Edoardo Giusti - Gabriella Di Francesco
collana Psicoterapia & Counseling diretta da Edoardo Giusti PSICOTERAPIA�
COUNSELING�
60 Centro Europeo di Ricerche per lo Studio delle Psicoterapie Integrate e Comparate
Edoardo Giusti - Gabriella Di Francesco
L’AUTOEROTISMO L’alba del piacere sessuale: dall’identità verso la relazione
OVERA EDITORE
Š 2006 SOVERA MULTIMEDIA s.r.l. Via Vincenzo Brunacci, 55/55A - 00146 Roma Tel. (06) 5585265 - 5562429 www.soveraedizioni.com e-mail: info@soveraedizioni.com I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i paesi.
Sommario
Introduzione Capitolo I: Il desiderio La storia del desiderio Definizioni e concetti Chi e come se ne è occupato in filosofia Chi e come se ne è occupato in psicoanalisi Il desiderio in psicoanalisi Il desiderio nei successori di Freud
Capitolo II: Desiderio e motivazioni Il desiderio tra bisogni e motivazioni Il sistema motivazionale basato sulla regolazione psichica delle esigenze fisiologiche Il sistema motivazionale di attaccamento-affiliazione Il sistema motivazionale esplorativo-assertivo Il sistema motivazionale avversivo Il sistema motivazionale sensuale-sessuale
Capitolo III: L’immaginario pulsionale e le fantasie erotiche I contenuti e le funzioni La fantasia e il fantasticare Le immagini sessuali Fantasia e autoerotismo La struttura delle fantasie L’immaginario nel ciclo di vita
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Capitolo IV: La pratica dell’autoerotismo e del piacere solitario 87 Lo sviluppo del concetto di sessualità Onanismo e masturbazione Le fasi evolutive della pratica dell’autoerotismo Resistenze e tabù nell’autoerotismo Gli sviluppi del dibattito
Capitolo V: Sessualità e autoerotismo L’adolescenza e l’autoerotismo L’assenza di autoerotismo in adolescenza La sessualità in età adulta La pratica e il setting, i manuali e gli esercizi del piacere solitario Le ricerche La ricerca ASPIC
Capitolo VI: Dall’autoerotismo alla relazione sessuale Il ciclo di risposta sessuale Le terapie sessuali Le nuove terapie sessuali L’approccio mansionale integrato La sessuoanalisi Il sex counseling La terapia gestaltica Dall’autoerotismo alla relazione sessuale
Bibliografia
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Introduzione
Il volume affronta la tematica dell’autoerotismo e della sua funzione per lo sviluppo di una relazione sessuale ed interpersonale matura. Il testo organizza il materiale oggi disponibile sull’argomento, osservandolo nelle sue diverse dimensioni (immaginativa, motivazionale, sessuale, relazionale) e attingendo a studi e dati relativi a risultati di ricerche. Il primo approfondimento riguarda il desiderio nelle diverse espressioni, nei suoi percorsi e le sue storie; nella profonda tensione tra corpo e psiche, tra la sua natura fisica e la sua esistenza sociale e culturale. A partire dalle numerose definizioni che ne vengono date in letteratura, il testo sottolinea come approfondire il desiderio significa riconoscere il suo significato quale componente fondamentale dell’agire umano. Il desiderio non è infatti circoscrivibile nell’attività conoscitiva della mente, ma è un’esperienza che investe tutto il corpo, ne modifica la condizione biologica, ha delle conseguenze nel tempo, prosegue secondo una sua storia che s’intreccia con l’esistenza della persona. A questo tema è dedicato il primo capitolo che attinge alla lettura ed alla interpretazione che la filosofia e la psicologia ne hanno dato nel tempo. La seconda tematica riguarda la relazione, unica e complessa per ogni individuo, tra desiderio e motivazioni; tra i momenti dell’esperienza e dei bisogni individuali prevalenti, a seconda dei periodi di sviluppo, e le motivazioni che si esprimono in desideri, pensieri, azioni ed emozioni alla base della crescita e della maturità personale. Il testo esplora essenzialmente le teorie del Sé come centro di avvio, di organizzazione e di integrazione delle motivazioni, e la rilevanza sempre maggiore che questi studi, rispetto alla teoria delle pulsioni, 7
attribuiscono ai bisogni di legame, di reciprocità ed interscambio relazionale. A questo tema è dedicato il secondo capitolo. La terza tematica affronta il forte legame tra desiderio e immaginario, fenomeno complesso in cui intervengono numerose attività psicologiche articolate tra loro. Il testo sottolinea la dimensione costruttiva, anticipatoria e progettuale dell’immaginario quale fondamento della realtà interiore. Una qualche attività immaginativa è collegata frequentemente con ogni forma di attività sessuale; per alcune persone la fantasia rappresenta il vero motore dell’attività sessuale, il principale alleato dell’erotismo. Il testo approfondisce anche le relazioni tra fantasia e autoerotismo ed il loro modificarsi nelle diverse fasi evolutive come è stato dimostrato da molte ricerche sul tema. Il terzo capitolo fornisce i dati relativi agli studi più recenti ed una lettura di questo fenomeno. Il quarto e il quinto capitolo approfondiscono il tema della sessualità nel ciclo di vita e la funzione dell’autoerotismo. Il testo propone una lettura del concetto di sessualità nel suo significato più ampio, in relazione con diversi campi di conoscenze che comprendono i meccanismi biologici, le regole e norme religiose, pedagogiche, mediche, le varianti individuali o sociali del comportamento, il modo in cui gli individui sono portati ad attribuire senso e valore al loro comportamento, ai loro doveri, ai loro piaceri, ai loro sentimenti e sensazioni, ai loro sogni. Alla base si esprime un concetto di sessualità non esclusivamente come dato invariabile e biologico ma anche come forza culturale, relazionale e sociale in cui si esprime l’individuo nella sua complessità. Nell’approfondire il concetto di sessualità, nei suoi presupposti genetici, socio-ambientali ed evolutivi, viene analizzato a fondo il significato e la funzione dell’autoerotismo, rimasto storicamente e culturalmente all’interno di spiegazioni spesso ambivalenti, fortemente condizionate da pregiudizi etico-morali, medico-scientifici o da entrambi. Il testo ripercorre la storia delle idee sull’autoerotismo a partire dalle tesi che ne hanno enfatizzato gli effetti dannosi; solo dalla fine degli anni ’70 molti studi hanno sottolineato la correlazione esistente tra l’autoerotismo e molti aspetti dello sviluppo umano e dell’umana esperienza: lo sviluppo della personalità, la formazione delle strutture psichiche, le relazioni oggettuali, ma anche i disagi emozionali e il loro relativo trattamento. 8
È ormai noto che esiste una relazione importante tra una sana conoscenza del proprio corpo nell’adolescenza e lo sviluppo della sessualità in età matura, non solo per quanto riguarda gli aspetti puramente sensoriali, ma anche quelli emotivi, cognitivi, relazionali. Il sesto capitolo affronta il passaggio di progressivo avvicinamento dall’autoerotismo, e dalle fantasie erotiche che lo accompagnano, al rapporto eterosessuale. L’intimità e la confidenza con il proprio corpo sono, infatti, fattori essenziali per migliorare la relazione in un contesto sessuale interpersonale e per aumentare la soddisfazione sessuale. Gli studi più recenti sottolineano che l’esperienza autoerotica deve essere considerata un percorso dello sviluppo; essa rappresenta una tappa nella progressiva scoperta e appropriazione del proprio corpo in vista del rapporto reale con l’altro sesso e un momento significativo nella creazione di una propria intimità. Per questi motivi il testo affronta come questa tematica viene trattata in ambito terapeutico o di counseling, ambiti nei quali le problematiche dell’autoerotismo sono considerate come un’opportunità, per l’individuo, di conoscere il proprio corpo e le sue risposte sessuali, per affrontare con consapevolezza la vita intima e il rapporto con l’altro. L’autoerotismo rappresenta l’alba della sessualità verso lo sviluppo relazionale; dopo aver conosciuto il nostro corpo, possiamo essere veramente presenti per un legame emozionale e sessuale maturo con un’altra persona, in una continua ricerca di nuovi e migliori equilibri.
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Capitolo I
Il desiderio
La storia del desiderio Approfondire il desiderio, attraversare la sua storia, i suoi percorsi, gli itinerari antichi, significa riconoscere il suo significato nel tempo e scoprire, nelle sue diverse espressioni, quale mito il desiderio rappresenta nella nostra epoca. Possiamo trovare il desiderio al centro dell’economia basata sul consumo che domina la nostra società e i suoi costumi come prodotto dell’economia globale. Il desiderio è oggetto di una costante ricerca di risposte preconfezionate, di gigantesche industrie specializzate come quelle della pubblicità e del cinema. È al centro di una cultura consumistica che predilige prodotti pronti per l’uso; promette e attira verso soluzioni rapide e ricette infallibili. Tutto ciò che desideriamo, il modo in cui lo desideriamo, le strategie che utilizziamo per raggiungerlo, per sedurlo e farlo nostro, non possono prescindere dalle determinanti sociali, culturali, estetiche e linguistiche del luogo, del tempo cui apparteniamo e di cui siamo figli (Carotenuto, 1994). È dunque anche l’oggetto nascosto e illusorio della società virtuale, dominata dai sistemi tecnici basati sull’illusione della presenza, della relazione senza sguardo, del contatto immaginario senza il calore dell’essere con l’altro. Anche il corpo, soprattutto sul finire del secolo, si trasforma in un corpo virtuale; di ciò che i fenomenologi chiamano il corpo vissuto si sono perse le tracce; rimane, dolente, qualcosa come una irrimediabile nostalgia per il corpo che non c’è, il corpo immagine, cartaceo, televisivo (Carotenuto, 1999). Con l’affermarsi dell’informatica anche il Sé assume l’aspetto della virtualità. Il Sé virtuale, “protetto” dal monitor, diventa il luogo di 11
materializzazione dell’inespresso, di ciò che si vorrebbe essere e di come si vorrebbe essere considerati (Giusti, 2002). Anche in senso psicologico noi abitiamo in un mondo virtuale. Non solo i desideri, ma anche la loro realizzazione si svolge, spesso, nel campo del fantastico, dell’onirico, dell’immateriale (Volli, 2002). Tradotto in immagini, personificato in personaggi, il desiderio trova nella fiaba un luogo d’espressione purissimo. E rende possibile l’abbraccio, talora sicuro, talora rischioso, con paure comprensibilmente umane. Se nel tempo reale l’uomo opta per una alternativa e perde le altre, nell’ambiguo tempo del desiderio e della fiaba non è così. Questa disponibilità che lascia la porta socchiusa è la strana materia di cui sono fatti fiabe e desideri (Morrone Mozzi, 2002). Ci sono altre prospettive per misurarsi con il tema del desiderio che ci portano a riconoscerne la pertinenza antropologica, culturale, individuale e intima, la capacità di dialogare con la persona umana nella sua interezza. Lawrence (1936), spinto dall’esigenza di rimettere in discussione il mondo chiuso delle realtà già pronte e definite, ha fatto della forza del desiderio e della necessità di un continuo rinnovamento personale il motivo dominante della sua ricerca: «Il desiderio, in sé, è una cosa pura come la luce del sole, o il fuoco, o la pioggia. È il desiderio che infonde per me tutto il mondo di vita e mi tiene in rapporto con la corrente che fluisce. È la corrente del mio desiderio che mi fa muovere, come si muovono gli uccelli e gli animali attraverso la luce del sole e la notte». Movimenti del desiderio sono la ricerca dell’identità, la conoscenza del corpo e l’ambiguità dei suoi desideri, l’espressione simbolica nel sogno, nell’arte, nella vita, nella sessualità, nel rapporto stesso con la realtà (Lorenzetti, Baldissera, 2000) e nella ricerca dei propri percorsi. Proprio per le sue potenzialità di intercettare il “linguaggio caldo” dell’amore e il “linguaggio freddo” del dovere, il desiderio ci accompagna in ogni momento della vita nell’incontro con noi stessi, con gli altri, con l’Altro (Ancona, Vigna, Sequeri, 1999). Forse parlare di “desiderio” è eccessivo quando ci riferiamo al suo significato nella società dei consumi, in cui è spesso incalzato dalla velocità del suo uso e della sua obsolescenza. Ci vuole tempo, «un tempo insostenibilmente lungo per gli standard di una cultura che aborre la procrastinazione e postula invece il soddisfacimento immediato, per seminare, coltivare e nutrire il deside12
rio. Il desiderio ha bisogno di tempo per germogliare, crescere e maturare» (Baumann, 2004). La storia del desiderio e della sua natura può essere, quindi, ricostruita a partire da spiegazioni etologiche, antropologiche e filogenetiche, per arrivare a spiegazioni psicologiche e psicoanalitiche. In ogni caso l’origine del desiderio va cercata nel passato (Pasini, 1997). Schopenhauer (1989) sostiene che il desiderio consiste in una sorta di storia cifrata, personale, le cui prime lettere sono state tracciate dal desiderio di chi ci ha voluto e poi elaborate attraverso il proprio linguaggio che dà un senso e si sviluppa durante la prima infanzia; questi misteriosi segni di ogni storia costituiscono il corpo o il corpus dell’inconscio. Nei suoi studi sull’inconscio collettivo Jung (1939) scrive: «perché negare alla coscienza una storia che abbraccia cinquemila anni?». Di traccia in traccia, di segno in segno, di parola in parola, si scrive, nel tempo, la storia di ciascuno di noi. La sua espressione, il suo modo di guardare gli oggetti, di rappresentarli nell’immaginario, segue le leggi del discorso. Già Freud aveva affermato che i metodi ermeneutici del desiderio erano la metafora e la metonimia: avendo rinunciato alla madre, quale primo oggetto di desiderio, l’individuo è condannato a cercarlo negli oggetti di sostituzione (questa è la metonimia). Il desiderio che cerca di esprimersi, e al quale la rimozione impedisce una espressione diretta, trova modo di manifestarsi in forme indirette, traslate, ad esempio nel sintomo (questa è la metafora). Sono queste le figure proprie del linguaggio e tipiche dei sogni. Lacan (1973) afferma che l’inconscio è strutturato come un linguaggio e che il desiderio segue le regole di una sintassi, di una grammatica caratteristica dei meccanismi inconsci. Secondo lo stesso processo del linguaggio, Freud (1899) aveva dimostrato il carattere fondamentale nel lavoro onirico dei processi di condensazione, spostamento e sostituzione. Come un discorso che si esprime attraverso i sogni, i lapsus, i sintomi, il desiderio traccia il proprio cammino (Ancona, 1999). Nel sogno, infatti, il vero contenuto del desiderio non può comparire come tale, bensì deformato. Freud ha sottolineato come i sogni risultino essere un compromesso costruito sul desiderio, così come lo sono i sintomi delle nevrosi, e come queste essi contengono sia le pulsioni, sia, contemporaneamente, le deformazioni dovute alla censura rimasta in parte attiva. La successiva elaborazione teorica di Freud permise di allargare ulteriormente l’ambito del desiderio nel sogno, pas13
sando quindi alla possibilità di decifrare il desiderio attraverso la ricostruzione anziché l’interpretazione (Freud,1937). Il desiderio è, tuttavia, una delle forme della coscienza difficili da decifrare. È difficile circoscriverlo anche se desideriamo sempre. Fa cioè parte della natura originaria dell’essere umano. Una coscienza umana è essenzialmente desiderio (Ancona, Vigna, Sequeri, 1999). Non possiamo, tuttavia, pensare il desiderio come un oggetto da possedere o assimilare come il cibo, perché, in realtà, sottende sempre una storia; è volere che nei nostri percorsi accadano certe cose, in un certo ordine, secondo una certa logica. È la vicenda che si desidera davvero: la vicenda di un matrimonio, di una seduzione, di un pranzo, di un arricchimento, di un successo, di una guarigione. Alcune teorie negano, infatti, la necessità dell’oggetto. Con la teoria della pulsione Freud (1905) nega la inevitabilità della relazione del desiderio col suo oggetto. Questa è la ragione per cui Freud (1900) ha potuto sostenere che i sogni devono essere considerati come “realizzazioni allucinatorie di desideri”: il sogno deforma e maschera in molti modi complessi, secondo regole che servono da filtri per la coscienza. Nel momento in cui pensiamo al desiderio, questo si esprime attraverso qualcosa che è già una narrazione. E con il narrare il percorso del desiderio diventa il percorso della storia e della vita dell’uomo e della sua complessità. È, infatti, un concetto con una molteplicità di significati, ed il suo enigma è ricco di tensioni e di contraddizioni. Una di queste fondamentali tensioni è quella tra corpo e psiche. In primo luogo, la natura fisica del desiderio, il suo stare nel corpo, ma anche il suo essere profondamente plasmata dalla sua esistenza sociale. In secondo luogo, la natura (culturale) forse meno prevedibile, che consiste nei numerosi legami che il desiderio intrattiene con altre forme espressive, altrettanto problematiche quanto suggestive: quella di immaginario, di testo, di narrazione (Dumoulié, 1999). È proprio la continuità simbolica del desiderio a fondare l’identità psichica. Noi ci riconosciamo per ciò che desideriamo, per il senso che attribuiamo alle nostre azioni. Il desiderio, infatti, non riguarda mai le cose come sono, ma solo come non sono, lasciando entrare l’irrealtà nel mondo del possibile (Volli, 2002). Leibniz (1714) diceva che solo pensando al desiderio, alle motivazioni, alle ragioni per agire, noi siamo in grado di spiegarci la differenza fra le persone, di averne un’esperienza concreta. In linea puramente teorica, la sostanza del corpo umano, la materia di cui è fatto, le combinazioni delle sue sinapsi neuronali, l’intrico delle cellule del suo cor14
po, danno una spiegazione della sua individualità. Sul piano dell’esperienza e delle relazioni con l’altro, sono i gusti, i progetti di vita, le suscettibilità e le speranze individuali, le storie personali, a darci ragione del fatto di avere a che fare sempre con individui, essenzialmente differenti fra loro. Come se, alla fine, il desiderio fosse continua scrittura di trame e di figure, e quindi continuo movimento dell’immaginazione e della realtà, dell’inverosimile e del verosimile dell’esistenza nel suo farsi incessante orizzonte di desiderio, di storia (Lorenzetti, 2000). Nella teoria narrativa (Greimas, 1983) la correlazione fra soggetto e oggetto è mediata da un “valore” che li definisce entrambi: questo “valore” non è altro che un atto di desiderio, l’aspirazione di un soggetto a “entrare in congiunzione” con il suo oggetto. Tuttavia il desiderio non è circoscrivibile nell’attività conoscitiva della mente: quando c’è davvero, è un’esperienza, investe tutto il corpo, ne modifica la condizione biologica, ha delle conseguenze nel tempo, prosegue secondo una sua storia che s’intreccia con l’esistenza della persona. In questo percorso, l’uomo può essere in grado di scegliere ed inventare la storia originale di sé, e percorrere quel processo di coscientizzazione della propria autenticità che conduce ad una nuova ridefinizione di sé, a un’altra scrittura di sé, a una ricerca personale e personalizzata della propria storia esistenziale (Lorenzetti, 2000). Tale stile simbolico contiene il desiderio della messa in forma personale della propria diversità, con l’eros che lo accompagna, alla ricerca dell’espressione autentica di sé. Divenire la persona che più profondamente aspiriamo ad essere (Giusti, Perfetti. 2004). Questa messa in forma personale non può realizzarsi se non nel superamento del dualismo corpo-mente, della distinzione cartesiana tra res extensa e res cogitans, tra soma e psiche. Husserl (1931), nel tentativo di superare tale dualismo, introduce la nozione di “proprio corpo vivente”. Binswanger (1955) sostiene che le dottrine psicofisiche cercano di gettare un ponte tra due ambiti che non corrispondono ad alcuna realtà umana e in cui né l’uno né l’altro termine riesce a fare luce rispettivamente sul primo o sul secondo, finendo anzi per occultarli entrambi. Se non esiste un pensiero al di fuori della parola che lo esprime, perché solo abitando il mondo della parola il pensiero può risvegliarsi e farsi parola, allo stesso modo non esiste un essere umano al di fuori del suo corpo, perché il suo corpo è lui stesso nel realizzarsi della sua esistenza (Galimberti, 2003). 15
Giusti (2002) individua nell’integrazione corpo-mente e nel ciclo del “contatto” le potenzialità autoregolative dell’individuo per la realizzazione dei propri bisogni e desideri, per l’attuazione del proprio percorso di cambiamento e di esperienza di sé nel mondo. Ha dunque valore aver cura del proprio corpo; ascoltarlo, conoscerlo, apprezzarlo per lo straordinario lavoro che compie ogni giorno e ogni notte di tutta la nostra esistenza; assecondarne i ritmi e le esigenze, in quanto strumento fondamentale di esperienza e conoscenza: noi conosciamo il mondo attraverso i nostri sensi. Perché il corpo è fonte di piacere, perché attraverso il corpo comunichiamo e sviluppiamo le nostre relazioni con il mondo (Giusti, Rosa, 2002). Uno degli aspetti più evidenti nell’uomo è, infatti, che esso costituisce un organismo unificato. Questo è stato completamente ignorato dalle scuole tradizionali di psichiatria e di psicoterapia che, a prescindere dal loro approccio, operano in termini dell’antica scissione mente-corpo (Perls, 1977). L’organismo funziona sempre come una totalità ed è un complesso coordinato di parti, di frammenti che entrano a far parte di esso e che tendono all’omeostasi (Perls, Hefferline, Goodman, 1971), all’equilibrio e allo stesso tempo all’evoluzione (Giusti, Rosa, 2002).
Definizioni e concetti Desiderare, per l’etimologia, è de-siderare, strano verbo che parla di un qualche rapporto con le stelle. L’ipotesi più ragionevole su questa singolare etimologia è che de-siderando si smetta di guardare le stelle, dunque si decida di non affidarsi più al loro corso sicuro e sempre uguale, di non regolare la vita sulla base di un destino verticale, che cala dall’alto. Si passerebbe così a conservare uno sguardo teso nella dimensione orizzontale del mondo, a sfidare quello che dovrebbe essere il futuro stabilito per cercarne un altro, passando dal sapere al fare (Volli, 2002). Certo, molte tradizioni religiose parlano di “desiderio verticale”, che prelude ad una beatitudine oltremondana, la quale non richiede soddisfazione terrestre. Desiderio in un certo senso metaforico, che non suppone di poter attingere alla propria fonte ma solo di continuare a desiderarla. La conquista di una posizione impossibile ma ideale appare oggi semplicemente poco interessante. Per questo il desiderio – l’abbando16
no delle stelle in favore dello sguardo alle cose del mondo – è oggi l’atteggiamento universale e la motivazione più accettata. Per Vigna (1999) il desiderio è una struttura permanente della soggettività; nel rapporto tra desiderio e oggetto sostiene che: a) la relazione tra desiderio e oggetto desiderato come un altro positivo è, a partire dal desiderio, necessaria (è una struttura teleologica finalistica); b) il desiderio non è necessitato da un suo oggetto determinato e in questo senso negativo, può dirsi libero; sempre in relazione con la ragione; quindi il desiderio umano è un desiderio razionale. Dire che il desiderio umano è razionale è come dire che ha le stesse caratteristiche della ragione o del logos, ossia che desidera ogni cosa e tutte le cose e che quindi è un centro di unità dell’intera nostra esperienza. Eppure il desiderio non è propriamente lo stesso che ragione o logos; la ragione di per sé non muove l’esistenza, il desiderio invece la muove; c) il desiderio diventa necessitato dal proprio oggetto se, e solo se, è desiderio che termina nel tutto (è un paradosso perché è impossibile non desiderare altro). Leibniz definisce così il desiderio: «l’inquietudine che uno prova in se stesso per l’assenza di una cosa che se fosse presente gli darebbe piacere, è ciò che si chiama desiderio». La stessa definizione è ripresa dagli Enciclopedisti: «il desiderio è l’inquietudine che si sente per l’assenza di ciò che farebbe piacere» (Encyclopédie, voce “Desir”). Analogamente il piacere, come spiega Kant (1790), non consiste nella semplice corrispondenza dello stato del mondo al desiderio, ma piuttosto nella sua rappresentazione. Anche Platone argomenta, nel Filebo, che il desiderio non può mai essere un fenomeno puramente fisico e corporeo, perché esso implica sempre una rappresentazione, di solito un atto di memoria. Il termine latino desiderium, nel senso etimologico di lutto e rimpianto, riassume la concezione freudiana del desiderio: qualcosa che nasce dall’esperienza di una perdita e consiste nello sforzo di rivivere la soddisfazione provata un tempo. Una delle definizioni più precise (oltre che in Lutto e melanconia) è data nell’Interpretazione dei sogni, ricordando Platone: «… l’immagine mnestica (di una certa percezione) rimane associata […] alla traccia mnestica dell’eccitamento dovuto al bisogno. Appe17
na questo bisogno ricompare una seconda volta si avrà, grazie al collegamento stabilito, un moto psichico che tende a reinvestire l’immagine mnestica corrispondente a quella percezione e riprovocare la percezione stessa, a ricostruire la situazione del primo soddisfacimento. È un moto di questo tipo che chiamiamo desiderio; la ricomparsa della percezione è l’appagamento del desiderio…». Freud non identifica il bisogno con il desiderio. Il desidero trova appoggio nel soddisfacimento primario di un bisogno ma si distingue da esso. Il bisogno è in relazione alla mancanza di un oggetto preciso, mentre il desiderio non è in relazione con un oggetto reale ma con le sue tracce mnestiche. I sintomi sono tra le realizzazioni più perfette del desiderio, ma anche non tra le più riuscite. Essi realizzano un destino regressivo del desiderio e adempiono, come nel sogno, una trasgressione della censura che si paga con una dose di angoscia o con l’emergenza a livello corporeo di una sofferenza proprio là dove avrebbe dovuto manifestarsi il piacere. In definitiva l’appagamento di un desiderio non rappresenta il possesso di un oggetto reale bensì la riproduzione allucinatoria di una percezione la cui immagine mnestica viene reinvestita. Con il desiderio siamo davvero nel mondo come rappresentazione: non abbiamo un rapporto diretto con il reale o con le pulsioni, ma sempre con rappresentazioni affettive. Il desiderio si dispiega all’interno della propria inconscia sorgente originaria: tra impronte primordiali sempre indecifrabili ma che lasciano comunque un segno e proiezioni fantasmatiche che costituiscono la messa in scena del suo appagamento. Il desiderio, nel suo cammino, trasforma le pulsioni in destino. Il dizionario Galimberti diversifica tra bisogno naturale e desiderio: – il bisogno come mancanza di, come ricerca di un soddisfacimento attraverso un oggetto reale; – il desiderio come volontà che si fa oggetto di sé producendosi nel corpo, come una pulsione produttrice di piacere. È una tematica centrale. Il bisogno sarebbe il lato oggettivo dell’incompletezza del corpo, designerebbe ciò di cui la carne manca davvero: il cibo per es. o il sonno. Il desiderio al contrario comporterebbe in sé un sospetto di superfluo, di vizioso, di lussuoso (Volli). Freud (1909) individua la nascita del desiderio (che è diversa dal semplice bisogno di una scarica pulsionale) con la progressiva capacità dell’individuo di tollerare la frustrazione, l’assenza dell’oggetto d’a18
more, la sua mancanza: diventiamo cioè capaci di amare solo nel momento in cui sacrifichiamo le richieste onnipotenti di soddisfazione del bisogno. Plotino (Enneadi) individua nel desiderio qualcosa di più alto, nobile proprio per il fatto di sfuggire alla necessità del bisogno, di essere libero. Levinas parla del desiderio dell’altro: «desiderio dell’altro che viene da un essere già pieno e, in questo senso, indipendente, che non desidera per sé. Bisogno di chi non ha più bisogni nasce in un essere cui non manca niente, o, più esattamente nasce al di là di ciò che può mancargli o soddisfarlo». Tale è un pregio del desiderio, di ogni desiderio: portare il soggetto fuori di sé, sottrarlo ad una logica economica di utilità, spingerlo incontro al mondo. Vi sono desideri immateriali, in teoria superflui, come quello dell’amore di una certa persona, che vanno al di là del bisogno proprio perché sono in grado di mettere a repentaglio l’esistenza stessa di chi li prova, sconfinando in una zona del tutto materiale e concreta della realtà, ma per sconvolgerla. Di fatto, però, nella distinzione tradizionale fra bisogno e desiderio vi è qualcosa di normativo e di moralistico. La presunta necessità assolve il bisogno da ogni dimensione etica. Il desiderio invece viene pensato come supplementare, sempre perciò eversivo e potenzialmente immorale. Corporeo talvolta, e dunque non solo spirituale, ma allo stesso tempo eccessivo, non fisiologico proprio nel suo distacco dal semplice bisogno. Legato alla percezione e perciò potenzialmente ingannevole. Se tale etica è diffusa in molte tradizioni di pensiero e culto, la metafisica del desiderio è parmenidea. Ogni desiderio evoca non un non essere ma una realtà in divenire (Giusti, 2002). Si desidera non solo qualcosa che non c’è, ma più rigorosamente si potrebbe dire: qualcosa che non è, che non ha realtà. Questo richiede di volere e credere più al divenire che all’essere; inoltre impone di pensare che il divenire possa essere prodotto dagli uomini, non semplicemente affidato al destino. Seguire i propri desideri è far da sé, al di là dell’oggettivo disegno dei bisogni. In ogni caso, anche i bisogni sono avvertiti come desideri, almeno quelli che sono percepiti come tali; molti bisogni non sono nemmeno avvertiti (ad es. il bisogno fisico di alcune vitamine). Il linguaggio ci mostra che il bisogno è una nozione più problematica del desiderio, meno universale e più complessa. Nell’italiano trecentesco, un termi19
ne latino medioevale bisonium, che viene dal vocabolo germanico sunnjon, col significato di “occuparsi, prendersi cura” (da cui il francese soin, cura). Nel termine italiano vi è la sovrapposizione di due concetti che in genere sono separati: la necessità oggettiva, che determina l’aspetto duraturo del bisogno, e la mancanza soggettiva, la condizione di privazione. Così, con sfumature diverse, nelle parole greche anankè e chreia, nel latino necessitas ed egestas, nell’inglese need e lack. Insomma nell’uso linguistico italiano di bisogno c’è un’ambiguità di fondo. In entrambi i casi, però, quel che conta è il carattere imperativo del bisogno e il suo aspetto di costrizione, almeno in parte sgradevole. Anche se non è facile isolare i bisogni dagli altri desideri, la nozione di desiderio va comunque tenuta distinta da quella di bisogno. In realtà è improprio perfino identificare il desiderio con la mancanza che lo costituirebbe. È semmai la percezione di una mancanza a motivarlo, ed essa può benissimo non corrispondere alla “realtà fisica, chimica o biologica”. La mancanza inoltre non è la semplice assenza, come si vede dal fatto che moltissime cose assenti non ci mancano: il mondo intero, salvo piccolissime eccezioni, ci è assente senza mancarci. Manca solo ciò che si desidererebbe ci fosse. L’uomo, come dice Heidegger, è quell’essere che giunge a pensare l’essere come realtà distinta da sé. Questa figura della contrapposizione di valore fra desiderio e bisogno – in cui il secondo sarebbe autentico perché materiale e il primo superfluo perché culturale – si può anche invertire. Per Ciarameli (2000) proprio il fatto che il vuoto del desiderio sia incolmabile, in quanto nato da sé, senza cause e senza necessità, ne garantirebbe la produttività, la creatività, l’infinita apertura al futuro. Il desiderio, piuttosto che il bisogno, è un attributo essenziale dell’esistenza. Irrimediabili sono entrambi i suoi aspetti, volti in direzione di un altrove che forse non c’è o che si può riconoscere solo in rapporto alla sua assenza nell’umano. Essendo necessario e radicato su una mancanza oggettiva, il bisogno sembra in linea di principio rimediabile. Perciò esso chiede di essere soddisfatto. Bisogna riconoscergliene il diritto. Negarne il compimento è un atto di ingiustizia. Il bisogno ha fretta e urgenza, in esso ne va della vita biologica. Il desiderio, al contrario, non istituisce diritti, neppure morali. Rinviarlo, allungarne la strada, complicarlo, è entrare nella sua fisiologia. Diversi sono soprattutto i tempi del desiderio e quelli del bisogno: que20
sti ultimi pressanti, disposti a ogni scorciatoia; esitanti i primi, capaci di arricchirsi proprio perché evitano il corto circuito della soddisfazione immediata. In sintesi, secondo Vigna (1999), la distinzione tra desiderio e bisogno consiste nel fatto che il bisogno è legato alla sfera dell’istintualità, ad una mancanza (ho bisogno di bere); mentre il desiderio può rimanere vago, il bisogno ha sempre un oggetto. Distinzione tra desiderio e amore. Il desiderio implica sempre l’assenza del desiderato mentre l’amore può non implicarla. Distinzione tra desiderio e volontà. Si può desiderare qualcosa anche senza volerlo mentre non avviene il contrario; si può volere solo ciò che si è desiderato. Ma la volontà vanta dell’altro rispetto al desiderio, cioè la sua riflessività che al desiderio è ignota; la volontà può volere di volere e di non volere, contiene la possibilità trascendentale dell’esercizio attivo del negare. Il desiderio non può dire no all’oggetto, ne è quasi calamitato. Il desiderio come volere può esercitare invece tanto la positività che la negatività, senza limite alcuno (a volte un essere umano è sedotto da questo potere e vive la propria vita all’insegna del “preferirei di no”; un’esistenza terribile condotta come una sorta di congedo dalla vita). Vi sono inoltre diverse qualità del desiderio: maggiore o minore urgenza, sofisticazione, selettività, forza (Volli, 2002). Diversi sono anche i livelli di definizione (in senso tecnologico): la definizione è bassa quando ho sete e desidero una bevanda qualunque; questo desiderio non individua il proprio oggetto se non per alcune sue proprietà generali. Altri desideri sono ad alta definizione, ad es. l’innamoramento non riguarda una persona qualsiasi ma quella persona; la nostalgia fa sentire la mancanza della propria casa, non di una qualunque. Noi consideriamo il desiderio ad alta definizione come più ricercato, probabilmente perché è più lontano dal bisogno e più libero, ma anche più esigente. L’alta definizione implica un dettaglio più fine dei temi e delle figure, e soprattutto un sistema di valori più ricco.
Chi e come se ne è occupato in filosofia Storicamente la filosofia ha posto il desiderio al centro della sua speculazione; la stessa storia della filosofia dimostra che la tematica del desiderio è stata il suo problema per eccellenza. 21
La tradizione filosofica che risale ad Aristotele (poi a Hobbes, Spinoza, Nietzsche) definisce il desiderio come un appetito, una facoltà positiva della vita (Simposio di Platone). La psicoanalisi, in base al primo significato della voce latina desiderium, fa del desiderio un rimpianto rivolto verso il passato. La filosofia e la psicoanalisi condividono un interesse comune per i famosi oggetti del desiderio; nel Simposio di Platone sono gli agalmata, considerati in psicoanalisi oggetti fantasmatici, causa del desiderio (ad es. il seno materno). Il desiderio è stato esplorato inizialmente dai greci; non c’è altra tradizione filosofica che si sia occupata in maniera altrettanto estesa e appassionata al tema. Michel Foucault (1976, 1988) ha fatto partire la sua trilogia Storia della sessualità dalla ricostruzione del pensiero filosofico greco sul desiderio. È Platone il primo a porsi il problema del desiderio nella filosofia occidentale; il tema è disperso per tutta l’opera platonica, dal Fedone alla Repubblica, e vi assume due aspetti diversi. Da un lato il desiderio è eccesso, sregolatezza, prevalenza del corpo che proprio con i suoi desideri impedisce la concentrazione del pensiero e l’accesso alla sapienza. Dall’altro anche la sapienza è «ciò che desideriamo e di cui ci diciamo innamorati». Fin dall’inizio della riflessione filosofica, il legame tra desiderio e corpo è stabilito come essenziale. «L’amore è mancanza, dunque desiderio» fa dire Platone nel discorso di Diotima nel Simposio. L’amore è dunque frutto di una ferita. La nostra parzialità richiede la riflessione, il rispecchiamento nell’altro. L’anima non si scorge se non nello specchio della pupilla dell’altro (Alcibiade). Il desiderio è una caratteristica così umana, generale e insopprimibile, che può essere sfruttata a favore della sapienza come contro di essa. Il desiderio, insomma, è una forza autonoma nell’anima umana, che può essere favorita, combattuta o piegata alla ragione dalla volontà (thymos), come si legge in un celebre brano della Repubblica. Il problema è dunque quello di «temperare il desiderio, ponendolo in accordo con la ragione». Desiderio e ragione sono, secondo Platone, fondamentalmente distinti, derivano da fonti diverse nell’uomo. Il desiderio è del corpo, la ragione dell’anima: un tema che sarà ripreso da Cartesio (Le passioni dell’anima). Non bisogna però pensare che la temperanza platonica sia una sorta di atarassia o di rifiuto del desiderio. Tutta la prima parte del Fedro smentisce questa idea. L’innamoramento, lo scatenamento senza limiti dell’amore e della passione si rivelano al filosofo come manie di 22
origine divina. Disprezzarle è male e non seguirle significa privarsi di una fondamentale capacità di elevazione. Il problema non è privarsene ma è, in definitiva, il controllo. Per Aristotele il desiderio (in De Anima) riguarda sia la parte appetitiva sia la parte razionale o cognitiva come volontà. In Aristotele, a differenza di Platone, il problema non è la mistica dell’amore che salva, ma la spiegazione del movimento (inteso come azione), cioè la motivazione. Perché gli uomini agiscono? Bisogna ammettere che il movimento deriva tanto dalla capacità intellettiva quanto dall’appetito (De Anima). È chiaro che vi sono almeno due principi che, alternativamente, sono all’origine del movimento: il desiderio e la ragione. È tuttavia la ragione che vede il tempo, dice Aristotele, non il desiderio. La ragione è lungimirante, l’appetito immediato. Il conflitto tra più desideri o tra desideri e ragione è lo spazio della scelta e della decisione, non della paralisi. Per Epicuro (Lettera a Meneceo) i desideri si dividono in “naturali” e “vani”. Fra i naturali alcuni solamente sono necessari o alla felicità o alla tranquillità del corpo o alla vita stessa. Se per gli epicurei i desideri vanno moderati e calcolati secondo la loro utilità, per gli stoici vanno semplicemente eliminati in quanto malattie (Diogene Laerzio, in Vita dei filosofi illustri). Secondo Foucault (1976) vi è una discontinuità netta tra la concezione greca del desiderio e quella cristiana che seguirà. La distinzione verte essenzialmente sull’importanza attribuita agli oggetti del desiderio dalla tradizione biblica, che applica loro una diffidenza etica (non desiderare la roba d’altri, ecc.). Nella valutazione greca del desiderio c’è una misura ed una saggezza, anche se da Socrate in poi gradualmente prevale la diffidenza per ogni forma di passione che supera i confini della necessità fisica, del semplice bisogno. Specifico del desiderio, nella prospettiva di Prini (1976), è che la sua intenzionalità paradigmatica non sta nell’oggetto, come per il bisogno, ma nel corpo dell’altro come soggetto di desideri e viceversa; una reciprocità che si ritroverà in Lacan e che sola costituisce la struttura della sessualità pienamente realizzata. Lacan introduce, in modo più dialettico e più deciso di Freud, nel discorso sul desiderio il concetto di rapporto, mettendo in evidenza nell’elaborazione psicoanalitica la relazione inter-individuale. Schiller (1795) aveva così distinto i momenti essenziali della dialettica del desiderio:
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a) quello narcisistico puramente ripetitivo, come è l’istinto del sesso; b) quello della reciprocità, dove la passione si eleva nell’amore; c) quello trasfigurativo, dove una forza del tutto nuova si mette in azione in un gioco o “istinto estetico” e dove l’umanità compare nel suo oggetto. Kant nella sua fondamentale definizione del desiderio (1780) sostiene che è «una rappresentazione, cioè qualcosa capace di affacciarsi (proliferare e dilagare) nel campo della soggettività, ma allo stesso tempo una causa, che agisce materialmente, che provoca come effetti i suoi contenuti». Il desiderio sarebbe dunque la paradossale inversione del circuito della percezione, dal soggetto al mondo, invece che dal mondo al soggetto. Certo, anche le rappresentazioni hanno delle cause, ma oltre alla catena causale che le determina vi è un legame semantico che le rende più o meno esatte. Kant torna spesso a parlare di desiderio con una definizione singolarmente attiva che lo lega intimamente al pensiero della “vita” stessa (prefazione alla Critica della ragion pratica, 1788). Secondo Kant, la vita consiste nella capacità di agire secondo desiderio. Vi è quindi un passaggio qualitativo importante fra la segnalazione biologica di una mancanza e la sua determinazione come desiderio, passaggio che mette in evidenza il significato delle aspirazioni e gusti individuali e sociali, di volta in volta determinati a livello culturale e sociale o psichico e soggettivo o biologico. Tale caratteristica costituisce il gioco del desiderio: mai completamente corporeo, come sapeva Platone, perché il desiderio trascende e ridetermina il bisogno; ma neppure completamente culturale, perché è nel corpo, dunque a un livello del tutto individuale e da un certo punto di vista passivo e inevitabile: tu senti i tuoi desideri come esigenze che sorgono dentro di te, assoluti per te come un dato corporeo, dunque potenzialmente ribelli o incuranti di qualunque pressione sociale. Tutte le società si pongono il problema di disciplinare dall’esterno i desideri; molte filosofie e religioni provano a insegnare a controllarli o ad annullarli dall’interno. Questo ha comportato, per es. nella tradizione pedagogica, un sapere della repressione del desiderio che si è esercitato per secoli sui giovani. Schopenhauer (1916) vede nella forza dell’eros il mezzo della volontà che esige la continuazione della specie, l’anello di congiunzione tra gli aspetti tragici e fatali dell’eros romantico e segna l’esordio del24
la psicoanalisi che, comunque, afferma la funzione complessa dell’eros (Lorenzetti, Baldissera, 2000). Schopenhauer sostiene che ogni innamoramento è radicato nell’istinto sessuale. Istinto così potente che si serve dell’uomo per i suoi fini: è il genio della specie. E quello che pensiamo essere il nostro desiderio è invece la manifestazione della Cosa in sé, teso alla perpetuazione della Volontà, attraverso la procreazione. Nel desiderio l’uomo è la vittima (Dumoulié, 1999). Da questo finalismo metafisico derivano le leggi del desiderio, la sua psicologia, sostiene Schopenhauer: «generare un ben determinato figlio è il fine ultimo, anche se inconscio per gli attori dell’intera storia d’amore». E di metafisica si tratta, poiché il fine del desiderio è il bambino, che non esiste ancora ma è già presente, simile a un’idea platonica. Per Wittgenstein (1922), piacere e desiderio vanno al di là della semplice struttura del mondo, anzi la sfidano con la capacità che gli esseri umani hanno di vedere (di immaginare, di desiderare, di godere) un altro mondo, un mondo che non c’è: in termini moderni, una “menzogna vitale”, ma reale abbastanza per darci da fare e da pensare. Questa capacità di produrre mondi possibili è la sostanza anche della letteratura. Desiderio e piacere sono dunque il punto d’attacco del soggetto alla realtà. E per converso la narrazione è il modo di proiettare i desideri entro uno spazio che ha la pretesa di essere scambiato con la realtà o identificarsi con essa. Desiderare è quindi un’impresa difficile, che esige il coraggio di rischiare ed anche la determinazione a esporsi alla delusione.
Chi e come se ne è occupato in psicoanalisi La psicologia, soprattutto attraverso gli autori sperimentali-accademici, non ha trattato il desiderio in modo significativo; in ambito accademico si è preferito tradurre il concetto del desiderio con quello di “motivazione” o “bisogni” (Ancona, 1999). Possiamo citare alcuni esempi, come nella psicologia sperimentale la tematica desiderativa di Nuttin (1980); nella psicologia clinica la classificazione di Maslow (1973) delle motivazioni; McClelland (1958) con il need for achievement, affiliation e power. Anche i “quasi bisogni” della teoria della personalità di Lewin (1936) si possono considerare vere e proprie ten25
sioni desiderative che muovono il soggetto in un campo sedimentato da barriere, contemporaneamente interne alla mente o esteriori, nella società; Ktuglanski e Webster (1966) hanno identificato il desiderio come un “bisogno di chiusura cognitiva”, intendendolo come una dimensione di differenze individuali stabili. Adler, nei riguardi del sentimento di inferiorità, sostiene che è un vero e proprio desiderio, in quanto motore universale e primario della condotta umana. Questi ultimi autori hanno introdotto la dinamica sociale nella considerazione del desiderio. Questa integrazione indica che fra gli psicologi il desiderio si è progressivamente definito come una variabile pertinente non tanto alla dotazione biologica ma a quella culturale dell’uomo, più precisamente di quel soggetto la cui specifica natura è di diventare cultura. È nella prospettiva psicoanalitica, con l’introduzione del concetto di inconscio e dei processi legati alla sua dinamica, che il desiderio ha ricevuto la più completa elaborazione. Per evitare tanti a priori finalistici (Volontà, Cosa in sé, ecc.), e con spirito positivista, Freud cerca di individuare il punto in cui il desiderio trova la sua energia e la sua spinta, elaborando una teoria per rappresentarsi ciò che sfugge all’osservazione diretta (Dumoulié, 1999). Una tale scienza degli arcani dell’inconscio, che Freud non ha voluto chiamare metafisica, è la “metapsicologia” (termine usato da Freud per indicare la genesi dei processi psichici consci e inconsci). Essa poggia su quelle che Freud chiama “entità mitiche”, le pulsioni, e studia le leggi della loro economia, dinamica e temporalità. Il termine pulsione qualifica un impulso non riducibile ad un istinto animale. La pulsione non ha una finalità specifica né un oggetto proprio, è sempre parziale. Pur avendo un rapporto arcaico con i bisogni (ad es. il cibo), le pulsioni non conoscono alcun oggetto in grado di soddisfarli, quindi il loro tempo è quello della ripetizione e dell’eterno ritorno. Lacan definisce le pulsioni come quantità costanti di energia che circolano nelle zone erogene in perenne godimento, e che trovano una forma di soddisfazione illusoria ma capace di placare il lavorio del corpo: la forma offerta loro dagli oggetti fantasmatici. Questi non potranno mai appagare le pulsioni, prive di oggetto, ma sono in grado di integrarle in uno scenario immaginario e in una storia che costituiscono la trama del desiderio (Dumoulié, 1999). Ma qual è il destino del desiderio? Alla base sta il fenomeno della 26
rimozione; la sua dinamica produce l’inconscio, che è il luogo del desiderio. Un luogo che ha potuto costituirsi grazie ad un processo di separazione legato alla rimozione (originaria e secondaria). Il principio di base della rimozione (originario) è che una rappresentazione può venire rimossa solo se subisce un’attrazione da parte di contenuti già inconsci, dunque già rimossi (bisogna supporre un meccanismo che rimane misterioso). Questi elementi primordiali rimossi (forse legati ad una troppo intensa carica di eccitamento), queste rappresentazioni inconsce legate a moti pulsionali, costituiscono, secondo Freud, la prima “inscrizione” nell’inconscio. Leclaire sostiene che l’analisi potrebbe risalire fino a quel testo originario costituito di lettere, tracce di sensazioni, elementi di pura singolarità che concorrono a comporre la frase fondamentale, di per sé insensata, che è destinata a fare da base a tutti i temi dell’inconscio e del desiderio del soggetto. «Il desiderio è questa forza irreprimibile che sottende due (o meglio, più) elementi di pura singolarità, e che, – per quanto possiamo vedere – sembra fondamentalmente opporsi all’emergere di una significazione, di un senso». La rimozione secondaria è un processo mediante il quale il soggetto respinge nell’inconscio rappresentazioni legate a una pulsione (realtà metapsicologica che non appare mai direttamente nell’inconscio, ma solo attraverso i suoi rappresentanti, le sue tracce). La rimozione deriva da un conflitto tra una manifestazione pulsionale che dovrebbe procurare piacere e una difesa contraria rappresentante di esigenze per le quali quella spinta costituisce un pericolo (perché questo avvenga deve esistere un primo nucleo di cristallizzazione che attira le rappresentazioni rimosse e spiega il carattere inconscio di tale processo). Al conflitto primario corrisponde una tensione: la dinamica del controinvestimento, pressione costante che mantiene il rimosso nell’inconscio, e contro la quale lotta, tuttavia, il desiderio inconscio, che tenta di rimanifestarsi alla coscienza o nel corpo e di effettuare un ritorno del rimosso. Tale conflitto e tale dinamica contraddittoria spiegano perché il desiderio si esprime attraverso i percorsi devianti dei sogni, dei lapsus, degli atti mancati. Ma in questa fase siamo ancora al livello della strutturazione dell’apparato psichico e dei meccanismi dell’inconscio. Il desiderio del soggetto si costituisce in quanto tale solo con il complesso di Edipo (Dumoulié, 1999).
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Il desiderio in psicoanalisi Freud ha assegnato “il mondo come rappresentazione” al desiderio. La sua metapsicologia ci ricorda che abbiamo sempre a che fare con un sistema di tracce mnestiche o rappresentazioni di cose o di parole. Il materiale dell’inconscio si manifesta nel sogno con lo spostamento o la condensazione. Lacan radicalizza il pensiero di Freud sostenendo che l’inconscio è strutturato come un linguaggio e che la linguistica deve fornire alla psicoanalisi le categorie di una sorta di logica trascendentale (quella del significante) che costituirà la base di una elaborazione scientifica. Per assicurare al desiderio la sua funzione propriamente umana è necessario scinderlo da ogni dispositivo biologico e farne una determinazione a priori. Lacan rimette in causa l’idea che l’oggetto del bisogno faccia da supporto all’oggetto pulsionale affermando l’assenza radicale dell’oggetto della pulsione. Questa non ha altro fine che il ritorno alla propria origine onde disegnare il vuoto scavato dalle zone erogene: un posto vacante che può essere occupato da qualsiasi oggetto sostitutivo, ossia dagli oggetti del fantasma, chiamati oggetti “a”, che fanno le veci dell’oggetto pulsionale. L’oggetto è sempre dunque un oggetto perduto, e ogni oggetto sostitutivo rivela, nel momento in cui la nasconde, la perdita fondamentale. Dunque il desiderio non nasce tanto dall’esperienza del soddisfacimento originario di un bisogno, ma è piuttosto la prova di una mancanza radicale. È attraverso questa distanza che il soggetto si qualifica nel suo essere separato dall’oggetto, e che dunque emerge la valenza del desiderio, a cui è negata piena soddisfazione (Carotenuto, Riti e miti della seduzione, 1994). Possiamo desiderare solo a partire dalla lontananza dell’oggetto, o ancora solo in quanto siamo soggetti che mancano di qualcosa, e che perciò sono “disposti all’alienazione”, ad essere catturati dal desiderio dell’altro, il cui sguardo è funzionale alla strutturazione dell’immagine del soggetto. Risulta allora comprensibile la formula lacaniana, ripresa da A. Green (1980) in Narcisismo di vita, narcisismo di morte, secondo cui il desiderio è: «il movimento attraverso il quale il soggetto è decentrato, vale a dire che la ricerca dell’oggetto della soddisfazione, dell’oggetto della mancanza, fa vivere al soggetto l’esperienza che il proprio centro non sia più in lui stesso, ma fuori di lui, in un oggetto da cui è separato, al quale cerca di unirsi per ricosti28
tuire per mezzo dell’unità-identità ritrovata, nel benessere che segue all’esperienza di soddisfacimento, il suo centro». Seduttore e sedotto sono dunque uniti da un’intensa attività immaginativa verso l’oggetto desiderato: l’altro apparso all’orizzonte dello sguardo innesca un processo immaginativo profondo, un contatto con le immagini inquietanti del proprio desiderio. È attraverso questo interlocutore presente/assente che emerge il proprio fantasma, quella invisibile trama di affetti inconsci attraverso cui si declina il proprio godimento, la propria angoscia, la propria malattia. Tutti, dovunque e in ogni tempo, siamo soggetti e oggetti di seduzione. Sedurre significa insediarsi stabilmente nell’immaginario dell’altro. Col suo farsi strumento evocatore delle nostre immagini interne, l’altro è diventato un bene prezioso, il portatore di una immagine inespressa, di quell’altro che in parte noi siamo ma che non possiamo mai arrivare ad essere pienamente (Jung, 1940/50) perché l’altro è sempre altrove. In questo risiede il mistero dell’alterità (Carotenuto, 1994). La svolta impressa dalla psicoanalisi alla dinamica del desiderio è stata rivoluzionaria e sconvolgente. Reso inconscio, il desiderio infatti non si annulla ma, al contrario, si rafforza e diventa imprevedibile. Trasformato dall’inconscio, il desiderio diventa altro ed è questo, in modo particolare, un aspetto perturbante del pensiero freudiano. Lo stravolgimento del desiderio da parte dell’inconscio porta ad addossare ad altri proprie parti negative e a perpetrare il furto di parti buone che gli altri possono avere in sé, una dinamica che Melanie Klein (1957) ha descritto come il processo delle “identificazioni proiettive e introiettive”. Alla base di questa dinamica c’è la teoria e il modello di desiderio descritto da Freud (dal primo bisogno nasce il desiderio come traccia mnestica del processo che ha soddisfatto il bisogno: se il bisogno torna e non trova soddisfazione si verifica un processo allucinatorio che ricrea con l’immaginazione cose o persone di cui si manca). Si ha, secondo Freud, «un moto psichico che tende a reinvestire l’immagine mnestica corrispondente a quella percezione e a riprovocare la percezione stessa ed a ricostruire la situazione del primo soddisfacimento. È un moto di questo tipo che chiamiamo desiderio; la ricomparsa della percezione e l’appagamento del desiderio» (Freud, 1899). Tuttavia, la soddisfazione allucinatoria viene sempre più limitata dall’intervento della realtà. In questo secondo momento il desiderio viene quindi frustrato ed è costretto a rinunciare alla soddisfazione (se il cibo manca non si può far altro che soffrirne la mancanza). Frustrato come esperienza dolorosa di un rigetto d’amore (il desiderio ha una 29
qualità affettiva), il desiderio persiste e cerca di realizzarsi e a questo fine si maschera: diventa parte del mondo inconscio. Quanto si è detto del bisogno e del desiderio di cibo riguarda, ovviamente, anche altre esigenze organiche. Freud parla del rapporto tra sensualità e sessualità adulta. Nel 1925 afferma che per la psicoanalisi la sessualità non si identifica con l’impulso verso un’unione di due sessi, ma è più vicina al concetto ampiamente inclusivo che ha l’Eros nel Simposio di Platone. Il desiderio sessuale della prima infanzia deve essere quindi inteso in senso traslato. Inoltre, la realtà contraria che il desiderio incontra (ad es. non disponibilità della madre) non è solo quella concreta ma anche quella simbolica (proibizione, castigo, censura, ecc.). Il desiderio nasce quindi non solo complicato ma anche contrastato e persiste una tensione verso il soddisfacimento. La via più semplice è nella realizzazione differita; quella patologica nei sintomi di malattia mentale, quella più fisiologica nel sogno. Se Freud ha parlato dei processi di condensazione, spostamento e sostituzione, nella sua prima elaborazione del desiderio attraverso il sogno, con la successiva elaborazione teorica amplia ulteriormente l’ambito del desiderio nel sogno. Andando oltre il modello iniziale di pulsione come fonte di desiderio, introduce il tema del “narcisismo primario e secondario”, che implica fortemente il rapporto con l’altro (modello relazionale della psicoanalisi). Freud (1914) inizia ad utilizzare in maniera più precisa il concetto del narcisismo sul versante pulsionale qualificandolo come una fase dello sviluppo libidico situato tra l’autoerotismo e la scelta oggettuale. In questa fase narcisistica l’individuo assume se stesso come oggetto d’amore. Il narcisismo secondario, invece, è un termine utilizzato da Freud (1922) per indicare il successivo ripiegamento sull’Io della libido orientata in senso oggettuale (Giusti, Lacanà, 2002). La relazione comporta, infatti, un’interazione significativa tra eventi passati della vita e realtà attuale, quindi la possibilità di decifrare il desiderio attraverso la ricostruzione anziché l’interpretazione. In Jung la dinamica del desiderio nel sogno è completamente invertita rispetto a Freud. La sua concezione del desiderio e della sua modalità espressiva nel sogno è quello di una Gestalt, in cui si dà importanza agli aspetti onirici fattuali, ikonici. Il sogno realizza non tanto un desiderio relativo a un evento del passato, una memoria di ciò che è stato, ma piuttosto una premonizione di ciò che potrà essere, una realtà potenziale il cui verificarsi deve essere considerato più o meno 30
possibile. Il sogno in Jung è dunque prospettico, nel senso di “un’anticipazione di future azioni consce che affiora nell’inconscio”, qualcosa di analogo a un esercizio preliminare o schizzo preparatorio, un progetto abbozzato in anticipo: il sogno come un desiderio dell’urgenza di soluzioni da prendere. Rispetto al desiderio Jung sostiene che è sempre connesso ad una coppia di opposti che devono essere integrati accettandone l’ambivalenza. Una coppia di opposti riguarda la vicinanza-lontananza; pensare per opposti significa comprendere il desiderio non secondo un’ottica binaria (sì-no), ma esponendosi all’ambivalenza, al conflitto (vicino-distante). Jung, inoltre, non considera il desiderio nel suo carattere trasgressivo e dissidente, né come puro slancio passionale, ma come “aspirare a” ed al contempo “operare a” (Morroni Mozzi, 2002). Jung (1952) sostiene che il desiderio è una forma dell’intenzionalità umana, non naturale, ma culturale/progettuale, cognitivo/affettiva, potenza inventiva che chiede alla ragione e da questa vuole risposte, vuole che comprenda ed elabori. Per Jung il desiderio non è, come per Freud, rievocazione del rimosso, del passato, ma progettualità nel non noto, nel futuro. Colui che prepara il nuovo non può che essere, nell’ambito dello psichico, colui che apporta il nuovo. Il territorio del desiderio riguarda una visione inedita della situazione in cui siamo; supera il limite della coscienza che è sempre “situata”. Seguendo la via tracciata dal desiderio si può vedere oltre ciò che è immediatamente presente, per trovare il senso: «lo spazio del rinvio è occupato dal desiderio». Con la teoria dei complessi Jung affronta il tema della contraddizione tra desiderio ed esperienza. Quando ci imbattiamo in un ostacolo, il contrasto fra l’intenzione e l’oggetto che vi si oppone diventa ben presto un conflitto interiore. Il desiderio di fronte all’ostacolo ristagna, perché si trova davanti ad un problema che non può essere risolto con la ragione. E con esso ristagna il flusso della vita. Gli opposti si ergono l’uno contro l’altro. Perché l’uomo possa uscire da un dissidio interiore Jung sostiene: «… l’uomo deve soffermarsi sugli opposti fino dove essi si sono biforcati…gli opposti finiranno per esaurirsi e dall’energia che essi hanno perduto si formerà quel terzo elemento che è appunto il principio della nuova via…». All’interno di questa scelta metodologica, il desiderio per Jung assume una connotazione meno drammatica che per Freud, perché è “andare oltre” l’attuale apertura della coscienza. 31
Il campo del desiderio è soprattutto movimento che conosce, mentre la ragione è conoscenza che muove. Suo scopo è mettere insieme le conoscenze con la possibilità di costruirne di nuove, componendo opposti altrimenti inconciliabili, svelare sintesi tra piani diversi dell’esistere. L’ipotesi di un desiderio come progetto può scandalizzare chi ad esso ha assegnato il semplice ruolo di deposito delle pulsioni. Ma affinché la personalità di ciascuno di noi sia pienamente viva, è importante riconoscere ed integrare la propria ombra, sostiene Jung (L’Io e l’inconscio, 1928). L’ombra è assenza di luce ma anche spazio necessario, non c’è luce senza ombra. Non c’è musica senza silenzi. Non c’è disegno senza spazi d’ombra. In L’Io e l’inconscio Jung scrive che la “figura viva” ha bisogno di profonde ombre per apparire plastica. Per Jung l’ombra attribuisce all’uomo corporeità. Senza l’ombra restiamo vuoti e sterili. L’ombra va riconosciuta e accettata, altrimenti agisce come demone onnipotente. Di qui il tentativo di Jung di “abitare” l’ombra come parte viva della personalità. Se la riconosco posso lavorare verso mete di integrazione (l’ombra è ciò che spinge verso un miglioramento, verso il divenire). Rendere evidente a me stesso la mia ombra significa riconoscere di essere in una situazione determinata ed evidenziarla, raccogliere i dati che mi determinano, i desideri che mi spingono, i sentimenti che mi abitano. Jung attribuisce all’ombra una forte tonalità affettiva e quindi un problema morale che ci mette alla prova. L’ombra richiede sofferenza ed un impegno totale di noi stessi; non richiede solo un cambiamento di “prospettiva” (concetti, un diverso modo di pensare) ma un cambiamento di “posizione”, mette in moto un altro modo di essere del soggetto. Si tratta di riconoscere, dice Jung (La psicologia della traslazione), «la debolezza che è implicita in ogni forza» e questo riconoscimento non richiede possesso ma prudenza e umiltà. La simbolizzazione onirica o fiabesca è eloquente: dove il desiderio si presenta in forma personificata, è lì che devo accettare l’incontro con uno sconosciuto. Può essere una lotta, serena e giocosa, oppure sleale e atroce come un duello. Mi svela comunque qualcosa di me, mi conduce dove non voglio andare, ma è lì che ho l’unica possibilità di riconoscermi per quello che sono, resistendo al rifiuto della ragione, varcando la distanza difensiva che questa pone tra sé e i miei desideri. Finché solo vagheggiati o temuti, i desideri rimangono estranei e impenetrabili e finiscono col morire sulla soglia della nostra coscienza inospitale. 32
Il desiderio nei successori di Freud Nonostante il superamento del pensiero freudiano sul desiderio, il tema rimane di irrinunciabile importanza. Molinari (1991) afferma che Freud, focalizzandosi sulla dinamica del desiderio, è arrivato a delinearne un coerente sistema teorico, una metapsicologia, mentre ha trascurato quella relativa al gioco degli affetti senza fornire di essi un preciso e consolidato sistema di riferimento. Ne è derivata una considerazione solo parziale del desiderio, che è un affetto tipico caratterizzato da un’emozione stabile e duratura che persiste nella mancanza dell’oggetto e anzi nasce in questa assenza. La carenza di una teoria sugli affetti sembra confermata dal fatto che Freud si è occupato esclusivamente della relazione sessuale, senza analizzare il desiderio che nasce dal legame primordiale che il soggetto ha nel suo rapporto con il nutrimento (che pure era stato il suo primo interesse). È ciò che è avvenuto con i successori di Freud per quanto riguarda altri bisogni di base. Si tratta delle ricerche di Balint (1937) e specialmente di Bowlby (1969), che hanno aggiunto alla fame e al sesso un’altra dimensione autonoma: Balint l’ha chiamata istinto di aggrapparsi, Bowlby “attaccamento”. Si tratta di una componente cruciale della relazione madre-bambino che dal piano interazionale va incontro a un processo di internalizzazione, sul quale si declina la dinamica del desiderio in modo del tutto analogo a quanto si verifica per il cibo e per il sesso. Si può parlare di una metapsicologia affettiva dell’attaccamento descrivendo un desiderio che sottende innumerevoli comportamenti di reazione all’assenza, non riducibili ad altri parametri pulsionali che si manifestano clinicamente sotto le forme dell’ansia e ben oltre. Si tratta di mantenere la vicinanza e il contatto con una persona specifica che garantisca una sicurezza personale, una base sicura; si tratta dell’aspetto umano della “protezione dal predatore” presente nella scala filogenetica. In linea con Freud, e con la psicoanalisi, non abbandonando il filone psicodinamico, Melanie Klein (1955) sviluppa la dinamica del “rapporto”, focalizzando l’attenzione sugli “oggetti interni” e sul rapporto che si stabilisce fra questi. È la teoria relazionale-oggettuale e della dinamica delle “fantasie inconsce” e delle “identificazioni”. La fantasia inconscia, che sostituisce la teoria delle pulsioni-rappresentazioni, comprende nello stato inconscio l’insieme di pulsioni, affetti, relative rappresentazioni oggettuali e di rapporto con esse. 33
Ciò ha dato maggiore spazio al processo desiderativo, perché le fantasie inconsce non sono meno attive, anzi animano quei processi di allocazione di proprie parti oggettuali con i processi di identificazione proiettiva ed introiettiva. I primi, spinti dal bisogno di evacuare proprie parti negative o di metterle dentro per proteggerle, le altre per appropriarsi di parti buone altrui per aumentare il proprio valore. Questo intreccio di processi dà luogo ad eventi molto importanti descritti da Melanie Klein, come quello dell’“invidia”. Nella teoria kleiniana l’invidia si configura come una strategia reattiva sottesa da voracità e rabbia verso chi dovrebbe o avrebbe dovuto dare affetto. L’invidia diventa uno sconvolgente oggetto di desiderio inconscio di distruzione. Ma non è tutto. In questo processo, il soggetto che invidia nella realtà, in qualche modo ha ricevuto, ma il meccanismo delle identificazioni proiettive e introiettive gli impedisce di riconoscerlo. In questo soggetto non potrà esserci gratitudine, l’altra variabile che la Klein ha legato all’invidia: la rivalsa per ciò che il soggetto crede di non aver avuto. L’altro è solo negatività, si spegne così ogni desiderio di gratitudine e si mantiene vivo quello di vendetta. Dopo aver chiarito il ruolo del desiderio nell’invidia, questo non comparirà più come concetto autonomo ma viene sussunto da quello di fantasie inconsce, i fantasmi, i processi identificatori. Con la Klein, ma anche con Balint e Bowlby, la pulsione non viene più considerata una “ricerca di piacere” ma una ricerca di “oggetto” nell’ambito dell’adattamento. I cambiamenti dei paradigmi scientifici dalle teorie delle pulsioni al ruolo dei processi adattivi (Ammanniti, Dazzi, Zavattini 1990-96), evidenziano che la crescita ed il formarsi delle funzioni psichiche dipendono dal tipo e dalla qualità dell’incontro intersoggettivo. Rispetto alla motivazione individuale (Freud) legata alla teoria delle pulsioni, si attribuisce una rilevanza maggiore al bisogno di legame con l’oggetto (Winnicott, Balint e Bowlby) e alla formazione di strutture intrapsichiche che possono essere meglio comprese in termini di interiorizzazioni di oggetti e di relazioni d’oggetto. In questa luce, sono prioritariamente le relazioni interne ad assicurare il senso di continuità e stabilità delle relazioni umane, sebbene non come un mondo separato e intangibile ma anch’esso influenzato – cioè relativamente passibile di “rifigurazione” (Stern,1995) e “riprocessamento” – dalle dinamiche e dai vissuti delle vicende reali. In altre parole, gli individui si relazionano agli altri non solo in funzione degli aspetti pragmatici e coscienti della percezione dell’altro, ma anche in 34
funzione di quella che potremmo chiamare una proposta inconscia di relazione, espressione dei modelli operativi interni di relazione (Norsa, Zavattini, 1992). Gli scambi con gli altri sono quindi internalizzati e modellano i successivi atteggiamenti, reazioni, percezioni, ecc. Ma in che modo le caratteristiche degli oggetti interni si relazionano con quelle delle persone “reali” passate e presenti? L’oggetto interno è una rappresentazione dell’individuo, di una relazione totale con un’altra persona, o di aspetti e caratteristiche dell’altro (Greenberg, Mitchell, 1983)? Da tale questione discende il concetto di monitoraggio affettivo reciproco e di cura delle relazioni attraverso le relazioni (Norsa, Zavattini 1992, 1994). L’interesse si sposta sulla dimensione relazionale con un oggetto primario: l’amore primario verso la madre (Balint, 1937, 1952; Giusti, Lacanà, 2002) e la corrispondente relazione oggettuale (Sassanelli, 1992). La sostituzione del paradigma energetico e delle motivazioni ed affetti con quello dei “costrutti personali” ha spostato la priorità del desiderio a favore di una teoria in cui la mente non è conclusa nei confini del soggetto ma si estende in una rete di relazioni sociali e di significati che si definiscono all’interno di queste. Il nuovo paradigma è incentrato sull’entità psichica di base che ha il compito di mantenere la continuità e la coerenza del soggetto rispetto agli ambienti di adattamento; la maggior parte degli psicoanalisti contemporanei la identifica come Sé (Hartmann, 1939; Kohut, 19711977; Stern), il nucleo dell’Io, il mondo delle sottostrutture più intime della psiche (presupposto evolutivo contrapposto a quello genetico freudiano, kleiniano e lacaniano) che sposta l’attenzione sulla relazione e il desiderio verso la prospettiva “socio-costruttivistica”. Il desiderio, reso inconscio, scompare dalla scena, assorbito dal progresso meta-psicologico. Non lo si ritrova più nel mirroring di Winnicott (1965), nello strato protobase di Bion (1963), nella organizzazione mentale di base di Gaddini (1981), nel narcisismo di Kohut (1971) o nelle matrici gruppali di Foulkes (1975). Ognuna di queste dimensioni di esplorazione profonda della psiche ha una natura desiderativa, ma per nessuna di esse si può parlare specificamente di desiderio: come avviene nella fisica, dove approfondendo la materia si arriva a un punto in cui non c’è più niente di concreto, ma solo vuoto e onde di probabilità (Ancona, Vigna, Sequeri, 1999). 35
La progressiva esplorazione sul desiderio ha avvicinato decisamente la psicoanalisi al campo psichiatrico, laddove l’isteria era considerata una vera e propria drammatizzazione del desiderio, una “conversione somatica” di desideri rimossi (un sogno ad occhi aperti) e in modo analogo venivano concepite le sindromi ossessivo-compulsive e quelle depressive. Il transfert era a sua volta visto come la rappresentazione di un complesso di desideri inconsci verso le figure genitoriali. Il riconoscimento sempre maggiore dell’importanza primaria della relazione diadica, bi-personale, sposta l’interesse verso la relazione anche nel rapporto terapeutico e nelle altre forme di trattamento psichiatrico, psicologico o farmacologico. L’attenzione si focalizza sulla comunicazione che si attualizza nella relazione con l’altro. È attraverso l’altro, come nel rapporto terapeuta-paziente, che il soggetto cerca il contatto con il suo autentico desiderio, interdetto dal conflitto tra Io e Super-Io o tra Sé e falso Sé (Carotenuto, 1994). L’altro è il tramite che consente quell’invenzione di se stessi che è scoperta delle proprie possibilità altrimenti inconoscibili e inagibili. Se l’analisi teorica del desiderio sembra dissolversi e perdere un proprio ruolo autonomo, è tuttavia innegabile riscontrare, in pieno contrasto con questa realtà metapsicologica, un intreccio reale e indissolubile di desideri che continua ad attraversare ogni essere umano per tutta la vita.
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Nella stessa collana
EDIZIONE SOVERA STRUMENTI Elliott R. - Watson J.C. - Goldman R.N. - Greenberg L.S., Apprendere la terapia focalizzata sulle emozioni. L’approccio esperienziale orientato al processo per il cambiamento, in corso di stampa, pp. 368 Giusti E., Montanari C., Iannazzo A., Psicodiagnosi integrata. Valutazione transitiva e progressiva del processo qualitativo e degli esiti nella psicoterapia pluralistica fondata sull’evidenza obiettiva, 2006, pp. 580 Giusti E., Bonessi A., Garda V., Salute e malattia psicosomatica. Significato, diagnosi e cura, 2006, pp. 240 Giusti E., Germano F.., Psicoterapeuti generalisti. Competenze essenziali di base: dall’adeguatezza verso l’eccellenza, 2006, pp. 256 Giusti E., Pacifico M., Staffa T., L’intelligenza multidimensionale per le psicoterapie innovative, 2007, pp. 400 Giusti E. - Tridici D., Smoking. Basta davvero, 2009, pp. 224 Goodheart C.D. - Kazdin A.E. - Sternberg R.J., Psicoterapia a prova di evidenza. Dove la pratica e la ricerca si incontrano, in corso di stampa Norcross J.C., Beutler L.E., Levant R.F., Salute mentale: trattamenti basati sull’evidenza. Dibattiti e dialoghi sulle questioni fondamentali, 2006, pp. 464 Spalletta E., Germano F., MicroCounseling e MicroCoaching. Manuale operativo di strategie brevi per la motivazione al cambiamento, 2006, pp. 480 Wolfe B.E., Trattamenti integrati per disturbi d’ansia. La cura del Sé ferito, 2007, pp. 304
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