Pasqua 2020 A casa ci siamo rimasti davvero!
L’IMPEGNO DELL’ARPAC NELL’EMERGENZA COVID-19 Dall’inizio di marzo il nostro Paese è stato investito dall’esplosione progressiva e virulenta di un’emergenza epidemiologica senza precedenti, con una devastante e rapida diffusione a livello europeo e planetario. In Italia essa ha colpito duramente soprattutto la Lombardia ma si sta manifestando quasi ovunque sia pure con proporzioni diverse, suscitando criticità e preoccupazioni anche in Campania, soprattutto per la durata e le conseguenze ancora imprevedibili, anche se si intravede qualche incoraggiante segnale di decremento verso la cosiddetta “Fase 2”. La società contemporanea, caratterizzata dal benessere socio-economico e da un avanzatissimo sviluppo tecnologico, si manifesta anche come la società dell’incertezza e dei “grandi rischi” (vedi l’interessante letteratura sociologica di Bauman) scoprendo in questa circostanza tutta la sua profonda fragilità ed incertezza. Siamo abituati a vederci come esseri intelligenti e sofisticati, che usano smartphone e le tecnologie più spinte, in grado di raggiungere in poco tempo qualsiasi destinazione nel mondo, di disporre di un universo di connessioni e di informazioni, ma ci scopriamo all’improvviso disarmati e vulnerabili a fronte di un nemico virale tanto più insidioso quanto invisibile e poco conosciuto. Il sociologo Zygmunt Bauman
scriveva che “ la paura più temibile è quella diffusa, sparsa, indistinta, libera, disancorata, fluttuante, priva di un indirizzo o di una causa chiara. La paura che ci perseguita senza una ragione, la minaccia che dovremo temere e che si intravede ovunque, ma non si mostra mai chiaramente”. Il nostro sistema di protezione civile, evoluto e consolidato nel tempo, ha saputo fronteggiare in modo ciclico, negli ultimi decenni, catastrofi naturali ed antropiche relative ad eventi sismici, idrogeologici (frane ed alluvioni) e vulcanici, incidenti industriali ed atti di terrorismo internazionale. Non vi è memoria recente, nel pur ricco catalogo delle calamità, di una pandemia così violenta e diffusiva – con un bilancio di decine di migliaia di vittime, contagiati e malati gravi – che sta determinando una drammatica congiuntura socio economica per le micidiali ricadute sul tessuto produttivo, turistico, terziario e quindi sulla già provata finanza pubblica del nostro Paese, tanto più pesante quanto più si prolungherà l’emergenza. Il Covid-19 per estensione territoriale, durata e numero di vittime risulta molto più distruttivo dei più gravi terremoti ed alluvioni finora vissuti, certo senza produrre macerie materiali, ma piuttosto devastanti effetti economici e psicologici con il forzato isolamento delle persone e la sospensione delle relazioni
umane e sociali. La civiltà umana ha conosciuto tante volte, nei secoli passati, pestilenze contagiose che si manifestavano in dimensioni epidemiche con mortalità altissime ma la “rivoluzione sanitaria”del ‘800 – con il diffuso miglioramento delle condizioni di vita, igiene e sanità pubblica – sembrava aver definitivamente debellato le epidemie relegate nel passato remoto. Invece a fine gennaio 2020, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato lo stato di emergenza internazionale e il nostro Governo quella nazionale, per la durata di sei
mesi, adottando poi una serie di decreti legge ed ordinanze di protezione civile, volte innanzitutto al cosiddetto “distanziamento sociale” oltre che al potenziamento delle strutture sanitarie e delle misure di profilassi. La normativa nazionale, in continua evoluzione, è stata integrata dalle incisive ordinanze e disposizioni del Presidente della Regione, che ha attivato energiche iniziative di prevenzione e contrasto dell’emergenza epidemiologica. Si è così determinato, in brevissimo tempo, uno stravolgimento del modo di vivere e lavorare, con profonde trasfor-
mazioni degli stili di vita individuali e collettivi, ovviamente connesse allo stato di emergenza ma, per alcuni aspetti, destinato ad incidere in modo strutturale e duraturo sulle abitudini sociali, sui comportamenti ed anche sull’organizzazione del lavoro. La nostra Agenzia è stata investita dall’emergenza, come tutte le altre Pubbliche amministrazioni, ma con le responsabilità peculiari di un Ente tecnico preposto a prestazioni essenziali di interesse pubblico strategico, quale la tutela dell’ambiente, non suscettibili di interruzione, anche con compiti di supporto al sistema sanitario e di protezione civile. Infatti, tra i servizi pubblici essenziali da garantire in via permanente, definite dalla legge 146/1990 sul diritto di sciopero, sono espressamente previsti anche quelli di protezione ambientale erogati dalle Agenzie regionali. In questo inedito contesto l’ARPAC, pur notoriamente non priva di risalenti criticità, è riuscita sinora a gestire in modo avanzato e tempestivo le problematiche organizzative dell’emergenza, in modo da tutelare innanzitutto il bene primario della salute dei lavoratori ma, al tempo stesso, garantendo la efficiente continuità delle prestazioni di servizio indifferibili per attività tecniche che possono essere contingentate ma non sospese. segue a pag.3
segue da pagina 2 La nostra Agenzia, con responsabilità accresciute, ha da subito massicciamente attivato il nuovo assetto – disciplinato con atti dispositivi e di indirizzo – applicando in modo preminente la modalità del “lavoro agile”, già con lo start up del 17 marzo, grazie agli efficienti e tempestivi approntamenti del Servizio Sistemi Informativi per oltre 450 lavoratori, con il benefico effetto di ridurre al minimo indispensabile le presenze fisiche nei locali di ufficio. L’ARPAC, con il proprio SINF, ha raccolto la svolta sfidante della riorganizzazione con l’apertura alla nuova modalità lavorativa mediante la pronta attivazione di una versatile piattaforma in “RDP” (Remote Desktop Protocol), consentendo al proprio personale di cominciare subito a lavorare a casa con le dotazioni informatiche in possesso. Lo smart-working è stato attivato in modo generalizzato, sia per le strutture centrali che per i dipartimento provinciali, rapidamente organizzati sulla base degli indirizzi impartiti, oltre alle misure di pulizia straordinaria, igienizzazione e sanificazione di tutte le sedi in uno alla rinnovata fornitura e potenziamento di tutti i dispositivi di protezione ( filtranti facciali, cd. “mascherine”, guanti, prodotti disinfettanti, ecc.). L’applicazione massiva del lavoro agile, in uno al potenziamento della percentuale di telelavoro ( a distanza o domiciliare) non è operazione semplice, ma postula un impiego organizzativo di tipo nuovo,
soprattutto da parte dei dirigenti sovraordinati, con un’interessante potenzialità, per alcuni settori, di incremento della produttività oltre che della conciliazione dei tempi di vita e lavoro, ma richiede anche un’attenta e periodica reportistica sugli obiettivi raggiunti. Inoltre la modalità agile, attivata in via prioritaria ( ai sensi dell’art. 87 del D.L. n. 18/2020 cd. “ Cura Italia”) non esclude – come chiarito dalla Circolare Ministeriale n. 2/2020 – l’avvalimento in via ulteriore di un ventaglio di strumenti quali ferie pregresse, congedi, banca ore, rotazione, ecc., attivabili in ragione delle necessità organizzative e dei carichi di lavoro dell’Agenzia. Tuttavia l’organizzazione non può essere autoreferenziale, ma piuttosto funzionale alle prestazioni tecnico-istituzionali da rendere, per cui sono stati formati e garantiti, mediante opportune turnazioni, i presidi necessari ad assicurare le attività tecnico-amministrative non differibili ( soprattutto per i laboratori delle Aree Analitiche e la gestione delle emergenze). Le Direzioni Generale e Tecnica in queste settimane sono in continuo collegamento con il Sistema nazionale di Protezione ambientale e, mediante video-conferenze quasi giornaliere, con le altre Agenzie regionali, l’Ispra, il Ministero dell’Ambiente ed a disposizione del sistema di protezione civile ( secondo quanto previsto dall’art. 1 dell’OPCM n. 655/2020). La continuità della “governance” è stata assicurata
nella sua pienezza, senza penalizzare scadenze ed adempimenti (come l’adozione e l’aggiornamento di significativi di piani e programmi), mediante la deliberazione di significativi provvedimenti ed atti gestionali. Ma soprattutto sono state assicurate le essenziali produzioni tecniche, in particolare quelle di laboratorio per i controlli inderogabili sulle acque e sugli alimenti – a supporto delle AA.SS.LL. – e per la legionella, le azioni in emergenza ( vedi il rogo di Sarno del 11.3. u.s.) o quelle richieste in modo indifferibile dalle Autorità Giudiziarie. Proseguono e si intensificano i monitoraggi su rete fissa, come per la qualità dell’aria, ben gestibili da remoto, con la relativa reportistica ed i modelli valutativi, mentre il lavoro agile consente utilmente – pur nel differimento di scadenze e termini procedimentali – lo smaltimento di fascicoli, il caricamento di dati, le preparazioni istruttorie, lo studio documentale di pratiche e controlli amministrativi, la predisposizione di pareri, ecc.. È, d’altra parte, prevedibile che all’attuale ed inevitabile rallentamento di molte attività per il calo dei
contesti esterni seguirà, alla cessazione dell’emergenza, la richiesta di massima operatività per la ripresa di tutte le prestazioni di servizio, a sostegno dello sforzo di recupero del sistema regionale. Sul piano ambientale le drastiche misure di riduzione della mobilità e di quasi totale blocco delle attività produttive determinano uno scenario significativamente modificato ed irripetibile nella sua surreale singolarità. Esso impone all’ARPAC di effettuare i più ampi monitoraggi possibili, di misurare e rilevare tutti i dati disponibili per valutare gli effetti dell’emergenza sulle matrici ambientali potenziando il patrimonio tecnico conoscitivo, analizzare in profondità le varie fenomenologie ed i rapporti di causa-effetto, rivalutando i valori di fondo naturali nella situazione odierna. Ciò vale, innanzitutto, per l’inquinamento atmosferico del territorio regionale, in queste settimane di LOCKDOWN, che registra un significativo decremento dei gas derivanti dal traffico veicolare ( in particolare ossidi di azoto) ed una più limitata e non omogenea riduzione delle polveri sottili ed ultrasottili
(PM10 e PM 2.5), anche in relazione alle contingenze meteo-climatiche ed alla conformazione geomorfologica dei singoli territori, che talvolta favoriscono il ristagno degli inquinanti. Altrettanto importante, nello straordinario periodo odierno, risulta l’osservazione della qualità delle acque, in particolare per i corpi idrici superficiali (fiumi, laghi, ecc.) e per il mare, apparentemente limpido anche nel Golfo di Napoli, pur essendo allo stato sospesa - per disposizione ministeriale - la campagna stagionale dell’ARPAC (che avrebbe dovuto aprirsi il 1 aprile), per la verifica della sicurezza sanitaria delle acque costiere di balneazione, che ci si augura potrà attivarsi nelle prossime settimane. Naturalmente mi corre l’obbligo di ringraziare sentitamente il personale per la collaborazione quasi sempre prestata con senso di responsabilità e le Organizzazioni sindacali per lo spirito non conflittuale di condivisione, necessario per gestire frangenti così difficili ed impegnativi. Desidereremmo tutti superare questo tempo, che ci appare così buio, per saltare ad una fase successiva più serena, ma possiamo solo augurarci che esso sia breve e, soprattutto, che – per gli insegnamenti che sta impartendo e lo splendore di tante mirabili testimonianze – contenga i germi di una positiva rigenerazione con un nuovo spirito di solidarietà. Il Commissario Straordinario Avv.Luigi Stefano Sorvino
Il Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente segnala su Twitter alcune delle attività svolte dall’Arpa Campania in fase di emergenza
Migliora la qualità dell’aria in Campania, ma effetti diversi sui vari inquinanti Uno studio svolto dall'Arpa Campania dimostra che i provvedimenti anti-coronavirus hanno avuto importanti effetti sulla qualità dell'aria nella regione. L'Agenzia ambientale ha analizzato i dati delle centraline situate nelle cinque città capoluogo, in un periodo che va dal 25 febbraio fino al 31 marzo 2020, con riferimento alle concentrazioni di inquinanti quali monossido di azoto (NO), biossido di azoto (NO2), polveri sottili (PM2.5 e PM10), monossido di carbonio (CO), benzene. La pubblicazione Il report pubblicato dall'Agenzia, intitolato "I provvedimenti per il contenimento del contagio da Covid-19 e la qualità dell'aria in Campania", disponibile sul sito dell'Agenzia, rappresenta al momento uno degli studi più dettagliati prodotti a livello istituzionale in Italia per indagare gli effetti ambientali dei provvedimenti restrittivi anti-Covid19. Arpac ha svolto in prima battuta un confronto tra le medie di concentrazione degli inquinanti, rilevate prima e dopo lo scorso 10 marzo, data di entrata in vigore in Campania delle restrizioni agli spostamenti, riscontrando cali evidenti soprattutto per quanto
riguarda il monossido di azoto (si vedano i grafici allegati), già sottolineati nei report diffusi dall'Agenzia nelle scorse settimane. Il metodo In questa ulteriore analisi, i valori effettivamente misurati sono stati confrontati con le stime teoriche prodotte dal modello previsionale del Cemec (Centro meteorologico e climatologico, una struttura Arpac): questo tipo di confronto è indicativo nel valutare quanto ha pesato effettivamente il lockdown nel calo delle concentrazioni di inquinanti atmosferici, depurando i risultati dal peso di altre variabili quali le condizioni meteo. «Nel valutare le conseguenze dei provvedimenti restrittivi», spiega Giuseppe Onorati, dirigente della UOC Reti di monitoraggio e Cemec, «uno dei problemi è appunto capire quanto ha inciso il calo delle emissioni, in particolare da traffico veicolare, e quanto invece dipende dal meteo. Mentre i dati misurati dipendono dalle emissioni effettive – prosegue Onorati – gli ouput della modellistica sono basati sulle emissioni medie stimate su base storica. Confrontando i dati misurati e i dati calcolati dai modelli, che in entrambi i
casi tengono conto delle condizioni meteo effettive registrate a marzo, si ha una valutazione di quanto il lockdown abbia prodotto benefici sulla qualità dell'aria». Ossidi di azoto Il calo è evidente per quanto riguarda le concentrazioni di monossido di azoto. Lo scostamento rilevato rispetto alle stime della modellistica (i valori sono più che dimezzati) non può che dipendere dalla riduzione delle emissioni da traffico: la Regione
Campania stima che nel mese di marzo, mediamente, il 65% delle emissioni totali di ossidi di azoto provenga dai trasporti stradali. Polveri sottili Discorso diverso per le polveri sottili PM10 e PM2.5: in questo caso la riduzione tra valore atteso e valore effettivo è più lieve. Le stime della Regione indicano che in Campania, mediamente, nel mese di marzo i riscaldamenti, per quanto riguarda il PM10, forniscano oltre l'80% dei contributi emis-
sivi. Questa fonte di emissioni non è stata affatto bloccata dalle misure di contenimento, anzi, per effetto delle temperature rigide registrate in alcuni periodi di marzo e per effetto della maggiore permanenza delle persone tra le mura domestiche, le emissioni da riscaldamenti potrebbero essere addirittura aumentate rispetto alle medie storiche. Uno scenario unico Il metodo utilizzato dall'Agenzia permette di dimostrare che il calo delle concentrazioni di alcuni inquinanti (soprattutto il monossido di azoto) è effettivo ed è indipendente dalle condizioni meteo, mentre per altri inquinanti (polveri sottili PM10 e PM2.5) un calo dovuto al lockdown non è dimostrabile con chiarezza. «In questa fase emergenziale», conclude Onorati, «ci siamo sforzati di andare oltre la mera misurazione delle concentrazioni di inquinanti. Nonostante le difficoltà oggettive, abbiamo provato a fornire una valutazione complessa dei fenomeni in atto, ragionando sui nessi causali che intercorrono tra le anomalie riscontrate nelle concentrazioni di inquinanti e l'andamento delle emissioni. Un lavoro che è stato possibile grazie allo scenario, irripetibile dal punto di vista ambientale, che si è verificato nel marzo appena trascorso». Per la documentazione grafica e testuale completa, si rimanda al Rapporto pubblicato sul sito Arpac all’indirizzo www.arpacampania.it/web/guest/1402. (Comunicato stampa Arpac)
Le analisi delle acque potabili non si fermano Anche in fase di emergenza, Asl e Arpac assicurano gli ordinari controlli Luigi Stefano Sorvino* Claudio Marro** Le acque destinate al consumo umano sono oggetto di periodici controlli per verificare il rispetto di requisiti minimi di salubrità e qualità fisica, chimica, microbiologica e radiologica. Anche in questo periodo di emergenza sanitaria dovuto a Covid-19, in Campania gli enti preposti (Arpac e le Asl) continuano ad assicurare i dovuti controlli. Si tratta, infatti, di attività indifferibili che non sono state interrotte nemmeno in questo particolare periodo in cui alcune disposizioni nazionali e regionali limitano gli spostamenti e la circolazione delle persone. Ricordiamo che i controlli effettuati da Arpa Campania e Asl si sommano a quelli realizzati dai gestori idrici e interessano i punti in cui le acque sono disponibili per il consumo, e inoltre gli impianti di adduzione, di accumulo e di potabilizzazione, le reti di distribuzione, gli impianti di confezionamento in bottiglia o in contenitori, eccetera. Sulla base del programma di controlli elaborato dalla Regione Campania, che contempla il numero di campioni di acque da prelevare, le frequenze, i punti di prelievo e i parametri da analizzare, in ottemperanza a quanto previsto dalla normativa di settore (decreto legislativo 31/2001), i
dipartimenti di Prevenzione delle Asl stanno assicurando, anche in questo periodo di emergenza, il prelievo dei campioni di acque che poi vengono analizzate presso i cinque laboratori di Arpa Campania dislocati nelle cinque province campane. Nella tabella sono riportati il numero di campioni program-
mati da Arpac per il 2020, tenendo presente che i numeri sono strettamente dipendenti dai Piani di campionamento stilati dalle Asl, e in stretta relazione con il Piano di sicurezza alimentare e con il Dpar 2020 (Documento di programma annuale regionale). Sulla base delle analisi dei parametri chimici, chimico-fisici e microbiologici effettuate dai laboratori Arpac, le Asl competenti per territorio rilasciano i giudizi di idoneità al consumo umano delle acque. In questo periodo di emergenza, anche il Centro regionale radioattività di Arpa Campania, ubicato a Salerno presso il dipartimento provinciale dell'Agenzia, assicura le misure della radioattività per i campioni di acqua potabile (circa 300 annui) che riguardano i parametri Trizio, Alfa totale, Beta totale, Radon. In linea generale, finora, il numero di analisi sta subendo solo un parziale ridimensionamento in quei comprensori in cui gli operatori delle Asl non possono prelevare campioni di acque perché in quarantena oppure perché numerosi esercizi (quali bar, ristoranti, pi-
scine), sottoposti ordinariamente a controlli, sono attualmente chiusi a causa dell'emergenza Covid-19. In ogni caso, le Unità operative di Arpac preposte alle analisi delle acque uso umano assicurano le attività sul 100% dei campioni che arrivano presso i cinque laboratori agenziali, riuscendo a rispettare anche i tempi di risposta, grazie a una rotazione del personale addetto che evita la presenza contemporanea di più operatori nello stesso laboratorio. Occorre infine sottolineare che la letteratura di settore e l'attuale stato delle conoscenze tranquillizzano i consumatori rispetto all'utilizzo dell'acqua destinata al consumo umano in relazione ai rischi di contagio di Covid-19. Gli esperti dell'Istituto superiore di sanità e un recente documento dell'Organizzazione mondiale della sanità affermano che le acque di rubinetto sono certamente sicure rispetto ai rischi di trasmissione di Covid-19 e non sussistono motivi di carattere sanitario che debbano indurre i consumatori a ricorrere a acque imbottigliate. Allo stato
attuale, del resto, non risultano evidenze di trasmissione della malattia da SARS-CoV2 a livello di sistemi fognari e trattamento delle acque reflue. * Commissario straordinario Arpac ** Direttore tecnico f.f. Arpac Leggi anche: - World Health Organization, Water, sanitation, hygiene and waste management for Covid19, Technical brief, 19 March 2020 (www.who.int/ publications-detail/water-sanitationhygiene-and-waste-managemen t-for-covid-19) - Giuseppina La Rosa, Lucia Bonadonna, Luca Lucentini (Istituto superiore di sanità), Pasqualino Rossi (Ministero della salute), Coronavirus. Acqua di rubinetto sicura. Nessun rischio neanche dai sistemi fognari. Quotidiano Sanità 5 marzo 2020 (www.quotidianosanita.it/scienza-e-farmaci/articolo.php?articolo_id=82163) - Istituto superiore di sanità. Pillole antipanico: non aver paura di....., 5 marzo 2020 (www.iss.it/en/primo-piano//asset_publisher/o4oGR9qmvUz 9/content/id/5286047)
La gestione dei rifiuti sanitari in Campania L’emergenza Covid-19 rende di attualità uno dei flussi di cui si occuperà il Piano regionale rifiuti speciali "Dalle Alpi alle Piramidi, dall'Asia ai Pirenei, dammi la tua monnezza e ti dirò chi sei" è una delle frasi indimenticabili del film “Il mistero di Bellavista”, che sintetizza in maniera sublime la correlazione esistente tra la produzione di rifiuti e gli usi e costumi (ma anche abusi e malcostumi) della civiltà moderna. Per tale motivo è inevitabile che il tema di estrema attualità della diffusione del virus SARS-Cov2 e della relativa emergenza sanitaria sta avendo e avrà riflessi sia sulla produzione dei rifiuti sanitari, sia sulla produzione di tutte le tipologie di rifiuti urbani e speciali. Non appena saranno disponibili i dati di produzione e gestione dei rifiuti relativi all’anno 2020, sarà di sicuro interesse realizzare analisi e confronti con i dati di produzione e gestione degli anni precedenti. Ad esempio da alcune prime stime si è calcolato che in Lombardia l’emergenza sanitaria abbia portato a un incremento del 400% della produzione dei rifiuti sanitari. Inoltre, si stima un importante decremento della produzione dei rifiuti speciali di molti settori e un incremento dei rifiuti prodotti dal settore agro alimentare, oltre a una probabile riduzione della produzione dei rifiuti urbani, in particolare degli urbani assimilati, e in generale notevoli modifiche nella composizione merceologica e nella distribuzione della produzione dei rifiuti. I dati 2014-2018 Nel presente articolo, sulla base delle banche dati disponibili presso la Sezione regionale del Catasto rifiuti si è ritenuto utile fornire una fotografia e un approfondimento sui dati di produzione e di gestione dei rifiuti sanitari in Campania nel quinquennio 2014-
2018, quale quadro di riferimento per evidenziare punti di forza e criticità della gestione di tale tipologia di rifiuti in Campania a fronte dell’emergenza sanitaria in corso. Nel panorama generale, i rifiuti sanitari risultano di particolare interesse in quanto pur rappresentando una percentuale minima dei rifiuti speciali prodotti in Campania (0,18% del totale dei rifiuti speciali ed il 3% dei rifiuti speciali pericolosi) hanno ricadute importanti sulla collettività sia dal punto di vista economico che ambientale. Per “rifiuti sanitari” si intendono quei rifiuti che derivano da strutture pubbliche e private che svolgono attività
medica o veterinaria di prevenzione, di diagnosi, di cura, di riabilitazione e di ricerca (DPR n. 254/2003, art. 2). Ai sensi della normativa vigente, i rifiuti sanitari sono distinti nelle seguenti tipologie: rifiuti sanitari non pericolosi; rifiuti sanitari assimilati ai rifiuti urbani; rifiuti sanitari pericolosi non a rischio infettivo; rifiuti sanitari pericolosi a rischio infettivo; rifiuti sanitari che richiedono particolari sistemi di smaltimento; rifiuti da esumazioni e da estumulazioni, nonché i rifiuti derivanti da altre attività cimiteriali, esclusi i rifiuti vegetali provenienti da aree cimiteriali; rifiuti speciali, prodotti al di fuori delle strutture sanitarie, che come rischio
risultano analoghi ai rifiuti pericolosi a rischio infettivo, con l’esclusione degli assorbenti igienici. Produzione in aumento Nel corso degli ultimi anni la produzione dei rifiuti sanitari in Campania risulta essere in costante incremento (Figura 1), partendo dalle 11.800 tonnellate del 2014 fino ad arrivare alle 13.500 del 2018. E’ lecito a riguardo aspettarsi un ulteriore incremento di produzione nel 2019 e una impennata nel 2020. In analogia alla produzione di altre tipologie di rifiuti sia urbani che speciali, si rileva una concentrazione della produzione dei rifiuti sanitari nelle aree maggiormente urbanizzate della regione e in particolare nel territorio della Città Metropolitana di Napoli, dove si concentrano anche le principali strutture sanitarie della regione. In particolare si rileva che il 54% della produzione regionale è concentrato nella provincia di Napoli, a seguire le province di Salerno 19%, Caserta 14%, Avellino 7% e Benevento 6%. Rischio infettivo Il 94% dei rifiuti sanitari prodotti in Campania sono classificati come rifiuti pericolosi e costituiti prevalentemente da rifiuti a rischio infettivo. In particolare, come risulta dalla Figura 2, il codice CEER pericoloso maggiormente prodotto in Campania è il 180103 (Rifiuti che devono essere raccolti e smaltiti applicando precauzioni particolari per evitare infezioni), che da solo rappresenta anche la maggior parte dei rifiuti sanitari prodotti, circa il 77% dell’intera produzione e l’83% dei rifiuti pericolosi. segue a pag.7
segue da pagina 6 Tali percentuali sono paragonabili ai dati di produzione delle altre regioni italiane, a testimonianza di una certa uniformità di comportamento su tutto il territorio nazionale. La gestione Anche se per i rifiuti sanitari valgono le regole del libero mercato e quindi non è previsto il perseguimento dell’autosufficienza regionale come per i rifiuti urbani indifferenziati, risulta interessante analizzare e confrontare i dati di produzione con i dati di gestione degli stessi (Figura 3), ricordando che i flussi di rifiuti sanitari esportati fuori regione evidenziano un fabbisogno di trattamento non soddisfatto in ambito regionale e che in base al principio europeo di prossimità bisognerebbe tendere a ridurre la movimentazione dei rifiuti e a gestirli in impianti prossimi ai luoghi di produzione. Il grafico di Figura 3 evidenzia che all’incremento di produzione registrato corrisponde anche un incremento dei dati di gestione di tale tipologia di rifiuti in regione, un incremento delle importazioni e un decremento dei dati di esportazione. Tale andamento è dovuto principalmente all’ampliamento di un impianto esistente in provincia di Napoli e all’installazione di un impianto di sterilizzazione a microonde in provincia di Avellino negli anni 2016 e 2017. In particolare nel 2018 si rileva che a fronte di 13.500 tonnellate di rifiuti prodotte, alle quali vanno sommate 2.944 tonnellate ricevute da fuori re-
Arpa CAMPANIA AMBIENTE del 15 aprile 2020 - Anno XVI, N.7 Edizione chiusa il 15 aprile 2020 DIRETTORE EDITORIALE Luigi Stefano Sorvino DIRETTORE RESPONSABILE Pietro Funaro CAPOREDATTORI Salvatore Lanza, Fabiana Liguori, Giulia Martelli IN REDAZIONE Cristina Abbrunzo, Anna Gaudioso, Luigi Mosca, Andrea Tafuro GRAFICA E IMPAGINAZIONE Savino Cuomo HANNO COLLABORATO I. Buonfanti, F. De Capua, G. De Crescenzo, G. De Palma, B. Giordano, P. Falco, A. Federico, A. Grosso, G. Loffredo, R. Maisto, L. Monsurrò, A. Palumbo, A. Paparo, T. Pollice SEGRETARIA AMMINISTRATIVA Carla Gavini DIRETTORE AMMINISTRATIVO Pietro Vasaturo EDITORE Arpa Campania Via Vicinale Santa Maria del Pianto Centro Polifunzionale Torre 1 80143 Napoli REDAZIONE Via Vicinale Santa Maria del Pianto Centro Polifunzionale Torre 1- 80143 Napoli Phone: 081.23.26.405/427/451 Fax: 081. 23.26.481 e-mail: rivista@arpacampania.it magazinearpacampania@libero.it Iscrizione al Registro Stampa del Tribunale di Napoli n.07 del 2 febbraio 2005 distribuzione gratuita. L’editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti e la possibilità di richiederne la rettifica o la cancellazione scrivendo a: ArpaCampania Ambiente,Via Vicinale Santa Maria del Pianto, Centro Polifunzionale, Torre 1-80143 Napoli. Informativa Legge 675/96 tutela dei dati personali.
gione per un ammontare complessivo di 16.500 tonnellate/anno, 8.800 tonnellate (53%) vengono gestite in Campania con operazioni di sterilizzazione, incenerimento e trattamento chimico fisico, 6.400 tonnellate (39%) sono inviate fuori regione principalmente in Calabria e in Puglia, e 1.250 tonnellate (8%)sono gestite in operazioni di stoccaggio negli impianti regionali in attesa del definitivo recupero o smaltimento. Le operazioni di smaltimento propriamente dette, come l’incenerimento e il trattamento chimico fisico, rappresentano una parte minimale della gestione dei rifiuti sanitari in Campania (circa 1.500 tonnellate/ anno) mentre la principale forma di gestione è la sterilizzazione dei rifiuti a rischio infettivo (7.300 tonnellate/ anno) che porta alla produzione di un rifiuto classificato come combustibile da rifiuto (CEER 191210), che poi necessariamente deve trovare collocazione in impianti di incenerimento fuori regione. Si riporta in alto l’elenco degli impianti che nel 2018 hanno gestito rifiuti sanitari pericolosi a rischio infettivo. Come si può evincere dalla tabella, è possibile individuare 3 impianti di sterilizzazione, numerosi impianti di stoccaggio e deposito preliminare e un impianto di incenerimento, per quanto la quantità di rifiuti sanitari avviati direttamente a incenerimento in Campania sia quasi trascurabile (circa 96 tonnellate nel
2018). L’analisi dei dati di produzione e gestione dei rifiuti sanitari in Campania quindi evidenzia l’esistenza di un discreto numero di impianti autorizzati alla gestione di tale tipologia di rifiuti, tanto che dal 2017 al 2018 l’importazione dei rifiuti sanitari è cresciuta del 74%. Il ciclo di gestione degli stessi tuttavia non riesce a chiudersi in ambito regionale per l’assenza di impianti di smaltimento definitivi come inceneritori e discariche, necessari sia dopo i trattamenti di sterilizzazione, sia dopo i trattamenti chimico fisici e biologici. Le “esportazioni” In Campania a fronte di una produzione di oltre 13 mila tonnellate di rifiuti sanitari se ne esportano quasi 6 mila. Nelle regioni dotate di impianti di incenerimento e/o discariche invece il flusso si inverte. L’Emilia-Romagna, ad esempio, importa più del doppio degli scarti sanitari prodotti sul suo territorio, 33mila tonnellate contro poco più di 15mila, mentre la Calabria, che ne genera 3.400 tonnellate, ne importa invece oltre 11mila. E i costi del trasporto e smaltimento gravano sul Servizio sanitario regionale, quindi sulle tasche dei contribuenti campani. Sterilizzazione “on site” Anche alla luce della concomitante emergenza sanitaria, risulta determinante individuare nell’ambito delle politiche regionali, strumenti che consentano un’analisi approfondita dei costi-benefici derivanti da gestioni
più virtuose dei rifiuti sanitari, e individuare anche nell’ambito dello strumento della pianificazione di settore (Piano rRegionale di gestione dei rifiuti speciali) la possibilità di redigere apposite linee guida regionali con lo scopo di definire criteri gestionali unici su tutto il territorio regionale, volti al miglioramento degli attuali standard e al superamento delle difficoltà derivanti dalla carenza di impianti di smaltimento definitivi in ambito regionale. Ad esempio, al fine di ottimizzare i costi e la gestione dei rifiuti sanitari a rischio infettivo, una buona pratica, contemplata anche dal DPR n. 254/2003, prevede che gli scarti a rischio infettivo possano essere sottoposti a “sterilizzazione” on site presso le strutture sanitarie. Il che significherebbe ridurre le quantità da movimentare e ottenere un notevole vantaggio logistico per le aziende ospedaliere, che potrebbero giovare anche dei risparmi determinati dalla riduzione dei costi di trasporto. Mentre classicamente i rifiuti sanitari pericolosi vengono raccolti come tali ogni giorno o al massimo ogni 5 giorni e avviati a impianti autorizzati alla gestione degli stessi, con la sterilizzazione on-site sarebbe possibile stoccare il materiale inertizzato fino a 3 mesi (scongiurando eventuali criticità che potrebbero aversi con l’emergenza sanitaria in corso), riducendo trasporti, costi e impatti ambientali e migliorando pesature e conteggi.
La mappa interattiva dei nuovi suoni nel mondo Ognuno di noi può inviare le “voci”che riesce a cogliere durante il lockdown Giulia Martelli Mentre scrivo guardo fuori dalla finestra. È primavera, ed è passato oramai tanto tempo dal primo giorno di lockdown. La strada che ho di fronte, solitamente molto trafficata, è deserta pur essendo orario di punta. Stranamente anche in casa adesso c’è silenzio tanto che, addirittura attraverso i vetri, riesco nitidamente ad ascoltare i molteplici fruscii e cinguettii che provengono dai tanti alberi che circondano il mio abitato. Sarebbe stato davvero impensabile qualche mese fa. E allora rifletto che se il confinamento tanto ci ha tolto, tanto ci sta anche restituendo, come quelle voci della natura che oramai non eravamo più abituati a cogliere e che finora avevamo ignorato storditi soltanto dall’eco delle nostre paure. I suoni delle città stanno cambiando radicalmente durante questa infinita pandemia e allora a qualcuno è venuta l’idea di registrarli, a futura memoria. Si tratta di Stuart Fowkes, che ha così lanciato uno dei progetti artistici più belli di questo triste periodo: dopo avere raccolto nel sito Cities
and Memories per cinque anni in maniera più ampia possibile tutti i rumori prodotti in ogni parte del mondo, Fowkes ha deciso di creare una mappa interattiva con i nuovi e inediti rumori prodotti in questo momento difficile nelle città di tutto il mondo e non solo. È possibile così ascoltare la canzone Anti-Coronavirus in Senegal, gli applausi agli operatori sa-
nitari, gli inni nazionali, i cori all’alba di Varsavia, la voce di una donna finlandese che legge estratti di storie di Roald Dahl ai suoi figli in isolamento. Suoni che, come ha spiegato l’ideatore, possono essere classificati in quattro aree: quelli esterni ma nati a causa della pandemia, come gli applausi e il suono delle campane; quelli che provengono dall’interno delle case,
“espressione di ciò che le persone fanno per affrontare il social distancing. Attività che possono ovviamente essere tradotte in registrazioni sonore”, come il rumore di una pietanza in padella, una telefonata a un parente lontano. Nella terza categoria, i suoni del mondo naturale, che riemergono proprio nel momento in cui la presenza umana diminuisce, mentre la
quarta comprende i “nuovi silenzi”, come la desolazione di Times Square, “in cui l’unica cosa che si sente adesso è il condizionatore di un supermercato”. Trattandosi di una mappa sonora globale crowdsourcing, ognuno di noi può dare il proprio contributo; sul sito Cities and Memory, c’è infatti un form da compilare, ma è possibile inviare la propria registrazione utilizzando anche WeTransfer, Dropbox, OneDrive e altri link di download, senza restrizioni o limiti di sorta, è importante che si tratti di qualcosa di personale ed unico, come il suono che fa una chitarra elettrica le cui corde sono pizzicate dalla neve o il rumore di un bambino che gioca a qualcosa di inventato da lui. Collettivo e globale è il virus e così è questo progetto: uno specchio delle nostre differenze ma soprattutto di quanto siamo tutti uguali, fratelli del mondo. “Questo è un momento davvero unico in cui il mondo sembra non aver mai suonato prima. In nessuna delle nostre vite il mondo è mai sembrato come adesso”, ha spiegato Stuart Fowkes al The Guardian.
I licheni monitoreranno l’inquinamento Anna Paparo Tutti noi sappiamo benissimo che i licheni nascono dall’unione simbiotica tra un’alga e un fungo, un legame praticamente indistruttibile. Uniti per la vita e per loro non vale affatto la formula “finché morte non ci separi”. Se muore una anche l’altro non ha possibilità di esistere. E viceversa. A fare notizia è il fatto che si voglia utilizzare questi organismi particolari, apparentemente semplici come delle vere e proprie “centraline” per il monitoraggio dell'inquinamento dell'aria a Milano. E questo è l'oggetto dello studio condotto dall'Istituto nazionale di geologia e vulcanologia (Ingv), con il supporto dell'università di Siena e dal-
l'università Federico II di Napoli. Inoltre, la ricerca è stata recentemente pubblicata sulla rivista “Applied sciences”. Come riportato dal team di scienziati impegnati nella ricerca, “le proprietà magnetiche dei licheni trapiantati ed esposti in città costituiscono un valido indicatore del cosiddetto bioaccumulo di metalli pesanti - quali ferro, cromo, rame e antimonio emessi principalmente dalle 'frenate' di automobili e mezzi di trasporto”. Continua a spiegare il dottor Aldo Winkler, tecnologo dell'Ingv in prima linea nella ricerca e coautore dell'articolo pubblicato, dicendo che in questo studio sono state esaminate e comparate quelle che sono le proprietà magnetiche, chimi-
che e morfologiche delle polveri sottili accumulate dai licheni trapiantati ed esposti per tre mesi in venticinque siti nella città di Milano. In questo contesto la suscettività magnetica dei licheni costituisce un parametro
semplice e veloce da misurare, utile alla caratterizzazione dell'inquinamento atmosferico di origine antropica in tempi rapidi e con costi contenuti. Inoltre, la combinazione di analisi chimiche, magnetiche e morfo-
scopiche ha permesso loro di riuscire ad individuare nell'abrasione dei freni la principale sorgente delle polveri sottili magnetiche (ad alto contenuto in metalli pesanti) nel capoluogo lombardo. Un metodo davvero innovativo per tenere sotto controllo l’asticella dell’inquinamento atmosferico. Non appena il prototipo sarà collaudato definitivamente, potrebbe essere utilizzato anche nelle altre grandi metropoli d’Italia e – perché no – anche esportato a livello internazionale, così da utilizzare ciò che la natura stessa ci mette a disposizione per salvaguardare la sua e la salute di tutto il mondo. Chi l’avrebbe mai detto che l’inquinamento ha i giorni contati grazie a dei semplici licheni?
Le acque potabili e la loro riserva Italia sprecona. Il consumo d’acqua pro capite l’anno è di centosessanta metri cubi Tina Pollice L’acqua è il bene più prezioso che abbiamo e va tutelato con tutti i mezzi possibili. L’ONU, da sempre impegnata nella sensibilizzazione per un uso sostenibile di questo bene comune, celebra ogni anno la Giornata Mondiale dell’acqua. La ricorrenza è stata istituita nel 1992 dall’Onu e tra l’altro si prefigge di dare accesso all’acqua potabile a tutti i cittadini. Il nostro Paese così ricco di acqua, tanta, da far declamare al sommo Petrarca il celebre “Chiare fresche e dolci acque”, è ancora tale? Sembrerebbe di sì anche se con diversi e preoccupanti allarmi. Allarmi che sono di natura tecnica ma anche e soprattutto etico-culturali. Per cominciare lo spreco d’acqua potabile derivante da tubazioni bucate, vecchie e da allacci abusivi che non consentono ai gestori di reperire fondi necessari da reinvestire per gli ammodernamenti degli impianti. Se si considera che la media europea di dispersione è del 15% a fronte del 42% italiano, ci rendiamo conto della gravità del problema. Altri di-
lemmi che preoccupano sono: l’inquinamento dei fiumi a seguito degli scarti delle lavorazioni industriali come avviene in Veneto; gli idrocarburi che rischiano di contaminare le falde acquifere della Basilicata; le infrastrutture, poche, se pensiamo ai depuratori che dovrebbero intercettare lo smaltimento delle acque reflue nei mari o nei fiumi. Ultimo, ma non meno importante, il riscaldamento climatico che prosciuga gli invasi e fa impazzire le piogge. C’è poco da esser tranquilli, dati confermano una diminuzione del livello degli invasi nel mondo, la tropicalizzazione in Italia è un fatto, e, aumenterà le disuguaglianze tra chi ha più acqua e chi non ne ha. Altra criticità è la frammentarietà della gestione delle acque nonostante la legge Galli del 94 preveda un Ato (Ambito territorialmente ottimale) su base provinciale, i Comuni non ne vogliono sapere e continuano a gestire le infrastrutture inficiando una gestione più articolata ed omogenea. Acqua bene comune. Nel giugno 2011, 26 milioni di italiani si sono espressi in un referendum “con-
tro la privatizzazione dell’acqua”. Il consumo d’acqua pro capite l’anno è di 160 m³ per l’Italia, 90 m³ per la Francia, 60 m³ per la Germania. A ben vedere siamo i più spreconi d’Europa (e secondi nel mondo) anche per consumo di acqua minerale in bottiglia (118 litri
pro capite annui nel 2017), il 60% in più rispetto alla media europea. Un consumo, quello delle acque minerali da farsi risalire allo scandalo dell’atrazina (anni 80) e nella risposta del governo che alzò i limiti di potabilità per evitare il panico. Il riciclo delle acque dei depu-
ratori viene usato per l’agricoltura ed anche per fare biometano per i bus, però, mentre Israele ricicla l’80% di quest’acqua, la Spagna il 16%, noi appena e solo il 5%. C’è molto da lavorare, ma soprattutto ascoltare quanto ci viene suggerito dalla scienza.
I fattori che influenzano la diffusione del polline I venti moderati e le temperature elevate sono tra le principali cause Gennaro Loffredo Quasi 18 milioni di italiani soffrono di allergie ai pollini detta anche “pollinosi o raffreddori da fieno” e purtroppo questo numero è in costante aumento soprattutto nei paesi industrializzati e quindi anche in Italia, soprattutto nei mesi di Aprile e Maggio. Il polline è l’elemento riproduttivo emesso dagli organi maschili delle piante ed è talmente piccolo che non si può vedere ad occhio nudo. Il trasporto del polline dal fiore maschio al fiore femmina avviene o attraverso gli insetti oppure sfruttando un elemento meteorologico, ossia il vento. In una giornata ventosa, infatti, le piante liberano una grande quantità di pollini ed hanno più possibilità di raggiungere il fiore femmina dando vita all’impollinazione. Il vento fa
anche si che la diffusione e la permanenza del polline in atmosfera venga notevolmente aumentata. Ma quali sono gli altri elementi meteorologici che influenzano il sorgere dei sintomi allergici? Un buon soleggiamento e una forte escursione termica tra la notte e il giorno favoriscono la liberazione dei pollini. Inoltre un in-
verno mite, con temperature al di sopra delle medie e con poche gelate notturne, favorisce un anticipo dell’inizio della stagione allergica, perché saranno anticipate a sua volta la ripresa vegetativa e la fioritura delle piante e quindi la liberazione dei pollini. Ma il vero alleato degli allergici è sicuramente la pioggia. In una giornata pio-
vosa la concentrazione dei pollini in atmosfera è bassa. Le piante, infatti, tendono a trattenere il polline per poi liberarle in condizioni meteo più favorevoli. Attenzione però alle ore immediatamente successive ai temporali e agli intensi acquazzoni, perché la forte pioggia è in grado di frantumare in particelle più piccole il polline e quindi renderlo maggiormente allergizzante e con più facilità riusciranno a penetrare nelle vie respiratorie delle persone. Insomma le condizioni favorevoli alla pollinazione e sfavorevoli per i soggetti allergici sono le giornate soleggiate, i venti moderati e le temperature elevate e mediamente oltre i 20-25°C. Dal 1985 in Italia è attiva una rete di monitoraggio che misura la concentrazione dei principali pollini di interesse presenti in
atmosfera. Il monitoraggio, svolto su scala regionale e nazionale, è realizzato dall’istituto di Scienze dell’Atmosfera e del clima del CNR di Bologna (ISAC-CNR). Sul sito dell’Isac - CNR (www.isac.cnr.it/aerobio/aia/re dir.html) si trova, aggiornato ogni mercoledì, un bollettino dei pollini prodotto sulla base delle osservazioni della settimana precedente. Oltre ad una previsione orientativa dell’inizio e della fine dei pollini principali, l’Isac spiega che non è possibile fornire indicazioni precise sugli andamenti per periodi superiori ad una settimana. Questo è dovuto al fatto che l’attività dei pollini è strettamente correlata con le condizioni climatiche e pertanto anche le previsioni dell’andamento sono vincolate alle previsioni meteorologiche.
Le acque meteoriche di prima e di seconda pioggia In Campania manca una regolamentazione per il trattamento e le modalità di separazione Pasquale Falco C’è un ordine di arrivo delle acque meteoriche? Ovverosia c’è un’acqua di prima pioggia, che arriva prima, e un’acqua di seconda pioggia, che arriva dopo? Ebbene, è proprio così. È noto come le acque meteoriche abbiano la capacità di “pulire” la superficie su cui incidono e come si carichino di sostanze inquinanti, in misura diversa e correlata ai vari “gradi di sporcamento” delle superfici su cui cadono. Per favorire l’inquadramento dei diversi flussi, ai fini dell’autorizzazione allo scarico, è stata proposta la tabella 1. In essa vengono messe in relazione anche le caratteristiche delle superfici su cui impattano le acque meteoriche relativamente alla presenza dell’impermeabilizzazione e alla presenza di un sistema di captazione e collettamento delle acque meteoriche. Per essere più precisi, però, il diverso carico inquinante, che acquisiscono le acque meteoriche dilavanti, è funzione anche della durata della precipitazione; infatti, un’acqua dilavante è più carica di inquinanti quando cade su una superficie più sporca, ma è più carica di inquinanti anche se cade prima. Cadendo per prima, svolgerà, in tal modo, una azione di pulizia
Tab 1
della superficie incidente, inizialmente sporca, e permetterà alla pioggia che cade dopo, su quella superficie già dilavata, di risultare poco, o per niente, carica di inquinanti. Proprio per limitare l’impatto ambientale delle acque dilavanti, il Testo Unico Ambientale (D. Lgs 152/2006, art. 113 co.3) concede alle Regioni la facoltà di disciplinare le immissioni di acque dilavanti, differenziando e, soprattutto,
separando quelle “che cadono prima” (acque di prima pioggia) da quelle che “cadono dopo” (acque di seconda pioggia); questa disciplina è necessaria soprattutto per quelle attività (per es. impianti di trattamento rifiuti) dove sia elevato il rischio di dilavamento da superfici impermeabili scoperte di sostanze pericolose o di sostanze che creano pregiudizio per il raggiungimento degli obiettivi di qualità dei corpi idrici.
In Campania non è stata effettuata alcuna regolamentazione in merito; ciò nonostante, molti opifici hanno adottato gli accorgimenti dettati dalle discipline adottate da altre regioni, quale ad esempio la Lombardia (Legge Regionale n. 4 del 24/03/2006, recante la “Disciplina dello smaltimento delle acque di prima pioggia e di lavaggio delle aree esterne”). In diversi opifici campani, nonostante non sia in vigore una
regolamentazione circa i trattamenti e le modalità di separazione delle acque di prima pioggia da quelle di seconda pioggia e il loro trattamento, sono stati, comunque, adottati accorgimenti finalizzati a ridurre il rischio di inquinamento ambientale correlato. Le preliminari definizioni tecnico-normative, gli accorgimenti adottati e le modalità di separazione saranno delineate in un prossimo numero. (Prima parte)
L’impegno del Cnr nella risposta all’emergenza Covid-19 Il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) è attivamente impegnato nella risposta all’emergenza Covid-19. Grazie alle sue caratteristiche di interdisciplinarità e alla sua capacità di tradurre la ricerca di base in soluzioni applicative, l’Ente è in grado di fornire soluzioni innovative e in tempi rapidi, attraverso la sua rete integrata di Istituti, capillarmente distribuita sull’intero territorio nazionale, e con il suo grande patrimonio umano. In particolare, a supporto della gestione dell’emergenza Covid-19, di seguito alcune linee di azione implementabili ed in parte implementate nel breve periodo. Supporto tecnico/scientifico a certificazione e adeguamento di apparecchiature/Dpi, quali la verifica della conformità ai parametri di legge di Dpi (mascherine) prodotte in Italia in deroga all’obbligatorietà del marchio Ce, e l’adeguamento delle valvole per respiratori da utilizzarsi in terapia sub-intensiva che consentano derivazioni multiple, permettendo l’assistenza a più pazienti. Sviluppo di materiali innovativi. È in fase avanzata di realizzazione un prototipo di materiale da utilizzarsi nei Dpi (mascherine) con proprietà antivirali. Il prototipo è in fase di verifica per la sua capacità di abbattere la carica virale e potrebbe essere rapidamente licenziato per la produzione in serie. Sviluppo/preparazione di reagenti e materiali di utilizzo per i presidi sanitari. I nostri Istituti sono in grado di collaborare da subito, ad esempio, alla produzione di soluzioni disinfettanti, di cui inizia ad avvertirsi carenza sul mercato, da fornire ai presidi ospedalieri/strutture sanitarie. Telemedicina. Sono allo studio soluzioni in grado di offrire il monitoraggio a distanza per il controllo epidemiologico/clinico dei pazienti. Tra le altre, è in fase avanzata l’adattamento di una App specifica, che consente di effettuare analisi di rischio e triage a distanza e di
individuare i soggetti da valutare prioritariamente. L’obiettivo è mettere in contatto i Medici di medicina generale (Mmg) con il cittadino/paziente per una consultazione preventiva. Il sistema fornisce un supporto decisionale che classifica i potenziali scenari Covid19 in funzione del rischio, consentendo una valutazione dinamica dello stato del paziente attraverso uno specifico assessment. Supporto telematico alla didattica/assistenza. Sono state sviluppate piattaforme per l’erogazione di servizi a distanza utili per la didattica, per l’assistenza remota ad anziani e convalescenti Covid 19 (home care), per attività di tipo ludico in età infantile. Il tutto a supporto sia della gestione quotidiana dell’attuale regime di isolamento forzato, sia per aiutare il graduale rientro alla normalità, nel periodo di transizione che necessariamente caratterizzerà la fase di riduzione dell’intensità dell’epidemia. I sistemi proposti sono adattabili a percorsi di formazione a distanza per lavoratori in regime di smart-working o in attesa in generale di rientrare nei luoghi di lavoro, nel rispetto dei provvedimenti governativi. Analisi di dati complessi. Il Cnr esprime la maggiore potenza di calcolo e analisi di
grandi insiemi di dati presente sul territorio nazionale. Sono già stati sviluppati strumenti in grado di operare analisi di tipo epidemiologico e di monitoraggio e predizione dell’andamento futuro della diffusione spaziale e temporale dell’epidemia. Oltre a queste attività più rapidamente implementabili, è importante sottolineare come la vocazione fondamentale del Cnr resti la ricerca scientifica. Sotto questo aspetto, l’Ente è in grado di fornire, tramite le proprie competenze e il suo personale, supporto di consulenza tecnico/scientifica a tutti i soggetti coinvolti nella gestione dell’emergenza.
Secondo uno studio pubblicato sulla rivista scientifica BiorXiv
Il disgelo dei ghiacciai può liberare virus e batteri Bruno Giordano Ai tempi del coronavirus, rischia di passare sotto traccia la pubblicazione di uno studio sulla autorevole rivista scientifica BiorXiv, che mette nero su bianco il vero rischio sanitario dei prossimi anni, causato dallo scioglimento dei ghiacci. Lo studio, pubblicato a inizio gennaio, presenta i risultati di un progetto di ricerca iniziato nel 2015 da un team di ricercatori statunitensi e cinesi, che hanno analizzato il contenuto microbico delle carote di ghiaccio prelevate nell’altopiano del Tibet. I ricercatori hanno perforato uno strato di ghiacciaio profondo 50 metri per ottenere due campioni, e attraverso l’analisi microbiologica, hanno identificato 33 gruppi di virus, 28 dei quali sconosciuti e sepolti da millenni. Il ghiaccio rappresenta per gli scienziati un archivio che consente di studiare cosa è accaduto nel passato. Attraverso i caro-
taggi nelle aree fredde del pianeta, è possibile quindi fare un viaggio nel tempo per capire quali fossero le condizioni del nostro pianeta e quindi dell’atmosfera nel passato. Lo studio delle carote di ghiaccio ha permesso di ricostruire la storia climatica fino a 15mila anni fa. Ora il rischio è che, per effetto del cambiamento climatico, lo scioglimento dei ghiacci, liberi i batteri intrappolati per tutto questo tempo. Facendo arretrare anche i grandi ghiacciai himalayani, la crisi climatica può rilasciare nell’atmosfera antichi virus sconosciuti e quindi potenzialmente pericolosi per l’uomo che non ha gli anticorpi necessari per affrontarli. I virus immagazzinati nel ghiaccio sono particolarmente complicati da estrarre e studiare, perché possono essere facilmente contaminati da elementi esterni. Gli scienziati hanno seguito un protocollo meticoloso per prevenire
qualsiasi contaminazione e hanno poi utilizzato tecniche di microbiologia per decifrare il resto delle informazioni genetiche congelate nelle carote di ghiaccio. Si tratta di agenti patogeni che potrebbero liberarsi nell’aria ed entrare in contatto con le falde acquifere: tra questi il vaiolo, l’antrace e persino la peste bubbonica, oltre ad altre malattie sconosciute. Tutto questo potrebbe accadere perché, mentre in condizioni normali ogni estate nel permafrost si scioglie uno strato di circa 50 cm di ghiaccio che d’inverno torna a formarsi, con il riscaldamento globale la copertura glaciale è in costante diminuzione. Lo scioglimento dei ghiacciai significa soprattutto la scomparsa di archivi virali e microbici insostituibili per gli scienziati, fondamentali per indagare sull'origine stessa della vita e l'emergere della biodiversità sul nostro pianeta. A proposito di rischi futuri, il Global risk report 2020 del World economic forum, sostiene che tra i dieci rischi globali più probabili, i primi cinque sono ambientali. Tra i dieci rischi globali di maggiore impatto distruttivo, i rischi ambientali si trovano al primo, terzo e quarto posto. Le epidemie globali sono contemplate, ma con impatti minori. Il problema è che per contrastare il rischio climatico, il più probabile e più impattante, non basta scoprire un vaccino.
Correlazioni tra smog e demenza senile Che l’inquinamento sotto ogni suo aspetto sia dannoso per la salute di tutti noi è cosa ormai più che risaputa. Ma forse non si sa ancora che c’è un legame tra inquinamento e il rischio di ammalarsi di demenza. Infatti, è venuto fuori che in un caso su due la demenza indotta dallo smog si deve al fatto che l'aria inquinata favorisce problemi cardiovascolari come l'ictus. A rivelarlo è stato uno studio diretto dalla Dottoressa Giulia Grande, una scienziata italiana che lavora presso l'Istituto Karolinska di Stoccolma e pubblicato sulla rivista Jama Neurology. In particolare, la ricerca ha coinvolto quasi tremila individui di età media pari a settantaquattro anni, il cui stato di salute è stato monitorato per un tempo medio di circa undici anni. Nel corso di questo periodo sono stati registrati ben trecento sessantaquattro casi di demenza. Gli esperti hanno, poi, confrontato i livelli di smog cui gli anziani sono stati esposti anno dopo anno. Così, hanno scoperto – come ha ben spiegato la Dottoressa Grande – che il rischio di demenza cresce al crescere dei livelli di inquinamento atmosferico (nel nostro studio abbiamo valutato il particolato fine PM2.5 e gli ossidi di azoto). "Abbiamo scoperto – ha continuato a spiegare – che il rischio di demenza cresce al crescere dei livelli di inquinamento atmosferico (nel nostro studio abbiamo valutato il particolato fine PM2.5 e gli ossidi di azoto)". È stato poi osservato che il rischio di demenza aumenta del cinquanta per cento per un aumento della concentrazione di PM2.5 di 0,88 µg/m3 (microgrammi/metro cubo) e che il rischio di demenza aumenta del quattordici per cento per un incremento di 8,35 µg/m3 della concentrazione di ossidi di azoto. Quindi, si direbbe che ci sia un legame tra la presenza dell’uno e l’insorgere dell’altra. Nello studio è stato anche osservato un importante ruolo delle malattie cardiovascolari e in particolar modo di ictus alla base dell'associazione tra smog e demenza abbiamo calcolato che quasi il cinquanta per cento dei casi di demenza da inquinamento era dovuto allo sviluppo di ictus. Tutto ciò ha portato a sospettare che l'effetto dell'inquinamento a livello cerebrale possa essere almeno parzialmente spiegato dall'effetto dannoso dello smog a livello cardio e cerebrovascolare. Davvero una scoperta importante nel campo medico, che potrà dare un ulteriore freno alle attività dell’uomo dannose per l’ambiente e a questo punto anche per la salute di tutti noi. A.P.
EARTHSHIP BIOTECTURE: L’OPERA DI MIKE REYNOLDS Antonio Palumbo In giro per il pianeta, sfortunatamente, non vi sono molte persone come lo statunitense Mike Reynolds - conosciuto anche come “Garbage Warrior” - architetto del New Mexico che è stato, negli ultimi decenni, tra i professionisti più sensibili ai problemi ecologici, avendo dedicato la propria vita alla realizzazione di un progetto davvero rivoluzionario: costruire case con elementi interamente riciclati (quali pneumatici, bottiglie ed altri materiali di scarto). Convinto sostenitore del concetto di “radically sustainable living”, fondatore dell’associazione “Earthship Biotecture” (che ha sede a Taos, nel New Mexico), Reynolds ha esportato il suo metodo in tutto il mondo, dedicando l’intera attività di costruttore allo studio e alla sperimentazione di abitazioni totalmente sostenibili. Nel 1969, appena terminata l’università, l’architetto lancia il suo progetto di abitazione integralmente costruita con materiali di riciclo; già nel 1972 inaugura la sua prima casa, chiamata Thumb House, e fonda la prima comunità costituita da persone che condividono il desiderio di vivere in questo tipo di “eco-dimore”. Le “Earthship” (letteralmente
“Navicelle della terra”) vengono costruite con tutti i tipi di materiali reperibili (bambú, legno, cartone, cemento, terra, copertoni, lattine di alluminio, bottiglie di vetro e plastica, ecc.), sono in grado di accumulare il calore del sole d’inverno e posseggono un ingegnoso sistema di ventilazione che le rende fresche d’estate, raccolgono e convogliano l’acqua piovana (depurandola e consentendo di immagazzinarne la gran parte), gestiscono autonomamente le acque reflue e sono perfino dotate di una serra dove coltivare cibo. Estremamente rappresentativo della filosofia di Reynolds, in proposito, è quanto da lui dichiarato in un’intervista rilasciata qualche tempo fa: «Sono oltre 40 anni - ha affermato l’architetto statunitense - che vivo in un Earthship. Casa mia è un Earthship, il mio ufficio è un Earthship. Quando ho fame, entro in uno dei miei Earthship in cui ho creato un orto e raccolgo una banana, dell’uva, e mangio. Non ho bollette e non sono dipendente da fluttuazioni di costi di elettricità o dibattiti sulla fornitura d’acqua o problemi con le infrastrutture municipali. Sono felice quando piove, perché ho acqua, e se non piove sono felice lo stesso, perché ho il sole che mi permette di avere elet-
tricità. So che quando vado in bagno sto nutrendo la terra del mio orto. Ogni aspetto della vita di chi abita in un Earthship entra in armonia con i ritmi della natura, si interagisce con l’ambiente circostante,
prendendo ciò che ci serve e restituendo ciò che permette di generare altra energia». Le “Earthship” sono altresì in grado di resistere a terremoti corrispondenti al nono grado della Scala Richter e, per la
loro forma, riescono nondimeno ad adattarsi bene ad una serie di possibili calamità naturali: ad esempio, dopo il terribile “Tsunami” che, nel 2004, devastò le coste di India e Indonesia, Reynolds e il suo team vennero contattati da un gruppo di architetti delle zone colpite e decisero di accettare la loro accorata richiesta di collaborazione, avviando un progetto di costruzione al quale partecipò anche parte della popolazione sopravvissuta. Mike Reynolds ha recentemente terminato il suo ultimo “complesso Earthship” a Gili Kenawa, un’isoletta disabitata di appena 14 ettari ad ovest dell’isola di Sumbawa (Indonesia). Assistito da un team composto da 6 tecnici, una cinquantina di volontari e diversi operai locali, l’architetto statunitense ha realizzato il primo nucleo di oltre 40 abitazioni - progetto inserito nel programma di scala vasta denominato “Eco-Regions Indonesia” - che formeranno il primo “Earthship Resort” e la prima “Earthship Academy” del mondo: un resort off-grid e totalmente ecosostenibile, dove trascorrere alcuni giorni di vacanza immersi nella natura, accoppiato ad un centro di apprendimento e scambio di buone pratiche costruttive ecosostenibili.
L’intelligenza artificiale nell’agricoltura L’impiego dei robot nel settore inizia a diffondersi in Australia, Giappone e Stati Uniti Ilaria Buonfanti Arano, seminano, liberano i campi dalle erbacce, evitano l’utilizzo di pesticidi dannosi per l’uomo e per l’ambiente; sono perfetti orticoltori, precisi ed infaticabili. Ma non sono esseri umani bensì robot, anzi agribot, macchine progettate e costruite per svolgere perfettamente il nobile lavoro del contadino. Siamo appena agli inizi, ma già si comincia a vedere qualcosa di importante. L’uso dei robot in agricoltura inizia a diffondersi in Australia, Giappone e Stati Uniti dove sono già a lavoro robot muniti di occhi bionici e braccia meccaniche in grado di stabilire il grado di maturazione dei vari ortaggi, recidere il gambo al momento giusto e completare la raccolta. Gli specialisti del settore dichiarano che nel giro di una decina d’anni l’agricoltura cambierà completamente faccia. Ripulire un campo dalle erbacce è fondamentale per ottenere un’ottima resa del prodotto finale e proprio l’estirpazione delle erbacce è un’attività che la maggior parte dei contadini sarebbe felice di affidare a un robot. Ma perché un robot faccia bene il suo lavoro, occorre che sia in grado di distinguere un’erbaccia da una coltivazione buona.
Dick è bravissimo in questo, questo agribot di colore arancione brillante (perché importante che sia facilmente riconoscibile mentre svolge il suo lavoro nei campi) è dotato di un elettrodo che in grado di muoversi fino a toccare la pianta. Una volta avvenuto il contatto, il dispositivo crea un circuito che sprigiona calore che fa bollire le cellule della pianta e le uccide all’istante dallo stelo alla radice. Ciò può richiedere diverse migliaia di volt, anche se il voltaggio è regolato in base al tipo di erba infestante. I resti della pianta possono poi essere lasciati a decomporsi nel terreno in modo naturale. Dotata di telecamere e altri sensori, la macchina con quattro ruote motrici può coprire circa 20 ettari al giorno, mappando lo stato di ogni pianta, insieme alle condizioni del suolo. Quando si rilevano delle erbe infestanti, entra in azione per fulminarle. Titan invece è un ottimo aratore, può percorrere autonomamente un campo di verdure (lattuga, broccoli e cavolfiori), identificando le singole piante e la loro posizione. Mentre si muove sul terreno, Titan dispiega una serie di lame rotanti che vengono regolate automaticamente per arare il terreno a una profondità appropriata per l’eliminazione di eventuali erbe infestanti. Molti agribot svolgono le loro funzioni
utilizzando esclusivamente l’energia solare. È il caso di un robot testato nei campi di cotone statunitensi che, trainato da un trattore, spruzza una piccolissima quantità di erbicida e solo sulla pianta infestante appena individuata. Gli sviluppatori stimano che in questo modo si potrebbe tagliare l’uso di erbicidi del 90% appena le colture iniziano a crescere. Anche in Svizzera è entrato in azione un agribot progettato in Olanda che irriga i campi e contemporaneamente svolge funzione diserbante. Pilotata da uno schermo nella cabina del trattore,
dotata di telecamere di riconoscimento a terra, la macchina sa essere molto efficiente, senza mai esagerare. Mentre le lame affilate tagliano le erbe infestanti, gli ugelli rilasciano su ogni insalata (e non a lato) la necessaria micro-dose di prodotto (e non una goccia in più). Esistono anche robot domestici che possono curare i nostri giardini usando l’energia solare, energia che, se in eccesso, può essere conservata in una batteria. Nel prossimo futuro i contadini potranno ricevere grandi aiuti.
Rinfrescare gli ambienti senza l’utilizzo di energia elettrica Ideato un dispositivo che sfrutta la radiazione solare Rosario Maisto Un nuovo studio propone una tecnologia per rinfrescare gli ambienti senza l’utilizzo di energia elettrica ma sfruttando direttamente la radiazione solare. Rinfrescare e riscaldare gli ambienti in cui viviamo o lavoriamo è un’esigenza comune nella maggior parte delle aree abitate, in Europa, l’energia consumata per la climatizzazione è già in aumento, ma l’innalzamento delle temperature in diverse regioni del mondo fa prevedere un possibile aggravarsi di questa esigenza, soprattutto durante la stagione estiva in cui la tecnologia più diffusa è il classico condizionatore, che spesso impiega fluidi refrigeranti ad alto impatto ambientale e richiede inoltre un elevato fabbisogno di elet-
tricità. Per ridurre, quindi, l’impatto energetico del raffrescamento, gli ingegneri hanno studiato un dispositivo capace di generare un “effetto freddo” senza l’utilizzo di energia elettrica, diminuendo la temperatura di un ambiente sfruttando la radiazione solare e l’evaporazione di un liquido, ma la chiave della nuova soluzione è quella di usare semplice acqua e comune sale invece di composti chimici potenzialmente dannosi per l’ambiente. Anziché essere esposta all’aria, l’acqua pura bagna una membrana impermeabile che la separa da una soluzione di acqua e sale ad alta concentrazione, grazie alle sue proprietà idrorepellenti, questa membrana non viene attraversata dall’acqua liquida ma solo dal vapore, in questo modo, l’acqua dolce e salata non si mesco-
lano, mentre il vapore dell’acqua è libero di passare da una parte all’altra della membrana, in particolare, la differente salinità nei due liquidi consente all’acqua pura di evaporare più velocemente di quella salata. Questo meccanismo raffredda l’acqua pura, e può essere amplificato grazie alla presenza di diversi stadi evaporativi. L’acqua salata tenderà gradualmente ad addolcirsi nel tempo e dunque l’effetto rinfrescante ad attenuarsi, tuttavia, la dif-
ferenza di salinità tra le due soluzioni può essere continuamente, e in modo sostenibile, ristabilita tramite l’energia solare. Queste unità refrigeranti, spesse qualche centimetro ciascuna, possono funzionare autonomamente oppure essere disposte in serie, per aumentare l’effetto di raffreddamento, in questo modo è possibile calibrarne la potenza in base alle
singole esigenze, raggiungendo capacità di raffrescamento confrontabili a quelle degli usi domestici, perché l’acqua non ha bisogno di pompe per essere movimentata all’interno del dispositivo, ma si sposta grazie all’effetto capillare di alcuni componenti che, così come la carta da cucina, sono capaci di assorbirla e trasportarla anche contro la forza di gravità.
COTUGNO, SPALLANZANI E LE DUE SICILIE… Il primato del più alto numero di vaccinati per il vaiolo nel 1833 Gennaro De Crescenzo Salvatore Lanza In questi giorni sentiamo parlare spesso di Cotugno e Spallanzani, due ospedali legati a due nomi a loro volta legati al Regno delle Due Sicilie. In particolare Domenico Cotugno, eccellenza scientifica tra Settecento e Ottocento (Ruvo di Puglia 1736, Napoli 1822): cattedra di anatomia (ad appena 30 anni), medico di corte di Ferdinando IV di Borbone, protomedico generale del Regno (una sorta di “ministro” della Sanità), numerosi studi sulle epidemie e un ruolo importante per la profilassi anti-tubercolare (due primati del Regno). Il nome del prestigioso ospedale romano si lega, invece, allo scienziato emiliano Lazzaro Spallanzani. Lo Spallanzani fu uno dei Grandi Viaggiatori attratti dalle bellezze di Napoli, dei Campi Flegrei e della Sicilia nel 1788 e pubblicò un libroresoconto (“Viaggi alle Due Sicilie e in alcune parti dell’Appennino”). “Quando il 24 luglio del 1788 io giunsi in Napoli, sebbene il Vesuvio non fosse in uno stato d’inazione, pure i suoi accendimenti non movevano la curiosità dei Napoletani, i quali per la contratta abitudine di averlo sempre dinanzi agli occhi, non lo visitano più se non nelle grandi e rovinose eruzioni”. Dal presente, allora, al passato, quando Napoli era una delle capitali anche scientifiche del mondo. A questo tipo
PRIMATI E DINTORNI
Lazzaro Spallanzani (1729-1779)
Domenico Cotugno (1736-1822)
di scienze e di scienziati si legano primati importanti come quello relativo alle vaccinazioni. Fu nelle Due Sicilie che si registrò, infatti, il più alto numero di vaccinati contro il vaiolo in rapporto alla popolazione (oltre un milione e trecentomila persone in venti anni). Era il 1821 quando fu emanato un decreto che doveva segnare la storia della medicina e della prevenzione a Napoli e in Italia: con il decreto n. 141 del 6
novembre 1821 (“decreto riguardante la inoculazione del vaccino vajuolo”) il governo borbonico pose le basi di un primato tra i più importanti: quello del più alto numero di vaccinati nel 1833. Il primato si concretizzò con un Comitato Centrale di Vaccinazione successivamente accompagnato da un Istituto Centrale Vaccinico Napoletano (sede centrale a Napoli, succursali in tutte le province del regno), enti che, a
Senza entrare nel merito della recenti decisioni dei governi sulla obbligatorietà dei vaccini, se diamo un occhio alla storia, scopriamo ancora una volta che Napoli e il Sud erano primi e non solo in Italia. Quasi un milione e mezzo coloro che (gratuitamente) furono vaccinati contro il vaiolo (malattia mortale, bene specificarlo!) nel Regno solo tra il 1777 e il 1832 e grazie all'azione di apposite Giunte Vacciniche, di ricerche e pubblicazioni e della chiesa. Con il Decreto n. 141 del 6 Novembre 1821, Ferdinando I di Borbone sanciva l’obbligatorietà della vaccinazione nel Regno delle Due Sicilie prevedendo misure punitive per i trasgressori (i parroci dovevano rilasciare ad ogni vaccinato un cartelfatica ma gradualmente, vinsero lo scetticismo (sempre attuale) delle popolazioni anche grazie all'esempio personale del re e della sua famiglia. Nel decreto si fa riferimento alla obbligatorietà di vaccinare i bambini con tesi finalizzate a battere quello che oggi definiremmo un fronte “No-Vax”… Perseguiti “tutti coloro i quali han tenuto riprensibile condotta di trascurare la vaccinazione onde preservare la
lino attestante l’avvenuta vaccinazione ed avere un registro dei bambini vaccinati della parrocchia). Ma questi primati, al contrario di quanto affermano pochi, tristi e ormai patetici "oppositori", non erano "episodi" ma specchio di una realtà e di un clima politico, culturale ed economico e la sanità (non fate paragoni con il presente!) era un vero e proprio fiore all'occhiello per i Borbone e per il nostro Sud: 9390 nel 1860 i medici e i chirurghi per 9 milioni di abitanti nelle Due Siclie (7087 su 13 milioni per il resto dell'Italia), 80 gli ospedali e nel 1817 un decreto sempre di Ferdinando I organizza l'intero sistema sanitario con criteri che sarebbero stati imitati fino ad oggi. propria prole” e ogni forma di assistenza economica pubblica era impossibile senza presentare i documenti relativi alla avvenuta vaccinazione di bambini e familiari. La compilazione dei documenti era a cura dei parroci (invitati anche a “suggerire” le vaccinazioni) e all’articolo 5 si prevedeva anche una specie di sorteggio con assegnazione di denaro tra coloro che "avevano adempiuto al loro dovere"...
La tutela della salute e dei dati personali in un contesto straordinario di pandemia Luca Monsurrò Governi, organismi pubblici e privati di tutta Europa stanno adottando misure per contenere e attenuare il COVID-19. È nell'interesse dell'umanità arginare la diffusione delle malattie e utilizzare tecniche moderne nella lotta contro i flagelli che colpiscono gran parte del mondo. In questo contesto le norme in materia di protezione dei dati, come il Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati n. 679/2016, non devono ostacolare l’adozione di misure per il contrasto della pandemia da Coronavirus anche se questa situazione emergenziale provoca senz’altro il trattamento di diverse tipologie di dati personali. Occorre pertanto tenere conto di una serie di considerazioni per garantire la liceità del trattamento di dati personali e, in ogni caso, è utile ricordare che qualsiasi misura adottata in questo contesto deve rispettare i principi generali del diritto e non può essere irrevocabile. L'emergenza è un contenimento giuridico che può legittimare limitazioni delle libertà, a condizione che tali impedimenti siano proporzionati e confinati al periodo di emergenza. Lo stesso Comitato Europeo per la Protezione dei Dati ricorda che in ambito lavorativo, il trattamento dei dati personali può essere necessario per adempiere un obbligo legale al quale è soggetto il datore di lavoro come ad esempio in materia di salute e sicurezza sui luogo di lavoro o per il perseguimento di un interesse pubblico come il controllo delle malattie e altre minacce di natura sanitaria. Il Regolamento prevede anche deroghe al divieto di trattamento di talune categorie particolari di dati personali, come i dati sanitari, se ciò è necessario per motivi di interesse pubblico rilevante nel settore della sanità pubblica (articolo 9.2, lettera i), sulla base del diritto dell'Unione o Nazionale, o laddove vi sia la necessità di proteggere gli interessi vitali dell'interessato (articolo 9.2.c), come si evince esplicitamente dal considerando n. 46 che così
recita: … “Alcuni tipi di trattamenti di dati personali possono rispondere sia a rilevanti motivi di interesse pubblico sia agli interessi vitali dell’interessato, per esempio se il trattamento è necessario a fini umanitari, tra l’altro per tenere sotto controllo l’evoluzione di epidemie e la loro diffusione o in casi di emergenze umanitarie, in particolare in casi di catastrofi di origine naturale ed umana”. Si auspica sempre che i dati personali necessari per conseguire gli obiettivi perseguiti,
debbano essere trattati per finalità specifiche e con adeguate misure di sicurezza e riservatezza garantendo la non divulgazione a soggetti non autorizzati. In tal senso il Comitato Europeo per la Protezione dei Dati – European Data Protection Board - ha dato alcune risposte, relative alla potenzialità, in capo al datore di lavoro, in un determinato contesto lavorativo, di chiedere o meno ai propri dipendenti di fornire informazioni sanitarie specifiche nel contesto del Covid -19, oppure nel caso in
cui lo stesso datore fosse autorizzato ad effettuare controlli medici sui dipendenti e/o poter informare soggetti esterni se un dipendente fosse o meno affetto dal virus. Ebbene i principi di proporzionalità e minimizzazione sono sempre alla base di un corretto comportamento e certamente sono da perseguire da parte del datore di lavoro, che potrebbe chiedere informazioni sanitarie solo nella misura consentita dal diritto nazionale, come anche il trattamento e l’accesso a dati sanitari personali. Così, in caso
di Covid- 19 certificato, si dovrebbero adottare misure di protezione, senza comunicare più informazioni del dovuto, indicando il nome del dipendente che ha contratto il virus solo dopo averlo informando in anticipo, al fine di tutelare la sua dignità ed integrità. Tali cautele certamente salvaguardano le tante persone risultate positive al virus, e poi guarite, da una “stigmatizzazione” permanente, che può essere purtroppo ampliata anche dalla diffusione della notizie sulla rete e sui social.
Il Consiglio di Stato fa il punto su accesso documentale e accesso civico generalizzato È stata affrontata la questione nell’ambito dei contratti pubblici Felicia De Capua Il Consiglio di Stato, riunito in adunanza plenaria il 2 aprile scorso, ha emanato la sentenza n. 10/2020, con la quale si è espresso in tema di accesso agli atti, riordinando principi e distinzioni tra le due tipologie di accesso: accesso agli atti cd. documentale, ai sensi della L. 241/1990 («Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi»), e accesso civico generalizzato ai sensi del D.Lgs. 33/2013 («Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni»). I punti cardine della sentenza in esame, alquanto corposa, si sviluppano attorno ai principi di seguito esplicati. La pubblica amministrazione ha il potere-dovere di esaminare l’istanza di accesso agli atti e ai documenti, formulata in modo generico dal richiedente senza riferimento a una specifica disciplina, anche alla stregua della disciplina dell’accesso civico generalizzato, a
meno che l’interessato non abbia inteso fare esclusivo e chiaro riferimento alla disciplina dell’accesso documentale, nel qual caso essa dovrà esaminare l’istanza con specifico riferimento ai criteri della l. 7 agosto 1990, n. 241, senza che il giudice amministrativo, adìto ai sensi dell’art. 116 c.p.a., possa mutare il titolo dell’accesso, definito dall’originaria istanza e dal conseguente diniego adottato dalla pubblica amministrazione all’esito del procedimento. Il secondo punto interessante della decisione plenaria riguarda il tema dell’accesso agli atti in ambito di contratti pubblici: è ravvisabile un interesse concreto e attuale, ai sensi dell’art. 22 della l. 241/1990, e una conseguente legittimazione al riconoscimento dell’accesso agli atti della fase esecutiva di un contratto pubblico (cui viene riconosciuta la rilevanza pubblicistica) da parte di un concorrente alla gara, in relazione a vicende che potrebbero condurre alla risoluzione per inadempimento dell’aggiudicatario e, quindi, allo scorrimento della graduatoria o alla riedizione della
gara, purché tale istanza non si traduca in una generica volontà, da parte del terzo istante, di verificare il corretto svolgimento del rapporto contrattuale (v., ex plurimis, C.d.S., sez. V, 25 febbraio 2009, n. 1115). Infine i giudici affermano che “l’accesso generalizzato, quale via elettiva della trasparenza, soddisfa ampiamente il diffuso desiderio conoscitivo finalizzato alla garanzia della legalità nei contratti pubblici, che è per così dire la rinnovata e moderna cifra dell’evidenza pubblica non solo nella tradizionale fase dell’aggiudicazione ma anche nell’ese- cuzione, dovendo questa, rispettarne specularmente condizioni, contenuti e limiti”. Di conseguenza stabiliscono l’applicabilità dell’istituto del-
l’accesso civico generalizzato alle procedure di gara e alla successiva fase di esecuzione del contratto, salva l’equilibrata applicazione del limite previsto dall’art. 5-bis, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 33 del 2013, a tutela dei principi di riservatezza. A tal riguardo è rimessa di poi all’amministrazione la decisione sulla base di un adeguato bilanciamento degli interessi coinvolti, attraverso una valutazione che si ispiri al canone di proporzionalità, proprio del test del danno (c.d. harm test), che preservi il know-how industriale e commerciale dell’aggiudicatario o di altro operatore economico partecipante senza sacrificare del tutto l’esigenza di una seppur parziale conoscibilità di ele-
menti fattuali, estranei a tale know-how. Ciò nell’interesse pubblico a conoscere, per esempio, come certe opere pubbliche di rilevanza strategica siano realizzate o certi livelli essenziali di assistenza vengano erogati da pubblici concessionari. Al contempo i giudici chiariscono che è, d’altro canto doveroso per l’ente respingere le richieste manifestamente sproporzionate, tali da comportare un carico irragionevole di lavoro idoneo a interferire con il buon andamento della pubblica amministrazione; le richieste massive uniche, contenenti un numero cospicuo di dati o di documenti (v., sul punto, Circolare FOIA n. 2/2017, par. 7, lett. d; C.d.S., sez. VI, 13 agosto 2019, n. 5702), o le richieste massive plurime, che pervengono in un arco temporale limitato da parte dello stesso richiedente o da parte di più richiedenti ma comunque riconducibili ad uno stesso centro di interessi; richieste vessatorie o pretestuose, dettate dal solo intento emulativo, tutte da valutarsi ovviamente in base a parametri oggettivi.
Viaggio nelle leggi ambientali RAPPORTO TRA DISCIPLINA URBANISTICA E AUTORIZZAZIONE AMBIENTALE La compatibilità con la disciplina urbanistica ed eventualmente di vincolo paesaggistico vigente dell’area interessata dalla attività di gestione di rifiuti da svolgere costituisce solo un necessario quanto distinto presupposto dell’autorizzazione unica ambientale rilasciata ai senti dell’ art. 208 del D.L.vo 152/06, la quale assume pur sempre una sua autonomia tipica e funzionale (siccome inerente alla specifica realizzazione e gestione di impianti riguardanti il trattamento di rifiuti), quand’anche inserita nel medesimo titolo abilitativo inclusivo di profili autorizzatori di
tipo urbanistico. Cassazione Penale Sezione III, Sentenza n. 6923 del 21/02/2020. FISCALITÀ DELL’AMBIENTE, MERCATO E SVILUPPO SOSTENIBILE: UN EQUILIBRIO POSSIBILE? Abstract. L’analisi del rapporto della tassazione ambientale con il mercato e con lo sviluppo sostenibile muove dalla complessità in cui versa attual-
mente la fiscalità ambientale per poi introdurre un’efficace descrizione di come la mancanza di un criterio informatore si riverberi sulla possibilità da parte del tributo di finanziare il diritto all’ambiente. In questo discorso nucleo fondamentale di parte della disamina è la mancata corrispondenza tra fattore inquinante e presupposto del tributo a cui si aggiunge il confronto tra risorse naturali, benessere ed economia circolare. Il diritto all’ambiente rappresenta un diritto sociale fondamentale, la cui concretizzazione anche per mezzo di una fiscalità adeguata coniugherebbe l’esigenza della tutela dell’ambiente con quella che rappresenta la sfida principale dell’ordinamento tributario moderno di concorrere
alla realizzazione sia del processo di integrazione europea che dello sviluppo del regionalismo. Prof. Avv. Maria Assunta Icolari. Il testo integrale al seguente link: https://www.ambientediritto.it/wp-content/uploads/ 2020/03/FISCALIT%C3%80DELL%E2%80%99AMBIENTE-MERCATO-E-SVIL UPPO-SOSTENIBILE_Icolari.pdf RIFIUTI Con tre sentenze del 21 novembre 2019 (n. 47288/89/90) in altrettante fattispecie legate alla medesima vicenda cautelare si è chiuso il complesso iter processuale che aveva preso il via dalle ordinanze del 27 luglio 2017 (n. 37460/61/62) con cui la Cassazione aveva sollevato alla Corte di Giusti-
zia la questione pregiudiziale sulla classificazione dei rifiuti poi definita dal giudice europeo con la sentenza del 28 marzo 2019 nelle cause riunite da C487/17 a C-489/17. È utile ricordare che le fattispecie cui si riferiscono le tre recenti decisioni della Cassazione si inseriscono nella medesima vicenda cautelare relativa allo smaltimento di ingenti quantitativi di rifiuti provenienti dal trattamento biomeccanico di rifiuti urbani i quali, se contengono sostanze pericolose o che presentano indizi di pericolosità, sono classificati con il codice specchio di rifiuto pericoloso 19.12.11; se invece non rivelano indizi di pericolosità, sono classificati con il codice specchio di rifiuto non pericoloso 19.12.12. fonte: www.reteambiente.it. A.T.
L’emergenza chiama, gli imprenditori rispondono In Italia boom delle aziende che convertono la produzione in presidi sanitari Cristina Abbrunzo Tra volontà di mettersi a disposizione per affrontare una fase di emergenza, capacità di adattamento ad un contesto mutato e spirito imprenditoriale, sono numerose le aziende italiane che, in queste settimane, hanno scelto di convertire la propria produzione tradizionale per fornire elementi necessari a sostegno della lotta contro il virus. Mascherine, camici, guanti, calze e occhiali a uso sanitario, ma anche respiratori polmonari e gel disinfettanti. Da quando la pandemia ha cominciato a diffondersi sul territorio nazionale la richiesta di questi prodotti è aumentata in maniera considerevole. E sono queste ora le priorità che hanno portato le aziende alla conversione della loro usuale produzione, cambiando o adattando i macchinari e rivedendo la logistica. L’idea innovativa è il sistema circolare che si propone di risolvere più problemi contemporaneamente: andare incontro alla domanda urgente di mascherine e presidi, dar lavoro a tante piccole e medie aziende produttrici italiane di eccellenza - ma in sofferenza per il calo temporaneo della domanda mondiale –, valorizzare le materie prime ferme nei magazzini dei produttori.
Tutto ciò si è reso possibile anche grazie agli incentivi Invitalia - operativi dal 26 marzo - messi in campo dal decreto Cura Italia. Cinquanta milioni stanziati per la riconversione delle aziende alle linee dei prodotti dei dispositivi medici, in particolare respiratori, mascherine e materiale necessario per affrontare l’emergenza sanitaria. E sono diverse le aziende che ne stanno facendo richiesta, sia di altri comparti, come quello della moda, sia di altre linee del biomedicale. Per primo si è mosso, appunto, il settore della moda con Confindustria Moda che ha lanciato alle imprese un appello per fare tutto il possibile per contribuire a dare il proprio supporto all’emergenza, considerando che, materiali e linee produttive, sono spesso simili nel caso di aziende tessili. E le aziende tessili hanno risposto scendendo in campo numerose e decise a fare la propria parte. Abiti e tailleur non sono più necessari, ma le mascherine sì: per questo 180 case di moda hanno unito gli sforzi per garantire ben 2 milioni di pezzi al giorno. È stato bellissimo rendersi conto che tutti si sono impegnati per solidarietà pura, senza pensare al business. Grandi nomi come Giorgio Armani che converte tutti i pro-
pri stabilimenti italiani nella produzione di camici monouso destinati alla protezione individuale degli operatori sanitari impegnati contro il Coronavirus, oltre ad elargire donazioni dirette agli ospedali delle zone più colpite pari a due milioni di euro. Gucci e Prada che forniranno centinaia di migliaia di mascherine chirurgiche e tute mediche alla Regione Toscana. E ancora Valentino, Ferragamo, Moschino i gruppi Zara, H&M, Calzedonia e tanti altri
big della moda che si stanno impegnando in queste ore a rifornire l’intero territorio italiano del maggior numero possibile di presidi. Ma non solo il mondo del luxury si sta mobilitando in questa direzione, sono tantissime le realtà tessili locali, medie e piccole che stanno facendo un grande sforzo per aiutare la popolazione a tutelare la propria salute, consentendo nel contempo a migliaia di dipendenti di questo comparto di continuare a lavorare. Dopo le aziende tessili e la fornitura di mascherine e tute protettive arrivano i rinforzi anche per la produzione di gel alcolici igienizzanti per le mani. E qui entrano in gioco le aziende beauty e addirittura le distillerie che producono liquori. Bulgari ha avviato la produzione di gel disinfettante da fornire a tutte le strutture mediche italiane, la produzione prevede 6000 pezzi al giorno fino ad arrivare ad un totale di 200.000 pezzi in circa due mesi. L’Oréal Italia donerà circa 80 mila pezzi di gel idroalcolico a Emergency e Banco alimentare, non solo donerà anche a diversi ospedali prodotti cosmetici utili per lenire la pelle di viso e delle mani dei medici e infermieri che indossano costantemente mascherina e guanti. L’Erbolario ha riattivato i suoi impianti, i
primi 38 mila flaconi di gel sono già stati donati e altri 28.000 flaconi sono in partenza. Anche alcune aziende del comparto spirits hanno deciso di offrire la propria “materia prima”, l’alcol, per rafforzare la disponibilità di disinfettanti negli ospedali, nei presidi sanitari e negli studi medici. Assodistil Italia, l’associazione di categoria che raccoglie una sessantina di aziende per un totale di circa il 95% di tutto l’alcol etilico prodotto sul suolo nazionale - già il 13 marzo - ha lanciato un appello e ha dichiarato che le aziende del settore si impegneranno al massimo per fornire tutta la quantità disponibile a coloro che ne abbiano legittima necessità. La solidarietà, infine, arriva anche dal mondo dei motori dove la FCA (Fiat Chrysler Automobiles) la Ferrari e altre case automobilistiche, dopo le donazioni milionarie dei giorni scorsi per supportare la lotta dell’Italia al coronavirus mettono a disposizione le proprie fabbriche e i propri collaboratori per accelerare la produzione di respiratori polmonari per la terapia intensiva. Questa è l’Italia che ci piace ed è questo lo spirito giusto che ci permetterà di superare prima possibile questa terribile emergenza! #UnitiCeLaFaremo.
La più efficace cura di oggi: essere pronti per il futuro Non ti nascondere dietro il destino. Il destino è il pretesto dei falliti (Pablo Neruda) Andrea Tafuro “L’Europa deve contribuire a realizzare un mondo migliore e questo lo possiamo fare se partiamo dalle piccole cose di ogni giorno, dai temi che interessano la gente. Pensiamo alla solidarietà, da investire a favore degli ultimi, dei poveri, dei deboli, sia in Europa che nel mondo”. Sono queste le parole di Marx... Reinhard, presidente della Conferenza Episcopale Tedesca. Il fratello Marx, non è mai stato ospite all’annuale fiera delle carriere di Todi, che assegna alle anime belle il bollino di cattolico impegnato. Ha fatto di più ha scritto: “Il Capitale. Una critica cristiana alle ragioni del mercato”, nel lontano 2008, prima della crisi che stiamo vivendo. Mi preme sottolineare che Marx...il cardinale, è uno dei collaboratori del papa per le encicliche sociali. Un uomo di Chiesa si occupa di economia, ma siamo pazzi? In fondo, è dalla cacciata dei mercanti dal Tempio, che la Chiesa interviene su questi temi. Ha sempre avanzato dubbi sulla bontà di un sistema fondato su un capitalismo sfrenato in cui l’unico dio fosse il denaro e l’unica autorità il libero mercato. Eppure molte delle cose che, il vecchio Marx...Karl, ha detto
“Mi dissero “i tuoi sogni non ti porteranno da nessuna parte”. Ed io andai ovunque” (Joy Musaj) sulle disuguaglianze sociali nel XIX secolo erano giuste. L’analisi, che egli conduce, del carattere di merce del lavoro e l’economicizzazione di ogni campo della vita, è stata precisa e veritiera. Ha intravisto nel nocciolo della globalizzazione del capitale, un processo nefasto per l’umanità e ha capito che questo sarebbe potuto sfociare in ingiustizie più grandi. Ma facciamo parlare ancora il cardinale: “Io non credo che oggi in Europa siamo alla vigilia di una rivoluzione. Eppure l’idea della solidarietà è centrale nelle nostre società, se vogliamo mantenere il sistema che in Germania chiamiamo l’economia sociale di mercato. Cioè un sistema in cui lo Stato sociale deve farsi carico dell’esigenza che i rischi per i singoli, siano affrontati secondo un solidale senso del dovere”. Ad occhio e croce mi sembra di capire che l’uomo deve essere al centro e l’economia deve servire il genere umano... ma è l’assunto centrale dell’insegna-
mento sociale (non socialista) cattolico. Siamo tutti sulle spalle di Marx? Non pensiamo a quello che ne hanno fatto del pensiero di Marx. C’è voluto o’ viruss, per tornare a riflettere sulla vecchia fissa del comunismo: favorire l’azione collettiva per proteggere il bene comune, cioè tutti quegli ambiti che dovrebbero essere esentati dalla logica di mercato: sanità, cibo, cultura, scienza, educazione… Certo è che in tempi di crisi non c’è tempo per fesserie come il dibattito democratico, bisogna agire in fretta, anche a costo di sospendere la democrazia. In un momento culturale in cui è molto di moda il disincanto saccente, il disprezzo ironico per l’affidabilità delle relazioni, mi sembra ancora più provocante ed entusiasmante parlare di ideali, pace e amore. I teorici della Scuola di Francoforte sostenevano che le idee degli individui sono un pro-
dotto della società in cui vivono. Infatti, dal momento che il nostro pensiero si forma nella società, è impossibile o quasi arrivare a conclusioni che siano libere dalle influenze della nostra epoca e del nostro contesto culturale. Il controllo sociale è affiancato da un enorme condizionamento da parte dei mass-media e da un appiattimento culturale esorbitante. L’immaginazione al potere gridavano anni fa nei cortei. E allora il modo migliore per distruggere un sistema che si sta distruggendo da solo, è dar vita a situazioni che fermino la barbarie. La crisi della società del denaro e dello scambio economico è sotto gli occhi di tutti. Il problema non è, come per i vecchi compagni rivoluzionari, in quale modo abbattere questo status quo, che si sta abbattendo da solo e con i propri errori, ma bisogna darsi da fare, in chiave costruttiva e ottimistica... “prima che le passioni dissolte si trasformino in
passioni da distruggere” ...Ho fatto tutto questo bailamme, perché volevo parlare dei sogni, dopo la speranza. Si perché i miei sogni, sono il motore delle mie giornate, la radice della mia gioia, l’essenza del sorriso che porto in volto. Ci credo, anche se so che alcuni rimarranno sempre e solo tali: quelli sono i più fragili, che guardo e curo con tenerezza e tra essi quello di una nuova umanità, che per tutto il giorno è sparpagliata per il mondo. Curo questo sogno con affetto particolare perché negli anni mi sono accorto di quanto sia stato importante e per me vitale aver vissuto in questo mondo e con questa umanità. Ma non facciamo anche noi l’errore che fanno gli ipocriti, di schierarci senza pensarci dalla parte dei sogni. Il mio sogno è vivere in un mondo in cui tutti rispettano il Creato, con le sue infinite sfumature! Il tuo sogno qual è?
Pasqua 2020, a casa ci siamo rimasti davvero! Al tempo del Coronavirus la città di Napoli sembra un dipinto malinconico, ma bella più che mai. Anche il mare sembre immobile, tutto l’infinito in un rispettoso silenzio. Da alcune serrande abbassate arriva della musica triste in sottofondo. Le luci, in lontananza, sono quelle delle Forze dell’Ordine, che continuano, senza sosta, a vigilare nei vicoli e nelle piazze della città. Qualcuno dal balcone richiama l’attenzione dei pochi passanti: “ce la faremo” urla aprendo le braccia al cielo. Ma la città è smarrita, soffre per i suoi figli.
Per i figli del mondo. Uomini e donne che, dopo aver combattuto invano la propria battaglia contro questo nemico invisibile, hanno lasciato famiglie e amici nella più completa disperazione. Oggi, di questi “perduti amori", vogliamo ricordare Enzo Lucarelli, figlio di Napoli, autista soccorritore del 118: tra i primi in città a perdere la vita nell’esercizio del proprio dovere. “Il guerriero”, così ricordato dai suoi colleghi, è stato un esempio di grandi virtù. La sua forza e la sua allegria vivranno per sempre nel cuore del figlio, della moglie e di tutti i suoi cari.