeva la Gallia. Il primo pericolo era rappresentato dagli Elvezi che, seppure pacificamente, chiedevano di attraversare il territorio narbonense. Cesare temeva naturalmente che una volta in territorio romano gli Elvezi si sarebbero scatenati in razzie e devastazioni, così, negando il lasciapassare, preferì affrontarli. Li sconfisse duramente a Bibracte costringendoli a tornare nei loro territori d’origine, ossia l’odierna Svizzera e parte della Germania meridionale. Ma i Galli, con i quali Cesare stava instaurando rapporti di amicizia, temevano adesso una minaccia ben più grande, ossia quella di Ariovisto, re dei Germani. Questi aveva già sconfitto alcuni anni addietro i Galli ed era tornato sulle sue terre solo per intervento romano. Ora minacciava nuove invasioni e i Galli si rivolsero di nuovo a Roma. Senza indugi Cesare raccolse le sue legioni e affrontò Ariovisto presso l’odierna Mulhouse. Fu una disfatta assoluta per i Germani, che dovettero retrocedere oltre il Reno. Era questo il nuovo e solido confine tra Gallia e Germania. Ma la Gallia era un territorio estremamente esposto. Da nord premevano adesso i Belgi, con un esercito di oltre 300mila uomini. Con la celerità per cui sarebbe presto divenuto leggendario Cesare marciò verso il fiume Axona, sconfiggendoli a Bibracte e poi, a seguito di un attacco improvviso dei barbari, nuovamente presso il fiume Sabis. L’ultima vittoria fu schiacciante e si trasformò in un vero massacro di Belgi. Ma la tensione sembrava non avere mai tregua. L’anno successivo, nel 56 a.C., insorsero infatti i popoli della costa atlantica. Cesare preparò allora una flotta che navigasse sulla Loira e con questa riuscì a sconfiggere i Veneti a Quiberon, raggiungendo una sospirata ma breve sospensione delle ostilità. I popoli germanici non avevano certo desistito. Nel 55 a.C. Usipeti e Tencteri si avvicinarono ai confini minacciando la Gallia. La reazione di Cesare fu cruentissima, facendo arrestare gli ambasciatori e compiendo assalti proditori. L’azione si tradusse in un massacro di 200mila uomini, che venne biasimato a Roma da molte parti. Catone Uticense propose addirittura al Senato di rimettere la persona di Cesare alla volontà dei Galli, ma le sue accuse caddero inascoltate e Cesare rimase al suo posto. Ancora più a Nord vi era la Britannia, che da tempo il generale romano meditava di invadere o almeno esplorare. Cesare infatti si era reso conto che una buona parte dei rinforzi militari del nemico nel corso delle varie guerre galliche combattute fino a quel punto veniva proprio dalla Britannia. Una prima spedizione nell’estate del 55 a.C. si concretizzò in due ampi successi. Una seconda, portata a termine nel 54 a.C. e nel corso della quale sconfisse il grande comandante Cassivellauno, avrebbe gettato concrete basi per la conquista della Britannia del 43 d.C. realizzata sotto l’imperatore
Claudio. Ma la Gallia ribolliva ancora. Tra i sobillatori emerse presto la figura di Vercingetorige, capo degli Arverni ed eletto comandante di tutti i Galli in rivolta. Cesare, fatto il punto della situazione, puntò subito su Gergovia, capitale degli Arverni. Dopo un primo assedio e uno scontro dall’esito negativo, Cesare assediò allora la città di Alesia, dove si era asserragliato Vercingetorige. Le previsioni e la strategia del generale romano risultarono questa volta vincenti e la vittoria fu schiacciante. Vercingetorige fu costretto ad arrendersi ed essere imprigionato. Questa era la mossa definitiva e nel 50 a.C. la Gallia era ormai provincia romana. Alea iacta est A Roma, nel frattempo, le cose stavano mutando. Morto Crasso nella battaglia di Carre, il triumvirato aveva di fatto cessato di esistere. Di fronte poi alla smisurata crescita del potere di Cesare, il Senato aveva cercato di opporsi nominando nel 52 a.C. Pompeo consul sine collega e rifiutando le ripetute candidature di Cesare al consolato in absentia. Nel 50 a.C. anzi il Senato riuscì a fare eleggere come consoli per l’anno seguente due acerrimi nemici di Cesare e intimò a quest’ultimo di sciogliere le sue legioni e rientrare a Roma come privato cittadino. Il clima a Roma precipitò al punto che i tribuni fedeli a Cesare dovettero rifugiarsi lontano dall’Urbe. Violando apertamente le regole e le disposizioni del Senato, Cesare prese una gravissima decisione e il 10 gennaio del 49 a.C. varcò in armi il fiume Rubicone, confine politico dell’Italia del tempo. Si trattava di una vera e propria dichiarazione di guerra alla res publica che trasformò immediatamente l’ex triumviro in hostis publicus, e portò alla guerra civile. Pompeo fu posto pertanto dal Senato al comando dell’esercito della Capitale, ma mentre Cesare scendeva lungo la costa adriatica, egli gli sfuggiva, portandosi prima in Puglia e da qui a Durazzo. Dopo un vano inseguimento Cesare desistette, preferendo concentrarsi sulla Spagna, territorio ancora fedele a Pompeo, non prima però di essere entrato a Roma ed essersi impossessato dei beni dell’erario. Ci vollero alcuni mesi per la conquista dalla penisola iberica, che però alla fine cedette. Tornato a Roma Cesare si fece eleggere console per il 48 a.C. e dictator, quindi assieme al suo luogotenente Marco Antonio si diresse contro Pompeo, che ancora si trovava nella regione balcanica. Qui Cesare subì una durissima sconfitta, ma di fronte all’esitazione di Pompeo riuscì a riprendersi e riorganizzare le forze, infliggendo a sua volta una disfatta decisiva a Farsalo il 9 agosto di quello stesso anno. Pompeo, in preda allo scoramento, fuggì in Egitto, ma fu tradito dal faraone Tolomeo e fatto decapitare. Una volta in Egitto Cesare punì, inorridito dal gesto del faraone, Tolomeo e pose sul trono la sorella e moglie Cleopatra. Ma la popolazione di Alessandria d’Egitto, che lo aveva fortemente inviso, lo costrinse in un assedio stringente, dal quale riuscì a liberarsi con grande fatica solo dopo alcuni mesi. Si dedicò quindi a sconfiggere Farnace II, re del Ponto, antico alleato di Pompeo, che aveva attaccatto possedimenti romani in Siria. Risolta la questione orientale, nel 46 a.C. Cesare reputò fosse giunto il momento di rientrare a Roma, e qui raggruppò nuove truppe da condurre in Africa, dove avevano trovato rifugio molti esponenti del partito pompeiano. Sotto la guida di Catone Uticense si era infatti organizzato un poderoso esercito, forte anche dell’alleanza col re numida Giuba I. Ma Cesare riuscì a sconfiggere quest’ultimo a Tapso, costringendo i figli di Pompeo a rifugiarsi in Spagna e Catone a suicidarsi. Nel 46 a.C. Cesare tornava così a Roma, annunciando l’annessione di Numidia e Gallie, nonché il protettorato sull’Egitto, e celebrando ben quattro trionfi per le campagne vittoriose. Si trattò di un momento di grande giubilo per la città: furono organizzati splendidi spettacoli e furono elargite cospicue somme di denaro ad ogni cittadino, mentre ai legionari venne finalmente assegnato un lotto di terra.
Ma di nuovo alla fine dell’anno 46 a.C. Cesare dovette tornare in Spagna, dove i pompeiani si erano riorganizzati militarmente. Fu il momento più terribile dell’intera guerra civile, che si concluse finalmente nell’aprile del 45 a.C. con una inequivocabile vittoria di Cesare. Tornato a Roma Cesare celebrò il trionfo, cosa assolutamente inedita, su cittadini romani. Dal 47 a.C. si era fatto eleggere dictator con carica decennale – preludio alla carica perpetua – e aveva assunto anche il titolo di imperator. Il suo potere e la sua fama non sembravano conoscere ostacoli. La congiura Tanto potere non mancò di suscitare nei pompeiani frattanto passati di partito per opportunismo e nella vecchia classe senatoriale, che quotidianamente vedeva scemare il proprio potere, un progetto cesaricida. Per il 44 a.C. Cesare aveva nominato suo collega al consolato Marco Antonio, affidando la pretura a Marco Giuno Bruto e Gaio Cassio Longino. Il giorno delle idi di marzo, nonostante i molti pessimi presagi, Cesare si recò in Senato. Qui lo attendevano i congiurati, primi fra tutti Bruto e Cassio. 23 inesorabili pugnalate lo trafissero, spegnendo a tradimento la vita del conquistatore delle Gallie e del trionfatore della guerra civile. La laudatio funebris spettò ad Antonio, quindi il corpo venne cremato nel foro, ricevendo omaggi dal popolo, dai suoi affezionatissimi soldati e persino da delegazioni straniere. Marco Antonio e Ottavio, nipote di Cesare e futuro primo imperatore di Roma, unirono le loro forze prima di divenire a loro volta nemici, e nel 42 a.C. costrinsero, dopo la epica battaglia di Filippi, i due principali cesaricidi al suicidio. Questo era l’unico modo per compiere almeno in parte la vendetta. Molte e di grande importanza furono le riforme attuate da Cesare nel corso della pur breve dittatura. Un generale rafforzamento del potere delle assemblee popolari e l’estensione del diritto alla cittadinanza romana furono tra le principali misure adottate in campo amministrativo. Fu stabilito un importante censimento e attuata un’attenta politica economica. L’attenzione per il popolo si manifestò anche nelle numerose opere pubbliche – prima fra tutte la costruzione di un nuovo Foro – tese ad abbellire la città e a renderne la vita più piacevole. Oggetto di importanti cambiamenti fu anche l’esercito: venne raddoppiata la paga e in generale venne data grande importanza alle esigenze dei soldati, pur mantenendone inflessibile la disciplina. Proprio questa combinazione di disciplina e ottimo trattamento personale risultò la chiave fondamentale di tanti successi. Fu introdotta anche una maggiore possibilità di carriera, e vennero meglio gestite le truppe di stanza lungo i confini più difficili. Cesare non fu poi solo un grande generale e uomo politico, ma anche uno straordinario scrittore. Le sue principali opere testimoniano uno stile asciutto e straordinariamente moderno, una eccellente lucidità, e una capacità retorica encomiabile, che continuano ad essere di esempio anche per i contemporanei.
Grandi Battaglie Guerra gallica – Contro gli Elvezi Prima che Cesare si rendesse protagonista di una strepitosa campagna militare, i territori romani d’oltralpe si limitavano grossomodo alla Linguadoca, alla Provenza e alla Savoia di oggi. A sua disposizione vi erano 4 legioni e di fronte alla sua straordinaria ambizione si stendeva un territorio ricco e sterminato abitato da popoli molto diversi tra loro per lingua, usi e leggi. I migliori guerrieri erano tra tutti i Belgi, stanziati a nord, in perenne contrasto con i Germani, mentre il resto della Gallia era occupato da altre tribù spesso in guerra tra loro e continuamente minacciate dall’invasione dei Germani stessi. Il passaggio degli Elvezi nella provincia narbonense si
Fonti antiche Cassio Dione, Storia romana; Velleio Patercolo, Storia romana ~~~~
Varo (47 a.C.-9 d.C.) Biografia La più devastante sconfitta di Roma Publio Quintilio Varo (in latino: Publius Quintilius Varus; Cremona, 47 – Foresta di Teutoburgo, 9 d.C.) fu governatore e generale romano. Inviato come governatore in Germania subì un proditorio attacco da parte di Arminio, capo dei Cherusci. Presso Teutoburgo, nel 9 d.C. tre legioni e numerose coorti di ausiliari ai suoi ordini furono completamente massacrate, segnando una delle peggiori disfatte di tutta la storia di Roma. Dinanzi a una simile sconfitta, Varo preferì togliersi spontaneamente la vita. Appartenente alla nobile ma decaduta gens Quintilia, Varo compì un rapido cursus honorum, in particolare grazie all’amicizia e alla stima dell’imperatore Augusto. Nel 22 a.C. divenne questore nella provincia dell’Acaia, e in seguito edile e pretore mentre nel 14 a.C. sposò la figlia di Marco Vipsanio Agrippa, il più importante generale di Augusto. Nel 13 a.C. ottenne il consolato e quando, l’anno successivo, Agrippa morì, a Varo spettò di leggerne pubblicamente la laudatio funebris. La carriera di Varo proseguì speditamente, divenendo proconsole della provincia d’Africa, distinguendosi in alcune operazioni militari e guadagnandosi la successiva nomina a governatore della Siria. A partire dal 6 a.C. Varo si impegnò, disponendo di almeno quattro legioni, a mantenere il controllo della difficile regione mediorientale. In particolare il regno di Giudea, retto in quegli anni da Erode il Grande, attraversava un periodo politicamente molto complesso e Varo venne coinvolto personalmente nelle delicate vicende di successione tra Erode e il figlio Antipatro. Alla morte di Erode si verificarono nuove sommosse, al punto che Varo dovette applicare una dura repressione, specie a Gerusalemme. Qui ordinò la crocifissione di quasi 2mila Giudei ribelli. Solo nel 3 a.C. quando il regno di Giudea tornò nelle mani di Archelao, altro figlio di Erode, Varo potè fare ritorno a Roma. Governatore in Germania Il successivo incarico per cui Varo viene ricordato è quello del 7 d.C. quando, ricevuto il governatorato, si recò in Germania. La regione era stata dichiarata pacificata dopo le intense campagne di Germanico, Druso e Tiberio e il governo dell’area fu lasciato al solo Varo, per il quale l’imperatore nutriva una sincera stima. Augusto chiedeva che venissero fondate città e fosse introdotto il diritto romano, in modo da trasformare quelle terre in una vera provincia romana. Ma l’atteggiamento di Varo risultò eccessivamente duro con le popolazioni locali. Egli pensò di trattarli come schiavi, li subissò di tasse e si rivelò un governatore avido e senza scrupoli. Di fronte al suo rigido comportamento, Arminio, principe dei Cherusci che conosceva molto bene i Romani avendo militato egli stesso nelle Truppe ausiliarie durante la rivolta dalmato-pannonica tra il 6 e il 9 d.C., organizzò una rivolta. Il 9 d.C. si svolse la tristemente nota battaglia della Foresta di Teutoburgo e fu la fine non solo di Varo, che fu costretto a darsi la morte, ma anche di un progetto
politico e di espansione che Augusto aveva fatto proprio.
Grandi Battaglie Teutoburgo 9 d.C. Le condizioni di governo imposte da Varo furono presto mal tollerate dai Germani. Il momento buono per la riscossa arrivò verso i primi di settembre del 9 d.C. Varo si era messo in marcia, alla testa di tre legioni, (la XVII, la XVIII e la XIX), 6 coorti di fanteria e 3 ali di cavalleria ausiliaria, nonché seguito da un consistente numero di civili, verso occidente, per tornare ai campi invernali di Castra Vetera, Colonia e Haltern. Non essendosi curato di approfondire personalmente la conoscenza della regione, continuava ad appoggiarsi ad alcune guide locali. Egli riteneva, nonostante alcuni lo avessero già avvertito di un possibile tradimento che, tra queste guide, Arminio principe dei Cherusci, fosse un suo alleato fedele e lasciò che fosse proprio costui a scortarlo attraverso quegli infidi territori. La verità era però che questi stava preparando una terribile aggressione. Per attrarre i Romani in un terreno che presto si sarebbe trasformato in una trappola, i Bructeri simularono una rivolta presso il massiccio di Kalkriese, in modo che il tragitto originario venisse deviato. Varo cadde nella trappola e si mosse in quella direzione. Così, senza prendere alcuna precauzione, e fidandosi scioccamente di Arminio e i suoi, finì nel cuore di un fittissima foresta circondata da paludi. I Romani avanzavano con grande difficoltà guidati dalle indicazioni di Arminio verso un vero e proprio imbuto. Lungo il percorso erano costretti ad abbattere numerosi alberi per spianarsi la via in mezzo alla fitta vegetazione. Una forte pioggia diminuiva ancora la visibilità e rendeva scivoloso il terreno. Il seguito di civili, schiavi e masserie appesantiva e disperdeva la colonna di uomini che ormai si sviluppava in un lunghissimo serpentone. A un certo punto Arminio trovò una scusa per rimanere indietro e riunirsi con gli altri barbari che si erano nel frattempo appostati nella foresta. Sigambri, Usipeti, Catti, Marsi, Bructeri e naturalmente Cherusci univano le loro forze nell’agguato. Il piano era stato disposto accuratamente: contro i circa 20mila Romani vi erano almeno altrettanti guerrieri barbari appostati in parte tra gli alberi della foresta, in parte a ridosso di un lungo terrapieno, fatto costruire appositamente tra il corso dell’Elba e il Kalkriese. Era il 9 settembre e al segnale convenuto i barbari attaccarono. Anzitutto circondarono i Romani, poi cominciarono a colpirli da grande distanza con frecce e giavellotti. Poi, infierendo su quegli uomini che non avevano neppure avuto il tempo di indossare le armi, si lanciarono all’assalto più ravvicinato. Favoriti dalla conoscenza dei luoghi e da un’accurata preparazione, i barbari colpivano con rapidi agguati per scomparire subito nel folto degli alberi. I Romani rimasero tramortiti e quasi senza opporre resistenza furono sottoposti a quei terribili attacchi. Solo sul fare della sera Varo riuscì a raccogliere i superstiti e organizzare un esercito, portandolo affannosamente su un’altura boscosa. Il giorno seguente, dopo essersi disfatti di ciò che non appariva più che necessario, i Romani cercarono di disporsi in uno schieramento e affrontare una marcia forzata verso i Castra Vetera dove speravano di ricevere il soccorso del legato Asprenate. Ma gli spazi angusti entro cui tentavano la fuga rendevano impossibile ogni tentativo di difendersi. Fu uno stillicidio: gli attacchi dei barbari non cessavano un solo momento, impedendo loro di mantenere una qualunque formazione. La marcia dei Romani si reggeva sulla sola forza della disperazione. La pioggia era tornata ad abbattersi con straordinaria violenza e non era possibile costruire neppure
un accampamento. I racconti parlano dell’impossibilità di tenere persino un’arma in pugno, per via dell’acqua che si abbatteva loro addosso. Le tribù vicine, ingagliardite dalle notizie che giungevano loro, inviarono altri rinforzi. In breve un’autentica marea di barbari prese a colpire a ripetizioni i Romani superstiti, come un atroce tiro a segno, finché gli ufficiali compresero che l’unica via di uscita era il suicidio. Anche Varo, dimostrandosi probabilmente in questo solo frangente all’altezza del compito affidatogli, si tolse la vita. Non furono pochi coloro che tentarono la fuga, mentre sui superstiti i barbari infierirono con tremenda ferocia, immolando i loro corpi alle divinità germaniche. A molti strapparono gli occhi, ad altri tagliarono le mani, a qualcuno cucirono la bocca dopo avergli tagliato la lingua. Il campo fu teatro di un orrore inusitato, al punto che Germanico, tornato nella Foresta di Teutoburgo per vendicare dopo 6 anni la disfatta, rimase ancora inorridito alla vista dei resti. Quando Augusto, già vecchio, ricevette a Roma la notizia rimase sconvolto come fosse stato colpito da un lutto gravissimo. “Varo, Varo, rendimi le mie legioni!”: così andava lamentandosi, gridando e intimando di non volere mai più Germani al suo fianco. I molti barbari che infatti militavano già nella Guardia Pretoriana furono mandati in esilio mentre i poveri resti del corpo di Varo venivano esibiti come prezioso trofeo da Arminio. Così, con una delle peggiori sconfitte di tutta la storia militare romana, aveva fine il sogno di una Germania romana.
Fonti antiche Cassio Dione, Storia romana; Strabone, Geografia ; Svetonio, Vite dei Cesari; Tacito, Annali; Velleio Patercolo, Storia romana ~~~~
Tiberio (16 novembre 42 a.C.-16 marzo 37 d.C.) Biografia Il successore di Augusto Tiberio Giulio Cesare Augusto (in latino: Tiberius Iulius Caesar Augustus; Roma, 16 novembre 42 a.C. – Miseno, 16 marzo 37) fu uomo politico, condottiero e imperatore, sul trono di Roma dal 14 al 37 d.C. Parallelamente ai brillanti esordi e gli ottimi successi militari, alcuni dei quali al fianco del fratello Druso, Tiberio ascese nel cursus honorum con grande rapidità, ma senza mai entrare nei favori di Ottaviano che pure, nel 4 a.C., lo adottò, facendogli mutare il nome originale che era Tiberius Claudius Nero. Augusto, tuttavia, lo designò suo successore in mancanza di altri validi eredi. Si rivelò ottimo stratega in più occasioni e con le sue campagne di successo seppe conquistare il consenso delle truppe. Come imperatore, tuttavia, non fu capace di attrarsi le simpatie del popolo né i favori del Senato, soprattutto per via del suo carattere, chiuso e assai poco amichevole, e delle tristi vicende personali. Figlio del pretore Tiberio Claudio Nerone e di Livia Drusilla, Tiberio apparteneva al ramo dei Nero della dinastia giulio-claudia. Il padre era tra i più accesi sostenitori di Marco Antonio e, anche di fronte al crescente potere di Ottaviano, aveva mantenuto la fedeltà al suo partito. Il piccolo Tiberio, quindi, ebbe un’infanzia difficile, segnata da repentini trasferimenti e fughe per
Cassio Dione, Storia Romana; Elio Sparziano, Severo (Historia Augusta) ~~~~
III secolo d.C. ~~~~
Aureliano (9 settembre 214-25 settembre 275) Biografia Imperatore tra i più grandi Lucio Domizio Aureliano (in latino: Lucius Domitius Aurelianus; Sirmio, 9 settembre 214 – Bisanzio, settembre 275) fu uno dei più grandi imperatori che la storia di Roma ricordi, e regnò dal 270 fino all’anno della sua morte. Grazie alla sua abilità e ambizione, le sue imprese militari e politiche riuscirono a rimettere in sesto un Impero sull’orlo dello sfacelo. In soli cinque anni di regno Aureliano fece quello che molti Imperatori prima di lui, nell’intero periodo di reggenza, non seppero neppure concepire. Grazie al polso fermo e all’incredibile capacità militare seppe sgominare gli usurpatori e reintegrare ampie porzioni di territori, rinsaldando i confini e venendo acclamato in ogni parte dell’Impero. L’Impero romano del III secolo d.C. era un insieme di regioni allo sbando, il cui vero potere stava in mano alle legioni, specie quelle della regione danubiana. Dalle sue file provenivano quasi tutti i generali e gli imperatori del periodo. Gli anni che precedettero la salita al potere di Aureliano furono difficilissimi: 15 imperatori si succedettero al comando in soli 35 anni. Assassinato Gallieno, i legionari scelsero Claudio il Gotico come successore per amministrare una situazione estremamente complessa: la Gallia nel 259 si era separata dall’impero e gli Alamanni premevano dal nord sull’Italia. Claudio, bisognoso di validi aiutanti, aveva scelto tra gli altri proprio Aureliano, affidandogli la carica di magister militum. L’uomo I natali di Aureliano furono piuttosto modesti, ma il suo carattere tenace e il fisico possente lo rendevano naturalmente predestinato al comando. Si dice che si curasse digiunando e respingesse i medici che venivano portati al suo cospetto, e che avesse una taglia talmente imponente e una tale capacità con le armi da tenere testa in battaglia a diversi nemici allo stesso momento. Si era persino guadagnato il soprannome di manu ad ferrum, “mano alla spada”. Così lo storico Flavio Vopisco di Siracusa scritto lo descrive nella Historia Augusta: “Aureliano, sebbene di origini modeste, si distinse sin dalla prima infanzia manifestando un ingegno vivacissimo e una eccezionale forza che coltivò allenandosi sempre, anche nei giorni di festa, nel lancio del giavellotto, nel tiro con l’arco, e in tutti gli altri esercizi d’armi.” (4, 1) Il suo aspetto era elegante e raffinato, la sua era una bellezza virile, contraddistinta da una statura piuttosto alta e una robustissima muscolatura; di tanto in tanto eccedeva nel vino e nei buoni cibi, molto di rado si abbandonava ai piaceri della carne ed era nel complesso severo, eccezionalmente attento a una rigida disciplina e sempre pronto a sguainare la spada. “Tra i cibi prediletti vi erano soprattutto le carni arrostite. E ugualmente amava moltissimo il vino
rosso.” (Historia Augusta, 49, 9) Sull’alimentazione basava anche i suoi personali metodi terapeutici: nel caso in cui si ammalasse, infatti, si rifiutava perentoriamente di chiamare il medico, ma preferiva curarsi da sé, specialmente digiunando. Prima di ogni cosa veniva non solo un grande senso di disciplina, ma anche il rispetto con cui ogni soldato deve trattare i propri commilitoni. Una straordinaria severità incuteva il timore reverenziale nei suoi soldati. Una volta, per punire un adulterio, fece legare le gambe del colpevole alla sommità di due alberi fatti piegare verso terra, in modo che quando furono improvvisamente rilasciati, gli alberi squartarono il corpo del traditore. Insieme a questa estrema severità vi era però la magnificenza di un grande comandante che non cercava mai inutili crudeltà. Ascesa al potere e primi successi Divenuto braccio destro di Claudio, gli venne affidato il comando delle azioni contro gli Alamanni che riuscì a sconfiggere sulle rive del lago di Garda. Nel 269 piegò i Goti in due occasioni, a Doberos e Naisso. Aureliano veniva ammirato e rispettato anche per la sua grande, occasionale, crudeltà, sempre intesa però a ristabilire la giustizia. “Giunse al punto di punire un suo soldato, colpevole di un adulterio consumato con la moglie di un ospite, ordinando che fosse legato per i piedi alle cime di due alberi costrette a piegarsi fino a terra e che fece mollare tutto a un tratto, in maniera che il reo rimanesse squartato in due parti penzolanti da entrambi gli alberi.” (Historia Augusta, 7, 4) Mentre l’imperatore Claudio, nel 270, era ancora intento a fronteggiare nuove invasioni gotiche, ad Aureliano venne assegnato il comando della regione balcanica. Proprio in quell’anno Claudio, colpito da un’epidemia di peste, morì lasciando il trono vacante. Appena giunta la notizia le truppe, sebbene vi fosse il fratello di Claudio a pretendere il trono, fecero immediatamente il nome di Aureliano che in pochi mesi di aspre battaglie aveva annientato i Goti in Tracia e nelle Mesie e rinforzato il versante balcanico. Appena tornato a Sirmio, città natale e suo quartier generale, venne acclamato dalle legioni. Prima ancora di essere proclamato ufficialmente imperatore dal Senato di Roma, pensò immediatamente a rendere sicuri i confini, minacciati ancora una volta dai barbari. Un esercito di circa 40mila cavalieri e 80mila fanti avevano infatti appena varcato il confine dell’alto Danubio, invadendo la Rezia e il Norico. Aureliano, con quella velocità d’azione che lo avrebbe reso leggendario, si diresse in Rezia e li affrontò mentre già quelli, avendo appreso di trovarsi di fronte il possente imperatore, già avevano cominciato la ritirata. Solo dopo averli battuti e aver imposto le proprie condizioni, si diresse a Roma, per ricevere ufficialmente l’incarico. Un Impero frammentato Aureliano fremeva: l’Impero era ancora diviso e più che mai oggetto di incursioni barbariche. Gallia e Britannia si erano separate nel 259 ed erano riunite ora sotto il comando di Tetrico. A oriente il vasto Impero di Palmira, agli ordini del giovane Vaballato e di sua madre Zenobia, si estendeva dall’Egitto all’Asia Minore. Nato da un accordo diplomatico del vecchio imperatore romano Gallieno che intendeva così farsi proteggere dai pericolosi Persiani, sotto il regno di Claudio l’Impero di Palmira aveva assunto sempre maggiori poteri e completa autonomia. Pur sapendo bene che riunire l’Impero era un obiettivo fondamentale, Aureliano era però cosciente di non avere ancora risorse sufficienti, e così attese, occupandosi nel frattempo di altre incombenze. Due nuove invasioni venivano in quei mesi tentate dai barbari, nella Pannonia superiore a opera dei Vandali e nel nord Italia da parte di Alamanni e Marcomanni, con un esercito complessivo stimato
intorno ai 120mila uomini installatosi nel cuore della pianura padana. Grazie a marce forzate e alcune importanti vittorie sulle singole bande armate, Aureliano riuscì ad annientare i barbari e dedicarsi alla guerra finale contro l’Impero di Palmira, che aveva sottratto un pezzo irrinunciabile d’Impero a Roma. Nel lungo percorso che l’avrebbe portato fino alle frontiere orientali dell’Impero, Aureliano affrontò Goti e Carpi, che annientò risolutamente, al punto da meritare l’appellativo di gothicus maximus. Dopo alcuni spostamenti strategici di truppe, alla vigilia dello scontro con Vaballato e Zenobia, Aureliano poteva contare su un esercito di oltre 45mila armati. Il confronto con Zenobia e i suoi ebbe un esito più facile del previsto, al punto che molte città lo lasciarono entrare spontaneamente senza opporre resistenza e acclamandolo imperatore legittimo. Solo la città di Tiana resistette, ma presto fu costretta a cedere. Nel 272 il regno di Palmira tornò, con i suoi vasti territori, a far parte dell’Impero romano. Due anni dopo stessa sorte subì il secessionista Impero delle Gallie al termine della battaglia che si svolse presso i Campi Catalauni. Si trattò quasi di una messinscena perché Tetrico, capo dei separatisti, non si presentò neppure sul campo. Grazie a questa repentina riunificazione il Senato romano lo insignì del titolo di Restitutor Orbis e gli celebrò un magnifico trionfo. Sfilarono decine di animali esotici e prigionieri di ogni nazionalità, che suscitarono stupore e compiacimento nei cittadini romani. Né Tetrico né Zenobia furono giustiziati ma fu permesso loro di condurre una vita agiata e dignitosa. Imperatore amato e temuto L’opera di Aureliano continuò anche sul fronte interno. Cercò di mettere fine all’enorme corruzione che aveva invaso i pubblici uffici tra cui la zecca, dove venivano coniate le monete, che aveva commesso gravi reati. Sedò alcune rivolte e non esitò a punire crudelmente i colpevoli delle sommosse. Istituì il culto del Sol Invictus stabilendo nel 25 dicembre il giorno di festa in onore del dio Sole. Rendendosi conto che le vecchie mura serviane, a fronte del pericolo divenuto concreto di una discesa dei barbari si apprestò a erigere le cosiddette Mura Aureliane, 19 km di fortificazioni alte 6 metri e spesse 3 e mezzo, che sarebbero state terminate solo dal successore Probo. Nell’estate del 275 Aureliano intendeva finalmente risolvere il problema dei Parti e preparò una spedizione contro la dinastia reggente dei Sasanidi. Era ormai nelle vicinanze di Bisanzio alla testa di un grosso esercito quando uno dei suoi segretari, per paura di una punizione, ordì una congiura e lo fece assassinare. La sua opera rimase incompleta, ma bastò a farlo risplendere nei secoli come uno dei più grandi Imperatori romani. Sopra ogni cosa teneva alla disciplina dei soldati. Così scrisse una volta alle sue truppe: “Nessuno osi rubare polli o pecore altrui. Nessuno sottragga uva, danneggi le messi o esiga olio, sale, legna, ma sia soddisfatto della propria razione. Un vero soldato deve trarre profitto dal bottino preso al nemico, non da ciò che si estorce agli abitanti delle province. Che la paga venga conservata nella cintura, anziché venire spesa nelle osterie. Ogni soldato rispetti il suo commilitone come fosse il suo stesso comandante, ma che nessuno mai assuma atteggiamenti di un servo.” (Historia Augusta, 7, 5-8) Fu anche uomo generoso, e di ampie vedute, assai amato dal popolo. Questo una volta disse rivolgendosi al prefetto annonario Flavio Arabiano: “Con il favore degli dèi abbiamo arrecato molti benefici allo stato romano, ma tra essi nessuno è cosa più magnifica dell’aver aumentato di un’oncia la razione di pane per i cittadini. Ora tocca a te, mio graditissimo Arabiano, far sì che le mie disposizioni non risultino vane. Non c’è infatti niente di più lieto che vedere sazio il popolo romano.” (Historia Augusta, 47, 2-4) In lui fu sempre chiara la consapevolezza di un destino difficile. Disse questa frase, che riassume la sua ostinazione e il suo forte senso di complessa fatalità, tipica di un grande eroe romano. “È come se
fosse il mio destino che ogni guerra, qualunque essa sia, così come ogni ribellione, abbiano sempre esiti gravi. Anche la rivolta in città è sfociata in un conflitto durissimo. Questo rende chiaro che gli dèi immortali non mi hanno concesso alcun successo che non sia irto di difficoltà.” (Historia Augusta, 38, 3-4) Il popolo lo amò, il Senato lo temette, ma certamente fu un soldato e governante capace di ricondurre lo stato romano alle sue antiche glorie. “Regnò per quasi sei anni”, è scritto nella Historia Augusta, “e per le grandi imprese compiute fu annoverato tra gli dèi. Il mondo intero Aureliano liberò dai crimini e dagli intrighi, ripulendolo da tutte le fazioni.” (37,4; 7)
Grandi Battaglie Campagna di Rezia Anno 270. Prima di ricevere dal Senato romano la carica ufficiale di nuovo imperatore, Aureliano si diresse in Rezia, dove orde di Iutingi erano impunemente penetrati. Alla notizia che Aureliano si era mosso contro di loro, i barbari già avevano invertito la marcia. Aureliano li sorprese quando quelli già stavano traversando il Danubio. I legionari si disposero a semicerchio e strinsero nelle loro maglie la retroguardia barbarica. Una buona parte dei barbari sopravvisse, ma agli ambasciatori iutungi che dopo lo scontro speravano di ottenere qualcosa toccò la visione di un imperatore forte e risoluto, irremovibile nell’ordine di lasciare al più presto i confini. E così fu. Battaglie in Italia Anno 271. Subito dopo la sua acclamazione a imperatore, Aureliano dovette accorrere nella pianura padana dove erano penetrati Marcomanni, Alamanni e Iutungi. A Roma si stava letteralmente diffondendo il panico perché mai i barbari avevano osato avvicinarsi tanto alla capitale. Percorsa la via Postumia, Aureliano subì una prima sconfitta in seguito a un’imboscata nei pressi di Piacenza, episodio che fece vacillare anche i suoi più convinti sostenitori nella capitale. Subito dopo Aureliano riuscì però a sorprendere i barbari alle spalle, approfittando della sete di bottino che li aveva nel frattempo disgregati in più bande. Uno ad uno le bande vennero massacrate, a Fano e poi nei pressi del fiume Metauro, e i barbari superstiti cacciati oltre il confine. Una volta che la guerra contro i Marcomanni fu portata a termine, accondiscendendo alla propria natura particolarmente violenta, Aureliano tornò a Roma bramoso di sfogare la propria ira con il pretesto di mettere fine ai gravi disordini della città. Dando corso alla propria brutalità, mise a morte i responsabili dei tumulti e, mancando del tutto di moderazione, soffocò in maniera fin troppo sanguinosa la repressione. Per questa ragione, “benché fosse un imperatore dotato di qualità eccellenti, si cominciò a temerlo e non ad amarlo: alcuni sostenevano che un principe del genere era da odiare, non certo da desiderare, altri che era un buon medico, ma utilizzava dei metodi di cura pessimi”. (Historia Augusta, 21,8) Battaglie contro l’Impero di Palmira Anno 272. Quando si trattò di affrontare i Palmireni capitanati da Zenobia, Aureliano sapeva bene che avrebbe dovuto resistere ai famosi arcieri e affrontare fra gli altri i cavalieri catafratti, uomini protetti insieme ai propri destrieri da una pesante armatura, vero fiore all’occhiello del forte esercito di Palmira. Presso il fiume Oronte (al di là del quale era stata collocata la fanteria romana), nei pressi di Antiochia, dove Zenobia e il suo generale Zebda si erano rifugiati, Aureliano riuscì più volte a sconfiggere i catafratti, dai legionari definiti in tono di scherno clibanarii, cioè forni ambulanti. Di fronte a un attacco dei Palmireni Aureliano ordinò alla cavalleria romana di ripiegare e solo quando quelli fecero scemare la loro offensiva, i Romani gli piombarono addosso massacrandoli. La