La Scrittura nel Medioevo-Dispensa Didattica 08/04/2013
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wertyuiopasdfghjklzxcvbnmqwertyuiopasdfghjklz Arianna Conca
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Indice La scrittura nel Medioevo………………………………….p. 2 La geografia dei manoscritti……………………………….p. 5 Dentro il monastero: lo scriptorium………………………p. 7 Il libro da copiare…………………………………………...p. 8 La pergamena……………………………………………….p. 9 Il monaco amanunense…………………………………….p. 10 La penna………………………………………………….….p. 13 Gli inchiostri…………………………………………….…..p. 14 L’impaginazione……………………………………………p. 15 La miniatura…………………………………………….…..p. 20 La rilegatura………………………………………………...p. 21 Bibliografia essenziale………………………………….….p. 25
La Scrittura nel Medioevo La scrittura dei testi nel Medioevo era fatta a mano: non si conosceva, infatti, altra tecnica se non quella del manoscritto. Erano chiamati amanuensi coloro che si occupavano di copiare e compilare i testi, che molto spesso esibivano una decorazione ricchissima che prendeva il nome di miniatura. Due avvenimenti degnano l’inizio e la fine dell’epoca dei manoscritti.
Il primo è l’arrivo del codice, cioè del libro vero e proprio come noi lo conosciamo con le pagine da sfogliare una ad una, dove si può procedere, ma anche tornare indietro, con facilità a leggere. L'origine del nome deriva dal latino caudex "tronco d'albero", poi monottongato in codex. E' riferito all'uso antico, già Romano, di scrivere su tavolette di legno ricoperte di cera (tabulae ceratae), che venivano a volte tenute insieme da anelli metallici o da una striscia di cuoio, in modo tale che si potessero ripiegare e chiuderle per riporle o trasportare più facilmente. Ne derivava una specie di forma a soffietto o propriamente di libro quale la intendiamo noi. Sono stati ritrovati esemplari di tavolette unite a formare una coppia e scritte sullo stesso verso "interno", e solo su quello, in modo tale che chiudendole si potesse nascondere e proteggere la cera per evitare che fosse grattata via cancellando la scrittura. Nel corso del tempo, su questa falsariga, il termine codex passò a indicare un insieme di fogli rilegati assieme. Il codice medievale andò gradatamente a sostituire il rotolo (volumen) che invece era molto scomodo da consultare: esso doveva essere tenuto aperto a due mani, svolto per leggere il contenuto e progressivamente riavvolto sulle due asticelle (umbilici) che erano poste alle estremità del rotolo. Facile
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capire come fosse piuttosto complesso consultare due rotoli a tempo o prendere appunti mentre si leggeva. Tabula cerata
Inoltre, il rotolo presentava uno svantaggio non da poco: siccome il papiro era scritto su colonne che si susseguivano verso sinistra, una volta che si era finito di leggere il testo, lo svolgimento del rotolo portava tutto il foglio ad essere avvolto sull’asticella iniziale, perciò, aprendo il rotolo per una nuova lettura, ci si sarebbe imbattuti nella fine del testo; quindi, terminata ogni consultazione, il rotolo doveva essere riavvolto daccapo sull’asticella finale affinché si potesse ripartire dall’inizio. Il formato libro era decisamente più pratico: si poteva tenere aperto su una mano, addirittura sulle ginocchia, si potevano confrontare molti più libri a tempo e non si dovevano compiere complicate operazioni per scorrere il testo. La forma del libro diventò quella più utilizzata prima di tutto nei testi di maggiore consultazione, come la Bibbia o le leggi. I codici più antichi giunti sino a noi sono stati ritrovati in area egizia e risalgono al I secolo d.C. Una produzione copiosa di codici si ebbe già in epoca tardo-antica (il periodo di transizione
dall’epoca romana a quella medievale) per raggiungere poi il culmine proprio con i secoli del Medioevo. Il passaggio dal rotolo al codice implicò anche un cambio di supporto scrittorio: il rotolo in origine era fabbricato usando il papiro mentre il codice finì tipicamente per essere fabbricato con pergamena. Ciò non significa che il passaggio dal papiro del rotolo alla pergamena del codice fu immediato, anzi; specie in area orientale, dove il papiro era diffuso e di comodo utilizzo, per molto tempo furono fabbricati codici di papiro, mentre parallelamente si diffondeva una produzione di rotoli di pergamena. Codice di papiro; glossa copta al Papiro Bodmer
La pergamena si diffuse essenzialmente perché più resistente, sebbene più costosa. Essa, infatti, è capace di resistere bene agli sbalzi di umidità, pertanto risulta meno deteriorabile. Il papiro è, infatti, sì in supporto molto pratico ed economico, ma è anche molto difficile da conservare, perché necessita di un clima non troppo umido per non deperire troppo in fretta. Non è un caso
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se la maggior parte dei papiri ci viene consegnata dall’Egitto, che gode da un clima arido. E’ provato che la resistenza di un rotolo in condizioni normali non avrebbe dovuto essere maggiore di qualche secolo. Altre condizioni di fortunato ritrovamento dei papiri sono eventi incendiari, che innescano reazioni chimiche le quali, pur bruciando le fibre- sempre che la carbonizzazione non sia eccessiva- fissano la scrittura che può essere recuperata dai papirologi attraverso particolari tecniche; similmente eccezionali sono i ritrovamenti testuali che sono stati possibili svolgendo le bende delle mummie, poiché scarti di papiro, anche scritto, potevano essere usati come materiali per fasciare il corpo del defunto. Ma come si produceva il papiro? Esso veniva fabbricato a partire da una pianta erbacea molto diffusa nella zona del Nilo, il Cyperus papyrus. Il fusto della pianta veniva tagliato in strisce sottili, poi messe a riposare nell’acqua; esse erano poi sovrapposte a formare una membrana a fibre verticali. Sopra questo primo strato ne veniva poi depositato un secondo con le fibre disposte in senso ortogonale alle precedenti. Erano le sostanze naturali presenti nella struttura vegetale della pianta di papiro, amido e acqua, a consentire un tenace incollaggio dei vari strati man mano che essi si asciugavano, sottoposti a opportuna compressione. Lisciato con della pietra pomice e fatto seccare, il foglio di papiro così ottenuto poteva raggiungere, secondo Plinio il Vecchio, una larghezza di circa trenta centimetri. Il risultato era un foglio assai resistente sul quale si scriveva generalmente su un solo lato del foglio, in righe incolonnate orizzontali seguendo l’andamento delle fibre (il lato scritto si
chiamava recto, quello lasciato bianco verso), usando sia un pennello sia uno strumento appuntito e intinto nell'inchiostro. La sola eccezione a questa regola è il primo foglio del rotolo, il protokòllon, che si presenta con le fibre orizzontali sulla facciata esterna e che non riceve la scrittura. La sua disposizione invertita lo rende più adatto a proteggere il rotolo: esso svolge infatti la funzione di custodi. Siccome il papiro non necessitava di essere cucito ma se ne poteva ampliare la dimensione semplicemente incollando più fogli (una ventina in media, ma in certi casi anche un centinaio) il papiro si univa tipicamente a formare strisce lunghe anche decine di metri che in prima battuta si decise di conservare appunto nel formato del rotolo, accuratamente riposti in contenitori cilindrici di legno (capsae) etichettate per facilitare il recupero dei testi una vota stipati in uno scaffale.
A. Foglio B. Protocollo C. Verso D. Recto E. Giunture F-G. Umbilicus
Struttura del rotolo
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Una leggenda vuole che la pergamena sia stata introdotta a Pergamo, sede in età Ellenistica (III-I sec. a.C.) di una delle due più grandi sedi di cultura del mondo, in opposizione proprio alla prima, più antica, Alessandria d’Egitto, patria della produzione papiracea. In realtà la realizzazione di pergamena risale a ben prima e questo carattere rappresenta solo un tratto dell’ideologia delle due scuole di pensiero.
Sarebbe stata invece l’invenzione della stampa a segnare il momento conclusivo della produzione di manoscritti, alla metà del XV secolo. Si cominciò ad usare una macchina, il torchio a stampa, sempre manovrata dall’uomo ma che non richiedeva più che si dovesse scrivere a mano. Nacquero così i primi incunaboli, ossia i primi libri stampati. Molti copisti si trasformarono così in tipografi, oramai alle soglie dell’età moderna.
Immaginate, a seconda dell’area geografica di produzione, quali caratteristiche differenti possono acquisire la scrittura e la decorazione. Un’altra distinzione deriva dallo scopo cui i testi sono destinati. I libri preziosi prodotti per i sovrani sono diversi da quelli conservati nella biblioteca di un monastero, così come i testi per uso quotidiano dei monaci sono diversi dai grandi libri usati per le cerimonie religiose. Differenze si rintracciano nell’impaginazione, nel formato, nella decorazione, nella legatura.
La Geografia di Manoscritti Il periodo dei codici su pergamena copre quasi mille anni e la quantità di esemplari conservati che ci giunge da quell’ampio arco di tempo è vastissima e molto diversificata secondo il periodo. Caratteristiche differenti sono date dall’area geografica di provenienza dei codici: non si deve dimenticare che quello della scrittura a mano su codice di pergamena è stato un fenomeno che si è diffuso ben al di là dei confini dell’Europa continentale: manoscritti medievali si sono conservati in Scozia, in Francia, in Spagna, in Italia, in Grecia ma anche in Turchia, in Medio Oriente (Persia) e in India, senza dimenticare la già citata Africa, solo per parlare delle aree a noi più prossime.
Manoscritto celtico; Royal Irish Academy
Si confezionavano libri nelle corti, nelle città in apposite botteghe, nelle biblioteche delle cattedrali; ma il contributo maggiore alla produzione libraria venne dai monasteri.
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Fino al XII secolo la produzione di manoscritti al di fuori dell’ambiente monastico o religioso era molto rara. Non che ci sia da stupirsi: la Chiesa aveva finito per detenere una specie di monopolio della cultura nel corso dei secoli bui dell’Alto Medioevo. Il numero di chi sapeva leggere e scrivere si era ridotto drasticamente e questo perché l’esigenza principale si era fatta quella di sopravvivere al pericoloso periodo di transizione costituito dalle invasioni barbariche. A più riprese la storia ci ha insegnato che ci vuole una condizione di vita in cui i bisogni fondamentali sono socialmente garantiti perché il senso della necessità della cultura si sviluppi, e questo non era certo il contesto appropriato per il fiorire delle arti. Avevano fine le scuole pubbliche come erano state impostate dai romani, nemmeno per i nobili si rendeva più tanto fondamentale avere una buona cultura. Furono essenzialmente i chierici a continuare a tramandare cultura per forza di cose, poiché era il loro stesso ministero a richiederlo. Con ciò la Chiesa si garantì un potere non da poco e un’influenza ben giustificata. E’ essenzialmente grazie alla consapevolezza della Chiesa stessa dell’importanza della cultura da parte dei chierici che i libri antichi cominciarono ad essere copiati, salvando centinaia e centinaia di opere antiche ma anche contemporanee dal pericolo dell’oblio. Fino al secolo XII la produzione dei manoscritti era affare esclusivo dei monaci, dopo divenne compito di veri professionisti. Avere un libro divenne comunque presto un motivo di distinzione sociale. Non si era magari in grado di leggere quanto vi era scritto, s’ignorava il valore culturale del testo, ma divenne chiaro che cultura significava potere, anche se solo simbolicamente posseduta attraverso il possesso di molti libri; inoltre divenne chiaro che i manoscritti potevano essere
considerati pari ad opere d’arte preziosissime perché i materiali di composizione del codice potevano essere tra i più pregiati. I monasteri finirono per incamerare centinaia e centinaia di volumi, creando biblioteche di estensione inaudita. Se per un privato possedere qualche volume era segno di grande possibilità economica –sulla reale implicazione di coscienza culturale s’è detto-, specie se essi erano di fattura pregiata, immaginate la ricchezza contenuta nei monasteri dove non solo si copiava, ma si abbellivano le copie con miniature e pregiate rifiniture. Qualità e quantità comunque andavano di pari passo all’interno delle biblioteche dei monasteri e una biblioteca ricca di volumi magari non esteticamente eccellenti poteva valere tanto quanto una biblioteca più ristretta ma di fattura migliore. Si creò un vero e proprio circolo di scambio tra monasteri, cosicché un manoscritto poteva viaggiare per mesi e mesi in Europa per essere copiato in diversi centri, realizzando numerose copie, che andavano a moltiplicare il range di diffusione della medesima. Le biblioteche si ampliavano ma si era ben lungi da una loro uniformazione. E’ proprio questo vasto movimento di volumi ad aver comunque consentito la conservazione di almeno una copia di una data opera.
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Dentro il Monastero: lo Scriptorium
volumi si potevano conservare anche dislocati in diversi ambienti del monastero, riposti in casse lungo i corridoi, nella stanza dell’abate, nella sala delle riunioni.
Tipicamente si collega il lavoro dei manoscritti miniati all’opera dei monaci amanuensi nello scriptorium, un vero e proprio laboratorio all’interno del monastero.
L’indicazione di un catalogo ritrovato in un’abbazia inglese del secolo XII inizia contando quattro libri della Bibbia. Erano enormi libri scritti in latino, la lingua ufficiale della Chiesa. Erano così grandi e pesanti che potevano essere aperti e sfogliati solo sopra un leggio enorme: erano esemplari di Bibbia monumentale ed erano decorati con raffinate miniature. Questi formati giganteggianti si ritrovavano per altre tipologie testuali: ad esempio a Palazzo Madama a Torino si conserva un leggio di enormi proporzioni che serviva a sorreggere un corale enorme (un libro di musica da messa). Non bisogna neppure stupirsi del fatto che il monastero inglese conservasse tante copie della Bibbia: si tratta comunque del testo fondamentale per la religione cristiana, tanto che spesso addirittura era conservato in più volumi. Tra gli altri libri di argomento religioso conservati nei monasteri troviamo poi i messali (libri per seguire la messa) o copie devozionali dei singoli monaci.
Il termine scriptorium indicava anche la scuola di calligrafia e di miniatura che si sviluppò in più monasteri dello stesso ordine. Qui si lavorava per le necessità del monastero, ma anche per rispondere alle richieste urbane o su ordine di privati (mercanti, notai, ecc.). I monaci si occupavano di organizzare, sotto la responsabilità dell’abate, tutti i processi che portavano alla redazione completa di un testo scritto, compresa tutta la Amanuense al lavoro parte che riguardava la costruzione vera e propria del codice o libro. La biblioteca vera e propria, il luogo dove i libri si conservavano, poteva essere situata in un luogo diverso dallo scriptorium che era deputato essenzialmente alla scrittura. I
Qui si copiavano testi di ogni tipo non soltanto religiosi: per
Antifonario; St John's College di Cambridge
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questo così tanto delle opere antiche è riuscito a conservarsi, ovviamente nonostante purghe, volontarie omissioni e correzioni che a volte hanno snaturato o comunque pesantemente corrotto certi testi. Dopotutto la diatriba sui valori dei classici pre-cristiani è stata una problematica ritenuta degna di prosecuzione ben oltre i confini cronologici del medioevo: si doveva salvare un patrimonio sapienziale eminentemente pagano, capace di mettere in crisi i valori dominanti della cristianità? Lo si doveva eliminare in blocco o qualcosa si poteva conservare, magari edulcorato negli elementi pericolosi? Le risposte a queste domande furono diverse da copista a copista, tanto che parlare di copie manoscritte è quasi eretico per un filologo, che preferisce parlare di testimoni manoscritti. C’è chi copiò i testi classici così come erano –o che almeno si sforzò di farlo salvo errori di distrazione- e chi invece decise di intervenire pesantemente su un testo per emendarlo da eresie o imprecisioni, vuoi per correttezza ortodossa, vuoi nel tentativo di salvare anche solo in minima parte opere che per via del loro contenuto avrebbero potuto essere ritenute “non consone”e quindi rimanere dimenticate dalla storia –o diciamo anche volontariamente obliate dai benpensanti-. Si copiavano così libri di storia e filosofia, medicina e trattati di agricoltura o matematica, ma anche satire e licenziosità. Ovviamente non si copiavano solo libri antichi, ma essi soprattutto erano oggetto di trascrizione. Chi ha letto “Il nome della rosa” di Umberto Eco ha chiara in mente la gravità di questa questione. In generale possiamo dire che tutti i generi che si sviluppano e proseguono nel medioevo si affiancano a quanti la tradizione letteraria precedente già aveva elaborato. Tutti i monasteri possedevano libri: ”Un monastero senza libri è come uno stato senza risorse, un campo senza greggi, una
cucina senza terrecotte, una tavola senza cibo, un giardino senz’erba, un campo senza fiori, un albero senza fogli”, così scriveva un monaco certosino svizzero del secolo XII.
Il Libro da Copiare S’è detto che i codici copiati in un monastero derivavano da altri codici, perlopiù presi in prestito da altri monasteri. L’abate, che dirigeva il monastero, quando decideva di far copiare un libro poteva inviare uno dei suoi monaci a prendere e poi di nuovo a riportare il codice in un altro monastero oppure poteva mandare un monaco amanuense a ricopiare il testo direttamente nel monastero dove l’opera Manoscritto del tedesco Eike von si trovava, evitando così Repgow "Sachsenspiegel", 1293 di far viaggiare, e quindi mettere a rischio, il manoscritto che era un bene assai
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prezioso. Una volta in possesso dell’opera che si voleva riprodurre, era necessario predisporre la materia prima per fare la copia, il che spesso richiedeva una spesa comunque assai significativa. I manoscritti che erano acquisiti per le biblioteche, monastiche o secolari che fossero, erano sovente marcati con un bollo che ne segnalava l’appartenenza ad una particolare collezione o persona. Questi sigilli, detti ex libris, sono solitamente posti all’inizio del manoscritto e rappresentano una fonte d’inestimabile valore per individuare la provenienza dei manoscritti stessi.
La Pergamena Pergamena è il nome che indica la pelle di un animale, solitamente di pecora, conciata per diventare superficie scrittoria. La pelle di pecora non è pensabile fosse reperita dai monaci interamente tramite il loro consumo di carne: bisognava quindi comprarla e questo faceva sì che già a priori la creazione di un manoscritto si rivelasse assai onerosa, perché la pelle di pecora era piuttosto costosa. Le pelli che avevano ancora attaccati brandelli di carne e peli erano immerse in acqua corrente per diversi giorni, quindi in una soluzione di acqua e calce oppure acqua e sterco d’uccello utilizzato come corrosivo -immaginate che profumo…-. Le pelli si tiravano poi fuori da questi bagni e le si tendeva al massimo
su una cornice, una specie di telaio cui la pelle veniva appesa. A questo punto la si raschiava con un apposito rastrello detto lunellum, una specie di rasoio a forma di mezzaluna. Poi le pelli s’immergevano in una soluzione di acqua e di nuovo le si tendeva sulla cornice in modo da far diventare il supporto sempre più fine e liscio, ancora tirano e raschiando con il lunellum. Il lavoro richiedeva molta attenzione Pelle su cornice e lunellum per evitare di procurare fori nella pelle che, tirando e grattando, sarebbero divenuti enormi: in quel caso la pelle si sarebbe dovuta buttare. Colui che si occupava di fabbricare la pergamena si chiamava percamenarius. La pergamena era una superficie ignifuga, nel senso che non bruciava con facilità; terminata la concia, la pergamena non si deteriorava più ed era anche riciclabile: raschiata e lavata con il siero di latte la si poteva inoltre riutilizzare. Il passo successivo era preparare il formato. La pergamena, sia prodotta dentro le mura del monastero, sia, ed è il caso più frequente, acquistata da mercanti, si presentava in rotoli, che avevano le dimensioni approssimative degli animali. Bisognava ritagliarla della misura di cui si volevano le pagine del codice. Il
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modo in cui il foglio di pergamena era piegato dipendeva dalle dimensioni del libro: per un volume molto grande bastava anche solo piegare la pelle a metà una sola volta, ottenendo due parti. Il doppione, cioè il foglio piegato in due, si metteva dentro ad altri tre doppioni ottenendo un fascicolo di otto pagine, pari a sedici facciate. Cuciti tra loro i fogli formavano il quaternum, gruppo di quattro fogli, che s’incollava a fianco di altri su una tavoletta rettangolare di legno che andava a costruire la costolina del codice. Preparazione dei quaterni
Il Monaco Amanuense Ma chi erano gli amanuensi? Per la maggior parte erano gli stessi monaci del monastero: in una famosa miniatura, posta nel colophon alla fine del manoscritto del “Commentario su Isaia” di San Girolamo compare l’autoritratto che “Hugo Pictor”, un monaco normanno, probabilmente originario di Jumièges, che opera alla fine dell’XI secolo, si fece al termine del faticoso lavoro. L’autore del manoscritto non voleva che ci si dimenticasse del suo duro lavoro e si ritrasse, con la tonsura e la tonaca
benedettina, alle prese con gli attrezzi del mestiere, penna e coltellino. In alcuni casi quello di copiare i testi non costituiva un lavoro a tempo pieno. Del resto il tempo dei monaci era suddiviso fra le mansioni giornaliere, tra cui al primo posto la preghiera. Spesso però vi erano monaci dedicati solo a copiare i libri, specie se il monastero era ricco e disponeva di 3.3 Autoritratto di Hugo “Pictor”, Oxford, un’ampia biblioteca. In Bodleian Library, miniatura (Ms. Bodley tal caso i monaci 717, San Girolamo, “Commentario su amanuensi potevano Isaia”, f. 287v), fine XI secolo godere di una sorta di regime speciale che permetteva loro di saltare anche determinate funzioni o ore di lavoro tendenzialmente dedicate ad attività di altro tipo. Il monaco amanuense poteva insomma apparire un privilegiato e per certi versi lo era, anzitutto per la grande cultura di cui era di solito caratterizzato. Avere sotto mano libri di argomenti ed epoche diverse permetteva al monaco di ampliare grandemente il proprio bagaglio culturale e raggiungere un livello di
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erudizione a dir poco eccellente. Per contro è anche vero che pensare che tutti gli amanuensi godessero di una genuina istruzione sarebbe fallace: vi erano monaci che il latino lo conoscevano più per finta che per davvero o addirittura erano pressoché analfabeti, ma venivano posti lo stesso ad assolvere l’arduo compito di vergare nuove copie manoscritte, se non altro in base al principio per cui “tutti sanno copiare”. Impossibile per costoro trarre giovamento dalla fatica della copiatura. Inoltre questo spiega anche perché a volte ci sono pervenute copie con grammatica assai stentata e palesi errori di copiatura. Che poi fosse una pacchia copiare per tutto il santo giorno, dall’alba, o quasi, sino al tramonto, è tutto da dimostrare. Il colofone di un codice riferisce: “Colui che Laurenzio, priore di Durham fra il 1149 ed il - 54, rappresentato come non conosce l’arte della copista nell’atto di stirare la pagina scrittura non sa quanto con un coltello che tiene nella mano questa sia faticosa: solo due sinistra; Durham, in un manoscritto a dita lavorano, ma tutto il lui contemporaneo di una sua propria corpo geme e si lamenta”. opera.
Non un quadro proprio idilliaco, insomma. Non ci dobbiamo sorprendere: i locali dove si copiava erano freddi, illuminati con lumi ad olio o candele di sego, i piedi dei monaci diventavano presto due ghiaccioli assieme alle mani che a stento impugnavano la penna, mentre partiva la lotta alla condensazione eccessiva dell’inchiostro. Era per giunta facile che ci si rovinasse presto la vista a compiere una fatica del genere. I testi venivano spesso dettati da un monaco mentre un altro si incarica di scrivere, anche se non è sempre così. Il revisore è colui che in genere sovrintende al lavoro, correggendo eventuali errori compiuti dallo scriba. Ciascun amanuense poteva però anche dedicarsi da solo di tutte le fasi di copiatura e controllo. Le raffigurazioni medievali spesso mostrano che negli scrittoi l’inchiostro era contenuto in corni e, qualche volta gli scrivani sono ritratti mentre tengono fra le mani tali contenitori, ma più spesso entrambe le mani erano occupate a lavorare, con penna e coltelli. Gli Evangelisti dipinti nei Vangeli di epoca Carolingia mostrano che essi tenevano l’inchiostro su un supporto separato, una sorta di porta lampada, accanto al tavolo di lavoro (una buona precauzione pensando quanto sia facile rovesciare un calamaio). Le raffigurazioni basso medievali presentano i corni contenenti l’inchiostro generalmente inseriti in cerchi di metallo, a loro volta attaccati al margine destro del tavolo di lavoro, e ve ne potevano essere da due a tre per i diversi colori, nero, rosso, ecc. Vi sono esempi in cui i corni con
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l’inchiostro sono inseriti in una serie di buchi verticali sulla superficie del tavolo e loro punte escono fuori dal fondo dello stesso tavolo. L’originale e la copia erano posti sul tavolo inclinato l’uno accanto all’altro. Nelle miniature si vede che i manoscritti erano tenuti aperti grazie a dei pesi appesi ad ogni margine con una corda che aveva un capo ciondolante sul retro del tavolo e l’altro sulla sommità della pagina. Un manoscritto di pergamena tendeva infatti a chiudersi se non veniva mantenuto aperto. Alcune volte i pesi sono rappresentati all’incirca come forme triangolari con sommità rotonde e parti inferiori estremamente allungate. Nel momento in cui lo scrivano si accingeva a copiare il testo, risultava per lui semplice spingere il peso in basso sulla pagina così che la parte inferiore, estremamente allungata, avrebbe segnato esattamente il suo posto sull’originale. Ciò era importante, perchè lo scrivano non aveva alcuna mano libera per poter seguire il testo dell’originale. Lo scrivere, infatti, era un gesto che prevedeva l’uso di entrambe le mani: una mano scriveva, mentre l’altra teneva in mano un coltello, usato per appuntire la penna e per cancellare gli errori e assolveva inoltre la funzione di stendere la pagina di pergamena, rugosa, e per scorrere lungo le linee man mano che il copista scriveva ogni parola. Riordinare una pagina con l’aiuto delle dita, infatti, può essere fonte di unto e scomodo allo stesso tempo, mentre il coltello permette maggior controllo e precisione. I copisti sedevano su sedie molto alte (giudicando dal materiale iconografico) di fronte ad un tavolo inclinato. Alcune illustrazioni medievali presentano la superficie del tavolo come
attaccata alla sedia, apparentemente attraverso cardini, in modo da permettere al copista di sedersi per poi rimettersi in posizione; tuttavia, appare difficile immaginare come il copista potesse effettivamente riuscire a muoversi nella sedia. L’inclinazione era assai ripida. Le penne d’oca sono maggiormente funzionali quando si adoperino con un’inclinazione ad angolo retto rispetto alla superficie dello scritto , il che è più semplice da ottenere su di un piano inclinato. Per uno moderno scrivano, rimarrebbe difficile scrivere con un’inclinazione così ripida a causa del modo in cui la penna viene oggi tenuta, che necessita il riposo della parte finale della mano e delle dita sulla superficie della pagina. Ma una penna mantenuta nel modo medievale richiede scarsamente che la mano tocchi la superficie del foglio ed il movimento è legato al braccio più che alla mano. Per questo motivo la flessibilità consentita dall’inclinazione del tavolo era ideale. Dal momento che l’inchiostro impiega qualche momento per asciugarsi si può notare come nella pagina dei manoscritti medievali la concentrazione dello stesso inchiostro risulta maggiore nella parte inferiore delle lettere dal momento che si è seccato assecondando l’inclinazione del tavolo. Inoltre, nel momento di cominciare la copiatura, al copista veniva raccomandato dai precetti dell’arte di passare un’ultima volta la pergamena con pomice e gesso per ammorbidirla. Ciò rimuoveva ogni grasso che poteva essersi accumulato nel maneggiare e ripiegare i fogli di pergamena e per ridurre il rischio che l’inchiostro sbavasse.
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La Penna Tutti, professionisti e non, avevano bisogno della loro penna personale. Già Isidoro di Siviglia (560 ca.-636) la enumera tra gli strumenti dello “scriba e. non da ultimo, è citata nella dotazione personale del monaco certosino nella redazione delle Consuetudines Cartusiae stilata da Guigo, quinto priore della Certosa di Grenoble (1127-1128): « Ad scribendum vero, scriptorium, pennas, cretam, pumices duos, cornua duo, scalpellum unum …» La penna era in genere di un grosso volatile da cortile, anatra oppure oca, anche se si hanno indicazioni d’uso delle penne di cigno, di airone, di grotto marino, oltre che corvo e aquila, particolarmente apprezzate per l’ampio diametro del fusto e per la durezza. Non è dunque impossibile credere che penne diverse potessero essere usate a seconda delle esigenze scrittorie, quasi come farebbe un moderno artista. L’utilizzo è comunque generalmente limitato alle sole penne remiganti dei volatili, le quali offrono la migliore combinazione tra lunghezza, diametro e resistenza del fusto: mediamente una remigante d’oca ha lunghezza di circa 40 cm per un diametro di 6-7 mm. La penna era impugnata assecondando l’angolo naturale di curvatura della penna stessa: per gli amanuensi mancini era consigliabile una penna dell’ala destra che presenta una leggera curvatura a sinistra, per i destrimani, invece, era più comoda una penna dall’altra ala.
La penna veniva anzitutto debitamente ripulita dalle piumette laterali e asciugata del naturale strato di grasso che la avvolgeva con un bagno nella sabbia calda. Bisognava a questo punto creare la punta: si utilizzava a questo scopo un coltellino affilato, che l’amanuense portava sempre con sé, lo stesso che utilizzava per operare direttamente sul manoscritto come più sopra descritto. La penna veniva spuntata e privata dell’anima, dopodiché si procedeva a creare la vera punta. Venivano praticati più tagli, ma quelli fondamentali rimanevano quello di sbieco e quello orizzontale, che eliminava la parte aguzza della punta dando al tratto un certo spessore. Una penna si usava per l’inchiostro nero ed una per il rosso, quest’ultimo impiegato nei titoli e nelle parti di maggior rilievo. Ultimata la trascrizione, qualcuno si occupava di rivedere il manoscritto, confrontandolo con l’originale prima che questo fosse restituito. La scelta di decorare un manoscritto doveva essere presa prima di iniziare il lavoro di miniatura perché gli spazi da destinare alle decorazioni dovevano essere delimitati e lasciati in bianco per il lavoro del miniatore, che spesso non coincideva col copista, ma era uno specialista a parte.
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Gli Inchiostri A: fusto, B: becco, B1, B2: sponda, C: scanalatura, D: pennacchio, E: taglio, F: punta mozza, G: fenditura, H: barba / barbula
a: tondo della penna, b: canaletto, c: curvità, d: primo taglio, e’: secondi tagli, f: vomero, g: sguinzo, h: punta temperata
Gli inchiostri più utilizzati sono sempre stati il nero e il rosso. Tutti gli inchiostri erano prodotti dai monaci. Il metodo più semplice per ottenere il nero era, per esempio, usare il nerofumo, ovverosia fuliggine sciolta in acqua con addensanti; ma molto diffuso a partire con l’alto medioevo era l’utilizzo della galla da quercia, un’escrescenza dovuta al morso di un parassita alla base della foglia, che se pestata e unita a gomma arabica e solfato di ferro produceva una sostanza di questo colore. Su questa falsariga, molti inchiostri derivavano da ossidi metallici o pigmenti vegetali, in generale specie le sostanze tannanti vegetali. Ruolo importante assumeva il vitriolo, addensanti come le gomme (tra le quali quella arabica era rinomata per essere di miglior qualità) ed un liquido portante: soprattutto vino bianco, ma anche acqua, birra o aceto. Per attirare l’attenzione su passi particolarmente importanti venivano utilizzate le cosiddette “rubriche” (ovvero scritte in rosso, come titoli, citazioni, sottotitoli) per le quali si adoperava un inchiostro a base di cinabro, un minerale contenente solfuro di piombo, altamente velenoso, che veniva macinato e mescolato a chiara o rosso d’uovo e gomma arabica. Un altro minerale che veniva utilizzato per produrre inchiostro rosso era il tetrossido di piombo, più comunemente conosciuto come rosso piombo o minio, mescolato a inchiostro nero o, ancora, la più comune, e decisamente meno tossica, ocra rossa.
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L’inchiostro blu si ricavava invece dal lapislazzuli, il verde dalla malachite, l’oro e l’argento dalla sfoglia di quel metallo e la loro presenza denota una fattura di particolar pregio. I colori potevano diventare corrosivi e sciupare addirittura la pergamena se i componenti non erano stati miscelati ad arte: per questo a volte nei manoscritti possiamo trovare dei veri e propri buchi sulla pergamena creatisi nel corso di qualche decennio soltanto. Tutti i colori avevano bisogno di addensanti o di colle per aumentare la viscosità e l’aderenza al foglio di pergamena: un tipo di colla si ricavava dalla bollitura delle pelli e degli scarti della pelle durante la lavorazione della pergamena, oppure si utilizzava la colla di pesce o il bianco d’uovo, oppure la gomma arabica sopra citata. Le pagine di pergamena, appena steso l’inchiostro, si accartocciavano per il contatto con l’elemento liquido. Una volta asciugata la scrittura, le pagine si ristendevano.
"Miniatore mescola i colori". Capolettera C miniato, tratto dal foglio 329r del manoscritto "Omne Bonum" di James le Palmer, compilato in Inghilterra, forse a Londra, nel 1360.
L’Impaginazione Punteruoli per tracciare le righe
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Ritagliati i fogli a misura, l’amanuense, prima di poter davvero iniziare a scrivere, doveva gestire l’impaginazione. Il copista doveva anzitutto misurare le pagine per tracciare le linee-guida, una sotto l’altra, con l’aiuto di un compasso e del righello. Le linee, che servivano per ordinare il testo, si dovevano appena vedere e si segnavano: o con punteruoli (punctoria) con un leggero solco sulla pagina con la cosiddetta rigatura a secco o indiretta perché si eseguiva sovrapponendo più fogli in modo tale che, graffiando solo il primo, il solco fatto lasciasse impronte anche sugli altri, facilitando di molto il lavoro); o con la grafite, molto più tarda della rigatura a secco (appare tra XI e XII secolo), detta rigatura diretta perché il lavoro procedeva foglio per foglio, permettendo di variare l’impaginazione tra le pagine che magari avevano miniature e titoli posti in posizioni differenti; oppure a partire dal XIII secolo viene utilizzata la
rigatura ad inchiostro colorato, una tecnica analoga a quella precedentemente descritta, che presentava gli stessi pro e contro. Esisteva uno strumento, chiamato mastara o tabula ad rigandum, che serviva per facilitare e meccanizzare la realizzazione di determinati schemi di rigatura, che erano moltissimi. Questo strumento era costituito da una griglia di cordicelle che veniva impressa con forza sulla superficie del foglio e che riproduceva uno degli schemi scelti per l’impaginazione. Così facendo, si evitava di tracciare Raro trovare un manoscritto con ampissimi margini come questo, perché si cercava di non sprecare la pergamena. Da una copia del Isagoge di Hunayn Ibn Ishaq al 'Ibadi (Iraq 809 - 873), manoscritta e miniata su pergamena a Parigi nel 1220
una alla volta le righe che componevano lo schema, con un notevole risparmio di lavoro.
L’impiego della tabula ad rigandum è rivelato dalle caratteristiche seguenti: 1) Vi è totale assenza di fori, 2) Per quanto concerne il tracciato, i solchi provocati dall’impressione delle corde sulla faccia del foglio si presentano arrotondati e possono esibire, al pari dei rilievi, l’intreccio della corda. L’altro lato del foglio presenta rilievi arrotondati (specialmente su supporto morbido), ma più frequentemente spianati, in seguito alla pressione esercitata al momento della rigatura; pertanto le righe si presentano piatte, abbastanza larghe, con segni evidenti di abrasione soprattutto quando è maggiore la rigidità della pergamena; lucide a un’osservazione del foglio con luce radente; per questi motivi la rigatura appare più facilmente visibile sul lato non a contatto con lo strumento. Viceversa, l’impiego della punta secca determina un’incisione netta, più o meno profonda, cui corrispondono rilievi più o meno accentuati. L’incisione profonda può addirittura provocare tagli del supporto. 3) Si osserva l’interruzione delle righe in corrispondenza degli incroci, soprattutto nel caso della giustificazione doppia. L’uso della punta secca produce invece righe ininterrotte. 4) E’ costante la lunghezza delle righe orizzontali, che non travalicano mai la barriera rappresentata dalla giustificazione verticale. Quando è usata la punta secca, le righe orizzontali si estendono saltuariamente oltre la giustificazione verticale, anche quando l’operazione di rigatura è praticata con la maggiore diligenza. 5) Mutevole invece la lunghezza delle righe verticali dello specchio, che possono tanto estendersi da bordo a bordo, quanto arrestarsi nei margini ad altezze variabili, se la manifattura non è accurata.
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6) Le dimensioni dello specchio sono rigorosamente costanti in tutti i fogli del codice. In tutti gli altri casi si osservano sempre oscillazioni di più o meno grande entità. Solo una volta tagliata a formato la pergamena, tracciate le righe, lasciato lo spazio necessario per le parti miniate da eseguire in un secondo momento, l’amanuense si metteva al lavoro con la copiatura. I codici manoscritti medievali seguivano da punto di vista formale delle regole simili alle nostre, anche se non proprio le medesime. Anche in quest’epoca, ad esempio, ogni libro iniziava con il titolo e con il nome dell’autore, quando fosse conosciuto. Non era invece molto importante il titolo del copista anche se a volte in una miniatura o in un angolo poteva comparire un “segno” che indicava chi aveva fatto la fatica di replicare il manoscritto A volte, la prima pagina di un manoscritto riportava una subscriptio, ossia un’iscrizione indicante il luogo e/o la data di pubblicazione del libro e/o il nome dello scrivano o del committente. Tanto la subscriptio quanto il colofone, un enunciato del medesimo contenuto del precedente, solo posto alla fine del libro, quasi a fare da specchio alla subscriptio, sono elementi facoltativi che appaiono nei libri medievali solo sporadicamente. “Incipit”, ossia "inizia", è la formula che indica l’attacco del testo. Nei codici nei quali sono riportati diversi testi (i quattro Vangeli, o un’antologia di sermoni) solitamente si trovano
Differenze fra pagine impresse con tabula [T] e pagine incise con punta secca [p]
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altrettanti incipit di quanto sono i testi. L’incipit viene a volte confuso con il titolo o con la subscriptio per il semplice motivo che tutti cominciano con la parola incipit. Per la stessa ragione explicit, letteralmente “spiegato”, una formula che indica la fine del testo o di una sezione di esso, è spesso confusa con il colofone. L’indice ovverosia lo schema analitico del contenuto di un volume fece la sua comparsa come conseguenza di una nuova inclinazione verso la lettura. Prima che intervenisse tale cambiamento, i libri venivano letti senza soluzione di continuità dall’inizio alla fine. Questo era il modo di leggere meditativo tipico dell’ambiente monastico che non aveva alcuna necessità
Index of the Sermon Collection, tardo XIII c.
di dover rapidamente riconoscere e trovare una sezione particolare di un determinato libro. Con il XII secolo e la nascita del pensiero e del metodo di studio della Scolastica, la disposizione verso la lettura conobbe un profondo mutamento. Studenti, professori e predicatori, infatti, intendevano il libro più come uno strumento dal quale attingere informazioni e citazioni che come semplice oggetto di lettura. Questi nuovi lettori volevano e dovevano essere in grado di effettuare una rapida ricerca per argomenti in qualsiasi testo, tralasciando le parti che non erano di loro interesse. L’esistenza di un indice preliminare al testo divenne, quindi, un elemento fondamentale per ogni codice a partire dal XII secolo in poi. All’inizio gli indici erano delle semplici liste di titoli di capitoli ma in seguito diventarono schemi ragionati degli argomenti contenuti nel libro. Questo è il caso dei Decreti di Graziano, un complesso testo di giurisprudenza, che includeva non solo l’elenco del numero e del titolo dei capitoli ma anche una tavola sinottica con i compendi degli argomenti discussi in ogni capitolo e paragrafo. La numerazione delle pagine è una pratica che si sviluppò solo gradualmente nell’ambito dei manoscritti medievali. All’inizio i soli quaderni erano segnalati attraverso l’uso di parole chiave o contrassegni. Il contrassegno era solitamente la prima parola della prima linea del quaderno seguente e veniva scritto sul margine, nell’angolo basso a destra dell’ultimo foglio verso del quaderno precedente. Più tardi venne introdotta la norma di indicare la sequenza dei quaderni con
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numeri o lettere. L’insieme di questi segni era annotato dallo stesso copista autore del testo in modo che il rilegatore fosse in grado di rilegare i diversi quaderni correttamente fra loro. Due fattori portarono alla definitiva accettazione del metodi della numerazione dei fogli: lo sviluppo degli scrittoria e il cambiamento della funzione del libro. Fra XII e XIII secolo, infatti, il numero delle persone coinvolte nell’industria dell’editoria era notevolmente aumentato: rubricatori, miniaturisti, correttori intervenivano tutti nella creazione di un libro. Una tale complessità di procedure non poteva che aumentare il pericolo di confondere la posizione non solo dei quaderni ma anche dei bifolia all’interno degli stessi quaderni. D’altro canto, le nuove generazioni di lettori a partire dal secolo XII avevano la pretesa di poter rintracciare facilmente e velocemente in un libro qualsivoglia informazione e citazione. La numerazione dei fogli di un manoscritto cominciò con la assegnazione di numeri solo al recto di un foglio. Questo metodo, usato raramente già nell’Antichità, diventò la regola a partire dal XII secolo. Tuttavia, esistevano diversi metodi. Uno di essi consisteva nel contrassegnare i fogli con una combinazione di lettere, numeri, o altri segni (asterischi, punti, cerchi, croci etc.) dove in primo luogo era dato il numero del quaderno, e di seguito il numero del foglio all’interno del proprio quaderno: Ai, Aii, Aiii to Aviii, Bi, Bii, etc. Questi segni erano posti nel mezzo del margine basso del foglio e qualche volta anche decorati. Non era quindi più compito del copista
indicare la sequenza dei fogli: questo lavoro veniva adesso svolto da uno specialista dopo che il testo era stato completamente ricopiato, decorato e corretto. Con la numerazione continua delle pagine di un manoscritto, si assegnano tanto al recto quanto al verso di un foglio numeri posti in ordine sequenziale (ad esempio da 1 a 348). Questo tipo di numerazione apparve nel XII secolo e divenne comune per tutto il Basso Medioevo. Oltre alla foliazione ed alla numerazione delle pagine, per aiutare la ricerca delle citazioni in certi libri di argomento liturgico, venivano numerate anche le colonne (nel caso vi fossero più di una colonna per pagina) ed anche le righe.
La Miniatura La decorazione a fianco dello scritto appare a Bisanzio intorno al VI secolo d.C. Il termine latino usato per indicare la decorazione è luminare, dove si esprime l’idea di dare luce con i colori, ma anche prestigio e ricchezza al manoscritto. Con il termine miniatura da minio, rosso, s’indicava invece una decorazione per la quale si era utilizzato questo colore. In seguito il termine miniatura non sarà più usato per indicare la figura in quanto colorata ma in quanto piccola. Già prima di Carlo Magno esisteva una differenza tra il ruolo del copista e quello del miniatore, poiché scrivere e miniare erano due attività complesse e avevano bisogno di specializzazione. Anche chi si occupava di stendere la foglia
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d’oro su miniature importanti, il cosiddetto doratore, era spesso un altro artigiano. Immaginatevi l’armamentario del miniatore: pennelli sottilissimi di martora o di scoiattolo, stracci per pulire o filtrare i colori, mortai per sminuzzare, recipienti, boccette, piccole tazze, vasetti, pelli, corni, conchiglie. Il dente di cinghiale e la zampa di coniglio erano indispensabili per lisciare la foglia d’oro. Molto spesso la decorazione si concentrava sulla prima lettera detta capolettera del testo o del capitolo. E’ impressionante la varietà di decorazioni che si possono incontrare, sia di soggetto astratto sia figurativi, anche solo all’interno dei capilettera, quasi che in quel breve spazio il miniatore dovesse dare espressione a tutta la sua creatività. In alcuni casi lo spazio di una sola lettera offre lo spazio per la rappresentazione di un’intera storia a piccole scene. Non si deve mai dimenticare che il manoscritto miniato era un soggetto di grande pregio e di alto costo: s’intuisce da tutti i materiali che servivano per realizzarlo e dal numero di persone che vi lavoravano; per questo era conservato con gran cura ed è stato trasmesso come un bene prezioso fino a noi. Figurarsi allora l’importanza di particolari manoscritti come i codici purpurei, ossia i manoscritti di lusso nei quali il testo è scritto in genere in oro e argento su pergamena tinta in porpora con una mistura di carminio e azzurro (un esempio è il “Codex Purpureus Sarzanensis”). I colori delle miniature erano ricavati da animali o vegetali: il giallo dal guado, il blu da indigofera i isatis, mentre il rosso scarlatto era dato dalla larva di chermes.
Capolettera miniato raffigurante Davide arpista e san Francesco stigmatizzato.
1450 circa
Decorative al pari delle miniature potevano essere molto spesso le glosse di correzione. Quando infatti capitava –e capitava di frequente- che l’amanuense commettesse un errore nella copiatura (poteva saltare una parola, invertire delle lettere, sbagliare l’ortografia di una parola, ecc.) per consentire la correzione, il copista nello scrivere lasciava volutamente un certo margine di distanza tra le linee per consentire di intervenire emendando tra l’una e l’altra, oppure attraverso rimandi laterali. Queste correzioni, per evitare che abbruttissero le pagine, venivano appunto spesso decorate con ghirigori e addirittura eseguite in rosso o colorate.
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La rilegatura
- 21 Per eseguire la miniatura il minatore anzitutto tracciava i contorni del disegno con una penna sottile e con inchiostro diluito (1). Applicava poi una sottile lamina d’oro su un fondo trattato con albume d’uovo (2). Tracciava a penna i bordi delle campiture colorate, che riempiva poi con un pennello di pelo di martora (3), mentre un sottile tratteggio bianco, la lumeggiatura, completava il capolettera (4).
La rilegatura è l'ultimo stadio nella produzione di un manoscritto. Un libro non poteva dirsi, infatti, completato e pronto per essere immesso sul mercato una volta terminate le miniature. Era, infatti, costituito ancora da fascicoli sciolti, alcuni dei quali, probabilmente, smembrati in fogli separati. Tutto ciò andava raccolto insieme, messo in ordine, e tenuto insieme da una qualche legatura funzionale. Un libro finito è invece caratterizzato da un assemblaggio di quaternioni cuciti e protetti da una copertura flessibile o rigida, i piatti di legatura.
Nel Tardo Medioevo, tale compito era svolto dal cartolaio o rivenditore di libri. Quando è possibile identificare un rilegatore commerciale, questo spesso appare essere proprio un cartolaio, che in genere aveva preso gli ordini per i manoscritti da pubblicarsi e aveva poi distribuito i fascicoli fra i miniaturisti della città; a lui spettava, poi, il compito di ritirare le diverse parti del libro, ripulirle (cancellando le istruzioni e le macchie lasciate nel corso delle varie fasi della lavorazione), assemblarli in sequenza in accordo alle segnature o alle testatine ed infine rilegare il l metodo per attaccare bifolia già volume per il cliente. Per l'Alto cuciti fra loro alla cassa e Medioevo, quando il libro era l’attaccatura dei bifolia fra loro. .
produzione quasi esclusiva dell'ambito monastico, la rilegatura era fatta da uno qualsiasi dei membri della comunità che fosse in grado di portarla a compimento. Frequentemente i cataloghi delle biblioteche monastiche presentano uno o più scaffali con libri non rilegati, qualche volta nella forma semplice di
quaterni. Dal primo momento in cui si cominciò a mettere insieme i
manoscritti in forma di libri, i vari fascicoli venivano tenuti insieme attraverso una cucitura sulla piega centrale. Il libro è costituito da una serie di fascicoli uniti l'uno all'altro con le cuciture del primo e dell'ultimo di questi congiunti alle copertine. Le rilegature dei libri greci ed orientali erano essenzialmente di questo tipo così come quelle dei primi libri monastici occidentali. Nel corso dell'intero Medioevo, tuttavia, i manoscritti venivano cuciti utilizzando fascette, cinghie o spaghi unite orizzontalmente ad angolo retto al dorso. I punti di ogni fascicolo passano attraverso la piegatura centrale e intorno Struttura interna della rilegatura alla fascetta stessa, di nuovo dentro la piega centrale e fuori ancora intorno alla fascetta, di nuovo dentro la piegatura e così via. Il seguente fascicolo sarà lo stesso e così fino a che tutti i fascicoli non saranno attaccati in modo sicuro alla cinghia posta lungo il loro dorso.
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A partire almeno dal XII secolo, tuttavia, la cucitura veniva effettuata mediante l'aiuto di un telaio. Questo è un congegno di forma simile ad un cancello, posto in posizione verticale sul banco di lavoro. Le fascette che formano come delle colonne di resistenza per il dorso, sono stese verticalmente sul telaio, essendo sospese fra la cima e il fondo del telaio stesso. Il primo fascicolo è posizionato sul banco di lavoro con il suo dorso contro queste fascette tese e viene cucito al suo centro ed intorno alle fascette stesse. Il fascicolo successivo viene disposto sulla sommità del precedente, tenuto pressato e steso da un blocco di legno in modo che non si perda l'allineamento, e viene sottoposto al medesimo trattamento ed in questo modo si prosegue fino a Interno di una legatura italiana del 1460. In pelle bazzana marrone su assicelle di legno presenta all'interno dei piatti fogli di pergamena manoscritti nel 1300, con piccoli capolettera in rosso e blu.
che il libro non è assicurato con il suo dorso al telaio. La cucitura è l'operazione maggiormente lunga nella rilegatura. I metodi per cucire i fascicoli variavano da secolo a secolo così come da luogo a luogo.I piatti della copertina, anteriore e posteriore, sono formati, in genere, dal quadrante (in passato realizzato in legno, ma già dalla fine del medioevo per lo più di cartone), rivestito all’esterno dalla coperta (che può essere di pelle o di altri materiali), mentre sulla sua faccia interna è incollata la carta di guardia o controguardia. Qualche volta i piatti erano di pelle. La cassa, la parte sporgente dei piatti rispetto al testo, dei manoscritti medioevali era generalmente di legno. La quercia era comunemente usata in Inghilterra e Francia, mentre pino e faggio si utilizzavano in Italia, pertanto i manoscritti rilegati in Italia erano più leggeri di quelli nordeuropei. L’uso del cartone (un materiale fatto con scarti di carta o pergamena misti a colla) era assai poco frequente nel Medioevo e iniziò a diffondersi con una certa costanza a partire dal tardo XIV secolo specie in Europa meridionale, in Spagna ed in Italia, a Bologna, Milano ed infine a Padova. Di qualsiasi materiale fossero fatti, comunque, venivano squadrati nella forma del libro. Nei primi manoscritti erano tagliati a filo con i margini delle pagine; a partire dal 1200 iniziarono ad eccedere i margini ed anche ad essere ripiegati su di essi. Le fascette sul retro dei fascicoli cuciti venivano allacciati alla cassa. Spesso alcuni fogli volanti erano aggiunti alla fine del libro (ciò spiega il costo per l'extra vello citato nei conti dei rilegatori), alcune volte riusando fogli scartati e rovinati di vecchi manoscritti. Per
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i filologi questo è stato molto spesso importante perché ha consentito il ritrovamento du interessanti pezzi di lavorazione o addirittura codici per il resto andati perduti. Le fascette potevano essere allacciate ai piatti mediante vari metodi. Le estremità delle fascette venivano assicurate ai piatti attraverso martellatura di pioli di legno o, qualche volta in Italia, chiodi. A questo punto il manoscritto era inserito nella cassa, pronto per essere usato. Di solito, comunque, l'esterno del libro poteva essere ricoperto di pelle conciata e colorata. Su alcuni libri di epoca carolingia le rilegature avevano semplici disegni impressi sulla pelle. In seguito si sviluppo una moda per l'ornamentazione a stampo delle rilegature nella
Francia settentrionale a partire dal tardo secolo XII, e rilegature decorate mediante cesellatura (anche se poco comuni) s’incontrano a cominciare dal XIII e XIV secolo. Con la metà del XV secolo, invece, tale pratica divenne assai diffusa. A partire da questo momento, i lati delle rilegature furono frequentemente decorati con serie di stampi di animali e piante appositamente preparate. Per far ciò si usava uno strumento metallico con manico in legno. Questo strumento veniva scaldato e, di seguito, il rilegatore lo prendeva con entrambe le mani e lo posizionava sulla rilegatura pressandovelo sopra con forza, usando il peso del corpo, e facendolo ruotare da una parte all'altra; l'operazione andava eseguita velocemente risollevando rapidamente lo strumento. Non era necessaria una enorme pressione per lasciare uno impressa una traccia sufficientemente nitida. Queste potevano risultare in file, a reticolo o in altri modi. La parte esterna della rilegatura poteva essere fornita di punzoni di metallo o pezzi per gli angoli e, di solito, con qualche tipo fibbia per mantenere il libro chiuso. La pergamena quando sia stata piegata, non importa quanto attentamente, tende a incresparsi in funzione delle variazioni di umidità e temperatura se non è tenuta ferma dalla delicata pressione di una fibbia. I libri medievali erano spesso anche infilati in involucri sciolti, dette Camicie/Sopracopertine, che avvolgevano l'esterno proteggendolo dalla polvere. Molto più frequentemente di quanto la sopravvivenza delle rilegature medievali possa suggerire, i manoscritti erano ricoperti da tessuto e broccati (materiali estremamente
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deperibili) o con pietre preziose e gioielli (che con molta probabilità so stati rimossi più o meno legittimamente) o con smalti e pitture. Gli inventari medievali sovente descrivono le rilegature, dal momento che la parte esterna di un libro rappresenta la traccia più semplice per riconoscerlo, e danno l'impressione che le biblioteche private e ben fornite dei ricchi signori o i tesori delle grandi chiese fossero pieni di libri con rilegature multicolori ed elaborate. L’arte rappresentata in questi lavori ci porta, però, fuori dalla bottega del cartolaio e, invece, dentro quella dello smaltatore o del gioielliere. Per quello che riguarda la copertina che racchiudeva il volume, infatti, si ritrovano spesso preziosi lavori di oreficeria, oppure piccole e preziose opere di arte incisoria in avorio o in metalli preziosi, spesso con pietre incastonate come sopra un gioiello.
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