Arte&Sensi n.2

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VISTA SENSE of SIGHT

COPIA OMAGGIO

euro 2,50 N. 2 - Anno 2009 Aprile-Maggio-Giugno Trimestrale di Arte Cultura e Attualità

A&VISTA: il fascino dei Samurai A&GUSTO: Gualtiero Marchesi, il “quadro” è servito A&OLFATTO: fragranze d’Italia A&UDITO: Ravello 2009

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Opere da osservare, gustare, ascoltare, toccare e odorare

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ARTE

Sp

Registrazione al Tribunale di Milano n°560 del 29 Settembre 2008 - ISSN 2036-3184

A&TATTO: cinema e Make up

e Maga zin


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EDITORIALE

rso e v a ttr a a t ssu si, i v , e L’Art que senessere ta, i cin tinua a tagonis con era pro la sua la v averso la sua ttere attr nza e trasme esseacità di ali cap zioni re nti emo involge e co

La “forza” dei sensi

Non nascondo che mi risulta assai difficile scrivere questo editoriale senza alcuna vena di imbarazzo. Non tanto per il mio improvviso, quanto inaspettato, ruolo di nuovo Direttore editoriale, ma per la defezione di un vero e proprio “pezzo” di storia della nostra rivista. Mi riferisco a uno dei grandi artefici di questo progetto editoriale, Alessandra Lucherini, dalla cui creatività e intuizione ha preso forma il progetto Arte & Sensi. A lei e al suo operato vanno i più sinceri ringraziamenti di tutti componenti della redazione e i migliori auguri di grandi traguardi personali e professionali. Dopo il successo del primo numero e la successiva consacrazione all’ultima edizione del Festival di Sanremo, continua quindi la nostra avventura con una nuova formula editoriale, rivista sia nella grafica sia nei contenuti; innovazioni a cui si è aggiunta anche una nuova formula distributiva equamente ripartita tra edicole, aziende partner e location altamente selezionate. Non solo. Accanto a queste innovazioni trova posto anche l’anima multimediale di Arte & Sensi, grazie al nuovo website istituzionale. Su Artesensi.it troveranno infatti posto immagini, contributi video e i più moderni strumenti di interazione con i lettori, tipici del Web 2.0, a testimoniare, ancora una volta, come Arte possa essere sinonimo di tecnologia e innovazione. Attenzione, però, a confondere questa riorganizzazione come un passaggio obbligato, ma a intenderla, invece, come uno step fondamentale per la crescita e l’evoluzione di una giovane e ambiziosa testata giornalistica che, ne siamo convinti, avrà sicuramente successo. L’Arte, vissuta attraverso i cinque sensi, continua a essere la vera protagonista della nostra iniziativa, non tanto sotto il profilo del valore artistico e culturale propriamente detti, ma attraverso la sua essenza e la sua capacità di trasmettere emozioni reali e coinvolgenti. E a far da sparring partner a questo turbinio di sensazioni, l’italian style, vissuto non solo come Made in Italy ma, soprattutto, come lusso ed eccellenza, sia di valori sia di significati. “Arte in vista” recita la nostra copertina, e sarà proprio questo il “claim” su cui intendiamo continuare la nostra avventura. Buona lettura a tutti... di Roberto Bonin

ARTE&SENSI 5


SOMMARIO

10 Parola di Dipré 12 A&S VISTA

34

All’ombra del Sol Levante

17

Viaggio al termine della notte

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Bruno Fael: una vita per l’arte

24

Medicine d’autore

20

28 A&S GUSTO

Gualtiero Marchesi, piatti in mostra

67

30 Fragranze d’Italia 34 A tutte bollicine 38 A&Olfatto

54

ll verde intenso degli ulivi

42 ‘A tazzulella di espresso italiano 48 A&S UDITO Giovanni Lucchi “Una vita per gli archi”

51 Il fascino della Belle Epoque 54 Viaggio nell’olimpo della liuteria 56 Ravello 2009: il mito continua 60 A&S TATTO

28 24

Il benessere nasce dal Make-up

6

64 67

“Vestire” il cinema per passione

70 72 74

Saranno (sicuramente) famosi

76 80

Lifestyle

Da 400 anni al servizio della Madonnina

La fabbrica degli artisti Da 100 anni sul promontorio estremo dei secoli

Il sogno americano

ARTE&SENSI

51 60


ART MARKET IDEO PANTALEONI Un gentiluomo dai gusti moderni

86 89

MUSEO DI RAVENNA L’Artista viaggiatore

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MARIO CIUFO Ritratti della natura

38

64

CARLO GUSMEROLI Un cuore lombardo LORENA GARNERONE Lorena Garnerone

91

PAKI Passione colore

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MARISA PEZZOLI The Happiness in NY SARA BORRONI Geometrie d’autore ANTONIO CHICONI Sogni sudamericani

94

FIORELLA LIMIDO Oltre l’apparenza

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SUSANNA VIALE Arte da comunicare

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DOMENICO PORPORA La Donna...essenza nell’arte di Porpora

12 30

80

PIETRO MARIO SCARSI Bioedilizia e Bioarchitettura

101

UBALDO BRICCO Ovunque c’è musica

102

CIRO ONDA Messaggi dell’anima

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GUIDO RIPAMONTI Pulsioni d’autore

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ALESANDRO DOCCI Atmosfere e quotidianità

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SANDRO LEONARDI La scultura dei sensi LUCA LISCHETTI La cognizione del dolore

56 72 Opere da osservare, gustare, ascoltare, toccare e odorare. Arte & Sensi continua la sua avventura editoriale affrontando il mondo dell’Arte da un punto di vista diverso da quello a cui si è solitamente abituati. L’Arte è ovunque: vicino, attorno e addosso... basta solo saperla cogliere...

100

108 110

CATERINA BONAVITA Preziosi segreti

112

BRUNO GOLIN Semplice spontaneità

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STUDIO ELLE Dove i sogni incontrano la realtà

118

ART EVENT

120 ARTE&SENSI 7


ARTE & SENSI

Arte & Sensi

Trimestrale di Arte, Cultura e AttualitĂ

Registrazione al Tribunaledi di Milano 560 del 29.09.2008 Trimestrale Arte n.Cultura e AttualitĂ Iscrizione R.O.C. n. 17796 del 15.01.2009 Registrazione al Tribunale di Milano n. 560 del 29/09/2008 ISSNIscrizione 2036-3184R.O.C. in fase di registrazione Anno 1 – Numero Aprile 20091 Dicembre 2008 Anno 1 - 2Numero Direttore responsabile Direttore Responsabile Andrea DiprĂŠ Andrea Diprè - andrea.dipre@artesensi.it

Direttore generale Direttore Augusto Carrera generale

Augusto Carrera - augusto.carrera@artesensi.it

Direttore editoriale Direttore Roberto Bonin Editoriale

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Art director Redazione Eleonora Ambrosini

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La Felceper IEAC srl www.ieac.it Si ringraziano la collaborazione: Bagni di Bormio Spa Resort, Logis d’Italia, My Air, Ravello Festival 2009,anche Tuttogargano.com, UniversitĂ degli forma Studi didel Foggia, Termecontenuto, Milano, La riproduzione parziale e sotto qualsiasi materiale Terme PrĂŠ Saint Didier e diffusa sottoforma elettronica, è espressamente vietata anche rielaborata senza l’autorizzazione scritta dell’editore. Tutti i diritti sui testi, manoscritti,

Numero chiusografico in redazione il 22.04.2009 materiale e fotografico sono di proprietà dell’editore.

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PAROLA DI DIPRÈ

La bellezza nell’arte contemporanea A

Agli inizi del Novecento, la bellezza di I Surrealisti reagirono alla soppressione del conun’opera d’arte, come d’altronde quella tenuto esplorando nuovi territori tematici, presi a del volto o del corpo umano (e ugualmente prestito a un inconscio da rivelare, attraverso i sogni ineffabile), consisteva nella struttura o configurazioo la scrittura automatica. La generazione di Pollock ne, ovvero nella sua integritas e consonantia: due in America e gli Informali europei hanno proiettato qualità che combinandosi ne implicano una terza, la propria intima verità in un linguaggio espressivo la claritas, parafrasabile in quidditas, “l’essenza di non figurale. una cosa”. Questa considerazione ci riporta all’ineL’autoreferenzialità dell’arte dei nostri tempi è cosauribile piacere suscitato in noi, per esempio, dalle munque capace di produrre esiti alti, che ci comopere di Constantin Brancusi o Paul Klee, nelle muovono in modo misterioso: Autumn Rhythm quali non vi è riferimento alcuno al nudo classico o di Pollock (1950), Beta Kappa di Morris Louis a una narrativa eroica. È una sensazione di gioia che (1961), le ultime opere di Richard Pousette-Dart e va oltre le definizioni. Clive Bell (Art, 1914) provò numerosi lavori di minimalisti come Ryman e Judd, a precisarne il manifestarsi con l’espressione «forma o quelli di artisti viventi, si pensi alle sculture in significante», senza per altro essere in grado di spieferro (Corten) di Richard Serra e ai pezzi non figugarla. Bell scriveva nel periodo in cui si discuteva rativi di Anthony Caro. Andrea Diprè del Postimpressionismo e del Cubismo, di recente Tale definizione di bellezza come configurazione scoperti in Inghilterra. in sé ha avuto vita sino a quando veicoli primari Critico d’arte L’enigma e il pregio del Cubismo, nella fase iniziale, d’espressione per le avanguardie o per l’arte che televisivo di Picasso e Braque, ma anche di Derain, Léger e conta erano considerati la pittura e la scultura. Dagli in onda su Delaunay, era appunto di avere, almeno in parte, anni Settanta, ogni Biennale o fiera d’arte testimonia privato il costrutto pittorico del simbolo, del fattore della profusione di strade e linguaggi: fotografia, molSky 935 emozionale, della metafora, di tutto quanto era metiplicarsi delle riproduzioni, video, land art, light art, Dipré Art Channel moria o associazione di idee. Anche il colore, proarte concettuale, installazioni, la “contaminazione”, prio per la sua carica emotiva, era stato sacrificato. Si che esce da parametri definibili, di dipinti e sculture cercava di raggiungere la quidditas. Spiega Harold con altri media. L’artista di oggi padroneggia un vaOsborne: «Come spesso accade quando si inizia stissimo repertorio di contenuti, còlti da un vissuto a sfaldare una consapevolezza diffusa, ciò che non è essenziale tende a quotidiano: culturale, politico, sociologico, cosmico, urbano, scientifico, essere visto come non pertinente». storico, geografico, critico, autobiografico. I capolavori del passato (siano essi la Venere di Willendorf, la cupola di La bellezza che deriva da una natura idealizzata è pressoché antitetica Sant’Alipio nel nartece di San Marco a Venezia, la cattedrale di Amiens, all’arte più avanzata; un bello frutto di una forma esteticamente piacevole l’Assunzione della Vergine di Tiziano o Il giuramento degli Orazi di David) in pittura e scultura è visto come storicizzato e ridondante, al massimo ci hanno abituati al principio che la forma debba equipararsi al contenuto. appare come l’ospite ben accolto ma non necessario alla festa. Ciò che Con Matisse, i cubisti e alcune avanguardie derivate dalle loro ricerche, è oggi accomuna gli sforzi dei nostri artisti nel comunicare attraverso le loro la forma stessa a divenire contenuto e l’opera si fa autoreferenziale al pun- opere è proprio quel concetto tenue ed etereo della bellezza come ricerto da non essere nulla di più e nulla di meno del contenuto stesso. Il che ca della verità (personale o universale), quantunque possa essere parziale ha eliminato un aspetto fondamentale della comunicazione, aspetto tuttora o ristretta. La bellezza quale componente di un’estetica contemporanea disperatamente rimpianto da orde di disorientati visitatori dei musei d’arte sopravvive come nell’ultimo verso di John Keats in Ode on a Grecian moderna. Dove sono, si chiedono, gli odierni equivalenti dell’Apollo e Urne: «Il bello è verità, la verità bellezza, e questo è tutto quello che Dafne di Bernini o della Ronda di notte di Rembrandt? conoscerete sulla terra e tutto quello che avete bisogno di sapere». ø 10

ARTE&SENSI



VISTA

all’ombra del

Dal 25 febbraio al 2 giugno, il fascino e il mistero degli antichi guerrieri Samurai hanno invaso le sale di Palazzo Reale a Milano

SOL LEVA NT E di Laura Forno

E

Etimologicamente Samurai significa “colui che serve l’Imperatore” e in questa definizione si raccoglie lo spirito dei nobili guerrieri giapponesi: dediti al combattimento, devoti al loro padrone, rigidamente incasellati in una struttura sociale poco permeabile e suddivisa in classi. Le loro armature sono sorprendentemente diverse dalle antiche corazze medievali, più leggere, molto colorate, riccamente addobbate e finemente decorate e i loro riti, durante e prima di un combattimento, riportano soprattutto alla filosofia Zen. “La società giapponese, anche oggi, è piena di contrasti che difficilmente potrebbero convivere in un’altra realtà: di fianco alla donna che veste il tradizionale kimono, si può trovare una ragazza più giovane con i capelli blu che veste all’occidentale. Sono i paradossi del Giappone: singolare è anche il fatto che la violenza si accompagni alle Haiku, poesie giapponesi che scrivono gli stessi Samurai”, spiega Roberto Granati, autore del libro “Storia del Samurai e del Bujutsu”. “La forte devozione al lavoro tipica oggi della società giapponese, deriva proprio dalla atavica dedizione dei Samurai per la loro missione e dal loro fortissimo senso del dovere”. La società giapponese del periodo Edo (1603-1868), l’epoca in cui i Samurai salgono al potere, è fortemente influenzata dallo shintoismo e dal neoconfucianesimo, il primo che predica una forte presenza immanente del divino nella natura e nel mondo e il secondo, importato dalla Cina, che dà particolare importanza alle relazioni umane, alla tradizione, all’obbedienza assoluta ai genitori e all’autorità come mezzo per mantenere l’armonia sociale. Nel periodo Edo il neoconfucianesimo si diffuse maggiormente, soprattutto fra le persone di cultura, gli intellettuali e i militari e influenzò particolarmente la classe dei guerrieri Samurai. Senza questa premessa, in effetti, non sarebbe chiara la precisione e la particolare attenzione ai particolari che sono state messe nella creazione delle

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armature dei Samurai, ricchissime di colori e di temi naturalistici: il culto per l’autorità e la devozione al proprio padrone portano a una cura esasperata per il dettaglio delle armature proprio perché sono indossate durante l’esercizio di una particolare missione e la frequente presenza di animali nelle decorazioni degli elmi è invece un richiamo allo shintoismo. In effetti, le corazze della mostra “Samurai” a Palazzo Reale di Milano (dal 25 febbraio al 2 giugno 2009) stupiscono al primo sguardo i visitatori per la varietà dei colori con cui sono state confezionate: l’arancione, il verde, il blu, il marrone, l’ocra e il neutro sono le tonalità ricorrenti, con l’ eccezione di due che sono interamente realizzate in lacca rossa. In realtà la struttura non dà esattamente l’impressione di un guerriero massiccio: il tronco e la testa delle armature non sono particolarmente imponenti, il che sta forse a significare che a quell’epoca i giapponesi non dovevano essere molto alti di statura. Cosi come sono state allestite ricordano dei piccoli robot con le gambe corte (ci sono soltanto i gambali) e con tronco piccolo ma compatto. Di forte impatto sono gli elmi, su cui cade subito l’attenzione, molto scenografici, spesso sormontati da corna o da particolari elementi decorativi: draghi, conchiglie, aragoste e conigli in corsa. Un pezzo unico, probabilmente risalente alla fine del XIX secolo, è a forma di testa di orso ed è stato realizzato completamente in harikake (cartapesta laccata) e crine, con inserti in lacca rossa. Le forme stravaganti, inusitate e bizzarre degli elmi, iniziano a comparire durante il periodo Momoyama (1568-1603), epoca in cui l’identità, la personalità e l’abilità marziale dei singoli combattenti sono particolarmente valorizzate. L’elmo è solitamente costituito da una base in ferro, sulla quale è montata una cospicua sovrastruttura in cartapesta laccata, che può essere modellata nelle forme più inconsuete, perfino fazzoletti drappeggiati. Nella stessa epoca cominciano a essere usati gli elmi derivati da prototipiÿ


L’elmo è solitamente costituito da una base in ferro, sulla quale è montata una cospicua sovrastruttura in cartapesta laccata, che può essere modellata nelle forme più inconsuete. La parte esterna, detta shikoro, cioè paracollo, generalmente è formata da piastre legate l’una all’altra e l’ultima di queste, è di un colore diverso dalle altre


VISTA

Le poesie Aiku La raffinatezza dell’arte giapponese si manifesta in una delle forme poetiche più affascinanti e più leggere. Soffi Zen che si contraddistinguono per la chiara allusione al tempo a volte esplicita, altre invece più sottesa. Piccole espressioni artistiche composte da tre strofe di poche sillabe, gli Aiku rappresentano autentiche perle di saggezza che aiutano a catturare i momenti più suggestivi della vita e racchiuderli in una struttura che contiene sempre la parola tempo denominata Kigo. Immagini non ripetibili che indicano le motivazioni profonde della vita le quali appaiono sempre con chiarezza ai nostri occhi, basta fidarsi delle nostre intuizioni e ascoltarle e poi tradurle su carta. L’essenza di queste piccole perle è un insegnamento che si racchiude in un semplice assioma: la felicità in fondo è un sottile e leggero atto di dileggio, delicato, sentimentale, per imparare a godere del poco che è sempre sotto i nostri occhi ma che spesso non vediamo. Un modo di vivere che si sposa a tutta la filosofia giapponese e getta luce su di essa con l’intuizione e la levità tipica del pensiero orientale. Aiku sembra far rima con Zen, tradotto in italiano con essenziale, con silenzio, con meditazione, con spazio della coscienza per catturare la luce nel momento in cui è nel suo massimo splendore o per catturare il buio nel momento in cui è al suo culmine. L’arte sta tutta nel catturare le immagini in quel particolare momento, atto che contraddistingue l’Aiku d’autore da quello dei comuni mortali. A volte l’Aiku è frutto di un lungo percorso, a volte come esigenza dell’animo ma di certo come un’esperienza che non impoverisce mai. (P.D.)

n I Samurai andavano a piedi e avevano bisogno di un’armatura piuttosto leggera, per questo non venivano fatte interamente in ferro, ma soprattutto di pelle lavorata

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occidentali, detti nanban kabuto. Con la parola nanban, che significa letteralmente “barbari del sud” i giapponesi si riferivano agli europei, giunti nell’arcipelago nipponico nel 1543, provenienti dai porti e dagli scali portoghesi, spagnoli e olandesi dell’Asia Insulare e Meridionale. Un discorso a parte meritano le armature dei Samurai: sono molto lavorate e impreziosite da inserti e ricami. Non sono fatte di ferro, solo una piccola parte è di questo materiale, per la maggior parte sono fatte con pelle lavorata, e in alcuni casi, la pelle, per essere più resistente, veniva addirittura bollita. Un altro materiale usato è la lacca, rossa e trasparente. In alcune armature la copertura con parecchi strati di lacca ha modificato il colore originario: l’oro è diventato arancione. Il freddo delle parti metalliche e del kozane si alterna alla dolcezza del calore del filo di seta e alle cromie forti della lacca. I Samurai andavano a piedi e avevano bisogno di un’armatura piuttosto leggera, per questo le armature non venivano fatte interamente di ferro. La parte esterna dell’elmo, detta shikoro, cioè paracollo, generalmente è formata da piastre legate l’una all’altra e l’ultima di queste, nel caso in cui il possessore dell’elmo sia di alto rango, è di un colore diverso dalle altre. La raffinatezza delle decorazioni è un tratto comune di queste armature che sembrano create come esemplari assolutamente unici. Nessuna corazza è uguale all’altra: i creatori hanno usato tutta la loro intuizione per differenziare questi pregevoli tesori: un’armatura ha una particolare protezione sottoascellare finemente lavorata, un’altra una cerniera sul fianco, nei modelli particolarmente preziosi è prevista una doppia protezione alla gola. La più pregiata è rivestita completamente di pelle di razza sul davanti e sul dietro: la razza è un materiale particolarmente nobile, di cui sono fatte anche le impugnature delle spade. Spettacolare è un armatura per cavallo, con il muso di drago, che è curiosamente composta da lamelle di pelle bollita dorata, con lunghe bardature laterali in tessuto sfrangiato arancione. Tutto l’insieme dà l’impressione di grande leggerezza ma di grande solennità. Pezzo unico di questa collezione è una corazza della seconda metà del periodo Edo interamente realizzata in pelle bollita, ad eccezione del paracollo, che è in


I tessuti

L’armatura dei Samurai deve coniugare eleganza e funzionalità e i materiali che la compongono devono essere facilmente conformabili dagli abili artigiani giapponesi. La lacca, la seta e la pelle e il ferro, in realtà usato in minima parte, sono gli elementi costitutivi delle corazze dei nobili guerrieri. La lacca, in giapponese urushi, è una linfa viscosa ricavata dall’albero della Rhus Verniciflua, che, dopo una serie processi di lavorazione, diventa un liquido trasparente, viscoso, impermeabile, duro e lucido, che può essere unito a coloranti vegetali e usato anche come protezione contro l’umidità. Una volta solidificata, diventa un materiale estremamente duro e, compattata in strati, può essere paragonata, come resistenza, al ferro. Un altro materiale usato, soprattutto per finalità ornamentali, è la seta, in giapponese kinu, che in genere serviva per unire le varie parti dell’armatura fra di loro. La seta veniva tessuta in modo particolare, esclusivamente a mano e i colori maggiormente usati per dipingerla erano il cremisi, il blu scuro, il rosso, il rosso indiano, il bianco, il giallo, il verde, il verde autunnale e il blu chiaro. Il cuoio bollito, in giapponese kozane, insieme all’acciaio, costituisce l’anima dell’armatura: piccole lamelle di questi materiali venivano unite tra di loro, garantendo una eccezionale robustezza e un’ottima libertà di movimenti.

ferro. Di particolare pregio e originalità è l’elmo, decorato con vere piume di pavone e con uno straordinario ushirodate (parte posteriore dell’elmo), creato con una coda di felino selvatico. Una sezione particolare della mostra è dedicata quasi interamente alle spade: la bellezza e la perfezione della fattura le rendono uniche nel loro genere. Nell’antico oriente, i fabbri erano molto stimati e il loro mestiere era tenuto in altissima considerazione, persino un imperatore si cimentò con questa professione. La produzione delle armi subì una netta modifica nel momento in cui i samurai smisero di combattere a cavallo e iniziarono a combattere a piedi: le spade divennero più corte e vennero infilate nella cintura a differenza di prima quando erano appese all’armatura. Le finissime decorazioni dei

foderi e dell’elsa si accordavano con le cura dei particolari delle corazze dei Samurai e, anche se i colori sono più spenti - prevalgono il marrone e l’oro - i disegni e le bordature sono davvero unici: una fettuccia di seta color ocra è avvolta sulla montatura di un’elsa, il fodero spesso è finemente dipinto in lacca color oro, e l’impugnatura e costituita da tessuto resistente e colorato. Su un’arma particolarmente raffinata, oltre ai disegni sul fodero, lo stemma familiare che rappresenta cinque stelle è dipinto su ogni finimento metallico. Di rara bellezza è una coppia di spade con un’impugnatura molto sofisticata. Entrambe hanno una fittissima lavorazione in oro che decora tutta l’elsa: un fregio di fiori di ciliegio sormontato da una luna piena in una delle due spade e da una luna calante nell’altra. Una fettuccia di seta avvolge la parteÿ

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VISTA

superiore. Originale è anche la forma a barca di un paio di staffe, rifinite all’interno in lacca, che permette un’ottima protezione al piede ed evita che questo possa rimanere incastrato. Sotto l’elmo, sulla parte inferiore del viso, i guerrieri Samurai indossavano una maschera di ferro che lasciava liberi gli occhi e che, oltre a servire da protezione al volto, svolgeva anche la funzione di incutere terrore al nemico. Spesso queste maschere sono dotate di baffi finti, generalmente di crine. Una particolare cura per i dettagli si riscontra anche negli altri pezzi della mostra: faretre, ornamenti per elmi, bastoni del comando. Anche questi oggetti sono in metallo dorato, con intarsi rossi e verdi, di pelle e pelo o legno e carta. Una splendida scatola per documenti in lacca sbalzata nasconde una sorpresa davvero unica: sulla scatola è dipinto un poema Waka in uno stile corsivo i cui caratteri sono modificati per essere nascosti nei disegni della superficie, mentre altri elementi del poema sono disegnati formando una sorta di rebus sul cofanetto. Mistero dell’arte giapponese. IL PERIODO EDO E LA NASCITA DEI SAMURAI Il periodo Edo va dal 1603 al 1868, momento storico in cui il Governo di uno stato solido e ben organizzato si manterrà per più di due secoli. Fino al XIX secolo, infatti, il Giappone sarà governato da Shogun appartenenti alla famiglia Tokugawa che eserciteranno il loro potere attraverso un governo militare residente a Edo (l’odierna Tokyo). Di fianco alla storica figura dell’imperatore, che continuerà a coesistere con le altre forme di governo, c’è quella dello Shogun, un nobile guerriero, (letteralmente “generalissimo, contrazione del titolo Saii tai Shogun: dal 1192 designò i capi militari del Giappone di stirpe Minamoto (Roberto Granati “Storia del Samurai e del Bujutsu”), che gerarchicamente si pone al di sopra dei daimyo (letteralmente “grandi nomi” signori feudali, veri e propri principi del proprio feudo) a loro volta signori dei Samurai, in un sistema di classi molto poco permeabili di impronta feudale. Con l’ascesa al

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Bonsai e origami Importato quasi sicuramente dai monaci Zen in Giappone, insieme alla cultura del neoconfucianesimo, lo stile bonsai, durante il periodo Edo, vive un particolare sviluppo in quanto la Legge vietava ai borghesi di possedere grandi giardini. Alla fine del XIX secolo, nasce, per volere della classe nobile, il primo vivaio legato ai bonsai. Coltivare bonsai, praticare la cerimonia del the, l’origami e il tiro dell’arco sono discipline o vie allo Zen spesso esercitate dai Samurai, che vivono in questo modo la religione buddhista e la ricerca della trascendenza, al fianco della pratica delle arti marziali. C’è una leggenda che lega i nobili guerrieri giapponesi al bonsai: si narra che un Samurai molto povero, durante una notte d’inverno, ricevette uno shogun che viaggiava in incognito. Per riscaldarlo, sacrificò e bruciò i suoi bonsai: lo shogun lo ricompensò giustamente, tornato a palazzo. Sempre un aneddoto lega la figura del guerriero giapponese alla pratica dell’origami: intorno al 1400 era in uso regalare proprio ai Samurai durante le cerimonie, un mollusco - simbolo di immortalità – dentro un astuccio di carta, che col passare del tempo, assunse forme sempre più complesse. Inizialmente, la più semplice forma di origami era costituita da striscioline di carta collegate fra loro con un filo, appese a una bacchetta di legno, che venivano sistemate nelle zone sacre dei templi. L’origine dell’origami è strettamente legata alla religione scintoista e la sua valenza sacra deriva dal fatto che le parole carta e dei si pronuncino allo stesso modo.

potere della classe del Bakufu, il Governo militare, diminuì sempre di più il potere della classe dei Daimyo, e si separò la classe dei Samurai da quella dei contadini – la società era divisa in quattro classi: militari o Samurai, contadini, artigiani - per evitare che la popolazione civile avesse armi e ci fossero insurrezioni non gestibili. L’economia era basata soprattutto sull’agricoltura: il riso, oltre che mezzo di sussistenza, diventa moneta di pagamento. L’imposta fondiaria da versare doveva essere versata in riso, come le rendite dei daimyo e dei Samurai erano pagate in koku, l’unità di misura pari circa a 180 litri di riso. Dopo due secoli di relativo benessere e di pace, in seguito a varie catastrofi naturali e all’arrivo degli occidentali nel Paese, lo shogunato ristabilisce il potere dell’Imperatore. ◆


VISTA

Viaggio al termine della notte

Grande successo di pubblico e critica per la mostra “Arte, Genio e Follia”. Un evento dai mille significati, fortemente voluto da Vittorio Sgarbi di Paola Dei

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Karl Jaspers, allievo e amico del fenomenologo Matrin Heidegger a sua volta compagno della grande Hanna Harendet, che ci preme ricordare per il suo testo: La banalità del male, cercò di analizzare alla luce del pensiero fenomenologico, la cosiddetta follia di quattro geni dell’arte alla luce delle moderne ricerche mediche e psichiatriche. La sua conclusione fu che la psichiatria si fosse ritirata rossa di vergogna davanti a tratti di personalità che non risultavano essere ascrivibili nella nosografia diagnostica e nel DSM IV (Diagnostic and Statistical Manual of Mental disorders - Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali), perché caratterizzati da aspetto di personalità non descritti nel manuale. Parte da questi presupposti il racconto della follia descritto in una grandiosa e affascinante mostra in corso a Siena fino a maggio 2009. Comincia con Guernica

-quadro dipinto da Picasso nel 1937 nel quale esprime la sua emozione e la sua collera di fronte alla distruzione della cittadina basca- il viaggio all’interno della follia e dell’arte raccontato nella Mostra: Arte genio e follia. Il giorno e la notte dell’artista, inaugurata a Siena nel Complesso Museale Santa Maria della Scala (31 gennaio - 25 maggio 2009). La mostra ideata e curata da Vittorio Sgarbi in collaborazione con la Fondazione Antonio Mazzotta -che si è occupata del coordinamento scientifico generale e del catalogo-, è promossa dal Comune di Siena e dalla Fondazione Monte dei Paschi di Siena con l’organizzazione di Vernice Progetti Culturali e del Museo Santa Maria della Scala. Un percorso di 300 opere che rappresentano il primo tentativo in Italia di indagare il rapporto fra produzione artistica ÿ e disagio mentale attraverso la storia dell’arte. 17


Molte sono le opere degli artisti che popolano le sale del Complesso Museale di Santa Maria della Scala a Siena, tra cui compare anche il talento “folle” di Vincent Van Gogh e Antonio Ligabue. A loro è dedicata, a pieno titolo, una porzione considerevole della mostra

Van Gogh, Kirchner, Munck, Ernst, Dix, Grosz, Guttuso, Mafai, Ligabue sono solo alcuni degli artisti che nelle suggestive stanze del Complesso Museale Santa Maria della Scala colorano e danno un senso alla follia e al dolore inteso nella sua accezione più ampia e che trasformano un luogo adibito fino a qualche anno fa a contenitore del dolore- in quanto Ospedale della cittadina- in un grande contenitore di espressioni sublimi di arte. Un percorso affascinante suddiviso in otto sezioni curate da esperti nel campo dell’arte e della psichiatria. La Mostra si apre con la prima sezione: La scena della follia curata da Giulio Macchi, un racconto della vita manicomiale che parte dal Medioevo per 18

arrivare al Novecento mostrando anche gli strumenti utilizzati dai medici e i manufatti realizzati dai reclusi. Nel Medioevo gli insani venivano imbarcati su delle navi e poi abbandonati nell’immaginaria isola di Mattagonia, alla quale fa riferimento un dipinto di Ortolani intitolato appunto: “La nave dei pazzi”. Sapori forti e decisi per un ingresso che ricorda il film “Al di là dei sogni” e che con un colore intenso ci conduce davanti a una porta cupa e malandata. Si entra nella seconda sezione dal suggestivo titolo “Nati sotto Saturno: Messerschmidt”, una galleria di busti a grandezza naturale che rappresentano bizzarre ed esasperate mimiche facciali, tipiche della schizofrenia, sono i volti di Messerschmidt, sette dei 60 busti fisiognomici in piombo, pietra o legno, realizzati dall’artista per immortalare le smorfie che faceva allo specchio mentre si pizzicava in zone diverse del corpo per scacciare i demoni che lo perseguitavano e che erano poi allucinazioni visive e uditive. Sapore ancora più forte in una dimensione surreale. Nella terza sezione dal titolo: “Genio e follia ai tempi di Nietsche”, i grandi capolavori pittorici di Van Gogh, Munch, Kirkner e Strindberg, artisti che per reagire alle loro ossessioni cercavano nel colore e nelle forme una via di fuga dai loro vissuti. La quarta sezione intitolata: “La follia collettiva: la guerra nello sguardo degli artisti”, mostra le opere di Renato Guttuso, Mario Mafai, Otto Dix e George Grosz, artisti che hanno descritto la follia della guerra con lugubri allegorie. Guernica di Pablo Picasso è parte integrante di questa sezione. La guerra e gli odori forti della polvere e della distruzione. Nella quinta sezione “L’arte dei folli. Omaggio ad Hans Prinzhorn”, curata da Giorgio Bedoni la bellissima collezione Prinzhorn di Heidelberg, la più ricca collezione di opere realizzate dagli internati dei manicomi di tutta Europa e prende il nome dallo psicoterapeuta Hans Prinzhorn. Nella sesta sezione: Art Brut, letteralmente Arte Grezza, termine inventato nel 1945 dal pittore francese Jean Dubuffet, indica le produzioni artistiche realizzate da coloro che operano al di fuori delle norme estetiche convenzionali. La settima sezione: “L’alchimia dell’arte: Antonio Ligabue”, è invece composta dai dipinti di Antonio Ligabue, artista noto per la sua vita randagia e disordinata che ha passato i suoi anni di vita in un ospedale psichiatrico. L’ottava sezione “Alcuni casi italiani fra normalità e follia”, mostra dipinti di Zinelli, Ghizzardi, denominati primitivi perché il loro stile ricorda quello dei bambini e dei primitivi.


Alla fine delle otto sezioni c’è poi una parte intitodella nevrosi è folle, nessuno quando lamenta un dolore, lata “La lucida follia dell’arte nel XX secolo”, deuna sopraffazione è folle o meglio, come dice Alexandicata alla regione ospitante “Viaggio in Toscana” der Lowen, i folli sono altri, forse quelli che speculano e infine un’ultima parte dedicata al disegno che sul buon senso della gente, sull’ignoranza di chi non sa rappresenta la forma primaria dell’espressione e sulla buonafede dei buoni e degli umili che credono dell’inconscio con le opere di Henri Michaux, ancora ai sentimenti e questo, non rientra mai nel monche dipingeva sotto l’effetto della mescalina rido della cultura, per quanto possa essere a tratti anche cavata dal peyote, Max Ernst, Andrè Masson, molto competitivo. Voctor Brauner. Sapore di incanti artificiali. Per Esistono altri mondi pieni di follia, mondi dove la questa sezione cupa e desolante che mette a nudo commercializzazione vale più dei sentimenti e forse la vacuità e la prevaricazione dell’essere umano sul nella mostra è mancata una sezione dedicata a questo proprio simile. tipo di fauna, i moderni folli, alla luce delle ricerche di Accanto alla mostra una suggestiva idea proLowen, quelli che non sanno più provare pietà o rispetmossa da Confesercenti e Confcommercio, to per il dolore altrui. ispirata al tema della follia con una serie di Questo è l’unico lamento e l’unica mancanza accanto al quaristoranti che propongono menù particolari le una piccola osservazione -e non è riferita alla parte artistica, basati su prodotti tipici del territorio. sulla quale Vittorio Sgarbi fa da garanzia, tenuto conto della Proprio qualche tempo fa in occasione di un ricosua grande esperienza e conoscenza nel mondo dell’arte, noscimento donato a Vittorio Sgarbi e inerente l’olio che già aveva esperito temi difficili sulla natura umana con toscano, si è avuto modo di assaggiare all’Enoteca di Siena la mostra “Il Male, esercizi di pittura crudele” - ma all’aspetto diretta da Carlesi, le raffinatezze e i sapori della cucina toscapsicologico, proprio questa disciplina sembra risultare assente na, ami banali, mai troppo stucchevoli e sempre capaci di e forse avrebbe invece potuto contribuire a legare e trovare un suscitare curiosità e accarezzare i palati. filo comune ai diversi tratti caratteriali dei curatori delle varie sezioni, ognuno Suggestivo il tema affrontato, molto bello l’allestimento, suggestiva l’idea di encomiabile nel proprio lavoro. ◆ far divenire il termine “follia una sorta di sacco contenitore” che racchiude i misteri della psiche. Fra i curatori, Moretti, critico d’arte, Bedoni, psichiatra, Macchi e altri nomi che con encomiabile rispetto sotto l’allestimento di Milani, hanno tentato di indagare i misteri insondabili della psiche. Una mostra che non lascia certo indifferenti e che ha riportato gli specialisti alle prime ricerche all’interno degli ospedali psichiatrici quando Agostino Pirella contribuiva a divulgare accanto a Franco Basaglia e ad altri illuminati psichiatri, quanto accadeva all’interno degli OP con il testo “Tetti rossi”. Un excursus in quegli anni nei quali la Legge 180 restituiva e tentava di restituire all’essere umano la sua dignità dandogli la possibilità di scegliere e la capacità di volere e riflettere sulla Disperazione, disagio ed emarginazione. Molte sono le problematiche sollevate dalla mostra, destinata a far discutere propria vita. Nessuno all’interno per molto tempo non solo nel mondo dell’arte, ma anche in quello della psichiatria e della società civile 19


VISTA

BRUNO FAEL: UNA VITA PER L’ARTE Ha prodotto e venduto oltre 6 mila opere e ha all’attivo oltre 160 mostre personali in tutto il mondo. Dalla sua vita, di artista e di uomo, si potrebbe ricavare un vero e proprio romanzo d’appendice di Roberto Bonin

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In un cartello scritto a mano e appoggiato su una delle sue innumerevoli opere esposte all’interno del suo elegante studio di Milano c’è scritto: “L’Arte non si spiega, ma si vive!”. Ed è proprio questo il messaggio che rimane a chi, come noi, ha avuto la fortuna e il privilegio di conoscere questo autentico “testimone” dell’arte contemporanea italiana e internazionale. Geniale, eclettico, imprevedibile e profondamente romantico, Bruno Fael incarna al meglio il concetto di artista a 360°, di colui che, con estrema naturalezza e semplicità, è in grado di passare dalla pittura alla scultura o da uno stile artistico a un altro. Ne è testimone il suo lungo e articolato percorso di artista e di uomo da cui, senza troppo esagerare, sarebbe possibile trarre un vero e proprio


Il percorso artistico di Bruno Fael è davvero variegato e lo si può apprezzare visitando il suo elegante studio di Milano. In pochi mq sono racchiusi anni di sperimentazione e creatività, degni di un vero e proprio museo di arte contemporanea: dalla pittura alle sculture in legno e dai manichini alle creazioni in vetrofusione, è possibile apprezzare la vera essenza dell’opera dell’artista friulano

romanzo d’appendice, assai ricco di imprevisti e colpi di scena. Qualcuno lo ha definito un “surrealista simbolico”, ma a nostro avviso questa etichetta è ancora troppo limitante per raccogliere al suo interno i mille e più volti della sua Arte, composta, com’è, da miriadi di sfaccettature e sfumature. Recensioni e critiche? Sarebbero difficili, oltreché banali e riduttive per l’opera di Fael. Di lui possiamo solo dire che è un grande amante della vita e di tutto ciò che di buono – e di meno buono – continuamente ci riserva. Ammirando le sue opere, viene subito alla mente una famosa locuzione tratta dalle Odi del poeta latino Orazio: “Carpe diem” (Cogli l’attimo). Il Maestro è bravissimo in questo, nel saper catturare l’essenza delle cose e nell’immortalarle per l’eternità in un quadro o in una scultura. DECENNI DI SPERIMENTAZIONI In una monografia del 1995 Frédéric Altmann sostiene che, nell’elaborazione delle sue continue ricerche, Fael è solito trasformare e bonificare la sua scrittura pittorica ogni decennio. Niente di più vero, soprattutto se consideriamo la lunga e continua evoluzione dell’artista friulano nella sua completezza. La ricerca e l’inventiva di Fael non conoscono sosta: fin dai primi lavori degli anni Sessanta, l’opera del Maestro è in continua evoluzione. E non si tratta della classica evoluzione comune a molti artisti, caratterizzata per lo più di implementazioni nella tecnica o nell’individuazione di nuovi soggetti, ma di vere e proprie inversioni di tendenza che hannoÿ

n BRUNO FAEL

Milanese di adozione, nato a Sacile (Pordenone) nel 1935, Bruno Fael inizia a dipingere giovanissimo incoraggiato dall’ambiente familiare estremamente creativo. Autodidatta, raggiunge il suo livello professionale pur non frequentando scuole specifiche, ma cercando personalmente le tecniche e le specifiche forme di espressione più congeniali al suo modo di essere. Inizia ad esporre nel 1962. Di lui hanno scritto critici del calibro di Pierre Restany, Frédéric Altmann e Luca Venturi. Ha effettuato oltre 160 mostre personali in tutto il mondo ed è stato nominato “Pittore dell’anno 2005”; è presente in tutti i cataloghi nazionali e internazionali. Per informazioni Tel: 02.2365106 www.brunofael.it – fael@interfree.it

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VISTA SENSE of SIGHT

Le opere in vetrofusione sono l’ultima evoluzione dell’Arte di Bruno Fael, realizzate mediante un procedimento di cui solo l’artista e il mastro vetraio con cui collabora da tempo ne conoscono il segreto. Creatività, invenzione e tecnica innovativa si incontrano in questo nuovo ciclo artistico di Fael a dimostrare, ancora una volta, la genialità dell’artista friulano. Nella foto sopra: il Maestro con la sua compagna Yvonne. 22

il grande pregio di saper precorrere i tempi e le mode della sua epoca. Quasi come se vivesse nel futuro, e nel contempo, gustasse le gioe del presente, esaltando i ricordi del passato. E non solo questo non è da tutti, ma è assolutamente unico nel suo genere: se si osservano le sue opere nella loro interezza, sembra quasi di essere di fronte a più artisti, ognuno con una propria tecnica e un proprio stile e gusto personale. Come se Fael non fosse un unico individuo, ma più persone in una. “Ho prodotto e venduto circa 6 mila opere in tutto il mondo”, sottolinea il Maestro con la sua umiltà di sempre. “Sono sempre alla ricerca di nuovi stili e nuove tecniche. Talvolta cambio all’improvviso. Vedo o immagino dei soggetti o dei nuovi metodi di lavorazione e passo immediatamente alla creazione di nuove opere d’arte”. In questo modo è nato ad esempio il ciclo delle opere in sughero, così come conferma lo stesso Fael, citando un simpatico aneddoto successo qualche anno addietro. “Avevo per caso notato una catasta di pannelli di sughero impilata in un angolo all’interno di un piccolo laboratorio e all’improvviso mi è sopraggiunta l’idea di utilizzarli come materiale base per l’allestimento di opere d’arte. Li ho quindi acquistati in blocco e, tornato nel mio studio, mi sono messo al lavoro mettendo subito in pratica ciò che mi ero solo immaginato”. Sempre con una vena di contagiosa simpatia, il Maestro si sofferma anche sull’esperienza dei fiori acquatici maturata negli anni Settanta e su una particolare mostra in cui, contravvenendo all’etichetta dell’epoca, le opere furono


co, ma anche tecnico e ingegneristico, se si considera la particolare tecnica di fusione il cui segreto rimane, come giusto che sia, di proprietà dell’artista friulano e del mastro vetraio con cui collabora da qualche tempo. Della stessa intensità e magia appaiono anche i colori dei grandi quadri ispirati alle melodie di Puccini: è difficile – per non dire impossibile – trovare in altre opere certe sfumature di colore. Si tratta di colorazioni uniche, così come altrettanto uniche sono le musiche del grande compositore italiano. Ci siamo fermati ad ammirare per un istante “La Turandot” e, subito, nelle nostre orecchie sono riecheggiate le magiche note di “Nessun dorma” cantate dal sommo Maestro Pavarotti. Dall’opera trasudano passione ed emozione che non lasciano di certo indifferenti, ma che sono in grado di trascinare l’osservatore/ascoltatore nel turbinio della melodia, della scenografia e dei costumi, quasi come se fosse seduto in un immaginario loggione ad assistere a una vera e propria prima teatrale. Non a caso, lo stesso Maestro, ha dedicato proprio al cinema un’ampia porzione della sua storia artistica, come a dimostrare la sua ricerca di ciò che è e che dovrebbe essere, sia esso visto attraverso un pennello o da dietro una cinepresa.

disposte sul pavimento a formare un improbabile quanto immaginario prato di ninfee. Sono proprio queste cose a far grande Fael, a renderlo unico e inimitabile; cose che solo un vero e proprio “artista” può e riesce a fare. MUSICA E LUCE Musica e luce sono l’ultimo traguardo – anche se parlare di traguardi nel caso di Fael è assolutamente fuori luogo, vista la sua inesauribile produttività – del percorso artistico di Fael. Anche se sia la musica sia la luce hanno sempre avuto un ruolo di primissimo piano nell’ispirazione del Maestro, entrambe rappresentano una tappa fondamentale nel completamento della sua figura di artista. Le tinte che traspaiono dalle opere di Fael sono davvero uniche e inimitabili. Solo lui riesce a regalare certe tonalità e certe sfumature, quasi come se avesse scoperto il segreto incantato della creazione dei colori. Grazie alla “magica” complicità del vetro i colori prendono infatti forma, trasformandosi in oggetti vivi in grado di sussurrare all’osservatore la loro bellezza e la loro positività. “Le fonti di luce in vetrofusione che Fael presenta con sorprendente vivacità mettono in evidenza la costante rigenerazione creativa su cui si fonda la sua arte, facendo anche risaltare la novità, la qualità delle opere e l’evoluzione stilistica e formale di un artista tanto fragile quanto immortale”, dice di lui Luca Venturi. “Il vetro di luce di Fael ha un’anima propria ed è come avventurarsi in una storia infinita e fantastica, sentita con gli occhi, ma vissuta con lo spirito in ogni sua suggestiva manifestazione”. E, sia ben chiaro, non si è di fronte ad opere non solo di grande significato artisti-

L’AFRICA NEL CUORE “Non soffro il mal d’Africa”, esordisce Fael quando gli si pone l’inevitabile domanda “Quanto ha contato l’Africa nella sua opera?”. É difficile credergli. Se solo si pensa alle sculture monumentali in cemento armato di oltre 10 metri di altezza dell’Egitto e del Kenya o le rocce sacre di Malindi, è d’obbligo pensare a un legame indissolubile tra la sua Arte e il Continente Nero. Eppure, in quella negazione “forzata” c’è qualcosa di vero, anche se il tono delle sue parole non riesce a nascondere un certo imbarazzo nel rinnegare quella terra a cui ha dato e deve molto. Ma tant’è. Rispettiamo il parere del Maestro, anche se, ne siamo convinti, una parte del suo cuore ha i colori e i suoni dell’Africa; suoni e colori che continuano e continueranno a vivere nella “Bruno Fael Street”, via principale del celebre Resort Stella di Mare ad Ain Soukhna (Egitto) a lui dedicata nel 2005. E, si badi bene, non si tratta di semplici e banali tonalità e impulsi sonori, ma di vere e proprie esperienze mistiche proprie della parte più magica dell’Africa, alla pari di importanti creazioni ricche di mistero ed esoterismo come i megaliti di Stonehenge o i Moai dell’Isola di Pasqua. Ma, esperienze sul campo a parte, l’Africa pervade un po’ tutta l’Arte di Fael, in particolar modo quella dell’ultimo periodo. Lo stile etnico e tribale, rivisto in chiave moderna e futuristica, lo si ritrova infatti nei manichini, opere attraverso le quali il Maestro propone un nuovo tipo di essere umano, sospeso tra il tecnologico e il fantastico, in cui sono contenute la prepotente voglia di vivere dei replicanti di “Blade Runner” mista alla disarmante curiosità del robot del film culto degli anni Venti “Metropolis”. ø 23


Medicine d’autore

VISTA

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Improvvisazione e razionalità si incontrano nell’Omeoart, un nuova disciplina nata dall’unione tra arte e omeopatia. Piccole grandi opere dall’intento curativo di Valeria Ghitti

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Un’opera d’arte sa sempre suscitare interrogativi a cui, a volte, riesce a suggerire possibili risposte. Ciò la rende un possibile strumento comunicativo dalla forza dirompente, un modo per percorrere strade che, fuori dalla dimensione artistica, possono essere irte di ostacoli o persino senza sbocco, senza però arrivare a una mera strumentalizzazione dell’opera artistica. E questa è un po’ l’origine di Omeoart, l’incontro tra l’arte contemporanea e l’omeopatia, un metodo di cura (o terapia) che oggi, più che mai, si sta facendo sempre più strada nella pratica quotidiana di ogni medico. “L’arte è una disciplina difficile, esigente e appassionante, che ci porta a rimettere in causa diverse convinzioni... L’arte ci permette così di acquisire una nuova dimensione delle cose, della vita, senza per questo obbligarci ad abbandonare la nostra razionalità. Allo stesso modo, l’omeopatia permette al medico e al malato di acquisire una nuova dimensione dei proble-


L’Omeoart va oltre il concetto di Arte propriamente detta e ha lo scopo di comunicare al grande pubblico l’efficacia dei rimedi naturali introdotti dall’omeopatia, una pratica terapeutica sempre più diffusa tra i medici di base e specialisti. Geniale, imprevedibile e, a tratti, addirittura irriverente, l’Omeoart unisce in sé l’improvvisazione dell’arte contemporanea e la razionalità delle materie prettamente scientifiche

mi inerenti la salute, senza nulla togliere al valore della medicina moderna, delle nuove tecniche chirurgiche e dei nuovi vaccini. L’omeopatia deve inserirsi nell’ambito della medicina, così come l’arte deve inserirsi nell’ambito della nostra esistenza e della nostra società” con queste parole Christian Boiron, a capo dell’azienda leader mondiale nella produzione di medicinali omeopatici nonché appassionato d’arte, dipinge il perché di un matrimonio che altrimenti sarebbe apparso forzato. CREATIVITÀ CORALE Omeoart è la prima raccolta al mondo di opere d’arte contemporanea legate dal comune denominatore del significato omeopatico: ad oggi 45 opere d’arte, in cui tale concetto è espresso attraverso le sfumature di molteplici significanti. Si va da opere pittoriche, figurative o concettuali, ad assemblaggi polimaterici, da fotografie a icone, dall’acquerello all’acrilico, dalla tempera alle tecniche miste.

Ogni artista, infatti, ha voluto declinare i propri codici espressivi, come le voci in un coro si fondono per dare armonia, pur mantenendo la propria unicità e specificità. Dirompente, per esempio, lo stile di Jean François Rièux, in Onosmodium 5CH, che trasforma un cartone da imballaggio, su legno, dipingendolo senza tradire le originali conformazioni, ma conferendogli un significato nuovo. Coinvolgente, nel senso più letterale del termine, la via scelta da Stelio Maria Martini per la sua O me! O patìa! Attraverso la tecnica mista, con frammenti cartacei scritti a mano, frammenti di una vita reale, crea un gioco di parole in grado di evocare un urlo, forse, di rivendicazione alla scelta tra se stessi e il dolore. Rivendicazione non a caso incollata su uno specchio, come a rendere lo spettatore destinatario e, al contempo, soggetto di questo sfogo. Di forte capacità evocativa, scaturita dalla semplicità del soggetto e dai materiali usati, duri ma delicati, è il mosaico Tra terra e cielo dell’artista ticinese Al-ÿ 25


berta Jacqueroud, mentre vicino all’immaginario della Pop-Art, sono i Beauty Secrets di Davide Mancosu: forme quasi ipnotiche, dal tratto morbido e fanciullesco, e colori definiti dell’acrilico su carta. Emblematica, a livello di significato oltre che di significante, la tempera su tavola di Marco Manzella, Omeopatia. Piccola Allegoria. “Globuli come perle messe a disposizione dalla Natura. Raccoglierle è un’opportunità che ci viene offerta. Diffidente, il Pregiudizio sceglie di starsene seduto, al riparo di un ombrellone” questa la chiave di lettura suggerita dallo stesso artista nel breve testo di accompagnamento che caratterizza ogni opera della collettiva. Ironica, infine, la Madre Natura di Mauro Bergonzoli, che può essere tranquillamente considerato portavoce di quell’armonia distesa che avvolge tutte le opere della collettiva: “Un fil rouge per tutti è l’armonia, il tono è spesso scherzoso, talvolta ironico, allegro” sottolinea Francesca Bianucci, presidente dell’Associazione Omeoart.

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IN MOSTRA La varietà dei codici espressivi, le differenze materiche e concettuali hanno contribuito hai successi di Omeoart, che dal 2003 ha proposto mostre collettive in tutta Italia, da Milano a Ravello, Roma, Piacenza e Napoli. Attualmente non è stato previsto un calendario dei prossimi eventi, ma su www.omeoart.org è possibile un primo incontro con le opere e gli artisti, magari proprio a piccole dosi come insegna l’omeopatia.

n OMEOCERAMICA Da pochi mesi, sono entrate a far parte della collettiva anche 31 opere in ceramica. Perché proprio questo materiale? “Antica quasi come il mondo, la ceramica è materia affascinante, che trae vita da un pugno di terra: le mani dell’artista la plasmano e il fuoco compie il miracolo” spiega sempre Francesca Bianucci. Gli artisti sono di varia provenienza, ma fortemente emergono le tradizioni salernitane, vietresi, partenopee, culla della lavorazione della ceramica. Non sfugge, per esempio, il rimando alla cultura napoletana nell’opera di Lello Esposito, Testa con uovo, mentre un retaggio dell’atavica tradizione mediterranea si legge nel Baciagranuli di Lucio Liguori. Di grande fascino, per la capacità di restituire l’incessante movimento delle onde, anche attraverso un sapiente uso cromatico, è Il mio mare di Daniela Rancati. Infine, forte nella sua semplicità priva di decori e di colori, è il messaggio omeopatico del simile che cura il simile in modo naturale trasmesso da Adamo ed Eva di Gianni De Caro: due volti molto simili, appunto, che si scrutano e si sfiorano, separati solo da un sottile confine dato dal cromatico svolgersi di un ramo fiorito. ø 26


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PIATTI IN MOSTRA In tutto il mondo, il suo nome è sinonimo di qualità, eccellenza, genialità e Arte. Un Maestro in cucina, a tavola e nella vita

di Danilo della Mura

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L’Arte in un piatto. Pochi semplici ingredienti, pochi semplici tratti. Come in un quadro di Fontana, come in un’opera di Burri. Gualtiero Marchesi, “chef materico”. I suoi piatti esaltano la materia prima, l’ingrediente. La preparazione, la cottura, persino il piatto, inteso come contenitore, sono studiati attentamente per non prevaricare l’ingrediente. Gualtiero Marchesi, cresciuto a Milano, respirando arte. “Io amo la musica, ho sposato una pianista”. Le sue amicizie, tra gli altri, Pietro Manzoni, Arnaldo Pomodoro. “Tutto ciò ha creato in me una cultura che mi ha permesso di andare un po’ più in là di dove va solitamente il cuoco. Il cuoco è come l’artigiano. Si dice che la cucina è un’Arte: io dico sempre che può essere un’Arte, a patto che vi sia un’artista ai fornelli”. Gualtiero Marchesi è artista prima ancora di mettersi ai fornelli. Spiega le sue ricette, la sua filosofia culinaria, accompagnandosi con citazioni di famosi artisti. Parla di semplicità e cita Van Gogh: come è difficile essere semplici. Parla di ingredienti e cita Heidegger: L’Arte è il porsi in opera della verità. “Quello che ricerco nella preparazione di un piatto è la semplicità, unita all’attenzione per la materia. In cucina non servono fronzoli. Le persone bisogna prenderle, ancora prima che per la gola, per la testa”. Frasi che in cucina prendono vita nella famosa “Costoletta alla Milanese del 2000”: un piatto della tradizione che Gualtiero Marchesi interpreta esaltandone le caratteristiche tipiche. Sei piccoli cubetti di carne di vitello, panati e fritti, adagiati su un piatto bianco: niente di più. Guardi il piatto e ti ritrovi di fronte a uno dei famosi “tagli” di Fontana: ordine e pulizia. E intanto Gualtiero Marchesi ti allieta spiegando il piccolo e semplice segreto racchiuso in quel piatto. Un segreto tanto semplice, da chiederti come mai nessuno ci abbia pensato prima. “Nella costoletta, la panatura e la frittura sono le vere protagoniste. Tagliando la carne a cubetti sono riuscito a realizzare ben sei lati di panatura e frittura, contro i due della ricetta tradizionale. Inoltre il cubo riesce a racchiudere tutta la succulenza della carne che si libera in bocca, masticando, e che non si disperde nel piatto.” Arte come semplicità, Arte come Armonia. “In un piatto si possono mettere tante cose, magari buone, ma che non vanno d’accordo una con l’altra”. E pensi ai tanti contorni, alle tante salse sbagliate che hai visto e mangiato, perché volevano stupirti con effetti speciali. Gualtiero Marchesi: no. Ecco allora che, come contorno alla Costoletta alla Milanese 2000, Gualtiero Marchesi ti serve una semplice insalata, condita con un’altrettanta semplice vinaigrette. Un piatto acido per pulire la bocca dalla grassezza del fritto: semplice, geniale. Non si può definire altrimenti il talento di Gualtiero Marchesi. Un talento sottile, che non può essere compreso immediatamente.


“Riso e Oro” INGREDIENTI PER 4 PERSONE: 240 g di riso carnaroli. 60 g di burro 30 g di parmigiano grattugiato 1 cucchiaino di stigmi di zafferano 1 cucchiaino di cipolla tritata fine 1 dl di vino bianco secco 1 lt di acqua Sale 4 fogli d’oro PREPARAZIONE: Far tostare il riso in casseruola con 10 grammi di burro, bagnare con il brodo bollente, aggiungere lo zafferano e portare a cottura mescolando di tanto in tanto. In una casseruola, a parte, far sudare la cipolla in 10 grammi di burro; aggiungere il vino, far ridurre il liquido della metà. Aggiungere il rimanente burro ridotto a fiocchetti e con un frustino, finché il burro non guadagna densità e spessore. Filtrare il burro emulsionato attraverso un colino per eliminare i frammenti di cipolla che hanno ormai ceduto il loro sapore alla salsa. A cottura ultimata, regolare di sale e matecare il riso con il burro e il parmigiano.

“Per avvicinarsi all’Arte, occorre una preparazione”. Genio, come il nome del famoso piatto, ispirato alle Marilyn Monroe di Andy Warhol. “Guardando il quadro raffigurante le quattro Marilyn, è nato un piatto che ho deciso di chiamare Genio, perché è geniale, nella sua semplicità. Quattro diversi tipi di pasta: uno spaghetto arrotolato attorno a una forchetta, un pacchero infilzato, riso contenuto in un cucchiaio, fusilli raccolti in una ciotola. Il tutto adagiato su uno specchio quadrato che amplifica e modifica le forme delle paste stesse. Tutte le paste sono condite con un goccio d’olio e con pecorino grattugiato. In questo modo si ha un unico piatto proposto in quattro forme e con quattro posate diverse. Come nell’opera di Warhol: la stessa foto ripetuta quattro volte. Con questo piatto voglio esaltare la differenza tra sapori, come conseguenza della forma: io sono legato alla forma e alla materia”. L’Arte e la Cucina di Gualtiero Marchesi è frutto di una costante e attenta osservazione. “Noi siamo quello che abbiamo visto, quello che abbiamo potuto fare. Io annoto tutto in un quaderno.” Un’attenta osservazione da cui nasce, improvvisa, l’ispirazione. Come il Dripping di Pesce, un piatto nato osservando i quadri di Jackson Pollock, un omaggio al suo modo di dipingere per sgocciolamento, nel quale il colore la fa da padrone. O come

l’ultimo piatto, dedicato a Hsiao Chin, e da poco nel menù de “Il Marchesino”, il ristorante recentemente aperto sotto il porticato del Teatro alla Scala di Milano. “Visitando la mostra di Hsiao Chin sono rimasto colpito da un suo quadro al quale ho dedicato questo piatto: un risotto bianco, al parmigiano, semplice, servito su piatto quadrato con la falda nera. Al centro una sfera rossa, formata da una salsa al chili leggermente piccante e pomodoro concentrato. Un piatto semplice: un quadrato bianco, bordato nero, con al centro una sfera rossa. Poi si mescola il tutto e si ottiene un risotto al sugo di pomodoro”. Intuizioni, interpretazioni, creatività, che si sono concretizzate in oltre 60 piatti “artistici” raccolti e descritti nel Codice Marchesi. Piatti come l’uovo “al Burri”, non un errore grammaticale, ma un piatto dedicato all’omonimo artista: un semplice uovo al tegamino, passato con una piccola fiamma, per ottenere splendide e gustose bruciacchiature. Ma l’opera più celebre di Gualtiero Marchesi resta sicuramente “Riso e Oro”. Un altro grande tributo alla tradizione, reinterpretato per esaltarne la semplicità. “ Un risotto allo zafferano, con una foglia al centro, servito in un piatto con la “falda nera”, disegnato appositamente per questo piatto e divenuto segno distintivo della mia cucina”. Niente di più. Geniale. ◆ 29


GUSTO

FRAGRANZE D’ITALIA

© Consorzio San Daniele

di Irene Giurovich

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Il prosciutto San Daniele è uno dei fiori all’occhiello della tradizione gastronomica del nostro Paese. Un prodotto da gustare, toccare, ammirare e odorare...

Richiama l’Europa, la magia di una tradizione immutabile nel tempo, la sicurezza di una filiera certificata, per il piacere del gusto, dell’olfatto e del tatto. Il prosciutto crudo rappresenta un autentico legame storico-culturale-economico per l’intera Europa continentale, affermandosi dalla penisola iberica, all’Italia, alla Francia, a tutta l’Europa Centro-Occidentale. Se si dovesse definire il prosciutto crudo, bisognerebbe affermare che è uno dei prodotti più genuinamente europei, così come lo è tutta l’economia suinicola. L’economia di pianura ha consolidato la realtà produttiva del maiale, l’economia della collina ha fatto nascere la stagionatura dei prosciutti. “Zoommando” sul top della categoria, e cioè il San Daniele di cui in questo servizio ci occupiamo, balza agli occhi una straordinaria peculiarità che rende il San Daniele di categoria superiore, come rilevano gli stessi documenti forniti dal Consorzio del prosciutto di San Daniele: colle morenico, situato a pochi passi dalle prime alture delle Prealpi, lambito alla base dal corso del fiume Tagliamento. Le condizioni climatiche baciano questa marca di terra, regalandole l’habitat ideale per il compimento della stagionatura: l’aria fredda in arrivo dal nord si unisce all’aria calda proveniente dal vicino Adriatico, assicurando una costante ventilazione che, unita all’ottimo drenaggio del terreno ghiaioso, costituisce la condizione ideale per la stagionatura del prosciutto crudo. Gli indici di carattere economico fotografano il successo di questo prodotto che rientra fra le 80 denominazioni Dop attualmente riconosciute in Italia e costituisce uno dei marchi più noti dell’agroalimentare: 31 produttori; la capacità produttiva globale supera i 3 milioni di prosciutti l’anno, ma la produzione Dop rappresenta l’85 % del potenziale; si concretizza un fatturato di oltre 330 milioni di euro (dati aggiornati al 2008); il San Daniele rappresenta circa il 14 % dei consumi nazionali di crudo; le esportazioni interessano il 15 % della produzione.

d’Ungheria. Innamoratissimo di questo prodotto unico era anche Gabriele D’Annunzio che lo mandava a cercare raccomandandosi dal Vittoriale a un amico bresciano. I primi prosciuttifici vedono la luce negli anni 20 quando si iniziano anche a utilizzare i primi suini non locali: le cosce fresche arrivano dalla Lombardia, di notte, però, perché non si vedesse che provenivano ‘da fuori’. Precedentemente si faceva ricorso esclusivamente agli indigeni e ruspanti maiali neri friulani. Arriviamo agli anni 40: i prosciuttifici diventano un’industria e negli anni 60 inizia il confronto con il mercato; le imprese diventeranno grandi firme su scala nazionale. Si assiste negli anni 80 a un aumento consistente delle vendite spiegabile attraverso due fattori: la possibilità per i produttori di stagionare le cosce in tutti i dodici mesi dell’anno mediante condizionamento forzato dei locali e la presenza di una domanda crescente.

MITO STORICO Nelle carte invecchiate dallo scorrere del tempo si parlava di “magnifica comunità sandanielese”, quella gloriosa comunità che inviava a dorso di mulo i suoi prosciutti per i prelati riuniti al Concilio di Trento (che si erano mangiati trenta paia di persitti), e ancora ritroviamo i veterinari della Serenissima che rilasciavano autentici certificati sanitari per l’invio del prosciutto ai reali

BUONO E FA BENE I nutrizionisti non hanno dubbi: non basta dire che il prosciutto è buono e fa bene, ma che è buono e fa bene più del previsto. La fonte è l’Istituto Nazionale della Nutrizione che ha dimostrato come la carne suina derivata dal suino pesante italiano e utilizzata per la preparazione dei prosciutti e dei più tradizionali salumi italiani abbia compiuto inaspettati passi avantiÿ

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FASCINO SENZA TEMPO Dolce al gusto, morbido al palato, dotato di profumi inconfondibili, ecco la magia di quelle qualità storiche che rivivono ogni giorno, a ogni assaggio. Le proprietà organolettiche mostrano un colore uniforme rosso-rosato del magro; profilo e striature di grasso bianco candido; profumo intenso; gusto dolce e delicato con retrogusto più marcato; morbidità al taglio. Quei microscopici granuli di una certa consistenza che a volte si trovano nel bel mezzo del magro – spiegano dal Consorzio – “non sono granelli di sale, ma semplici e innocui cristalli di tirosina, una sostanza naturale che deriva dall’invecchiamento delle proteine e rappresenta un autentico certificato di lunga stagionatura”. Per quanto riguarda gli abbinamenti, si accompagna con un vino bianco secco, non troppo aromatico. Meglio evitare il consumo assieme a sottaceti o ad altri gusti eccessivamente forti. Banditi dal San Daniele gli additivi che, invece, risultano indispensabili nei prosciutti non Dop.

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alla voce “nutrizione”. Non soltanto è calato negli ultimi anni il contenuto di grassi della carne suina, ma soprattutto si è evoluta la qualità stessa del grasso. La componente degli acidi saturi, nei grassi che si assumono assieme al prosciutto, è scesa fino al 30 %, mentre quella degli insaturi è costituita per il 75 % dai monoinsaturi (gli stessi dell’olio d’oliva), con un tasso di colesterolo pari a quello delle sogliole o della carne bovina. È risaputo che nel prosciutto sgrassato (una volta eliminata la parte grassa periferica), il contenuto complessivo in grassi è compreso fra il 3 e il 5 % del totale della parte edibile. A chi assegnare il merito? Al maiale, fanno sapere dal Consorzio, dal momento che, essendo nutrito adeguatamente e in modo finalizzato, vanta oggi una maggiore quantità di carne magra, con uno strato di grasso sottocutaneo più sottile e dispone di una grande quantità di proteine nobili. Per perfezionare il quadro nutrizionale, poi, si devono considerare gli altri componenti biodisponibili, come ferro, zinco e vitamine del complesso B. 32

CERTIFICAZIONE E TRACCIABILITÀ Il disciplinare Dop caratterizza tutta la filiera del prosciutto che si articola in quattro fasi (allevamento suini, macellazione, trasformazione in prosciutto, stagionatura del prosciutto). La materia prima deve essere di tipo pesante italiano, deve sviluppare pesi medi non inferioi a 160 chilogrammi alla macellazione che deve avvenire non prima di nove mesi dalla nascita. I suini devono provenire da 11 regioni italiane dove devono essere nati, allevati – senza uso di farine alimentari – e macellati (Friuli Venezia Giulia, Veneto, Lombardia, Emilia Romagna, Piemonte, Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Abruzzo e Molise). Ogni passaggio deve essere registrato, come prescrive il rigido disciplinare: gli allevatori sono tenuti a marchiare i suini subito dopo la nascita, con un tatuaggio apposto su entrambe le cosce posteriori, che identifica l’allevamento e il mese di nascita dell’animale e sono tenuti a certificare il suino adulto prima della macellazione. Dai suini doc, che devono essere macellati in perfetto stato sanitario e a regola d’arte, si devono ottenere cosce fresche – ovvero non congelate e immesse in lavorazione entro un massimo di 120 ore – dotate di precise peculiarità. Nel prosciuttificio dove giungono le cosce fresche con i timbri apposti sia dall’allevatore sia dal macellatore scattano altri controlli tesi a verificare l’idoneità del prodotto, attraverso un rigido meccanismo selettivo. Sulle cosce giudicate idonee si appone un timbro a fuoco che, con la sigla Dop, riproduce la data d’inizio della stagionatura (avviene rigorosamente negli stabilimenti nel comune di San Daniele), ultimata la quale si apre una nuova fase: la rispondenza allo standard qualitativo. Si mettono in pratica sistemi di controllo tradizionali, fra cui l’ago-sonda per il profumo, battiture per la consistenza, l’occhio per una valutazione d’insieme. A questo iter si è affiancata, dal ‘93, la verifica dei parametri analitici: esame analitico del prosciutto nel rapporto fra acqua, sale e proteine. Se si superano questi step, il prosciutto viene finalmente marchiato con un contrassegno a fuoco che attesta il conseguimento della Dot/Dop, oltre al codice di identificazione del produttore presso cui è stata effettuata la lavorazione. A vigilare sull’applicazione di Origine Protetta è, dal ‘98, un organismo terzo rispetto alle parti che costituiscono la filiera: si chiama Ineq, acronimo che significa Istituto Nord Est Qualità, ed è stato costituito dal Consorzio, dall’Assica (Associazione industriali delle carni) e dall’Unapros (Unione nazionale tra associazioni produttori suini) e ha acquisito anche l’attività di controllo su: speck dell’Alto Adige, zampone Modena, prosciutto Veneto-Berico Euganeo. GUSTO&TURISMO La tipicità dei prodotti è accompagnata da un programma di sviluppo non solo economico ma anche turistico e culturale del territorio. È nato e creciuto un turismo specifico, quello d’impronta enogastronomica, con tanto di pacchetti ad hoc. Un esempio di questo binomio è l’appuntamento “Aria di Festa” che dal 1985 promuove il prodotto nel suo territorio di origine. È la manifestazione annuale per eccellenza, che recupera una tradizione antica, e coincide con la festa del prosciutto di San Daniele che attrae un pubblico internazionale di oltre 500 mila persone: nell’ultima edizione, nell’arco di quattro giorni, durante i quali si visitano i prosciuttifici aperti per l’occasione, sono stati degustati oltre 6 mila prosciutti appositamente affettati sul posto. San Daniele significa un territorio unico, prodotti tipici, mani-


L’IMPRENDITORE DEL DISTRETTO Presenta tutte le caratteristiche del self made man o, se preferite, dell’homo faber l’imprenditore del distretto di San Daniele. A rivelarlo è una recente ricerca condotta dal sociologo dell’Università di Udine, Bruno Tellia che rileva l’elevata età media degli imprenditori, la scarsa presenza nelle aziende di dirigenti e quadri, l’assenza – “del resto inevitabile in presenza di piccole aziende familiari” – di una struttura manageriale, responsabile di non facilitare la continuità d’impresa. Sono in prevalenza maschi gli imprenditori, mentre le donne sono relegate alla qualifiche più basse, stando a quanto emerge dall’indagine: oltre il 60% delle donne sono inquadrate come operaie generiche. La dimensione media delle aziende del distretto è di circa 25 addetti di cui 14 maschi e 11 femmine. I rapporti precari sono più frequenti fra le donne. ø

© Consorzio San Daniele

✔ Zona di produzione: San Daniele del Friuli (Udine) ✔ Produttori: 31 prosciuttifici ✔ Produzione: 2.756.379 unità di prodotto (2008), + 2,9% rispetto al 2007 ✔ materie prime: cosce suine fresche, ottenute dalla macellazione di suini pesanti nati, allevati e macellati in 10 regioni d’Italia ✔ Zone di allevamenti: per il 96% le regioni della Pianura padana (2008) ✔ Interfaccia di filiera: 4.818 allevamenti e 120 stabilimenti di macellazione abilitati ✔ Requisiti della coscia fresca: peso non inferiore a kg 12; mantenimento della parte terminale (zampino) ✔ Durata del ciclo produttivo: almeno 13 mesi, di cui non meno di 8 in stagionatura naturale ✔ Ingredienti: solo sale marino ✔ Conservanti: nessuno ✔ Fasi della lavorazione: raffreddamento, rifilatura, salagione, pressatura, riposo, lavaggio, asciugamento, sugnatura, stagionatura ✔ Fasi esclusive: pressatura ✔ Esportazioni: 14 % della produzione. In Usa dal 1997, in Canada dal 2005, in Cina dal 2008. Gli Usa sono il terzo mercato export dopo Francia e Germania; seguono Austria e Giappone. Il prosciutto di San Daniele è Dop, quindi protetto dalla Comunità Europea; si può stagionare solo ed esclusivamente nel comune di San Daniele del Friuli © Consorzio San Daniele

© Consorzio San Daniele

festazioni culturali di alta qualità e di grande attrattiva, un significativo patrimonio storicoartistico: questi sono e dovranno continuare a essere la forza attrattiva di questa città e del paesaggio collinare.

CARTA D’IDENTITÀ

SOGNI, SPERANZE E CERTEZZE Il Direttore del Consorzio del prosciutto di San Daniele, Mario Cichetti, spiega le carti vincenti di una storia di successo e pronostica il cammino attraverso cui consolidare una fama internazionale. La promozione è fondamentale per un buon marketing: avete nel cassetto nuovi jolly? “Il Consorzio è in grado di sviluppare nuovi importanti strumenti che, associati a una migliore efficienza produttiva e commerciale delle imprese, consentono di rafforzare il valore e proteggere la marginalità del prodotto. Primo tra tutti è il consolidamento della notorietà del prodotto tramite la promozione e il marketing, il sostegno mirato dell’export, lo sviluppo degli asset come l’immagine coordinata delle confezioni di affettato e l’enfatizzazione dell’individuazione dell’origine del prodotto attraverso l’utilizzo di tecnologie applicate su ogni singolo prosciutto. Sicuramente l’aspetto che preme sottolineare è quello relativo al consolidamento del

prodotto dal punto di vista produttivo, dei controlli e del valore, dedicando per lo più particolare attenzione alla filiera Dop”. Che cosa manca? “La produzione di San Daniele non può prescindere da un’attenta analisi del profilo qualitativo della materia prima che è un elemento fondamentale delle politiche di qualità del Consorzio. Si sente per cui la necessità di un nuovo quadro normativo che introduca alcuni ulteriori elementi che possano rafforzare la valorizzazione e la tutela di tutti i prodotti Dop e Igp italiani”. La crisi economica sta incidendo sul lavoro di produzione? “Nel 2008 si è assistito a una crescita del 2,9% della produzione e del 2% sulle vendite. Un totale di 2.756.379 cosce destinate alla Dop lavorate nel 2008, per un giro d’affari intorno ai 330 milioni di euro. È il bilancio del 2008 che conferma l’apprezzamento dei consumatori per questo prodotto, sia in Italia sia all’estero. Per quanto riguarda il pre-affettato, nel 2008 sono stati sette i laboratori di affettamento operativi a San Daniele. Su base annua è significativamente aumentato il numero di confezioni di affettato prodotte: nel 2008 sono state 7.114.442, con un incremento del 24% sul 2007, corrispondenti a 151.751 prosciutti, pari a 663.000 kg affettati in totale (+31,1% sul 2007)”. 33


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a tutte Bollicine

Sono il segno distintivo del Franciacorta, uno dei pochi vini italiani che da quasi 15 anni può vantare la Denominazione di Origine Controllata e Garantita di Valeria Ghitti

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Un continuo scaturire di bollicine come il perpetuarsi di un momento unico: piccole perle finissime, che dal fondo del calice salgono verso l’alto, persistente invito a cogliere con l’effervescenza il bagaglio aromatico di mesi di lavori e secoli di tradizioni. È il primo incontro con un vino Franciacorta, le bollicine più famose d’Italia, che da quasi 15 anni possono vantare la Denominazione di Origine Controllata e Garantita. E l’origine è tutta in quel fazzoletto di terra collinare, la Franciacorta, con i suoi 19 Comuni, trapuntata di vigneti in filari regolari, tra cui occhieggiano borghi caratteristici, dominati da palazzi e castelli di grande fascino. Un angolo di mondo, che si nasconde agli occhi indiscreti delle vicine metropoli del Nord Italia, incastonato tra il lago d’Iseo e la città di Brescia, ma che non è rimasto imprigionato all’epoca medievale di quelle “corti franche” da cui prende il nome – non vi è nulla, infatti, a che vedere, con l’altra patria delle bollicine per antonomasia, la Francia – e a cui risale, grazie all’opera dei monaci, la bonifica e la coltivazione dei vigneti. UN NOME, UN METODO Come non basta lavorare del legno d’abete della Val di Fiemme per ottenere uno Stradivari, così non sono sufficienti uve di Chardonnay, Pino bianco e Pino nero coltivate in Franciacorta per ottenere le bollicine italiane di Franciacorta Docg. E infatti in etichetta quel nome, Franciacorta, sta a indicare, oltre al vino e al luogo di produzione, anche il metodo, esattamente come succede, oltre confine, per lo Champagne e il Cava. Esiste, quindi, un disciplinare che regola in maniera ben precisa le modalità di preparazione. Sono tre i tipi di uva usati: Chardonnay e Pinot Bianco, a bacca bianca e Pinot nero, a bacca rossa, raccolti esclusivamente a mano e vinificati sempre separatamente.

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Il mosto ottenuto dalla prima spremitura è il vino base, che a primavera, dopo circa sette mesi dalla vendemmia, è usato per produrre la cuvée, una mescolanza di vini base Franciacorta, anche di differenti annate, scelti per ottenere determinare caratteristiche, che distinguono una cantina dalle altre. Quando la cuvée è pronta, si aggiunge in bottiglia uno sciroppo di zuccheri e lieviti attivi, che dà il via a una lenta rifermentazione, peculiarità del Franciacorta che permette lo sviluppo delle bollicine e l’aumento della pressione del vino. Le bottiglie sigillate vengono, quindi, accatastate nelle cantine in modo orizzontale: così “riposeranno sui lieviti” per un numero di mesi variabile a seconda del vino che si vuole ottenere. I lieviti, col passare dei mesi, si depositano sul lato coricato delle bottiglie e, terminato il periodo di maturazione, verranno eliminati. Per circa un mese, quindi, si dispongono le bottiglie, per il collo, sulle pupitre, dei particolari piani inclinati con fori che permettono di modificare l’inclinazione della bottiglia, con una rotazione manuale progressiva, fino a portarla in una posizione quasi verticale. Questo permette di convogliare i lieviti sul tappo e, quando tutto il sedimento è raccolto, si provvede alla sboccatura, prerogativa del metodo Franciacorta: verticalmente, si immerge il collo delle bottiglie in una soluzione refrigerante che determina la formazione di un tappo di ghiaccio che cattura le spoglie dei lieviti. A questo punto si rimuove il tappo metallico e la pressione interna della bottiglia espelle violentemente il residuo ghiacciato, con una minima perdita di pressione e vino. Il ripristino del livello nella bottiglia può avvenire sia con l’introduzione di solo vino, nel caso dei Franciacorta non dosati, sia con l’aggiunta di liqueur d’expedition, uno sciroppo costituito da vino Franciacorta, anche di annata, con aggiunta di zucchero. Il contenuto di zuccheri èÿ


n Giallo paglierino, riflessi verdolini o dorati, perlage fine e persistente, e sentori di crosta di pane e di lievito arricchiti da delicate note di agrumi, mandorla, nocciola e fichi secchi

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differente a seconda del tipo di gusto che si vuole ottenere. Dal più secco al più abboccato, cioè ricco di zuccheri, abbiamo: Extra Brut, Brut, Extra Dry, Sec o Dry, Demisec. A questo punto le bottiglie vengono tappate, marchiate con la F merlata del Consorzio per la tutela del Franciacorta, etichettate e pronte per essere stappate.

ASSAPORARE CON TUTTI I SENSI La maggior parte delle cantine della Franciacorta è aperta ai turisti che possono, non solo degustare, ma anche vedere le distese di vigneti, ammirare le bottiglie a riposo sui lieviti, sentire l’umidità delle antiche cantine ed entrare realmente nel mondo delle bollicine. E non c’è solo vino. La Franciacorta porta i segni della storia e dell’arte: palazzi, castelli, monasteri e le stesse cantine che sono opere architettoniche uniche. Per gli stakanovisti dell’enologia, inoltre, la Strada del Franciacorta è un percorso di 80 km che permette di scoprire tutte le realtà enogastronomiche e culturali locali. In alternativa, l’Associazione della Strada del Franciacorta (www.stradadelfranciacorta.it) offre la possibilità di itinerari personalizzati.

NON UNO SOLO Giallo paglierino, riflessi verdolini o dorati, perlage fine e persistente, e sentori di crosta di pane e di lievito arricchiti da delicate note di agrumi, mandorla, nocciola e fichi secchi: questo in poche righe il ritratto organolettico del Franciacorta. Ma dalle cattedrali enologiche franciacortine non viene alla luce solo questa varietà di bollicina. Completano le cantine anche il Franciacorta Rosé, il Franciacorta Satén, il Franciacorta Millesimato e le Riserve. Cambiano le qualità di gusto e sentore, perché diverse sono le caratteristiche di vinificazione e la durata di riposo sui lieviti. Mentre servono almeno 18 mesi per un Franciacorta, si passa a 24 per le due varietà Satén e Rosé, per salire a 30 mesi per i vini Millesimati e 60 per le Riserve. Ci vuole pazienza, infatti, per permettere ai lieviti di evolvere nel tempo e dare al vino aromi particolari e unici. Differenze sussistono anche nell’abbinamento delle uve: il Franciacorta è ottenuto da Chardonnay e/o Pinot Nero, ma è prevista la possibilità di usare anche il Pinot bianco. Il Satén è, invece, un blanc de blanc, cioè realizzato solo con uve bianche, soprattutto Chardonnay. Il Rosé è ottenuto facendo fermentare Pinot nero a contatto con la buccia per ottenere la tonalità rosata. Si può usare solo vino base Pinot Nero oppure unirlo a vini base di Chardonnay e/o Pinot Bianco, purché di quello nero si usi almeno il 15%. Il Millesimato è ottenuto da vini di un’unica annata, anche Satén o Rosé, per almeno l’85%, annata che viene riportata in etichetta. Le Riserve si distinguono da quest’ultimo solo per il maggior riposo sui lieviti. Differenze che possono sembrare piccole, ma che permettono di ottenere un ventaglio organolettico. Il Satén, a differenza del Franciacorta, conservando il perlage finissimo e il colore giallo paglierino intenso, con riflessi verdolini, ha una pressione minore in bottiglia, che lo rende più morbido

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al palato, quasi cremoso. Ha uno sfumato profumo di frutta matura, accompagnato da delicate note di fiori bianchi e di frutta secca anche tostata. Il gusto è fresco e delicato. Più corposo, invece, il gusto del Rosé, conferitogli proprio dal Pinot Nero. Ogni Millesimato e ogni Riserva, infine, hanno caratteristiche organolettiche uniche, espressione delle qualità che l’uva di quella particolare annata ha acquisito, a seconda del terreno e delle condizioni meteo, poi esaltata dal lungo riposo sui lieviti.

A TUTTO PASTO Per alcuni le bollicine sono solitamente sinonimo di vino da consumarsi a fine pasto o da dedicare ai brindisi, ma il Franciacorta da tempo porta avanti la bandiera del vino a tutto pasto. Le varietà esistenti e le declinazioni di gusto date dal diverso dosaggio di liqueur d’expedition, infatti, permettono di sposare l’effervescenza a ogni tipo di pietanza. Per una scelta adatta a tutto il pasto, si consiglia il Brut, che ha una dose zuccherina tra 7 e 11 grammi per litro, ed è il più versatile. Il Satén stesso si sposa alla perfezione con i piatti più delicati, ma la sua freschezza è adatta anche a equilibrare le pietanze dai sapori più decisi. Per chi ama cambiare durante il pasto, comunque, ogni momento ha il suo Franciacorta. Con gli aperitivi, è consigliabile la varietà più secca, cioè il Franciacorta non dosato. Si può scegliere anche l’extra brut, che, pur con l’aggiunta di zuccheri, mantiene un’elevata secchezza e si sposa anche con pesci, crostacei e frutti di mare. Per accompagnare insaccati, primi “impegnativi”, come risotti ai funghi, melanzane alla parmigiana, zuppe di pesce saporite, e carni di agnello e vitello, rane e lumache, è particolarmente adatto il sapore deciso del Rosé. L’extra Dry, che ha una nota dolce sfumata (contiene da 12 a 20 grammi di zuccheri per litro) ben si sposa con le verdure, al forno o in torta salata. A fine pasto, con i dessert non troppo dolci e per accompagnare i formaggi molli, piccanti ed erborinati, si può scegliere il Sec o Dry. Dulcis in fundo, è proprio il caso di dirlo, il Demi Sec: questo vino è il più zuccherino e rappresenta il classico accompagnamento per i dolci natalizi e le torte in genere. Qualsiasi sia il Franciacorta scelto: servire a 8-10° C, meglio se nei calici Franciacorta, appositamente studiati per esaltare il perlage. ◆

foto (3): © Consorzio per la tutela del Franciacorta/ Ph. Giacomo Rocco di Torrepadula

GUSTO


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Millenarie tradizioni di cultura contadina e fascino del mare si fondono in una regione, la Puglia, che ha portato per secoli sulle sue sponde una osmosi di idee e usanze. È il regno della tradizione enologica e della cultura dell’olio d’oliva, che nel Salento, all’estremo sud della regione pugliese troviamo quasi intatte, custodite gelosamente dai nativi e assaporate da tutto il mondo. È nell’estremo sud della Puglia infatti che il verde intenso degli ulivi si esprime nel suo frutto dal gusto corposo e intenso, inconfondibile e profumato dell’olio d’oliva. Ammonta a 2,3 milioni di quintali la produzione di 1.400 frantoi sparsi sull’intero territorio pugliese, pari a un terzo dell’intera produzione nazionale di olio. L’intera Puglia è infatti punteggiata di uliveti, la cui visione paesaggistica tipica suscita

sensazioni di pacatezza e calore. Ulivi giovani piantati con lo sguardo al futuro da chi sa attendere per 25 anni il primo raccolto, e ulivi secolari curati da chi sa custodire preziosi patrimoni. Per la salvaguardia e per la valorizzazione del patrimonio oleario, infatti, oltre al riconoscimento del D.O.P. (Denominazione d’Origine Protetta) dell’extravergine salentino, sono sorte le cosiddette “Strade dell’Olio” che uniscono in un unico percorso turistico olivi secolari, antichi e moderni frantoi dove si può assistere alla molitura delle olive e dove si può degustare o comprare olio di prima spremitura. La degustazione consigliata dell’olio è sui piccoli pezzi di pane di grano. Ma l’ulivo non è solo olio, è anche frutto polposo, verde o nero, fresco o in salamoia, turgido o raggrinzito da portare in tavola come d’usanza nell’antica Roma, dove era parte della gustatio che apriva i banchetti più raffinati e oggetto di ricette per la conservazione tramandateci da Plinio. Le olive stimolano l’appetito e hanno un mediocre potere nutritivo; contengono una certa quantità di idrati di carbonio, di proteine e di grassi. Un alto potere nutritivo è posseduto dall’olio d’oliva, il quale, è facilmente e completamente digeribile e perciò viene largamente usato sia per condire le insalate sia in sostituzione del burro per cuocere le vivande. È la base della cucina mediterranea e il suo uso in campo alimentare è consigliabile, rispetto ai grassi di origine animale, per il suo alto contenuto di acidi grassi insaturi. Largo impiego trova pure in medicina, e nella cosmesi essendo ottimo ammorbidente per la pelle, ed è utile come prima medicazione nelle scottature. Il Salento è anche terra di forte tradizione greca non esente da miti e leggende e l’olivo, l’albero dal fogliame verde argenteo, non è escluso da quegli affascinati racconti fantasiosi che fanno di una terra un favola. Secondo la leggenda esso nasce dalla spada di Minerva conficcata nel terreno nell’ambito della disputa tra la dea e Poseidone per offrire all’umanità il dono migliore. È difficile stabilire quando l’uomo usò l’olio ricavato dal frutto dell’olivo come alimento. Omero ed Esiodo testimoniano come guerrieri e atleti si ungessero con olio profumato. Gli ebrei ungevano con olio i monarchi e nella cattedrale del Santo Sepolcro a Gerusalemme si venera ancora la pietra dell’unzione sulla quale Nicodemo adagiò il corpo di Cristo per spalmarlo d’olio e di unguenti. Plinio nella sua “Historia”, menziona addirittura 48 qualità di oli estratti da diverse piante di olivo; ma come l’uomo sia riuscito a estrarlo nei tempi antichi è scarsamente noto. Mani e piedi sono strumenti ipotizzabili che l’uomo usasse insieme e pietre rudimentali per lavorare la pasta d’olive per estrarre l’olio. Successivamente l’uomo incominciò a scavare nella roccia ampie grotte per organizzare lì i frantoi. Si tratta dei cosiddetti frantoi ipogei, chiamati nei termini locali “Trappiti”. Il frantoio era scavato sotto terra (da qui il termine “ipogeo”) per motivi di sicurezza. In questo modo si rendevano più difficili i furti delle olive e dell’olio; inoltre si creava la temperatura ideale per facilitare la fase di spremitura. Si presentava come una grande grotta, dove al centro vi erano le macine che venivano fatte girare da asini con gli occhi bendati, un espediente che permetteva di costringere l’animale ad andare in tondo illudendolo di andare dritto. Intorno alla grande grotta poi vi erano le cosiddette “sciaghe”, grotticelle disposte a corona dove si scaricavano le olive raccolte nella giornata attraverso un dotto comunicante con l’esterno. Ogni sciaga veniva assegnata a un diverso olivicoltore e restava la sua per tutto il periodo della raccolta delle olive. Gli ingressi dei frantoi ipogei erano rivolti sempre a sud per avere all’internoÿ 39


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una temperatura più calda e costante che permetteva una più veloce separazione dell’olio dall’acqua di vegetazione delle olive macinate. In molti paesi del Salento oggi si trovano antichi frantoi ipogei trasformati in accoglienti ristoranti. Questi progenitori dei moderni frantoi furono per molti secoli fonte di grande economia per tutto il Salento, in quanto l’olio ivi prodotto veniva già all’epoca richiesto ed esportato in tutta l’Europa. Infatti diversamente dal resto dell’Italia qui le risorse agricole non erano destinate a garantire la sopravvivenza contadina, ma rappresentano prodotti che attivano il commercio a distanza. Nel Salento antico si conoscevano già i frantoi ma la massima espansione di tali locali adibiti alla produzione dell’olio si ha tra i secoli XII e XVII. Sono ben noti ancora oggi tantissimi frantoi ipogei annessi alle grancie basiliane, nelle antiche masserie e casali. Così importante era la produzione dell’olio nell’economia salentina, che per consentire il carico delle navi nel porto di Gallipoli, dove operava il Consolato del Mare, Papa Gregorio XIII, il 18 aprile 1581 accordò l’assoluzione collettiva per non aver santificato la domenica ai lavoratori del porto. Nel 1718 è documentata la presenza nel porto di Gallipoli, in un solo giorno, di 30 velieri; e nel 1771 di ben 60 velieri. Da qui partivano con le stive cariche d’olio per la Russia, l’Inghilterra, la Francia, la Danimarca, la Svezia, la Norvegia, la Turchia e l’America. Osservando i dipinti di fine 700 che hanno come soggetto il porto di Gallipoli, per esempio, si nota una quantità incredibile di navi provenienti da tutti i 40

Paesi d’Europa che vengono a rifornirsi d’olio non per trasformarlo nel prodotto alimentare pregiato che conosciamo noi oggi, ma per usarlo come lubrificante per le macchine, oppure come materia prima per la saponificazione. È a questo particolare tipo di produzione che sono congeniali i frantoi ipogei. I padroni dei frantoi sapevano perfettamente che dovevano produrre olio di bassa qualità, destinato a usi industriali. Il motivo più comunemente noto tuttavia che faceva preferire il frantoio scavato nel sasso a quello costruito a pianterreno era la necessità del calore. L’olio, infatti, diventa solido verso i 6° C. Pertanto, affinché la sua estrazione sia facilitata, è indispensabile che l’ambiente in cui avviene la spremitura delle olive sia tiepido. Il che poteva essere assicurato solo in un sotterraneo, riscaldato per di più dai grandi lumi che ardevano notte e giorno, dalla fermentazione delle olive e, soprattutto, dal calore prodotto dalla fatica fisica degli uomini e degli animali. Un frantoio sottoterra era inoltre realizzato con modesti costi di manodopera perché non richiedeva l’opera edilizia di personale specializzato. Inoltre tale struttura presentava il vantaggio di permettere il rapido e diretto svuotamento dei sacchi di olive nelle cellette sottoposte, attraverso le aperture che avevano al centro della volta, facendo risparmiare, anche questa volta, tempo e manodopera. A partire dal XIX secolo i frantoi ipogei furono progressivamente dismessi con l’evoluzione industriale sostituiti gradualmente da frantoi moderni che consentivano inoltre più raffinati e idonei processi di lavorazione e un prodotto degno delle più ricercate degustazioni. Il frantoio ipogeo o trappeto ipogeo nel Salento


si pone così come testimone nascosto di una millenaria civiltà, forse drammatica e spietata di uomini e bestie asserviti ad una fatica estenuante, eppure assolutamente necessaria per far sgorgare, alla fine di lunghi processi di lavorazione, l’oro liquido dell’economia salentina. I VINI Negramaro, una tradizione bella da assaporare e gustare al pari dell’omonimo gruppo musicale emergente dall’orgoglio salentino, è un vino rosso rubino, chiaro, acceso e brillante dal profumo fresco, fiorito, fruttato, quasi un simbolo per i salentini che nell’antichità, al tempo in cui la città di Roma era ancora chiusa nelle sue mura, già vantavano una tradizione vinicola rilevante insieme agli altri popoli della Puglia. Ancora oggi in molti dialetti pugliesi il vino si chiama “mjere” che deriva dal termine latino “merum” dal significato di “vino puro e genuino”. Giovenale, poeta latino satirico, parla di «Taranto, mandida dei suoi vini; lo storico latino Plinio ricordava che l’Apulia produceva vini che “non mancano di gloria”. Terreno calcareo e argillosa e clima mite dal sole cocente dell’estate, allora come adesso determinano le condizioni eccellenti per la coltivazione di vitigni di ottima qualità e i frutti d’uva che regalano rossi maestosi e carichi di umore, rosati brillanti, bianchi dal sapore delicato, fino agli amabili vellutati e ai briosi spumanti a fermentazione naturale. Spesso il vino pugliese viene definito “da taglio”, perché di gran corpo e con alte punte di gradazione.

I vini pugliesi in veste curata ed elegante vanno da tempo conoscendo un crescente successo in Italia e nel mondo grazie a una radicale trasformazione vinicola avviata negli anni Sessanta, quando furono introdotti nuovi vitigni e la tradizionale vite ad albero è stata sostituita dal tendone. Il risultato è una produzione di qualità con 25 vini in tutta la Puglia a marchio Doc. Alcune produzioni hanno carattere interprovinciale, come nella zona del Locorotondo in cui un gradevole vino bianco è a cavallo delle province di Bari e Brindisi. La città di Brindisi vanta oltre a una produzione Doc che prende il suo nome, i vini della Doc Salice Talentino e la Doc Ostuni, che tutela un antico vino di cui si ha notizia già dal 1600. Una moneta del IV sec. a.C. battuta a Brindisi e recante sul verso l’immagine di Airone, poeta greco inventore della musica per la vendemmia, rappresentato cinto da grappoli d’uva, certifica l’importanza e l’antichità dell’affermata tradizione enologica della città al sud della Puglia. Nella parte ancora meridionale della regione, in provincia di Lecce si concentrarono vini di qualità la cui denominazione è spesso legata al comune di produzione, Squinzano, Nardò, Martino, sono solo alcuni dei nomi più comuni. Il vino pugliese, il delizioso nettare degli dei, si assapora con culto e dedizione, un indispensabile compagno di tavola per i pugliesi, come esaltante di sapidità della tanto decantata cucina mediterranea specchio delle tante dominazioni che si sono avvicendate in queste terre lasciando tracce indelebili nell’arte culinaria. La cucina salentina è poi in particolare arricchita dei profumi e dei sapori del mare e della terra. ø 41


ツゥ Manuele Cecconello

OLFATTO

窶連 TAZZULELLA DI ESPRESSO ITALIANO

Ogni anno se ne consumano milioni ed ティ un rito a cui ティ difficile sottrarsi. Ma quali segreti si nascondono tra le sue sfumature ambrate? di Veleria Ghitti

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UNA FRAGRANZA INCONTRATA PER STRADA Tanto è lungo e complesso il lavoro di coltivazione, maturazione e lavorazione del caffè, tante sono le possibili sfumature aromatiche che il caffè può assumere, in bene o in male. Una prima grande distinzione a livello sensoriale va fatta già tra le due grandi famiglie di caffè esistenti: la Coffea Arabica e la Coffea Canephora, detta comunemente Robusta. La prima è anche la portatrice degli aromi più delicati, mentre la Robusta è più corposa e amara. I migliori aromi, però, sono dati da una miscela tra Arabica e Robusta ed è appunto una grande tradizione italiana quella di miscelare grani di più caffè di origini differenti, selezionati, in modo da ottenere un ventaglio

organolettico preciso ed equilibrato. Ci sono aromi tipici che il caffè ottiene direttamente dalla pianta. I semi di caffè, racchiusi in coppia in una ciliegia, possono essere estratti in due modi: a secco, facendo essiccare la polpa della ciliegia, o in umido, rompendo la polpa del frutto e lasciandolo per alcune ore in acqua, per ÿ liberare i semi.

UNA SCIENZA PER I SENSI

L’analisi sensoriale è un insieme di tecniche e metodi che conducono alla misurazione, attraverso gli organi di senso, di ciò che percepiamo. Si utilizza prevalentemente l’elemento umano per misurare la percezione di qualsiasi prodotto, ma si segue un metodo di indagine scientifico che “imbriglia” la percezione in un’elaborazione statistica dei dati, attraverso la compilazione, da parte di un gruppo di assaggiatori esperti, di schede. L’assaggiatore può essere un semplice consumatore o un giudice formato. In ogni caso non lavora quasi mai da solo, ma sempre in un gruppo, il panel, diretto da un panel leader. Il gruppo, infatti, permette di rappresentare le percezioni di una determinata popolazione. I dati che i valutatori esprimono sono registrati su schede che variano in base alla finalità del test e al tipo di prodotto. Al termine della valutazione i dati sono elaborati e permettono di ottenere un giudizio edonistico e una descrizione accurata del prodotto sotto il profilo sensoriale, affettivo ed emotivo.

© Carlo Odello

“Ecco un profumo che amo molto, quando si tosta il caffè vicino casa mia, ci sono i vicini che chiudono la porta, invece io apro subito la mia” come non essere d’accordo con Jean Jaques Rousseau. Tra i piccoli piaceri della vita non si può non riservare un angolino all’aroma del caffè che bussa ai nostri sensi: entrare in un bar senza l’inconfondibile profumo di espresso non sarebbe la stessa cosa. E non si tratta solo del fascino dell’idea romantica della fragranza evocatrice: secondo un sondaggio di qualche anno fa, per gli Italiani l’aroma del caffè è il secondo più apprezzato, secondo solo a quello del pane appena sfornato. Si può quindi affermare che sostanzialmente si beve il caffè proprio per il suo aroma (e nel nostro Paese i consumatori sono circa 41 milioni). Non stupisca, però, se abbiamo citato Rousseau: ancora oggi per i Francesi è meglio il profumo del buon caffè a quello della baguette. L’aroma nel caffè è tutto: viaggia a livello olfattivo e i centri di elaborazione degli stimoli olfattivi si trovano principalmente nell’ipotalamo, prossimi alla parte più antica del nostro cervello. Spesso proprio in base al profumo scegliamo se consumare o meno una pietanza e di fronte a una tazzina di caffè dall’aroma sgradevole anche il consumatore meno scafato storce il naso. “Quando diciamo che l’aroma del caffè è fondamentale per la qualità della bevanda non esageriamo. L’aroma è costituito da un numero molto elevato di molecole volatili che si formano durante l’intero percorso dalla pianta fino alla tazzina: queste arrivano al nostro olfatto sia in modo diretto, attraverso le narici, sia per via indiretta, con le sensazioni retrolfattive che ci giungono mentre sorseggiamo il caffè e che persistono dopo la deglutizione”, sottolinea Luigi Odello, presidente del Centro Studi Assaggiatori e professore di Analisi sensoriale in università italiane e straniere. Del resto sappiamo che molta parte della preferenza verso cibi e bevande è strettamente connessa all’olfatto.

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© Manuele Cecconello

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Una volta ottenuto il chicco, si passa alla tostatura: il chicco di caffè viene cotto a una temperatura variabile tra 220 e 240 gradi. Il grado di torrefazione varia moltissimo: basta pensare che nel Sud d’Italia si tende generalmente a cuocere di più il chicco, ottenendo una tostatura più scura e amara di quella del Nord. È in questa fase che il caffè, se ben tostato, acquisisce il tipico aroma di pan tostato o, nei casi di eccessiva torrefazione, un sentore di bruciato. I chicchi passano successivamente all’impacchettamento e quindi al processo di vendita e trasporto che porterà il sacchetto, infine, al barista. In questi passaggi molte variabili possono influire sull’aroma: per esempio se si macina il caffè molto prima di utilizzarlo, si perde gran parte dell’aroma. Basta poco, quindi, per esaltare le qualità della bevanda o rovinarla irrimediabilmente. IL CAFFÈ PERFETTO Un proverbio ungherese ammonisce “Un buon caffè dovrebbe essere nero come il diavolo, caldo come l’inferno e dolce come un bacio”. Ma esiste quello ideale? L’Istituto Nazionale Espresso Italiano ha delineato il profilo sensoriale dell’Espresso Italiano Certificato, garantito da un ben preciso marchio, nel rispetto della tradizione e delle aspettative del consumatore. “Le migliaia di test svolti sui consumatori e le centinaia di prove con assaggiatori professionisti hanno indicato, come Espresso Italiano Certificato, un caffè ornato da una crema consistente e di finissima tessitura, di color nocciola tendente al testa di moro, resa viva da riflessi fulvi” spiega Luigi Odello, anche segretario generale dell’Istituto Nazionale Espresso Italiano dell’Istituto Internazionale Assaggiatori Caffè. “L’aroma deve essere intenso e ricco di note di fiori, frutta, cioccolato (con eventuali sfaccettature di vaniglia), pan tostato e frutta secca. In bocca l’espresso deve essere corposo e vellutato, con un bilanciamento corretto tra acidità e amaro e con un’astringenza assente o appena percepibile”. Quando si parla di note floreali non bisogna immaginare di avere sotto il naso un bouquet di fiori, ma piuttosto un sentore di fiori freschi. “Le sensazioni aromatiche sono intense e si avvertono anche dopo la deglutizione, nel lungo aroma che permane per decine di secondi, a volte per minuti”, conclude Odello. Per ottenere questa esplosione precisa di sensi, nulla viene lasciato al caso. L’Espresso Italiano Certificato, infatti, nasce da una miscela di grani tostati di diversa origine, rigorosamente senza additivi o aromatizzanti, che deve essere macinata al momento della preparazione. Per una tazzina da 25 millilitri bastano 7 grammi di miscela macinata. La macchina deve portare l’acqua a circa 88 gradi e immetterla con una pressione di circa 9 bar. Il tempo di preparazione ideale è di 25 secondi, per trasmettere la parte migliore delle sostanze presenti nel chicco di caffè (glucidi, proteine, grassi e aromi). Da gustare a circa 67 gradi e in una tazzina di porcellana bianca priva di decori interni. AGUZZARE ANCHE LA VISTA Difficile affidarsi alle proprie percezioni sensoriali, magari non allenate come quelle di un assaggiatore di professione? Esistono piccoli escamotage per cogliere la qualità del caffè, anche dal semplice colpo d’occhio nel bar. Tre i “controlli” da fare. Occorre verificare che la campana in cui

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© Manuele Cecconello

LA VIA DEL CAFFÈ

si tengono i chicchi da macinare non sia ricoperta da una patina giallastra: è la componente grassa del caffè che, se non viene rimossa, si ossida e irrancidisce, trasmettendo questo sgradevole odore alla bevanda. Uno sguardo poi alla lancia del vapore, che si usa soprattutto per il cappuccino: il barista deve pulirla prima e dopo l’uso per evitare che il latte già montato cagli e lasci al caffè un sentore di caseoso, il tipico odore di formaggio. È importante, infine, che nel portafiltri, a ogni nuovo caffè, non restino tracce del macinato usato in precedenza, che altrimenti finirebbe per essere riutilizzato, rovinando l’aroma. ø

Nella laguna veneta è sorto il primo storico caffè italiano, all’ombra del Vesuvio cresce la tradizione della “tazzulella”. Eppure il caffè è coltivato nella fascia tropicale, quindi tra il tropico del Cancro e quello del Capricorno. In Italia arriva per essere lavorato da oltre 750 torrefazioni, ed essere poi esportato come prodotto finale, oltre che ovviamente ampiamente consumato nello Stivale. La leggenda vuole che i primi a coltivare il caffè furono gli etiopi. Maggiori certezze si hanno sulle prime consumazioni, datate attorno a metà del 1400 nello Yemen, da dove si diffusero in tutto il mondo arabo, alternativa gradita all’alcol vietato dal Corano. Con l’espansione araba, anche il caffè, chiamato ormai “Vino dell’Islam”, conobbe rapida diffusione. In Italia il caffè fece la sua comparsa a Venezia intorno al 1570, introdotto da un botanico e medico padovano, Prospero Alpino, che ne portò alcuni sacchi dall’Oriente. Ma è nel Seicento che il consumo della bevanda conobbe una reale diffusione nel nostro Paese e gradualmente in tutto l’Occidente

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“UNA VITA PER GLI ARCHI” Giovanni Lucchi

Cremona : La liuteria una tradizione, l’archetteria una conquista

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Stravolge la tradizione francese, modifica una realtà consolidata da anni di storia e diventa il precursore di un nuovo modo di concepire l’archetteria, conquistando il consenso dei più grandi musicisti dei nostri tempi e, purtroppo, anche di chi non è più qui: il grande violoncellista Mstislav Rostropovich. Il Maestro Giovanni Lucchi ha arricchito il mondo della liuteria, creando delle vere e proprie opere d’arte, permettendo a strumenti, come Stradivari o Guarneri, di essere degnamente accompagnati. Con grande lungimiranza, vent’anni fa, il Maestro Lucchi, mise a punto un misuratore per controllare la qualità sonora del legno per la costruzione degli archetti, ritenendo il pernambuco, il materiale migliore in assoluto. Riuscì così a selezionare delle bellissime bacchette che permisero la costruzione di pezzi unici e rari. La passione per l’elettronica, associata alla formazione musicale, alla tenacia e all’esperienza trentennale nel campo, sono stati gli artefici del successo raggiunto. La volontà di divulgare la sua Arte, ne fanno un personaggio amato, sempre attento alle esigenze del musicista e pronto a modificarsi. Oggi chi si avvicina alla sua bottega non trova solo l’artigiano, ma un vero e proprio cultore dell’arco. Scrutando per anni i grandi concertisti a livello mondiale e osservando le tecniche usate per provare gli archi, è oggi in grado di insegnare al musicista, ma anche allo studente, un metodo semplice ma efficace, utile a valutare l’efficacia acustica dell’arco. Il Maestro Lucchi costruisce esclusivamente archi di prima qualità e, soprattutto, si dedica alla creazione di veri e propri “archi da collezione”, con montature originali, anche dedicati a occasioni o eventi particolari. Per festeggiare i trent’anni di carriera, in ricordo del grande Rostropovich, crea in tiratura limitata di 25 pezzi, copie dell’arco da violoncello appartenuto al Maestro. 48


Curati nei minimi particolari, sono dotati di una montatura in argento, con l’anello inciso riportante le iniziali “R. M.”. Materiali preziosi per archi preziosi: con questa filosofia è stato creato il nuovo arco da violino. Sempre con l’anello inciso, questa volta con le iniziali del Maestro “G. L.“, questi archi in tiratura limitata di 25 pezzi, sono fasciati con una deliziosa catenella in oro bianco e cristalli Swaroswki incastonati nell’ebano del nasetto. IL PIÙ GRANDE VIOLONCELLISTA DI TUTTI I TEMPI Nel 2002 il Maestro Lucchi incontra il grande Rostropovich durante le prove di un concerto a Cremona. Per quell’occasione l’archettaio Lucchi costruì un arco per il Maestro, il quale ne rimase meravigliato: qualche giorno più tardi, infatti, Lucchi si vide recapitare a casa una lettera di ringraziamento del Maestro correlata da una foto con dedica. “Caro Amico, grazie tanto per i tuoi archetti con i quali suono giàÿ

Nelle foto sopra, è possibile ammirare i particolari degli ultimi due modelli di arco da collezione: Arco da violoncello “R.M.“ Un omaggio al grande Rostropovich: riprende le stesse caratteristiche del meraviglioso arco appartenuto al Maestro, arricchito dall’incisione sull’anello in argento delle sue iniziali. Prima scelta nei materiali: pernambuco, ebano e madreperla. Arco da violino “G.L.“ Materiali preziosi per l’arco da violino: incisione sull’anello in argento riportante le iniziali del Maestro Giovanni Lucchi, fasciatura con una delicata catenella in oro bianco e cristalli Swaroswki incastonati nel nasetto in ebano. G. LUCCHI & SONS Via Trecchi 1/3, 26100 Cremona www.lucchicremona.com - info@lucchicremona.com - Tel. 0372 491193

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da sinistra a destra: Antonella Soffiantini, Enzo Furfaro, Emanuela Pighi, Arturo Ponce e Raffaella Macuz

LA PAROLA AI MUSICISTI JOHN PATITUCCI “Gli archi G. Lucchi sono perfettamente bilanciati, il loro suono è comparabile solo alla loro bellezza estetica che si percepisce a prima vista. Hanno reso il mio modo di suonare più naturale e questo mi ispira molto. Grazie, John Patitucci “ PAVEL VERNIKOV “Possiedo da diverso tempo, archi Lucchi Cremona e li uso molto spesso in concerto, alternandoli con archi francesi classici, a seconda dei brani da eseguire. Mi capita spesso di confondere gli uni con gli altri. Al primo impatto, mi diedero la sensazione di esser archi difficili da controllare, ma poi, soltanto dopo alcuni giorni, vennero in risalto le qualità eccezionali che possedevano: prontezza, aderenza fino alla punta, stabilità sulla corda, ottima qualità sonora. Li consiglio senza ombra di dubbio, a colleghi e allievi che sono alla ricerca di archi di un ottimo livello”. GARY KARR “Giovanni Lucchi è uno dei più grandi costruttori nella storia dei miei strumenti. La sua padronanza del mestiere è poco meno che straordinaria e i suoi archi sono una sublime opera d’arte. Quello che è veramente notevole è che l’arco fa quello che il costruttore promette...accarezza le corde dal nasetto alla punta senza pressione e forza. È il solo arco della mia vasta collezione che fa questo. Per questa ragione l’arco ha più risposta, ha un ottimo balzato e produce uno dei migliori suoni che io abbia sentito fra tutti gli archi che ho usato”. SERGEJ KRYLOV “Possiedo archi costruiti a Cremona dal Maestro Giovanni Lucchi. Devo ammettere che l’eccellente qualità dei suoi archi risponde alle necessità degli strumentisti più esigenti. Il timbro del suono, la qualità e la distribuzione della risposta della bacchetta sono paragonabili ai migliori archi della scuola francese classica. Mi è stato messo a punto l’arco nel modo migliore per le mie esigenze, come non avrei mai pensato un archettaio fosse in grado di fare. Sono felicissimo di avere i suoi archi quali compagni della mia vita concertistica”. JEREMY MCCOY “Io provo un’enorme gioia nel suonare con il mio nuovo arco G. Lucchi Cremona! È un arco di bellissima fattura, con delle rare caratteristiche sonore: ottimo bilanciamento, tono, chiarezza e aderenza fino alla punta. Grazie al Maestro Lucchi per costruire archi da contrabbasso di così eccezionale qualità!” ENRICO DINDO “Ho la fortuna ed il piacere di possedere due archi Lucchi. Sono strumenti di altissima qualità che possono permettersi il lusso di essere paragonati ai loro prestigiosi colleghi molto più anziani e non sfigurare affatto, anzi. Le straordinarie scelte dei materiali e la ricercatezza dell’eleganza nel dettaglio fanno dei Lucchi archi di primissimo livello, assolutamente adatti sia per i giovani studenti che per i concertisti professionisti. Per me è un onore poterli consigliare”. 50

da qualche anno e che non ho intenzione di cambiare fino alla fine della mia vita. Sono stato molto contento di vederti al mio concerto, caro Giovanni. Spero di rivederti in futuro ti ringrazio per tutto quello che fai per me”. Tuo Slava

IL MAESTRO E LA SUA BOTTEGA Passeggiando nel centro storico di Cremona, lasciandosi attrarre dall’arte che traspare e percorrendo la strada dei prestigiosi palazzi Trecchi e Cittanova, si scorge un’antica bottega. Riprendendo un po’ lo stile inglese e rispettando la tipologia già esistente, Giovanni Lucchi e Raffaella Macuz hanno dato vita a una bottega con un accogliente ed elegante spazio per i musicisti e un’area riservata alla costruzione artigianale; combinazione ideale per poter accontentare il cliente anche nelle ultime modifiche e rifiniture e poter consegnare l’arco in perfetta forma. Il Maestro Lucchi si avvale della collaborazione di personale altamente qualificato: il team della “G. Lucchi & Sons”. ◆

GIOVANNI LUCCHI

Il Maestro Lucchi nasce a Cesena nel 1942. Nel 1963 si diploma in Contrabbasso al Conservatorio di Pesaro e dopo qualche anno viene assunto come professore d’orchestra al Teatro Comunale di Bologna. Nel 1971 inizia la costruzione e il restauro di archi, perfezionandosi nel laboratorio del Maestro Finkel a Brienz (Svizzera), e dopo pochi anni fonda la prima scuola per archettai in Italia presso la Regione Lombardia di Cremona. Tiene seminari teorico-pratici presso le più importanti Scuole di Liuteria. Dal 1981 al 1987 fa parte della redazione della rivista “Liuteria”. Nel 1983 mette a punto il “Lucchi Tester” che consente di misurare le caratteristiche meccanico-acustiche dei materiali usati per la costruzione di strumenti musicali. Dal 1991 al 1992 è stato segretario dell’Associazione Liutai e Archettai Italiana e dal 1991 al 1998 presidente dei Liutai e Archettai dell’Associazione Artigiani della Provincia di Cremona. Nel 1996 ha realizzato “L’arco”: un CD-Rom con contenuti multimediali tradotto in sei lingue.

MAXIM VENGEROV “L’arco Lucchi in mio possesso è estremamente comodo da suonare e la scelta del legno è eccezionale. È uno degli archi che mi accompagna normalmente nelle mie tournée”. JULIAN RACHLIN “Con l’arco G.Lucchi che possiedo, posso veramente affermare di aver trovato il prolungamento del mio braccio. Ho sentito molte volte pronunciare questa frase, solo ora mi è veramente chiara”.


UDITO

IL FASCINO DELLA BELLE

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Arte e mecenatismo ritornano sul Lago Maggiore grazie al Grand Hotel Majestic e alla famiglia Zuccari che dopo aver riportato agli splendori di un tempo lo storico albergo, oggi si propone di renderlo nuovamente luogo di cultura e di ispirazione artistica, come lo fu in passato. Nel 2005, in collaborazione con Adelina Von Furstenberg, Presidente di Art for the World, è stata organizzata una rassegna d’arte contemporanea sul Lago Maggiore, la cui prima edizione è stata dedicata a Jannis Kounellis. Nel 2007 in occasione del 50° anniversario dalla scomparsa di Arturo Toscanini, l’hotel, dove il celebre direttore d’orchestra amava trascorrere le vacanze, è stato trasformato in un teatro da mille posti con tanto di palcoscenico per i 200 componenti della Symphonica Toscanini Orchestra. Di certo le idee non mancano a Cristina Zuccari, membro del consiglio di amministrazione di Art for the World e proprietaria del Grand Hotel Majestic di Verbania, città che vanta il quarto posto per la qualità della vita secondo Lega Ambiente. È proprio l’arte contemporanea il leitmotiv che, da quando era adolescente e sognava di fare la fotografa, accompagna Cristina Zuccari: nel suo hotel ha allestito un interessante percorso artistico esponendo alcune opere della propria collezione privata: Mario Schifano, Francesco Vezzoli, Mario Moretti Foggia e Grazia Toderi. E presto la rassegna si arricchirà di altri importanti per-ÿ

Costruito nel 1870, il Grand Hotel Majestic ha uno storico passato. Preferito da capi di Stato, artisti e musicisti quali Claude Debussy, Arturo Toscanini e Eleonora Duse, l’albergo è membro del prestigioso Small Luxury Hotels in the World di Roberto Zarriello - Alessandra Fusé

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sonalità del mondo artistico contemporaneo. “Nel 2005 ho iniziato a organizzare mostre d’arte contemporanea sul Lago Maggiore nella suggestiva cornice dell’Isola Madre, un meraviglioso giardino botanico, tra i più belli d’Europa. Il lago Maggiore è un luogo indiscutibilmente ricco di fascino: la calma che circonda il paesaggio, i colori delle montagne che si specchiano sulla superficie piatta del lago e la luce che riflette sullo specchio d’acqua rendono lo scenario adatto a ospitare opere d’arte di grandi artisti quali, ad esempio, Jannis Kounellis e Robert Wilson” spiega Cristina Zuccari, che, alla fine di ogni mostra, espone nel suo hotel alcune opere prodotte dagli artisti stessi in loco. “Gli artisti trovano ispirazione dall’atmosfera che si respira sul lago - conti-

nua la Zuccari - e lasciano una traccia tangibile della loro presenza creando un’opera d’arte legata a questa esperienza; l’idea è quella di creare un itinerario storico-artistico in cui la tematica ricorrente sia l’incontro tra il lago e l’autore dell’opera. Nelle sale dell’Hotel Majestic si possono ammirare i lavori di Jannis Kounellis e Robert Wilson, cui si aggiungeranno quelli degli artisti che esporranno nelle rassegne d’arte future”. Molti artisti sono stati attratti da quel relax unico offerto dalle dolci acque del lago dove si riesce a godere del silenzio: una fuga romantica dai ritmi della vita quotidiana e dai rumori assordanti del traffico delle città. Lo potremmo definire “Silence-therapy”: quel desiderio di spegnere tutto per ascoltare i propri pensieri e niente di più.

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La storia Nel 1979 Silvano Zuccari acquisì la proprietà del Grand Hotel Majestic, un grande complesso in stile Belle Epoque in stato di decadimento. Alla guida di un’importante società di gas da lui fondata nel 1959, l’imprenditore affidò a terzi la gestione dell’albergo. Quando improvvisamente morì nel 1989, la sua venticinquenne figlia Cristina si

trovò a succedergli a capo delle imprese di famiglia. Il sogno di Cristina era di diventare fotografa ma fu costretta a lasciare alle spalle la macchina fotografica e ad occuparsi delle attività imprenditoriali. Nel frattempo, insieme alla madre Rosanna, Cristina decise di riprendere la gestione del Grand Hotel Majestic e di riportarlo agli antichi splendori, ma sempre con un occhio al futuro. Volevano a tutti i costi portare a nuova vita l’importante patrimonio storico e trasformare il Grand Hotel, nell’arco di cinque

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anni, in uno dei maggiori alberghi di lusso d’Europa. Progetto pienamente riuscito e coronato dal successo. Agli inizi degli anni duemila hanno così avviato un’importante ristrutturazione che vede impegnate, madre e figlia, nel recupero dell’immobile di cui oggi si occupano direttamente curando ogni dettaglio. Tutti gli interventi di ristrutturazione furono sottoposti alla severa approvazione delle Belle Arti essendo l’Hotel considerato monumento storico come edificio della Belle Epoque.


Il sognante fascino della Belle Epoque (l’hotel, costruito nel 1870 e accuramente restaurato, è annoverato tra i monumenti storici come edificio della Belle Epoque), il suggestivo lungolago, il profumo dei giardini in fiore, la romantica isola di San Giovanni, meta favorita del famoso direttore d’orchestra Arturo Toscanini, situata proprio di fronte al Grand Hotel Majestic, aiutano a ritrovare la tranquillità, che sin dalla fine dell’Ottocento era tanto apprezzata dai famosi personaggi che amavano trascorrere qui le vacanze e i periodi di riposo. Il Grand Hotel Majestic fu costruito nel 1870 sulle eleganti rive piemontesi del Lago Maggiore, ed è tutt’oggi un’esemplare concezione di architettura Belle Epoque proiettata nel futuro che accosta sapientemente il fascino romantico del passato con le più innovative attrezzature, a seguito di una radicale ristrutturazione portata a termine con cura e passione dagli attuali proprietari. Il Grand Hotel Majestic ha uno storico passato che lo ha visto albergo preferito da capi di Stato, artisti e musicisti, quali ad esempio Claude Debussy, Arturo Toscanini ed Eleonora Duse, rappresentando un punto di riferimento nell’hôtellerie di prestigio degli anni Trenta. Oggi a distanza di anni torna, a pieno diritto, a posizionarsi tra i complessi più lussuosi d’Europa, grazie all’importante intervento di ristrutturazione e ammodernamento. Non solo. L’albergo ha anche ottenuto la membership al prestigioso Small Luxury Hotels in the World, uno dei più importanti marchi tra gli hotel di lusso in grado di certificare l’appartenenza alla selezionatissima schiera delle strutture ricettive d’elite a livello mondiale: un giusto tributo non tanto all’edificio, quanto ai personaggi che hanno popolato le sale in oltre un secolo di storia. ◆

ART FOR THE WORLD 1996-2006 UN MUSEO ITINERANTE, SENZA MURI

ART for The World è un’organizzazione non governativa fondata nel 1996 a Ginevra (Svizzera), affiliata al Dipartimento d’Informazione Pubblica delle Nazioni Unite. Dal 2005 ha sede a Milano presso la Nuova Accademia delle Belle Arti (NABA) di via Darwin 20. Il presupposto dell’organizzazione è l’Articolo 27 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, che proclama il valore essenziale dell’attività creativa per il benessere dell’uomo e la necessità del rispetto delle differenze e del pluralismo in qualsiasi forma d’espressione creativa. ART for The World è una sorta di museo itinerante senza muri. La sua attività non è legata infatti a uno spazio permanente e definito, ma al senso delle iniziative stesse che promuove: un filo conduttore che unisce la diffusione dell’arte alla difesa di diritti e valori universali, caratteristica che la distingue nel panorama internazionale, rendendola un’esperienza davvero unica, di confine. Le sue mostre non appartengono sempre al normale circuito dell’arte contemporanea, ma si svolgono anche in monasteri, antichi monumenti, edifici pubblici, scuole e parchi, a sottolineare lo spirito sociale e cosmpolita dell’organizzazione stessa. Nelle sue manifestazioni internazionali sono coinvolti artisti affermati e giovani emergenti, che si distinguono per la qualità delle loro opere oltre che per il loro impegno civile e morale su questioni di carattere umanitario. 1996-2006: 10 anni di ART for The World 10 anni di attività e di mostre d’arte contemporanea a cura di Adelina von Furstenberg

www.artfortheworld.net 53


UDITO

VIAGGIO nell’

Incontro con Stefano Conia, Maestro Liutaio in Cremona

olimpo della liuteria C

Continua il nostro excursus nell’affascinante mondo della liuteria italiana insieme a Stefano Conia, liutaio di origine ungherese, le cui produzioni sono oggi note in tutto il mondo. Con il Maestro Conia abbiamo voluto approfondire il reale valore dei manufatti, considerati delle vere e proprie opere d’arte. La liuteria può essere paragonata ad altre forme d’arte più conosciute. Cosa manca a questa nobile e antica arte per poter essere apprezzata non solo dagli addetti ai lavori, ma dalla maggioranza delle persone? “Credo che la carenza di educazione musicale nel nostro Paese sia la causa principale della poca conoscenza della liuteria. Infatti, nei Paesi dove la cultura musicale è tenuta in più elevata considerazione si trovano i maggiori estimatori, collezionisti e commercianti di strumenti e prodotti musicali. Basti pensare che in Europa, soprattutto in Inghilterra e in Germania, o nei Paesi del lontano Oriente come il Giappone, la Cina e la Corea. Ormai, quasi tutti i tesori della liuteria hanno trovato la loro casa in terra straniera”. Scultura, pittura e musica: la figura del liutaio può essere considerata come quella di un artista a 360°. Cosa differenzia questa figura da quella di altri artisti? “La musica. È assolutamente vero che un liutaio è prima di tutto scultore, poi pittore e decoratore, ma se manca l’elemento fondamentale della competenza del suono, manca l’anima della sua opera”. Nell’era della globalizzazione, come è possibile poter rilanciare il vero valore dei manufatti di artigianato europeo? “Nonostante l’industrializzazione della produzione, i manufatti hanno un valore indiscutibile. La liuteria italiana, e in particolar modo la tradizione cremonese, non ha rivali in alcuna parte del mondo”. Un violino di fattura artigianale può avere la stessa valenza commerciale di un’opera d’arte. “Uno strumento fatto artigianalmente a mano ha un valore che si rivaluta nel tempo, mentre quello di fabbricazione industriale no. Naturalmente deve essere firmato e certificato a dovere”. I musicisti spesso si fanno tentare dai prezzi e dalle condizioni d’acquisto più convenienti dei prodotti di

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fattura industriale. Ben sappiamo, però, che la valenza degli strumenti artigianali sono nettamente superiori. Eppure sembra ancora un concetto non noto a tutti. Perché? “Spesso riceviamo richieste di informazioni riguardo a strumenti in offerta sulle aste on line. Gran parte di essi sono falsi o cattive imitazioni. Un musicista non dovrebbe farsi tentare da queste occasioni. Io consiglio sempre di acquistare solo ed esclusivamente se vengono offerte tutte le garanzie al riguardo”. Quanto conta attualmente in Italia e nel mondo il mercato della liuteria e che proporzioni sembra avere la rivalutazione di strumenti di fattura artigianale? “Il mercato della liuteria oggi risente della crisi globale, ma nei 40 anni del mio lavoro il bilancio è sicuramente molto positivo. Basti pensare che uno strumento qualche anno fa costava qualche centinaio di dollari, oggi un violino supera invece la quotazione di circa 10 mila euro”. La scuola italiana di liuteria è sempre stata all’avanguardia rispetto ad altri Paesi del mondo. Che cosa differenzia i nostri liutai e le nostre tecniche di lavorazione da quelle di altri Paesi? “La scuola italiana di liuteria è la più apprezzata per qualità e personalità dei liutai; il suono italiano da secoli ha fatto gioire il pubblico amante della musica classica e la tradizione liutaria di Amati, Stradivari, Bergonzi e Guarneri oggi continua a vivere. Alla Scuola Internazionale di Liuteria si diplomano allievi di tutte le parti del mondo: imparano la tecnica di costruzione, anche se è molto più difficile acquisire lo spirito artistico, creativo e inventivo italiano”. Cosa vuol dire e cosa rappresenta essere un liutaio oggi, specialmente in una città storica per la liuteria come Cremona? “A Cremona operano attualmente circa 150 liutai. Credo che nessun’altra città del mondo possa vantare una categoria più numerosa. La qualità è certificata e controllata. Abbiamo persino una banca dati SIAE collegata

STEFANO CONIA Stefano Conia nasce in Ungheria nel 1946 e fin da giovane inizia gli studi di violino e comincia a interessarsi alla costruzione di strumenti. Dopo aver completato gli studi, si trasferisce in Italia dove frequenta la Scuola Internazionale di Cremona, diplomandosi sotto la guida dei Maestri Sgarabotto, Morassi e Bissolotti. Insegnante di Scuola di Liuteria di Cremona per piu’ di venti anni, prima in qualità di Maestro Esperto di Verniciatura e Restauro, in seguito di Costruzione. Numerosi sono i premi da lui ottenuti in concorsi nazionali e internazionali; oggi i suoi strumenti sono conosciuti e apprezzati in tutto il mondo. È membro e fondatore dell’Associazione Liutaria Italiana (ALI ) e del Consorzio liutai ed archettai “Antonio Stradivari” di Cremona. info@stefanoconia.com - www.stefanoconia.com

con il Consorzio Liutai ed Archetti Antonio Stradivari. Le collezioni della città e i musei attirano ogni anno migliaia di persone provenienti da ogni parte del mondo”. Le sue creazioni sono note in tutto il mondo. Cosa rappresenta per lei la liuteria? “La storia della liuteria ha migliaia di appassionati e ammiratori. Mi fa molto piacere far parte di questo mondo. I miei strumenti vengono suonati dal lontano Giappone alle Americhe, per non parlare delle centinaia di musicisti italiani che utilizzano i miei strumenti. Mi piace proporre gli strumenti direttamente al musicista. Credo di poter trasmettere, attraverso i violini, un valore che va ben al di la di quello prettamente economico. Estetica a parte, i violini hanno una loro anima che rispecchia quella del liutaio”. ◆ 55


UDITO

RAVELLO 2009: MITO CONTINUA il

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Nato sulla scia della rassegna sinfonica wagneriana che per mezzo secolo ha portato nei giardini di Villa Rufolo direttori e orchestre illustri, il Ravello Festival dal 2003 vive sotto l’ala della Fondazione Ravello, organismo cui afferiscono il Monte dei Paschi di Siena, la Regione Campania, la Provincia di Salerno e il Comune di Ravello. Il Ravello Festival è una delle poche manifestazioni che possa vantare, oggi, un budget (circa 2 milioni di euro) sostenuto per due terzi da entrate private, e solo per un terzo da sovvenzioni pubbliche. Pur non rinunciando alla vocazione wagneriana, resa plausibile dal ricorso storico (Wagner visitò Villa Rufolo nel 1880, e vi ravvisò le sembianze di quella che sarebbe diventata la scena del secondo atto di Parsifal...), il Festival ha assunto una struttura totalmente diversa, rispetto al passato, nelle 56

ultime sei edizioni, premiate da un successo di pubblico sempre crescente. Non più una proposta sinfonica racchiusa nell’arco di una o due settimane, ma un grande festival multidisciplinare, destinato a illuminare l’intera estate di Ravello con più di cento eventi articolati in otto sezioni: Musica Sinfonica e Danza, Musica da Camera, Passeggiate Musicali, Progetti Speciali, Arti Visive, Tendenze e Design, Formazione, CineMusic. A tenere unite le molte produzioni che spaziano, dunque, dalla musica (classica, jazz, pop, etnica, contemporanea) al teatro, dalla letteratura alla scienza, dalla danza al cinema, dalla fotografia alla pittura, si pone un filo conduttore, ossia un tema scelto di anno in anno che, come un wagneriano leitmotiv, scandisce e connota la vicenda artistica. Dal 2003 ad oggi i temi presi in considerazione sono stati il Potere, il Sogno, il Contrasto, il Gioco, la Passione, la Diversità. Per l’edizione


Gli innumerevoli eventi in programma sono arricchiti da una cornice paesaggistica senza eguali, immersa nella magica atmosfera della costiera amalfitana dove storia, arte e leggenda si incontrano

2009 , che si aprirà il 26 giugno per chiudersi il 27 settembre e avrà Stefano Valanzuolo come direttore generale, è stato scelto il tema del Coraggio. La sezione Musica Sinfonica e Danza è, per tradizione, la più visibile del Festival, anche per la cornice speciale dei concerti rappresentata dal Belvedere di Villa Rufolo, a picco sul mare. Sei sono le serate che danno corpo a questo capitolo, al cui prestigio l’anno scorso contribuì Daniel Barenboim. Due serate vedranno esibirsi l’Orchestra del Teatro di San Carlo, partner privilegiata del Festival. Il 26 giugno l’ensemble napoletano sarà diretto da John Axelrod, noto in Italia soprattutto per il “Candide” alla Scala, in un programma tutto russo, diviso tra Shostakovich e Rachmaninov ed illuminato pure dal ritorno dell’ex enfant prodige Ivo Pogorelich, alle prese con il secondo di Rachmaninov. Nella seconda

occasione (1 agosto) sarà Jeffrey Tate a dirigere la “sua” orchestra, in un raffinato excursus tra Wagner e Mahler, dove spiccano i “Wiesendonck Lieder” affidati alla voce di Nina Stemme. Nel capitolo Orchestre straniere trova posto l’Orchestre Philharmonique de Strasbourg con Marc Albrecht e Lars Vogt solista al pianoforte (Quarto di Beethoven). Quindi, il 29 agosto, Ravello accoglierà un solista di straordinario valore, probabilmente il violinista di punta, in questo momento, del panorama internazionale: Vadim Repin, al suo debutto in Campania, con la St. John’s Smith Square Orchestra e un programma di grande virtuosismo, da Mendelssohn a Waxman. Ad un complesso tedesco, come da tradizione, è affidato l’omaggio a Wagner del 18 luglio: è la Wuerttembergische Philharmonie Reutlingen, al cui fianco troveremo le voci importanti di Herbert Lippert e Elizabeth Wachutka. Da sottolineare, ancora, l’evento clou che si consuma nella notte di San Lorenzo, tra il 10 e l’11 agosto: parliamo del Concerto all’Alba, da sempre uno degli appuntamenti più seguiti dell’intero Ravello Festival. Un concerto emozionante, affidato alla direzione di Aurelio Canonici, che comincerà alle 4.30 del mattino, per concludersi al sorgere del sole, sulle note di Grieg. Nella sezione Musica da Camera trovano posto dieci concerti al cui godimento, raccolto e raffinato, contribuisce l’eleganza dei giardini di Villa Rufolo. Tra i protagonisti annunciati dell’edizione 2009, Rainer Honeck, Konzertmeister dei Wiener Philharmoniker in duo con Luisa Prayer. E poi Roberto Cominati, già vincitore del “Busoni”, alle prese con alcune trascrizioni wagneriane; infine Carmela Remigio (4 settembre), tra le più belle voci di soprano di oggi, accanto a Leone Magiera. ÿ 57


Il Festival di Ravello vanta la collaborazione di personaggi di indiscussa fama mondiale, come (da sinistra verso destra, in senso orario) Chick Corea, Lina Wertmuller e Bonito Oliva

Passeggiate Musicali prende in considerazione, in dieci appuntamenti, il repertorio musicale non classico, spaziando, ad esempio, dal melodramma in chiave jazz del pianista Danilo Rea all’omaggio a Fabrizio de Andrè reso da uno dei suoi storici collaboratori: Massimo Bubola. In mezzo, il concerto quasi inedito di Ariel, pianista israeliano di 11 anni che improvvisa come un jazzista consumato; il debutto di un bluesman sudafricano di rango (Nibs van der Spuy) e un’originale rilettura musicale di una graphic novel di Art Spiegelman ispirata all’attentato dell’11 settembre. I Progetti Speciali del Ravello Festival 2009 spaziano in ambiti assai diversi. C’è soprattutto il grande jazz, con un concerto straordinario (11 luglio) che riunirà, per la prima volta Chick Corea e Stefano Bollani sullo stesso palco. E poi, il meglio della tromba, strumento “eroico” per eccellenza: da Enrico Rava (in quintetto con il “Requiem per Chris”, su testi di Camilleri), a Paolo Fresu in duo etnico, tra Caraibi e Mediterraneo, con Omar Sosa. Quindi Fabrizio Bosso, coinvolto insieme allo storico chitarrista brasiliano Irio De Paula in un omaggio a Oscar Niemeyer, architetto glorioso e progettista generoso del nuovo Auditorium di Ravello. Jazz a parte, l’edizione 2009 segna il ritorno di Massimo Ranieri (8 luglio), impegnato in un recital scritto espressamente per Ravello ed ispirato al Leitmotiv del 2009. Si intitola, curiosamente, “Chi nun tene curaggio nun se cocca ch’e femmene belle” (Chi non ha coraggio non va a letto con le belle donne), ed è dedicato al meglio della canzone napoletana a tema... Per il teatro segnaliamo la messinscena de “La duchessa di Amalfi” di Webster, che 58

avrà Villa Cimbrone come scenario privilegiato: una scelta significativa, se si tiene conto che questa splendida villa ravellese si affaccia su quella Torre dello Ziro in cui si consuma la tragedia della protagonista. Nel cast Mariangela D’Abbraccio e Sebastiano Lo Monaco. Agli Speciali del 2009 contribuiscono il progetto giovanile ClipMusic, la mostra su E.M. Forster, visitatore illustre di Ravello, e un ciclo di spettacoli musicali e cinematografici dedicati ai bambini. Ma, ad accrescere il prestigio di questa sezione, citiamo anche il rapporto di collaborazione sviluppato dal Festival con Rai Trade e che sfocerà in un capitolo intitolato “Melò around the World”, nel quale confluiscono l’omaggio cantato e recitato di Gioele Dix a Giorgio Gaber (4 luglio, in collaborazione con la Fondazione Gaber), il recital con immagini di Michael Nyman (27 giugno), l’inedita Maratona Piano Solo (28 agosto) allestita per fare luce sui molti talenti musicali italiani che operano dietro “i soliti noti”; quindi un convegno internazionale (25-27 settembre) che porterà a Ravello i responsabili dei maggiori festival e delle fondazioni liriche per fare il punto della situazione della musica in Italia. La sezione Arti Visive lascia spazio a una grande mostra disegnata da Achille Bonito Oliva ed intitolata “Madre Coraggio”. In esposizione, per tutto il periodo del Festival, opere di Wiener Aktionismus, Orlan, Cindy Sherman, Lorenzo Scotto Di Luzio, Alterazioni Video, Luca Guatelli, Shirin Neshat, Maja Bajevic, Marina Abramovic, Zhang Huang, Dinos e Jake Chapman, Santiago Sierra, Antonio Luongo, Vettor Pisani, Gino De Dominicis, Dennis Tyfus; inoltre, opere sonore di Joseph Beuys, Susan Philipsz, John Cage, Liliana Moro. Anche il migliore Design italiano troverà espressione nel corso del Ravello Festival 2009, con una mostra dedicata al Museo Richard Ginori, programmata a settembre. Molti, poi, gli scrittori invitati, da Erri de Luca a David Grossman, da Claudio Magris ai cinque finalisti del Premio Campiello 2009 (15 luglio), tradizionalmente ospiti del Ravello Festival. Sul versante scientifico, invece, segnaliamo la presenza di Giovanni Gaviraghi e, tra tanti, anche dell’astronauta Umberto Guidoni. Da qualche anno la Danza ha trovato nel Ravello Festival un territorio di elezione: dal 2003 ad oggi si sono succeduti sul Belvedere di Vila Rufolo coreografi illustri come Bejart, Petit, Bill T. Jones, ed etoile del valore di Roberto Bolle e Alessandra Ferri. Nel 2009 saranno due gli eventi coreografici di spicco: un corposo Gala (24 luglio) dedicato ai capolavori del XX secolo, con ballerini provenienti dalle maggiori compagnie del mondo e presenze illustri come Susanne Linke e Gil Roman (l’erede di Bejart); il 9 agosto, invece, debutta a Ravello la compagnia Les Ballets Jazz de Montreal, con una coreografia in prima italiana. Infine CineMusic, sezione firmata da Lina Wertmuller, assegnerà a Michael Nyman il “Premio Rota 2009”, darà forma (con Rai Trade) a un ciclo dedicato al melodramma in video, e presenterà al pubblico, nel corso di incontri non privi di un pizzico di glamour, alcuni film recenti riconducibili al tema conduttore del Coraggio: da “Fortapasc” a “L’ultimo Pulcinella” fino all’ultima fatica della stessa Wertmuller, ispirata alla vicenda emozionante del Premio Nobel Yunus. ◆



TATTO

Il trucco è in grado di trasmettere sensazioni davvero coinvolgenti, al di là del fascino e della bellezza esteriore. Ne abbiamo parlato con Luigi Sutera, socio del Make-up Studio Diego Dalla Palma di via Madonnina a Milano di Monica Renna 60

Il BENESSERE

NASCE DAL

MAKE-UP


“L

“La vera fortuna non è nascere belli, ma volersi bene”. Secondo Luigi Sutera, socio del make up Studio Diego Dalla Palma di via Madonnina a Milano, bastano soli pochi e piccoli gesti, leggere sfumature sulla pelle per trasmettere a una donna il reale concetto di bellezza e di benessere interiore. E per quanto riguarda il trucco? La cosa più importante è entrare in sintonia con la personalità della cliente e utilizzare ad arte il senso del tatto. Quali obiettivi vi ponete attraverso le lezioni di trucco e il trucco personalizzato? “Prima di eseguire una sessione di trucco, dialoghiamo con le nostre clienti per individuare il trucco che desiderano e quale effetto vogliono ottenere. Eseguiamo il trucco, mettendo in pratica anche delle tecniche, che pos-

sono risultare piuttosto difficoltose, al di là del risultato, che può essere molto naturale. Per quanto riguarda le lezioni il nostro obiettivo è ottenere un buon risultato, utilizzando pochi prodotti e tecniche abbastanza semplici. La chiacchierata che precede l’inizio della lezione ci aiuta a capire il grado di preparazione o bravura della persona; di conseguenza adeguiamo i nostri metodi alla cultura del cliente: più elementare o complesso, a seconda dei casi che si presentano. L’obiettivo finale è insegnare le tecniche di base del trucco, e fare in modo che le nostre clienti siano in grado di ripeterle in modo autonomo ogni volta che lo desiderano”. Quali sensazioni intendete trasmettere? “Le sensazioni hanno a che fare con il benessere, inteso come buon rapporto con se stessi. Molti anni fa una signora mi disse che la vera fortuna non è 61


nascere belli, ma volersi bene. Ed è vero, perché noi abbiamo delle clienti bellissime, che nonostante tutto, vivono quasi con disagio il rapporto con lo specchio. Sono belle, ma non ne sono consapevoli; questo sicuramente non dà benessere. Noi vogliamo trasmettere la sensazione di sentirsi bene con se stessi. Tra le nostre clienti abbiamo avuto persone che a stento si guardavano allo specchio. Il nostro compito è far superare loro questo tabù, e notiamo che anche dopo una base accennata di fondotinta, e una sfumatura d’ombretto sull’occhio, il loro atteggiamento cambia come il rapporto con lo specchio, che diventa più confidenziale. A noi piace usare questa espressione: fare un vestitino intorno all’occhio, che come per magia si illumina. Al di là di quanto si possa diventare più belli, la sensazione che trasmette il benessere, ci pone agli occhi degli altri sicuramente più affascinanti. La sicurezza arriva indipendentemente da quanto un naso è lungo o corto, da quanto un mento possa essere sproporzionato. Essere belli non vuol dire essere perfetti. Ci sono clienti che hanno anche abusato della chirurgia plastica, tanto che la loro pelle è diventata più liscia, ma avere la pelle liscia non vuol dire che ti rende più bella”. Passiamo alle sensazioni al tatto. Si può dire che con le vostre clienti si instaura un rapporto “intimo”? “Parliamo di un tatto più virtuale, perché si instaura un rapporto quasi intimo con la cliente. Per fortuna spesso non crea disagio, ma qualche volta accade che non si riesca a stabilire un contatto positivo, e quindi durante la sessione di trucco, in qualche modo avvertiamo una percezione negativa. Se entra in studio una signora che non conosco, faccio di tutto per toccarla il meno possibile. Cerco di capire se e quanto questa persona abbia voglia di essere

MAKE-UP STUDIO DIEGO DALLA PALMA Essenziale, minimalista, raffinato lo stile Diego Dalla Palma trasmette un’eleganza senza tempo. Il marchio rappresenta da oltre 30 anni l’eccellenza del make up professionale Made in Italy. Dal 2001, quando è stato acquisito da AGGF, il brand ha seguito un progetto di restyling, con l’obiettivo di rinnovare la sua immagine, mettendo in risalto il prodotto, vero protagonista dei segreti di bellezza. Lo storico show room milanese di via Madonnina, nel cuore di Brera, rappresenta l’immagine di tutti i punti vendita italiani e stranieri. Firmato da Cirelli Cipriani, l’arredamento dello studio crea un‘atmosfera di eleganza e modernità, classicismo e innovazione. Nel corner a destra della boutique è stato realizzato un general tester in wengè, che espone l’intera collezione makeup, dove spiccano le tendenze cromatiche della stagione. Tre le postazioni trucco, di cui una VIP separata da una porta scorrevole. Tra i servizi proposti alla clientela: sessioni di trucco base, trucco cerimonia o fotografico.

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toccata. Da un lato ci sono clienti che incoraggiano, grazie a un atteggiamento spigliato, disinvolto, altre che invece respingono ogni forma di tatto. Abbiamo comunque strumenti che ci permettono di realizzare un trucco, non utilizzando le dita. È nostra abitudine tenere sulla mano che non trucca un piumino che ci permette di sfiorare il viso della cliente senza toccare direttamente la pelle. Questa è la prassi, poi con alcune clienti con cui si è instaurato negli anni un rapporto più “intimo”, usiamo molto di più le mani. Più il rapporto con il tatto è intimo, più il trucco si velocizza. E poi, senza peccare di presunzione, essendo bravi, possiamo usare spesso le dita, per tamponare, alleggerire un correttore intorno all’occhio; perché non dimentichiamo che le dita attraverso il tatto trasmettono calore; e il calore può diluire qualsiasi prodotto, stendendolo e rendendolo più aderente alla pelle, leggero e naturale. Il tatto sicuramente è utile, anche se non consigliamo alle clienti di usare le dita, perché per assurdo è complicato ottenere un buon risultato utilizzando i polpastrelli”. Che importanza hanno i colori? “Ci definiamo un marchio “tranquillo”. Sicuramente ci sono situazioni in cui il colore contagia anche il nostro senso estetico. Per fortuna oggi si è verificato un ritorno al colore, perché qualche anno fa ricordo che andava solo il marrone, i vestiti erano solo neri, quindi anche il trucco era poco colorato. Il nostro rapporto con il colore, soprattutto quando facciamo lezione è libero, non vogliamo imporre i colori che piacciono a noi, ma valorizziamo quelle sfumature con cui le nostre clienti si identificano: ad esempio, se si dovesse seguire una lezione, consiglierei di scegliere il viola, se si vuole che l’iride dell’occhio diventi più verde, perché cromaticamente esalterà il verde dell’occhio nocciola. Se si vuole l’occhio più luminoso, più brillante, si potrebbe usare il blu, perché “sbianca” l’occhio, e dona al tempo stesso un aspetto molto naturale”. ø 63


TATTO

“Vestire” il CINEMA per PASSIONE La passione per la scenografia da una parte e per i costumi dall’altra. Un’intervista doppia dove i protagonisti di questi due mondi raccontano le loro esperienze, fino all’attività di insegnamento presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma di Monica Renna

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Cos’è l’Arte per voi oggi? Cosa vuol dire insegnare? Piero Tosi: Ho abbandonato questo lavoro da 20 anni, quindi non mi esprimo più in questo senso. Insegno ai ragazzi; è meraviglioso e si impara molto. Se dovessi riprendere la mia carriera farei tutt’altro rispetto a quello che ho fatto, perché insegnando si impara. L’insegnamento è un’esperienza rivitalizzante. Il contatto con i giovani da energia; per insegnare bisogna andare in profondità, non è consentito essere superficiali. Andrea Crisanti: Come riesco a esprimere la mia Arte oggi? Come sempre, come dalla nascita. Ognuno ha una sensibilità, la mia è la pittura. Ho iniziato da questa forma d’arte, poi sono approdato alla scenografia teatrale e cinematografica; mi esprimo disegnando, creo bozzetti e poi realizzo questi “sogni” cinematografici e teatrali.

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Sono tanti anni che insegno, mi diverto, mi piace stare con i giovani e insegnare. Ho avuto allievi molto validi, bravi, che si sono fatti strada anche grazie ai miei insegnamenti. Li ho trattati non come insegnante; infatti dico sempre che non voglio essere né un insegnante né un papà; voglio essere soprattutto un capo reparto. Mi viene naturale trattarli come assistenti, introducendoli immediatamente nel lavoro, e anche nel mio lavoro. Italian Style: a che punto siamo oggi? Piero Tosi: Oggi non seguo più il mondo della moda e quindi sarei un cattivo giudice, però tutto quello che vedo mi sembra brutto e senza nessuna creatività. É un continuo rimescolare il passato ormai da 30 anni a questa parte. Riappare ogni forma del passato il 25, il 28, tutte quelle date che riguardano il secolo passato. Non vedo una vera e propria creatività originale. Andrea Crisanti: Per quello che mi riguarda, parlo della scenografia e della


cinematografica, l’Italian style esiste ancora perché ci sono validi scenografi che lavorano all’estero, primo di tutti Dante Ferretti, premio Oscar, e costumiste come la Pescucci, la Cannonero, quindi ancora è un baluardo. Anch’io ho lavorato per l’estero: la nostra categoria è abbastanza valida perché in questa scuola formiamo gente che andrà a lavorare ovunque nel mondo; posso fare un elenco interminabile di ex allievi che lavorano con registi stranieri. Per quel che riguarda il costume, l’Italian Style vale molto per la moda. Per la produzione cinematografica, ci difendiamo, ma la crisi è europea. Cosa caratterizza l’arte italiana nel cinema? Piero Tosi: Il cinema è completamente diverso, non ha niente a che vedere con la moda. La strada ha molto a che fare con il cinema, perché la strada è la vita. Gli abiti che arrivano in strada, arrivano nella vita. Questo è sempre stato in stretta connessione con il cinema, ed è importante rappresentarlo. Invece la moda non ha alcuna attinenza con il cinema. La moda nel momento in cui diventa passato e stile allora sì, ma oggi non si avverte la moda per strada; forse se uno dovesse rappresentare un mondo estremamente ricco, ma non vedo più signore che vestono come negli anni 50, 60 o 70, alla moda. Vedo molto squallore per strada. Un mondo nero, grigio. Gli uomini e le donne sembrano vestiti a volte con sacchi della spazzatura... Andrea Crisanti: L’arte italiana nel cinema è caratterizzata, anzi è rovinata dalla televisione. Su questo non ci sono dubbi. Da una pessima televisione che sta costantemente peggiorando: parlo di una Tv priva di qualità, senza canali

artistici ad esempio; non ci sono canali culturali e quindi la nostra “povera” popolazione si accontenta e viene diseducata rispetto al passato, quando andavamo al cinema… Pensate che le nuove generazioni oggi siano ricettive rispetto a quelle del passato? Piero Tosi: Esiste purtroppo una differenza. Gli allievi una volta avevano passione. Questa è una scuola per amatori, per appassionati. É una scelta, una passione, sarebbe auspicabile arrivassero presso il nostro istituto con un po’ di cultura, che sapessero qualcosa di storia dell’arte, storia del costume, storia della letteratura non solo italiana, ma anche straniera… Invece arrivano qui digiuni completamente di storia dell’arte e storia del costume, non hanno letto mai un libro, non sanno nulla… Il primo anno è davvero infernale. Per aiutarli nel percorso che ci prefiggiamo, diamo loro da disegnare le caratteristiche somatiche del personaggio. Come se lo immaginano. Perché dalle caratteristiche somatiche si può capire il carattere, il passato, il presente, e quindi è più facile avvicinarsi al costume. Andrea Crisanti: Parto da un esempio. Pur avendo fatto degli studi artistici non ho mai fatto una scuola di cinema. Ho avuto grandi maestri. Era un’epoca diversa, questo mestiere si apprendeva per strada, sui set, facendo la gavetta. Ai miei tempi c’erano De Sica, Visconti, i grandi maestri cinematografici e lavorare con loro significava apprendere seriamente. Oggi di autori ce ne sono pochi e diventa quindi più complicato per un giovane trarre degli insegnamenti. Ed è per questo che noi, che siamo un po’ più maturi, cerchiamo di far rivivere certi bei momenti, culturalmente interessanti, del nostro passato. ◆

Da semplici schizzi e bozzetti prendono vita costumi e scene in grado di trasformare film e rappresentazioni teatrali in vere e proprie opere d’Arte

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SPECIALE AMBROSIANA

DA 400 ANNI AL SERVIZIO DELLA MADONNINA La Biblioteca e Pinacoteca Ambrosiana di Milano celebra quest’anno il 400esimo anniversario di fondazione e decide di festeggiare quest’importante traguardo con tutti gli utenti di Internet di Roberto Bonin

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Dedicata alla “pubblica utilità e al servizio di Dio”. Con questo nobile scopo nasceva nel lontano 1609 la Biblioteca e Pinacoteca Ambrosiana per volere del Cardinale Federico Borromeo. E fin da allora rappresenta uno dei tanti fiori all’occhiello di Milano, inserita, com’è, nel cuore pulsante della città tra il Duomo e il Castello Sforzesco, a rammentare all’Italia e al mondo intero che il capoluogo lombardo non vuol significare solo affari e finanza ma anche, e soprattutto, arte, cultura e storia. In 400 lunghi anni di attività, l’Ambrosiana è stata infatti protagonista e testimone dei più più importanti eventi che hanno caratterizzato la vita e l’evoluzione della grande Milano, dal Rinascimento fino all’era informatica, fungendo sempre da timone e faro portante della cultura meneghina e dell’Italia intera.

Tra i “segreti nascosti” dell’Ambrosiana vi sono le tavole del leggendario Codice Atlantico di Leonardo da Vinci

È sufficiente entrare nel suo maestoso atrio per respirare il profumo dei secoli e ascoltare i sussurri delle persone che hanno attraversato il tempo: in questa atmosfera magica sono contenuti i fasti della Milano dei Borromeo, l’orgoglio della Milano delle Cinque Giornate, il romanticismo della Milano di Giuseppe Verdi e la tragedia e la disperazione della Milano della peste manzoniana e dei bombardamenti del secondo conflitto mondiale. UN TESORO NASCOSTO NEL CUORE DI MILANO Ricca di quasi 7.000 stampati, 15.000 manoscritti in italiano, latino, greco, arabo, siriaco, etiopico, 12.000 disegni e altre rarità, la Biblioteca Ambrosiana è sicuramente una delle più importanti a livello mondiale. Lo stesso si può dire della Pinacoteca, costituita nel suo nucleo originario dalla donazione del 1618 comprendente le opere d’arte collezionate proprio dal Cardinal Federico, e nata allo scopo di servire alla formazione dei giovani artisti per i quali lo stesso Borromeo preparava una Accademia di pittura, scultura e architettura. Ultima per nascita, ma erede delle intuizioni federiciane che vollero so-ÿ ARTE&SENSI 67


FUTURISMO FUTURISMO

La Pinacoteca e Biblioteca Ambrosiana contengono al loro interno innumerevoli opere d’Arte di inestimabile valore artistico e storico; opere che, da qualche tempo, possono essere consultate in rete mediante un apposito sito web. Fra non molto, inoltre, una moderna postazione multimediale, completa di un pratico touch screen, verrà allestita all’interno delle sale in modo da aiutare i visitatori nella consultazione delle opere

L’AMBROSIANA IN NUMERI 7.000 stampati 15.000 manoscritti 20.000 disegni e incisioni 700.000 volumi a stampa 42.000 visitatori (anno 2008)

prattutto la nascita del Collegio dei Dottori, l’Accademia Ambrosiana si presenta come l’agorà dell’Europa e del Mediterraneo. Costituita non da libri od opere d’arte di inestimabile valore, come la Biblioteca e la Pinacoteca, l’Accademia ha in sé una ricchezza forse ancora più preziosa, perché capace di far vivere e fiorire le prime due: quella degli studiosi che la compongono, accademici di chiara fama e giovani ricercatori di promettente ingegno che sono raccolti in classi di studio che hanno per soggetto l’età tardoantica (Ambrogio e la sua epoca di trasformazione, tra romanità e medio evo), la letteratura classica e italiana, l’epoca di Carlo e Federico Borromeo (con il faticoso instaurarsi delle due tradizioni cristiane occidentali, cattolica e riformata), le lingue e le culture del Medio ed Estremo Oriente. “I suoi sviluppi possono essere enormi sia perché le classi avranno ulteriori sezioni sia perché si creerà una rete di studiosi e ricercatori che potranno arricchire non solo l’ambito di studio da loro coltivato con ricerche inedite”, tiene a sottolineare Monsignor Buzzi, Prefetto della Biblioteca-PinacotecaAccademia Ambrosiana, “Inoltre, l’Accademia potrà giovare anche ai buoni rapporti sociali, condividendo aspetti culturali che permeano civiltà tanto diverse nel mondo odierno”. I tesori custoditi all’interno della Biblioteca e della Pinacoteca sono davvero 68

ARTE&SENSI

immensi, potendo annoverare opere di Leonardo, Raffaello, Caravaggio, Botticelli, Ghirlandaio, Luini, Tiziano, Brueghel e manoscritti risalenti al XIII e XV secolo. UN EVENTO MULTI-MEDIATICO Sono passati 400 anni dalla fondazione della Biblioteca Ambrosiana e tale evento di portata mondiale non poteva essere celebrato che dalla più globale “istituzione” presente attualmente su tutto il pianeta: Internet. L’innovazione, d’altra parte è sempre stata una prerogativa dell’Ambrosiana, così come conferma Don Alberto Rocca, Dottore della Veneranda Biblioteca Ambrosiana: “L’Ambrosiana è sempre stata all’avanguardia rispetto al suo presente: fin dall’epoca di Federico Borromeo, infatti, la nostra istituzione si è sempre dotata delle tecnologie più avanzate disponibili. Vivendo attualmente nell’era dell’informatica è logico che Internet e la multimedialità rappresentano delle evoluzioni quasi scontate”. Proprio in occasione di questo importante anniversario, infatti, ha preso vita il progetto web “Ambrosiana Virtuale e Segreta” (raggiungibile all’indirizzo www.ambrosiana.it/virtuale), un suggestivo viaggio interattivo e multimediale in cui viene messo a disposizione degli utenti della rete i tesori custoditi nella


SPECIALE AMBROSIANA

n

L’ARTE DIVENTA INTERATTIVA

Pinacoteca e nella Biblioteca Ambrosiana in un allestimento virtuale creato ad hoc, che presenta le opere più famose esposte nelle diverse sale della galleria: la “Canestra” di Caravaggio, la “Maddalena” di Tiziano, il “Ritratto di giovane” di Giorgione, le “Allegorie” di Brueghel. L’itinerario virtuale permette di aprire le sale inaccessibili nella realtà, come la stanza che conserva lo splendido affresco di Bernardino Luini, l’”Incoronazione di spine”. Il nuovo format editoriale con cui è stato composto consente inoltre di osservare tutti i numerosi dettagli e personaggi presenti nel cartone della “Scuola di Atene” di Raffaello ed è in grado di regalare suggestivi momenti di lettura nella cinquecentesca Sala della Rosa, che per l’occasione accoglie virtualmente le pagine del prezioso “Codice Atlantico” di Leonardo da Vinci, l’antichissima “Ilias Picta”, il “Virgilio” di Petrarca, le lettere di Lucrezia Borgia e manoscritti in arabo, cinese e giapponese. “La multimedialità è uno strumento in più per far conoscere al grande pubblico la nostra istituzione”, tiene a sottolineare Don Alberto Rocca. “In più, ha un enorme valore conservativo, in quanto testimonia lo status quo di alcune nostre opere, la cui digitalizzazione le renderà direttamente fruibili a una gran varietà di persone dislocate in tutto il mondo”. Il progetto è infine completato da un DVD Rom che raccoglie l’intera Pinacoteca e, in esclusiva, il Foro Romano dell’antica Mediolanum, un’importante scoperta archeologica ancora inaccessibile al grande pubblico. Tra le future evoluzioni “digitali” che l’Ambrosiana si appresta a implementare è anche da ricordare l’installazione di un moderno touchscreen con cui poter consultare on site le opere a catalogo, in primis proprio il Codice Atlantico di Leonardo da Vinci. ø

Alphabeti (www.alphabeti.it), giovane software house milanese, ha ideato un innovativo format editoriale che utilizza le nuove tecnologie per estendere la fruibilità dell’arte e promuoverla in ogni sua forma. Il format Interactive Multimedia Virtual Reality (I’MVR) è in grado di assicurare infatti nuovi modi di viaggiare e di visitare musei, città d’arte e luoghi irraggiungibili attraverso percorsi di facile lettura, adatti anche per persone non particolarmente avvezze all’informatica e alle nuove piattaforme tecnologiche. “Abbiamo già presentato due originali realizzazioni, una on line e l’altra off line, entrambe dedicate alla promozione internazionale del turismo culturale”, spiega Francesca Alonzo, responsabile format multimediali di Alphabeti. “Si tratta della visita virtuale su CD Rom per la Galleria dell’Accademia di Firenze, in vendita in tutti i bookshop del Polo Museale Fiorentino, e il tour web Arte e Cultura da scoprire, un viaggio per descrivere i tesori più preziosi della provincia di Cosenza”. Più in particolare, il CD Rom della Galleria dell’Accademia offre la possibilità di visitare virtualmente 16 sale del museo, di guardare da vicino i dettagli di 70 opere e ammirare in tutta la sua bellezza il David di Michelangelo. Il tour virtuale Arte e cultura da scoprire permette invece di visitare monumenti ed edifici storici di dieci paesi della Valle del Crati. La narrazione virtuale parte dalle fotografie navigabili a 360°, che si arricchiscono di dettagli multimediali consultabili in modalità interattiva. Un commento audio, che racconta la storia dei luoghi e delle opere, accompagna la visita. Oltre alla partnership con la Biblioteca Ambrosiana, Alphabeti è anche protagonista dei festeggiamenti per il centenario del Premio Nobel per la Fisica a Guglielmo Marconi.

n ARTE&SENSI 69


ASSOCIAZIONI

SARANNO (SICURAMENTE)

FAMOSI Sfondare nel campo dell’Arte non è più un sogno, se c’è qualcuno che ci pensa per te...

C’

C’è chi cresce con l’arte nell’anima e chi invece la scopre da “grande”. Ma un denominatore comune unisce gli artisti di tutte le età e provenienza: la voglia di emergere. D’Arte e D’Artisti è un’Associazione culturale che ha lo scopo di promuovere l’Arte e gli artisti e creare nuove occasioni e opportunità rivolte a chi dell’Arte ha fatto la propria ragione di vita. Sull’esperienza professionale maturata in più di dieci anni di attività dall’Istituto Europeo d’Arte e Cultura di Milano, D’Arte e D’Artisti ha posato le fondamenta per un nuovo modo di fare Arte e impresa, con l’intento di avvicinare l’appassionato e il collezionista al lavoro dell’artista, creando occasioni di incontro e di scambio culturale. Tra le iniziative dell’Associazione vi è la ricerca di nuovi talenti creativi a cui sono dedicati momenti e spazi espositivi nel corso dell’anno, per la presentazione del proprio lavoro. Inoltre, all’interno del sito web www. dartedartisti.it è presente uno spazio esclusivo dedicato agli associati in cui viene offerta l’opportunità di promuovere in una vetrina la propria attività artistica. Per gli amanti dell’arte è stata creata, invece, una rete di convenzioni per spettacoli teatrali, mostre, convegni, eventi formativi, centri benessere, palestre e molto altro. Inoltre, con D’Arte e D’Artisti è possibile accedere allo Spazio IEAC di corso Sempione 9 a Milano (nella stesso luogo in cui ha sede l’Associazione) a tariffe e condizioni agevolate. Con la sua sala espositiva molto accogliente e suggestiva di circa 40 mq e un giardino di pertinenza molto 70

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D’Arte e D’Artisti Corso Sempione, 9 20145 Milano Tel 02.33104947 Fax 02.34690215 info@dartedartisti.it www.dartedartisti.it

caratteristico e alla moda, è infatti una location ideale per ospitare mostre, eventi e installazioni, e poter organizzare un evento di prestigio nel cuore della “Milano in”, a due passi dall’Arco della Pace e del Palazzo della Triennale. Lo staff dell’Associazione sviluppa, inoltre, progetti completi, che contemplano il servizio catering e banqueting, l’attività di ufficio stampa, la comunicazione, il marketing, la promozione e l’animazione dell’evento e dell’attività artistica ad essa correlata. Attraverso il prezioso contributo di Associazioni e società partner e importanti istituti di formazione a livello nazionale, in più, è in grado di affrontare l’Arte a 360°, abbracciando tutte le principali forme di espressione creativa attualmente conosciute, dalla pittura alla scultura, dal teatro al cinema, dalla fotografia alla scrittura e dalla musica alla danza, fino ad arrivare all’hobbistica e al tempo libero. Non solo. Grazie al contatto diretto e costante con professionisti dei settori arte, informazione e comunicazione, nonché a qualificati consulenti legali, fiscali e ammnistrativi, l’Associazione è anche in grado di fornire un valido e concreto aiuto all’attività professionale degli artisti, assistendoli passo passo nelle loro incombenze di tutti i giorni, guidandoli fin dalla nascita della loro iniziativa imprenditoriale. Nonostante la sua giovane età, l’Associazione ha già al suo attivo l’organizzazione e la promozione di ben tre mostre di pittura, due personali dedicate ai giovani artisti Virginia Vargas e Thomas Berra, e una collettiva dal

titolo “Trame di donna” (organizzata in occasione della Festa della Donna) a cui hanno partecipato con le loro opere “in rosa” le pittrici Roberta Castellano, Rea, Diana, Simona Skira, Miss Goffetown e Simona Sacco. “É davvero raro incontrare un artista che sappia esattamente le mosse che deve compiere per farsi conoscere e riuscire a far apprezzare la propria Arte. Ed è altrettanto vero che se non si è del giro non si riuscirà mai a farsi conoscere”, tiene a sottolineare l’Architetto Chiara Teora, Vicepresidente dell’Associazione d’Arte e D’Artisti. “All’artista serve un pennello, una macchina fotografica, gli ingredienti, la creatività, il talento e, soprattutto, crederci. Di questo ne siamo consapevoli e, noi per primi, ci crediamo. Con la nostra Associazione è possibile davvero realizzare finalmente un sogno proibito e diventare artisti sicuramente famosi”. ¡ ARTE&SENSI 71


A

FORMAZIONE

LA F BBRICA DEGLI RTISTI

É considerata attualmente come l’istituzione formativa con il più elevato tasso di internazionalizzazione e nelle sue aule sono passati importanti esponenti dell’arte di tutti i tempi come Antonio Canova e Lucio Fontana. Un nome, una storia lunga di secoli: Accademia delle Belle Arti di Brera di Roberto Bonin

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Il suo nome deriva dal termine longobardo “braida”, letteralmente “sterpaglia” o “spiazzo erboso”. E forse, è proprio con questo nome che si preferisce identificarlo: lo spazio in cui nascono e fioriscono gli artisti di domani e in cui vengono coltivati i giovani talenti, quelli veri, quelli destinati a lasciare un segno indelebile nella storia dell’arte. L’Accademia di Belle Arti di Brera, è uno dei tanti fiori all’occhiello della Milano culturale e dell’intero sistema formativo nazionale. Basti pensare che all’interno delle sue aule hanno insegnato o si sono formati personaggi del calibro di Antonio Canova, Lucio Fontana, Arnaldo Pomodoro o del Premio Nobel Dario Fo. 72

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UN PATRIMONIO INESTIMABILE Attualmente il patrimonio dell’Accademia di Brera è composto dalla collezione di Calchi e Sculture in gesso, l’Archivio storico, il Fondo Storico, il Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, la Quadreria, la Fototeca, la Biblioteca d’Arte Contemporanea dell’Accademia di Brera. L’Archivio storico si compone di 430 faldoni e 195 registri che riguardano tutte le attività dell’Accademia a partire dall’inizio dell’Ottocento fino ad arrivare alle attività di didattica, promozione e tutela svolta fino all’inizio del Novecento. Nell’archivio è anche conservato il manoscritto delle Memorie di Francesco Hayez, oltre ad alcune lettere di soci onorari illustri. La Biblioteca storica si avvale invece della presenza di 15.800 volumi raccolti a partire dal 1805, cui sono da affiancare 3.500 volumi provenienti dal legato Ala Ponzoni, ora in deposito presso la Biblioteca Braidense. Più in particolare, si tratta di una raccolta costituita da trattati d’arte, iconologia cinque/ seicentesca, repertori di primo Ottocento, riviste internazionali e cataloghi di musei ed esposizioni della seconda metà dell’Ottocento. Le collezioni si sono formate nell’ambito delle tre attività fondamentali dell’Accademia, dalle origini agli anni Venti del Novecento: educativa, espositiva, di documentazione e tutela. Alla prima si riferisce la cosiddetta suppellettile didattica: modelli e prove grafiche degli allievi, quindi le prove del Pensionato romano, disegni e opere di pittura e scultura. Alla seconda si connettono le opere risultate vincenti ai grandi concorsi, esposte alle mostre periodiche e gli acquisti del fondo esposizioni. Con la terza, infine, si spiegano numerose donazioni e alcune permanenze di opere antiche, appartenenti originariamente alla Pinacoteca, prima della separazione nel 1882. La raccolta si compone per cui di circa 600 opere, di cui una cinquantina antiche, 100 novecentesche e i restanti dell’Ottocento; 800 opere prevalentemente ottocentesche, tra cui 700 calchi didattici in gesso e da modelli rinascimentali, e 100 fra modelli originali e sculture in marmo e terracotta provenienti dalle esposizioni; 6.300 fogli sette/ottocenteschi, dei quali quasi 2.000 di architettura, 350 di scenografia e i restanti di figura; 3.200 fogli fogli sciolti sette/ottocenteschi, fra i quali l’intero corpus di Raffaello Morghen e le incisioni sceniche acquerellate di Alessandro Sanquirico; 28.000 positi-


dei premi messi a concorso, quanto delle opere di artisti italiani ed europei, nonché l’attività della Commissione di Ornato che svolgeva un controllo sui pubblici monumenti simile a quello delle odierne Sopraintendenze. Dal 1891 le esposizioni diventeranno triennali mentre la cultura architettonica consolida i propri modelli fino a rendere autonomo il proprio insegnamento. Nel 1923, con la riforma della scuola promossa da Giovanni Gentile, viene istituito accanto all’Accademia il Liceo Artistico: negli stessi anni la scuola di scultura è tenuta da Adolfo Wildt che avrà trai suoi allievi due tra i massimi rinnovatori dell’ambiente artistico milanese negli anni a venire, Lucio Fontana e Fausto Melotti, mentre per Funi verrà istituita la cattedra di affresco. Nel secondo dopoguerra l’Accademia riapre i suoi corsi grazie alla direzione di Aldo Carpi: se ne è fatto interprete negli ultimi decenni Guido Ballo, come professore di Storia dell’Arte, e accanto a lui maestri di scultura come Alik Cavaliere e Andrea Cascella e di pittura come Mauro Reggiani, Domenico Cantatore, Pompeo Borra e Domenico Purificato.

vi, fra i quali, oltre agli acquisti di Braun, Alinari, Brogi, Sommer e Moscioni, i lasciti Hayez, Mongeri, Boito, Carotti e la fototeca di Gustavo Frizzoni. SECOLI DI STORIA Sorto sul luogo di un convento dell’ordine degli Umiliati nel 1229, il Palazzo dove ha sede l’Accademia di Belle Arti passò ai Gesuiti (1572) che nel secolo successivo ne affidarono la radicale ristrutturazione a Francesco Maria Richini (dal 1627-28). Soppressa nel 1772 la Compagnia di Gesù, il palazzo ricevette un nuovo assetto istituzionale in cui, accanto all’Osservatorio Astronomico e alla Biblioteca già fondata dai Gesuiti vennero aggiunti nel 1774 l’Orto Botanico e nel 1776 l’Accademia di Belle Arti. L’Accademia iniziava così ad assolvere la sua funzione, secondo i piani dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria, di sottrarre l’insegnamento delle Belle Arti ad artigiani e artisti privati. Durante la Restaurazione, l’Accademia registra progressivamente le tendenze, spesso contraddittorie, della cultura romantica: in pittura trionfa il quadro storico grazie al magistero di Francesco Hayez e si istituisce la scuola di paesaggio (Giuseppe Bisi) sul modello dei paesaggi storici dipinti da Massimo D’Azeglio, la cattedra di estetica prende a trasformarsi in un insegnamento di storia dell’arte vera e propria. Siamo ormai alle soglie della crisi dell’Accademia che diventerà evidente subito dopo l’unità d’Italia quando il mutato clima culturale porteranno ad abolire il famoso pensionato a Roma riservato agli allievi migliori e a separare, nel 1882, la gestione della Pinacoteca da quella dell’Accademia. Al 1805 risale l’inizio delle esposizioni annuali, stimolate dalla prospettiva

L’OFFERTA FORMATIVA L’Accademia delle Belle Arti di Brera di Milano è riconosciuta come l’istituzione formativa con il più alto tasso di internazionalizzazione, in grado di accogliere circa 4 mila studenti di cui oltre 850 stranieri provenienti da quasi 50 diverse Nazioni di tutto il mondo. L’Accademia è passata dai quattro indirizzi tradizionali: Pittura, Scenografia, Scultura e Decorazione, a 11 corsi triennali di primo livello, 19 corsi biennali di secondo livello, un corso di perfezionamento e tre master. Ha inoltre attivato recentemente sei corsi biennali abilitanti all’insegnamento nelle scuole secondarie, nelle sei classi di concorso che si riferiscono allo specifico delle arti visive. Nel 2003, inoltre, l’Accademia ha anche ottenuto la certificazione per la progettazione ed erogazione di corsi di specializzazione e master post-laurea in campo artistico e culturale. La sua attività didattica è stata recentemente classificata dall’Unesco “A5”. ¡ Per ulteriori informazioni: www.accademiadibrera.milano.it ARTE&SENSI 73


FUTURISMO

100 anni sul promontorio Da

estremo

dei secoli

di Gabriele Stecchi

In queste pagine sono riportati alcuni “emblemi” del movimento: “Dinamismo di un cane al guinzaglio” di G. Balla (sopra) e “The City Rises” di U. Boccioni (a lato). Nella pagina a fianco, in senso orario: “Forme uniche nella continuità dello spazio” e “Materia” di U. Boccioni, e “I funerali dell’anarchico Galli” di C. Carra

L

La scoppiettante ironia del protofuturismo di Palazzeschi, in seguito apostata dichiarato della corrente, potrebbe suonare stonata, e paradossale, nell’avanguardia varata da Marinetti col suo celebre manifesto. Il colpo di cannone sparato sulla prima pagina di “Le Figaro” il 20 febbraio 1909, infatti, apologia della guerra “sola igiene del mondo”, esaltava “il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno”, e li sostiene con la baionetta fra i denti. Della risata insolente e monella di Palazzeschi, nessuna traccia. Ma il Futurismo non è mai stato un monolite, né avrebbe potuto esserlo senza trasformarsi in uno di quei “cimiteri” culturali che si era impegnato programmaticamente a distruggere. La curiosa equazione “insetti + noia = eroismo oscuro”*, che appare in una lettera dal fronte di Boccioni tra entu74

ARTE&SENSI

siastici zang tum tum di artiglierie, è un’ulteriore, sebbene poco nota crepa nella glorificazione futurista delle “belle idee per cui si muore”. Tra i propulsori iniziali del Futurismo pittorico, travolto fin dall’inizio dall’intransigenza velleitaria di Marinetti, Boccioni tradisce ben prima della Grande Guerra un’intima riserva al volontarismo distruttivo dell’adunata. Certo la pittura di Boccioni diventa da crepuscolare a muscolare, lucida di sudore, in una bolgia di muratori che innalzano impalcature nel marinettiano “fervore notturno degli arsenali e dei cantieri”, o nel caso de La città che sale, diurno; lo spazio domestico del pittore, da sempre popolato di evanescenti angeli femminili, avrebbe dovuto schiantarsi contro il “disprezzo della donna” sventolato dal manifesto. E in effetti da Tre Donne a Materia la madre dell’artista, oggetto di ossessive venerazioni, pur mantenendo postura e pettinatura, si fonde con la città - ormai salita - alle sue spalle, e persino nel titolo dell’opera si trasforma da diafana musa a umile calcestruzzo o equivalente; ciò che però permane, tridimensionale e solido, è il potere ancestrale di una femClof, clop, cloch, minilità iconica, scolpito in un volto antico che emerge tra le schegge di residuo cubicloffete, smo sulla tela. cloppete, Se il pasticcio di umanità di Boccioni laclocchette, vora, fugge e ride in un girone urbano e sintetico, in (Futur) Balla si disidrata prochchch... gressivamente in un vettore velocità, una freccia bidimensionale che attraversa la teda Aldo Palazzeschi, la in un motion blur di fotogrammi analitici. “La Fontana Malata”, 1909 In Dinamismo di un cane al guinzaglio gli


n Il Futurismo fu la prima avanguardia artistica che si formò attorno a una serie di obiettivi programmatici, raccolti nel Manifesto redatto dal poeta Filippo Tommaso Marinetti. Nei suoi intenti esaltava la giovinezza, la velocità della vita moderna, il progresso della tecnica e della scienza. I suoi simboli furono la macchina e lo sviluppo industriale. Fu un’esperienza comune alle arti visive, alla letteratura, al teatro alla fotografia e alla moda godendo di una larga diffusione in tutta Europa. Nel 1910 venne stilato a Milano il Manifesto dei pittori futuristi, firmato da Boccioni, Balla, Carrà, Russolo e Severini, che proponeva il rinnovamento della pittura italiana attraverso la rappresentazione della vita metropolitana, della velocità e del movimento, che diventarono i soggetti privilegiati delle loro opere. Il movimento ebbe soprattutto il merito di dare un forte impulso al superamento del provincialismo che aveva caratterizzato, fin dall’Ottocento, parte della produzione culturale del nostro Paese. (P. P.)

n stalloni imbizzarriti dei cantieri lasciano il posto a un inaspettato, frettoloso bassotto; il tempo di esposizione di Balla non intende per il momento “sfondare le misteriose porte dell’impossibile”, limitandosi a scherzare con quello scodinzolio sbarazzino, dal garbo tutto femminile, in una camera oscura mentale ancora in fase di rodaggio. Quanto a Bambina che corre sul balcone, la seduzione del moto che aveva stregato Muybridge in Animal locomotion rimane antropomorfa, calzata e vestita, sebbene disintegrata in un mosaico di tessere. L’ansia della città a tutti i costi di Boccioni è scomparsa, rimane solo la corsa per la corsa, come se l’ambita “eterna velocità onnipresente” non fosse altro che un estremo giocare a rimpiattino. Ma l’anima astrattista di Balla è alle porte, complice il feticcio marinettiano di motori dal “cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo”. Ed ecco “un’automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia” in Velocità astratta (è passata l’automobile), un veicolo poligonale, ciclico come un’onda d’urto, le ruote girandole impazzite dentro spirali logaritmiche; l’”uomo che tiene il volante” è in fondo quella

stessa bimba vestita d’azzurro, che schiaccia il pedale come se non dovesse mai finire la benzina. Qui s’inceppa il futuro futurista, più distruttivo che costruttivo, di Marinetti: qualunque sia, è nebuloso. Un limite tendente all’infinito su cui Depero opera per riduzione, rappresentando un mondo in particolare tra quelli possibili; ne sceglie uno chiassoso, caotico, una sarabanda automatica e decisamente attuale. Depero carica idealmente i policromi giocattoli a molla che sfilano ne I miei balli plastici come prescritto dalla Ricostruzione futuristica dell’universo, coniando “l’essere nuovo automaticamente parlante, gridante, danzante”, un animale metallico, “chimica, fisica, pirotecnica continua improvvisa”. Nella città ticchettante d’ingranaggi, fitta di occasioni e di insormontabili ostacoli, labirintica ed escheriana ante litteram, di Subway (Folla ai treni sotterranei), “grandi folle agitate dal lavoro” aspettano il treno compresse in “stazioni ingorde”, un metropolitano horror vacui a divorare ogni spazio sotterraneo. L’umanità, o ciò che ne rimane, fa di nuovo capolino, non più come costruttore, né come centauro meccanico, ma come fruitore o, meglio, compratore del futuro. L’attività di Depero nella pubblicità è vasta e seminale; il suo strillo futurista esplode nello spazio angusto di una rèclame, strappando a forza l’attenzione preziosa ma volatile dello spettatore. Per questo Se la pioggia fosse di Bitter Campari inventa il consumatore ideale, compulsivo e a ciclo continuo: ora la creatura automatica è completa di nuovi bisogni e opportunità, ma sebbene Marinetti affermi, caustico, che “l’arte, prima di noi, fu ricordo, rievocazione angosciosa di un Oggetto perduto (felicità, amore e paesaggio) perciò nostalgia, statica, dolore, lontananza”, esiste un Depero elegiaco, più morbido e sussurrato, che guarda ai rustici e agli alpeggi del suo Trentino e li popola di contadini intenti alla Fienagione. Al posto delle “officine appese alle nuvole per i contorti fili dei loro fumi”, all’orizzonte splende un sole caldo e quasi naif, mentre al carro manca persino l’onnipresente forza motrice, quasi la velocità non sia più condizione necessaria alla rappresentazione. Agli automi vagheggiati non sembra giovare l’aria di montagna; la risata di Palazzeschi ora suona più beffarda che mai. ø

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LIFE STYLE

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MISS DIOR CHERIE Semplice la formula, è fresco, frizzante, floreale e delicato

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SONY - WALKMAN Serie W Si indossa come una cuffia, per offrire massima libertà di ascolto a cur a di :M atte

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BRAIL Orologio con movimento quarzo con cassa in acciaio bilux, quadrante con cristalli Swarovski e cinturino in pelle

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TO MISSONI Abito lungo con effetti sfumature in maglia vanisè

LINDT Gold Bunny Disponibile nella ricette al latte, fondente e cioccolato bianco

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LIFE STYLE

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DIOR HOMME SPORT Una freschezza vivace che conserva tutta la magia di note misteriose

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LG - Home Cinema Blu-ray Suono sublime ed effetti sonori reali per vivere profonde emozioni anche nel salotto di casa a cur a di :M atte

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PER LUI

BRAIL Orologio movimento al quarzo con cassa in acciaio bilux e cinturino in gomma

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STO MISSONI Maglia a nido d’ape a righe multicolor, bermuda corti in tela di cotone di seta

MOËT & CHANDON - 1990 Vino considerato dagli intenditori come uno dei più grandi millesimati del XX secolo

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HARLEY DAVIDSON

O N G O N A O C I S R L AME

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Harley Davidson, il mito a due ruote

di Laura Forno

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Il primo logo della mitica moto, che risale al 1903, fu opera di Janet Davidson, zia di William, Walter e Arthur, e rimase pressoché invariato fino al 1925: sfondo nero con un listino in oro e una scritta rossa. Inizialmente la gamma dei colori che decoravano i primi esemplari era abbastanza ristretta: nero, oro e rosso, per passare in seguito al grigio e al verde militare durante la prima guerra mondiale. Col tempo si passerà, soprattutto dagli anni 80 in poi, a una vera e propria cura per il dettaglio e la decorazione, che renderà le Harley Davidson delle opere d’arte da esposizione. Il mito di questa moto che, soprattutto negli Stati Uniti, è sinonimo di libertà e di scoperta di grandi spazi aperti, continua inossidabile dal quel lontano 1903 e da quel primo modello che delle moto di oggi non conserva più nulla, se non il motore bivalvole (il V- Twin), che venne introdotto molto presto sui prototipi, perché 80

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quello a un solo cilindro non poteva garantire una potenza sufficiente. Già dal 1923, però, i costruttori propongono ai loro clienti nuovi colori per invogliarli all’acquisto e, solo dieci anni dopo, sono proprio la cura per le decorazioni e la modifica cromatica del logo a fare impennare le vendite. Nel 1948 viene inserito il logo cromato a forma di goccia, che verrà sostituito soltanto negli anni novanta ed entra in scena un nuovo colore, il celeste, per la carrozzeria. Sempre negli anni 50 si iniziano a vendere capi di abbigliamento e accessori per personalizzare le moto, e la Harley Davidson organizza addirittura concorsi per premiare le meglio equipaggiate e più originali. Tutta la storia o quasi della Harley Davidson è raccolta nel museo di Milwaukee, inaugurato il 12 luglio 2008, all’interno del quale si possono ammirare non solo 450 motociclette della collezione ma anche ricostruzioni delle officine d’epoca, mostre fotografiche, pezzi rarissimi e


modelli storici appartenuti alle star di Hollywood. La novità assoluta è l’apertura degli archivi della storica casa americana, in modo che i fan possano scoprire tutti i segreti della storia della moto HD. In occasione dell’apertura, poi, la famiglia di Willie Davidson ha donato una scultura che rappresenta un motociclista impegnato a salire su una collina, in sella alla sua moto. L’opera, dello scultore Jeff Decker, è stata realizzata in bronzo ed è posta all’entrata del museo. Negli anni 70 inizia la grande corsa alla customizzazione che modifica la forma della moto originaria in base ai gusti della clientela: nel corso degli anni, infatti, il lavoro che viene fatto sulle moto è molto particolare, si lascia cioè invariato il motore e si interviene soprattutto sulla livrea e il telaio. Il fine, oltre a quello di decorare, è anche quello di snellire e alleggerire la struttura. Fra i vari tipi di moto su cui operare, quello sicuramente più interessante è il chopper (dall’inARTE&SENSI 81


HARLEY DAVIDSON

La collezione del Museo è unica perché racconta le storie personali di coloro che hanno vissuto lo stile e la passione Harley-Davidson. Sentimenti trasmessi non solo grazie all’esposizione dei modelli, ma anche attraverso fotografie, filmati, abbigliamento e documenti originali. Tutto ciò è fortemente palpabile nella mostra dedicata a uno dei più noti appassionati, il grande Elvis Presley

glese to chop, tagliare) cioè quello che permetteva di effettuare più modifiche strutturali senza penalizzare la resa su strada. Interessante notare che, nei grandi raduni Harley, spesso accanto a superbe motociclette pregiamente dipinte e decorate, si trovano i Rats (letteralmente ratti, topi): vecchie moto ricoperte di cianfrusaglie, sporche, che non funzionano bene, ma che hanno una loro dignità estetica, ricordano infatti le motociclette usate durante la guerra. Generalmente le modifiche apportate ai veicoli sono soprattutto strutturali e legati al serbatoio, che viene allungato o legato direttamente al resto della moto o al telaio, che viene spesso notevolmente snellito. Nel 1994 la Road King, moto da granturismo, viene modificata in versione Coca-Cola: la moto viene abbassata, è completamente dipinta di colore rosso, ed è stata ripensata proprio nell’ottica dei tappi, bottiglie e scatole della Coca-Cola. Il logo compare sulle borse laterali, sul telaio, sul tachimetro e sui tappi del serbatoio. Anche il sellino è per-

Il Museo Harley Davidson di Milwaukee ha aperto i battenti il 12 luglio scorso; al suo interno sono contenute oltre 450 motociclette, più di 8.000 oggetti esposti, 15.000 documenti fotografici, oltre a tre diverse gallerie che hanno come tema conduttore la storia dell’azienda e i relativi step di crescita

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sonalizzato con il brand aziendale e il motore è interamente verniciato in rosso. Sotto al contachilometri si può trovare un’immagine che pubblicizza la bevanda con un ragazzino sorridente che indica la bottiglia. Spesso, invece, per le grandi moto da turismo familiare, la customizzazione si limita alla aggiunta di accessori e borse laterali. Nella seconda metà degli anni 90 società specializzate e designer e progettisti, soprattutto negli Stati Uniti di America, iniziano a modificare, con velleità artistiche, le moto dei clienti che lo richiedono. Custom Crome, Drag Specialties, Nemco e altre sono le aziende che vendono i pezzi per le modifiche direttamente ai loro clienti. I colori delle moto customizzate vanno dal total white, lunare e un po’ spettrale di un modello Softail fabbricato da John Reed, al rosso squillante con logo personalizzato dell’azienda, al giallo di forma più semplice, tutto prodotto dalla Custom Crome. La customizzazione negli anni 90, soprattutto nella zona di Seattle, crea nuove e originali forme nelle carrozze-


rie, rendendo le moto dei veri e propri capolavori da esposizione. Ispirato dalle creazioni del mago della customizzazione Arlen Ness, Russ Tom dà origine a una rivisitazione che rompe decisamente con gli schemi prestabiliti. Il modello in questione è rosso lucido, con la carrozzeria in metallo tutta lavorata a mano. Il tubo di scappamento è stato nascosto dietro il parafango posteriore, che si è allungato e incurvato quasi a formare un arco mentre il sellino si è notevolmente abbassato. Il motore e le parti in metallo sono cromate e spiccano nel rosso forte della carrozzeria. In un’altra, nera a fiamme gialle, l’elemento caratteristico è il tubo di scarico che, molto voluminoso, accentua ancora di più l’aggressività del veicolo. Un’altra moto “Apache Warrior” si distingue sia per la sua linea futurista che per i suoi colori particolari: marrone bruciato, blu e dorato. La sagoma è allo stesso tempo compatta ma sinuosa e leggera, anche il motore e il tubo di scappamento sono stati modificati, l’insieme ricorda un oggetto futurista, dove le ruote sono prive di mozzo e lo sterzo ha un sistema idraulico. Fra i progettisti d’eccezione il migliore è forse Arlen Ness, che nasce come camionista e che, grazie al suo estro e la sua creatività, inventa quello che verrà definito lo “Stile Ness”. Le moto vengono modificate in maniera sempre differente e la sua specialità, mai più ripresa da nessuno, sono le moto carrozzate come automobili: la Bugatti Ness dalle forme molto morbide e piuttosto compatte e la ruota anteriore e posteriore completamente coperte e “Ness-talgia” di un giallo squillante che ricorda sul retro la forma della mitica Chevrolet Bel Air del 1957. Altro modello interessante è la Harley Davidson Convertible, che si trasforma da moto da turismo con grandi parafanghi neri e grosso serbatoio a Street Racer di alta prestazione, senza più carenature o la Mona Lisa che lascia scoperto lo pneumatico posteriore. Anche i vecchi modelli HD vengono rivisitati: singolare è una vecchia moto tutta dipinta di rosso, con il manubrio spostato molto indietro. Il figlio di Arlen, Cory, realizza motociclette dallo stile altrettanto particolare: davvero degno di nota “the Wedge” , molto compatta e larga, che gioca sui cromatismi del blu scuro e con il sedile piuttosto abbassato. Lo stile dei Ness, al di fuori di ogni schema e lontano da ogni precedente espressione decorativa, rappresenta un’innovativa rottura e ogni cambiamento, sia strutturale sia sostanziale, è libero sfogo della fantasia. Con Ness i sogni dei centauri diventano realtà. Bob Dron che incontra Ness nel corso della sua carriera, ama soprattutto lavorare la pelle per le rifiniture e i sellini, mentre il francese Cyril Huze, che si trasferisce negli Usa nel 1986, inizia a produrre moto di particolare pregio: sono

cesellate in tutte le parti metalliche, il colore predominante è l’azzurro e la cura per i particolari è molto importante. Famosa è la “Deanager” in onore di James Dean, azzurro e oro, e dipinta da Chris Cruz, un pittore di eccezione. Un’altra sua opera, Miami Nice, invece si avvale di disegni in stile art decò di origine francese della Belle Epoque, curiosamente il tubo di scarico è chiuso e il gas esce da fessure laterali. Unica nel suo genere è l’azienda Hardly Civilized che, dal 1995, si specializza nella modifica dei tubi di scappamento piegandoli e incrociandoli in forme inusuali. Interessanti sono le forme di Nightmare, opera di Jay Brake, specialista di impianti frenanti che realizza una moto rosso scuro di gran pregio, chiamata così per la difficoltà di costruzione: la moto sembra letteralmente divisa in due, tenuta insieme da una piccola parte del sellino sul serbatoio, mentre si slancia tutta verso la parte posteriore. Molto vicino alll’iconografia orientale sono Dragon ed El Tigre, nate dall’incontro di J.P. Poland e Dan Meyer, uno specialista di stiling. Le opere, per lo più usate in esposizione, sono state modificate con poliestere e resina per costruire la testa del dragone, le scaglie della coda, le ali che coprono parte del motore, in modo da creare l’illusione che dalla moto sembri uscire un dragone cinese rosso lacca, blu e giallo. Più realista “El Tigre” il cui parafango anteriore finisce con una testa di tigre e quello posteriore con una ancor più realistica coda. Bob Lowe nel 1994 ha un’idea geniale: quella di fare a meno del fanale anteriore sostituendolo con due fari di fianco al serbatoio, creando un effetto a muso di squalo. Un discorso a parte lo merita la Paragon Locomotion che, nata nel 1991, produce anche oggi soltanto dieci esemplari all’anno su richiesta dei clienti. Questo avviene perché la cura per i particolari è molto presente. Tutti i pezzi beneficiano di cesellature, anche i più insignificanti. La ricerca delle rifiniture è spinta all’estremo: vengono ad esempio decorati anche i parafanghi con immagini molto curate. I soggetti sono stile western, ispirati alla cultura indiana, o semplicemente dipinti in un gradevole cromatismo che, per eccesso di decorazione, si può ricondurre allo stile barocco. In America Wyatt Fuller, che era il progettista di Razorback, una società di customizzazione, si mette a lavorare in HD dopo il 1992 e incomincia a creare moto dai disegni astratti e futuristi, con caratteristiche particolari: la “Biker Blues”, ad esempio è un’Harley personalizzata sul tema dei nuovi jeans HD. I nuovi artisti giocano con la materia e i colori, trasformando i modelli delle moto in prototipi originali e futuribili. Sotto le loro mani, l’acciaio diventa creta da modellare. ¡

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L’Istituto Europeo d’Arte e Cultura in collaborazione con

l ’Associazione D’Arte e d’Artisti sta realizzando:

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Figurativa TESTATINA

SUSANNA VIALE L’ARTE DA COMUNICARE UBALDO BRICCO OVUNQUE C’E’ MUSICA

ne i z a g a M

SANDRO LEONARDI LA SCULTURA DEI SENSI CATERINA BONAVITA PREZIOSI SEGRETI

IDEO PANTALEONI L’uomo, l’artista, la sua Arte, le sue opere

2 Art MARKET


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IDEO PANTALEONI

UN GENTILUOMO

DAI GUSTI MODERNI Genio romantico e grande precursore dei suoi tempi, Ideo Pantaleoni può essere considerato come uno dei maggiori testimoni e protagonisti dell’Arte italiana del secolo scorso di Roberto Bonin

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na persona timida, elegante, educata, dall’animo cordiale e spesso ricco di humor; un animo che si rispecchia in un viso sempre sorridente, in grado di avvicinare immediatamente le persone. È così che viene ricordato Ideo Pantaloni, un gentiluomo dei tempi passati che ha saputo lasciare un segno indelebile nella storia dell’arte del nostro Paese. Una natura misteriosa, ma geniale, ombrosa ma sorridente, hanno fatto di Panta – questo l’affettuoso vezzeggiativo utilizzato da tutti quando era in vita – un artista aperto a sempre nuove esperienze professionali. Fu lui infatti uno dei primi artisti in Italia ad accostarsi, nell’immediato dopoguerra, all’arte non figurativa geometrica. “Ideo Pantaleoni è protagonista dell’astrattismo italiano. Protagonista, in parallelo con le opere della prima maturità, delle istanze che dal Movimento di Arte Concreta ai saloni di Réalités Nouvelles hanno profuso l’aprirsi di esperienze che, entro la cultura europea, rifondavano proseguendole, le istanze delle avanguardie storiche”, è quanto scrive dell’Arte del Maestro Pantaleoni Germano Beringhelli. Un genio romantico e un grande precursore dei suoi tempi, potremmo definirlo; una firma destinata ai grandi altari, la cui fama non è ancora – ingiustamente e inspiegabilmente – degna del suo talento e della sua istintiva creatività. Un artista da tenere quindi d’occhio e su cui concentrare l’attenzione per ciò che è stato, per ciò che ha fatto e, soprattutto, per ciò che ha significato.

“Paris, Moulin de la Galette” 50x35 cm, 1949

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TRA FIGURATIVO E CUBO-FUTURISMO La storia artistica di Ideo Pantaleoni rispecchia in tutto e per tutto la sua natura introversa e non conosce davvero limiti, né di tecnica né di creatività. L’opera del Maestro ha infatti conosciuto differenti momenti e periodi, tutti contrassegnati da un inconfondibile stile personale, ricco di genio e vitalità. Prima figurativo e poi astratto, con evidenti influenze di cubismo e futurismo, Pantaleoni attraversa con estrema eleganza e maestria tutte le maggiori correnti dell’Arte italiana del secolo scorso, interpretandole


Ideo Pantaleoni è protagonista dell’astrattismo italiano. Protagonista, in parallelo con le opere della prima maturità, delle istanze che dal M.A.C. (Movimento di Arte Concreta) ai saloni di Réalités Nouvelles hanno profuso l’aprirsi di esperienze che, entro la cultura europea, rifondavano proseguendole, le istanze delle avanguardie storiche. Propriamente, Pantaleoni fu tra quanti concorsero, negli anni dell’immediato dopoguerra, a “mettere in frizione razionalità ed emotività”, come ha scritto di recente Luciano Caramel occupandosi di un’attenta rilettura del dopo Mondrian... Germano Beringhelli - 1990 A destra, “Parigi, Lungo Senna” 30x50 cm, 1949 Sotto, “Venezia” 80x60 cm, litografia su carta, 1949/1988

n Linguaggio piacevole, aristocratico chiaro: con un fondo di meditazione che sempre più si rannuvola, dal magico realismo di certe nature. Alle pure composizioni geometriche - metafisiche, in cui si risolvono problemi di architettura di colore

n secondo un proprio schema e una propria metodica, curiosa e attenta, ma al tempo stesso irrazionale e informale. Una tappa fondamentale nel percorso artistico di Pantaleoni è però rappresentata dal Movimento Arte Concreta (M.A.C.), un movimento fondato da Atanasio Soldati, Bruno Munari, Gillo Dorfles e Gianni Monet a Milano nel 1948, che coprirà tutto il decennio successivo fino al 1958. Pantaleoni fu uno dei primi ad accostarsi a questo nuovo schieramento e le sue opere figurarono spesso nelle mostre di gruppo organizzate dal M.A.C. Il M.A.C. nacque come contrapposizione al realismo politicamente impegnato e agli influssi dell’irrazionale informale. La corrente artistica si rifaceva, infatti, al concetto elaborato da Van Doesburg nel 1939 e ripreso successivamente da Max Bill nel ‘36 secondo cui l’arte concreta attinge a forme, linee e colori autonomamente elaborati dalla personale immaginazione dell’artista, anziché dai processi di astrazione delle immagini della natura. Ma la ricerca artistica di Pantaleoni non si fermò qui e anche dopo il 1958ÿ ARTE&SENSI 87

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IDEO PANTALEONI

“Composizione”, 50,5x40 cm, tempera verniciata su tela , 1954

“Composizione cromatica” 70x50 cm, olio su tela, 1979

rimase sempre assidua e sempre viva: la sua tecnica scelse forme nuove di natura astratto-informale, pur rispettando un personale codice pittorico straordinariamente coerente. Il Maestro aveva preferito per cui concentrare le sue ricerche verso una forma d’arte rigorosa e strettamente legata a una sintassi costruttiva, basata essenzialmente sopra una ricerca che fosse, in realtà, la prosecuzione delle sue prime operazioni concrete degli anni Cinquanta. Scrive di lui Gillo Dorfles, riferendosi proprio a questo ultimo periodo: “Forme geometriche, derivate dal cerchio, dalla losanga, dal rettangolo, sovrapposte a formare due o tre livelli, alle volte aggettanti verticalmente, quasi sempre impostate sopra una rigorosa schematizzazione costruttivista che non lascia nulla al caso, all’alea, all’approssimazione”.

1993 a 89 anni, colto da una crisi cardiaca. Ha all’attivo numerose esposizioni, sia personali sia collettive, in Italia e all’estero, tra cui si ricordano “La Biennale di Venezia”, la “Triennale di Milano”, le “Quadriennali Romane”, e, inoltre, è stato ripetutamente invitato per moltissimi anni alle mostre di gruppo delle “Realités Nouvelles” di Parigi, dove nel 1949 gli fu concesso l’onore di essere considerato come “membro-societaire”. Ampia è anche la bibliografia a lui dedicata. Sue opere si trovano nei Musei Vaticani, collezione Banca Intesa, Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, Raccolte del Comune di Milano, Galleria d’Arte Moderna di Torino, Kolgate University Museum di New York, Musée d’Art Moderne de La Ville di Parigi, Galleria Civica d’Arte Moderna di Ferrara, Pinacoteca Comunale di Ravenna e Museo d’Arte del 900 G. Bargellini di Pieve di Cento (Bologna). Hanno scritto di lui importanti critici di fama internazionale, tra cui: Carlo Carrà, Gillo Dorfles, Guido Piovene, Dino Bonardi, Vincenzo Costantini, Alfio Coccia, Innocenzo Salvo, Guido Marangoni, Enotrio Mastrolonardo, Mario Monteverdi, Ugo Nebbia, Franz Sartori, Renè Massat, Denis Chevalier, Henry Gally Carles, Yvonne Hagen, Luce Hoctin, Claude Riviere, Herta Wecher e Gennaro Beringhelli. Per ulteriori informazioni: www.ideopantaleoni.com ø

IDEO PANTALEONI Ideo Pantaleoni è nato a Legnago (Verona) nel 1904. Ha studiato all’ateneo artistico “Dosso Dossi” di Ferrara e ha frequentato saltuariamente l’Accademia di Belle Arti di Bologna. Ha vissuto gran parte della sua vita tra Milano e Parigi: nel capoluogo lombardo si trasferisce nel 1923 dove si inserisce nell’ambiente artistico cittadino, entrando in contatto con personalità del calibro di De Pisis, Carrà e Sironi. Viene a mancare a Milano il giorno di Natale del 88

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MUSEI

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L’ARTISTA VIAGGIATORE Da Gauguin a Klee, da Matisse a Ontani 22 febbraio - 21 giugno 2009

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Alighiero Boetti, Mappa, anni 80, arazzo di lana L’ARTISTA VIAGGIATORE DA GAUGUIN A KLEE, DA MATISSE A ONTANI 22 febbraio - 21 giugno 2009 Museo d’Arte della città di Ravenna Via di Roma 13 - Ravenna tel 0544.482477 info@museocitta.ra.it www.museocitta.ra.it martedì-giovedì 9.00-18.00; venerdì 9.00-21.00 sabato e domenica 9.00-19.00 lunedì chiuso

a mostra “L’artista viaggiatore. Da Gauguin a Klee, da Matisse a Ontani” curata da Claudio Spadoni e Tulliola Sparagni promossa dal Comune di Ravenna, dall’Assessorato alla Cultura e dal MAR - Museo d’Arte della città, con il generoso sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna, presenta i percorsi di alcuni dei più significativi artisti che hanno viaggiato e vissuto fuori dall’Europa, portando a noi i ricordi, le esperienze e le emozioni dei loro viaggi. L’esposizione è introdotta da un lato dal modello storico di un galeone settecentesco, due preziosi mappamondi e dall’altro dalla Boîte-en-valise di Marcel Duchamp, rispettivamente il viaggio fisico e un altrove simbolico, senza confini. Il percorso espositivo, diviso per continenti dall’Africa all’Oceania, dall’America all’Asia, ripercorre il Maghreb di Boivin e van Biesbroeck, l’Egitto di Caffi, il Nord Africa di Ussi, Pasini e Guastalla, la Tunisi di Klee, Macke e Moilliet, la Tahiti di Gauguin e Matisse, la Nuova Guinea di Nolde e Pechstein; per giungere al Sud America di Sartorio, all’Afghanistan di Boetti, al Giappone di Tobey e Mathieu, al Siam di Chini e all’India di Mondino e Ontani. Tra i tanti appuntamenti in programma va segnalata l’iniziativa “Appunti di viaggio”, un ciclo di cinque incontri dove studiosi, artisti e scrittori interpreteranno creativamente il percorso di mostra o una sua parte: uno sguardo particolare e sensibile condiviso con i visitatori attraverso il linguaggio a loro più congeniale (prossima data 3 maggio, prenotazione obbligatoria tel. 0544.482487 con posti limitati; tariffa unica € 9.00 a persona) ø

APERITIVO AL MUSEO tutti i venerdì dalle 19.00 alle 21.00 (prenotazione obbligatoria tel. 0544.482487, tariffa unica € 10.00 a persona) VISITE GUIDATE ALLA MOSTRA tutti i sabati e le domeniche alle ore 16.00 (prenotazione obbligatoria tel. 0544.482487, tariffa unica € 9.00 a persona) Aldo Mondino, ciclo Flovers (Gli adoratori dei fiori), 2001, olio su linoleum

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MARIO CIUFO

RITRATTI DELLA NATURA

Paesaggi incontaminati e volti umani sono i temi ricorrenti nell’Arte di Mario Ciufo: due soggetti capaci di coinvolgere ed emozionare

“Cielo”, 20x25 cm, affresco su tavola, 2001

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“Paesaggio”, 20x60 cm, affresco su tavola, 2001

erenità e tranquillità. Sono queste le due prime sensazioni che si provano osservando un paesaggio di Mario Ciufo. Una serenità e una tranquillità contagiosa emanata dalla fluidità dei colori che, dall’occhio, passano immediatamente al cuore. Ammirare una sua opera è infatti un po’ come concedersi una vacanza lontano dalle chiassose e roboanti città e immergersi nell’intrigante quiete della natura. È veramente difficile non venirne catturati e sedotti: il verde dei prati e l’azzurro dei cieli sono talmente reali che sembra quasi assaporare l’odore dell’erba appena tagliata o venire dolcemente accarezzati dal fresco dell’aria. E la stessa dolcezza e serietà della natura incontaminata si riscontra anche nei ritratti in cui si alternano volti felici e gioiosi e volti cupi e malinconici, a sottolineare la vera realtà dell’animo umano, conteso, com’è, tra gli eventi felici e gli eventi infausti che la vita continuamente ci riserva. Scrive di lui Gianluigi Falabrino: “...la sua pittura spazia soprattutto in due aree: il paesaggio e il ritratto nelle sue campagne dipinte con colori tenui e luminosi esprime una visione idilliaca e consolante della natura; ma i ritratti costituiscono un paesaggio umano duro e quasi sempre minaccioso: sembrano di un altro artista...” Se da un lato i paesaggi aiutano a dimenticare le insidie della vita, dall’altro i ritratti fanno pensare e riflettere su ciò che di più crudo e difficile siamo chiamati ad affrontare, così come sottolinea anche lo stesso Falabrino: “Forse l’ingentilimento dei ritratti femminili ci dice che i suoi stili, nel paesaggio e nel ritratto, non sono così radicalmente contrastanti, come sembra a prima vista: certamente opposti per alcuni aspetti, ma complementari, com’è complementare e contraddittoria la visione della realtà in Leopardi e in tanti altri 90

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“Paesaggio”, 20x25 cm, affresco su tavola, 2001

artisti, l’indifferenza della natura e la consolante bellezza dei paesaggi da una parte e dall’altra la presenza nell’uomo del male morale e fisico”. Anche la tecnica prediletta da Ciufo, l’affresco, non è scelta a caso ma, richiamandosi a illustri nomi e a memorie medioevali e rinascimentali, arricchisce le sue opere di quella tradizione e storia capace di ealtare ulteriormente il valore dei soggetti raffigurati. MARIO CIUFO Nato a Minturno (LT) nel 1955, vive e lavora a Milano. Ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Brera. Ha all’attivo diverse esposizioni, sia personali sia collettive, in Italia e all’estero. Le sue opere sono esposte in modo permanente presso il Museo Civico di Cavenago Brianza (MI), la Curia Arcivescovile di Milano, il Museo Civico di Minturno (LT), il Museo Casa Alpina C.A. Motta Campodolcino (SO), la Curia Arcivescovile di Siena, la Collezione L’Elite Arte Italia di Varese e la Collezione D’ARS di Milano. ◆ MARIO CIUFO Tel. 333.3240589 mario@mariociufo.it www.mariociufo.it

“Ritratto”, 50x60 cm, affresco su tavola, 2000


GARNERONE/GUSMEROLI

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UN CUORE LOMBARDO

"Porto sull’Adriatico", 50x35 cm, acquarello, 1985

"Paesaggio alpino (Val Gerola)", 80x70 cm, olio su tela, 1976

CARLO GUSMEROLI Via Cimabue, 15 - 20148 Milano Tel: 02.39214025 - 347.5808842

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a Lombardia e i paesaggi della pianura padana hanno da sempre caratterizzato l’Arte di Carlo Gusmeroli, un veterano della pittura figurativa italiana. Con recensioni, presentazioni e citazioni, a lui si sono interessati noti critici, giornalisti, scrittori e artisti. Scrive di lui Raffaele De Grada: “Gusmeroli è un chiarista di formazione lombarda con espressioni personali; la sua pittura si inquadra in una originale interpretazione della natura, dai paesaggi fluviali e marini

Il pittore, un “chiarista lombardo” erede di Lilloni per scelta di temi, ma da questo distinto per una più complessa e ricettiva psicologia, propone un godibilissimo revival del “paesaggio” facendone materia più autenticamente nuova di tutto il nuovo che oggi imperversa...

G.F. Ravasi (dal Corriere della Sera – 10.02.86)

a quelli montani senza tralasciare i nudi e le nature morte”. Ha studiato presso l'Accademia di Brera, abilitato all'insegnamento del Disegno e della Storia dell'arte, è stato ordinario in un liceo scientifico di Milano. Carlo Gusmeroli ha fatto inoltre parte di commissioni d'esame e di abilitazione all'insegnamento di materie pittoriche, anche in qualità di presidente presso l'Accademia di Brera. ◆

Già la tecnica prescelta per le sue opere, l’acquarello, fa capire che questa pittrice ha meriti particolari dato che “qui non si scherza”, come dicevano i vecchi acquerellisti (ormai con sempre meno eredi), richiedendo questa tecnica capacità e impegno più delle altre. Se poi interviene, come in questo caso, la sensibilità pittorica, aiutata dalla cultura anche specifica e dallo studio dei grandi Maestri e specialisti, ecco che tutto si realizza nel miglior modo, con freschezza che potremmo definire giovanile, specie quando viene evitato il rischio dell’illustrazione e anche quello del virtuosismo Enzo Fabiani

"Patagonia" 35x50 cm, olio su tela

Di origine castelmagnese, nasce nel 1969 a Novara e inizia il suo percorso artistico da autodidatta nel 1996, periodo in cui si avvicina anche alla musica, avendo esperienze di canto polifonico rinascimentale e medievale. Partecipa con successo a mostre e rassegne di pittura naturalistica e collettive. Vive e lavora a Cuggiono (MI), comune del Parco lombardo del Ticino.

"Temporale sulla Dordogna" 70x100 cm, acquarello su carta

www.lorenagarnerone.it lgarnerone@yahoo.it

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cell. 339.6206924


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PAKI

PASSIONE COLORE Essenzialità delle forme e tinte esplosive caratterizzano l’estro artistico di Paola Chiesi, in arte Paki

A sinistra: “L’allineamento di chi si ama”, 100x100 cm Sopra: “Color Love “, 140x80 cm, 2008

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opo anni di collaborazione come art-director per un noto artista internazionale, Paola Chiesi, abbandona gli abiti dell’organizzatrice per esporsi in prima persona. Paki, acronimo del suo nome e cognome, esprime già il sintomo di una evoluzione, che resta nel segno di una continuità con ciò che era prima pur differenziandosi con stimoli e caratteri rinnovati. La tecnica e la colorazione che prima ammirava e divulgava, nell’ambito dell’espressione informale, ora sono indici di un percorso di provenienza che si fanno tramite di un linguaggio alla ricerca di maggiore maturità ed eterogeneità; astratto o figurativo lo spazio visivo acquisisce una plasticità che dona ordine, scansione alla concezione della superficie pittorica. I diversi piani dello spazio sono confrontati da più punti di vista. Non si tratta di sezionare un oggetto quanto di relazionare l’intero piano visivo. Questa alternanza di vari piani, sia del segno sia della materia, regalando sempre, anche con poche linee e un uso vellutato del colore, una profondità e un assetto arditi e originali. Nata a Lissone (Milano) dove vive e lavora, desidera realizzare opere di impatto con tipologie tecniche e contenuti di sperimentazione offrendo al pubblico sensazioni ed emozioni mai banali proprio perché le visioni che propone sono sempre disposte su più livelli. Il nero o le tonalità accese e talvolta violente sono sempre filtrate da una delicatezza che non è rivendicata ma soggiace, un po’ misteriosa, perché duttile e versatile. 92

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Ne è un esempio chiaro “la notte del 22” che seppur si distende su una base completamente nera non solo rimanda luce ma accoglie lo sguardo con temperamento mite e umano proprio in virtù della forza del contrasto coloristico scelto. Paki con l’essenzialità della forma e l’opposizione determinante del colore sortisce un effetto estraniante che rimanda sicuramente a una tensione in corso ma che si scioglie nell’insieme. Oppure come in “Il Tempo”, laddove un’esplosione centrifuga del colore rimanda a una possibile implosione del Tempo stesso e dove una vaga nostalgia si trasforma in attesa. Anche qui si assiste al bisogno di rispondere a un ordine plastico, il cerchio frontale da cui nasce tutto, che però si smembra e rimanda ad altro. ø A sinistra: “Il Duomo”, 80x80 cm, 2008 Sotto: “Ingaggio” 60x90 cm, 2009

PAOLA CHIESI Studio via Redipuglia, 19 20035 Lissone (MI) Tel. 347.4838720 art.paola@virgilio.it



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PEZZOLI/BORRONI/CHICONI

THE HAPPINESS IN NY D

opo l’esposizione di Pechino alla mostra “Leggere Dormire Sognare” alla Nyarts Gallery, Marisa Pezzoli partecipa con 20 opere alla rassegna “The Happiness” aperta dal 16 al 30 aprile alla Brodway Gallery di New York. Enzo Fabiani MARISA PEZZOLI www.marisapezzoli.it

GEOMETRIE D'AUTORE

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SARA BORRONI Cell.: 349.8174404 sara.borroni@tiscali.it arte@saraborroni.com www.saraborroni.com

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uadri composti da elementi geometrici. Piani di colore bidimensionali che si compenetrano in formazioni che esplorano le contraddizioni insite tra quello che conosciamo e quanto effettivamente vediamo. Queste riflessioni nascono da profonde indagini e ricerche attraverso sperimentazioni a cavallo tra l’architettura e l’arte concettuale. Il risultato è volutamente lontano dalle fedeli rappresentazioni di paesaggi urbani. La comunicazione avviene attraverso libere interpretazioni di toni e volumi, di luci e colori che fuggono la natura per aderire a una personale sensibilità. Gli stati d’animo emergono forti dai toni intensi e vivaci raffiguranti architetture presenti solo in un nostro personale immaginario.

SOGNI SUDAMERICANI

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ntonio Chiconi è nato a Milano e da appassionato globetrotter, ha viaggiato in Brasile, Messico e Sud America. Backpacker convinto si è spinto fino all’interno della foresta amazzonica dalla quale è rimasto stregato. Da pittore predilige la scelta e l’accostamento di colori decisi e contrasti netti, e passa indifferentemente dal dipinto classico a olio alle tecniche miste e ai murales di ispirazione sudamericana. Ha pubblicato il suo primo romanzo noir dal titolo "La Mano del Morto".

ANTONIO CHICONI Cell.: 348.6541228 info@antoniochiconi.com www.antoniochiconi.com Spazio espositivo di Arcipelago Design Via delle Foppette, 2 Milano


FIORELLA LIMIDO

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OLTRE L’APPARENZA Paesaggi dell’anima dai colori vivi e sinceri: l’Arte di Fiorella Limido va diritto al cuore

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tmosfera, colore e immaginazione sono tra i principali ingredienti che stanno alla base della pittura e dell’Arte contemporanea. Ed è proprio su questi tre importantissimi aspetti che si sviluppa l’opera di Fiorella Limido. Uno dei grandi pregi dell’artista lombarda, è infatti proprio quello di saper imprimere sulle tele ciò che si cela dietro l’apparenza delle cose, mettendo a nudo la realtà di quello che solo la nostra anima è in grado di vedere. Paesaggi astratti e a tratti surreali, realizzati mediante una particolare tecnica a strati, vengono proposti secondo uno schema nato da un’immaginazione e un sentimento non comuni a tutti, ma propri di persone particolarmente sensibili a ciò che il mondo reale cerca di nascondere. Non solo. Fiorella Limido non si limita solo a estrapolare la vera natura delle cose, ma ad interpretarla secondo uno schema – se di schema si vuol parlare – dettato dall’istinto e dall’intenzione di cogliere al meglio la vera essenza della vita. “La terra è l’elemento base della mia ricerca artistica ed è il luogo dove le emozioni della vita vissuta prendono forma, dove le sensazioni richiamano alla memoria le esperienze trascorse e, indicano il mio modo di sentire la natura e le forme in essa contenute”, così definisce la sua Arte la stessa Limido. “Un modo di sentire che è un’indagine degli aspetti meno visibili della natura stessa. C’è in me il desiderio di trovare il giusto equilibrio tra forme dell’anima; forme che vanno al di là dell’apparenza”. Sentimenti, questi, ripresi anche da Giuseppe Bonini che, riferendosi all’Arte della Limido, tiene a sottolineare: “Sensazione nel FIORELLA LIMIDO senso, ancora romantico, di una visione trasfigurata dal sentimento di esistere stratificando le diverse Tel: 0331.849219 esperienze della realtà. Pertanto quelli della Limido Cell: 333.7024016 sono paesaggi, per quanto si distanzino dalla tradilfllimido@libero.it zione rappresentativa del genere. Il soggetto, infatti,

Da sinistra in senso orario, “Lontano eppure così vicino”, 80x120 cm, olio e collage su tela, 2008; “Senza titolo”, 60x120 cm, olio e collage su tela, 2008; “Anna”, 30x50 cm, matita e acrilico su legno, 2007

si dissolve, il disegno scompare, l’insieme si stempera in pennellate eteree e luminose, di aria e luce, avendo come supporto la carta che consente trasparenze altrimenti impensabili”. FIORELLA LIMIDO Fiorella Limido è nata a Tradate (Varese) nel 1973, cittadina lombarda dove vive e lavora ancora oggi. Ha frequentato il Liceo Artistico “Frattini” di Varese e, successivamente, si è diplomata in Pittura e Restauro Pittorico presso l’Accademia di Belle Arti “A. Galli” di Como. Ha iniziato a esporre nel 1999 e, nel corso degli anni, ha partecipato a numerosi premi e mostre, sia personali sia collettive, in tutta la Penisola. Sue opere sono in mostra permanente presso la “Galleria Ghiggini” di Varese. ø ARTE&SENSI 95


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SUSANNA VIALE

ARTE DA COMUNICARE Susanna Viale, un’artista dai mille volti e dalle mille risorse con un unico grande scopo: parlare all’osservatore

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ncora una volta ci troviamo a parlare del percorso artistico di Susanna Viale (vedi pag. 62 del numero 1 di Arte & Sensi) e, ancora una volta, ci troviamo in seria difficoltà di fronte alla grande versatilità di questa vera e propria “artista a 360°”. La sua inventiva e sperimentazione non conoscono davvero sosta e si affacciano in sempre nuove forme d’arte e di comunicazione; una comunicazione ragionata e ponderata che di artistico ha davvero tutto, dall’aspetto visivo al contenuto filosofico e dal messaggio intrinseco all’impatto psicologico. MESSAGGI DELL’ANIMA Una delle più grandi virtù dell’Arte di Susanna Viale è, sicuramente, la profondità dei messaggi in essa contenuti. L’artista torinese ha infatti il

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grande pregio di saper utilizzare al meglio la pittura e la scultura per trasmettere in modo assai efficace ciò che scaturisce direttamente dal cuore e dalla mente. Ogni opera non nasce in modo istintivo e casuale, ma è frutto di una profonda riflessione interiore, quasi introspettiva, che vuole coinvolgere l’osservatore in prima persona costringendolo – è proprio il caso di dirlo – al ragionamento e all’autocritica. Dinanzi alle opere dell’artista torinese è come trovarsi di fronte alla propria coscienza, con tutto ciò che di buono, o di cattivo, essa può contenere. E non si tratta solo di un’innocua contemplazione, ma di un vero e proprio esame a cui è impossibile sottrarsi e a cui, spesso, si deve render conto. E ciò che succede, ad esempio, di fronte ad opere come “Lotta alla disgregazione” o “Specchio della vita” in cui l’uomo si trova a fronteggiare le


sue paure più recondite e la sua vera natura di animale fallace e ingannevole. A un osservatore disattento, alcune opere potrebbero sembrare addirittura crude o cruente, ma conoscendo personalmente Susanna Viale, ci è difficile associare un tale giudizio a una tale forza vitale e a una tale positività. Ci rimane più facile pensare a un’anima pensante capace di attirare su di sé i dubbi e i timori comuni a tutte le persone di buoni principi. E, si badi bene, non si tratta di certo di un difetto o di una anomalia caratteriale, ma di una propensione alla riflessione davvero contagiosa e coinvolgente, dinanzi alla quale è difficile – a tratti anche impossibile – rimanere indifferenti. L’accostamento dei colori rosso carminio e giallo ocra, e i corpi dalle forme non ben definite non sono stati scelti a caso dall’artista, ma hanno la precisa funzione di trasmettere all’osservatore il proprio stato d’animo e i propri turbamenti, allo scopo di indurlo a partecipare alla risoluzione dei quesiti e degli interrogativi. CONTINUA SPERIMENTAZIONE Già nel numero scorso ci siamo soffermati sulla grande capacità di Susanna Viale nel saper sperimentare nuove forme ed espressioni di Arte, evidenziando la sua ecletticità e la sua versatilità, e, soprattutto, la grande facilità che ha nel passare da uno stile pittorico a un altro o nell’inventarsi nuovi modi e tecniche per fare Arte. Il suo cammino artistico è davvero ampio e inesauribile e si arricchisce continuamente di nuovi elementi che, non solo sono in grado di rinnovare la sua Arte, ma anche di rinnovare l’artista stessa, il suo modo di porsi, di comunicare, nonché il suo modo di dar vita a sempre nuove correnti o stili artistici. Nei suoi quadri trovano spazio la psicologia, l’antropologia e l’esoterismo e tutto ciò che di più nobile e metafisico può scaturire dall’animo umano. Dalle prime opere figurative, fino a giungere agli ultimi lavori appartenenti al ciclo dei tarocchi, passando per l’astratto e le installazioni, l’animo creativo della Viale appare sempre di nuova fattura. Come se ogni qualvolta si inizi un nuovo ciclo, rinasca a una nuova vita e riprenda da zero il proprio cammino di artista e di donna. Non è certo da tutti. Sopratutto, sotto il profilo della prontezza di spirito e della capacità d’adatta-

mento che, intendiamoci bene, non è dovuta e voluta, ma è del tutto naturale. SUSANNA VIALE Susanna Viale è nata a Torino il 4 giugno 1959. Ha frequentato il liceo artistico e l’Accademia Albertina di Belle Arti e ha successivamente conseguito il diploma di Infermiera Professionale e Assistente Sanitario e la Laurea in Scienze Politiche a indirizzo Sociale. Attualmente lavora come funzionario in Regione Piemonte. È allieva del Maestro Sergio Albano dal 1994 e, a partire dal 1985, ha partecipato a numerose mostre di pittura collettive e personali in Italia e all’estero. Durante il prossimo mese di agosto è prevista una mostra personale a Miami (California - Stati Uniti). Susanna Viale è anche un’attiva organizzatrice di importanti eventi culturali di richiamo internazionale: ultima, in ordine cronologico, la mostra documentativa “Abu Simbel: il Salvataggio dei Templi” in programma nel mese di maggio nella splendida cornice del Tempio di Adriano a Roma (per ulteriori informazioni consultare il sito web www. abusimbelexpo.org). La sua galleria personale è situata a Pino Torinese (Torino), località dove vive attualmente.ø

SUSANNA VIALE Cell: 339.2784844 vialesusanna@libero.it www.vialesusanna.com

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Mario Raineri La scommessa della luce

Attualmente riconoscibile fra i tanti operanti sul territorio bresciano ricco di impressionisti e vedutisti dell’ultima ora, Mario Raineri ha acquisito un proprio clichè denotabile nel tratto, nel taglio e nei modi compositivi. Le trasparenze e i verdi cangianti del paesaggio esprimono una tavolozza sensibile e lineare, priva di arbitrii interpretativi e GL IUHGGH]]H IRWRJUDĂ€FKH Esaminando le opere di Mario, è necessario sottolineare un intenso lavoro svolto sia a livello compositivo che cromatico, con alcune FLWD]LRQL FKH VRWWR LO SURĂ€OR della tavolozza, rinviano alle accensioni derivanti dalla visione di CĂŠzanne. Nei ritratti, parte importante della sua produzione, riesce a cogliere attraverso gradazioni di colore giocate su toni luminosi, la personalitĂ del soggetto, cosi che essi appaiono come sognati ed evocati, nell’ambito di un intenso quadro sentimentale. m.b.c.

Le piccole grandi cose del quotidiano quando assurgono a poesia trascrivono un’intima ¿DED H VL SURSRQJRQR uniche e diverse attraYHUVR OD VHQVLELOLWj dell’artista.

“Valentina�

info http://www.marioraineri.it e.mail – art.ma1953@alice.it

studio Via Palestro,103 – 25045 Castegnato (Bs) tel. 338.3081206


Impresa pittorica dell’artista bresciano su una superficie di 250 metri quadrati. Un anno e mezzo di lavoro per risolvere i nodi architettonici presentati dall’ampio vano-scale di una dimora signorile del centro di Brescia e per giungere a una stesura armonica del dipinto, che ora è stato collocato. Il panorama valsabbino corre in 101 pannelli, nella poesia di un autunno tra le nostre Prealpi

www.pittoribresciani.it

www.indicidarte.it

MARIO RIVETTA

BRESCIA 030 2582664-3541358 - 3345430986

Un’intera valle in casa


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DOMENICO PORPORA

LA DONNA… essenza nell’arte di Porpora

“Composizione”, 80x60 cm, Olio su tela

CENNI BIOGRAFICI DELL’ARTISTA Domenico Porpora ha tenuto innumerevoli mostre personali e collettive in Italia e all’estero (Paderno Dugnano, Scafati, Sirolo, Cremona, Monza, Asso, Como, Milano, Offida, Ferrara, Parigi ecc.) fin dagli anni Settanta. Illustri critici, da Carlo Franza ad Antonino De Bono, Simone Fappanni, Gianluigi Guarneri, Simona Ballatore si sono interessati del suo lavo...sempre con più frequenza, gli ritor- ro, che è stato più volte premiato in Concorsi nano in mente i luoghi di origine la famiglia e in particolar modo la madre Nazionali. È presente sulla stampa nazionale che nelle sere d’inverno, seduti intor- e in Cataloghi d’Arte no al braciere, raccontava i fatti della ufficiali. L’illustre critico Prof. Carlo Franza lo sua vita passata... candida al Premio delle Arti Premio della Cultura edizione 2008. Il luogo di nascita di Domenico Porpora è situato tra il Vesuvio, la Costa Amalfitana e Pompei con la sua città sepolta che egli visita con molta frequenza sin dall’infanzia perché attratto dalla bellezza dell’architettura e dagli affreschi. Lascia la famiglia e il suo paese e parte alla volta di Milano, ma sempre con più frequenza, gli ritornano in mente i luoghi di origine

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“Omaggio a… una donna”, 50x70 cm, Olio su tela

la famiglia e in particolar modo la madre che nelle sere d’inverno, seduti intorno al braciere, raccontava i fatti della sua vita passata. Tutto questo a Domenico Porpora manca, diventa nostalgico, ha voglia di esternare tutto quello che per anni ha soppresso, ha voglia di raccontare in versione visiva e permanente e lo fa nel modo più concreto e genuino iniziando a dipingere. RCONOSCIMENTI SIGNIFICATIVI Ambrogino d’argento Comune di Milano, comune di Paderno Dugnano (MI), Premio delle arti – Premio della cultura ed. 2008. ø

Domenico Porpora nasce a Scafati (SA) il 1° maggio 1945, oggi vive e prosegue il suo cammino artistico nel Comune di Senago (MI) Tel. 02.9989679 Cell. 338.1122777 rosado@libero.it www.domenico-porpora.it


PIETRO MARIO SCARSI

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BIOEDILIZIA E BIOARCHITETTURA Viaggio alla scoperta delle nuove tecniche di costruzione rispettose dell'ambiente nel settore edile

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ioedilizia e bioarchitettura sono termini che oggi stanno entrando ho realizzato diversi interventi sia su edifici esistenti sia di nuova costruzione in modo preponderante nel settore edile. Sempre maggiore spazio con ottimi risultati. Attualmente sto progettando alcuni edifici e un piano di viene dato all’utilizzo di materiali naturali, di fonti di energia rinno- lottizzazione che utilizzano questi sistemi così da consentire a coloro che vabile e di tecniche di costruzione che non arrechino danni all’ambiente. saranno i futuri abitanti di vivere in complessi immobiliari ad alta efficienza Di questo ne è pienamente consapevole l’Architetto Pietro Mario Scarsi, energetica, con zero emissioni ed energeticamente autosufficienti”. con studio in Endine Gaiano (Bergamo), che da anni studia e partecipa L’impiego di questi sistemi, e in particolar modo le pompe di calore, aua corsi per la progettaziomentano notevolmente ne di impianti fotovoltaici, l’efficienza energetica del di impianti solari termici di sistema edificio nel quale geotermia e di edifici ad vengono installati, consenalta efficienza energetica. tendo di realizzare edifici “È giunto il momento di a bassissimo impatto amcambiare il modo di pensabientale e a conseguire, se re e di concepire l’edilizia l'involucro edilizio è ben ed io in prima persona da isolato, la classe A. Infatti, anni applico questi sistemi la pompa di calore generalagli edifici che progetto. I mente richiede dal 20% al primi sistemi che ho proget25% di energia elettrica per tato, li ho voluti sperimenprodurre il 100% di energia tare in prima persona sugli per il riscaldamento o rinfreedifici di mia proprietà; inscamento e la produzione fatti nell’edificio in cui ha di acqua calda. sede il mio ufficio, ho instalMa quanto costa realizzare lato, circa 15 anni or sono, un impianto del genere e un impianto geotermico quanto bisogna pagare in Schema di una nuova costruzione concepita con l'utilizzo di sistemi ad alta efficienza energetica costituito da una pompa di più rispetto a un'abitazione calore che utilizza il calore con tradizionale caldaia? del sottosuolo per riscaldare d’inverno, rinfrescare d’estate e produrre ac- “Tutto dipende dal tipo di abitazione considerata. In genere un impianto qua calda necessaria a mantenere il comfort abitativo costante tutto l’anno con queste caratteristiche in una nuova costruzione può costare circa il e ridurre al minimo i consumi energetici. Al sistema geotermico, che utilizza 5-15% in più di una normale abitazione; nei casi di ristrutturazione i costi l’energia elettrica per produrre calore, ho abbinato anche un impianto foto- salgono invece al 20%. Il vantaggio è che in pochi anni si riescono ad voltaico in grado di produrre energia elettrica sufficiente a far funzionare sia ammortizzare i costi risparmiando sulla bolletta della luce e del gas. Se poi l’impianto geotermico che le varie apparecchiature elettroniche dell’ufficio, si procede alla climatizzazione degli ambienti, i costi vanno addirittura a così da rendere autosufficiente in termini energetici l’immobile; l’utilizzo di pareggiarsi”. queste tecnologie ha consentito, inoltre, di eliminare l’uso di combustibili E quali difficoltà si possono incontrare nel costruire con questi sistemi? fossili e i relativi impianti dall’edificio consentendo peraltro di eliminare le "È la professionalità, l’esperienza e il continuo aggiornamento che insegna emissioni gassose prodotte dall’utilizzo di questi combustibili, ottenendo come costruire con questi nuovi sistemi; per fortuna dopo anni di attività così un sistema edificio a zero emissioni e in classe A”. siamo riusciti a selezionare collaboratori con i quali, in piena sintonia, riu“Sull’esperienza di questi sistemi intelligenti basati sull’utilizzo di energie rin- sciamo a condividere queste esperienze in totale sicurezza ed efficienza novabili ad alta efficienza energetica e a basso impatto ambientale maturata sia per quanto riguarda l’aspetto “impresa di costruzioni” sia per quanto in alcuni decenni di attività professionale – continua l'Architetto Scarsi –, riguarda gli installatori". ◆ ARTE&SENSI 101


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UBALDO BRICCO

OVUNQUE C’È Le sette note sono alla base dell’Arte di Ubaldo Bricco, un artista in grado di unire tra loro musica, pittura e scultura in un unico grande percorso fatto di sogni, simboli e disegni

Ubaldo Bricco Via Garegnano, 32 20156 Milano Tel: 334.1643630 339 6894197 info@ubaldobricco.it www.ubaldobricco.it

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vunque si guardi c’è musica. Musica scritta, suonata, cantata e disegnata. L’Arte di Ubaldo Bricco può essere definita in questo modo, sospesa com’è tra il sogno e la realtà; tra la potente realtà della scrittura e del disegno e l’affascinante immaginazione della musica, della pittura e della scultura. L’artista milanese adora navigare all’interno della propria poliedricità e spaziare da uno spartito a un tocco di pennello, o da un arpeggio a un colpo di scalpello. Tutto ciò che tocca e che crea sembra assumere prepotentemente il dolce incedere delle sette note, assumendo di volta in volta il lento intercalare della musica sinfonica o quello più ritmato e sincopato della musica jazz. Note musicali, ideogrammi, e paesaggi e volti nascosti fanno della sua arte un qualcosa di veramente attraente in cui l’ignaro osservatore si può immergere e cogliere tutto ciò che di magico e metafisico è in essa contenuto. Nel suo astrattismo vi sono infatti contenuti sia il rigore matematico del pentagramma sia la creatività incontrollata e imprevedibile dell’improvvisazione musicale. Ordine e disordine, genio e sregolatezza, precisione e approssimazione: tutto sembra avere una sua logica e precisa collocazione, all’interno di uno schema che non si può di certo definire predefinito. Bricco è veramente imprevedibile: con la stessa facilità con cui è capace di passare da uno strumento a fiato a uno a corda, è anche capace di passare da uno stile pittorico a un altro o dalla pittura alla scultura, inventando sempre nuove fasi e nuovi stili artistici. “Volendo chiarire il carattere e la peculiarità di questa pittura è inevitabile il riferimento alla musica. Essa infatti va rivissuta interiormente come uno spartito musicale di una certa qualità che difficilmente si lascia penetrare alla prima audizione”, scrive di lui Gino Traversi, sottolineando la sua innata predisposizione alla musicalità e alla melodia. “Sono ritmi piuttosto lenti e talvolta solenni che nascono da vibrazioni interne. Oggettivandosi in architetture o in segni riferitivi di una natura riscoperta nei suoi valori semplici e possenti. Dalla contenuta atmosfera surreale le forme emergono lentamente fissandosi come improvvise apparizioni di cattedrali o di esseri nati sul crinale che divide la realtà dal sogno dalla fantasia...”.


MUSICA n Dipingo di getto, cercando di trasformare i suoni in colori e cercando di rappresentare al meglio tutta la storia della musica, da Mahler a Beethoven. Ogni mia opera è totalmente diversa l’una dall’altra e ogni mia scultura è diversa da ogni lato la si guardi

n ARTE DALLE MILLE FORME Musica, pittura e scultura. L’Arte di Ubaldo Bricco non conosce né confini, né limiti. Quasi a significare che il confine tra le tre differenti forme d’arte non sia per nulla definito. Bricco è infatti in grado di approcciare tutti e tre i filoni artistici in modo quasi naturale, come se fossero in realtà un’unica disciplina. Come se impiegasse la musica e la scrittura come strumenti d’elezione per esprimere al meglio la propria creatività in cui l’astrattismo, la simbologia e il surrealismo ne rappresentano la giusta concretizzazione. “La mia Arte richiede una grande preparazione mentale”, dice di se stesso il Maestro, sollecitato dalla classica domanda: Può descriverci la sua Arte?. “Dipingo di getto, cercando di trasformare i suoni in colori e cercando di rappresentare al meglio tutta la storia della musica, da Mahler a Beethoven. Ogni mia opera è totalmente diversa l’una dall’altra e ogni mia scultura è diversa da ogni lato la si guardi”. In queste poche parole è davvero contenuta l’essenza dell’opera di Bricco, fatta soprattutto di creatività, nel più ampio significato del termine. La sua storia artistica è costellata di momenti e fasi ben distinte tra loro e contraddistinte ognuna da una particolare categoria: a iniziare dal ciclo “Tondi”, fatto di opere con forma circolare, dotate di uno spiccato senso surrealista e astratto, fino ad arrivare al ciclo “Scrittura”, un insieme di tavole impresse con particolari simboli e ideogrammi che, a un primissimo sguardo, potrebbero apparire di chiara ispirazione orientale. Ma tutto ciò che nell’Arte di Bricco appare scontato, in realtà non lo è affatto. E tutto ciò che non sembra scontato,

invece lo è. Proprio per questo, a volte è veramente difficile poter descrivere nei minimi dettagli l’Arte del Maestro, non tanto perché di difficile collocazione, ma perché il messaggio che vuole trasmettere va ben oltre al di là della singola opera, quasi come se un suo quadro, una sua scultura o un suo componimento non fosse altro che una “chiave di volta” per poter accedere ai suoi più intricati segreti. Scrive di lui Carlo Munari: “Bricco è il narratore di una leggenda remota che ha per protagonista l’Homo Faber, il quale però costruisce il suo mondo, incessantemente trasformandolo, non già sul dettato di esigenza socio-economiche bensì di quelle avanzate dalla fantasia poetica. Immagine dopo immagine, questo mondo si decanta in un’atmosfera onirica: talora inquietante ma più spesso serena. Quasi accarezzante una realtà da conquistare per la felicità del clan che in quello spazio ha eletto dimora: in un’atmosfera si aggiungerà, che trattiene con immediatezza l’osservatore conducendolo lungo percorsi misteriosi e altamente suggestivi...”. UBALDO BRICCO Ubaldo Bricco vive e lavora a Milano. Ha suonato il clarinetto, il contrabbasso e il pianoforte in diversi gruppi musicali, affiancando musicisti di fama nazionale e internazionale. Ha all’attivo numerose collettive in Italia e all’estero e i suoi quadri compaiono in molte collezioni private fra cui la Collezione Prada. Su di lui hanno espresso giudizi lusinghieri noti critici d’arte, tra i quali: Gino Traversi, Giorgio Kasserlian, Carlo Munari, Mastrolonardo, Giorgio Pacifici, Roberto Bonamico e Santino Sparta. ø ARTE&SENSI 103


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CIRO ONDA

Movimenti rotatori e curvilinei caratterizzano le opere di Ciro Onda, un artista che fa dell’astrattismo una vera e propria forma di comunicazione

MESSAGGI DELL’ANIMA

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on occorrono frasi ricercate per descrivere l’Arte di Ciro Onda; sono l’osservatore: ogni sua opera è capace di parlare al cuore di chi la osserva, sussufficienti due parole: “movimento” e “percezione”. La dinamicità dei surrandogli ciò che di più bello e coinvolgente vuol sentirsi dire. Non si tratta, soggetti rappresentati e l’esaltazione dei particolari sono infatti elementi quindi, di un astrattismo – se di astrattismo si vuol parlare – fine a se stesso, ma costanti all’interno delle sue opere; presenti non tanto come elementi anonimi di una vera e propria forma di comunicazione visiva, fatta di immagini e colori e passivi ma, al contrario, come elementi in grado di catturare scelti con istintiva minuziosità, secondo schemi tanto prefissati l’attenzione dell’osservatore, inducendolo a ragionare e a fanta- Ciro Onda quanto improvvisati. Guai però a scambiarla come mera e semsticare. È davvero difficile posare lo sguardo su un’opera di Ciro Via E. Zincone, 18 plice sperimentazione pittorica; dietro l’Arte di Ciro Onda 20049 Concorezzo (MI) Onda e non rimanerne colpiti dal mistero e dalla curiosità di ciò c’è un disegno dai precisi intenti, in cui il percorso intrapreso che è o che potrebbe essere; e allo stesso tempo, è altrettanto Tel: 039.647671 dall’autore ha un principio e una fine che, spesso, coincidono difficile non dare un proprio significato a ciò che si sta guardando, cironda@alice.it con quelle dell’osservatore. Seguire i movimenti ondulatori e non solo in un’ipotetica chiave di lettura, ma soprattutto nell’ottica curvilinei che Ciro Onda propone è un po’ come ripercorrere di saper cogliere tutto ciò che di affascinante e metafisico è in essa contenuto. in un istante l’intero corso della propria vita dove anche il passato e il presente L’artista è veramente bravo in tutto questo: nel saper avvolgere sensorialmente assumono gli stessi aspetti interrogativi ed enigmatici del futuro. Scrive di lui Elena Balzani: “Una parabola cosmica che ripropone il cammino dell’uomo, tanto quello quotidiano quanto quello evolutivo della specie. Forme acquoree che, con uno sforzo cosmico, paiono prendere il volo trasformandosi da pesci a uccelli, e nella loro trasformazione descrivono un arco ascendente che culmina in un collage di sagome lignee, una sorta di fiore sbocciato. Colori plumbei e terrosi, quelli del mare e della lava del Vesuvio, spesse tavole di legno, assi schiodati, battenti di finestre sono i mezzi che rendono riconoscibile al pubblico e capace di comunicare il lavoro di Ciro Onda”. CIRO ONDA Ciro Onda, originario di Torre Annunziata (Napoli), vive e lavora a Concorezzo (Milano). Si è diplomato al Liceo Artistico Statale di Milano e, successivamente, ha conseguito il diploma presso l’Accademia di Brera di Milano. Ha all’attivo numerose mostre collettive e personali, sia in Italia sia all’estero. Hanno scritto di lui Grazia Chiesa ed Elena Balzani. ø 104

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GUIDO RIPAMONTI

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PULSIONI d’autore Istinto, creatività e immediatezza sono i caratteri fondamentali dell’Arte di Guido Ripamonti, giovane artista comasco con la passione per la filosofia

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onsidero la mia espressione artistica molto immediata, quasi primitiva, correlata anche alle mie pulsioni profonde. Penso che la mia pittura, pur nella sua primitività e pulsionalità, esprima una complessità e varie stratificazioni. Mi esprimo molto con i colori, alcuni molto immediati e diretti, altri più sfumati, ma sempre forti, difficilmente tenui e delicati”. È con queste parole che Guido Ripamonti definisce la sua Arte; un’Arte che, sempre secondo il suo pensiero, “è priva di mediazioni ed è contro e senza la tecnologia”. Istintività ed emozionalità, nel senso più ampio del termine, ossia quelle che scaturiscono direttamente dall’interiorità dell’animo umano, sono i segni distintivi che caratterizzano le opere di Ripamonti. La sua astrazione è infatti ben diversa dai classici canoni a cui siamo da sempre abituati e va ben oltre l’improvvisazione artistica in senso stretto: Ripamonti utilizza i colori, le forme e i riferimenti per far emergere – in modo incontrollato e assai lontano da possibili modelli a cui poter far riferimento – ciò che di più intimo e segreto vi è nella sua natura di artista e di uomo. Creatività e immaginazione, a tratti scanzonate e addirittura allegoriche, vengono spesso utilizzate come mezzi privilegiati di comunicazione di contenuti che possono essere posti tra il reale e l’irreale. L’esplosione di colori che caratterizza “Emozioni cromatiche” è forse la caratteristica che può meglio descrivere l’opera di Guido Ripamonti, ricca, com’è, di intrecci e trame dalle tinte accese e in cui il movimento rappresenta un elemento del tutto dominante. In questa opera è come se l’artista comasco voglia gridare al mondo intero il suo reale stato d’animo, allo scopo di coinvolgere gli osservatori nel proprio turbinio di pensieri ed emozioni. La visione onirica e metafisica del pensiero di Ripamonti è anche ben visibile nell’opera “Struttura, Tensione, Armonia” in cui il contrasto e l’opposizione di forme arcaiche del pensiero, danno vita a un continuo meccanismo di attrazione e repulsione: un ciclo perpetuo che non può di certo lasciare indifferenti ma, al contrario, induce a pensare e a riflettere fino all’autocritica.

Guido Ripamonti Cell: 339.3871612 guido.ripamonti@gmail.com http://arseniohall.exibart.com

Dall’alto verso il basso: "Emozioni Cromatiche", 24x30 cm, acrilico su tela, 2009; "Materia, Flusso, Colore", 60x90 cm, acrilico su tela, 2008 "Natura naturans", 56x91 cm, acrilico su carta, 2006

GUIDO RIPAMONTI Guido Ripamonti, nato a Lecco nel 1963, vive e lavora a Como. Si è laureato in Filosofia all’Università Statale di Milano. Allievo di Dino Formaggio e Stefano Zecchi, prima di accostarsi definitivamente alla pittura ha approcciato altre discipline artistiche come la scrittura creativa, il teatro e la regia cinematografica. Tra le sue esperienze professionali compare anche una collaborazione con la mostra-evento Progetto Accade a Venezia e una parentesi giornalistica con il quotidiano “La Provincia” di Como. ◆ ARTE&SENSI 105


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ALESSANDRO DOCCI

alessandro docci

ATMOSFERE E QUOTIDIANITÀ

Sono le due caratteristiche principali dell’Arte di Alessandro Docci, un artista contemporaneo ma dai tratti antichi. Un’Arte che nasce da lontano ma che si esprime attraverso una metodologia nuova della quale l’Artista ne detiene il segreto

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asce a Desio (Milano) nel 1951 e fin da subito la sua vita sembra segnata da tre grandi passioni: musica, fotografia e pittura. Forme nel vento che egli tenta di catturare con un linguaggio antico ma con una metodologia nuova della quale sembra ricercare il segreto. Il tutto e il nulla, lo spazio e il tempo, il movimento e la stasi, il colore puro e la contaminazione, la natura e il racconto della natura in un incrocio che a tratti diventa magico proprio perché intriso di nostalgia del passato e ricerca del futuro. Queste le prime sensazioni che ho avuto osservando le opere di Alessandro Docci, un artista poliedrico che cerca di racchiudere in sé la grandiosità prima ancora di averla conosciuta. Ho osservato le sue opere prima di leggere notizie sulla sua vita, questo per non essere contaminata in alcun modo o condizionata dalla lettura del suo pensiero, ma ho cercato di assaporare le sensazioni prima ancora dei sapori e degli odori. Come dicevo in un articolo precedente uscito sul numero uno della rivista, non esiste altro modo per descrivere alcune sensazioni se non quello della metafora, e qui la metafora è quella di un vino dai sapori fruttati, simile al Nobile di Montepulciano, un vino che sa di natura e di terre antiche. La natura che si unisce all’interiorità e si mostra nei suoi spazi più intensi e nella sua nudità. Come ha asserito Fulvia Croci Caimmi, per lui l’Arte non è uno strumento per rendere bella la vita, ma un mezzo scaramantico per esorcizzare le paure e le ansie, una catarsi, una sorta di arteterapia che serve all’autore per raccontarci di sé. Basta avere un occhio sensibile e osservare le sue opere alla luce dell’interiorità per scorgervi immagini di “calibrata composizione progettuale” come ha rilevato Mauro Capitani o per trovare in essi “allegorie di un mondo intoccabile“. Astrattismo, ricerca di una forma o forme nel vento, come ho avuto modo di asserire all’inizio dell’articolo? Giochi di luce o luce che gioca con le ombre? Figure di donne che si interrogano e confabulano o il suo femminino che prepotentemente si mostra nelle sue forme. In ognuno di noi esiste la parte contrapposta e in ognuno di noi maschile e femminile si alternano in una incessante ricerca della fascinazione e del mistero e questo cammino sembra di scorgere fra i colori di Docci. “Colore e calore” come ha piuttosto affermato Guglielmo La Rocca, ma anche “amiche che confabulano” come ha invece scritto Angelo Siciliano o “eteree presenze che navigano” come le ha definite Stefania Carrozzini, di certo forme sulle quali tutti hanno qualcosa da dire e sulle quali ognuno proietta il gusto dell’imma106

ARTE&SENSI

di Paola Dei

Sopra, “Comunicare”, 120x100 cm, 2006 Sotto, “Ci siamo anche noi”, 50x70 cm, 2007


Da sinistra in senso orario: “In pace con noi stessi”, 70x80 cm, 2007; “Senza titolo”, 70x80 cm, 2002 e “La spirale della vita”, 70x80 cm, 2002

n Il tutto e il nulla, lo spazio e il tempo, il movimento e la stasi, il colore puro e la contaminazione, la natura e il racconto della natura in un incrocio che a tratti diventa magico proprio perché intriso di nostalgia del passato e ricerca del futuro. alessandro.docci@tiscali.it

n ginazione e della sensorialità. Forme nel verde o cavalieri azzurri che come nei quadri di Kandinsky dialogano fra di loro e cercano spazi per la fantasia, per il sogno, per l’altro da sé. Immagini e non immagini, sogni e non sogni, eteree presenze e astratte dissonanze. Tutto è pervaso da un inesauribile fonte di versi e significati che possono essere attribuiti a questa ricerca che accompagna l’artista e accompagna il nostro occhio. “Getti di poesia pieni di sensuali visioni della realtà” come ha invece asserito Mattias Seitz, “echi che non stanno ai loro posti” come li ha invece definiti Elio Succi, “densi di una drammatica testimonianza di disagio esistenziale” come li ha descritti Enzo Di Martino o “magiche scatole di specchi che si muovono” alla maniera descritta da Guglielmo La Rocca. Molte altre sono le definizioni che hanno accompagnato le opere di Docci riferite da grandi critici d’arte, da Maria Lucia

Ferraguti fino a Sira Ariatta, Martin Konermann, Anne Kathrin Auel. Davanti a questo caleidoscopio di sensazioni viene da chiedersi: toccare le parti più profonde dell’anima con un colore è possibile? Sembrerebbe di sì se ci si lascia accarezzare dai colori e si interagisce, come insegno in ogni mia visione o lettura o ascolto di un’opera. Lasciarsi toccare la mente, il cuore e arrivare nei meandri più profondi della psiche per scoprire parti di Docci ma anche di noi stessi in un intreccio di fascinazione che davanti a ogni nuova scoperta diventa sempre più misterioso e denso di significato, come deve essere ogni opera d’arte che non esaurisce mai se stessa nello spazio del già detto e del già scritto ma che illumina di significati sempre nuovi la nostra fantasia. Ogni spazio e ogni angolo è già noto eppure si mostra ai nostri occhi come se fosse la prima volta. ø ARTE&SENSI 107


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SANDRO LEONARDI

Luci, ombre e percorsi tattili

LA SCULTURA P

ittore dalla nascita, sul volgere dei 30 anni viene sedotto dalla scultura. La sua abilità è una dote innata, una interiore necessità di rappresentare la fisicità della visione dilatandone la percezione fino a un totale coinvolgimento corporeo. Può essere riassunta in questo modo la storia personale e artistica di Sandro Leonardi. “Non sono stato io a scegliere la scultura, la scultura ha scelto me. La mia pittura era diventata troppo rapida e senza colore, così sentivo il bisogno di dedicarmi a qualcosa di più fisico e, soprattutto, a qualcosa su cui avrei potuto indugiare più a lungo”, spiega Leonardi. “Iniziai a lavorare con materiali molto duri, come il legno di ulivo o di rovere, chiedevo loro di oppormi resistenza tanto quanto io mi impegnavo a scavarvi il mio pensiero”. La consacrazione della sua abilità e il definitivo abbandono dell’impronta pittorica avviene però verso circa metà degli anni Ottanta, quando l’artista milanese incontra il Maestro Gino Cosentino e in lui l’insegnamento vivente trasmesso da Arturo Martini. “Quello che sono lo devo a lui”, sottolinea Leonardi. ”Dal Maestro Cosentino ho imparato il rispetto per la scultura di tutti i tempi e la consapevolezza dell’esistenza di regole universali a cui doversi conformare. Nella scultura non è sufficiente poter esprimere se stessi e basarsi solo sulla propria individualità e spontaneità, ma occorre mettersi in sintonia con quella bellezza

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che il materiale stesso ha svelato in lunghissimo tempo a chi ha saputo mettersi in ascolto e la cui scoperta parte dai primi artisti del paleolitico e passando per i vari Antelami, Michelangelo e Martini arriva fino a noi”. Da Cosentino Leonardi impara soprattutto i modi con cui lo scultore deve affrontare la materia e che in una scultura non deve esserci nessun angolo non scolpito o tralasciato distrattamente, attraverso un lungo lavoro di calibrazione di pieni e di vuoti, di luci e di ombre. L’ARTE AL TATTO Su questi tre elementi primordiali è basata l’Arte di Sandro Leonardi. “Il gioco di luci e ombre o, più precisamente, la possibilità di far posare la luce su superfici ben precise con diversa intensità e a intervalli dettati dalla percezione dell’armonia è alla base della scultura”, spiega Leonardi. È fuori discussione, infatti, che lo scultore deve saper giocare con la luce ed esaltarne i suoi riflessi, dando il giusto risalto al contrasto tra la positività e la negatività della luce. Ma non è solo la luce e le sue proprietà rifrattive e riflessive che sono base ispiratrice del lavoro di Leonardi; ciò che rende davvero la scultura “magica” è la sensazione che si prova al tatto. Raccontando un aneddoto capitato


In apertura “Cavalli al torrente”: studio realizzato in due blocchi a incastro di marmo giallo Roano; dimensioni ca cm 120x100x70. A seguire, “Sospensione”: studio realizzato in due blochi a incastro di serpentino d’Oira; dimensioni cm 45x40x50 e altare di Garbagnate (MI): realizzato in due blocchi a incastro di marmo giallo Istria misure ca cm 130x130x95 per la chiesa di San Giuseppe artigiano a Bariana

DEI SENSI qualche anno addietro, in occasione di una mostra rivolta a persone non vedenti, il Maestro si sofferma infatti sull’importanza di “entrare” all’interno delle opere stesse: “Vedere una persona priva del dono della vista e del tutto ignara della mia Arte, seguire i percorsi di una mia scultura è stata un’esperienza indimenticabile. Credo che questo sia il solo modo possibile di vedere davvero la scultura: bisogna entrarci dentro”. “Molti classificano la mia Arte come figurativa”, continua Leonardi. “In realtà, per me la figura è solo un episodio, a volte all’inizio, a volte alla fine o durante il viaggio della scultura. Quello che è la vera natura della mia scultura è trovare dei percorsi sensoriali; rispettare il materiale roccioso, trattandolo come un luogo privilegiato in cui separando o accostando i volumi tramite valli, voragini, caverne o gallerie è possibile dar vita a un vero e proprio percorso iniziatico”. “Il disegno per me è poco più che un diagramma, la traccia bidimensionale di qualcosa che va oltre il disegno”, tiene a precisare. Il disegno, e soprattutto lo studio, rimangono comunque delle fasi assolutamente fondamentali per Leonardi e di importanza basilare per l’ispirazione di nuove opere.. E proprio su quest’ultimo concetto si sofferma ancora Leonardi, citando una frase del grande Pablo Picasso che soleva ricordargli il Maestro Cosentino: “Io non cerco, trovo”.

Sandro Leonardi Via Dolfin, 10 20155 Milano Tel: 02.341306 www.sandroleonardi.com leonardi_sandro@hotmail.com

DALLA PITTURA ALLA SCULTURA Sandro Leonardi nasce a Cagliari nel 1949 e nel 1953 si trasferisce a Milano, dove frequenta lo studio dello zio materno, il noto illustratore Galep. Il suo percorso artistico, iniziato negli anni Settanta come pittore, approda ben presto alla scultura quando gli viene commissionata una statua di San Benedetto dalle monache del monastero “Mater Ecclesiae” di Orta San Giulio. La prima mostra personale viene allestita all’Antico Oratorio della Passione presso la Basilica di San Ambrogio a Milano nel 1993. Altre mostre personali: a Baveno nel 1994; a Piacenza e a Bibbona (LI) nel 1998. Diverse sono anche le mostre collettive a cui ha partecipato, tra cui: Premio Suzzara nel 1993 e nel 1994; Prima Biennale d’arte “Città di Piacenza” nel 1997; Etruriarte a Venturina (LI) nel 1998 e nel 1999; “Artexpo” a New York (Stati Uniti) nel 1999; Prima e Seconda Rassegna Internazionale di scultura “Radicondoli-Belforte” nel 1999 e nel 2000; collettiva “Gruppo del vento” nella tenuta di San Rossore (PI) nel 2000; “Elisir Art Gallery” di Mola di Bari nel 2001 e nel 2002, al “Kunstforum” di Meisterschwanden (Svizzera) sempre nel 2002; “La Scuola di Gino Cosentino” a Bergamo nel 2003. ø ARTE&SENSI 109


LUCA LISCHETTI

LA COGNIZIONE DEL DOLORE Personaggi posti di fronte a superfici e piani verticali in cui cultura e pittura si mescolano a creare un universo simbolico: è questa l’essenza dell’Arte di Luca Lischetti

Da sinistra Installazione all’Atelier Capricorno (Coquio -VA) ott. 2008, Stelo in legno di cedro cm 235x29 2008

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ell’arte più recente di Luca Lischetti avanza una concezione dura e ferma dell’uomo che non concede attenuanti né ripensamenti. L’artista ha saputo creare un universo simbolico di rara intensità attorno ad alcune figure che restano invariate, attraverso una tecnica che miscela la cultura con la pittura. Lischetti pone dinanzi a delle superfici e dei piani verticali, dei personaggi che in parte eccedono dalla superficie stessa, in parte vi sprofondano. Queste “persone”, che non hanno nessuna caratteristica psicologica apparente, possiedono un immoto movimento che dà un senso forte, ma indeterminato alla progressività del loro appartenere alla superficie o allo spazio. Non sappiamo se la parte immersa, oltre la soglia immaginaria della superficie/ sipario, abbia un’attrazione volontaria o se invece si tratta di una forza attrattiva che non concede opposizioni. In ogni caso si ha la sensazione che questi per-

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sonaggi indubbiamente antropoidi siano la causa efficiente del lavoro, che le simbologie che compaiono sotto forma di legni colorati, di cubi o di sfere, siano come i sogni colorati di chi ha smesso di sognare da un po’ di tempo. La stessa predominanza di colori forti, il rosso su tutti declinato nelle sue varie tonalità, accentua il senso di spaesamento e d’angoscia. Ma la lettura può risultare anche rovesciata e allora la base bidimensionale può essere vista in senso dinamico, e la conferma del colore giunge puntuale, come un magma originario da cui procede la creazione. E quale creazione può essere possibile se non quella di questi esseri che faticosamente cercano di uscire dall’Origine per avventurarsi nei pericoli del mondo? Probabilmente si accentua in questa lettura l’elemento positivo della liberazione dell’umanità dal caos, ma si tratta in ogni caso di una nascita faticosa, di uno


Ph. Walter Capelli

LUCA LISCHETTI Nell’ottobre 1950 nasce a Laveno M. (Va). Il suo esordio risale agli anni ’70, la cui ricerca pittorica è contrassegnata da una distorta visione della realtà. Figura predominante “Il Giudice” seguito dal ciclo dei “Teatrini”. Verso la fine degli anni ’80 sperimenta materiali diversi tra cui il legno. La sua produzione comprende : bassorilievi di grandi formati, un misto fra pittura e scultura, in cui il colore predominante è il rosso. Attualmente è tornato a rivisitare il periodo dei “Teatrini” alternandoli con i quadri-scultura in legno. Viene invitato a numerose mostre personali e di gruppo in Italia e all’Estero. Vive e lavora a Montonate di Mornago (VA)

strappo dalla Madre Terra, di un evolversi, soffrendo, che marca una separazione necessaria. Quindi due prospettive si fronteggiano, ma il dato essenziale consiste in questa giustapposizione, artisticamente felice, tra la tridimensionalità della scultura e la parete dipinta, che assume i tratti di un contrappunto visivo e drammatico, che non ammette scioglimento. L’enigma dell’indecidibilità è caratteristica di questi lavori durissimi e affermativi come negazioni assolute. Ma può risultare anche molto interessante guardare a questi lavori come a una sorta di rito di passaggio. La superficie bidimensionale forse è una porta, un accesso a un mondo che si dischiude alla figura che si avvicina con trepidazione e anche un certo sospetto. Perché è bene affermare che Lischetti non mette in scena drammi violenti, piuttosto tutto si appoggia su di un piano emozionale che è greve d’esigenze esistenziali. La sua è una metafisica della tragedia in cui le cose e i fatti sono dati dall’interno di una logica dell’assurdo. Indubbiamente le possibilità di interpretazione non si eludono proprio perché è stato l’artista che ha saputo lasciare un’indeterminatezza sugli esiti della vicenda che trova icastica rappresentazione. Che cosa accade realmente non è dato di stabilirlo con esattezza, ma certamente l’artista ha voluto creare un’atmosfera di dura violenza sospesa nel tempo. Da questo punto di vista la simbologia non è invadente, anzi è la prova che una costellazione di segni è pronta ad accogliere la creatura che vedrà la luce dietro o attraverso la superficie. Però gli oggetti inseriti non soltanto nella trama del “muro” rosso che argina/origina l’uomo prometeico di cui è epitome, hanno forse il senso di un corredo. L’uomo senza gli oggetti non esiste, la sua nudità, quella che Lischetti sottolinea, è stato e condizione, ma non può astrarsi dal farsi portatore di simboli. E questi sono proprio l’oggettualità che argina la naturalità del nascere. Il grido dell’esistenza contro la rossa parete che frena lo stesso urlo a raggiungere la volta celeste, è comunque un tentativo di ristabilire un ordine che non è forse mai esistito se non nella speranza dell’uomo. Una condanna a un massacro ripetuto a una sorta di mito di Prometeo in cui è l’uomo stesso a scontrarsi con la realtà, con la parete, con la superficie infinita come i problemi che rappresenta. La sua ricerca inutile di una felicità che si nasconde continuamente, che sfugge

Ph. G. Lotti

Per ulteriori informazioni: www.lucalischetti.it - lucalischetti@interfree.it

Teatrino scultura in legno

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TEATRINI

La novità più eclatante del Testacoda di Lischetti è il pensare di andare a recuperare quasi con sollievo quel mondo farabutto e allegramente mascalzone di un tempo, quel giocare con i fili di marionette e burattini in un mondo tutto disarticolato , disossato in cui i segni e il linguaggio di un tempo ritornano più o meno tutti, con maggiore consapevolezza, con le furbizie d’artista che lascia tasselli in rilievo, che costruisce con le proprie mani il suo teatrino non più solo dipinto per non ridursi al mero pittore di superficie . Con più divertimento , e la soddisfazione di riprendersi il proprio passato, che si riattualizza, anzi riabbraccia quanto Da: testa coda 2008: Riccardo Prina fin qui fatto.

n allo sguardo nella sua consistenza di sogno, nella sua apparenza e allegoria come un Atalanta fugens. E si comprende come un pittore colto come l’artista varesino si sia affidato alla scultura per dare corpo al corpo. Non a caso qualcuno ricorre al disegno, l’atmosfera dura dei quadri scultura si rasserena, anche se non perde delle tonalità di un silenzioso e rosso massacro. La cognizione del dolore sta in questa impossibilità, in un’aspirazione respinta, in un muro invalicabile non solo allo sguardo, ma anche all’invocazione estrema di rinascita. Da: Davanti al muro: Valerio Dehò ARTE&SENSI 111


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CATERINA BONAVITA

PREZIOSI

SEGRETI Disegnatrice di gioielli e preziosi manufatti, Caterina Bonavita ha all’attivo una lunga e variegata carriera artistica, fatta di piccole e grandi opere

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escrivere la sua Arte è davvero difficile. Utilizzare una simile frase tanto scontata quanto abusata è quasi d’obbligo nel caso di Caterina Bonavita. Le creazioni dell’artista milanese sono infatti talmente variegate e complesse che è difficile trovare un comune denominatore, fatta eccezione per un grande amore per la scultura. “Fin da piccola sono sempre stata attratta dal disegno”, spiega la Bonavita. “Ma la scultura la sento più mia. Solo la scultura riesce a trasmettermi sensazioni che altre forme d’Arte non riescono a darmi”. E proprio questa grande passione traspare infatti da tutte le sue opere, in special modo nei gioielli, a cui a minuziose tecniche di lavorazione è affiancato un gusto per i particolari e per i dettagli degni di uno dei migliori maestri orafi appartenenti alla più prestigiosa scuola italiana. PICCOLI GIOIELLI... É nelle creazioni di alta gioielleria che le qualità artistiche di Caterina Bonavita prendono forma. In queste piccole “grandi” opere d’Arte la sensibilità e la creatività contenute nei suoi disegni riescono a esaltare la nobiltà dei metalli preziosi, rendendo ancora più originali oggetti che già originali sono. I riflessi e la brillantezza che solo l’oro e l’argento sanno dare sono infatti in grado di rendere i disegni di un’artista davvero unici e irripetibili: la Bonavita è capace di utilizzare al meglio queste caratteristiche, dando vita a degli oggetti di una bellezza rara, quasi innaturale, per non dire addirittura fiabesca. Il tutto nasce da anni e anni di collaborazione a stretto contatto con i migliori orafi italiani; anni in cui l’artista milanese è risuscita ad assimilare tutti i più profondi segreti di un’arte vecchia di secoli. Nella coppa in oro dal titolo “Il volo delle rondini”, ad esempio, si è di

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fronte a una vera e propria opera d’arte figurativa in cui le rondini realizzate in smalto e brillantini, sembrano davvero spiccare il volo verso una destinazione il cui nome è riservato alla sola immaginazione dell’osservatore. Non è difficile assoggettare questo prezioso manufatto a un quadro impressionista al cui cospetto è d’obbligo fermarsi a riflettere e sognare. E nel prenderlo in mano, e nel percorrerne le superfici, le asperità e le scanalature, non è altrettanto difficile farsi coinvolgere dalla sua bellezza estetica, assaporando la vera essenza dell’oro e delle pietre preziose di cui è formato. La stessa essenza “magica” è anche contenuta nelle collane e nei pendagli, degni del décolleté delle nobildonne dei tempi passati i cui gioielli e monili popolano i più importanti musei di tutto il mondo. Non a caso, le creazioni della Bonavita hanno trovato posto in prestigiose collezioni private e in importanti atelier stranieri, tra cui il celebre Tiffany di New York (Stati Uniti), reso celebre dal famoso film “Colazione da Tiffany” interpretato dall’indimenticabile Audrey Hepburn. ...E GRANDI OPERE “Nei grandi spazi riesco a liberare al meglio le mie idee”, dice Caterina Bonavita di se stessa, riferendosi alle due grandi opere realizzate negli anni Ottanta presso gli spazi della Fiera Internazionale di Milano. La prima opera, del 1980 e dal titolo “Un mare di grano”, è una grande scultura in gres parzialmente smaltato che ha ornato per tanti anni un padiglione di rappresentanza della Fiera, tramutato poi in ristorante. Attualmente, a seguito della demolizione dei vecchi padiglioni di Fieramilano City, l’opera è custodita presso la Fondazione Maugeri di Pavia in attesa di una nuova collocazione. La seconda opera, del \986 e anch’essa in attesa di una nuova collocazione, è rappresentata invece da un bassorilievo realizzato per una filiale della Banca di Roma, situata sempre all’interno della Fiera di Milano. In entrambi i casi, le sculture sono state interamente scolpite a mano con una tecnica e una metodica con precisione d’esecuzione davvero mania-

cale e certosina, ma degne di una disegnatrice di gioielli e monili il cui gusto e raffinatezza vengono ulteriormente esaltate dalle grandi dimensioni. Lo stile scelto è quello dei più importanti scultori del secolo passato, a metà strada tra il naif e l’astratto, rivisitati secondo una visione del tutto personale e futuristica.

PEZZI UNICI E IRRIPETIBILI Numerose creazioni di Caterina Bonavita sono state prodotte in esemplari unici, come la boite qui a fianco, il cui disegno è stato ripreso da un modello di Lalique. L’accuratezza dei particolari è davvero ricercata e difficilmente riproducibile, al pari di vere e proprie opere d’arte conservate nei musei.

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CATERINA BONAVITA

Caterina Bonavita Tel: 02.463102

OLTRE LA SCULTURA La prima passione di Caterina Bonavita è stato il disegno. Ed è proprio con il disegno che il suo percorso artistico si completa. Sono infatti degli anni più recenti i quadri realizzati con tempera e sabbia di fiume: si tratta di soggetti astratti che rappresentano un ulteriore step nella continua sperimentazione e ricerca di Caterina Bonavita. “La mia è una sperimentazione di tipo personale”, spiega l’artista. “Non ho mai posto dei limiti alla mia opera e alle mie capacità artistiche e ho voluto cimentarmi sempre in qualcosa di nuovo che non fosse tanto innovativo per gli altri, ma che lo fosse soprattutto per me”. Dal figurativo delle forme incastonate nelle opere in metallo prezioso, la Bonavita è riuscita a passare all’astratto su carta, con estrema naturalezza,

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imponendo anche in questo caso uno stile personale e ricercato. Non siamo di fronte, difatti, a un astrattismo comune, ma di una soggettiva interpretazione del proprio vissuto di donna e di artista. CATERINA BONAVITA Nata a Milano da madre friulana e padre romagnolo, fin da piccola viene attratta dal disegno. Frequentando le scuole medie a Pieve di Soligo (Treviso) ha avuto la possibilità di avvicinare il padre del noto poeta Andrea Zanzotto che intuì fin da subito le sue qualità artistiche a cui suggerì di iscriversi all’Accademia di belle Arti di Brera; qui conobbe lo scultore Ettore Calvelli, che si offrì di averla nel suo studio per iniziare a modellare.Nello studio del Maestro Calvelli, la Bonavita imparò a utilizzare al meglio martelli e strumenti, specializzandosi nella tecnica dello sbalzo e realizzando composizioni su metalli diversi quali rame, peltro, argento e zinco; tecniche di lavorazione che perfezionò lavorando come disegnatrice in una nota gioielleria di via Montenapoleone a Milano. Le sue creazioni sono state esportate nei Paesi arabi e negli Stati Uniti, entrando a far parte sia di collezioni private sia di importanti atelier come la notissima gioielleria Tiffany di New York. Attualmente vive e lavora a Milano dove continua la sua opera di designer di gioielli e oggetti preziosi e, da qualche tempo, ha assunto anche la nuova veste di pittrice di soggetti astratti. ø


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L’Arte di Bruno Golin nasce dal cuore e dall’amore per la vita e per il creato. Poca ricercatezza e molta sostanza

Semplice

SPONTANEITÀ

Bruno Golin nel suo studio di Rho (Milano)

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a sua Arte lo rispecchia in tutto e per tutto: semplice, spontanea e gioviale, proprio come lui. Nei suoi quadri non si trovano messaggi nascosti o subliminali, ma solo ed esclusivamente l’essenza delle cose e della vita di tutti i giorni, visti da un occhio attento e romantico; quell’occhio che solo un vero artista possiede ed è capace di utilizzare nel modo giusto e al momento giusto. “Vivi come sei e ama ciò che fai”, è solito ripetere Bruno Golin riferendosi alle sue opere e alla sua vita. Ed è una frase assolutamente azzeccata: dai suoi dipinti traspare infatti serenità, positività e, soprattutto, voglia di vivere. Nulla è improvvisato, e guai a pensare il contrario. La regolarità e la linearità dei colori non è infatti una scelta dettata da immaginarie regole matematiche o, peggio ancora, dalla facilità di esecuzione, ma da un preciso schema mentale a cui Golin si ispira da sempre. L’utilizzo di elementi come la juta e il sacco ne sono la riprova: i loro intrecci di fibre, la loro resistenza e la loro consistenza possono essere infatti rapportati all’integrità dell’essere umano di fronte alle avversità della vita. L’accostamento dei colori, profondi e incredibilmente attraenti, a rappresentare la bellezza e il mistero del creato. Non a caso, infatti, il Maestro predilige i materiali di recupero; a testimoniare che tutto ciò che l’umanità perversa e corrotta, offuscata dalle nebbie dell’apparenza e del consumismo, è per lui sostanza di vita e di rinascita; un fecondo

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“Cielo nuvoloso n. 1” - 2005, 80x100 cm, colori ad olio su juta

substrato su cui far germogliare la vera vita a cui da sempre si affida: l’Arte. Quello di Golin è uno stile tutto personale; complesso non tanto per la profondità del messaggio, ma proprio per la semplicità dell’opera. Facile e difficile allo stesso tempo, l’Arte di Golin va oltre la critica e l’interpretazione propriamente detti; la sua Arte è espressione dell’interiorità umana con tutte le sue sfaccettature, dalle più immediate alle più contorte. Golin è dunque bravo a rendere semplice e di facile comprensione tutto ciò che è, per sua natura, difficile a intendersi; e lo fa con estrema naturalezza, instaurando un rapporto diretto e indissolubile con la natura da una parte, e l’osservatore dall’altra. Scrive di lui Vito Cracas: “Il rifiuto della forma nel suo contesto tradizionale e la traslazione emozionale nell’essenza del colore costituiscono i cardini


Sopra: “Oasi nel deserto”, 2005, 90x100 cm, colori ad olio su juta A lato, “Cerchi sul mare”, 2005, 27x43 cm, terra refrattaria con smalti

dell’esperienza di Bruno Golin. Esperienza significativa e significante di neoavanguardia, limpidamente coerente con il proprio sentire, attraverso la quale filtrano istantanee mentali, concetti, fremiti d’animo, ricreati nella e con la materia semplice e grezza, per accostamento, contrasto, gradualità cromatica, senza il sostegno di anedottiche referenze. Arte pura, spontanea, sentita, attenta a cogliere le risonanze dell’interiorità con intuizione”. MEZZO SECOLO DI ARTE Bruno Golin dipinge ormai da 50 anni e con la stessa passione e modestia di quando era giovane e frequentava con occhi curiosi e attenti gli studi di artisti già affermati. Nato come figurativo, si è lasciato pian piano conquistare dai temi astratti, spinto da una naturale e istintiva attrazione per tutto ciò che è semplice e lineare. La sua tecnica si è pian piano evoluta e dalla tradizionale potremmo quindi definire: tanto all’esterno quanto all’interno, in cui l’Arte pittura a olio, si è arricchita pian piano di materiali sempre più complessi e non è altro che un completamento della sua anima profonda e del suo “ego”. inusuali: l’amore per la natura incontaminata, l’ecosistema e la poesia l’hanno portato a prediligere i materiali di recupero e il Raku, tecnica di lavorazione di BRUNO GOLIN ceramica ad alta temperatura risalente al XVI secolo. Bruno Golin nasce a Desio (Milano) nel 1941. Artista autodidatta, ha freDa qualche anno il Maestro si dedica con passione alla scultura in legno quentato lo studio dello scultore Franco Fossa. Ha esposto in numerose moutilizzando, anche in questo caso, vecchi legni e assi tarlate, spesso alterate stre personali e collettive, ottenendo premi e segnalazioni. Sue opere fanno da residui di chiodi, fili di ferro e di rame. parte di in varie collezioni e sono esposte in musei. E, così come lo è stato per la pittura, anche per la È stato recensito più volte da importanti critici come, scultura, la sua passione nasce da lontano, come Bruno Golin ad esempio, Vito Cracas, Paolo Toresan, Cristina Via Beatrice d’Este, 3 – 20017 Rho (MI) conferma lo stesso Golin: “Come nella pittura, la Palmieri, Maria Grazia Ciprandi e Marco MonteTel: 02.9301623 – 349.3927567 passione per la scultura mi è nata da ragazzino giro- patrizia.golin@fastwebnet.it verdi; membro del consiglio direttivo dell’Associavagando per le campagne e per gli orti di Cinisello zione artistico culturale Dipingerho. Balsamo nei primi anni 50...”. Un artista “vero” lo Attualmente vive e opera a Rho (Milano). ¡ ARTE&SENSI 117


e Magazin

STUDIO ELLE

DOVE I SOGNI INCONTRANO LA REALTÁ Le migliori ceramiche dell’artigianato italiano in mostra in un angolo di Milano

U

n centro dove poter conoscere più da vicino le migliori creazioni degli artisti e artigiani italiani. È con questa precisa mission che è nato lo Studio Elle di Milano, un angolo in cui la ceramica squisitamente ed esclusivamente “Made in Italy” si manifesta in tutta la sua spontaneità più vera, dando vita a esclusivi manufatti artigianali molto vicini all’arte più raffinata e ricercata. Grande appassionato di ceramica e diplomato alla Scuola di Restauro di Firenze, il titolare del centro, Lorenzo Puzzi, ha avuto il merito di selezionare in maniera scrupolosa e minuziosa gli oggetti più preziosi recuperati in tanti anni di viaggi in lungo e in largo per la Penisola, soffermandosi soprattutto sulle creazioni dei migliori artigiani, quelli che la cultura di massa non è ancora riuscita a cancellare. “Un luogo dove la materia parla un linguaggio con stratificazioni antiche e dove sogno e realtà coincidono”: è così che definisce lo Studio lo stesso Puzzi, descrivendo

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ARTE&SENSI

nel migliore dei modi questo piccolo angolo del capoluogo lombardo dedicato alla più sofisticata produzione artistica italiana. E non a caso è stata la scelta la ceramica, uno dei materiali più pregiati e sensuali che la creatività del nostro Paese è in grado di offrire. In questo luogo, molte forme e stili artistici si incontrano e offrono al visitatore un insieme meraviglioso, e al tempo stesso emozionante, in cui poter riscoprire un’Italia davvero magica, fatta di sogni che hanno preso forma attraverso le sapienti mani dei nostri maestri ceramisti e che, al solo tocco, sono in grado di trascinarlo nel loro fantastico mondo fatto di luci, colori e trasparenze. ø

Studio Elle di Lorenzo Puzzi Via Albani, 11 20149 Milano Tel: 02.48012053 studioelleceramica@tiscali.it www.ceramichedartestudioelle.com



ART EVENT

MAGGIO Dal 1 al 4 maggio: “Mostra di Cristina Lombardo”; Sala Comunale d’Arte - Trieste Dal 2 al 6 maggio: “Mostra fotografica di Lorenzo Tommasoni”; Galleria Fenice 2 - Trieste Dal 2 al 15 maggio: “Sassi”; Villa de Su Probanu - Orosei (NU) Dal 2 al 31 maggio: “Contadini a Rimini. Giuliano Ravazzini”; Parco Federico Fellini - Rimini Dal 3 al 30 maggio: “Mostra di scultura di Paolo Sorgi”; Teatro Vascello - Roma Dal 5 al 29 maggio: “Mostra di Massimo Premuda”; Sala Comunale d’Arte - Trieste Dal 6 maggio al 26 giugno: “Lucio Fontana. Disegni inediti dal CSAC Università di Parma”; Fondazione Arnaldo Pomodoro - Milano Dal 8 maggio al 7 giugno: “L’arte in Italia dal 1945. La svolta degli anni Sessanta”; Fondazione Città di Cremona - Cremona Dal 8 maggio al 24 settembre: “Lorenzo Monaco”; Galleria dell’Accademia - Firenze Dal 9 maggio al 21 giugno: “Mostra di Silvano Bulgari”; Palazzo della Ragione - Mantova

IN CORSO Fino al 15 maggio: “Migrants. Mostra fotografica di Christian Sinibaldi”; Centro Libera Cultura Montalto di Castro (VT) “Gastone Novelli. Pittore di segni, lettere, suoni, colori”; Auditorium Parco della Musica - Roma Fino al 16 maggio: “Il colore dei cent’anni. Norma Mascellani”; Galleria PivArte Bologna “Mirabilia: labirinto 120

ARTE&SENSI

Dal 25 maggio al 18 giugno: “Tracce. Mostra di Sergio Agosti”; Fondazione Ferrero - Alba (CN)

Dal 9 maggio al 9 luglio: “Kagemusha. L’ombra del guerriero. L’uomo, l’altro, il confronto”; Chiostri di via San Pietro in Vincoli - Torino

Dal 14 maggio al 8 giugno: “Daniela Nenciulescu L’alibi d’acciaio”; Excalibur Artecontemporanea - Solcio di Lesa (NO)

Dal 10 maggio al 13 giugno: “Lia Pecchioli: Indivisibilità dualità”; View On Trends - Prato

Dal 14 al 21 maggio: “Senso femminile”; Casa del turista - Brindisi

Dal 27 maggio al 24 luglio: “Emilio Ambasz. Costruire con la natura”; Triennale - Milano

Dal 15 al 17 maggio: “Artigianato e Palazzo”; Giardini Corsini - Firenze

Dal 27 maggio al 22 luglio: “Mostra di Gianni Cacciarini”; Museo Marino Marini - Firenze

Dal 15 maggio al 5 giugno: “Omaggio a Boccaccio”; Palazzo Pretorio - Certaldo (FI)

Dal 28 maggio al 10 giugno: “Mostra di Cosimo Andrisano”; Galleria Estrarte - Prato

Dal 10 maggio al 3 agosto: “Paesaggi”; Galleria d’Arte Ars Mundi - Monforte d’Alba (CN) Dal 10 maggio al 30 novembre: “Labirinto: Libertà”; Forte Asburgico - Fortezza (BZ) Dal 11 al 23 maggio: “La scuola di Chartres”; Ex Chiesa San Nicolao - Bellano (LC) Dal 12 maggio al 11 luglio: “Luci del mondo, viaggi e incontri”; Villa Gussio Leonforte (EN) Dal 12 maggio al 17 luglio: “Mark Tobey. Mediatore tra Oriente e Occidente”; Galleria Blu - Milano Dal 13 al 23 maggio: “Art session project”; Galleria d’Arte La Bacheca - Cagliari Dal 13 maggio al 17 giugno: “Mostra personale di Giorgia Beltrami”; L’Ospitale - Rubiera (RE) Dal 13 maggio al 14 giugno: “Mostra di pittura di Michèle Le Gallo”; Istituto Francese - Firenze

del tempo”; Spazio Aliprandi - Milano Fino al 17 maggio: “Futurismo Manifesto 100x100”; Macro Future - Roma “Temi e variazioni. Dalla grafia all’azzeramento. Peggy Guggenheim Collection”; Palazzo Venier dei Leoni - Venezia “La memoria e l’arte Eva Fischer”; Museo della Battaglia del Senio - Alfonsine (RA) Fino al 18 maggio: “Adel Abdessemed. Le ali di Dio”; Fondazione Sandretto

Re Rabaudengo - Torino Fino al 20 maggio: “Patrizia Anedda e Lucia Arena”; Ina Assitalia Ag. Generale Bologna Centrale - Bologna Fino al 21 maggio: “Elena Menicocci. Sculture e bassorilievi”; Casa-museo Quadreria Cesarini - Fossombrone (PU) Fino al 24 maggio: “Uno. Basilico, Fontana, Ghirri, Jodice, Vaccari”; Ex Ospedale S. Agostino - Modena “Cy Twombly”; Galleria

Dal 15 maggio al 28 giugno: “Mark Lewis. Anticipando Venezia”; Museo Man - Nuoro Dal 16 maggio all’8 novembre: “Arte contemporanea a Villa Pisani. Alan Charlton Riccardo De Marchi”; Villa Pisani Bonetti - Bagnolo di Lonigo (VI) Dal 20 maggio al 2 settembre: “Rodin et Claudel – Création et matière”; Nuovo centro espositivo - Etroubles (AO) Dal 22 maggio al 19 giugno: “Gleb Viatkin”; Cà Lozzio Piavon di Oderzo - Treviso Dal 23 maggio al 20 settembre: “Harry Bertoia 1915-1978. Decisi che una sedia non poteva bastare”; Civici Musei d’Arte e Spazi espositivi Provinciali - Pordenone

Dal 28 maggio al 19 giugno: “Mostra di Luciana De Bortoli Zandonadi”; Centro di arte e cultura Scrimin - Bassano del Grappa (VI) Dal 30 maggio al 6 giugno: “Murales Art”; Magazzini dei Pescatori Trappeto (PA) Dal 30 maggio al 8 novembre: “Egitto mai visto”; Castel del Buonconsiglio - Trento Dal 30 maggio al 30 giugno: “Bramante. Anche i geni hanno cominciato da piccoli. I primi trent’anni dell’architetto nel Montefeltro”; Galleria d’Arte Bramante - Fermignano (PU) Dal 31 maggio al 2 giugno: “Pennellate di luce”; Teatro Villa - Valfenera (AT)

Dal 24 maggio al 2 giugno: “Istantanee. Mostra fotografica di Vittorio Daniele”; Centro Incontri della Provincia - Cuneo

Nazionale d’Arte Moderna - Roma “L’arte della pubblicità. Il manifesto italiano e le avanguardie”; Casino dei Principi - Roma Fino al 25 maggio: “Arte Genio Follia: il giorno e la notte dell’artista”; Museo Santa Maria della Scala - Siena “Napoleone fasto imperiale”; Museo Napoleonico - Roma “Mirò. La terra”; Palazzo dei Diamanti - Ferrara Fino al 26 maggio: “Michele Marieschi.

Vedute incise”, Ca’ Rezzonico - Venezia Fino al 29 maggio: “Mostra ‘50 - ‘60”; Museo d’arte della Provincia - Nuoro Fino al 30 maggio: “Castellinarte - Collettiva d’arte”; Castello di S. Severina e Castello di Melissa (KR) “Emozioni Policrome”; Lyceum Club Internazionale - Firenze Fino al 31 maggio: “Egitto. Tesori sommersi”; Reggia di Venaria - Venaria Reale (TO)

“Cromofobie”; Ex Aurum – Pescara “Mostra sul collezionismo siciliano pubblico e privato”; Palazzo Riso - Palermo “Kleombrotos-Vigliaturo, una lettera dal passato”; Museo Nazionale Archeologico della Sibaritide - Sibari (CS)


GIUGNO Dal 1 al 10 giugno: “Mostra personale di Marina Grassi”; A.I.A.T. - Trieste Dal 1 al 12 giugno: “Mostra dell’artista Günther Schatzdorfer – Sguardi e orizzonti”; A.I.A.T. Sede di Sistiana, 56/b - Trieste Dal 2 al 11 giugno: “Mosaici di San Marco”; Duomo - Verona Dal 2 al 25 giugno: “Mille e un viaggio di Irene Hus”; Palazzo Scotti - Treviso Dal 4 al 13 giugno: “Mostra personale di Valentina Cosciani”; Sala comunale “G. Negrisin” - Muggia (TS) Dal 5 giugno al 4 luglio: “Inventio”; Antico Convento di San Pietro in Montorio Roma Dal 6 al 28 giugno: “VIII Biennale Giuliana d’Arte”; Biblioteca Statale Largo Papa Giovanni XXIII - Trieste Dal 6 giugno al 22 novembre: “Biennale Arte”; Giardini della Biennale - Venezia Dal 7 al 15 giugno: “Immagini: riflessione... del mio stereotipo”; Palazzo Gradari (PU) Dal 7 giugno al 22 novembre: “Padiglione Italia: Collaudi 1909-2009. Omaggio a Filippo Tommaso Marinetti”; Biennale - Venezia

IN CORSO Fino al 2 giugno: “Morandi. L’arte dell’incisione”; Palazzo dei Diamanti - Ferrara “Timothy Tompkins e Morandi”; MLB Maria Livia Brunelli Home Gallery Ferrara Fino al 4 giugno: “Tiziano e il ritratto di corte da Raffaello ai Carracci”; Museo di Capodimonte - Capodimonte (NA) “Conteporart”; Palazzo Bertello - Borgo San Dalmazzo (CN) “Terra, acqua, aria, fuoco di Joe Tilson”; Palazzo Doria - Loano (SV)

Dal 7 al 21 giugno: “Giancarlo Montuschi. Contaminazioni spazio-temporali”; Monastero Santa Croce - Bisceglie (BA) Dal 8 al 26 giugno: “Opere scelte di Corrado Damiani”; La Fenice Gallery Venezia Dal 9 giugno al 7 ottobre: “Artempo. Where times becomes art”; Palazzo Fortuny - Venezia Dal 10 al 17 giugno: “Universal Perceptions. Personale di pittura”; Palazzo Martinengo - Sondrio Dal 10 al 30 giugno: “Mostra di Mario Consiglio”; Galleria Carlo Livi - Prato Dal 10 giugno al 30 luglio: “Mostra di Fernando de Szyszlo”; Galleria Open Art - Prato Dal 11 giugno al 6 luglio: “Mostra di Marcello Corrà Lineare aereo complesso”; Galleria Excalibur - Solcio di Lesa (NO) Dal 14 giugno al 24 luglio: “Forme a venire”; Accademia di Belle Arti - Firenze; Dal 15 giugno al 14 novembre: “Le opere di Gaetano Memmo”; Confartigianato Imprese - Prato

Dal 16 giugno al 7 luglio: “Natura morta, Iconografia contemporanea dell’effimero”; Galleria Sottopiano Beaux-Arts - Cagliari Dal 16 giugno all’8 luglio: “Le altri Arti degli architetti parmigiani”; Galleria San Ludovico - Parma Dal 18 giugno al 2 luglio: “I Maestri del ‘900”; Galleria Le Tele Tolte - Roma Dal 18 al 30 giugno: “Segni di vita. Lebenszeichen”; Ufficio Turistico Comunale - Tempio Pausania (SS) Dal 18 giugno al 24 luglio: “Le sculture di Claudio Capotondi”; Palazzo Mediceo Seravezza (LU) Dal 19 giugno al 30 luglio: “James Whitlow Delano Impero. Impressioni dalla Cina”; Wave photogallery - Brescia Dal 19 giugno al 30 settembre: “Da Petra a Shawbak, archeologia di una frontiera...”; Limonaia di Palazzo Pitti - Firenze Dal 20 al 30 giugno: “Contaminazione”; Galleria Linea d’Arte - Bari Dal 20 giugno al 5 luglio: “Mostra personale di Carolina Franza - Icone”; A.I.A.T. - Trieste

Dal 15 giugno al 24 luglio: “Il Chisciotte di Antonio Saura”; Istituto Cervantes - Roma

Dal 20 giugno al 14 luglio: “Pitture & Sculture. Scuola del Vedere”; Sala Comunale d’Arte - Trieste

Dal 15 giugno al 18 settembre: “Thayat in mostra”; Uffizi - Firenze

Dal 21 giugno al 14 settembre: “Amedeo Modigliani e il segno di Silvestro Lega”; Ex

Fino al 7 giugno: “Futurismo100: Illuminazioni. Avanguardie a confronto. Italia, Germania e Russia”; Corso Angelo Bettini Rovereto (TN) “Hiroshige. Maestro della Natura”; Museo del Corso - Roma “I Della Robbia: il dialogo tra le Arti del Rinascimento”; Museo Statale d’Arte Medievale e Moderna Arezzo “Antonio Ligabue è a Pontassieve”; Palazzo Sansoni Trombetta - Pontassieve (FI) “Futurismo 1909-2009”; Palazzo Reale - Milano; Scuderie del Quirinale - Roma “Seravezza Fotografia 2009”; Palazzo Mediceo Seravezza (LU)

Chiesa di San Rocco e San Sebastiano Modigliana (FC) Dal 22 giugno al 6 luglio: “Forme, colori, architetture. Omaggio a Roberto Capucci”; Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea - Torino Dal 24 giugno al 24 settembre: “La famiglia De Chirico. I geni della pittura”; Museo Michetti - Francavilla al Mare (CH) Dal 24 giugno al 16 settembre: “Pigmenti e disegni. Jan Jedlicka”; Centro Arte moderna e contemporanea - La Spezia Dal 25 giugno al 13 luglio: “Fascinum. Il gioiello d’arte”; Centro d’arte Riflessi - Pozzuoli (NA) Dal 25 giugno al 19 settembre: “Mostra di André Kertész”; Castello di Montalbano - Elicona (ME) Dal 28 giugno al 9 luglio: “Mostra personale di Cristina Marsi”; A.I.A.T. Murgia (TS) Dal 28 giugno al 17 luglio: “Inchiostri d’Autore a caffè. Hemingway ad Alassio”; Chiesa Anglicana - Alassio (SV) Dal 30 giugno al 1 luglio: “Estemporanea di pittura”; Isola del Cantone (GE) Dal 30 giugno al 20 luglio: “Il duplice universo di Moreno Bondi”; Palazzo Caserma Minervio - Spoleto (PG)

Fino al 11 giugno: “Restituzioni. Tesori d’arte restaurati”; Palazzo Leoni Montanari - Vicenza

Fino al 16 giugno: “La voce silenziosa delle stelle”; Palazzo Doria - Loano (SV)

“La casa di tutti: un tipico mercato africano”; Museo Missionari Comboniani Verona

Fino al 13 giugno: “Emilio Isgrò. Fratelli d’Italia”; Gallerie del Credito Valtellinese - Milano

Fino al 20 giugno: “Franco Rognoni”; Galleria Dep Art - Milano “Novecento ritrovato”; Casa dei Teatri - Roma “Personale di Pesce Khete al The Flat”; Galleria The Flat - Milano

Fino al 22 giugno: “Le Segrete di Bocca. Pensieri e Parole”; Le Segrete di Bocca - Milano “Seed Bomb”; Giardini di Palazzo d’Este - Varese “Guido Cagnacci. Protagonista del Seicento tra Caravaggio e Reni”; Musei San Domenico - Forlì (FC)

Fino al 14 giugno: “Galileo. Immagini dell’universo dall’antichità al telescopio”; Palazzo Strozzi - Firenze “Parole come armi”; Museo della guerra - Rovereto (TN) Fino al 15 giugno: “Giovanni Baronzio e la pittura a Rimini nel Trecento”; Galleria Nazionale di Palazzo Barberini - Roma

Fino al 21 giugno: “Canova. L’ideale classico tra scultura e pittura”; Musei San Domenico - Forlì (FC) “Il crocifisso riscoperto da Benedetto da Maiano si svela mal pubblico”; Museo Conservatorio di Santa Chiara - Siena

Fino al 26 giugno: “Magdalena Abakanowicz. Space to experience”; Fondazione Arnaldo Pomodoro - Milano Fino al 28 giugno: “Déco. Arte in Italia 1919-

1939”; Palazzo Roverella - Rovigo “Incontro con Rembrandt”; Fondazione Magnani Rocca - Mamiano (PR) “Rembrandt dal Petit Palais di Parigi”; Fondazione Magnani Rocca - Mariano Traversetolo (PR) “Flowers and Words”; Parc Hotel - Riva del Garda (TN) “Giò Ponti in Casa Palladio”; Villa Badoer - Fratta Polesine (RO) “Picasso, Suite 347”; Museo Civico Ala Ponzone - Cremona Fino al 29 giugno: “Giotto e il Trecento”; Vittoriano - Roma

ARTE&SENSI 121


LUGLIO

Dal 7 luglio al 4 agosto: “Mostra fotografica Pachamama”; Caffè letterario Un Mondo di Carta - Brescia

Dal 1 al 10 luglio: “I Gioielli scultura”; Hotel Syrene - Capri (NA)

Dal 7 luglio al 28 agosto: “Ne’ anima”; Chiostro Villa Vogel - Firenze

Dal 1 al 16 luglio: “Il mistero della salvezza nei mosaici di San Marco”; Scorzé (VE)

Dal 7 luglio al 28 ottobre: “Fabrizio Clerici Opere 1932-1992”; Convento del Carmine - Marsala (TP)

Dal 12 luglio al 31 dicembre: “Assalto all’arma bianca”; Rocca - Urbisalia (MC) Dal 13 luglio al 28 agosto: “Stefano Tondo. Incognito”; Limonaia di Villa Strozzi - Firenze Dal 14 al 16 luglio: “Assenze”; Studio L. Mazzella - Napoli

Dal 19 al 30 luglio: “Marmo d’Opera”; Palazzo Mediceo - Seravezza (LU) Dal 19 al 31 luglio: “Papier”; Spazio laboratorio LineaDarte - Napoli Dal 19 luglio al 10 agosto: “New York Before. Foto di Leonardo Casali”; Block 60 - Riccione (RN)

Dal 8 al 26 luglio: “Terre d’Africa”; Palazzo Comunale - Cremona

Dal 14 al 19 luglio: “I bambini di Makalala”; Unità Politiche Giovanili - Ravenna

Dal 20 luglio al 20 agosto: “Pittura paesaggistica e ceramica vietrese a nni ‘80”; Cava de’ Tirreni (SA)

Dal 8 luglio al 25 settembre: “Bob Noorda Design”; Museo dell’Architettura - Ferrara

Dal 14 luglio al 31 agosto: “Oltre i portali”; Palazzo Ricci - Macerata

Dal 20 luglio al 28 febbraio: “Dopo la Sicilia”; Credito Siciliano - Acireale (CT)

Dal 8 luglio al 30 settembre: “Nel novecento toscano. Adolfo Balduini”; Fondazione Ricci Onlus - Barga (LU)

Dal 14 luglio al 2 settembre: “Mostra annuale d’Arte il Cortilone di Sorano”; Piazzetta del Poggio - Sorano (GR)

Dal 2 luglio al 9 ottobre: “Litografie, stampe e manifesti di Antonio Ciccone”; Internet Pitti - Firenze

Dal 8 luglio al 30 ottobre: “Una natura altra. Natura, materia, paesaggio nell’arte italiana 1950-1962”; Convento del Carmine - Marsala (TP)

Dal 14 luglio al 7 ottobre: “L’Oro delle Apuane cave di marmo e paesaggi apuani nella pittura italiana”; Palazzo Mediceo - Seravezza (LU)

Dal 21 al 28 luglio: “MediterrArte: pennellate di terre, figure e atmosfere mediterranee”; Ex Monastero di Santa Croce - Bisceglie (BA)

Dal 3 al 9 luglio: “Mostra di pittura di Adriano Brunelli”; Villa del Conte (PD)

Dal 9 al 19 luglio: “Napoleone e le Marche 1797-1814”; Museo Civico - Fano (PU)

Dal 3 al 16 luglio: “Digiarte”; Palazzo Comunale - Sesto Fiorentino (FI)

Dal 10 luglio al 31 agosto: “La sfera, simbolo dell’essere. Jiménez Deredia”; Parco La Versiliana - Marina di Pietrasanta (LU)

Dal 16 al 30 luglio: “Giovanni Gallo. Dal Mediterraneo al Pacifico”; Associazione Vecchia Alassio - Alassio (SV)

Dal 1 al 28 luglio: “Linguaggi vitalistici”; Accademia Federiciana - Catania Dal 2 luglio al 30 settembre: “Foto di Giuseppe Romeo”; Municipio - Etroubles (AO) Dal 2 luglio al 2 ottobre: “20x20. Artisti dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna 1980-2000”; Castello Colonna - Genazzano (Roma)

Dal 4 al 15 luglio: “La realtà incantata, personale di Enrico Benaglia”; Il CantinoneArti Teatri - Montepulciano (SI) Dal 4 al 16 luglio: “Novecento a novecentogradi”; Centro espositivo Excelsior - Montelupo Fiorentino (FI) Dal 5 al 15 luglio: “Frames. A partire da Lulù”; Atelier di Moda Ciumachella - Roma Dal 5 luglio al 7 settembre: “Michele Cascella, la natura come colore”; Museo Le Carceri - Asiago (VI) Dal 6 al 15 luglio: “Mostra fotografica Acque”; Torre delle Saline - Margherita di Savoia (FG) Dal 7 al 30 luglio: “Annalisa Ferrari. La mia Toscana”; CentroArteModerna - Pisa

IN CORSO Fino al 5 luglio: “Beato Angelico”; Musei Capitolini - Roma Fino al 6 luglio: “Andy Wharol the new factory”; Fondazione Mamiani Rocca - Mamiano (PR) 122

internazionale di scultura”; Radicondoli (SI)

ARTE&SENSI

Dal 10 luglio al 30 settembre: “Gigi Quaglia, un’informale solitudine tra Terre d’Asti e Golfo dei Poeti”; Castello Doria - Portovenere (SP) Dal 11 al 16 luglio: “Cantiere Artistico Mobile”; Festival Arezzo Wave - Arezzo Dal 11 al 17 luglio: “Operazione T4”; Galleria Villa Valle - Valdagno (VI) Dal 11 al 20 luglio: “Stati d’animo - Mostra di scultura in pietra”; Castelsardo (SS) Dal 11 luglio al 28 settembre: “Dipingere la luce”; Palazzo Strozzi - Firenze Dal 12 al 27 luglio: “500 and one mail-art project”; Monghidoro (BO)

Dal 15 al 30 luglio: “Enrico Camporese. Declinazione opere: 1999-2006”; Campo San Giovanni e Paolo - Venezia Dal 16 luglio al 15 settembre: “La bellezza della croce”; Santa Casa - Loreto (AN) Dal 16 luglio al 18 settembre: “D’oro e d’argento. Mostra personale di Sandro Chia”; Chiesa e Chiostro di S. Agostino - Pietrasanta (LU) Dal 17 al 30 luglio: “Artefiuggi”; Vecchia Stazione - Fiuggi Fonte (FR) Dal 17 luglio al 12 ottobre: “Il gran fuoco di Aligi Sassu”; Museo delle Ceramiche Castelli (TE) Dal 17 luglio al 1 novembre: “Da Courbet a Fattori. I principi del vero: una mostra a Castiglioncello”; Castello Pasquini Castiglioncello - Rosignano Marittimo (LI)

Dal 21 al 29 luglio: “Percorsi di Elisa Zeni”; Andalo (TN) Dal 22 al 31 luglio: “Arte in fabbrica”; Factory Dream - Balangero (TO) Dal 22 luglio al 28 agosto: “Uncharted Territories. Paolo Riani. Per territori sconosciuti”; Montecatini Terme (FI) Dal 24 luglio al 29 agosto: “Fabrizio Segaricci. Il lavoro mobilita”; Palazzo Ducale - Castiglione del Lago (PG) Dal 26 luglio al 20 settembre: “Motivi: Opere di Alfredo Quaranta, Andrea Indellicati, Sante Polito”; Museo Archeologico Nazionale - Taranto Dal 26 luglio al 13 novembre: “Fabrizio Boschi”; Casa Buonarroti - Firenze Dal 27 luglio al 3 agosto: “MediterrArte”; Bisceglie (BA) Dal 28 al 31 luglio: “La Rosa bianca. Volti di un’amicizia”; Chiesa di San Giacomo - Verona

Dal 12 luglio al 14 settembre: “Rassegna

“Garofalo pittore della corte estense”; Castello Estense Ferrara Fino al 12 luglio: “Raffaello e Urbino”; Palazzo Ducale - Urbino (PU) “Andrea Brustolon”; Palazzo Crepadona - Belluno

Fino al 16 luglio: “Da Monet a Boltanski: Capolavori del 900”; Villa Museo - Mamiano (PR) Fino al 19 luglio: “I Ligari. Pittori del ‘700 lombardo”; Palazzo delle Stelline - Milano

Fino al 26 luglio: “Burri”; Galleria Nazionale d’Arte - Perugia “Chagall, Kandinsky, Malevi. Maestri dell’Avanguardia russa”; Villa Olmo - Como Fino al 31 luglio: “Mostra fotografica Doars. Terai. Trevancore”; Casa del

Té - Raddusa (CT) Fino al 2 agosto: “Terra e Mare. Paesaggi del Sud, da Giuseppe De Nittis a Giovanni Fattori”; Pinacoteca De Nittis - Palazzo della Marra - Barletta (BA) Fino al 14 settembre:

“Rassegna Street Art 2008/2009”; Arte Due Gallery - Milano


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