Ritratto di famiglia I mille modi di essere famiglia a Bellusco dagli inizi del Novecento ad oggi
Bellusco, Castello da Corte, Sala della Fama dal 9 al 23 settembre 2012
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Ritratto di famiglia, p. 2
Ritratto di famiglia Castello da Corte, Sala della Fama Via Castello 1, Bellusco dal 9 al 23 settembre 2012 Inaugurazione sabato 8 settembre 2012, h. 18,00 Ingresso libero Orari: mercoledì – venerdì, h. 15-18 sabato – domenica, h. 10 – 12 e 15 -18 apertura straordinaria domenica 9 e lunedì 10 in occasione della Sagra di Santa Giustina A cura di:
Con la collaborazione di:
Art-U Associazione Culturale www.artuassociazione.org
Comune di Bellusco, Assessorato alla Cultura
Pro Loco Bellusco www.prolocobellusco.it
Si ringraziano:
Biblioteca Civica di Bellusco
Abaco Associazione Culturale www.abacoartecultura.it
Golden Ticket www.goldenticket.it
tutti coloro che hanno collaborato alla realizzazione dell’allestimento della mostra e quanti hanno gentilmente prestato le fotografie e gli oggetti esposti.
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Ritratto di famiglia, p. 3
Il progetto Famiglia che vince si cambia. Non è un gioco di parole ma l'essenza stessa dell'esposizione “Ritratto di famiglia” che si presenta come un caleidoscopio metamorfico di immagini, quelle dedicate alla famiglia e alla sua inarrestabile evoluzione nel tempo. In concomitanza con l'annuale Sagra di Santa Giustina che per il 2012 ha scelto di sviluppare il tema biblico della famiglia a cui si ispireranno i tradizionali carri in sfilata e alla luce delle recenti testimonianze dispensate in occasione del VII Incontro Mondiale delle Famiglie, svoltosi a Milano dal 30 maggio al 3 giugno, la città di Bellusco apre il suo spazio storico ad ospitare una selezione di circa 40 immagini fotografiche a stampa, accompagnate da una carrellata di altrettante a video, in parte provenienti dal Museo Fotografico del Comune di Bellusco, in parte tratte dai vecchi album fotografici custoditi nelle case di tutti gli italiani, che raccontano i momenti più intimi e importanti della vita di ciascuna famiglia: matrimoni, nascita dei figli, scene di vita casalinga, gite, feste e cerimonie. Famiglie tradizionali e generazioni messe a confronto sono le protagoniste delle storie raccontate nel tempo di uno scatto. Storie modello, evolutesi nel tempo, che tuttavia affermano il ruolo di protagonista che da allora ad oggi questa istituzione ha nella società.
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Ritratto di famiglia, p. 4
Ritratti di famiglie. Dalla famiglia patriarcale alla famiglia nucleare La famiglia è una delle istituzioni sociali che ha subito maggiori trasformazioni nel corso della storia e nei vari contesti culturali, adattandosi di volta in volta all’emergere di nuovi legami, relazioni e valori. Parlarne oggi significa fare riferimento ad un istituto che è stato sottoposto storicamente, nel corso del tempo, a profondi cambiamenti, tappe di un processo antichissimo, la maggioranza dei quali concentratisi nel corso dell’800. Le trasformazioni di carattere economico, politico, sociale e culturale susseguitesi nel tempo hanno contribuito a trainare la società, con tutte le sue componenti fondamentali, verso la modernità e i processi di industrializzazione che hanno stravolto modi di vivere radicati e consolidati nella tradizione. La famiglia si è quindi incamminata verso un processo di semplificazione organizzativa, procedendo da una struttura complessa, patriarcale per eccellenza, ad una forma nucleare, più ridotta nel numero dei componenti e meglio adatta ai ritmi e alle necessità della società moderna. Anche la popolazione di Bellusco agli inizi del '900 era prevalentemente organizzata all'interno delle grandi corti rustiche, adatte ad ospitare famiglie numerose. Il cortile centrale fungeva da catalizzatore delle attività agricole e delle relazioni sociali e nei momenti di maggiore espansione i locali preesistenti venivano adattati per far posto ai nuovi arrivati. Dopo la Seconda Guerra Mondiale la situazione cambiò radicalmente, soprattutto a partire dagli anni ‘50: il processo di espansione e trasformazione in senso moderno del paese contribuì a cambiarne l'assetto organizzativo, con un conseguente stravolgimento del carattere aggregativo familiare.
Il modello familiare prevalente sul territorio fino al secondo dopoguerra è quello della famiglia patriarcale o allargata, un nucleo piuttosto numeroso (si poteva arrivare anche a 20-30 elementi) costituito dalla presenza di diversi parenti, come nonni, zii e cugini, tutti coinvolti nelle attività produttive legate all'agricoltura e all'artigianato che assicuravano sostentamento ai componenti della famiglia stessa. Solitamente l’uomo più anziano svolgeva sugli altri un ruolo di netta preminenza: a lui spettava il governo complessivo della famiglia e un’autorità assoluta nei confronti dei suoi membri. Se gli uomini avevano il compito di provvedere alla lavorazione dei campi e al governo degli animali, le donne dal canto loro si occupavano principalmente del mantenimento della casa e dei figli. Spirito religioso, attaccamento al lavoro e legame con la comunità locale erano per tutti i valori a cui si faceva riferimento. Nel contempo, in base al ceto sociale di appartenenza, esistevano modelli di famiglia che si differenziavano da quella contadina. In questi nuclei, che si potrebbero definire famiglie borghesi, si riscontrava un numero minore di figli, una scolarità più alta e naturalmente condizioni economiche più agiate. Con l'avvento della società moderna e il processo di industrializzazione incipiente il tipo di organizzazione familiare ha subito una radicale trasformazione e dalla forma patriarcale si è passati ad un tipo di organizzazione nucleare, costituita cioè essenzialmente dai soli genitori e figli: una forma di associazionismo depotenziata, in quanto le attività produttive, i consumi e la formazione dei componenti venivano oramai esternalizzati, demandandoli ad altri agenti sociali quali la scuola e la fabbrica.
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Ritratto di famiglia, p. 5
La formazione della famiglia L’istituzione matrimoniale La storia passata ci ha insegnato e trasmesso l’importanza dell’istituzione matrimoniale, dell’unione tra uomo e donna, evolutasi nel tempo in altre forme di convivenza che hanno come essenza di sopravvivenza il rispetto reciproco tra i coniugi. Il matrimonio rappresenta dunque la prima tappa nel ciclo di vita della famiglia. Se un tempo esso significava per l’uomo il momento di assumere definitivamente il ruolo di maschio dominante e per la donna la meta sognata da bambina, oggi, in una società ormai matura, il matrimonio d’amore è la conquista recente di chi sa scegliere liberamente. Le fotografie riescono a cogliere questo passaggio epocale: lo si legge negli occhi delle coppie di sposi ritratte negli anni in cui l’Italia sta tentando di lasciarsi alle spalle i più vieti tradizionalismi di una società contadina e patriarcale. Il matrimonio non è quindi solo la festa degli sposi, ma di due ceppi familiari che iniziano a condividere uno stesso cammino comune. In origine la celebrazione non era un fatto privato, anzi si trattava di un evento pubblico in cui si registravano l’ingerenza e l’influenza di tutta la comunità. La collettività era solita aggredire e combattere la costituzione di famiglie anomale (omosessuali, adulteri, seconde nozze di vedove o vedovi, ecc.…) facendo così valere tutta la propria influenza nei confronti di chiunque osasse trasgredire alle tradizioni. Molto ristretti, fino agli anni ‘20 e ‘30 del XX secolo, rimanevano gli spazi di intimità dei giovani fidanzati e coniugi. Il fidanzamento era un fatto pubblico ed i corteggiamenti e gli incontri prematrimoniali, votati ad atteggiamenti ed espressioni di reciproca riverenza,
avvenivano alla presenza di parenti ed altri membri della comunità. Nel caso fosse scoperto un incontro clandestino la donna era seriamente minata nel suo onore e nella sua dignità. Il culmine del ritualismo e dell’ingerenza della comunità lo si ritrovava nei riti matrimoniali a cui seguivano pranzi allargati a buona parte della popolazione residente nella stessa comunità degli sposi. I costi di tali festeggiamenti erano ripartiti in maniera diversa a seconda delle differenti realtà geografiche o sociali: sulla sola famiglia dello sposo (in campagna), su entrambe (sempre in ambito rurale) o su quella della sola sposa (in città). Col passare dei secoli l’aspetto pubblico calò a favore di una visione privata delle nozze. L’istituzione della luna di miele fu, ad esempio, una delle maggiori e più apprezzate novità dal momento che i giovani sposi avevano la possibilità di compiere un viaggio postmatrimoniale che li poneva al riparo dall’influenza e dal giudizio della comunità. Nelle famiglie patriarcali la nuora viveva in una condizione di completa sottomissione nei confronti della suocera che aveva la supremazia su tutte le donne di casa. La guida della famiglia spettava al padre al quale tutti dovevano la più completa e totale obbedienza. In caso di suo decesso gli subentrava il figlio più anziano. Nelle famiglie urbane vi era una minore intrusione della comunità nella vita coniugale e, grazie ad una sorta di processo di osmosi, tali innovazioni si diffusero anche nelle tradizionali famiglie patriarcali estese, contribuendo all’inizio del processo di trasformazione delle strutture e relazioni interne in un’ottica più simile a quella delle realtà familiari mononucleari.
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Ritratto di famiglia, p. 6
Riti e costumi del matrimonio: l’abito da sposa Pensare ad una sposa significa immaginarla con uno sfarzoso abito bianco. Ma basta guardare alcune delle foto in bianco e nero delle nostre nonne e subito ci accorgiamo che non è sempre stato così. Il "tradizionale" abito bianco è in realtà il prodotto di un’evoluzione storica che ha visto estendersi ad un numero sempre maggiore di persone, grazie in particolare al boom economico-consumistico del secondo Novecento, un’usanza un tempo destinata solamente ai ceti più alti. L’abito da sposa era, e in parte lo è ancora, una status symbol già dal Settecento, quando solo in pochi potevano permettersi di far confezionare un abito lussuoso, bianco come i gigli (che rimandano alla purezza della Vergine) e chiaramente da usare una sola volta! Molte donne nell’Ottocento e nel Novecento si sposavano invece con abiti sì eleganti, di buona fattura e confezionati per l’occasione, ma magari neri e soprattutto riutilizzabili in altri appuntamenti importanti: l’ispirazione era spesso quella dell'abito da sera o da ballo, ottima occasione per "ammortizzare" la spesa! La dote Ogni sposa viaggiava con un imprescindibile bagaglio alla volta della vita matrimoniale: la dote. Fin dalla nascita delle loro figlie, le madri accumulavano in grandi cassapanche biancheria personale e per la casa: cucina, bagno e camera da letto necessitavano di decine di federe, lenzuola, asciugamani che dovevano bastare, salvo qualche sporadica aggiunta per la nascita dei figli, per tutta una vita. La stessa futura sposa contribuiva ad incrementare il corredo, ricamando personalmente le proprie cifre e quelle del
marito sulla biancheria personale e della casa. Il tutto era minuziosamente inventariato per stabilirne il valore economico e inserito nell'accordo prematrimoniale; il patrimonio sarebbe dovuto tornare alla famiglia della sposa nel caso quest’ultima fosse mancata senza avere figli. Senza la dote, più o meno cospicua a seconda delle possibilità, non ci si poteva sposare e non si trattava di un uso, ma di un vero e proprio istituto giuridico regolamentato e in vigore da secoli: fu abolito solamente nel 1975 perché ritenuto incompatibile con il nuovo diritto di famiglia che proclamava l’assoluta parità ed eguaglianza dei coniugi e che quindi non ammetteva che il marito fosse l’unico a poter amministrare i beni di famiglia, tra cui anche quelli della moglie. D’altra parte, la libera scelta del proprio marito o della propria moglie per amore e non per studiate convenzioni e interessi sociali ed economici è un lusso relativamente recente! La sperada Le ragazze che passavano dall’infanzia all’età da marito, per farsi riconoscere dai possibili pretendenti, erano solite indossare un particolare ornamento tipico delle zone della Brianza, ma anche del lecchese e del comasco, attestato almeno del Seicento (anche se si ipotizza un’origine ben più antica, nel XII-XIII secolo), la cosiddetta Sperada, utilizzata per creare particolari acconciature. Donata dai genitori e costituita da una serie di spilloni, generalmente in argento e disposti a raggiera, essa serviva per appuntare le trecce sulla nuca, proprio ad indicare il passaggio dalla condizione infantile a quella adulta. Una volta avvenuto il fidanzamento, lo status di promessa sposa era segnalato dall'aggiunta delle spadine, altri spilloni talvolta traforati, dono del fidanzato stesso.
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Ritratto di famiglia, p. 7
Il giorno del matrimonio infine, e poi in varie occasioni importanti o ricorrenze, era il marito a regalare altri spilloni detti cucchiaini (o spazzaorecc per la loro "seconda" funzione!) a completare il tutto. La sperada cambiava numero e qualitĂ di spilloni a seconda dello stato civile della donna e della sua etĂ e rivestiva quindi un forte valore simbolico. Dal canto suo, la sposina avrebbe regalato al marito un bel paio di bretelle ricamate a mano!
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Ritratto di famiglia, p. 8
Il consolidamento del progetto familiare L’arrivo di un nuovo componente In Italia, paese cattolico per eccellenza, la vita familiare è sempre stata dominata dai festeggiamenti per le celebrazioni sacramentali che scandiscono periodicamente le stagioni intime e pubbliche dei nuclei familiari stessi. Sia all’interno delle famiglie benestanti che di quelle meno abbienti, uno dei primi momenti di “riunione” e condivisione della festa era la celebrazione del battesimo che seguiva, di lì a poco, la nascita del neonato. La coppia umana, una volta costituitasi, alla luce degli insegnamenti cristiani, diventava strenua affidataria del progetto di continuità della creazione: l’idea originaria doveva, allora come oggi, essere presa in carico, custodita, coltivata e indirizzata all’interno del nido familiare. La famiglia dunque, nel suo piccolo, diventava uno strumento divino tramite il quale trasformare il mondo. In equilibrio armonico con le altre sfere della vita, principalmente il lavoro e il tempo libero, i neo-genitori erano chiamati a proteggere ed imporre i ruoli della paternità e della maternità al fine di tutelare il bene più prezioso: i figli. Il primo abito del bambino, quello del battesimo, rivestiva una grande importanza dal momento che la cerimonia esigeva il maggior sfarzo possibile rapportato alle possibilità del ceto di appartenenza. Gli abiti, completati con svariati accessori, erano un vero e proprio patrimonio tramandato di generazione in generazione. Trine e merletti finissimi, ricami preziosi su seta e lino, caratterizzavano i vestitini e i portenfants, cuscini di forma speciale che sorreggevano il bambino durante la cerimonia battesimale e che abitualmente erano coordinati, per tessuto ed ornamenti, con l’abito stesso. Anche nei ceti più semplici, là dove vi era minore disponibilità economica, il
battesimo era sempre celebrato con il massimo decoro corrispondente alla dignità del Sacramento: il vestitino era di cotone bianco in piquet a nido d’ape o di mussola, con ricami smerlati e pizzi, mentre il portenfants era un semplice cuscino con la federa più bella. Primi abiti e primi passi Le cuffie, per riparare la testa del neonato, potevano essere usate sia di giorno che di notte, tenute in casa o indossate durante la passeggiata giornaliera. La cuffia, così come il bavaglino o la camicia, poteva essere, a seconda della famiglia di provenienza del neonato, semplice o guarnita con pizzi e nastri, in seta o in cotone. La culla è un oggetto di origini antichissime utilizzato per accompagnare e invogliare il sonno dei neonati e poteva essere in vari materiali, vimini, legno o ferro. I modelli potevano a loro volta variare: da quelli più semplici ed essenziali delle famiglie meno abbienti, a quelli più fastosi presenti nelle case più ricche, tutti però indistintamente dotati degli accessori fondamentali, cuscini, paraurti, copertine, lenzuola e federe. Quando il neonato non dormiva nella culla e non era ancora in grado di reggersi in piedi, veniva posizionato all’interno del reggibimbo o strencireù completamente fasciato. Alla base, sotto ai piedi del bambino, venivano posizionati dei dischi rigidi, disposti uno sopra l’altro, così da sostenerlo. Mano a mano che il bambino cresceva, i dischi venivano sfilati. Per aiutare il bambino ad acquistare equilibrio e a fare i cosiddetti primi passi, venivano infine utilizzati il “girello”, in legno o in vimini e le “briglie”, con cui si legava il bambino sorreggendolo durante la camminata.
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I figli: una ricchezza da istruire Nella società pre-industriale la famiglia patriarcale, formata da più nuclei familiari uniti da vincoli di sangue e/o matrimoni, riuniva componenti che condividevano gli stessi valori e collaboravano alla sicurezza e stabilità della famiglia stessa. I figli, spesso molto numerosi, considerato il contesto economico prettamente agricolo in cui il nucleo era inserito, rappresentavano una delle più grandi ricchezze e forme di sostentamento per l’intera macro-comunità e, fin da piccoli, venivano impiegati nei lavori domestici e agricoli in genere. L’educazione dei bambini, intesa come istruzione scolastica, veniva impartita direttamente dai genitori tra le mura domestiche ma la realtà vedeva ancora fermamente diffuso l’analfabetismo totale. I primi tentativi di dare una rudimentale istruzione alle popolazioni rurali, appoggiandosi a reti sociali esterne che si occupassero per vocazione dell’infanzia e della socializzazione dei bambini, si ebbero nella seconda metà del XVI secolo per iniziativa di qualche parroco che, alle lezioni di catechismo, abbinava l’insegnamento dei rudimenti di lettura e scrittura. Si dovrà tuttavia attendere la seconda metà del XVIII secolo e la riforma scolastica intrapresa dall’Imperatrice Maria Teresa d’Austria affinchè l’istruzione venga considerata pienamente un diritto di tutti i cittadini, nonché un dovere dello Stato, tanto da farvi seguito l’istituzione delle prime scuole elementari. La riforma, ciò nonostante e almeno inizialmente, interessò solo le città e i grandi centri urbani. Nel contesto del borgo di Bellusco il ritorno degli austriaci sarà l’input per la prima vera organizzazione e capillare programmazione scolastica, finalizzata ad introdurre a livello globale le scuole elementari in tutti i paesi della Lombardia. Il 1812 è l’anno di istituzione della prima scuola elementare di Bellusco, frequentata inizialmente da alunni di solo sesso
maschile e ubicata all’interno della casa del maestro che aveva l’obbligo di mettere a disposizione uno dei locali di sua proprietà per condurre il proprio lavoro. L’insegnamento era impartito dal maestro Luigi Bordogna, al quale veniva corrisposto un salario di 206 lire all’anno. La direzione della scuola era affidata al parroco e le principali materie d’insegnamento vertevano sulle nozioni basilari del leggere e dello scrivere, sull’aritmetica, sull’istruzione religiosa e sui doveri fondamentali verso il sovrano. Nel 1859, a seguito dell’annessione della Lombardia al regno di Sardegna, le scuole furono suddivise in due corsi, uno inferiore obbligatorio (prima e seconda classe) e uno superiore facoltativo (terza e quarta). Inconvenienti erano tuttavia causati dalla mancanza di una sede scolastica unica ed efficiente che sostituisse i numerosi locali sparsi in vari punti del paese, per la realizzazione del quale si dovrà aspettare il 1909. Il secondo dei maggiori problemi che infine affliggevano il sistema scolastico della zona era l’evasione dall’obbligo di frequenza, dovuto al fatto che la maggior parte dei ragazzi e delle ragazze erano coinvolti nel lavoro agricolo e nell’industria tessile. Pillole di vita scolastica La funzione della scuola e dell'educazione in genere è sempre stata quella di integrare gli studenti in un contesto socioeconomico e culturale in continua evoluzione. Se la pratica personale, cioè il contatto tra il discepolo e il maestro, si è mantenuta sostanzialmente indifferenziata, il cambiamento più radicale si è sicuramente registrato negli strumenti utilizzati quotidianamente che, oggigiorno, hanno contribuito ad allargare letteralmente lo spazio del banco e dell'aula scolastica. La trasmissione del sapere, che un tempo avveniva attraverso materiali poveri ma efficaci, oggi usufruisce di forme e mezzi elettronici che si evolvono in continuazione ma che, senza
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i loro predecessori storici, si ridurrebbero a semplici involucri vuoti e muti. Proviamo dunque a ricostruire tutti assieme, con un po’ d'immaginazione, quell'ambiente seppur povero dove i nostri nonni hanno ricevuto i loro primi insegnamenti. I bambini non andavano a scuola con lo zaino ma portavano a tracolla una cartella rigida, fatta di fibre di cartone, di pelle o di “caoutchouc” di litografia, una tela ricoperta di gomma usata per i cilindri delle macchine da stampa. Spesso veniva ereditata dai fratelli maggiori, se ve ne erano, e al suo interno conteneva tutto il necessario per la giornata scolastica: un astuccio di legno, una matita, un libro di lettura e qualche quaderno, oltre alla schiscetta per contenere il pranzo del mezzogiorno. L'Abbecedario era il libro più prezioso, il testo su cui i bambini imparavano a leggere e scrivere e accanto ad esso spesso si trovava abbinato un quadernetto ricoperto di cartoncino nero con la scritta Bella Copia, per gli esercizi di calligrafia. Per scrivere bisognava usare la penna, il pennino e l'inchiostro, mentre la matita veniva usata solo dagli scolari più piccoli.
La penna era composta da un pennino e un'asta solitamente in legno, ma esistevano anche versioni in metallo e bachelite (resina simile alla plastica). Il pennino veniva intinto nell'inchiostro contenuto nel calamaio, un piccolo contenitore in vetro inserito in un foro ricavato sul ripiano del banco, generalmente in legno. poiché l'inchiostro non si poteva asciugare rapidamente, per farlo occorreva munirsi di carta assorbente. Penne, matite e pennini venivano riposti in astucci rigidi di legno a coperchio scorrevole o basculante. Non esistevano libretti dei giudizi per comunicare a casa il rendimento dei ragazzi ed essi ricevevano le pagelline tre volte all'anno. La scuola non aveva allora il compito di preparare gli alunni agli studi classici o alla pratica delle arti e dei mestieri. Semplicemente l'istruzione impartita dagli insegnanti abilitava indirettamente alla vita, offrendo una preparazione che, in tal senso, poteva essere valida sia per il figlio del contadino che per il figlio del borghese.
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Ritratto di famiglia, p. 11
Il tempo del lavoro e il tempo del riposo Una religiosità vissuta intensamente Come abbiamo visto l’istruzione dei più piccoli era strettamente connessa con i momenti di apprendimento catechetico impartiti dai sacerdoti locali che accompagnavano alla lettura e discussione dei passi evangelici e biblici i primi fondamentali rudimenti di lettere e matematica. Ciò a dimostrazione del fatto che mondo religioso e mondo laico convivevano strettamente connessi, permeando profondamente tutti gli aspetti e i momenti basilari della vita familiare. Tra i tanti aspetti toccati dalle trasformazioni in atto tra Ottocento e Novecento, senza dubbio anche gli aspetti cultuali ne furono interessati. Dalle campagne alle città non si perse solo uno stile di vita e il contatto con i tempi della natura, ma anche una religione fortemente sentita e vissuta, onnipresente nella vita quotidiana dei contadini. E proprio nel mondo contadino, più che in quello urbano avviato alla secolarizzazione, i riti e le festività mantennero più a lungo la propria centralità nella vita della comunità e in quella delle singole famiglie. Riti e feste sottolineavano i momenti salienti nel paese, belli come un buon raccolto, brutti come la morte di uno dei suoi membri. In ogni camera, sopra il letto matrimoniale, campeggiava una stampa della Sacra Famiglia o della Madonna, sopra quello dei bambini gli angeli custodi. Ai piedi del letto, talvolta persino impreziosito con l’acquasantiera, si pregava al mattino e alla sera. In occasione delle nozze alla sposa, come augurio di fecondità, veniva regalata la statuetta in cera di Maria Bambina, tutta trine e merletti, protetta dalla campana di vetro; tra i regali nuziali non mancavano il libro da Messa e la Filotea, un vero e proprio manuale della devozione per la moglie pia. Chi non sapeva leggere poteva sempre trovare conforto sgranando un rosario.
Nelle case si appendevano poi anche le stampe colorate con le storie sacre corredate da didascalie, veri catechismi per immagini, e le fotografie dei propri defunti, davanti alle quali accendere un lume: di sicuro sarebbero stati riconoscenti e d’aiuto nel momento del bisogno. Anche i bambini talvolta giocavano a dire la Messa con piccoli altarini accessoriati di ogni paramento in formato mini. Per loro i momenti più importanti, veri e propri avvenimenti che scandivano il percorso personale e al tempo stesso collettivo nella comunità cristiana, erano i Sacramenti: il Battesimo, la Comunione e la Confermazione. Si trattava dunque di una religiosità rituale e popolare, spesso con sfumature quasi superstiziose, ma professata con grande rigore e intensità. Il lavoro: nuovi ritmi e nuovi mestieri Quello racchiuso tra la seconda metà dell’800 e i primi decenni del ‘900 è un periodo denso di trasformazioni epocali in ogni ambito: economico, politico, sociale, culturale. La modernizzazione, l’industrializzazione e l’urbanizzazione attuano il passaggio da un’economia agricola a una industriale, con conseguente adattamento del mercato del lavoro, e stravolgono modi di vivere radicati e consolidati dalla tradizione. La struttura e l’organizzazione della famiglia, nucleo portante della società, non può non subirne le ripercussioni. I cambiamenti nel mondo del lavoro fanno sì che un numero sempre più elevato di individui eserciti il suo mestiere separato dal resto della propria famiglia, che smette così, nel corso dei primi decenni dell’800, di essere anche un’unità lavorativa, oltre che affettiva e coabitativa.
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Ritratto di famiglia, p. 12
Si impongono nuovi ritmi e nuove modalità di lavoro, slegati e spesso in contraddizione con il cadenzato ripetersi dei giorni e delle stagioni. Il tempo della città non segue più il tempo della natura: le differenze tra la vita nelle campagne e quella nelle città si fa sempre più evidente e diminuisce progressivamente il legame con la terra. La crescita demografica, insieme ai mutamenti socio-economici, dà origine a sempre più consistenti fenomeni migratori. Se da un lato i conservatori sostengono l’ideale della famiglia contadina stabile, minacciata dagli stravolgimenti operati anche nelle campagne dalla modernizzazione, dall’altro i riformatori sociali sollecitano un intervento dei governi finalizzato a migliorare le condizioni di vita. E si diffonde, allo stesso tempo, la percezione che la famiglia sia esposta a “pericoli nuovi” e “sfide inedite”. Stili di vita, lavoro, modi di abitare, abbigliamento, istruzione, igiene e medicina: tutto è in rapida evoluzione. Alla fine dell’Ottocento, con la diffusione del gas per l’illuminazione e la cucina e con l’introduzione dell’acqua corrente, le innovazioni tecnologiche influiscono anche positivamente sull’ambiente familiare e sulla qualità della vita. Importanti ma nello stesso tempo contraddittori furono anche i cambiamenti per le donne: negli ultimi decenni del XIX secolo, parallelamente al crescente coinvolgimento della donna nelle attività produttive, si diffonde l’idea della cosiddetta “domesticità femminile”, che tocca il suo apice ai primi del Novecento: la donna è bene che si occupi della sua casa, del marito e dei figli e si arriva a parlare di “liberazione della donna dal lavoro al di fuori della casa” (un punto di vista per noi decisamente “fuori moda”!). Un insolito luogo di ritrovo Se il lavoro occupava nelle sue varie forme di produttività la maggior parte delle ore e
dei giorni dei componenti della famiglia, vi erano tuttavia dei momenti che ciascuno dedicava alla pratica della vita sociale, ossia quella serie di manifestazioni collettive o momenti d’aggregazione naturale che oggi siamo soliti indicare come “tempo libero”. L’appropriazione di questa nuova dimensione temporale era tuttavia vista, almeno all’inizio, come un’estensione e una proiezione della vita familiare stessa, forse anche per il fatto che le varie manifestazioni chiamavano ad aggregarsi quegli stessi componenti delle varie famiglie patriarcali che vivevano nel paese. E allora anche i luoghi simbolo del paese diventavano centri improvvisati di conversazione, confronto e svago. A Bellusco un luogo si distingueva su tutti gli altri: il pozzo comunale. Passato alla storia come ul pos in piasa, poiché sorgeva nella piazza pubblica principale del paese, esso non era solo un mezzo di approvvigionamento idrico ma anche un centro attorno al quale i cittadini di Bellusco si riunivano per trattare i propri interessi o quelli della collettività. Negli anni ’30, quando per chiare esigenze di comodità, il vecchio pozzo che aveva avuto un ruolo sociale così importante nella vita della comunità, venne soppiantato da nuovi impianti idrici, finì il pellegrinaggio quotidiano dei componenti del paese ma andò anche inaridendosi quello spirito comunitario e collettivo che aveva caratterizzato le passate generazioni. Ci si stava dunque dirigendo verso una dimensione più nuclearizzata anche dei propri ritagli di tempo libero, che prelude all’individualismo moderno. Festa e comunità: il Palio di Santa Giustina Tra le manifestazioni principali che fin dal 1955 hanno alacremente impegnato la comunità degli abitanti di Bellusco, durante i primi giorni di settembre si annovera il Palio di Santa Giustina, inserito all’interno della omonima sagra.
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L’evento è organizzato in onore di Santa Giustina, vergine e martire romana vissuta nei primi secoli dopo Cristo, le cui reliquie sono conservate all’interno della Chiesa Parrocchiale del paese. Il momento clou di questa manifestazione è sempre stato la sfilata dei caratteristici Carri Biblici Fiorati, realizzati dagli abitanti dei vari Rioni e dedicati di anno in anno ad un tema religioso diverso. Non si può quindi parlare del valore dell’aggregazione comunitaria tra paesani senza citare quello che risulta essere il momento di festa e condivisione maggiormente sentito dalla comunità di Bellusco. I costumi, le comparse, gli addobbi floreali e le installazioni dei carri in generale hanno da sempre vantato allestimenti originali che, seguendo il tema in oggetto, impegnano da sempre grandi e piccini, invitandoli a lavorare fianco a fianco, mossi da uno spirito di partecipazione comune (e da un pizzico di competizione!).
Progresso e motorizzazione: i mezzi di trasporto I tempi dei veicoli a trazione animale hanno fine per Bellusco nel 1890, quando sulla linea tramviaria Monza Trezzo Bergamo entra in funzione il primo tram a vapore: questo nuovo mezzo contribuisce notevolmente allo sviluppo economico e sociale del paese, collegandolo con i centri maggiori e permettendo spostamenti prima impensabili. Il tram a vapore, tuttavia, oltre a costituire un mezzo di trasporto più comodo e veloce per le esigenze di lavoro e di viaggio dei cittadini, favorisce anche il diffondersi di idee e comportamenti nuovi e talvolta in contrasto con i principi della tradizione: in una relazione del 1900 il parroco arriva a lamentarsi che “il tram che passa in paese è causa di guasto dei costumi”! Ai primi del Novecento, inoltre, comincia a muovere i primi passi la bicicletta, mentre l’automobile è ancora quasi sconosciuta: nel 1905 a Bellusco si contano ben 11 biciclette e solo 2 autovetture.
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La famiglia tra tradizione e modernità Tra ‘800 e ’900: dalla cascina alla fabbrica Nella prima metà dell’Ottocento, a Bellusco, il numero di abitanti del piccolo comune inizia a crescere sensibilmente, con un trend costante (e da allora inarrestabile!) nonostante occasionali rallentamenti dovuti alle immancabili epidemie e carestie. Le cause di questa espansione vanno ricercate essenzialmente in un costante flusso immigratorio che innesca, come effetto collaterale, una febbrile attività edilizia di trasformazione: portici, solai, stalle e fienili vengono convertite, nel corso degli anni, in abitazioni civili. Nella seconda metà del secolo, poi, il tasso di crescita accelera decisamente e il fenomeno, questa volta, è dovuto al miglioramento delle condizioni di vita e alla tendenza delle famiglie ad aggregarsi al nucleo centrale del paese. Infatti, se nel 1861 solo poco più della metà degli abitanti vivono nell’agglomerato (776 persone contro 717), circa un ventennio dopo, nel 1883, la città aggrega ben 1119 abitanti mentre solo 724 persone continuano a popolare le abitazioni rurali e le cascine extraurbane. Questa sarà un’altra conseguenza delle trasformazioni innescate dalla modernizzazione: gli insediamenti a corte, che avevano avuto un grandioso sviluppo durante tutto l’Ottocento, attorno agli anni Cinquanta del secolo successivo si avviano alla decadenza e allo spopolamento, soppiantate sempre più dalla costruzione delle prime case popolari e dalle villette unifamiliari. Proprio quelle corti, che erano state qualcosa di più di semplici agglomerati rurali: micro-società che avevano visto svolgersi quotidianamente le azioni più importanti della vita economica, sociale e religiosa di tutti i loro abitanti.
A partire dagli anni ‘30 del Novecento lo sviluppo industriale dei grandi centri fa sì che la popolazione dedita alla lavorazione dei campi si dimezzi nel giro di pochi anni. Da allora il declino dell’agricoltura, sebbene lento e graduale, è inarrestabile, a tutto vantaggio delle attività industriali e commerciali: anno
agricoltura
industria
terziario
1951
16 %
65 %
19 %
1971
7%
70 %
23 %
addetti nei settori produttivi tra la popolazione di Bellusco
Tuttavia il passaggio dalla condizione contadina a quella operaia, per la maggior parte dei belluschesi, non è radicale: per molto tempo l’industria si associa al lavoro dei campi e questa complementarietà delle due economie (agricola e industriale) dà origine alla figura dell’operaio-contadino che, dopo il turno in fabbrica, si reca al lavoro nei campi. Il vero e proprio processo di industrializzazione si verifica, a Bellusco, nel secondo dopoguerra e in particolare a partire dagli anni ‘60, in seguito al decentramento industriale dalle città. In parallelo, in centro al paese, con l’apertura di via Italia e con la costruzione di case popolari, si avvia un processo di espansione e di trasformazione del centro urbano che risponde ad una nuova fase di aumento demografico, alimentato ancora una volta dal consistente flusso immigratorio. Il XX secolo e le nuove sfide Le trasformazioni che hanno percorso il XIX secolo non si arrestano certo nel Novecento. La “famiglia moderna”,
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Ritratto di famiglia, p. 15
comparsa nell’Ottocento, nel corso del XX secolo affronta ulteriori, radicali cambiamenti: abbiamo ormai a che fare con le nuove problematiche della famiglia allargata “post-moderna”. Il vecchio modello familiare era fondato su regole ben precise, formato da genitori anziani, figli sposati, nipoti, e basato su una struttura patriarcale, in un’economia fondamentalmente agricola che aveva bisogno di molte braccia. Con lo sviluppo della società industriale, i figli cominciano ad abbandonare la casa paterna, trovando una loro indipendenza economica. Contemporaneamente, il numero dei figli per ogni famiglia va progressivamente diminuendo (grazie alla diffusione delle tecniche di controllo delle nascite) e diminuisce fortemente la mortalità infantile, così come si innalza la speranza di vita fino ad un’età un tempo irraggiungibile: ann0
abitanti
famiglie
componenti
1801
613
77
7,9
1811
709
88
8,0
1821
771
95
8,1
1841
901
119
7,5
1900
2013
162
12,4
1921
2917
408
7,1
1951
3623
925
3,9
1961
3797
1063
3,5
1971
4785
1471
3,2
1981
5701
1923
2,9
1984
5797
2004
2,8
componenti per nucleo familiare a Bellusco
La famiglia patriarcale allargata viene sostituita dalla famiglia nucleare, composta soltanto dai genitori e dai loro figli. Fino agli anni Cinquanta del ‘900, tuttavia, continua ad esistere una famiglia di tipo “tradizionale”, fondata sull’indissolubilità del matrimonio, su una precisa divisione dei ruoli tra i coniugi e sulla centralità dei figli. Nei decenni successivi si verifica invece un complesso mutamento sociale e culturale: il processo di liberalizzazione della sfera sessuale rende il legame istituzionale meno necessario; nel 1970 viene introdotto il divorzio; nel 1975 è riformato il diritto di famiglia, che stabilisce tra l’altro la parità dei coniugi sia nei loro rapporti personali che nei confronti dei figli; nel 1978 viene approvata la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza. Il matrimonio non è più l’unica forma di convivenza e, tra i matrimoni, aumentano notevolmente quelli in cui almeno uno dei due sposi è di cittadinanza straniera. Le donne hanno preso coscienza dei loro diritti e sono entrate massicciamente nel mondo del lavoro, imponendo una maggior condivisione con il coniuge delle responsabilità e delle cure parentali. A fronte dell’evoluzione della società e dei cambiamenti dei suoi valori e ideali, anche il nucleo familiare modifica la sua forma e la sua composizione, generando di volta in volta nuove tipologie di famiglia tra loro profondamente differenziate: i single (ma anche le coabitazioni di donne anziane sole o di gruppi di studenti), i genitori soli non vedovi, le famiglie ricostituite (un nuovo modo di intendere la “famiglia allargata”) e le unioni gay. E c’è da scommettere che questo processo non finirà qui: l’istituzione familiare continuerà a trasformarsi, seguendo e rispondendo, di volta in volta, ai cambiamenti della società, dei costumi e delle abitudini di vita della popolazione.
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Ritratto di famiglia, p. 16