Salvatore Accolla nasce con una specie di stigma del sacrificio e della solitudine. Un
suggello esistenziale che non lo abbandonerà mai. Era il 1946, in un quartiere povero
di Siracusa, nasce in una famiglia di pescatori, era una famiglia numerosa. Il padre
rimane una figura in sospeso, persino incollocabile. Sparisce quando Salvatore è
ancora un bambino. La madre va avanti, con la durezza forgiata dalla misera,
dall’ineluttabilità restituita da certi luoghi e da un preciso periodo storico. Poco più
che adolescente parte per la Germania, finisce nei numeri in costante crescita della
cosiddetta forza lavoro, i gasterbeiter, i cortesemente accolti, con le tasche rivoltate.
E rispediti al paese qualora non avessero prodotto più o adeguatamente. Salvatore
lavora, rimane in Germania fino ai suoi vent’anni. Ha persino il tempo di
innamorarsi e di soffrire per amore. Con questa sofferenza, con questa tristezza, torna
in Italia, in Sicilia, dalla madre. Questa tristezza è stata la sua poetica,