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L’estetica della velocità pura

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NEL LUNGO RACCONTO DEI RECORD DI VELOCITÀ ASSOLUTI ABBIAMO VISTO ASSIEME

LA STORIA DELLA TECNICA, DELLE INNOVAZIONI IN CAMPO MECCANICO E MOTORISTICO

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DELLE AUTO DA RECORD E LE VICENDE DI GARE E PILOTI. CONCLUDIAMO ORA AFFRONTANDO

IL TEMA DELLA EVOLUZIONE DELLA FORMA DI QUESTE STRANE AUTOMOBILI

DAL PUNTO DI VISTA SPECIFICO DELL’ESTETICA, QUINDI DELLA LORO “IMMAGINE”. testo e disegni di Massimo Grandi (Commissione Cultura)

Certamente parlare di estetica, dunque di bellezza, riguardo a delle macchine da record di velocità pura potrebbe sembrare una forzatura se non addirittura un terreno di ragionamento improprio, tra l’altro, per certi aspetti le stesse considerazioni potrebbero essere allargate a tutte le vetture concepite e costruite al solo scopo agonistico come le F1 e le Sport-prototipo. Ma in realtà non vi è nessuna forzatura e nessuna improprietà nel ragionar di estetica parlando di auto particolari come quelle, appunto, destinate solo ed esclusivamente alla ricerca della massima velocità su terra se andiamo a sviluppare questo tema attraverso i codici interpretativi del design, cioè di una defnizione di estetica come risultato della migliore sintesi tra forma e funzione.

La Bellezza Coerente

Certo, se noi intendessimo il design come strumento per rendere più “bella”, ad esempio, una attuale F1 faremmo contemporaneamente un torto al concetto stesso di design e alla vettura perché, da una parte andremmo a relegare il design a puro e sterile esercizio di styling e dall’altra probabilmente a compromettere prestazioni e affdabilità della macchina: l’estetica di una vettura” estrema”, ma il concetto vale anche per l’automobile in generale, è di natura relativa o coerente, intendendo per coerenza proprio il rapporto tra la forma e la funzione e dove la funzione è sempre defnita dalla specifca destinazione d’uso dell’oggetto.

Vi sono vetture nella storia dell’automobile universalmente riconosciute come “belle” o “bellissime”, voglio tra queste citare ad esempio la Ja- guar E Type che nel 1961 lo stesso Enzo Ferrari apostrofò come “La più bella automobile che avesse mai visto”, la Ferrari 250 GTO del ’62 o l’Alfa Romeo 33 Stradale di Scaglione. Ma vi è anche una bellezza riconosciuta in vetture molto meno prestigiose di quelle citate, come la 2 CV Citroën, la Mini di Issigonis o la Fiat 500 di Giacosa. Paragonare la bellezza di una Jaguar E a quella di una 2CV è oggettivamente impossibile, ma non lo è paragonare la “bellezza” del loro design. La bellezza di un design di fatto è rappresentata, come avevo già detto, dalla riuscita sintesi coerente tra dimensioni funzionali e forma. L’obiettivo di ogni designer è sempre quello, qualsiasi oggetto progetti, di trovare la “bella forma”, ma non esteticamente referenziale o fne a sé stessa, ma la migliore forma che risponda alla funzionalità dell’oggetto stesso. Chi contesterebbe oggi la “bellezza” di una Ferrari 330 P3/4 del 1966, eppure il design di Piero Drogo dovette rispondere solo alle esigenze della Ferrari di creare una vettura SP in grado di competere con le Ford GT40 in gare impegnative come Le Mans o Daytona, così come la 2 CV di Bertoni era stata concepita e disegnata solo per rispondere alle esigenze di mobilità dei contadini francesi degli anni ‘40.

Ma forse per comprendere meglio il concetto di bellezza relativa o coerente è opportuno abbandonare per un momento il mondo delle quattro ruote e affrontare quello di una macchina semovente di natura diversa e più complessa: l’aeroplano. Se l’automobile deve cercare di vincere le resistenze aerodinamiche rimanendo il più possibile aderente alla terra, l’aeroplano, al contrario deve vincere e piegare le resistenze aerodinamiche per sollevarsi e volare. Questa natura particolare del mezzo volante non ha mai permesso concessioni gratuite alla ricerca di un’estetica fne a sé stessa, che si tratti di aerei commerciali o di caccia bombardieri, tutto è fnalizzato all’ottimizzazione del volo, dai materiali alla forma.

Se nella storia dell’auto abbiamo assistito (e assistiamo tutt’oggi) a concessioni a una estetica autoreferenziale si pensi a certe realizzazioni di Exner in America o ad alcune ridondanti ed eccessive carrozzerie francesi degli anni ’30 di Figoni & Falaschi, nella storia dell’aeroplano questo non è mai avvenuto, non sono mai esistiti aerei “ridondanti”. Ma, esteticamente parlando, come non soffermarsi sulla bellezza, ad esempio, di un Lockheed L-049 Constellation del 1943, quadrimotore con impennaggio a tripla deriva verticale in coda considerato ancora oggi dalla bibliografa specializzata uno dei più eleganti aerei mai realizzati, dove le linee maestre della fusoliera presentavano un andamento sinuoso, studiato al fne di ottimizzare la penetrazione aerodinamica che fn col rappresentare uno degli elementi più caratteristici del velivolo, conferendogli un aspetto allo stesso tempo semplice e raffnato che ci ricorda nella sua eleganza il proflo di un airone cinerino in volo. Una bellezza indiscutibile creata dalla capacità dei progettisti di dare una forma funzionalmente essenziale ad un aereo per il quale si prevedeva un peso a vuoto di circa 24.000 kg, una capacità di 40 passeggeri e che doveva collegare senza scalo New York a Londra ad una velocità di crociera di circa 485 km/h.

Un altro esempio forse ancora più effcace è quello di un velivolo che ha scritto un importante capitolo della storia dell’aviazione, il Supermarine Spitfre, un caccia monoposto monomotore ad ala bassa, prodotto dalla ditta britannica Supermarine Aviation Works che divenne uno degli aerei-simbolo della Seconda guerra mondiale soprattutto per il suo importante e decisivo contributo alla vittoriosa resistenza inglese all’aggressione tedesca, durante la Battaglia d’Inghilterra. Lo Spitfre fu il capolavoro di Reginald oseph Mitchell, già noto come progettista di idrovolanti per la Coppa Schneider, vinta nel 1927 da uno dei suoi aerei: il Supermarine S.5

Lo Spitfre o Type 300 come fu denominato il progetto, secondo l’idea originale di Mitchell, doveva essere in sostanza, il più piccolo e più semplice aereo da combattimento che si potesse costruire attorno al motore Rolls-Royce PV-12 secondo la specifca inglese F-37/34, che richiedeva un caccia monoplano armato con otto mitragliatrici, abitacolo completamente chiuso e carrelli d’atterraggio principali retrattili. Le forme di questo aereo sono un capolavoro di equilibrio e armonia del modellato e senza dubbio l’elemento che più contribuisce a tale stupendo risultato è il disegno caratteristico delle ali a proflo ellittico: potrebbero sembrare il risultato dell’estro creativo di un artista, ma in realtà questo tipo di ala, in gran parte opera di Beverley Shenstone, che aveva lavorato con Ernst Heinkel in Germania, era un diretto risultato della richiesta di Mitchell per un’ala sottile ma, nel punto in cui incontrava la fusoliera, abbastanza spessa - e strutturalmente abbastanza forte -, per contenere armi e carrello retratto. Il numero delle Brownings 303 era, infatti, di otto pezzi, seguendo le raccomandazioni dello Squadron Leader Ralph Sorely dell’Operational Requirements dell’Air Ministry, così l’ala doveva essere abbastanza lunga da contenerle.

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