Micron 36

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ecologia, scienza, conoscenza

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/ I signori della carne / Habitat a rischio / Inquinamento dell’aria e nascite premature

Arpa - agenzia regionale per la protezione ambientale dell’Umbria / rivista trimestrale / numero 36 - aprile 2017 / spedizione in abbonamento postale 70% / DCB Perugia

micron


controllo

ANNO XIII . NUMERO 36 / APRILE 2017

A qualcuno piace caldo

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città di castello

Direttore Walter Ganapini

B

protezione foligno

bastia umbra

perugia

Rivista trimestrale di Arpa Umbria spedizione in abbonamento postale 70% DCB Perugia - supplemento al periodico www.arpa.umbria.it (Isc. Num. 362002 del registro dei periodici del Tribunale di Perugia in data 18/10/02). Autorizzazione al supplemento micron in data 31/10/03

gualdo tadino

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dell’ambiente

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terni

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INDICE

prevenzione

todi

orvieto

castiglione del lago

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ecologia, scienza, conoscenza

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C

micron

Fabio Mariottini

I signori della carne, quando gli allevamenti intensivi diventano globali Stefano Liberti

Le conseguenze dei cambiamenti climatici in Europa Inquinamento dell’aria e nascite premature

Redazione Francesco Aiello, Markos Charavgis

Fa bene camminare in un ambiente sano

Direzione e redazione Via Pievaiola San Sisto 06132 Perugia Tel. 075 515961 - Fax 075 51596399 www.rivistamicron.it twitter: @RivistaMicron Design / impaginazione Paolo Tramontana Fotografia Enrica Galmacci, Fabio Mariottini, ICP Milano Stampa Graphicmasters

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Antonio Pilello

Direttore responsabile Fabio Mariottini

Comitato scientifico Enrico Alleva, Marco Angelini, Fabrizio Bianchi, Gianluca Bocchi, Antonio Boggia, Marcello Buiatti, Mauro Ceruti, Liliana Cori, Franco Cotana, Maurizio Decastri, Gianluigi de Gennaro, Enzo Favoino, Pietro Greco, Luca Lombroso, Giovanni Gigliotti, Cristina Montesi, Enrico Rolle, Claudia Sorlini, Gianni Tamino, Luciano Valle

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Stefano Pisani

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Cristina Da Rold

Quando un sistema è veramente innovativo, creativo e smart?

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Intervista a Jean-Alain Hèraud Irene Sartoretti

Toh, l’imprevisto!

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Cristiana Pulcinelli

Donne di scienza

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L’esploratrice dell’invisibile

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Intervista a Fabiola Gianotti Giuseppe Nucera

Habitat a rischio: la prima Lista Rossa Europea

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Daniela Gigante

I funghi: un tesoro dell’isola Polvese

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Paola Angelini, Andrea Arcangeli, Giancarlo Bistocchi, Rosalba Padula, Roberto Venanzoni

stampato su carta Fedrigoni ARCOPRINT 1 g 100 con inchiostri K+E NOVAVIT 3000 EXTREME

GeoUmbriaSUIT: come valutare la sostenibilità del territorio

© Arpa Umbria 2017

Micron letture

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Andra Boggia, Roberta Caliò, Gianluca Massei, Luisa Paolotti, Cecilia Ricci, Lucia Rocchi, Paolo Stranieri

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micron / editoriale

A qualcuno piace caldo

Fabio Mariottini - India

Fabio Mariottini

Il 18 novembre dello scorso anno si chiudeva a Marrakech, in un clima di sostanziale preoccupazione, la ventiduesima Conferenza delle parti per il contrasto ai cambiamenti climatici. Il primo Vertice dopo lo storico accordo di Parigi che aveva visto tutti i Paesi del mondo impegnati nella lotta contro il riscaldamento della Terra dovuto alle emissioni di gas serra da parte dei combustibili fossili. Questo appuntamento doveva rivestire carattere pressoché notarile e definire gli impegni sottoscritti nel 2015, ma a scombinare la tabella di marcia ci hanno pensato gli USA dove, proprio in quei giorni, veniva eletto presidente Donald Trump. Scettico sui cambiamenti climatici, il miliardario statunitense ha come punto di riferimento scientifico le teorie del professor William Happer dell’Università di Princeton, uno dei pochi scienziati che considera gli allarmi per il riscaldamento della Terra esagerati ed è un convinto sostenitore dell’ipotesi che ridurre le emissioni di anidride carbonica sia dannoso per la vegetazione e, quindi, per l’intero ecosistema. Trump, che non ha mai nascosto la propria propensione verso l’uso dei combustibili fossili, a questo proposito ha voluto mettere subito le carte in tavola. A tre mesi dal suo insediamento, infatti, ha nominato come Segretario di Stato Rex Tillerson, ex amministratore delegato della Exxon Mobil, e come direttore dell’Epa (Environmental Protection Agency) Scott Pruitt che, da procuratore generale dell’Oklahoma si era distinto per le innumerevoli cause intentate contro le normative ambientali promosse da Obama. Ambedue noti esponenti ultraconservatori, convinti assertori che le emissioni di anidride carbonica non incidono sul riscaldamento del pianeta, dovuto invece alla ciclicità naturale dei cambiamenti climatici. In questo breve lasso di tempo Trump ha fatto in tempo a tagliare di un terzo i finanziamenti all’Epa e di un quinto le risorse destinate al National Institutes of Health, dimezzando inoltre gli stanziamenti per il settore della ricerca. Mentre stiamo chiudendo questo numero della rivista, inoltre, con decreto presidenziale è stato emanato l’Energy Independence Order che cancella tutti i tratti salienti della svolta verde di Barack Obama. Vengono tolte le restrizioni alle emissioni di CO2, si può trivellare ovunque, è stata cancellata la valutazione di impatto ambientale per le grandi opere infrastrutturali e si torna a spingere su carbone e shale gas, sistemi che le stesse logiche di mercato hanno ormai bollato come obsolete e poco remunerative. Questo attacco indiscriminato all’ambiente segna il ritorno, quanto mai anacronistico, degli Stati Uniti alla politica dei combustibili fossili, esponendo a seri rischi le conquiste finora raggiunte a livello globale sia sul piano della riduzione delle emissioni dei gas serra, sia per ciò che riguarda la “decarbonizzazione dell’economia”. Se Parigi vedeva coinvolti in maniera attiva anche i cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), questa inversione di tendenza paventata da Trump rischia invece di determinare un terremoto globale sia sul piano ambientale che su quello culturale. È la riproposizione in sedicesimo di un modello di sviluppo che in particolare negli ultimi anni ha mostrato tutte le sue carenze ambientali e strutturali. Ma il dato più inquietante è che il “nuovo” corso statunitense sta mettendo in discussione l’efficacia degli accordi internazionali da cui sono scaturite le aspettative di milioni di persone che vivono sulla loro pelle le conseguenze dell’inquinamento del pianeta e del mutamento climatico. Alla luce di queste valutazioni, forse merita fare qualche riflessione su come debba comportarsi la comunità internazionale. È ancora legittimo riporre così tante aspettative su accordi che possono essere disattesi con un semplice tratto di penna? E soprattutto, stando a quanto ci dicono gli scienziati dell’Ipcc, tra qualche anno saremo ancora in tempo a invertire la rotta? Questi sono gli interrogativi con i quali dovremo fare i conti alla luce del nuovo riassetto del quadro internazionale. Carbone, petrolio e trivelle sembrano usciti da un passato che pensavamo fosse ormai alle nostre spalle. Probabilmente, invece, occuperà una parte consistente della prossima agenda politica. Anche per noi forse è venuto il momento di un “ritorno al futuro” è ora di mantenere le promesse fatte, come quella di lasciare alle nuove generazioni un ambiente, se non migliore, per lo meno uguale a quello che abbiamo ereditato.

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micron / cibo

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I signori della carne, quando gli allevamenti intensivi diventano globali Stefano Liberti

Gli allevamenti intensivi – i capannoni dove gli animali sono rinchiusi, fatti ingrassare, trattati con antibiotici per evitare che si ammalino, infine inviati alla macellazione – sono qualcosa che nessuno vuole vedere. Paradossalmente, mentre cresce il consumo di carne a livello globale, aumenta la distanza fisica e anche cognitiva tra noi esseri umani e gli animali di cui ci nutriamo

quando Celia Steele, picE racolail 1923 imprenditrice agricola di Oce-

anview (Delaware), diede avvio per caso alla stagione degli allevamenti intensivi. La signora ricevette per errore 500 pulcini invece dei 50 che aveva ordinato. Non volendo disfarsene, pensò di chiuderli in un mini hangar, li nutrì con mais e integratori e gli animali resistettero all’inverno. Replicò l’operazione e diventò milionaria. Da allora, i polli sono allevati nei capannoni, nutriti con mangimi e raramente vedono la luce del sole. Il pollo ruspante è quasi scomparso dalle tavole e si è imposto a livello planetario il sapore di quello allevato in batteria, gonfiato con integratori e nutrito a soia e mais. Poco più di 50 anni dopo, un imprenditore agricolo del North Carolina, Wendell Murphy, pensò di applicare il metodo di Steele ai maiali. Ha convinto gli agricoltori del suo Stato, scottati dalla crisi del tabacco, a convertire le proprie terre ed edificarci sopra i capannoni dove ospitare i suini. All’inizio fornì loro gli animali e i capannoni: questi videro aumentare il proprio reddito e il North Carolina divenne la culla dell’allevamento intensivo di suini, che si è poi diffuso in maniera ancora più massiccia negli stati del Midwest, in particolare nell’Iowa. Oggi negli Stati Uniti ci sono 70 milioni di maiali chiusi nei capannoni. Solo nell’Iowa ce ne sono 20 milioni, sette ogni abitante. Rivelatosi vincente per polli e maiali, il meccanismo è stato poi esteso a mucche, conigli, tacchini. Così, l’allevamento intensivo è diventato dominante: oggi, in ogni momento nel mondo ci sono 25 miliardi di animali da allevamento (70 miliardi sono quelli uccisi ogni anno). Si parla spesso di sovrappopolazione e si insiste sul fatto che

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nel 2050, secondo previsioni della FAO, saremo sulla Terra 9 miliardi. Ma poco si dice della sovrappopolazione animale, che ha un potenziale devastante sulle risorse del pianeta, sull’utilizzo delle terre e dell’acqua, oltre a produrre quantitativi notevoli di gas a effetto serra. Oggi il modello degli allevamenti intensivi dagli Stati Uniti si è ormai diffuso in modo pervasivo in tutto il mondo, anche in paesi con popolazioni numericamente rilevanti che stanno modificando le proprie abitudini alimentari, con un massiccio aumento nell’uso di proteine animali. La Cina, in particolare, è passata da un consumo pro-capite di 4 kg di carne all’anno nel 1961 ai 59 kg di oggi, ben oltre la media mondiale di 42 kg. Se è ancora lontana dai 120 kg all’anno consumati dallo statunitense medio, tale quantitativo rappresenta per dimensioni una sfida notevole allo stesso futuro del pianeta. In Cina attualmente vivono 700 milioni di maiali, la metà della popolazione suina del mondo. La gran parte di questi sono cresciuti in allevamenti intensivi mutuati in tutto e per tutto dal modello statunitense: capannoni in cui vivono rinchiusi, imbottiti di antibiotici e di mangimi composti di soia e mais. Dopo alcuni scandali alimentari, il governo cinese ha sostenuto attivamente la formazione e lo sviluppo di alcune grandi ditte, che controllano tutta la filiera o buona parte di essa, dall’allevamento alla vendita della carne, passando per la macellazione della bestia. Una di queste è Shuanghui, la “più grande ditta trasformatrice di carne di suino” della Cina, come si legge sull’enorme scritta che campeggia in alto alla sua sede principale, a Luhoe, nella Cina centrale. Nel 2013, Shuanghui ha acquisito, per 7,4 miliardi

di dollari, l’americana Smithfield, principale produttrice di carne di maiale del Nord America, assumendo una posizione leader in tutto il mercato mondiale del suino. Questa concentrazione industriale, appoggiata dal governo cinese e coadiuvata da investimenti da parte del capitale speculativo, sta portando alla scomparsa dei piccoli produttori e a una standardizzazione delle pratiche di allevamento e delle razze. I suini che vengono fatti crescere in Cina sono in tutto e per tutto identici a quelli che si trovano in Nord America e in Europa occidentale, perché sono quelle razze che sono state adattate geneticamente alle condizioni di isolamento e concentramento. Così, le razze autoctone cinesi stanno scomparendo, a tutto scapito di queste razze straniere. Le conseguenze degli allevamenti intensivi su larga scala in un Paese popolato come la Cina sono incalcolabili, sia in termini di inquinamento che nel massiccio uso di antibiotici. Gli animali rinchiusi nei capannoni tendono ad ammalarsi facilmente. Soprattutto, ammalandosene uno, è facile che la sua patologia si trasmetta a tutti gli altri. Così agli animali viene somministrata in modo preventivo

Il sistema degli allevamenti intensivi somiglia a una serie di grandi isole in mezzo a un oceano di soia e mais una cura di antibiotici insieme al mangime. Il 70% degli antibiotici prodotti dalle industrie farmaceutiche nel mondo non sono impiegati per la cura delle malattie che colpiscono l’uomo, ma nella zootecnia. C’è poi un altro aspetto che ha effetti devastanti sull’ambiente a livello planetario: questo sistema produce spostamenti enormi di derrate alimentari per assicurare il nutrimento delle bestie chiuse nei capannoni. La nascita dell’allevamento intensivo negli Stati Uniti rispondeva a una logica di natura economica: nel territorio erano e sono presenti ingenti quantità di mais e soia, riutilizzati per i mangimi degli animali. Una volta che il sistema si è globalizzato ed è stato esportato in Paesi densamente popolati come la Cina − e con scarsa disponibilità di terre − si sono dovute cercare altre soluzioni. Incapace di produrre in loco la soia necessaria per i mangimi, Pechino importa ogni anno circa 80 milioni di tonnellate di questo legume, che vengono coltivate dall’altra parte del mondo,

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principalmente nel Cono Sud dell’America Latina, tra il Brasile e l’Argentina, e negli Stati Uniti. Come ha scritto efficacemente Tony Weis, professore all’Università di Western Ontario, il «sistema degli allevamenti intensivi somiglia a una serie di isole in mezzo a un oceano di soia e mais. Con la sua globalizzazione, le isole e gli oceani sono completamente disaggregati, sparsi da una parte all’altra del mondo». Così milioni di ettari di terra arabile sono utilizzati in Sud America per produrre soia e mais che saranno poi esportati dall’altra parte del mondo e dati in pasto ad animali chiusi in capannoni industriali che non vedranno mai la luce del sole. Animali che sono ormai diventati puri automi, fornitori di materia prima, uguali in tutto il mondo. Nel Mato Grosso, grande laboratorio agro-industriale, si producono milioni di tonnellate di soia su una gigantesca superficie a monocoltura che si estende per nove milioni ettari. La soia viene esportata in tutto il mondo ed è utilizzata per lo più come componente dei mangimi per gli animali d’allevamento. Negli ultimi anni, la crescita delle importazioni di questo legume da parte di Pechino è stata esponenziale: dal 2005 i numeri sono triplicati. Oggi la Cina assorbe il 60% del commercio mondiale di questo prodotto. Questo ha spinto sempre più verso nord i limiti della cosiddetta frontiera agricola brasiliana. Ormai le produzioni di soia si sono spinte fino all’interno della foresta amazzonica, minacciando il più grande laboratorio di biodiversità del mondo intero. Nonostante la moratoria sulla soia firmata nel 2006, che vieta di commercializzare soia su terreni disboscati ad hoc, aumentano gli scambi e crescono gli interessi delle grandi aziende che commercializzano la soia nella regione. Grandi gruppi stanno costruendo porti privati sul Rio della Amazzoni, dove caricare direttamente la soia sulle navi cargo. Ha cominciato la Cargill, principale ditta che commercia questo legume nel mondo, costruendo una struttura a Santarem. La via della soia si sta spostando verso Nord, per motivi di comodità geografica e di abbattimento di costi. Questo modello, forte-

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mente basato sulla chimica, sta trasformando ecosistemi importanti in agro-sistemi funzionali alla produzione: le campagne si spopolano e diventano sempre più fabbriche di alimenti o di derivati per le popolazioni urbane. Il modello brasiliano è un caso di scuola: fino all’inizio degli anni ’80, l’ambiente era caratterizzato dal cosiddetto cerrado, una sorta di savana tropicale ricca di biodiversità. Nel giro di pochi anni, tutto il Mato Grosso (che per inciso vuol dire “foresta spessa” in portoghese) è stato disboscato per fare spazio alle coltivazioni di soia. Un modello agro-industriale che si sta provando a esportare anche altrove, in particolare nell’Africa sub-sahariana. Il mega-progetto Pro Savana, lanciato in Mozambico nel cosiddetto corridoio di Nacala, si propone di sfruttare un’area di sei milioni di ettari per produrre coltura per l’esportazione, soprattutto soia. La vicinanza geografica della Cina rende il progetto particolarmente appetibile. Per il momento, l’opposizione dei contadini locali e un movimento massiccio della società civile mozambicana e non solo ha bloccato il progetto. Ma il governo di Maputo è risoluto ad andare avanti e a creare questo nuovo Mato Grosso in terra africana. Il complesso allevamenti intensivi-soia, sempre più controllato da poche grande aziende, ha un bilancio energetico estremamente negativo: per produrre la stessa quantità di proteine, la carne di maiale consuma nove volte più terreno di quanto faccia la soia per il consumo diretto umano. Questo vuol dire che se si limitasse l’incidenza degli allevamenti intensivi, si libererebbero milioni di ettari da destinare alla produzione di alimenti per il consumo diretto. Oggi, sempre secondo stime di Tony Weis, un terzo delle terre arabili è destinato alla zootecnia. Con l’arrivo sulla scena in modo aggressivo di un attore numericamente rilevante come la Cina, questo sistema è semplicemente insostenibile. Se il ritmo di crescita di consumo di carne dei Paesi più recentemente sviluppati, come appunto il gigante asiatico, dovesse mantenersi quello di adesso, si è calcolato che nel 2050 ci saranno ogni anno sul pianeta 120 miliardi di animali d’allevamento. Il che vuol dire

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che sarà necessario un apporto doppio di terra rispetto all’attuale per sostentarli. I due terzi delle terre arabili del pianeta dovranno essere destinati alla zootecnia. Last but not least, gli animali chiusi nei capannoni inquinano. I loro resti devono essere

Nel 2050, ci saranno, ogni anno 120 mld di animali d’allevamento, il che richiederà il doppio del suolo rispetto ad oggi smaltiti: negli Stati Uniti gli allevamenti intensivi generano una quantità di liquami 13 volte superiore rispetto a quelli della popolazione residente. In alcuni Stati produttori, come ad esempio il North Carolina, le deiezioni dei suini sono raccolte in laghi di smaltimento a cielo aperto che vengono svuotati mediante spruzzamento sui campi circostanti. «Solo in questo stato, è come se l’intera popolazione della California urinasse e defecasse ogni giorno in un lago», riassume efficacemente Rick Dove, attivista dei waterkeepers di Bern, North Carolina, che denunciano l’inquinamento degli allevamenti intensivi. Da noi, ci sono legislazioni ambientali più stringenti, ma il dato di fondo non cambia: per nutrire gli 8 milioni di suini presenti in Italia, i 500 milioni di polli da carne, i 50 milioni di galline ovaiole e i sei milioni di bovini (mucche, bufali e vitelli) importiamo tonnellate di mais e soia. La pianura Padana, dove sono concentrati gli allevamenti intensivi, è pesantemente inquinata. Oltre alle considerazioni etiche che tutti noi dovremmo tenere in conto rispetto al modo in cui questi esseri senzienti sono allevati, trasformati in meri fornitori di materia prima e di fatto sottoposti a una permanente tortura, è urgente una considerazione sulla sostenibilità di tale modello. E sempre più prioritario, in un pianeta che si avvia ad avere una popolazione di 9 miliardi nel giro di poco più di 30 anni, trovare valide alternative al sistema inventato per caso dalla signora Steele in Delaware meno di cent’anni fa, che con le risorse attuali e le proiezioni di popolazione nei prossimi anni semplicemente non ha futuro.


micron / cambiamenti climatici

micron / cambiamenti climatici

Le conseguenze dei cambiamenti climatici in Europa Antonio Pilello

I cambiamenti climatici stanno provocando disastri in tutta Europa. Dall’aumento degli eventi alluvionali, allo scioglimento dei ghiacciai, passando per la perdita di biodiversità l’aumento della morbilità e della mortalità. Studi recenti, inoltre, indicano che i costi economici dei mutamenti climatici saranno elevati e i picchi maggiori si registreranno nel sud dell’Europa

dei cambiamenti climatici, le A causa regioni europee sono costrette ad

affrontare eventi meteorologici sempre più estremi, come per esempio ondate di calore, inondazioni, siccità e tempeste, che si verificano con crescente frequenza e intensità. Un report dell’Agenzia europea dell’ambiente, Climate change, impacts and vulnerability in Europe 2016, valuta gli effetti in tutta Europa, evidenziando la necessità di strategie, politiche e misure di adattamento migliori e più flessibili. In totale, dal 1980 al 2013, il cambiamento climatico ha provocato nell’Unione europea perdite economiche superiori a 400 miliardi di euro. Come riferito nel Quinto Rapporto di Valutazione dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), ci sono già numerosi impatti negativi sulla nostra salute, sugli ecosistemi e sull’economia, che rischiano di diventare ancora più gravi nei prossimi decenni. I fenomeni osservati sono una minaccia per la biodiversità, ma influenzano anche la silvicoltura, la pesca, l’agricoltura e la salute umana. In risposta ai cambiamenti climatici molte specie animali e vegetali stanno modificando i loro cicli di vita, migrando verso nord o ad altitudini più elevate. Con l’innalzamento del livello del mare aumentano i rischi di alluvioni e l’erosione lungo le coste europee. Le ondate di calore hanno avuto effetti significativi sulla salute umana, e in città hanno comportato un elevato rischio di blackout. Anche i trasporti e il turismo sono stati influenzati, seppure con grandi differenze regionali. Esempi dei pochi impatti positivi consistono in una diminuzione della domanda di riscaldamento da parte della popolazione e in alcuni benefici per l’agricoltura dell’Europa settentrio-

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nale. Il cambiamento climatico riguarda tutte le regioni d’Europa, ma gli effetti non sono uniformi. Le più colpite nei prossimi anni saranno quelle meridionali e sud-orientali. Tuttavia, lo stesso si può dire per le zone costiere e per le pianure alluvionali occidentali. Anche gli ecosistemi delle Alpi e della penisola iberica saranno soggetti a mutamenti. Lo stesso accadrà in Artico a causa del veloce aumento delle temperature dell’aria e del mare, con il conseguente scioglimento dei ghiacci. I danni saranno maggiori in Europa meridionale. In generale, a essere colpiti saranno il commercio di materie prime, comprese quelle agricole, le infrastrutture e i trasporti, la mobilità delle persone e diversi settori della finanza, con possibili ripercussioni geopolitiche e rischi per la sicurezza. L’attuale concentrazione media di CO2 nell’atmosfera è pari a circa 400 parti per milione, ovvero il 40% in più rispetto ai livelli pre-industriali. Dal 2003 in poi l’Europa ha sperimentato diverse ondate di calore estremo in estate (nel 2003, 2006, 2007, 2010, 2014 e 2015), che molto probabilmente si ripeteranno in futuro. Gli impatti saranno particolarmente gravi soprattutto in Europa meridionale. La temperatura media continentale annuale per il decennio 2006-2015 è stata circa 1,5 °C al di sopra di quella del livello pre-industriale. Il mare sta già subendo un processo di acidificazione e le variazioni termiche causano cambiamenti significativi nella distribuzione delle specie marine verso i poli, ma anche rispetto alla profondità. L’incremento delle specie invasive e la loro sopravvivenza è correlata con la tendenza al riscaldamento. Gli eventi alluvionali sono aumentati dal 1980 in poi, anche se con una grande

variabilità annuale. Tuttavia, in parallelo, anche la gravità e la frequenza delle siccità sembrano essersi intensificate, in particolare nelle regioni sud-orientali. In futuro dovrebbero aumentare in frequenza, durata e gravità in gran parte del continente, soprattutto al sud. Il cambiamento climatico ha anche innalzato la temperatura di fiumi e laghi, oltre a ridurre la copertura di ghiaccio stagionale. In Europa, il 14% degli habitat e il 13% delle specie sono da considerarsi già sotto pressione a causa del cambiamento climatico. Il numero degli ambienti minacciati è destinato a raddoppiare nel prossimo futuro. In generale, è previsto un calo delle foreste in Europa meridionale, che però aumenteranno al nord, seppure con notevoli variazioni regionali. Per quanto riguarda le conseguenze sociali, che purtroppo saranno ingenti, bisogna osservare che i cambiamenti climatici stanno già contribuendo in maniera determinante al peso delle malattie e delle morti premature in Europa. Le ondate di calore sono state il più letale evento atmosferico estremo nel periodo 1991-2015, causando decine di migliaia di morti. Gli straripamenti dei fiumi e le inondazioni costiere hanno colpito molti milioni di persone a partire dal 2000. Questi eventi hanno conseguenze molto serie sulla salute umana a causa di annegamenti, attacchi cardiaci, lesioni, infezioni, esposizione ai rischi chimici e stress. Inoltre, non vanno dimenticate le possibili interruzioni dei servizi, compresi quelli igienico-sanitari, come per esempio

Negli ultimi 15 anni l’Europa ha subìto diverse ondate di calore durante l’estate, destinate ad aumentare in futuro l’erogazione dell’acqua potabile anche per lunghi periodi. Le ondate di calore o di freddo estremo sono associate a un aumento di mortalità e morbilità, soprattutto nei gruppi più vulnerabili della popolazione. I cicli di trasmissione delle malattie sono influenzati dal clima, anche se i rischi dipendono da altri fattori quali il consumo di suolo, il comportamento umano, i movimenti della popolazione e l’efficienza della sanità pubblica. Per esempio, il cambiamento climatico è considerato il principale fattore alla base delle migrazioni verso nord o verso l’alto delle zecche Ixodes ricinus, che causano la malattia di Lyme e la meningoen-

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micron / cambiamenti climatici

cefalite. In generale si sospetta che il cambiamento climatico abbia giocato e continuerà a svolgere un ruolo nell’espansione di altri vettori, in particolare la zanzara tigre, che può diffondere diverse malattie, tra cui dengue, chikungunya e Zika, e il pappataci, un insetto simile a una zanzara di piccole dimensioni, noto per la trasmissione della leishmaniosi. Il cambiamento climatico ha influenzato e condizionerà anche in futuro la domanda di riscaldamento ed

Studi e ricerche recenti indicano che i costi economici del cambiamento climatico saranno elevati energia, seppur con notevoli variazioni stagionali e regionali. Negli ultimi decenni questa è diminuita, soprattutto nell’Europa nord-occidentale, mentre quella per il raffreddamento è aumentata, in particolare al centro-sud. Inoltre, le infrastrutture per il trasporto dell’energia sono esposte a rischi sostanziali causati dalle variazioni climatiche estreme. Da que-

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sto punto di vista, i Paesi nord-occidentali sembrano essere abbastanza avanti nella preparazione e nella salvaguardia delle loro reti di approvvigionamento. Le zone costiere e le regioni soggette a pioggia o neve intense saranno tra le più vulnerabili. Le proiezioni disponibili suggeriscono che anche il trasporto ferroviario dovrà affrontare numerosi problemi derivanti da eventi meteorologici estremi. Si prevede che i cambiamenti climatici condizioneranno i flussi turistici e potranno avere notevoli conseguenze per le regioni che traggono beneficio da questo settore economico. L’adattabilità climatica del sud Europa per il turismo diminuirà marcatamente durante i mesi estivi, ma migliorerà nelle altre stagioni. Le riduzioni del manto nevoso influenzeranno negativamente l’industria degli sport invernali in molte regioni. Studi recenti indicano che i costi economici del cambiamento climatico saranno elevati. Per esempio, i danni totali annuali in Europa ammonteranno a circa 190 miliardi di euro, con una perdita di benessere netta stimata pari all’1,8% del Pil corrente, nello scenario di riferimento SRES 1AB, che prevede un bilanciamento di tutte le fonti di energia, per la fine

micron / cambiamenti climatici

del 21° secolo. I costi e i danni saranno distribuiti in modo molto eterogeneo in Europa, con picchi negativi soprattutto al sud. In generale subiranno alcune conseguenze anche le reti di trasporto e i porti. L’ambiente artico subirà importanti variazioni che interesseranno gli ecosistemi e le attività umane. La regione del Mar Baltico, in particolare la parte più meridionale, sperimenterà un aumento del rischio di onde anomale a causa dell’innalzamento del livello del mare e spostamenti della fauna come risultato di acque più calde. Tutte le regioni di montagna dovrebbero essere influenzate negativamente in relazione alle loro risorse idriche e agli ecosistemi nei prossimi decenni. I cambiamenti nella portata dei fiumi incideranno sempre di più sulla capacità di produzione di energia idroelettrica nelle regioni di montagna. La zona mediterranea sarà colpita in diversi settori, in particolare quelli riguardanti le risorse idriche, l’agricoltura, le foreste, la biodiversità, il turismo e l’energia. Le regioni più periferiche dell’Unione europea e i territori d’oltremare, caratterizzati da una biodiversità molto ricca, saranno vulnerabili soprattutto a causa dell’innalzamento del livello del mare e

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di eventi climatici estremi.Infine, la resilienza al clima delle città europee, che ospitano quasi i tre quarti della popolazione, sarà determinante per il loro funzionamento così come per la crescita, la produttività e la prosperità del Vecchio Continente. Il fenomeno delle isole di calore urbane è sempre più tipico nell’Europa centrale e nord-occidentale. Quasi il 20% delle 411 città che sono state considerate nel report hanno continuato a costruire in aree potenzialmente soggette a straripamenti di fiumi durante il periodo 2006-2009, aumentando così il rischio di inondazioni. L’espansione urbana ha portato a una compenetrazione crescente tra le zone selvatiche e le aree urbane, aumentando il rischio di incendi boschivi in molte aree residenziali negli ultimi decenni, in particolare in Portogallo, Grecia, Francia meridionale e Italia. In ogni caso, le città europee sono da considerarsi meno vulnerabili ai cambiamenti climatici rispetto a quelle situate in altre regioni del mondo grazie a una capacità di risposta alle crisi relativamente alta. Tuttavia, sarà necessario un ulteriore impegno da parte di tutti, con un elevato livello di preparazione nella prevenzione e gestione del rischio.


micron / ambiente e salute

Inquinamento dell’aria e nascite premature Stefano Pisani

Frenare l’inquinamento dell’aria potrebbe aiutare a prevenire 2,7 milioni di nascite premature l’anno, una condizione che minaccia la vita dei bambini e aumenta il rischio di problemi fisici e neurologici a lungo termine. Il record negativo appartiene all’Asia. L’India, da sola, ha fatto registrare un milione di nascite premature collegate

Fabio Mariottini - Marocco

al PM2,5

di una donna incinta L’ esposizione all’inquinamento atmosferico po-

trebbe avere significativi effetti collaterali sul feto: secondo un nuovo studio internazionale, l’esposizione prolungata al particolato PM2,5 potrebbe essere legata a circa una nascita prematura su cinque nel mondo. Lo studio, pubblicato sulla rivista Environment International, presenta la prima stima globale delle nascite premature associate all’inquinamento causate dal particolato fine. Nello specifico, dal particolato PM2,5. Le particelle di PM2,5 includono una varietà di sostanze tra cui il nerofumo (fuliggine), solfati, nitrati e ammonio, oppure la polvere del suolo e quella derivante dai processi industriali come quelli implicati nella produzione di cemento. Si tratta di un particolato emesso sia da fonti artificiali come i motori diesel, gli impianti industriali, l’incendio dei rifiuti residui in agricoltura e le sostanze infiammabili usate per cucinare in particolare in Asia, sia da sorgenti naturali come le reazioni chimiche che si verificano spontaneamente nell’atmosfera. Il PM2,5 corrisponde alla maggior parte (circa il 75%) del più famoso particolato PM10: viste le sue dimensioni molto ridotte, non solo rimane in sospensione nell’aria per più tempo (riducendo la visibilità) ma può penetrare molto a fondo nel tratto respiratorio e diversi studi hanno dimostrato che il particolato con un diametro più piccolo di 10 micrometri ha un impatto maggiore sulla salute umana. La peculiarità delle caratteristiche del PM2,5 è confermata anche dalla direttiva europea sul PM2,5 in cui si legge che “la disciplina prevista per questo inquinante dovrebbe essere differente da quella di altri inquinanti atmosferici” e che “tale approc-

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cio dovrebbe mirare ad una riduzione generale delle concentrazioni nei siti di fondo urbani per garantire che ampie fasce della popolazione beneficino di una migliore qualità dell’aria”. Nel 2010 si stima che siano nati prematuri circa 14,9 milioni di bambini, il 4-5% dei quali nei Paesi europei e circa il 15-18% in Africa e nel Sud-Est asiatico, con costi in termini umani ed economici molto grandi. Tra i fattori che incrementano la probabilità di nascita prematura ci sono anche la povertà, le inadeguate cure prenatali e l’età della madre. Lo studio del gruppo di scienziati dell’Istituto Ambientale di Stoccolma e dell’Università di York non solo indaga il legame tra nascite pretermine e esposizione al PM2,5 ma analizza anche l’impatto di differenti livelli di questi inquinanti “esterni” sulla salute dei neonati. I ricercatori hanno combinato la concentrazione media annua ambientale di PM2,5, il tasso di natalità della popolazione ponderata pretermine e il numero di bambini nati vivi e sono arrivati a determinare il numero di nascite pretermine associabili al particolato PM2.5 nel 2010 relativamente a 183 Paesi. Gli autori hanno concluso che il PM2,5 è un “potenzialmente sostanziale fattore di rischio globale” per la salute dei bambini che nascono prima di 37 settimane di gestazione (il termine temporale a cui si fa riferimento quando si parla di nascite premature), un punto della gravidanza in cui è più elevato il rischio di mortalità infantile e di problemi neurologici e fisici del neonato. Il team ha poi calcolato che, nel 2010, l’esposizione al PM2,5 è stata fortemente associata a circa il 18% delle nascite premature, a livello globale: una cifra che corrisponde a un numero compreso tra


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2,7 e 3,4 milioni di bambini nati prima del termine. «Lo studio ha sottolineato che l’inquinamento dell’aria potrebbe contribuire agli effetti sulla salute, sia in termini di mortalità infantile che in termine di malattie dei sopravvissuti» ha spiegato Christopher Malley, primo firmatario della ricerca. La maggior parte di queste nascite anticipate si sono verificate nel sud-est asiatico, nel Medio Oriente, in nord Africa e nella parte occidentale dell’Africa sub-sahariana. Il record negativo appartiene al sud-est asiatico, nel quale il 75% delle nascite premature è stato legato al particolato PM2,5 (per un totale di circa 1,6 milioni di bambini nati prima del termine). L’India, da sola, ha fatto registrare un milione di nascite premature collegate al PM2,5 e la Cina 500 mila. In totale, complessivamente, la parte orientale dell’Asia ha fatto registrare circa 473 mila casi di bambini con nascita prematura legata al PM2,5. Le donne incinte sono risultate pesantemente esposte anche all’inquinamento all’interno,

necessario controllare molte fonti di emissione diverse; in molti paesi in via di sviluppo, tuttavia, alcune fonti risultano dominanti», ha commentato Johan C.I. Kuylenstierna, tra gli autori della ricerca «in una città, per esempio, forse solo la metà dell’inquinamento proviene da fonti all’interno della città stessa, il resto sarà trasportato lì dal vento che soffia da altre regioni o addirittura da altre nazioni. Questo significa che spesso può essere necessaria la cooperazione regionale per risolvere il problema». Lo studio prende spunto da precedenti ricerche che mostrano i danni significativi che l’inquinamento dell’aria provoca a tutte le età. L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che nel 2012 si sono verificate 7 milioni di morti premature collegate all’inquinamento atmosferico mentre un recente studio, lo State of Global Air Report 2017, ha presentato dati secondo cui il numero di morti nel mondo attribuibili al PM2,5 è salito da 3,5 milioni nel 1990 a 4,2 milioni nel 2015. Oltre metà di queste morti

Lo State of Global Air Report 2017 riporta che il numero di morti attribuibili al PM2,5 è salito da 3,5 mln nel 1990 a 4,2 mln nel 2015

Secondo uno studio, la lunghezza della vita cresce con la diminuzione della concentrazione di PM2,5 nell’aria

a causa del legno e di altre biomasse che bruciano mentre cucinano. Il particolato fine la cui origine si rinviene nelle fonti naturali come tempeste di sabbia, è invece tra i principali fattori responsabili delle nascite pretermine in Medio Oriente, nord Africa e Africa sub-sahariana occidentale. L’esposizione materna è più acuta nei Paesi in via di sviluppo, ma nonostante questo il PM2,5 contribuisce ad aumentare il numero di nascite premature anche nei Paesi più sviluppati: ad esempio, nel 2010 negli Stati Uniti si sono contate circa 50 mila nascite pretermine legate al PM2,5. L’esposizione di una donna incinta a questi inquinanti atmosferici può variare notevolmente a seconda del luogo in cui vive: in una città in Cina o in India, ad esempio, una donna incinta potrebbe inalare più di 10 volte tanto particolato PM2,5, rispetto a una che vive in una città dell’Inghilterra rurale o della Francia. Lo studio non ha quantificato il rischio in luoghi specifici ma ha piuttosto utilizzato il livello medio del PM2,5 ambientale di ogni Paese e ha analizzato i risultati per regione. «Per ridurre il problema del PM2,5, è

si sono verificate in India e Cina (considerate insieme). Se è vero che la Cina resta in testa alla ingrata classifica delle morti legate all’inquinamento dell’aria, il problema del Paese sembra essersi però stabilizzato da quando, all’inizio del decennio, questo ha iniziato a emanare regolamenti governativi stringenti anti-inquinamento. L’India, invece, nel frattempo sembra aver fatto poco per fermare l’allarmante crescita del numero di morti legate al PM2,5 che, quindi, in questo Paese resta saldamente un killer, insieme all’Ozono, che ha ucciso il 67% di indiani in più, tra il 1990 e il 2015. Questo aggravamento dell’inquinamento da particolato può essere attribuito alla rapida industrializzazione del Paese e alla sua forte dipendenza dal carbone come fonte energetica. L’aria delle città indiane è riempita da un mix micidiale di polveri, fumi di scarico, di camini e provenienti da colture bruciate e emissioni di fabbriche. Anche i fuochi prodotti durante la festa Diwali, una delle più importanti feste indiane, contribuiscono notevolmente a elevare i livelli di PM2,5.

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Fa bene camminare in un ambiente sano Cristina Da Rold

Sempre dati dell’OMS attestano l’esistenza di un legame ancora più forte tra esposizione ad aria inquinata (all’interno e all’esterno) e malattie cardiache, ictus, cancro e malattie respiratorie. In particolare, recenti studi hanno mostrato che il PM2,5 innesca l’infiammazione sistemica, altera i ritmi cardiaci, peggiora l’asma, la bronchite cronica e altre malattie respiratorie (non escluso il cancro del polmone). Il PM2,5, date le sue piccole dimensioni, può penetrare infatti in profondità nei polmoni, irritare e corrodere il muro alveolare e compromettere di conseguenza la funzione polmonare: sebbene le particelle di PM2,5 abbiano diametri ridotti, hanno però grandi superfici e possono essere in grado di trasportare varie materie tossiche, superando il filtro dei peli del naso, raggiungendo le estremità del tratto respiratorio con il flusso d’aria e accumulandosi per diffusione, in modo da danneggiare altre parti del corpo attraverso lo scambio di aria nei polmoni. Recenti studi hanno dimostrato che per ogni aumento di concentrazione quotidiana di PM2.5 di 10 μg/m3, le malattie respiratorie aumentano del 2% e le ospedalizzazioni crescono dell’8%. Secondo uno studio dell’Università di Harvard a Boston, infine, condotto per sette anni, dal 2000 al 2007, la lunghezza della vita cresce con la diminuzione della concentrazione di PM2,5 nell’aria. In particolare, per ogni riduzione di 10 μg/m3 la della concentrazione, si registra un allungamento della vita media di circa 0,35 anni. Gli ultimi dati disponibili sulla concentrazione del PM2,5 in Italia si riferiscono al 2015. Gli esperti si aspettavano un dato abbastanza positivo, considerando che l’anno precedente la quasi totalità (96%) delle quasi 200 stazioni di monitoraggio del PM2,5, rispettavano il Valore Obiettivo annuale pari a 25 μg/m3 (la concentrazione di 25µg/m3, è stata considerata un Valore Obiettivo fino al 2015; da quell’anno, questa soglia rappresenta a tutti gli effetti un Valore Limite). Nel 2015 invece, in analogia con quanto accaduto per il PM10, le concentrazioni di PM2,5 sono aumentate, facendo scendere al 43% le stazioni al di sotto del Valore Limite annuale di 25 μg/m3. Il motivo è da ricercarsi con ogni probabilità nelle condizioni meteorologiche poco favorevoli alla dispersione delle polveri. L’aggiornamento dell’indicatore con i dati relativi al 2016 è previsto per luglio 2017.

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Sentiamo spesso parlare di mobilità sostenibile, Ma ci guadagnamo davvero in salute? Secondo la prestigiosa rivista britannica The Lancet il cosiddetto “trasporto attivo”, cioè l’andare a piedi o in bicicletta porta più benefici come anni di vita guadagnati rispetto al muoversi in auto o con i mezzi pubblici, fatto salvo in zone estremamente inquinate. È quindi di fondamentale importanza dove si cammina

di noi almeno una volta avrà O gnuno pensato di iniziare ad andare al lavo-

ro a piedi o in bicicletta per guadagnare in termini di salute, e alcuni magari sono anche riusciti a cambiare abitudini.Recentemente, anche le città si stanno attrezzando, incentivando anche economicamente chi sceglie la bici e lascia a casa l’auto, come è successo per esempio a Milano e a Torino. Parola d’ordine: mobilità sostenibile. Ma ci guadagniamo davvero in salute, e in che termini? È cosa nota infatti, che mezz’ora di camminata al giorno, anche una semplice passeggiata, ci può regalare fino a tre anni di vita in più. Un guadagno non solo in termini di perdita di peso corporeo – anche se l’obesità è un accertato fattore di rischio per le malattie cardiache, respiratorie e per i tumori – ma di qualità della vita, dal punto di vista relazionale e sociale, come ampiamente dimostrato in letteratura. Camminare tuttavia non basta, bisogna camminare in luoghi salubri, dove il rischio di inalazioni dannose per l’organismo, come per esempio l’inquinamento atmosferico da smog, non vada ad azzerare gli effetti positivi dell’attività fisica. O addirittura, a peggiorare le condizioni di salute di chi va a piedi o in bicicletta rispetto a chi prende l’auto. Sempre secondo i dati pubblicati dall’OMS qualche mese fa, solo meno di un individuo su dieci al mondo respira un’aria che rispetta le più recenti linee guida in materia di inquinamento da PM10 e PM2,5, e sarebbero oltre 3 milioni le morti (dato 2012) dovute a malattie croniche riconducibili all’inquinamento ambientale, aria compresa. Il tema è controverso perché si fonda su una dinamica paradossale: scelgo di andare a piedi o in bicicletta, guadagnan-

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doci in termini di anni di vita grazie all’attività fisica, ma con il rischio di perdere anni di vita per colpa dell’aria che respiro, oppure scelgo di recarmi al lavoro in auto, magari optando per un’automobile dotata di filtri per l’abitacolo, abbandonandomi però a uno stile di vita più sedentario? La questione – appunto – non è semplice da dirimere, ed è stata affrontata di recente all’interno di una revisione sistematica pubblicata su The Lancet, dove per la prima volta si è cercato di chiarire gli effetti sulla salute in termini di anni di vita persi, analizzando separatamente ogni mezzo di trasporto, paragonandone i risultati e prendendo in considerazione le emissioni di monossido di carbonio, black carbon, PM10 e PM2,5. Quello che è emerso dalla revisione e dal confronto di 39 articoli scientifici sull’argomento, 21 dei quali riguardanti città europee, in due casi italiane, estrapolati scandagliando 10 database, è che il cosiddetto “trasporto attivo” cioè l’andare a piedi o in bicicletta porta più benefici come anni di vita guadagnati rispetto al muoversi in auto o con i mezzi pubblici, fatto salvo in zone estremamente inquinate. Dove si cammina è quindi di fondamentale importanza. L’esposizione a fattori inquinanti – precisano gli esperti – si riduce per esempio scegliendo delle strade, ove possibile, con basse emissioni e alta dispersione degli inquinanti, come i parchi. Se ci limitiamo a esaminare i livelli di inquinanti inalati, per ovvie ragioni chi cammina o usa la bicicletta inala in media più inquinanti rispetto a chi usa un mezzo motorizzato. Tuttavia, i pendolari che usano sempre i mezzi motorizzati hanno mostrato di perdere più anni di vita rispetto a chi va a piedi o in biciclet-


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ta, proprio in ragione della minore attività fisica, anche se questi ultimi inalano più sostanze inquinanti. Va detto tuttavia che non tutti i mezzi motorizzati sono uguali: va decisamente meglio a chi sceglie i mezzi pubblici rispetto a un mezzo proprio, per il fatto di essere comunque costretti a compiere piccoli spostamenti a piedi per raggiungere la fermata del mezzo, oltre al fatto che spesso ci si muove fra tunnel sotterranei, separati dal traffico stradale. I cinque grafici della figura 1, illustrano bene questi risultati. Posto 1 il livello di esposizione di un ciclista, nel caso per esempio del monossido di carbonio (grafico B), i livelli di esposizione di chi viaggia in auto sono molto maggiori rispetto a chi viaggi normalmente in bus, e ancora maggiori di chi viaggia a piedi o con la metropolitana. Questi ultimi sono anche meno esposti a monosssido di carbonio rispetto a chi viaggia in bicicletta. Sempre mantenendoci sullo stesso grafico, ma osservando i livelli di inalazione, ci accorgiamo che chi viaggia in auto o con la metro inala molto meno rispetto a chi viaggia in bici o a piedi, ma anche di meno di chi viaggia con il bus (figura 1). Consideriamo ora il grafico sugli anni di vita persi, che rappresenta quanti anni di vita vengono persi per tipo di trasporto motorizzato, rispetto a una persona che va a piedi, per classe di età. È evidente che gli under-40 che si recano al lavoro con un mezzo motorizzato perdono dai 4 ai 5 anni di vita rispetto a chi va a piedi, e ne “guadagnano” a malape-

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Figura 1

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rata. Successivamente, moltiplicando l’esposizione media per il volume d’aria inalato in media da una persona al minuto a seconda del mezzo di trasporto utilizzato (dato della US Environmental Protection Agency), per il tempo normalmente impiegato per recarsi per esempio al lavoro o a scuola. Infine, dopo aver fatto questo i ricercatori sono passati a stimare la perdita di anni di vita in base alle quantità di inquinanti inalati e a seconda che la persona scegliesse di andare a piedi, in bici, in auto o di usare i mezzi pubblici per percorrere ogni giorno un percorso totale di circa 14 chilometri (figura 2). Il primo dato ce lo fornisce di nuovo l’OMS, nel rapporto Ambient air pollution: A global assessment of exposure and burden of disease, uscito nel 2016: solo l’Europa e il Nord America hanno visto scendere le emissioni di PM10 e PM2,5 nell’ultimo periodo esaminato, cioè nell’arco di tempo che va dal 2008 al 2013. A livello mondiale, circa un terzo della popolazione esaminata dall’OMS respira aria più inquinata rispetto al 2008, un terzo vive in aree che non hanno assistito a variazioni, e un terzo in città che sono riuscite ad abbassarne i livelli. In Europa, per esempio, e in particolare fra i cosiddetti high income countries, cioè i Paesi più ricchi fra cui compare l’Italia, la metà della popolazione ha visto scendere i livelli di emissioni dal 2008 al 2013, un altro 30% li vede stabili e solo il 10% di loro respira aria più inquinata rispetto a 5 anni prima. In Asia, in particolare nel Sudest

< Figura 2

L’Italia mostra i tassi di anni di vita persi a causa di PM2,5, diossido di azoto e ozono fra i più alti d’Europa

Tra i Paesi più industrializzati le emissioni di polveri sottili sono calate negli anni tra il 2008 e il 2013

na 1, fino a un massimo di 2 anni, se si considera la minore esposizione diretta ai fattori inquinanti. Una distinzione importante qui è quella fra esposizione alle sostanze inquinanti e la loro inalazione effettiva. I ricercatori hanno estratto dai 39 articoli i dati riguardanti l’esposizione per agente inquinante e per mezzo di trasporto, a seconda della stagione, del giorno, della tipologia di strada e della città conside-

Asiatico, la situazione è completamente capovolta: solo il 5% degli abitanti vivono in aree che hanno ridotto le proprie emissioni. L’Europa, anche se ha visto migliorare i livelli di emissioni negli ultimi anni, se la cava comunque male, e la Pianura Padana si conferma anche questa volta una delle aree più inquinate. Il risultato sono – come si è detto – anni di vita persi. A fare i conti è come ogni anno la Europe-

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un qualche gradiente sociale correlato? Una ricerca pubblicata nel 2016 dall’Università di Washington suggerisce di sì: scegliere l’auto piuttosto che la bicicletta (o le proprie gambe) dipenderebbe anche dal portafoglio. La ricerca si basava su un sondaggio di oltre 100 domande sulle abitudini dei pendolari in due fasce di reddito: quella medio bassa, fra i 40 e i 60 mila dollari (si consideri che la città di riferimento è Washington), e la fascia più ad alto reddito, cioè oltre i 140 mila dollari annui. Quello che è emerso è che chi guadagna di meno sceglie di andare in bicicletta o a piedi in relazione a vincoli spaziali, legati alla funzionalità, mentre chi guadagna di più sceglie tramite criteri più correlati al piacere di fare una passeggiata o una pedalata. Un aspetto interessante anche alla luce delle numerose iniziative, come quelle già citate in apertura, per la promozione dell’attività fisica fra la popolazione urbana. Quello che è certo è che se consideriamo le emissioni, è evidente che bisogna agire, e in fretta, a partire dal settore dei trasporti. Certo, ci sono gli ottimisti. Secondo una recentissima ricerca condotta da Bosch, per molti automobilisti il futuro dell’auto sarà sicuramente elettrico, tanto che in 10 anni il 62% dei futuri compratori sceglierà l’auto elettrica. Ma la realtà per il momento è un’altra.

ICP Milano - Messico

an Environment Agency (EEA) che ha recentemente pubblicato i dati aggiornati al 2015 nel rapporto Air Quality in Europe. Le concentrazioni di particolato continuano a superare le soglie imposte dall’Europa. Sforamenti giornalieri di PM10 si sono registrati in 21 dei 28 Paesi europei, nel caso del PM2,5 in 4 Paesi. E l’Italia? Ebbene, il nostro Paese mostra i tassi di anni di vita persi dovuti a PM2,5, di ossido di azoto e ozono fra i più alti d’Europa. Un altro studio che vale la pena citare è quello pubblicato nel dicembre 2016 dal Dipartimento di Epidemiologia della Regione Lazio dal titolo L’impatto sulla salute dell’inquinamento atmosferico a Roma, 2006-2015, che riporta i dati relativi ai livelli inquinamento ambientale per i principali inquinanti nell’ultimo decennio (2006-2015) a Roma, nonché sui decessi a essi attribuibili. I risultati sono netti: anche se si assiste a una diminuzione delle concentrazioni medie annue per tutti gli inquinanti considerati, esse comunque al di sopra dei 10 µg/m3 consigliati dall’OMS. E anche se le morti attribuibili all’inquinamento sono inferiori nel 2015 rispetto al 2006, esso è stato responsabile di circa 12.000 morti premature solo in città, cioè oltre 1000 ogni anno. È interessante però andare a monte della questione: chi è che va in auto, e chi in bici o a piedi? Esiste

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Quando un sistema è veramente innovativo, creativo e smart? Intervista a Jean-Alain Hèraud, professore emerito dell’Università di Strasburgo Irene Sartoretti

Le parole innovativo, creativo e smart sono sempre più correntemente utilizzate nel linguaggio istituzionale e in quello di tutti i giorni, basti pensare ai soli termini “economia dell’innovazione”, “classe creativa”, “smart city”. Ma quando possiamo realmente dire che un sistema è innovativo, creativo e smart? Ne parliamo con Jean-Alain Héraud, economista dell’innovazione, professore emerito all’Università di Strasburgo e membro del centro BETA (Bureau d’Economie Théorique et Appliquée). Professore, nel discorso comune e, spesso, anche in quello istituzionale si tende a pensare che l’innovazione sia legata esclusivamente alla tecnologia. È così secondo lei? Direi che identificare l’innovazione con la sola innovazione tecnologica sia riduttivo. L’innovazione è un concetto molto più vasto e complesso che può anche prescindere dall’invenzione di una nuova tecnologia. Ci sono per esempio innovazioni che possono risiedere nel modo di organizzare le cose o di vedere il mondo. E perché ci sia innovazione non basta neanche avere un’idea nuova in testa, devono crearsi delle condizioni particolari che ne rendano possibile la realizzazione e la diffusione. Ciò significa che, oltre a essere nuova e originale, l’idea deve risultare realizzabile e per di più significativa in riferimento a un certo contesto sociale ed economico. Infine deve avere un certo potere persuasivo che fa sì che venga supportata da una pluralità di attori, che ci credono e perciò la accompagnano attivamente. Solo così l’idea nuova arriva a cambiare il sistema esistente. In sostanza sbagliano quelle classi politiche che, cre-

dendo in un modello lineare dell’innovazione, che parte dalla scoperta scientifica, arriva all’invenzione tecnica e infine si ripercuote sull’economia, investono solo sulle scienze dure quale unico volano dell’innovazione, secondo un modello di tipo technology-push. Se si vuole promuovere l’innovazione bisogna capire che è necessario lavorare sull’interdisciplinarietà. Quali sono, secondo lei, altri miti da sfatare riguardo all’idea comune che abbiamo di innovazione? Un primo mito da sfatare è che l’innovazione sia “the best solution”. L’innovazione è una soluzione fra tante altre, o meglio, è un buon compromesso capace di vincere le resistenze, perché l’innovazione crea sempre opposizione. Mi spiego meglio. Si pensi a un’invenzione tecnologica. Affinché venga diffusa bisogna che le banche trovino interessante il nuovo progetto e lo finanzino, che le aziende facciano lavorare i propri addetti su una cosa nuova invece che su quello che facevano prima e così via. L’innovazione implica un salto nel buio. In più implica la distruzione di un sistema consolidato, per questo crea sempre resistenza. Un secondo mito da sfatare è che l’innovazione sia legata all’ottimizzazione. Nell’innovazione, la componente di aleatorietà è molto forte. E questo perché le organizzazioni e, più in genere, i sistemi economici e sociali sono tendenzialmente stabili e routinari. Le evoluzioni che li riguardano avvengono in modo adattivo, come nel caso dell’evoluzionismo darwiniano. Quando qualcosa di nuovo si produce ed è più adatto al contesto in cui si è prodotto,

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allora succede che perdura e si diffonde. Quali sono le ricadute pratiche di questo discorso, qual è secondo lei un tipo di sistema o di organizzazione che si presta particolarmente bene a favorire l’innovazione? Le ricadute pratiche sono diverse. La prima è che non è vero che i sistemi perfettamente ottimizzati siano quelli vincenti. Lo dimostra il caso della crisi attraversata da Kodak, un’azienda perfettamente ottimizzata, che ha avuto per anni il monopolio della fotografia. La sua produzione si è concentrata esclusivamente sulla fotografia, internalizzando la concezione e la produzione di ogni singolo componente, dai rullini fino alla macchina fotografica. Probabilmente se Kodak avesse investito non solo nella fotografia, ma anche nell’esplorazione di possibili nuove strade apparentemente distanti, non avrebbe attraversato la crisi dovuta alla nascita e allo sviluppo delle macchine fotografiche digitali. Ciò vuol dire che i sistemi perfettamente ottimizzati non sono vincenti come si sarebbe portati a pensare. Un’organizzazione vincente ha la caratteristica di avere dei margini di libertà. Un’azienda vincente è per esempio un’azienda che lascia ai propri dipendenti la possibilità di sperimentare senza l’imperativo della produttività immediata, accettando che non ci sia un ritorno subitaneo delle risorse spese per la sperimentazione, ma che al contrario ci sia forte spazio per l’aleatorietà. La casualità è una componente fondamentale per l’innovazione, è ciò che Giovanni Dosi della Scuola Sant’Anna di Pisa definisce risorsa stocastica. Favorire le risorse stocastiche significa passare da un modello

di exploitation a un modello di exploration, per utilizzare le categorie messe a punto da James March. Il primo modello predilige il guadagno a corto termine, mentre il secondo implica una perdita a corto termine, ma può permettere di anticipare e cavalcare l’onda di possibili cambiamenti. La seconda cosa è che, poiché l’innovazione non si produce mai da parte di un singolo, affinché si produca, bisogna che a supportarla ci sia un network di attori con specificità diverse, il cui legame sia di qualità. Penso per esempio al fiorente modello di distretto industriale della Terza Italia analizzato da Becattini negli anni Ottanta, che è qualcosa di molto più vasto e complesso che una semplice forma di organizzazione della produzione. Si è trattato di un vero e proprio cluster di innovazione dato da un ambiente sociale e umano con le seguenti caratteristiche: la concentrazione territoriale; il carattere non gerarchico ma fortemente orizzontale; la forte varietà interna degli attori e i loro legami sociali di qualità, questi ultimi basati sulla competizione ma anche su una forte fiducia reciproca. Queste caratteristiche hanno consentito alle imprese di competere e insieme compenetrarsi. Possiamo in sostanza dire che nell’innovazione c’è una sur-determinazione degli aspetti territoriali, sociali e umani. La terza cosa è che sono più innovative le organizzazioni che non agiscono in modo gerarchico, ma seguendo un modello di tipo orizzontale, come per esempio quelle aziende che ascoltano le idee di tutti i propri dipendenti, dal grande ingegnere fino al tecnico. Quindi, riassumendo, un sistema autenticamente smart, che favorisca l’innovazione, è costituito da un network di attori denso, vario da un punto di vista del loro profilo, uniti da un legame di qualità e la cui organizzazione sia di tipo orizzontale invece che top-down. Esatto. E vorrei soffermarmi sull’orizzontalità. L’orizzontalità è importante perché l’intelligenza non è, come si potrebbe pensare, qualcosa di elitario ma è qualcosa di estremamente diffuso. Spesso sbagliano quelle organizzazioni o quelle istituzioni, come università e governi urbani, che pensano che l’affidarsi ai grandi esperti o ai grandi ricercatori risolva ogni problema, agendo in questo caso in modo top-down. Al contrario, l’intelligenza e la creatività sono già presenti in un determinato ambiente o territorio, in modo del tutto

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spontaneo, bottom-up. Questo aspetto territoriale e spontaneo della creatività io lo chiamo energia dei territori. Ed è proprio lasciando emergere, favorendo e organizzando questa energia che può germinare l’innovazione. In più, oggi, grazie all’avvento di nuove forme di comunicazione e produzione, come per esempio quelle permesse dalla micro-informatica, abbiamo sempre meno bisogno di organizzazioni fortemente gerarchiche. Pensi anche al down-sizing della robotica, che permette di avviare una produzione senza aver bisogno di grandissimi capitali, come invece erano necessari nell’era meccanica dell’industrializzazione.

Come si può favorire la creatività, che è spontaneamente diffusa, facendola emergere dal basso? Il problema principale all’interno di un territorio è quello di superare la frammentarietà, di far comunicare tutta la molteplicità di attori presenti, che normalmente non hanno occasione di comunicare fra loro, agendo in modo simile a come agiscono aziende tipo Google, cioè ascoltando tutti, lasciando a ciascuno la possibilità di esprimersi. Le politiche pubbliche devono in questo senso favorire luoghi di incontro, sia fisici che virtuali, per lo scambio di idee, più che affidarsi esclusivamente a qualcosa che viene dall’esterno. Devono attivare processi di catalisi, per utilizzare un termine mutuato dalla chimica. È con questo spirito che le istituzioni europee promuovono il concetto di smart specialization strategy, che riguarda la creazione di piattaforme di scambio fra attori diversi. L’economista giapponese Ikujiro Nonaka parla, a questo proposito, di “Ba”. Potremmo tradurre il suffisso giapponese “Ba” col termine piattaforma. Per usare una metafora, il “Ba” potrebbe essere inteso come la panchina all’interno di un parco, che permette alle persone che passeggiano e che non si conoscono di sedersi, incontrarsi, conoscersi e scambiare idee e perciò di mettere in moto qualcosa, di cui il singolo da solo non è capace.

Quando lei parla di energia propria di un territorio sembra andare in controtendenza rispetto all’idea diffusa che, per un territorio, sia importante attrarre dall’esterno verso l’interno una classe creativa di lavoratori della conoscenza. È un’idea troppo semplicistica, quella di attrarre creativi già formati. La realtà è ben più complessa e implica necessariamente il dover far emergere la creatività propria di un territorio. È necessario rivenire al locale, chiedersi come può l’intelligenza – che è sempre diffusa all’interno di un territorio ed è cioè un’intelligenza distribuita – essere canalizzata e organizzata per produrre qualcosa di nuovo, come incentivare e selezionare quelle idee non routinarie che si producono in modo casuale e che sono quelle che portano all’innovazione. Trovo allora che sia più interessante, invece che richiamare semplicemente elementi dall’esterno, promuovere una dialettica fra gli elementi già presenti sul territorio e quelli importati. Se è vero che la sola attrazione di creativi non rappresenta la soluzione, è infatti anche vero che spesso i territori che non scambiano con l’esterno riproducono in modo routinario le stesse dinamiche. Nei territori creativi c’è piuttosto una tensione fra le routine socio-culturali e gli elementi importati, che possono essere per esempio degli individui atipici rispetto al contesto locale. È proprio grazie a questa tensione che emerge il nuovo.

Può farmi un esempio concreto di piattaforma creativa o di “Ba”? Il “Ba” potrebbe essere un’associazione, un festival, un fablab realizzato con una pluralità di attori e così via. Il centro Beta, di cui sono membro, insieme al centro Hec di Montreal, lavorano su questo concetto di “Ba”, ossia analizzano come avviene l’incontro fra la creatività diffusa e spontanea proveniente dal basso, che può essere definita come under-ground, con gli attori istituzionali sia pubblici che privati, che possono essere indicati come upper-ground. Questo incontro passa per quello che i miei colleghi Patrick Cohendet, David Grandadam e Laurent Simon chiamano middle-ground, ossia l’elemento

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organizzata e formalizzata in modo sinergico che è emersa Ubisoft.

di intermediazione che mette in relazione le forme di intelligenza spontanea bottom-up con le imprese; ciò che è informale e orizzontale con ciò che invece è formale, gerarchico e top-down. È dalla relazione stretta fra questi tre livelli – under-ground, middleground e upper ground – che nasce la città creativa. A questo proposito, i miei colleghi hanno studiato il caso di Ubisoft a Montreal, una delle industrie di video game oggi più importanti che, invece di attrarre creativi da fuori, impiega quasi esclusivamente lavoratori formati in loco. Non è un caso che Ubisoft si sia impiantata proprio a Montreal, perché lì ha trovato un ambiente particolarmente adatto, diventando la punta di diamante di uno storico distretto dove si trovavano aziende all’avanguardia afferenti allo stesso settore dei video games. La propensione del territorio verso questo tipo di economia distrettuale era favorita, da tempo, dalla presenza di associazioni spontanee, che possiamo considerare a cavallo fra under-ground e middle-ground. Queste associazioni riunivano amatori e impiegati nelle aziende locali del distretto di video-games. Ogni anno le associazioni davano vita a un summit internazionale sul tema, che veniva promosso in collaborazione con le istituzioni e che possiamo considerare parte del middle-ground. Questo sistema locale particolarmente ricco e fecondo ha finito per aumentare fortemente all’interno del territorio l’interesse per i videogames, formando una forza lavoro locale fatta di competenze multiple: informatici, ingegneri elettronici, manager, persone di marketing, ma anche cineasti, artisti e lavoratori il cui sapere è legato al campo umanistico. Street Festival e workshop aperti al pubblico hanno completato il sistema di catalizzatori middle-ground, che hanno messo in comunicazione capacità e saperi diversi, altrimenti frammentati e dispersi, connettendoli con il livello istituzionale, cioè quello upper-ground. A ciò si è aggiunto poi Kokoromi, un collettivo gestito da due ex dipendenti di Ubisoft dove si sperimentano nuovi giochi, vengono promossi eventi legati ai video games e piattaforme virtuali di incontro. È proprio da questa energia territoriale che è stata canalizzata,

Oltre agli elementi precedentemente sottolineati, quale potrebbe essere un altro ingrediente dell’innovazione? Un sistema, per essere smart, deve essere resiliente rispetto ai possibili cambiamenti e capace di autoorganizzarsi. Credo perciò che sia importante favorire le visioni piuttosto che le soluzioni consolidate. E qui torniamo alla questione del long term versus lo short term, dell’esplorazione di nuove piste (exploration) piuttosto che dello sfruttamento di vecchie certezze (exploitation). Lo sfruttamento di vecchie certezze è sicuramente vincente sul breve termine, ma non ha la capacità di previsione e di adattamento ai possibili cambiamenti. Le esplorazioni invece riguardano il lungo termine, sono visioni, costruzioni di scenari possibili e alternativi che permettono a un sistema di essere, oltre che efficace, resiliente e cioè di essere flessibile e di sapersi adattare al cambiamento. In fondo, si tratta della capacità di immaginare insieme.

Per approfondire:

Becattini, G. (2000), Dal distretto industriale allo sviluppo locale, Torino, Bollati Boringhieri. Cohendet, P., Grandadam, D., Simon, L. (2010), «The Anatomy of the Creative City», Industry and Innovation, 17:1, pp. 91-111. Dosi, G. (1988), «Sources, Procedures and microeconomics effects of innovation», Journal of Economic Literature, pp. 1120-1171. Héraud, J-A. (2016), «A new approach of innovation: from the knowledge economy to the theory of creativity applied to territorial development», Journal of the Knowledge Economy, vol. 7, n.2, pp. 1-17. von Krogh, G., Ichijo, K., Nonaka, I. (2000), Enabling Knowledge Creation, New York, Oxford University Press. March, J. (1991), «Exploration and Exploitation in Organizational Learning», Organization Science, vol 2, n.1, pp. 71-87.

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Toh, l’imprevisto! Cristiana Pulcinelli

L’umanità cerca di prevedere il futuro da sempre. Negli ultimi anni la predizione è una scienza in crescita. Si esercita su questioni più diverse: da dove è meglio allocare le risorse a cosa accadrà all’ambiente fino al risultato delle prossime elezioni. L’apprendimento automatico dei computer è uno degli strumenti a disposizione, ma basterà? Potremo fare a meno dell’elemento umano? A che punto siamo?

four parameters I can fit an W ithelephant, and with five I can make

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sioni, e poi il metodo si espone anche alla falsificazione dei dati, come ha dimostrato un articolo pubblicato sempre su Science a marzo del 2016. Il gruppo di Makse, invece, ha tracciato le opinioni politiche di milioni di individui direttamente, secondo dopo secondo, per mesi. E gratuitamente. Un bel vantaggio. Se si pensa che Twitter non è il solo a fornire dati interessanti e gratuiti da inserire in modelli predittivi ma che anche Facebook e Google generano grandi masse di dati che possono essere utilizzati gratuitamente, ci si trova di fronte a un’enorme quantità di informazioni da cui attingere. Purtroppo le previsioni di Makse erano sbagliate. Come, del resto, quelle degli exit poll del Times con i quali lo scienziato confrontava via via i suoi risultati. Entrambi fino alle 8 di sera davano Clinton in vantaggio con il 55% dei voti. Il che vuol dire che forse è troppo presto perché i dati raccolti su Internet ci dicano qualcosa del futuro. Il problema principale, probabilmente, è che ancora non si sa come tradurre quei dati in intenzioni umane. Prevedere cosa la gente farà e perché costituisce un po’ l’essenza delle scienze sociali. Un compito quasi impossibile, se si considera quanto sia difficile predire il comportamento anche di una sola persona. Tuttavia, dicono alcuni scienziati, si può pensare a un’analogia con la fisica: anche se non possiamo sapere dove andrà una singola particella, il comportamento di un gas composto di milioni di particelle è prevedibile. Dunque, l’idea per molti anni è stata quella di trattare le società come un problema di fisica. Del resto, lo scrittore di fantascienza Isaac Asimov negli anni

Il matematico David Orrell sostiene che i modelli predittivi di oggi sono governati dagli ideali classici degli antichi greci

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him wiggle his trunk» (Con quattro parametri posso descrivere un elefante e con cinque gli faccio muovere la proboscide). Così era solito dire il matematico e informatico John von Neumann, almeno secondo quanto affermò Enrico Fermi durante un incontro con Freeman Dyson il quale riportò poi la storiella in un articolo pubblicato su Nature molti anni dopo. In sostanza, possiamo leggere la frase di von Neumann come il fatto che possiamo descrivere qualsiasi cosa, se solo siamo in possesso di dati sufficienti per creare un modello che funzioni. Oggi di dati ne abbiamo molti di più di quanti Neumann, che è morto nel 1957, potesse mai immaginare, tanto che si parla di “big data” ovvero un dataset talmente grande da richiedere strumenti non convenzionali per estrapolare, gestire e processare informazioni. I “big data” inoltre intrecciano fonti eterogenee, quindi non solo dati strutturati come i database, ma anche non strutturati come immagini, email, dati GPS, informazioni prese dai social network. La capacità di elaborare questi dati è cresciuta in modo esponenziale, basti pensare al machine learning, l’apprendimento automatico, ovvero l’insieme di metodi sviluppati negli ultimi anni che forniscono ai computer l’abilità di apprendere senza essere stati esplicitamente programmati e che vengono utilizzati per la costruzione di algoritmi che possano apprendere da un insieme di dati e fare delle predizioni. Pensiamo ad esempio ai motori di ricerca su internet. Tutto questo potrebbe far pensare che il sogno di prevedere cosa accadrà – un sogno che ci accompagna da millenni, da

quando scrutavamo il futuro nelle viscere degli animali o nel volo degli uccelli – potrebbe essere vicino ad avverarsi. Peccato che poi eventi come le recenti elezioni del presidente degli Stati Uniti ci facciano precipitare dal soffice mondo dei sogni a quello molto più duro della realtà. Già, perché l’elezione di Trump non era stata prevista da nessuno, o quasi. Come, del resto, la crisi economica del 2008. O uno dei numerosi conflitti che sono scoppiati nel mondo dal 2000 ad oggi. E come non potremo prevedere lo scoppio della prossima epidemia o come sarà il tempo a Roma fra tre settimane. La rivista Science ha recentemente dedicato una sezione speciale al tema della previsione vista come una scienza in evoluzione e il primo articolo è dedicato proprio all’elezione di Trump. In particolare, gli autori raccontano come il gruppo di lavoro di Hernan Makse, fisico statistico dell’Università di New York, avesse lavorato nei mesi precedenti alla votazione a un metodo per predire chi sarebbe stato il nuovo presidente. Niente di nuovo: i siti dei giornali e delle televisioni lo fanno continuamente Ma in questo caso, invece di affidarsi agli exit poll, i ricercatori si sono basati sui dati raccolti da Twitter nei quattro mesi precedenti l’elezione. Se Makse avesse azzeccato le previsioni, avrebbe avuto motivo di vantarsi. Il sistema degli exit poll è laborioso e molto costoso, si tratta di sentire moltissime persone telefonicamente o andando porta a porta. Si calcola che questo lavoro solo negli Stati Uniti foraggi un’industria da 18 miliardi di dollari. Inoltre, presenta degli indubbi problemi: intanto i tassi di risposta sono spesso bassi, il che vuol dire che gli analisti si ritrovano con un campione esiguo su cui fare le previ-

Cinquanta del secolo scorso immaginava che, grazie a potenti computer e enormi banche dati, si potesse prevedere addirittura la nascita e la caduta di imperi. Ma le cose si sono rivelate più complicate. Nel caso del modello basato su Twitter di cui parlavamo prima, lo stesso autore ha individuato alcuni problemi, dopo lo scivolone dei risultati elettorali. Ad esempio, dei 73 milioni di tweet sui due candidati che sono stati presi in

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esame, quanti erano scritti da esseri umani? Twitter infatti permette di prendere parte alle discussioni on line anche ai bot, programmi di computer che imitano gli esseri umani. I bot non sono etichettati come tali e appaiono a chi li segue come dei sostenitori entusiasti o dei detrattori accaniti (ma sempre in carne ed ossa) di una qualche tesi o posizione. Possono essere smascherati analizzando il loro account, ma eliminare i bot non basta: rimane il problema dei prezzolati. Persone che vengono pagate per prendere posizione e orientare i votanti e che per fare questo utilizzano finti account. E poi ci sono problemi più ampi: ad esempio, siamo sicuri che se una persona parla bene di un candidato poi lo voterà? Le motivazioni profonde rimangono sconosciute. E poi: quanti votanti sono sottorappresentati nella rete? La popolazione rurale che ha votato Trump, ad esempio, usa Twitter? Ma, del resto, scrive lo statistico Andrew Gelman, se potessimo predire i risultati delle elezioni in modo perfetto, votare diventerebbe un atto senza senso. Se i “big data” possono essere usati (e lo sono) per trovare il giusto partner o la migliore stanza d’albergo o il giusto cliente per i prodotti di un’azienda, si è pensato potessero essere utilizzati anche per predire lo scoppio di conflitti. È così che alcuni ricercatori stanno applicando le tecniche di machine learning per cercare di capire dove e quando i fattori di rischio potranno portare alla violenza. Qualcosa in questo senso si sta muovendo. Ad esempio, lavorando ad un rapporto commissionato dalla Political Instability Task Force della CIA, un gruppo di analisti, tenendo sotto controllo proteste e ribellioni in 168 Paesi per 6 mesi, è riuscito a predire il colpo di stato dei militari in Thailandia nel 2014 un mese prima che avvenisse. E, con queste nuove tecniche, un altro team di ricercatori è riuscito a prevedere 9 guerre civili su 20 scoppiate tra il 2001 e il 2014. I modelli precedenti non ne avevano previsto nessuno. E tuttavia, ancora non possiamo essere ottimisti. Il problema è che i processi che portano ai conflitti coinvolgono una serie di attori imprevedibili che interagiscono tra loro in modi che rompono gli sche-

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mi. Insomma, uno scenario molto più complicato di quello di un insieme di consumatori da analizzare per le ricerche di mercato. I sociologi e la comunità degli scienziati che si occupano di machine learning stanno acquistando nuovi strumenti analitici per distinguere pattern significativi dal rumore di fondo. Però il rumore di fondo è ancora molto forte. Lo stesso può dirsi per la “scienza delle scienze”, ovvero la capacità di prevedere quali saranno le prossime scoperte scientifiche, o almeno i campi di ricerca più promettenti e soprattutto su cui si investirà di più. Anche qui si tratta di una disciplina in crescita, ma che ancora non ha prodotto una visione dei processi sociali che portano alla scoperta scientifica. C’è chi poi lamenta che i modelli sono anche troppo potenti ma spesso non tengono conto della realtà. Come ad esempio il gruppo di ecologi autori di un appello comparso sulle pagine di Science nel 2016. Bisogna migliorare le previsioni sulle conseguenze del cambiamento del clima, dicono gli scienziati, ma non è un problema di modelli. A fronte di modelli sempre più sofisticati, a mancare sono i dettagli specifici sulla biologia delle specie. «Se vogliamo fare previsioni realistiche dobbiamo tirar su gli stivali, prendere il binocolo e tornare sul campo a raccogliere informazioni più precise», commenta uno dei firmatari. Molti aspetti cruciali, come la capacità di adattamento o le curve demografiche di una specie, sono spesso tagliati fuori dai modelli di previsione,

Secondo uno studio, tra l’85% e il 90% delle persone non vuole sapere in anticipo gli eventi negativi che stanno per accadere che a lungo andare non corrispondono più al reale cambiamento in corso. Solo il 23% degli studi tengono conto dei meccanismi biologici, secondo gli scienziati che hanno aderito all’appello. Forse però la difficoltà principale è nella nostra mente. Il matematico David Orrell sostiene che i modelli predittivi di oggi sono governati dagli ideali classici degli antichi greci: unità, stabilità, simmetria, elegan-

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Enrica Galmacci - Tanzania

za, ordine. Insomma, l’armonia matematica. Ma cose come il clima o la moderna economia non seguono queste regole. Invece di trovare nuovi modelli, però, si è cercato di adattare quelli vecchi con risultati discutibili. «Dobbiamo ammettere che alcune cose non si possono prevedere – dice Orrell – dobbiamo accettare l’incertezza dei sistemi viventi». Nuovi modelli stanno emergendo dalle scienze della vita che guardano al mondo come un organismo vivente piuttosto che una macchina. Modelli che danno vita a una nuova estetica che trova la bellezza nella complessità piuttosto che nell’eleganza della simmetria. Del resto, non sempre le persone vogliono sapere cosa accadrà. Uno studio pubblicato da poco su Psychological Review mostra proprio il fatto che spesso si sceglie di ignorare in modo deliberato in anticipo sia le cattive notizie come la morte o un divorzio sia quelle positive come il sesso del nascituro. I ricercatori hanno stimato la prevalenza di quella che chiamano “ignoranza deliberata” per 10 eventi. Ne è emerso che tra l’85% e il 90% delle persone non vuole sapere in anticipo gli eventi negativi che stanno per accadere e tra il 40% e il 70% preferisce rimanere all’oscuro anche degli eventi positivi. Solo l’1% dei partecipanti allo studio voleva sempre e comunque conoscere il futuro. Il desiderio di preservarci da sentimenti forti spesso vince sulla nostra curiosità. Chi l’avrebbe previsto?

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Donne di scienza

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L’esploratrice dell’invisibile Intervista a Fabiola Gianotti, direttore generale del Cern Giuseppe Nucera

Qual è il peso della cultura scientifica italiana all’interno del Cern?

Al tempo della sua nomina alla guida del Cern, aveva identificato alcuni pilastri sui quali focalizzare il suo mandato: tecnologia, fisica fondamentale e i giovani. Dopo il suo primo anno come direttore generale, qual è il suo giudizio su tali ambiti?

Nel nostro campo l’Italia eccelle e il fatto che il Direttore generale del laboratorio sia un italiano non è forse un caso: al Cern il contingente nazionale più importante è quello italiano. Ciò dimostra la grandissima qualità delle nostre università, nel mio campo. Non posso chiaramente giudicare campi che non sono vicini al mio, ma in fisica, nel caso della fisica fondamentale e della fisica delle particelle, siamo senz’altro ottimi. Abbiamo un istituto di ricerca, l’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), che è un fiore all’occhiello per la nostra ricerca e che fornisce cervelli, tecnologie e grandissimi apporti al Cern, così come a molti altri progetti a livello mondiale nel campo della fisica fondamentale. Abbiamo una cultura ottima, all’avanguardia direi.

É stato un anno molto entusiasmante, un anno bellissimo. Ovviamente è un grande onore dirigere questo laboratorio, questa organizzazione molto speciale. Ho cercato di lavorare nelle linee che avevo tracciato all’inizio del mio mandato; per cui, da una parte, la ricerca fondamentale, che è la missione primaria del Cern. Quindi, il Large Hadron Collider, che è il nostro progetto faro. L’LHC ha funzionato benissimo nel 2016, producendo una quantità di dati superiore a quella immaginata e prevista. La seconda direzione era lo sviluppo tecnologico, spingere la tecnologia del futuro. Abbiamo lavorato molto sui magneti superconduttori di nuova generazione e, in generale, sullo sviluppo di tutto l’ampio spettro di tecnologie che sviluppiamo al Cern: principalmente nel campo della strumentazione, dei “big data”, dei computing e in quello dei magneti. Poi c’è l’aspetto dei giovani: ogni anno al Cern formiamo borsisti, dottorandi e studenti tecnici, oltre a studenti durante gli stage estivi. Nel 2016 abbiamo formato circa 1600 giovani. Penso che questo sia un buon risultato.

Tornerà mai a fare ricerca in Italia? Non ho detto esplicitamente che potrei tornare in Italia, piuttosto quando finirò di fare il direttore del Cern vorrei tornare a fare ricerca con le mie mani. Sono una dipendente del Cern: lo ero prima, quando ero una ricercatrice del Cern, lo sarò quando il mio mandato finirà. Comunque non escludo nessuna possibilità al futuro e di poter andar via dal Cern, magari dopo la pensione.

Un quarto pilastro identificato era quello della pace. In che modo il Cern può lavorare su questo ambito?

Le donne che decidono di intraprendere una carriera accademica in ambito scientifico e tecnologico (il cosiddetto settore STEM) si trovano spesso a fronteggiare più pregiudizi o a essere meno pagate dei loro colleghi e, malgrado le loro capacità raggiungono con più difficoltà le posizioni ai vertici. Le donne che vogliono lavorare in campo scientifico si scontrano fin troppo spesso infatti con il cosiddetto glass ceiling, il “soffitto di vetro” trasparente che permette di guardare in alto ma non di fare carriera. Secondo il rapporto She Figures 2015 della Commissione Europea sulla parità di genere in Europa nell’ambito delle scienze e dell’innovazione, l’evoluzione della proporzione femminile in posizioni accademiche di rango elevato tra il 2010 e il 2013, conferma che

le donne continuano a essere in minoranza nelle posizioni apicali del settore dell’educazione avanzata. In particolare nel 2014, tra i 22 Paesi oggetto di analisi, in 14 di questi le donne rappresentano meno del 40% dei consigli scientifici e amministrativi, nonostante dal 2010 si sia registrato un leggero incremento delle quote rosa. Malgrado gli sforzi messi in atto finora dalle istituzioni comunitarie e dagli stati membri, è evidente dunque che la parità di genere sul luogo del lavoro nel settore scientifico è ancora lontana dall’essere raggiunta. In questo numero di micron abbiamo voluto incontrare Fabiola Gianotti, direttore generale del Cern. Una scienziata che, grazie a dedizione e sacrificio nel campo della ricerca, è riuscita a infrangere quel soffitto di cristallo.

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L’LHC è la più grande fabbrica di dati al mondo: ogni anno produce una mole di dati prodotti sono l’equivalente di centomila DVD. Come monitorare una tale quantità di informazioni?

Oggi al Cern abbiamo circa 16.000 persone di 110 nazionalità differenti. Molti di questi scienziati vengono da Paesi in guerra, da nazioni che neanche si riconoscono il diritto all’esistenza. É la collaborazione pacifica tra i popoli. Avere oggi un “posto di pace”, dove si collabora su valori importanti quali la conoscenza, a mio avviso, è molto importante. Ogni Paese ha però le sue linee, le sue direzioni di studio e di sviluppo e questo è altrettanto fondamentale. La diversità è nella scienza. Il fatto che lavorino assieme persone con diverse visioni e culture è un fattore di arricchimento. Lo è in generale per l’umanità, non soltanto per la scienza.

Il Cern è uno dei più grossi utilizzatori di Big Data a livello mondiale. L’analisi dei dati è fatta grazie a una rete di calcolo estremamente potente. Abbiamo sviluppato un sistema basato sul computing che si chiama “la griglia del calcolo”. Per ciò che riguarda il monitoraggio di questi dati, il nostro “controllo” è alla base: ossia un utilizzo rigoroso del metodo scientifico per ogni esperimento. Vengono analizzati i dati e questi sono resi pubblici solo quando sono approvati. Quando un paio

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Habitat a rischio: la prima Lista Rossa Europea Daniela Gigante

L’Unione europea ha stilato

di anni fa, ad esempio, era stato osservato un eccesso di eventi che avrebbe potuto mettere in crisi alcuni principi del modello standard della fisica delle particelle, gli esperimenti del Cern avevano comunicato questa osservazione in una maniera assolutamente corretta: c’era un eccesso di eventi ma non era significativo, quindi era necessario raccogliere più dati, con la possibilità che tale osservazione venisse confermata o meno. Con più dati, alla fine, abbiamo osservato che l’eccesso di eventi era sparito. Penso che bisogna fare le cose in maniera rigorosa, cioè produrre dati che siano stati ben verificati, ma fra i risultati ci sono anche fluttuazioni. Quindi dopo quella osservazione, era stato comunicato in maniera molto chiara che poteva esser una fluttuazione come poteva essere l’inizio di un segnale. Si è rivelato, poi, essere una fluttuazione.

anche per gli habitat una “lista rossa” al fine di valutare la perdita di biodiversità. Il gruppo internazionale di ricercatori che ha partecipato a questo lavoro ha valutato che in ambito europeo tra gli elementi di pressione più importanti ci sono le attività agricole, l’urbanizzazione e il cambiamento

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climatico

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valutazione dello stato di conserL avazione delle specie e degli habitat è

uno degli obiettivi dell’Unione Europea per arrestare la perdita di biodiversità e il degrado dei servizi ecosistemici entro il 2020. Tra i vari strumenti adottati a livello europeo, la Commissione Europea ha esteso per la prima volta anche agli habitat l’approccio di “red-listing”, già noto per le specie animali e vegetali, allo scopo di produrre un quadro di riferimento per valutarne lo stato attuale e le prospettive future. Questo approccio va a integrare altre tipologie di valutazione dello stato di conservazione degli habitat, quale quella prevista dalla Direttiva 92/43/ CEE “Habitat” limitatamente agli habitat elencati nell’AllegatoI. In questo scenario si inserisce la prima Lista Rossa Europea degli habitat recentemente pubblicata (Gubbay et al., 2016; Janssen et al., 2016). Il documento è il prodotto del lavoro svolto nel periodo 2013-2016 da un team internazionale composto di 49 esperti e 144 contributori, finanziato dalla Commissione Europea e coordinato da un partenariato comprendente Wageningen Environmental Research (istituto di ricerca ambientale con sede nei Paesi Bassi), IUCN (la più antica e grande organizzazione ambientale globale) e NatureBureau (società di consulenza sulla conservazione della fauna selvatica, con sede nel Regno Unito). L’area geografica di riferimento per la valutazione degli habitat è duplice e si riferisce sia all’Unione Europea (EU28) che a un territorio più ampio che include anche alcune nazioni adiacenti (EU28+, comprendente anche Norvegia, Svizzera, Islanda e i Paesi non-EU della Penisola Balcanica per un totale di 33 nazioni, figura 1). L’Italia ha partecipato al progetto con

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un gruppo coordinato della sottoscritta e composto da 15 esperti provenienti da diverse università e istituzioni ambientali: Alicia Teresa Rosario Acosta, Irene Prisco (Università “Roma Tre”), Fabio Attorre, Emiliano Agrillo (“La Sapienza” Università di Roma), Stefano Armiraglio (Museo di Scienze Naturali di Brescia), Silvia Assini (Università di Pavia), Simonetta Bagella (Università di Sassari), Gabriella Buffa (Università “Ca’ Foscari” di Venezia), Laura Casella (ISPRA), Carmen Giancola (Università del Molise), Giampietro Giusso del Galdo, Saverio Sciandrello (Università di Catania), Giovanna Pezzi (Università di Bologna), Roberto Venanzoni (Università di Perugia), Daniele Viciani (Università di Firenze). Il protocollo di valutazione, i criteri e le categorie sono stati sviluppati in sintonia con i principi consolidati per le specie dalla IUCN (2016). Il protocollo prevede l’impiego di otto categorie e cinque criteri che definiscono il metodo per la valutazione del livello di rischio di collasso dell’habitat, una misura del grado di pericolo in cui versa. In particolare, le categorie di minaccia, modificate e adattate a partire dalla metodologia proposta da Keith et al. (2013) per gli ecosistemi, sono le seguenti: • Collassato (CO): habitat per il quale è praticamente certo che le caratteristiche biotiche e/o abiotiche sono irreversibilmente perdute; • Pericolo Critico (CR): habitat che presenta un rischio elevatissimo di collasso; • Minacciato (EN): habitat che presenta un rischio molto elevato di collasso; • Vulnerabile (VU): habitat che presenta un rischio elevato di collasso; • Quasi Minacciato (NT): habitat che non soddisfa i criteri per qualificarsi

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come CR, EN e VU, ma ci si avvicina significativamente; • Minor Preoccupazione (LC): habitat che non soddisfa i criteri per qualificarsi come CR, EN, VU o NT (ampiamente distribuito e relativamente nondegradato); • Dati Insufficienti (DD): habitat per il quale non sono disponibili informazioni adeguate per effettuare una valutazione dello stato di minaccia; • Non Valutato (NE): habitat non valutato. I veri e propri habitat “minacciati” sono quindi quelli valutati come CR, EN o VU. I criteri per l’attribuzione di ciascun habitat all’una o all’altra categoria si basano sull’analisi di dati qualitativi e quantitativi. In particolare, gli aspetti che più contano nell’attribuzione dello stato di rischio sono: a) riduzione quantitativa dell’habitat; b) distribuzione geografica ristretta; c) Riduzione qualitativa biotica; d) Riduzione qualitativa abiotica; e) Analisi quantitativa della probabilità di collasso. Per l’applicazione di alcuni criteri è necessaria la conoscenza di dati relativi al passato, al fine di individuare le tendenze in atto ed eventualmente fornire verosimili proiezioni per il futuro. All’interno della Lista Rossa appena pubblicata, per ogni habitat, oltre alla categoria di rischio, vengono fornite numerose informazioni utili a comprenderne le caratteristiche, le dinamiche, la vulnerabilità, la distribuzione, anche attraverso cartine che, basandosi sulle fonti disponibili, ne riportano la presenza nota nel

I risultati della valutazione evidenziano un peggioramento piuttosto evidente, soprattutto a carico di alcuni ecosistemi

Figura 1 - Il territorio preso in considerazione dalla Lista Rossa Europea degli Habitat (da Janssen et al., 2016)

Figura 2 - Distribuzione delle diverse categorie di rischio per gli habitat europei (ridisegnato, da Janssen et al., 2016)

Figura 3 - Distribuzione delle diverse categorie di rischio tra i sette macrotipi di habitat europei in EU28 (ridisegnato, da Janssen et al., 2016)

Figura 4 - Le principali minacce e pressioni all’origine del declino degli habitat, ripartite per macrotipo (ridisegnato, da Janssen et al., 2016)

territorio EU28+ mediante maglie di 10x10 km all’interno di una griglia. Gli habitat considerati si rifanno alle tipologie EUNIS (EUropean Nature Information System, Davies et al., 2004), parzialmente modificate. Si tratta di un sistema di classificazione gerarchico fondato sull’utilizzo di criteri di identificazione finalizzati allo sviluppo di descri-

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zioni armonizzate valide per l’intera Europa (EUNIS, 2007). I tipi di habitat EUNIS sono definiti in base alle comunità vegetali che li costituiscono. Per gli habitat terrestri e di acqua dolce è stata utilizzata la classificazione al livello 3, articolata in maggior dettaglio attraverso l’indicazione delle alleanze fitosociologiche, mentre per quelli marini si è considerato il livello 4. Gli habitat fortemente antropogenici sono stati esclusi, tranne i pochi di qualche interesse per la biodiversità quali, ad esempio, i sistemi agricoli non intensivi. Per ciascuna tipologia di habitat valutato sono inoltre stati indicati i collegamenti con altri sistemi di classificazione rilevanti (Allegato I alla Dir. 92/43/CEE, Emerald, MAES, IUCN). Gli habitat terrestri e di acqua dolce, per un totale di 233, sono stati suddivisi in 7 macrotipi: 1) habitat costieri, 2) habitat di acque interne, 3) paludi e torbiere, 4) praterie e altra vegetazione erbacea, 5) brughiere e arbusteti, 6) boschi e foreste, 7) paesaggi interni con scarsa vegetazione. I risultati della valutazione evidenziano uno stato di declino piuttosto diffuso, soprattutto a carico di alcune tipologie di ecosistemi. In generale, oltre un terzo degli habitat analizzati presenta un livello di rischio di scomparsa da elevato a elevatissimo (figura 2). Se si considerano i macrotipi la situazione appare piuttosto diversificata, con le maggiori criticità soprattutto a carico degli ecosistemi erbacei e di quelli umidi, dove sono concentrati gli habitat ritenuti “in pericolo critico” (figura 3). Più di tre quarti delle paludi e torbiere, più della metà degli habitat erbacei e quasi la metà degli habitat delle acque interne e di quelli costieri risultano riferibili a una delle tre categorie di minaccia. Le foreste, le brughiere e gli habitat rocciosi mostrano un livello di declino in estensione e qualità meno marcato, ma destano comunque grande preoccupazione. Un esempio emblematico è rappresentato dall’habitat endemico italiano E1.1e “Praterie submediterranee xeriche su suoli calcarei ricchi di scheletro e su suoli ultramafici” , comprendente le formazioni erbacee secondarie diffuse nei territori interni della penisola italiana, soprattutto nelle aree sommitali

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dei massicci appenninici, tradizionalmente utilizzate come pascolo estensivo. Il loro stato di conservazione è considerato VU (Vulnerabile). Tra le pressioni e le minacce che ne mettono a rischio il mantenimento, la principale è rappresentata dall’incespugliamento dovuto all’abbandono delle tradizionali attività pastorali: si tratta infatti di un habitat secondario, mantenuto dalle attività di pascolamento estensivo ormai purtroppo in drastico calo in tutto il territorio appenninico. Le tipologie di pressione indicate ai primi posti tra le più impattanti sugli habitat europei comprendono l’intensificazione delle attività agricole, l’urbanizzazione e il consumo di suolo, le alterazioni dei sistemi naturali e il cambiamento climatico (figura 4). A livello italiano lo scenario è abbastanza simile (dati inediti); in particolare, tra le pressioni maggiormente responsabili del declino degli habitat ci sono l’inquinamento diffuso delle acque superficiali, l’alterazione degli equilibri idrogeologici, l’invasione di specie aliene. Per quanto riguarda l’ambiente marino, i banchi di molluschi, le praterie di fanerogame marine e gli estuari sono ovunque minacciati. Nel Mar Mediterraneo, quasi un terzo di tutti gli habitat è a rischio di collasso; nell’Atlantico nordorientale, quasi un quarto. Nell’ambiente marino sono soprattutto l’inquinamento, l’arricchimento di nutrienti, le pratiche di pesca distruttive e lo sviluppo costiero a rappresentare le cause di minaccia più impattanti. Alcuni effetti dannosi del cambiamento

Le foreste e gli habitat rocciosi mostrano un declino meno marcato, ma destano comunque preoccupazione climatico sono già evidenti sia nei sistemi marini che in quelli terrestri e rischiano di peggiorare (Gubbay et al., 2016). Va sottolineato come l’Italia ospiti all’interno del suo territorio più del 67% della totalità degli habitat terrestri censiti per l’intera Europa (EU28+), confermando la ricchezza di biodiversità che ne caratterizza il paesaggio. A livello regionale,


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dimensione della maglia utilizzata. Ci sono peculiarità habitat-specifiche nella distribuzione spaziale che andrebbero tenute in conto, come il pattern di occupazione spaziale (puntuale, lineare, areale) tipico di ogni habitat e derivante da caratteristiche ecologiche intrinseche (Gigante et al., 2016).

Bibliografia essenziale Davies C.E., Moss D., Holl M.O., 2004. Eunis Habitat Classification Revised 2004. European Environment Agency, Copenhagen. EUNIS, 2007. EUNIS Habitat Classification. http://www.eea.europa.eu/ themes/biodiversity/eunis/eunis-habitat-classification Gigante D., Foggi B., Venanzoni R., Viciani D., Buffa G., 2016. Habitats on the grid: The spatial dimension does matter for redlisting. Journal for Nature Conservation 32, 1–9. Gigante D., Venanzoni R., Zuccarello V. 2011. Reed die-back in southern Europe? A case study from Central Italy. Comptes Rendus Biologies, 334 (4): 327-336. Gubbay S. et al., 2016. European Red List of Habitats. Part 1. Marine habitats. European Union. ISBN 78-92-79-61586-3 IUCN, 2016. Guidelines for the application of IUCN Red List of Ecosystems Categories and Criteria. Version 1.0. Bland L.M., Keith D.A., Murray N.J., Miller R., Rodríguez J.P. (Eds.). International Union for Conservation of Nature (IUCN), Gland, Switzerland. ix + 93 pp. Janssen J.A.M. et al., 2016. European Red List of Habitats. Part 2. Terrestrial and freshwater habitats. European Union. ISBN 978-92-79-61588-7 Keith D.A., Rodríguez J.P., Rodríguez-Clark K.M., Nicholson E., Aapala K., Alonso A., Asmussen M., Bachman S., Bassett A., Barrow E.G., Benson J.S., Bishop M.J., Bonifacio R., Brooks T.M., Burgman M.A., Comer P., Comín F.A., Essl F., Faber-Langendoen D., Fairweather P.G., Holdaway R.J., Jennings M., Kingsford R.T., Lester R.E., Mac Nally R., McCarthy M.A., Moat J., Nicholson E., Oliveira-Miranda M.A., Pisanu P., Poulin B., Riecken U., Spalding M.D., Zambrano-Martínez S., 2013. Scientific Foundations for an IUCN Red List of Ecosystems. PLoS ONE 8(5):e62111. http://dx.doi. org/10.1371/journal.pone.0062111

ICP Milano - Perù

l’Umbria conferma in gran parte i trend nazionali e europei, mostrando forti segni di alterazione qualitativa e quantitativa soprattutto a carico degli habitat erbacei secondari, con qualche eccezione come nel caso dell’habitat E1.7 “Praterie a dominanza di nardo, da aride a mesofile, diffuse dalla pianura al piano montano”, attualmente in buono stato di conservazione benché molto raro. Anche a livello regionale gli ambienti umidi risultano tra i più interessati da condizioni di forte minaccia, come è facilmente verificabile in una delle aree regionali di particolare fragilità ecosistemica quale il lago Trasimeno, dove nel corso degli ultimi decenni si è assistito ad una drastica scomparsa di estese superfici di habitat palustri (Gigante et al., 2011). La Lista Rossa Europea degli habitat fornisce uno strumento completamente nuovo e di ampio respiro a supporto dell’impegno delle istituzioni europee, nazionali e regionali per la protezione e il ripristino degli ambienti naturali e semi-naturali. Essa infatti prende in considerazione una gamma molto più ampia di habitat rispetto a quelli elencati nell’Allegato I alla Direttiva 92/43/CEE, che esclude inspiegabilmente numerose tipologie di grande rilevanza conservazionistica. Tra le criticità metodologiche emerse, va sottolineato il fatto che l’uso di mappe di distribuzione su griglia per la quantificazione del declino quantitativo può portare a una sovra-stima oppure a una sotto-stima dell’effettiva distribuzione di un habitat, in base alla

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I funghi: un tesoro dell’isola Polvese Paola Angelini, Andrea Arcangeli, Giancarlo Bistocchi, Rosalba Padula, Roberto Venanzoni

Da alcuni mesi Arpa Umbria ha avviato una collaborazione con l’Università degli Studi di Perugia e il Circolo Micologico Naturalistico Perugino, con l’obiettivo di redigere uno studio completo di tutti i macromiceti presenti nell’isola Polvese

permanente di belU n’esposizione lezze naturali. Forse così si può de-

scrivere l’isola Polvese. La natura che incanta. La Polvese, amministrativamente compresa nel Comune di Castiglione del Lago, è di proprietà della Provincia di Perugia dal 1973, e dal 1995 è stata dichiarata Parco regionale, Parco didattico e scientifico e nel 2012 (DGR N. 92/2012) Zona Speciale di Conservazione per la zona biogeografica Mediterranea Sito di Importanza Comunitaria (SIC-ZSC IT5210018 – LAGO TRASIMENO) compresa nella rete ecologica europea “Natura 2000”. L’isola è posta a 258 m sul livello del mare, con una sommità massima, localizzata sul rilievo centrale, di 313 metri. Il suo perimetro supera i 3,7 Km e la sua estensione è di 69,60 ettari. I litorali sono poco profondi nella sponda rivolta a sud, dove si localizzano anche le spiagge; nella parte nord, invece, le sponde sono a volte rocciose (arenarie) e scoscese (Giovagnotti e Calandra, 2000). L’isola è stata abitata fin dall’anno 1000, da un importante insediamento Romano, a cui forse è dovuto il nome Polvese che potrebbe originarsi dal termine latino “pulvis” (polvere) o da “pulvento” (zona sottovento) (Salerno e Longo, 2003). Successivamente, nel 1200, l’isola contava una popolazione di circa 500 abitanti, prevalentemente pescatori e contadini, per poi spopolarsi dopo il 1600 e diventare, per più di tre secoli, una riserva di caccia e, quindi, un’oasi di protezione faunistica (AA.VV., 1988). Dal punto di vista bioclimatico, la Polvese è compresa nella regione temperata di transizione (AA.VV., 1988, Venanzoni et al. 1998, 1999). Rispetto ai valori di temperatura atmosferica, si può far rife-

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rimento alla stazione metereologica di “Polvese1” situata a circa 150 m. a est dal pontile di attracco dell’isola. I dati disponibili, validati dal Servizio Idrografico Regionale, fanno riferimento al periodo 1988-2013. L’esame dei dati evidenzia come le temperature medie variano da 13,1° nel 1991 a 14,8° nel 2003; mentre nelle condizioni più estreme sull’isola si sono registrati i valori di -9,4 (minima di febbraio 1991) e +38,8 (massima di agosto 2000). Relativamente ai valori di piovosità (stazione metereologica di Monte del Lago) si calcola un valore medio annuo di circa 700 mm. Interessante è anche il dato relativo al periodo arido, abbastanza lungo, compreso tra giugno e agosto (AA.VV., 2015 - Aspetti vegetazionali, botanici e forestali - Regione Umbria). L’isola si caratterizza per tre habitat particolarmente significativi: • la Lecceta di San Leonardo • la zona umida ripariale lungo le sponde del Lago Trasimeno • l’oliveto La lecceta, conosciuta come Lecceta di San Leonardo, dall’omonima chiesa che anticamente sorgeva in quest’area, è un bosco ad alto fusto sempreverde mesofilo a dominanza di leccio, che si estende per il 25% del territorio, in gran parte sul lato nord dell’isola. L’associazione vegetazionale Rusco aculeati-Quercetum ilicis, comprende accanto al leccio, dominante, una abbondante presenza di alloro, Fraxinus ornus L., Rosa sempervires L., e Hedera helix L. Il sottobosco erbaceo è invece molto povero, con la presenza soprattutto di Ruscus aculeatus L., Asparagus acutifolius L. e Asplenium onopteris L. Nella fascia che va dalla terra ferma all’acqua, lungo le sponde del lago, è pre-

sente un altro habitat protetto: le praterie umide seminaturali con piante erbacee alte, caratterizzate da giuncheti mediterranei e altre formazioni igrofile di taglia elevata. In questo ambiente, costituito da vegetazione ripariale di tipo idrofitico ed elofitico, tipico delle zone umide, dove sostano e svernano un gran numero di uccelli acquatici, vi è, in un breve spazio, un passaggio graduale della vegetazione: dagli alberi, agli arbusti, alle specie erbacee che vivono a stretto contatto con l’acqua. Particolarmente interessante è la presenza della cannuccia palustre Phragmites australis (Cav.) Steud., che forma più o meno estesi e discontinui tratti di canneto. La vegetazione acquatica è rappresentata da alghe e da idrofite sommerse, galleggianti ed emerse che, data la scarsa profondità, crescono anche sul fondo del lago e possono colonizzare ampi tratti. L’oliveto secolare si dispone lungo il versante meridionale più caldo e assolato; la sua presenza risale a quella dei Monaci Benedettini dell’ordine degli Olivetani, residenti sull’isola dal

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XIV secolo. Gli appezzamenti di terreno, di forma irregolare, sono costituiti da tratti pianeggianti e da balze degradanti verso il lago per circa 40 ettari. Sono stati censiti circa 4.200 olivi appartenenti alle varietà “dolce agogia” per oltre l’80% e, per la rimanente quantità, alla varietà “Leccino” e “Moraiolo”. Negli

I primi studi sui macromiceti risalgono alla pubblicazione del libro “I funghi del parco scientifico didattico Isola Polvese”

ultimi decenni, soprattutto per merito dell’amministrazione provinciale, sono stati effettuati numerosi studi che hanno interessato il territorio (AA.VV., 1988), la storia e la toponomastica (Salerno e Longo, 2003), i licheni (Panfili, 1988), i funghi (Bistocchi et al., 2001), le api (Quaranta, 2004), le orchidee selvatiche (Salerno e Longo, 2004), i muschi (Alef-


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fi e Tacchi, 2008; Sbriccoli 2009). I primi studi sui macromiceti risalgono al 2001, con la pubblicazione del libro “I funghi del parco scientifico didattico Isola Polvese” (Bistocchi et al., 2001) in cui si riporta una prima lista di 146 specie di macromiceti epigei.

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< Figura 1

Nell’isola Polvese, la presenza di specie fungine rare è dovuta alla particolarità del clima e alla biodiversità delle specie Fra le specie rinvenute ve ne sono alcune a larga ampiezza ecologica, altre legate preferenzialmente a una data pianta o a un particolare habitat presente sul territorio e altre ancora da considerare rare o comunque poco distribuite a livello locale o regionale. Dieci anni dopo, G. Carletti 2011 (tesi di laurea), ha realizzato uno studio preliminare sui macromiceti lignicoli dell’isola Polvese che include un elenco di 27 specie. Tale studio è stato successivamente continuato ed approfondito da B. Granetti (Le specie fungine lignicole nell’Isola Polvese del Lago Trasimeno, 2016). Dato il suo elevato interesse naturalistico e vista l’istituzione del Centro di ricerca sul “Cambiamento Climatico e Biodiversità in Ambienti Lacustri ed Aree Umide” avviato sull’isola Polvese nel 2016 da Arpa Umbria, lo scorso ottobre è iniziata una collaborazione tra l’Agenzia, il Circolo Micologico Naturalistico Perugino e l’Università degli Studi di Perugia (Dipartimento di Chimica, Biologia e Biotecnologie), con l’obiettivo di redigere uno studio completo di tutti i macromiceti presenti nell’isola, valutare la diversità tassonomica, le caratteristiche ecologiche dei loro habitat e gli indicatori di cambiamenti ambientali locali e globali. Lo studio consiste nella raccolta di carpofori che presentano dimensioni superiori a 0,5 cm. I sopralluoghi vengono effettuati regolarmente con frequenza variabile in funzione delle stagioni, comunque non inferiore a 15 giorni. Il riconoscimento delle specie avviene in seguito a una valutazione macroscopica degli esemplari raccolti, corredata sempre dallo studio microscopico degli elementi cellulari che rive-

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< Figura 2

< Figura 3

stono importanti caratteri diagnostici (spore, cistidi, basidi, aschi, parafisi, elementi emergenti, trama, ecc.); nei casi in cui si ritenga utile vengono effettuate reazioni macrochimiche e microchimiche. Qualora l’entità, al termine di questi studi, lasciasse ancora qualche dubbio determinativo, verrà sottoposta ad analisi biomolecolari per un confronto con le regioni del DNA delle specie depositate. Inoltre, nel corso di comitati scientifici, ai quali parteciperanno micologi di fama internazionale specialisti in determinate categorie tassonomiche, si potrà giungere al riconoscimento anche di specie di difficile definizione. In questo articolo sono riportati alcuni dati significativi raccolti nella prima campagna autunnale del 2016. La collocazione geografica, la biodiversità delle specie arboree, il terreno sabbioso dell’isola Polvese unitamente al clima mediterraneo, atipico per l’Umbria, sono gli artefici di una fruttificazione fungina del tutto particolare ed estremamente interessante per la presenza di specie rare o comunque poco conosciute. La prima specie che vogliamo segnalare è Battarrea phalloides (Dicks.) Pers. (figura1-2), un fungo gasteromicete agaricoide che cresce solitamente su terreni asciutti e sabbiosi con clima tipicamente Mediterraneo; nasce quasi sempre ipogeo avvolto in una volva semiemisferica, in un primo momento gelatinosa poi asciutta fino ad essiccare completamente; dalla sua spaccatura fuoriesce un lungo gambo fibroso e squamoso di colore biancastro poi bruno ruggine per la maturazione delle spore. Questo pseudostipite sorregge una sorta di cappello di forma semisferica chiamato in questo caso “capitulo”, anch’esso di colore biancastro; a maturazione completa avviene una lacerazione o deiscenza per scissione nella massima circonferenza, la spaccatura dell’endoperidio lascerà libera la polvere sporale nella parte superiore del capitulo. È un fungo che non presenta interesse alimentare, né pericoli per la salute nel caso venisse consumato, anche se lo riteniamo improbabile in quanto sicuramente non appetibile per la consistenza estremamente fibrosa (figura 1 e 2). La seconda specie che vogliamo porre all’attenzio-

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ne è il Myriostoma coliforme (Dicks.) Corda (fig. 3). Si tratta di un genere monospecifico, è un fungo che si presenta in natura semipogeo, in un primo momento a forma sferoidale con involucro esterno (esoperidio) bruno biancastro, che a maturazione si lacera aprendosi a raggiera mettendo in evidenza al suo centro il sacco sporifero (endoperidio) sorretto da numerosi peduncoli rigidi costolati. Alla base presenta un agglomerato di ife che a volte assume l’aspetto di rizomorfa. L’esoperidio si dissocia in lobi appuntiti chiamati lacinie, il numero può variare da 4 fino a 12 (14), negli esemplari osservati la media è di 8-10; inizialmente con apertura appianata poi con l’invecchiamento revoluta all’interno. L’intero carpoforo ad apertura completa può raggiungere dimensioni con diametro di 20 cm. L’esoperidio ha una colorazione da biancastra a bruno chiaro, poi bruno tabacco, in parte anche dovuto alla ricaduta delle spore, la consistenza è fibrosa e con l’invecchiamento diventa coriacea per disidratazione. Endoperidio sferoidale o sub globoso, più ingrossato alla sommità, con un diametro che può raggiungere anche 8 cm; la superficie esterna è biancastra, con riflessi argentei, irregolare, rugosa, con numerose perforature (ostioli) da 20 a 50 che lo fanno somigliare ad un colino (da cui il nome); la consistenza dell’endoperidio è simile alla carta pergamena (figura 3). Altra specie non comune e mai censita a Isola Polvese è Ossicaulis lignatilis (Pers.) Redhead & Ginns (figura 4), fungo appartenente alla grande famiglia delle Lyophyllaceae. Importante per la determinazione di questa specie è l’osservazione al microscopio delle strutture situate nella parte fertile del fungo. Il cappello ha dimensioni variabili da 2 a 7 cm, raramente si trovano esemplari che raggiungono i 10 cm, la forma nei giovani esemplari è convessa per poi divenire appianata con un bordo regolare, la superficie del cappello bianca è ricoperta da una leggera pruina dello stesso colore. Le lamelle sono fitte e leggermente decorrenti, di colore bianco in un primo momento per assumere poi una colorazione crema negli esemplari vetusti. Lo stipite è lungo più o meno


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come il diametro del cappello e finisce con una feltratura alla congiunzione con la parte legnosa (substrato di crescita) dello stesso colore delle lamelle. La sua caratteristica organolettica principale è un forte odore di farina e un sapore mite della carne. L’habitat di questo fungo è rappresentato da legno in decomposizione di latifoglie, la sua crescita contribuisce in modo veloce alla sua distruzione e trasformazione in sostanze assimilabili per le piante ed altri utilizzatori (figura 4). L’ultima entità che vogliamo descrivere è il Pleurotus eryngii var. ferulae (Lanzi) Sacc. (figura 5); è un fungo di buona commestibilità, molto conosciuto negli ambienti dove fruttifica copioso, l’habitat di crescita è particolare infatti cresce associato alla Ferula communis L., una pianta erbacea morfologicamente simile al “finocchio selvatico”, il fungo vive e si nutre da saprotrofo, della radice fittonante della pianta in decomposizione. Questa associazione (pianta e fungo) è tipica delle campagne incolte delle Sardegna, alto e basso Lazio e dell’area Mediterranea in genere. Sono in corso studi di biologia molecolare per capire se è giusto differenziare questo fungo dal Pleurotus eryngii varietà eryngii che cresce su Eryngium campestre L. e presenta lievi differenze a livello del cromatismo della cuticola; si parla in realtà di “complesso eryngii”. La crescita può essere singola, ma anche cespitosa, il carpoforo può raggiungere dimensioni notevoli, infatti il diametro del cappello può arrivare fino a 20 cm, la forma è estremamente variabile, questo

L’isola Polvese può rappresentare un’importante area per la conservazione della biodiversità soprattutto in virtù dello sviluppo ontogenetico del corpo fruttifero: da convesso a piano, depresso, a volte addirittura imbutiforme. Il colore della sua cuticola va dal grigio chiaro al bruno più o meno intenso, la sua superficie a volte liscia è percorsa da fibrille, a volte tomentosa presenta una feltratura grigio nerastra. Orlo sempre involuto, le lamelle lungamente

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decorrenti al gambo; lo stipite, di colore biancastro, si può presentare attenuato alla base oppure corto e obeso, si inserisce al cappello quasi sempre in modo eccentrico. Carne prima tenace, poi elastica, bianca, priva di viraggio. Emana una piacevole fragranza, leggermente acidula con nota aromatica non ben definibile; sapore mite, gradevole e dolciastro. Nel 2011 il Circolo Micologico Naturalistico Perugino insieme al Coordinamento di tutti i gruppi micologici dell’Umbria (A. Mi. Umbria) ha organizzato un Comitato Scientifico residenziale presso l’isola Polvese; in quella occasione micologi da tutta Italia si sono resi conto della grande biodiversità micologica presente in questa zona e hanno contribuito al censimento che proseguirà anche nei prossimi anni. Bisogna considerare che da ottobre ad aprile, con l’interruzione del servizio pubblico di navigazione, l’impatto antropico subisce un importante decremento. È proprio in questi mesi che si possono trovare alcune specie importanti, soprattutto i saprotrofi che crescono nella sabbia lungo le piccole spiagge che, durante la stagione estiva, sono frequentate da turisti e bagnanti (figura 5). Già dalle prime uscite è emerso che il territorio dell’isola Polvese è particolarmente ricco di specie fungine, tra cui specie rare e/o endemiche, molto interessanti dal punto di vista scientifico. In modo particolare sono state descritte quattro specie di notevole interesse fitogeografico e naturalistico: Ossicaulis lignatilis, entità recentemente rinvenuta nell’isola e nuova per la check-list dell’Umbria (Angelini et al. 2016); Battarrea phalloides, presente unicamente all’isola Polvese (Bistocchi et al. 2001), Myriostoma coliforme, che oltre ad essere segnalata per l’isola Polvese è anche stata recentemente osservata nella lecceta del bosco di Collestrada (Angelini et al. 2012; Angelini et al. 2016a,b,c) e infine Pleurotus eryngii varietà ferula (Bistocchi et al. 2001). Sulla base di questi risultati preliminari e grazie a tutti gli studi di biodiversità svolti negli anni passati, si può affermare che l’isola Polvese può rappresentare un’importante area per la conservazione della biodiversità, raccogliendo specie rare e/o minacciate, vulnerabili ed in via di estinzione.

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Bibliografia citata e /o consultata

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Figura 4 >

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Figura 5 >

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GeoUmbriaSUIT: come valutare la sostenibilità del territorio Andra Boggia, Roberta Caliò, Gianluca Massei, Luisa Paolotti, Cecilia Ricci, Lucia Rocchi, Paolo Stranieri

Nato dalla collaborazione fra Arpa Umbria e Università degli Studi di Perugia, GeoUmbriaSUIT 2.0 consente di valutare la sostenibilità delle diverse realtà territoriali, attraverso la produzione di indici economici, sociali e ambientali e l’utilizzo di un set di indicatori. Un utile supporto alle decisioni pubbliche

2.0 è il frutto di G eoUmbriaSUIT un elaborato percorso di collabora-

zione tra Arpa Umbria e il Laboratorio Ambiente, gruppo di ricerca all’interno dell’Unità di Economia Applicata del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari ed Ambientali (DSA39) dell’Università di Perugia; il Laboratorio Ambiente si occupa da oltre 20 anni di tematiche inerenti la valutazione della sostenibilità, ambientale, economica e sociale, includendo lo studio dei risvolti pratico-applicativi nell’ambito delle decisioni pubbliche. GeoUmbriaSUIT è la prosecuzione e l’evoluzione migliorativa del modello di valutazione della sostenibilità. UmbriaSUIT 1.0. Tale strumento, sviluppato nell’ambito della medesima collaborazione nel 2007, rappresentava un modello di monitoraggio ambientale e socio-economico per l’integrazione del principio della sostenibilità nella programmazione regionale dell’Umbria. Era chiaro già da allora, infatti, come le attività antropiche, e le connesse politiche di programmazione e pianificazione degli Enti pubblici, dovessero indirizzarsi sempre di più verso schemi di produzione e gestione del territorio sostenibili. Il modello era quindi indirizzato a definire una metodologia semplificata di monitoraggio delle dinamiche territoriali in atto, che consentisse una lettura integrata delle tematiche sociali, ambientali ed economiche, utile ai fini delle attività di programmazione territoriale nel rispetto del principio di sostenibilità. L’implementazione del modello avveniva tramite un algoritmo di somma pesata calcolata separatamente su due gruppi di indicatori, uno di tipo ambientale e l’altro di tipo socio-economico. Il risul-

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tato era un indice complessivo di sostenibilità, capace di comparare differenti realtà territoriali. Rispetto alla versione 1.0, GeoUmbriaSUIT 2.0 rappresenta un avanzamento notevole, che va a colmare alcuni punti deboli del modello precedente, rendendolo uno strumento molto più flessibile. Il motore centrale del modello rimane costituito da un set comune di indicatori, in grado di rappresentare le dimensioni della sostenibilità, tenendo in considerazione variabili economiche, sociali e ambientali, con l’obiettivo di consentire una sintesi comparata tra diverse realtà territoriali (es. comparazione tra comuni di una stessa regione, oppure comparazione delle regioni all’interno di uno stato, ecc.). I risultati sono ricavati attraverso un modello di analisi multicriteriale, che consente di affrontare problemi complessi valutando singolarmente ma in modo integrato tutte le variabili in gioco, attribuendo a ciascuna di loro la propria importanza relativa. I metodi multicriteriali consentono di comparare e classificare una serie di alternative, valutandole sulla base della loro capacità di raggiungere gli obiettivi rappresentati dagli indicatori utilizzati nell’analisi. Questi tipi di metodi sono particolarmente adatti quando si vogliono comparare diversi scenari, caratterizzati da un profilo multidimensionale, in cui le diverse dimensioni sono spesso contrastanti tra loro, come nel caso di un’analisi di sostenibilità, che implica obiettivi economici, sociali ed ambientali, aiutando in definitiva nella ricerca delle migliori soluzioni di compromesso tra i diversi obiettivi. Rispetto alla versione 1.0, sono stati dunque apportati notevoli avanzamenti. Nello specifico, il nuovo modello

GeoUmbriaSUIT: • è applicabile all’analisi di qualsiasi realtà territoriale, e non focalizzato solo sulla realtà Umbra; • mantiene il sistema di elaborazione degli indici, caratterizzato da trasparenza, semplicità e immediata comprensione, anche per i non addetti ai lavori, arricchendolo però di una procedura denominata back analysis (analisi a ritroso), che consente la tracciabilità completa del processo di valutazione, • integra la componente geografica al suo interno, permettendo una migliore analisi ed elaborazione del dato. In questo modello si ha quindi una integrazione completa tra Sistemi Informativi Geografici (GIS) e Analisi multicriteri; • introduce un nuovo algoritmo di analisi multicriteri, al fine di ridurre la componente soggettiva relativa alla fase di pesatura; • grazie all’integrazione in ambito geografico, gli output ottenibili dal modello sono molteplici. Si ottengono infatti sia output numerici (indici di sostenibilità e tabelle) che output

GeoUmbriaSUIT può essere considerato uno strumento molto utile per la valutazione della sostenibilità grafici e cartografici, rappresentati da grafici e mappe; • la procedura di immissione dei dati è stata semplificata, e c’è la possibilità di inserire nel sistema anche set di dati predefiniti, mantenendo tuttavia la possibilità di approfondimento dell’analisi da parte di utenti più esperti; • approfondisce il livello di analisi di sostenibilità introducendo tre gruppi di indicatori, ambientali, economici e sociali (mentre il modello precedente, UmbriaSUIT, univa in un unico gruppo gli indicatori sociali ed economici) che consentono di analizzare tutte le dimensioni della sostenibilità in modo separato, permettendo comunque la creazione di un indice globale di sostenibilità, ma solo come risultato aggiuntivo; • supera le licenze commerciali attraverso l’utilizzo di licenze libere, coerenti con la GNU GPL ver. 3. Di seguito vengono presentate con maggior dettaglio, ma comunque sinteticamente, le caratteristiche principali di GeoUmbriaSUIT 2.0.

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Figura 1 - Procedura di GeoUmbriaSUIT

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Figura 2 - Immissione dei dati per la analisi Il plugin GeoUmbriaSUIT è gratuito e scaricabile di rettamente dall’elenco dei plugin che si trovan dentro il software open source QGIS.

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Figura 3 - Maschera per l’immissione degli indicatori di tipo ambientale Possibilità di scelta degli indicatori e relativa composizione dei quadri di analisi tematica “Environmental criteria”, “Economic criteria” e “Social criteria”.

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L’intera procedura di GeoUmbriaSUIT 2.0 è stata realizzata in un ambiente GIS open source molto diffuso chiamato QuantumGIS o QGIS (figura 1). Tra le numerose funzionalità esistenti per l’analisi geografica, vi è la possibilità di sviluppo di tools per la personalizzazione del software attraverso la realizzazione di plugin. Il plugin di base è un programma non autonomo che interagisce con un altro programma per ampliarne o estenderne le funzionalità originarie, permettendo l’utilizzo di nuove funzioni, non presenti nel software principale. GeoUmbriaSUIT si configura di fatto come un plugin, scritto in linguaggio python, che impiega le librerie (insieme di funzioni o strutture dati) messe a disposizione dallo stesso QGIS per eseguire le elaborazioni richieste dall’utente. Oltre ad eseguire i calcoli previsti dall’algoritmo di valutazione, i dati di input e di output possono essere gestiti come un qualsiasi altro dato geografico e l’utente è libero di operare ulteriori analisi geostatistiche, operazioni di geoprocessing o di reporting. Si tratta, infatti, di un’integrazione perfetta di una procedura di analisi multicriteriale con lo strumento geografico. La tipologia di dato trattato dal plugin è il formato vettoriale. L’ambiente di sviluppo e di elaborazione, le librerie utilizzate e il repository all’interno del quale il plugin è inserito per il download, impongono che la licenza utilizzata per il rilascio del modulo sia di tipo open source e, nello specifico, una licenza GNU GPL ver. 3. In tale contesto, la scelta operata dagli autori in fase di progettazione risulta essere automaticamente rispettata in conseguenza della tecnologia e della architettura utilizzata nello sviluppo del plugin. Questa scelta è stata dettata dalla volontà di raggiungere più utenti possibili e di dare la possibilità di effettuare analisi di sostenibilità in modo diffuso. La procedura di valutazione della sostenibilità utilizza come base informativa un file geografico, quale ad esempio uno shape file, dove la parte grafica rappresenta l’area di studio con le singole unità da valutare (ad esempio una nazione con le singole regioni o una regione con i singoli comuni), mentre la parte alfanumerica, cioè la tabella degli attributi, descrive gli aspetti ambientali, economici e sociali delle singole unità territoriali, attraverso un insieme di indicatori selezionati. Relativamente ai dati richiesti per il funzionamento di GeoUmbriaSUIT 2.0, è previsto un limitato numero di input da parte dell’utente che, di fatto, si riducono all’inserimento del nome del file di input, di output e del vettore dei pesi utilizzati nella ponderazione. L’immissione dei dati è molto semplice, grazie all’interfaccia grafica costituita da una serie di “maschere” che compaiono una dietro l’altra, guidando l’utente nell’inserimento dati (figure 2 e 3). L’algoritmo multicriteriale con cui sono aggregati

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micron / open data

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Figura 4 - GeoUmbriaSUIT 2.0 - Esempio di output grafico: il grafico a bolle, nella valutazione di sostenibilità delle Regioni Italiane

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Il grafico così detto “a bolle”, permette di rappresentare le tre dimensioni della sostenibilità. Ogni bolla corrisponde ad una alternativa analizzata. La posizione della bolla sull’asse delle x indica il punteggio ottenuto per la dimensione economica, la posizione sull’asse delle y indica il punteggio ottenuto per la dimensione sociale, mentre il colore (dal verde al rosso) indica l’entità della dimensione ambientale.

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I cartogrammi mostrano una deformazione delle aree in funzione dell’intensità dell’indice e della superficie su cui si esprime. Tanto maggiore è l’indice e minore la superficie reale, tanto più essa risulterà deformata in eccesso nel cartogramma e viceversa. legenda

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Figura 9 - GeoUmbriaSUIT 2.0 Output cartografici: un esempio di cartogramma dell’indice globale di sostenibilità.

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Figura 5 - GeoUmbriaSUIT 2.0

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Esempio di output grafico: gli istogrammi, nella valutazione di sostenibilità delle Regioni Italiane

Figura 8 - Esempio di output cartografici – le 4 mappe della sostenibilità In alto, a sinistra la mappa relativa all’indice di sostenibilità ambientale (EnvIdeal), e a destra quella relativa alla sostenibilità economica (EcoIdeal). In basso, a sinistra la mappa relativa all’indice di sostenibilità sociale (SocIdeal), e a destra quella relativa alla sostenibilità globale (SustIdeal). >

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Figura 6 - GeoUmbriaSUIT 2.0- Esempio di output cartografico: la mappa relativa all’indice di sostenibilità ambientale per le regioni Italiane (EnvIdeal). Il colore giallo indica un livello di sostenibilità ambientale molto basso, mentre il colore verde scuro indica un livello di sostenibilità molto alto. Le gradazioni intermedie indicano livelli intermedi di sostenibilità dal punto di vista ambientale.

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Figura 7 - GeoUmbriaSUIT 2.0 - Esempio di output cartografico: la mappa relativa all’indice di sostenibilità sociale per le regioni Italiane (SocIdeal). Il colore giallo indica un livello di sostenibilità sociale molto basso, mentre il colore blu indica un livello di sostenibilità molto alto. Le gradazioni intermedie indicano livelli intermedi di sostenibilità dal punto di vista sociale. Analoghe mappe vengono realizzate per l’indice di sostenibilità economico, e per l’indice globale.

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tra loro gli indicatori che produrranno i tre indici finali è il Metodo TOPSIS (o metodo del Punto Ideale). Tale metodo permette di valutare un insieme di alternative sulla base della distanza di queste dal punto ideale. In particolare, il metodo esegue un ordinamento sulla base di più criteri, impostando un obiettivo a cui tendere (punto ideale o ideal point) ed uno da cui allontanarsi (punto peggiore o worst point) per ciascun criterio di valutazione. Il punto ideale rappresenta quindi un’ipotetica alternativa che ottimizza il valore di ogni criterio, e può trovarsi all’interno del range degli indicatori proposto o al di fuori di esso: il plugin permette assoluta personalizzazione. Se non diversamente indicato,

Figura 10 - La costruzione dell’indice globale

il valore maggiore per ogni criterio diviene il punto ideale, e il valore minore il punto peggiore, o viceversa, a seconda che il singolo indicatore sia considerato un costo o un guadagno. Si è detto che la fase di ponderazione rappresenta un punto di particolare criticità nel percorso di valutazione, a causa delle forte componente soggettiva che la determinazione dei pesi comporta. Non potendo sostituire tale operazione, è stata introdotta una procedura opzionale di confronto a coppie tra i vari criteri scelti per la valutazione, che consente di aumentare il grado di oggettività nella determinazione del vettore pesi. Si noti che l’utente non è costretto ad utilizzare il confronto a coppie, in quanto

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anche il passaggio della pesatura è completamente personalizzabile. Il prodotto finale delle elaborazioni è rappresentato come accennato da output numerici e tabellari, ma anche grafici e cartografici (figure da 4 a 10). Tali output rappresentano gli indici di sostenibilità ambientali, economici e sociali, nonché l’eventuale indice globale, che può essere ottenuto ponderando i valori dei tre indici che lo compongono. La ponderazione delle tre dimensioni per ottenere l’indice globale avviene in modo piuttosto intuitivo, grazie alla presenza di una selezione tramite cursore (Figura 8). Per assonanza con il metodo da cui sono prodotti, gli indici prendono il nome di EnvIdeal, EcoIdeal, SocIdeal e SustIdeal.


micron / open data

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Grazie alla sua licenza Open e alla sua flessibilità di utilizzo, GeoUmbriaSUIT è stato utilizzato e scaricato da diversi studiosi ed esperti del settore. Questo ha fatto sì che negli ultimi tre anni sia stato applicato in ambito nazionale e internazionale in numerose occasioni. A dicembre 2016) il plugin è stato installato in totale 11.739 volte. Sul sito, che contiene il manuale e alcuni tutorial e dati di prova, negli ultimi 12 mesi si sono registrate circa 5.200 visualizzazioni dei materiali, e nello stesso periodo, il manuale utente e i dati di prova sono stati scaricati 215 volte. Allungando l’orizzonte temporale fino alla data di lancio del plugin (giugno 2013), il numero sale. Dal momento del lancio, infatti, le visite sul sito sono state 15.318 con 1.263 download di dati, manuale e tutorial. Presentato in occasione di convegni sia nazionali che internazionali, GeoUmbriaSUIT è stato applicato a differenti casi studio, riguardanti sia aree di studio locali (es. applicazione del modello per la valutazione della sostenibilità dei Comuni dell’Umbria), che nazionali (es. applicazione del modello per la valutazione della sostenibilità delle Regioni Italiane), che internazionali (es. valutazione della sostenibilità delle Comunità Autonome della Spagna). La Tabella 1 riporta l’elenco delle applicazioni di GeoUmbriaSUIT 2.0 divise per categorie. Dai contatti avuti nel corso dei mesi con ricercatori sia italiani che esteri, sono in corso applicazioni aggiuntive (tra cui una relativa alla valutazione della sostenibilità sul territorio di Malta) che però, non avendo ancora la dignità di pubblicazione, non vengono riportate in questa sede. In definitiva, GeoUmbriaSUIT 2.0 può essere considerato uno strumento molto utile per la valutazione della sostenibilità a livello territoriale da applicare anche nell’ambito delle politiche decisionali. Le applicazioni di tale procedura hanno dimostrato una versatilità e una semplicità di utilizzo tale da essere adatta anche per utenti non esperti. L’immediatezza dei diversi output producibili, unita alla possibilità di analisi separate per le componenti ambientali, economiche e sociali, lo rendono idoneo all’uso in ambito di pianificazione e programmazione. E’ auspicabile quindi una diffusione sempre maggiore del modello, ed un suo utilizzo nelle politiche di programmazione locali e internazionali.

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micron / libri

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letture

Gli africani siamo noi Salvatore Marazzita

L’evoluzione delle specie potrebbe essere presentata con l’esempio, divenuto forse classico, della struttura di un albero. Il tronco e le radici rappresentano la comune origine della vita e la ramificazione invece l’insieme delle diverse linee evolutive. Alcuni rami continuano a crescere e svilupparsi, altri si sono spezzati nel corso della storia evolutiva o germinati in linee più piccole, componendo per l’occhio retrospettivo dello scienziato una grandiosa e complessa struttura vitale. L’albero delle specie continua a crescere lentamente sotto i nostri sguardi con la maestosa calma e l’inarrestabile camminata che solo la natura può permettersi a pieno. Il tentativo di Goethe di rintracciare la “Urpflanze”, l’impianto archetipico della pianta originaria dalla quale deriverebbero tutte le altre, può essere visto come un tassello nel percorso della storia della scienza che ha mostrato i suoi frutti, tra gli altri, nella speciale intuizione di Darwin presentata ne L’origine delle specie. Una strada, affatto lineare, ha portato poi a leggere la teoria darwiniana attraverso la lente della genetica, per alcuni studiosi vera chiave di volta della storia evolutiva. Sostenute da alcune interpretazioni della biologia dell’evoluzione, sempre nel XIX secolo si cominciano a sviluppare teorie, che si sarebbero in seguito rivelate false, sulla diversità delle razze nella specie umana. Guido Barbujani, professore di genetica all’Università di Ferrara, con Gli Africani siamo noi, si addentra nel mondo della teorie razziali, che hanno generato e continuano ad alimentare conflitti di grandi dimensioni. Queste idee indicano sovente una presunta giustificazione biologica ed evolutiva a limiti, confini, separazioni, muri ideologici o reali, in sostanza al dominio dell’uomo sull’uomo. La biologia moderna abbandona il paradigma razziale e mostra invece che la radice comune della nostra umanità, il nostro essere uomini e donne, nel senso stretto dei termini, attraverso una lunga e lenta storia di migrazioni, modificazioni e forme umane diverse, è da rintracciarsi nell’Africa di 60.000 anni fa, momento in cui nasceva l’uomo come specie che si sarebbe poi diffusa in tutto il pianeta. La scoperta dell’origine comune dell’uomo non è stata nella storia del pensiero scientifico affatto scontata. Per secoli si sono utilizzate argomentazioni pseudoscientifiche per parlare, denuncia l’autore, di differenze biologiche e di inferiorità di razza, al solo fine di trarre conclusioni di carattere politico, certamente non per gli scopi propri della scienza. Parlare scientificamente di razza deve includere giocoforza una componente etica: non si può parlarne come se il razzismo non fosse esistito. L’ambiguità del termine infatti porta con sé la possibilità concreta di far slittare la discussione in campi che con la scienza hanno poco a che fare. Il libro intende quindi muoversi nell’orizzonte scientifico

letture

e, per quanto sia complesso, consentire una riflessione sul concetto di “razza biologica”, con l’obbiettivo di mostrare che altri usi e altri significati di questo termine sono scientificamente impropri. Il concetto di razza e la sua traduzione pratica hanno fornito e forniscono ancora la possibilità di sviluppo di fenomeni sociali ben noti: xenofobia, razzismo, rifiuto del diverso. Non possiamo allora neppure immaginare che la scienza lavori per compartimenti stagni e che non abbia ripercussioni sulla società. La narrazione è scandita secondo uno schema letteralmente spazio-temporale. Abbiamo un tempo e un luogo che fanno da incipit per gli approfondimenti storico-scientifici sull’argomento. La prima tappa è l’Italia fascista del 1938, data di pubblicazione del manifesto degli scienziati razzisti. L’analisi degli enunciati che intendevano educare l’Italia al razzismo e la dimostrazione della loro incoerenza scientifica, conducono l’autore ad un balzo temporale notevole che giunge direttamente nel cuore del processo che vede scomparire per sempre l’uomo di razza cosiddetta europea: siamo nel 40.000 a.C. Ci si sposta poi nella Germania del 1850, a Cambridge, poi in Oriente, a Seul e in altri luoghi e tempi che hanno fatto la storia scientifica di una teoria controversa e potenzialmente dannosa per l’umanità stessa. Il percorso tracciato da Barbujani lungo queste vette del tempo mostra che la vita sulla terra è un evento complesso, articolato e molto lungo ed evidenzia con chiarezza come l’uomo sia un evento recente nella storia dell’universo. Tale consapevolezza dovrebbe condurre gli studiosi delle differenze tra gli esseri umani a ripensare in maniera netta il concetto di razza, forse ad abbandonarlo per sempre, questo con vantaggi sia dal punto di vista scientifico, in quanto non ci sarebbero motivazioni razionali a sostenerlo, sia dal punto di vista etico a beneficio di tutta la “razza umana” che, parafrasando una nota battuta attribuita ad Einstein, è l’unica che conosciamo e alla quale possiamo dire di appartenere.

Gli africani siamo noi Alle origini dll’uomo

GUIDO BARBUJANI Editori Laterza, anno 2017 pp. 148, euro 15,00

Come ci stiamo mangiando il pianeta Maria Giovanna Pagnotta

Come affermava il filosofo Feuerbach, “noi siamo quello che mangiamo”. È infatti noto come l’alimentazione rappresenti uno dei bi-

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sogni primari del ciclo vitale di un essere vivente. Nonostante il cibo risulti essere l’elemento centrale della nostra esistenza, oggi sono realmente poche le persone coscienti di ciò che mangiano ogni giorno. Fino agli anni Ottanta gli alimenti, oltre ad essere fonte di nutrimento, hanno sempre avuto anche una forte valenza culturale, caratterizzando le peculiarità dei diversi popoli e delle diverse nazioni. Ai nostri giorni questa tendenza sembra essere totalmente capovolta. La globalizzazione infatti, con i suoi numerosi paradigmi dell’industria alimentare, agricola e dell’allevamento intensivo ha reso gli stili alimentari delle popolazioni del mondo molto più omogenei. Le diverse diete in tutto il mondo sono diventate sempre più diversificate ma con l’inevitabile conseguenza di essere tra loro sempre più simili, fenomeno che ha ineludibilmente veicolato una perdita d’identità gastronomica. Gran parte del settore alimentare è nelle mani di pochi grandi gruppi aziendali che, con il solo obiettivo del lucro, fanno arrivare nelle nostre tavole il cibo, da loro scelto come capitale speculativo di avidi profitti, privando i popoli della loro legittima sovranità alimentare. Questa sorta di “franchising planetario del cibo” disorienta il consumatore che, di fatto, dispone di pochissime informazioni sugli alimenti che porta a tavola. “I signori del cibo” di Stefano Liberti è un libro d’inchiesta che riguarda il nostro vivere quotidiano e fa luce sui pochi grandi ingranaggi di un complesso meccanismo che regolano la quasi totalità del mercato del cibo. Liberti ricostruisce la filiera alimentare di quattro prodotti centrali nella dieta alimentare di gran parte della popolazione globale: la carne di maiale, la soia, il tonno in scatola e il pomodoro concentrato. Il giornalista indaga questi quattro alimenti attraverso una ricostruzione dei processi che hanno portato il cibo a diventare una mera merce di scambio. Il cibo è diventato un prodotto che viaggia da un angolo all’altro del pianeta seguendo gli imperativi economici di poche grandi multinazionali con un rapporto puramente estrattivo con la terra. Unico obiettivo: massimizzare i guadagni nel più breve tempo possibile, fino al totale ed inesorabile dissipamento della risorsa. L’autore le definisce “aziende locusta”, create dall’alleanza tra gruppi alimentari e fondi finanziari. Multinazionali che, dopo la crisi del 2008, hanno cominciato a puntare sulla produzione e sulla commercializzazione dei beni alimentari, spinti da semplici quanto efficaci motivazioni: la crescita della popolazione mondiale accompagnata da un cambiamento importante della dieta in Paesi molto sviluppati e popolati come la Cina, dove ad esempio era ed è in corso un aumento esponenziale del consumo di carne. Tutti questi fattori hanno reso l’investimento nel settore molto appetibile, partendo poi dal presupposto che i terreni su cui produrre alimenti destinati sia all’alimentazione umana che a quella animale non sono infiniti. In questo modo i vari Paesi del mondo, a seconda delle necessità, diventano una grande fabbrica di alimenti

che poi verranno trasportati ovunque grazie a un commercio senza barriere. Quella di Liberti è una ricostruzione durata due anni, che percorre a ritroso i processi della filiera agro-alimentare: dal prodotto finito esposto nei banconi del supermercato agli allevamenti di maiali intensivi in America, poi riprodotti con meticoloso scrupolo in Cina. Dalle sconfinate monoculture di soia in Brasile che stanno distruggendo l’ecosistema, fino alla Puglia, dove gli emigrati Ghanesi raccolgono a nero i pomodori che poi verranno rivenduti come concentrato nel loro stesso Paese, mandando sul lastrico i produttori locali. Dagli oceani saccheggiati dai grandi pescherecci delle “aziende locusta” per garantire scatolette di tonno sempre più economiche, fino ad attraversare il mondo intero quasi a creare un’enorme catena di montaggio globale. In risposta a quello che sembra essere l’unico modello globalizzante, l’autore vuole presentarci anche molte iniziative a sostegno dei sistemi di cibo locale, dei “David visionari” come li definisce, che si trovano a combattere contro dei grandi Golia semiciechi che cercano di piegare la natura ai loro profitti. Dei combattenti tanto tenaci quanto ancora deboli e disarmati in confronto ai Golia delle multinazionali che sfruttano la terra per incassare dividendi. Ma i modelli di filiera corta che si propongono i paladini della piccola agricoltura sono davvero pronti ad imporsi a livello globale o si tratta di una nicchia per consumatori abbienti con la fortuna di potersi permettere cibi sani e conseguentemente costosi? Liberti con la sua inchiesta non intende fornire al lettore una semplice soluzione al problema, ma bensì contribuire ad accendere un dibattito sulla questione, ad oggi sempre più incalzante. Secondo le previsioni dell’ONU infatti, nel 2050 la popolazione mondiale ammonterà a 9 miliardi di persone. La produzione intensiva che non tiene conto di costi sociali, ambientali e culturali, non può più essere considerata come l’unico sistema capace di fornire cibo ad una popolazione mondiale in crescita. Quello che l’autore sottolinea è la necessità stringente di cambiare abitudini alimentari ed attuare un modello alternativo di produzione cominciando proprio dalla sensibilizzazione e dall’accrescimento della consapevolezza dei consumatori stessi.

I signori del cibo Viaggio nell’industria alimentare che sta distruggendo il pianeta

STEFANO LIBERTI minimum fax, anno 2016 pp. 327, euro 19,00

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controllo prevenzione protezione dell’ambiente Fabio Mariottini - Cina

Hanno collaborato a questo numero: Andrea Arcangeli

Circolo Micologico Naturalistico Perugino

Paola Angelini

Dipartimento di Chimica, Biologia e Biotecnologie dell’Università degli Studi di Perugia

Giancarlo Bistocchi

Rosalba Padula Arpa Umbria

Maria Giovanna Pagnotta Giornalista

Luisa Paolotti

DSA3, Università degli Studi di Perugia

Circolo Micologico Naturalistico Perugino

Antonio Pilello

Andrea Boggia

Stefano Pisani

DSA3, Università degli Studi di Perugia

Roberta Caliò Arpa Umbria

Cristina Da Rold

Comunicatore della scienza

Stefano Liberti

Giornalista Scientifico

Gianluca Massei

DSA3, Università degli Studi di Perugia

Salvatore Marazzita

Comunicatore della scienza

Giuseppe Nucera

Comunicatore della scienza

Comunicatore della scienza

Giornalista Scientifico

Cristiana Pulcinelli Giornalista Scientifica

Cecilia Ricci Arpa Umbria

Lucia Rocchi

DSA3, Università di Perugia

Irene Sartoretti Architetta

Paolo Stranieri Arpa Umbria

Roberto Venanzoni

Dipartimento di Chimica, Biologia e Biotecnologie dell’Università degli Studi di Perugia

In un periodo storico contrassegnato dall’omologazione, le immagini di questo numero vogliono mostrare un mondo in cui la diversità può contribuire ad abbattere muri e barriere.


36 ecologia, scienza, conoscenza


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