Edoardo Giusti - Alessandro Cinti Luciani
collana Psicoterapia & Counseling diretta da Edoardo Giusti PSICOTERAPIA�
COUNSELING�
66 Centro Europeo di Ricerche per lo Studio delle Psicoterapie Integrate e Comparate
Edoardo Giusti - Alessandro Cinti Luciani
PROIEZIONI TERAPEUTICHE Il Cineforum della consapevolezza per una cura da Oscar
OVERA EDITORE
Š 2008 SOVERA MULTIMEDIA s.r.l. Via Vincenzo Brunacci, 55/55A - 00146 ROMA www.soveraedizioni.it e-mail: info@soveraedizioni.it I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i paesi.
Indice
Presentazione di LAURA BARRELIERE e PINO BOLONGARO
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Capitolo 1: Storia dell’utilizzo dei filmati a scopo terapeutico 11 1.1 Le origini della cinematerapia 11 1.1.1 La videoterapia e la videodidattica 1.1.2 Il self-help dalla biblioterapia alla cinematerapia
1.2 La cinematerapia negli Stati Uniti 1.3 La cinematerapia in Italia Capitolo 2: Psicologia del cinema e dello spettatore 2.1 Il rapporto tra cinema e spettatore/cliente 2.2 Cinema e inconscio 2.2.1 Cinema e stati alterati di coscienza 2.2.2 Cinema e sogno
Capitolo 3: La cinematerapia integrata 3.1 Cinematerapia: fenomenologia e metodi 3.2 La cinematerapia in azione Capitolo 4: Cinema e didattica psicoterapeutica 4.1 I disturbi di personalitĂ 4.1.1 Disturbi di personalitĂ e film
4.2 La schizofrenia 4.2.1 Schizofrenia e film
4.3 La depressione 4.3.1 Depressione e film
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69 69 76
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Capitolo 5: Cinema e film terapeutici
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Capitolo 6: Ricerca e cinematerapia
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Bibliografia
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Presentazione
Dal Seicento si sono sviluppate tecniche meccaniche di riproduzione della realtà visibile profondamente diverse da quelle che fino ad allora erano sostanzialmente l’arte del segno, del disegno, della pittura: lanterna magica, dagherrotipi… foto. Poi, alla fine dell’ottocento, la rapida successione di foto per creare la percezione del movimento. I primi decenni del Novecento vedono comparire la possibilità di registrare e riprodurre anche i suoni che, abbinati alla proiezione cinematografica, danno quello che oggi chiamiamo cinema o film. In uno spazio di tempo culturalmente brevissimo, il mezzo cinematografico, con la sua potenza evocativa (vedo e sento quella che, seppur bidimensionale, è quasi realtà), è entrato a far parte della nostra vita. Il passaggio dal supporto materiale/analogico (la pellicola) al supporto virtuale/elettronico (magnetico/analogico, ottico/digitale, digitale), gli schermi televisivi e la televisione stessa, ha portato in ogni casa e in ogni luogo questa maniera di osservare il mondo e la possibilità di creare tutti i mondi immaginabili. Questo è il mezzo. E i contenuti? I contenuti sono tutti quelli che i saperi e la cultura sono in grado di produrre. Aggiungendo ciò che il mezzo stesso, come nuovo strumento, crea. Nei miliardi di chilometri di pellicola girati e proiettati e nei fantasmilioni di bit dei supporti elettronici ci sono le nostre storie, le nostre speranze, le nostre disperazioni, i nostri sogni e bisogni, ciò che più disprezziamo e ciò che più amiamo, quello che non vorremmo mai accadesse, e ciò che purtroppo è accaduto, quello che 7
preferiamo attribuire a qualcun altro perché non ne abbiamo il coraggio, quello che ci piacerebbe e di cui ci vergogniamo, le nostre pulsioni e repulsioni… Ciò che poco tempo fa era arte figurativa e letteratura, diventa oggi immagine in movimento e suono, tanto vicina alla realtà che, quando vi siamo di fronte, il confine diventa impalpabile. Le ultime generazioni si sono di fatto formate un’idea del mondo e delle relazioni in buona parte sulla base delle immagini, dei suoni, delle storie dei film che hanno popolato la nostra vita e la nostra fantasia. Le nostre esperienze e la cultura creata dalla parola parlata e scritta sono state in qualche modo filtrate dalle storie e dai personaggi “visti” sullo schermo (cinematografico o televisivo). Il film e sue possibili declinazioni estemporanee come le videoriprese, sono, senza dubbio, un mezzo potente ed efficace per agevolare un processo di crescita e terapeutico. Entrambi promuovono una migliore consapevolezza, visione e revisione rapida e profonda dell’esperienza in diversi contesti come quello didattico, formativo, clinico, di disagio e disadattamento, di sofferenza sociale. Il mezzo filmico si presta ad un utilizzo privato/individuale, di gruppo e sociale unitamente alle competenze relazionali, psicologiche e cliniche diventa uno strumento flessibile e realmente utile per i professionisti della relazione di aiuto. In tal senso la recentissima opera di Edoardo Giusti - Alessandro Cinti Luciani dal titolo Proiezioni terapeutiche. Il Cineforum della consapevolezza per una cura da Oscar appare quanto mai interessante e ricca di possibilità applicative. Nel primo capitolo, partendo dalle origini della cinematerapia, si passa a definire le varie modalità ricettive e percettive individuali rispetto alla fruizione del filmato e all’importanza della condivisione con altri; infatti: “è in questo scambio che può realizzarsi pienamente la narrazione personale, ossia la ri-creazione del proprio film personale”. Questo processo può essere attuato in maniera autonoma o attraverso la guida di un terapeuta che suggerisca titoli particolarmente interessanti per la situazione psicologica/esistenziale e per la realtà personale del soggetto, il quale poi avrà l’opportunità di rielaborare i propri vissuti durante i colloqui. Gli stessi principi pos8
sono essere applicati ad un proficuo lavoro di gruppo in ambito didattico-formativo, pedagogico clinico-terapeutico. Nel secondo capitolo si approfondisce il complesso rapporto tra lo spettatore e le dinamiche attivate dalla visione del film. In questa interazione vengono coinvolti ed evocati elementi consapevoli e inconsci. Nella visione del film infatti si procede in uno stato di coscienza parzialmente alterato, in quanto si perde il principio di realtà, a causa della situazione semionirica che si viene a creare; questo facilita la messa in atto di meccanismi di difesa quali la proiezione e l’identificazione, amplificando l’effetto catartico. Tuttavia, come viene sottolineato dagli autori, esistono anche molte differenze tra il sognare e il vedere un film, e risulta molto interessante ripercorrerle. Il terzo capitolo è dedicato all’aspetto didattico del materiale filmico, che può essere utilizzato per far conoscere in maniera più diretta le principali psicopatologie agli “addetti ai lavori” o anche per chiarire gli aspetti della relazione psicoterapeutica, sfatare luoghi comuni e stereotipi relativi alle professione di psicologo. Questa parte presenta altresì un aspetto di grande utilità a livello “manualistico” con la presentazione di una serie di film relativi ai principali disturbi di personalità. Negli ultimi due capitoli viene sottolineata più incisivamente la potenzialità terapeutica del film utilizzato come strumento di introspezione e di maggior consapevolezza della propria realtà interiore. Numerosissimi sono i titoli citati, suddivisi per aree o tematiche psicologiche quali: le relazioni interpersonali, le fasi dello sviluppo, la ricerca, la trasformazione e il cambiamento di sé. Rappresentano una guida pratica e articolata che spazia dalle problematiche di coppia al rapporto tra genitori e figli, dalla tematica dello stress, alle problematiche sul lavoro, all’autostima, alla terza età. Una breve trama e indicazioni circostanziate indirizzano rapidamente verso l’area di intervento utile sia al professionista che voglia suggerire un film adatto a suscitare interesse e stimolo emotivo/cognitivo al proprio cliente, sia alla persona che voglia sperimentare in maniera mirata un percorso di autoaiuto. Personalmente, in qualità di conduttori, abbiamo potuto sperimentare con diverse iniziative la poliedricità del mezzo foto-videofilm come efficacissimo strumento di crescita personale e professionale a livello cognitivo, emotivo, esperienziale. 9
Vedere film, parti di film, fare film, videoriprendersi, ri-vedersi amplifica la potenzialità terapeutica della relazione, creando un ponte dialettico ed espressivo a livello intrapsichico ed interpersonale, liberando la potenzialità creativa e ri-creativa del soggetto. Sono esperienze di attivazione didattica che proponiamo dal 2000 al Cineforum Aspic Club. In questi sette anni abbiamo coinvolto un grande numero di Psicoterapeuti e Counselor delle Scuole di Formazione A.S.P.I.C., proponendo ad oggi quasi settanta film, dai contenuti più vari, ad un pubblico con diverse motivazioni e livelli di consapevolezza. L’esperienza prosegue in maniera progressiva e sperimentale ed ha dato vita ad un gruppo aperto e semistabile che sceglie in autogestione i nuovi titoli, sotto la nostra supervisione. In particolare nel lavoro svolto con gruppi di professionisti della relazione di aiuto, terapeuti e counselor, ci siamo resi conto della duplice efficacia di questo tipo di approccio, che, migliorando l’auto-conoscenza e la capacità relazionale, amplifica in parallelo la competenza professionale. L’utilizzo, a fini terapeutici, didattici e di crescita, di film e videoriprese rappresenta ormai indubbiamente non più una frontiera ma uno strumento collaudato e perfezionato che si pone in linea con i mezzi di diffusione ed evoluzione culturale dei nostri tempi. Questo lavoro colma un vuoto presente nella letteratura e risulta particolarmente interessante e fruibile, collocandosi in un’area intermedia tra ricerca e manualistica agile. In tal senso risponde bene ad esigenze diverse, configurandosi come strumento di approfondimento e consultazione per il professionista e come guida di accesso per chiunque voglia orientarsi in maniera più consapevole alla fruizione di un film. Laura Barreliere - Pino Bolongaro
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Capitolo 1
Storia dell’utilizzo dei filmati a scopo terapeutico
1.1 Le origini della cinematerapia “La terapia d’arte è concepita in partenza come un mezzo di sostegno dell’Io capace di favorire lo sviluppo di un senso di identità e di promuovere una generale maturazione. L’arte serve come modello di funzionamento dell’Io: diventa una zona franca in cui è possibile esprimere e saggiare nuovi atteggiamenti e risposte emotive anche prima che queste modificazioni abbiano luogo a livello della vita quotidiana”. E. KRAMER
La parola “terapia”, che deriva dal greco therapeia e significa cura, servizio, assistenza, ha acquisito negli anni un significato via via più ricco e complesso; se fino a qualche tempo fa era sinonimo di trattamento medico finalizzato a risolvere e guarire una determinata patologia, è oggi più che mai un concetto vicino a termini come psicologia, salute e benessere. La definizione stessa di psicoterapia, psichè (anima, soffio vitale) e therapeia, sottolinea come questa disciplina si occupi del “prendersi cura dell’anima”. Il passaggio, che si sta difficilmente compiendo, è quello di un ritorno al significato etimologico originario del termine psicoterapia, non quindi “cura di una malattia della mente” o di “qualcosa che non va”, ma un percorso, un viaggio dell’anima, che può essere intrapreso anche da persone che stanno già bene con l’obiettivo 11
di imparare a stare ancora meglio; un po’ come se si volesse fare il “punto della situazione” del sistema mente-corpo, per migliorare la qualità di alcuni aspetti della vita quotidiana. Con questa accezione, da molti anni, il termine terapia viene anche utilizzato come suffisso di molte forme di arti, quali ad esempio la fotografia, il cinema, la musica, la danza, il teatro, la scrittura, ecc., e quindi è opportuno stabilire una origine chiara e precisa all’interno della quale i filmati possono essere utilizzati come strumenti terapeutici. In tal senso, l’arteterapia può essere un importante punto di partenza per comprendere come il cinema sia giunto, nel tempo, ad essere considerato uno strumento e un mezzo terapeutico per un possibile “viaggio introspettivo” verso la consapevolezza e per un effettivo cambiamento di alcune modalità comportamentali disfunzionali. L’arteterapia si è sviluppata, circa quarant’anni fa, dapprima come strumento di sostegno nelle cure psichiatriche; psichiatri e psicologi osservarono che la persona introversa, che aveva difficoltà a comunicare e con la quale era difficile parlare, spesso riusciva ad esprimersi meglio con il corpo o con i gesti, magari modellando la creta, o ballando, o raffigurando nei disegni le proprie angosce; da allora gradualmente si sono strutturate modalità di intervento terapeutico a diversi livelli. L’arteterapia è una disciplina il cui scopo è proprio quello di attivare sia le risorse e le potenzialità che ogni essere umano possiede, sia la capacità di elaborare il proprio vissuto e le proprie emozioni e di trasmetterlo creativamente agli altri mediante una serie di esercizi espressivi propri delle più diverse forme di arte: disegno, gioco, video, musica, scrittura, poesia, pittura, teatro, ecc. In arteterapia, lavorare sulle parti positive permette l’attuarsi di evoluzioni e cambiamenti più facilmente e più stabilmente che andando a rimuovere le parti ritenute, a torto o a ragione, insoddisfacenti e oscure. È preferibile intervenire potenziando le qualità, piuttosto che reprimendo i difetti, poiché la persona ha in sé una capacità autorigenerativa enorme che molto spesso è sufficiente solo stimolare; tutte le tecniche legate alle artiterapie hanno questa funzione, come anche quella di porre in migliore comunicazione soma e psiche, corpo e mente. Offrendo al paziente strumenti di espressione e/o di realizzazione plastica è possibile facilitare in lui 12
l’emergere di emozioni, desideri, aggressività, paure, così da finalizzarle in una evoluzione più fattiva per l’utente stesso (Piombo, 1995). Il focus dell’arteterapia, più che sul prodotto artistico finale, è sul processo creativo in sé. Ciò che è importante è soprattutto esprimersi, creare. L’atto di “produrre” permette all’individuo di accedere agli aspetti più intimi e nascosti di sé, di contattare ed esprimere le emozioni più recondite e spesso inaspettate, di sperimentare e potenziare abilità spesso ignorate o inutilizzate. In questo senso il processo creativo, al di là del contenuto e del risultato finale, è già terapeutico in sé (Improta, 2005). Chiaramente anche per le diverse forme di disagio psichico, in cui esiste una marcata difficoltà ad esprimere e a verbalizzare pensieri, emozioni o affetti, la produzione grafica, l’animazione creativa o quella musicale possono diventare uno strumento attraverso il quale è possibile manifestare, in modo mediato, il proprio sé. Il termine terapia, in questo caso, non sta a significare che le arti vogliono curare le persone che le praticano, ma esprime il concetto secondo cui attraverso l’attività espressiva l’individuo intraprende un percorso di autoconoscenza indiretto e mediato (da un film, da una musica, ecc.). Riguardo ai termini “filmato” o “film” il vocabolario della lingua italiana dà la seguente definizione: “La parola inglese film (letteralmente pellicola) indica principalmente il prodotto tipico dell’industria cinematografica, il film, per l’appunto, ovvero una sequenza di immagini dette fotogrammi incise su una striscia di poliestere o di triacetato di cellulosa (la pellicola vera e propria) da proiettare ad una velocità tale (24 fotogrammi al secondo solitamente, ma ne bastano 12 per ottenere l’effetto) che possano rendere l’illusione ottica del movimento tipica del cinema”. Questa è la definizione del vocabolario, ma in realtà un filmato, inteso proprio come participio passato di film, può essere un documentario, una videoripresa con la telecamera, uno spettacolo televisivo, un film vero e proprio, ecc., quindi tutto ciò che è stato “girato” con una macchina da presa o video. Facendo riferimento, in letteratura, all’uso terapeutico dei filmati, si nota subito come non ci sia chiarezza nell’uso dei termini. 13
Esistono diversi modi di utilizzare il video come strumento terapeutico e molti psicoterapeuti usano parole differenti per dire la stessa cosa. Occorre, quindi, spiegare e chiarire cosa si intende quando si parla di videoterapia, videodidattica, biblioterapia, filmterapia e cinematerapia. 1.1.1 La videoterapia e la videodidattica La videoterapia è diversa dalla filmterapia. Diversa è infatti l’interazione con il mezzo, il video, e con le immagini rivelatrici del modo di relazionarsi con se stessi e con il mondo. È importante distinguere la videoterapia dalla terapia filmata, che riguarda le discussioni individuali o di gruppo che seguono la visione di un film (filmterapia). La videoterapia è il modo di utilizzare delle riprese video nella relazione di aiuto per migliorare le risorse personali e interpersonali di un individuo. Il cliente viene ripreso da una telecamera durante il colloquio e in seguito lavora con il terapeuta su quanto è stato videoripreso. Si tratta quindi di un lavoro in differita, in cui l’individuo può confrontare la propria immagine reale con quella ideale e immaginaria, cercando di stabilire con essa un vero e proprio dialogo diretto. Rossi (2003) afferma che “la videoterapia rappresenta il momento culminante di un percorso di crescita che porta e sostiene la persona nell’incontro e nella revisione di se stesso. La videoterapia dà vita a un’interazione dell’Io con il Me: l’immagine diventa l’interlocutore del soggetto in un processo di facilitazione del confronto con se stessi. Si distingue anche dal guardarsi allo specchio poiché, quando ci si guarda allo specchio, le sensazioni propriocettive sono direttamente collegate con l’immagine che si vede: se muovo una mano percepisco la sensazione fisica della mano che si muove e contemporaneamente ne vedo l’immagine. In videoterapia l’immagine che si vede non è direttamente collegata alle sensazioni propriocettive. Il lavoro videoterapeutico si sviluppa quando l’immagine diventa autonoma, quando cioè è possibile una distanza e una disidentificazione da essa che possa permettere l’o14
perazione di confronto con se stessi. L’immagine diventa quindi autonoma e slegata dalle caratteristiche che confermano il senso d’identità, nel momento in cui il cliente inizia a rilevare delle discrepanze: • tra l’immagine mentale di sé e l’immagine di sé e del proprio comportamento visibili nella registrazione (cosa riconosco e cosa mi stupisce del me stesso che vedo agire sullo schermo; cosa fa quel me, lì sullo schermo, di visibile e udibile che posso riconoscere come mio). • temporali, dovute alla differenza di tempo tra il momento della registrazione e il momento della visione del materiale registrato. La rilevazione di queste discrepanze viene facilitata dal terapeuta attraverso delle operazioni di moviola che permettono al soggetto di accorgersi di microespressioni inconsapevoli, difficili da notare in quanto incongrue con l’immagine mentale che ha di sé. Ciò che è importante è la messa in scena di un dialogo in cui il cliente e il se stesso/immagine possano scambiarsi consigli e osservazioni, mobilitando personali risorse e capacità di autosostegno. Questa fase, nel lavoro di videoterapia, è quella del rivedere ciò che è stato fatto, rivedere (nel senso di vedersi di nuovo) e rivedersi (nel senso di riesaminarsi, correggersi). La videoterapia è quindi una sorta di film-dramma in cui ci si può rivedere, inserendo dei cambiamenti e delle nuove possibilità. I segmenti, le inquadrature, le scene, le sequenze possono essere montate, smontate e rimontate, in una continua analisi e sperimentazione di modificazioni della relazione e della condotta. In questo modo si dà vita a una narrazione di sé che si appoggia su particolari fisionomici, fonetici o comportamentali che diventano una sorta di sottotesto narrativo con il quale lavorare terapeuticamente per promuovere la riorganizzazione emotiva e cognitiva del copione di vita e della storia del cliente” (Rossi, 2003). L’immagine di sé diventa dunque evocatrice di differenza, assume vita narrativa propria, così che la persona che l’ha prodotta possa confrontarsi con essa. È però necessario favorire una situazione che consenta l’incontro dialogico con l’immagine di se stesso regi15
strata. Occorre, cioè, che l’immagine sia vissuta dal cliente come una parte di sé e nello stesso tempo portatrice di diversità. Il cliente dovrebbe comprendere la differenza tra il se stesso proposto dal video e quello dell’ora e adesso. Sono importanti tutte le discrepanze che si notano fra l’immagine mentale che si ha di se stessi e l’immagine “reale” che si vede nel video. Se l’immagine fosse completamente estranea non ci si riconoscerebbe e il lavoro non avrebbe effetto terapeutico. Ciò che crea la possibilità terapeutica dialogica è la somiglianza che ospita le diversità, in quanto permette di prendere in considerazione, una volta accettate, possibilità esistenziali diverse. Accettando il contatto con quello che si era e si credeva di essere, si è e si potrebbe essere, giocando con le diverse possibilità di esistere, nascono nuove opportunità emotive e cognitive di conduzione della propria vita (Rossi, 2003). Una altra caratteristica importante della videoterapia è l’interazione diretta ed esplicita con l’occhio della telecamera. La telecamera appartiene alla situazione terapeutica. Essa rappresenta un prolungamento dell’occhio di chi sta inquadrando, è un interlocutore che può dire la sua. Un po’ come se dicesse “tu che inquadri, cosa stai guardando di quella persona, cosa ti colpisce di quella persona?”. Con questo interlocutore il cliente può intrecciare un dialogo, confrontandosi con un altro punto di vista. In una seduta di psicoterapia il terapeuta mette in risalto verbalmente alcuni particolari, porta l’attenzione, ad esempio, su una parola, un gesto od una sensazione. In una seduta di videoterapia questo avviene attraverso l’uso delle immagini. Il terapeuta seleziona immagini e crea una relazione mediata da inquadrature. La selezione visiva mediata dall’attenzione del terapeuta viene a combinarsi con le possibilità di selezione del soggetto stesso. Può essere il cliente, infatti, ad essere particolarmente colpito da una immagine, un momento, un particolare che il terapeuta provvederà a ingrandire o a mettere in evidenza (Rossi, 2003). La videodidattica, invece, è un ottimo strumento per i professionisti in formazione, dal momento che la visione di filmati dà la possibilità di osservare ed ascoltare dei professionisti di un settore specialistico all’opera. Nell’ambito della psicoterapia, ad esempio, il significato di un filmato di questo tipo sta nel fatto che assistere allo svolgimento 16
di un colloquio psicologico è la miglior lezione per apprendere direttamente senza la mediazione della teoria. Questo sistema di apprendimento viene definito “Learn by seeing and doing” e si basa sulla logica per cui una immagine vale mille parole (Giusti, 2001). Nei filmati, psicoterapeuti appartenenti a modelli teorici differenti mostrano la loro metodologia clinica in sedute complete di 40/50 minuti circa. Solitamente è la terza o quarta seduta di un percorso terapeutico, in cui l’utente viene impersonato da un interprete professionista sulla base rigorosa dei resoconti delle sedute reali. La visione del filmato consente a colui che osserva di realizzare la connessione tra teoria e tecnica e di valutare gli aspetti diagnostici, gli elementi centrali del colloquio terapeutico e l’efficacia dell’azione clinica. Il terapeuta in formazione, alla fine del filmato, cerca di evidenziare criticamente i punti di forza, i limiti scientifici, il valore e l’efficienza di ogni tecnica di intervento (Giusti, 2001). Filmterapia, cinematerapia, movietherapy, ecc. sono invece termini con un significato simile, le cui differenze sono sia nel nome, e quindi legate al marchio depositato dai singoli creatori, sia nel modo particolare in cui ogni terapeuta o altra figura professionale del settore utilizza un film per agevolare un lavoro emotivo ed espressivo nei clienti/spettatori. 1.1.2 Il self-help dalla biblioterapia alla cinematerapia Le origini della cinematerapia sono da ricercarsi anche all’interno di quelle forme di homeworks (compiti per casa) che molti clinici adottano e prescrivono ai loro pazienti come strumento di crescita cognitiva e socio-affettiva nel trattamento psicoterapeutico. La cinematerapia potrebbe essere la diretta discendente della biblioterapia, dal momento che rappresenta un sostegno alla psicoterapia e un possibile strumento di auto-aiuto, da discutere in seduta col terapeuta. Molto prima dell’utilizzo dei film come strumenti terapeutici “per casa”, sono stati i libri un mezzo particolarmente utile e suggestivo da affiancare alla psicoterapia. Un libro, visto come uno 17
spazio condiviso da terapeuta e paziente e quindi parte di un programma terapeutico, che può promuovere una partecipazione più intensa del cliente alla terapia, dal momento che stimola la riflessione, la conoscenza, l’approfondimento e lo sviluppo di contenuti emersi in seduta. Questa forma di terapia, nata nel 1930, è stata definita biblioterapia o terapia attraverso la lettura. Menninger (1930), per primo, ha rilevato come la letteratura selezionata potesse essere al servizio di scopi educativi, ricreazionali e sociali negli ospedali psichiatrici. La letteratura fornirebbe infatti immediate soddisfazioni per i pazienti e servirebbe come fonte di informazioni. Questo stimolerebbe i pazienti ad investire in un interesse al di fuori di loro stessi e pertanto manterrebbe il contatto con la realtà esterna. In più, attraverso la discussione dei libri con gli altri, i pazienti si sentono incoraggiati ad identificarsi in un gruppo sociale. Secondo Menninger, i clinici dovrebbero prescrivere i libri ai pazienti secondo i loro bisogni, il loro mondo e il quadro sintomatico, e il punto saliente riguarda il modo in cui le opere possono essere utilizzate, ossia come canali di espressione per le idee e le emozioni dei pazienti. Menninger suggerisce anche che tali letture terapeutiche dovrebbero essere prescritte solo da medici competenti. Secondo l’autore, infatti, è molto importante tenere sotto controllo gli effetti indesiderati. I libri spesso contengono valori controproducenti e quindi bisognerebbe pesare con cautela i conflitti di una storia e la loro risoluzione. Gli autori esprimono le proprie idee ed opinioni attraverso i personaggi di una storia e queste potrebbero sia illuminare che confondere il paziente. La conclusione di Menninger è che la lettura può essere un effettivo aiuto alla terapia, ma che i clinici dovrebbero avere una buona padronanza dei testi che consigliano e conoscere il modo migliore per utilizzarli nei trattamenti. La biblioterapia è strettamente collegata a concetti come autocura e autoaiuto. Generalmente un libro scritto da un professionista o da chi ha vissuto il problema in prima persona è il migliore dei supporti. Solamente negli ultimi vent’anni, però, si è iniziato a produrre una vasta letteratura di autoaiuto per il grande pubblico ed è stato verificato che tali testi accrescono la percezione del sé, hanno effetti positivi sulla tendenza al cambiamento e riducono la depres18
sione. Le letture aiutano i clienti a capire meglio se stessi, a verbalizzare le loro preoccupazioni, a scoprire i loro problemi nelle storie degli altri, a superare l’isolamento e a sviluppare un significato migliore del contesto. Anche la narrativa può essere stimolante poiché nei suoi personaggi ci si può immedesimare e nella storia si possono trovare analogie e richiami alla propria storia personale, che suscitano emozioni e riflessioni. Spagnulo (2000) afferma che il termine biblioterapia viene oggi impiegato con tre diverse accezioni: • autoterapia involontaria attraverso la lettura (poter essere “illuminati” da un libro, da una frase, o addirittura da una parola utilizzata da un autore che tutto si proponeva tranne che il compito di illuminare qualcuno); • letteratura di autoaiuto (libri scritti espressamente con l’intento di aiutare le persone a risolvere un determinato problema. La caratteristica generale dei libri di autoaiuto è che si tratta di testi teorico-pratici, dal tono accattivante e ottimistico, che consigliano specifici comportamenti, specifici percorsi e specifiche esercitazioni); • letteratura psicoeducazionale e sussidiaria (veri e propri strumenti terapeutici espressamente studiati da professionisti del settore allo scopo di coadiuvare il lavoro terapeutico). Gli obiettivi generali della biblioterapia riguardano: • lo sviluppo dell’empowerment; • lo sviluppo di risorse e il potenziamento delle life skills e delle abilità di coping; • l’autoefficacia e il problem solving; • l’autostima, l’assertività e la comunicazione interpersonale. Rossi (2001) elenca, tra le varie funzioni che un libro può svolgere, le seguenti: • può essere uno strumento per trovare le risposte che non si trovano altrove; 19
• può aiutare nella revisione e comprensione del proprio passato; • può dar voce a pensieri ed emozioni inespressi, che urlavano nel segreto del proprio cuore; • può permettere di riconoscere situazioni già sperimentate da altri e di attribuirvi un significato prima sconosciuto, attenuando il senso di angoscia dell’ignoto e del mistero; • può aiutare a pensare al proprio progetto futuro, ponendo domande sul percorso che sarà; • funziona per calarsi in un’altra realtà, per poter fantasticare e veder scorrere immagini create da sé in alternativa a quelle proposte dalla TV, per vivere in una dimensione un po’ più da protagonista; • funziona da “rifugio”, per rifuggire da una realtà scomoda o difficile, oppure anche solo per una sosta a ricaricarsi, prima di un nuovo tempestoso ritmo.
1.2 La cinematerapia negli Stati Uniti “Nella visione di un film ci si accosta ad una dimensione onirica seguendo due direzioni: verso e dentro il film e in esplorazione verso noi stessi. Il processo innescato non è più di sola adesione allo spettacolo filmico, ma di scambio… non più un messaggio, ma un rapporto”. KRACAUER
“I film sono come la poesia, arte dell’illusione, con uno specchio adatto, di una pozzanghera si fa un oceano”. J. SARAMAGO
Sono stati gli americani ad aver elaborato una teoria e una metodologia terapeutica utilizzando il fascino e il potere delle immagini in movimento. Oggi negli U.S.A. molti psicoterapeuti integra20
no il loro lavoro con la cinematerapia e questo è testimoniato da diversi testi che trattano di cinema e dei suoi possibili legami con temi come salute, malattia e psiche. Secondo i terapeuti americani la visione di un film attinente alle problematiche che si cerca di risolvere innesca, con il supporto della psicoterapia, una riflessione e una discussione sui sentimenti e sulle emozioni suscitate, sugli errori di comportamento e gli atteggiamenti disfunzionali che il cliente riconosce nel proprio vissuto, sulle ragioni di una sofferenza che sembra solo individuale e invece il cinema dimostra appartenere a tante persone. Più precisamente, la nascita della cinematerapia si fa risalire all’anno 1995, quando lo psicoterapeuta americano G. Solomon pubblica The motion picture prescription. Watch the movie and call me in the morning (Il cinema come ricetta. Guarda questo film e chiamami domattina). In questo libro Solomon spiega le proprietà terapeutiche di 200 pellicole prescritte con successo ai pazienti, e come numerosi disturbi della sfera psichica possono, se non guarire, almeno essere controllati e attenuati grazie alla visione di un film. In questi 12 anni, negli Stati Uniti l’utilizzo delle immagini cinematografiche come mezzo terapeutico si è a tal punto sviluppato che la cinematerapia oggi viene insegnata in alcune Università (ad es. Pittsbourgh) e molti sono i dottorati e i seminari. In realtà è difficile risalire agli inizi veri e propri di tale disciplina, poiché negli Stati Uniti fin dagli anni ’70 ci sono stati diversi pionieri che hanno utilizzato i film come momento di crescita sia per i bambini che per gli adulti. Il punto di partenza di questi pionieri è stato quello di riconoscere al cinema non solamente la funzione di puro intrattenimento, ma anche quella di strumento di auto-conoscenza ed esplorazione di contenuti interni. I film, se opportunamente selezionati, possono quindi provocare una sorta di moto liberatorio che spinge la persona a raccontarsi sotto la spinta emotiva del film e a rileggere vissuti che sono stati sepolti e rimossi. Con Solomon (1995) la cinematerapia acquisisce un suo statuto ed è l’autore stesso a definirla una terapia psicologica basata sulla visione dei film. Nel suo testo The motion picture prescription, parla della sua esperienza rispetto al cinema e sottolinea come ogni 21
pellicola cinematografica abbia avuto per lui un significato particolare riguardo a quello che aveva fatto e al modo in cui aveva condotto la sua vita. “Se credo che il cinema abbia la forza di guarire è perché i personaggi che lo animano affrontano problemi in cui noi stessi ci siamo spesso ritrovati. È innegabile: i film sono un genuino esempio di come l’arte imiti la vita” (Solomon, 1995). L’autore si rese conto che diversi disagi psicologici, da un semplice stato d’animo a vere e proprie patologie della psiche, possono trarre beneficio, in maniera più o meno evidente a seconda della situazione, dalla visione di un film o di vari film, da vedere sia al cinema che a casa. Estese così la sua esperienza ai clienti, prescrivendo ad ognuno la visione di uno o più film, per poi ridiscuterne insieme. Si accorse, in effetti, che i clienti erano portati ad identificarsi nei protagonisti e per mezzo della cinematerapia il processo di cura progrediva o addirittura accelerava. L’idea di Solomon si basa sul fatto che tutti hanno situazioni problematiche e preoccupazioni e che quindi per ognuno può esserci un film “curativo”. Da un film si può ricevere la forza necessaria per affrontare scelte e decisioni ed il coinvolgimento emotivo vissuto durante la visione può trasformare i pensieri negativi e far emergere nuove prospettive. Solomon vede nei film una rappresentazione delle storie di vita di ognuno ed è fortemente convinto che, in determinati momenti dolorosi e tristi, vedere un film che mette in scena una situazione simile a quella del proprio disagio può essere in qualche modo d’aiuto. Il beneficio è più evidente nelle persone che non erigono barriere tra se stesse e lo schermo, barriere che non sono altro che la ripetizione di quelle che si alzano fra se stessi e le proprie emozioni. Solomon afferma però con chiarezza che i film non possono sostituirsi alla terapia, ma servono come aiuto e quindi come sostegno ad essa; inoltre, un film può essere un efficace strumento nelle strategie di auto-aiuto. Il libro The motion picture prescription è quindi una guida utilizzabile sia da coloro che seguono una terapia individuale e/o di gruppo, sia da coloro che non ne sono interessati, dal momento che è comunque un utile supporto alla scelta di film da visionare a casa. L’autore ha suddiviso il testo in una parte in cui spiega come occorre guardare un film per avere dei benefici, a cui segue un elen22
co di film, ognuno con una sua sinossi, con le tematiche che affronta ed un commento con le domande più frequenti. Una seconda parte è invece dedicata alle indicazioni per i terapeuti e per coloro che scelgono di utilizzare la cinematerapia. Solomon (1995) spiega la sua teoria affermando che i film hanno la capacità di trasmetterci diversi messaggi chiarificatori, permettendoci di abbassare i livelli di negazione e rifiuto, rendendo immediatamente comprensibili cose che non lo sono nella realtà. Per tutta la durata del film è come se sospendessimo la diffidenza, l’incredulità, i nostri pregiudizi e preconcetti sulla vita, aprendoci alla possibilità di vedere le cose così come sono e non come sono state costruite nella nostra mente. Tutto questo avviene poiché generalmente ciò che accade ai personaggi del film è successo anche nella vita reale di ogni persona. Il cinema inoltre stimola il confronto con se stessi e con le proprie paure, spesso tramite un processo che Solomon definisce “guarigione paradossale”, ossia guardando esperienze negative o comportamenti sbagliati si impara che cosa è bene non fare, cosa non si vuole per la propria vita e chi non si vuole diventare. Nel 1998 anche J. Hesley e J. Hesley pubblicarono un testo, dal titolo Rent two films and let’s talk in the morning (Affitta due film e ne riparliamo domani mattina), analogo a quello di Solomon, ma maggiormente legato ai disagi psicologici. Hesley e Hesley (1998) affermano che “ogni film è pieno di psicologia e viene costruito per scandagliare le nostre emozioni”; questo ad indicare che il cinema, se opportunamente utilizzato, può aiutare a conoscere se stessi e, ancor più, a curare i propri disagi. I due autori spiegano il loro “lavoro sul video” (videowork) e descrivono un processo terapeutico nel quale cliente e psicologo discutono alcuni problemi, sollevati dalla visione del film, che di solito hanno un preciso legame con il disagio psicologico lamentato dal cliente. Uno o più personaggi del film, situazioni, scene o sentimenti, sollecitano il cliente ad identificarsi in uno o più ruoli che sopraggiungono alla sua consapevolezza e di conseguenza la successiva elaborazione con lo psicologo diventa indispensabile. Il videowork è strettamente connesso alla terapia, dal momento che cliente e terapeuta discutono temi e personaggi dei film in riferimento alle questioni centrali del loro percorso terapeutico. 23
Il soggetto principale del film solitamente corrisponde alla questione terapeutica principale del paziente, e uno o più personaggi potrebbero essere simili al cliente. Se un film include un linguaggio o una scena che può essere offensiva, se ne discute prima di assegnarlo. La regola del videowork è che i clienti devono guardare il film durante la settimana come compito assegnato a casa e discutere le loro impressioni con il terapeuta nel colloquio successivo. Questo non vuol dire che la visione di un film cambia la vita e provoca simultaneamente un cambiamento, ma sicuramente questo lavoro è una strategia in più per arrivare ad alcuni risultati terapeutici. Secondo Hesley e Hesley i film: offrono speranza e incoraggiamento; permettono di ridefinire alcuni problemi; offrono dei modelli di ruolo; permettono di identificare e rinforzare le proprie potenzialità; • aiutano a migliorare la vita emotiva; • migliorano la comunicazione; • aiutano a mettere ordine rispetto ai propri valori. • • • •
Ciò presuppone che terapeuti competenti sappiano far buon uso degli insight dei loro clienti e quindi, come in ogni intervento, esistono dei rischi. I film infatti possono influenzare comportamenti in positivo e in negativo, ma scegliendo da una antologia film ad uso terapeutico e assegnandoli ai clienti in modo strategico, e ricordando di stabilire confini per quanto riguarda la visione, i rischi possono essere minimizzati. L’obiettivo di fondo è procurare tutte le informazioni di cui i clinici hanno bisogno per arrivare ad usare i film senza problemi e con successo, tenendo ben presente che non tutte le persone sono ricettive alla cinematerapia. In particolare, la terapia con i film è sconsigliata ai bambini che hanno turbe psicotiche, con difficoltà nel distinguere la fantasia dalla realtà, a persone che hanno subito una esperienza traumatica nel presente, simile a quella ipoteticamente presentata nel film; naturalmente chi non ama il cinema non potrà mai trarre beneficio da questa innovativa tecnica di cura psicologica. 24
Ovviamente la cinematerapia, per dirsi efficace, non deve fermarsi alla semplice prescrizione del film più emotivamente vicino all’esperienza del cliente, ma diventare uno strumento utile per confrontare stili di vita simili, parlarne in seduta, con il fine di elaborare un piano strategico di problem solving ed insegnare una modalità creativa di gestione del disagio lamentato. Sempre in America, la psicoterapeuta B. Wolz ricorre all’aiuto delle pellicole almeno da un decennio. La sua è una metodologia precisa dal momento che individua il film in base alla condizione del paziente, definendo gli obiettivi e discutendone poi i vissuti emotivi. Wolz (2000) si focalizza sul fatto che un film è come una metafora che aiuta a comprendere meglio la condizione umana e le problematiche che insorgono lungo il corso dell’esistenza; nel suo lavoro, sia individuale che di gruppo, i clienti sono accompagnati e sollecitati ad usare gli effetti psicologici dettati dalla musica, dalle immagini e dalla trama, per incrementare il proprio intuito, le aspirazioni, l’abbandono alle emozioni e il cambiamento. Secondo Wolz non c’è una sola definizione di cinematerapia; infatti si va dalla popcorn cinematerapia, che implica la visione di un film con lo scopo preciso di lasciarsi andare alle emozioni più profonde, alla cinematerapia evocativa, in cui i film servono per imparare qualcosa di più di se stessi. Esiste poi la cinematerapia catartica, in cui si tratta di ridere o piangere davanti a un film; se condotta seriamente può essere il primo stadio di una psicoterapia. Si tratta di consigliare film che riguardino in modo specifico la situazione attuale del soggetto. Wolz dà anche alcuni consigli per quanto riguarda la visione di un film: “durante la visione bisognerebbe stare seduti molto comodi …sarebbe opportuno concentrarsi su tutti i punti del corpo in cui c’è tensione e quindi utilizzare la respirazione per tenere sotto controllo tali tensioni… un’attenzione fluttuante aiuta ad essere predisposti, presenti ed equilibrati, poiché corregge la respirazione se è costretta… è anche importante porsi di fronte al film senza nessuna critica interna o commento… ponendo da parte giudizi e preoccupazioni” (Wolz, 2000). Wolz continua poi così: “non appena si è calmi e concentrati si può iniziare a guardare il film… la maggior parte delle compren25
sioni più profonde arrivano in un secondo tempo poiché inizialmente l’importante è osservare come le immagini, le idee, le conversazioni ed i caratteri del film arrivano ad ognuno a livello sensoriale… e quindi è opportuno non analizzare nulla durante la visione ed essere completamente presenti con la propria esperienza” (Wolz, 2000). In seguito si dovrebbe riflettere su: • la respirazione e se questa è cambiata durante il film (ad esempio, ciò potrebbe indicare che qualcosa ha provocato un disequilibrio); • i momenti o gli spezzoni della pellicola che possono essere legati a sogni particolari del cliente e quindi la presenza di legami col suo mondo simbolico; • che cosa è piaciuto e che cosa non è piaciuto del film e quali momenti sono sembrati particolarmente interessanti o meno. Inoltre, se c’è stata una identificazione con uno o più personaggi; • l’esistenza di personaggi che si desidererebbe emulare per qualche ragione e personaggi che invece hanno provocato delle resistenze. Wolz sottolinea quindi che il lavoro con la cinematerapia riguarda la scoperta dei lati più nascosti del Sé, cercando di capire come vengono proiettati i propri aspetti positivi e negativi nei protagonisti del film. Quando un cliente si identifica con un personaggio, lo si può aiutare innanzitutto a comprendere le proprie resistenze interne ed in seguito a riattivare le proprie risorse dimenticate per renderle nuovamente attive. Inoltre, come per il lavoro con i sogni, la cinematerapia stimola la consapevolezza degli strati più profondi della coscienza per favorire nuove prospettive e comportamenti più salutari e adattivi. Una altra psicoterapeuta che si occupa di cinematerapia è C. Jones, la quale afferma che cliente e terapeuta non devono necessariamente guardare il film insieme, ma è importante che il terapeuta prepari il cliente con una discussione sulla cinematerapia, sul film e su alcune scene più disturbanti o problematiche; solo dopo la vi26
sione del film si può procedere a domande mirate ad approfondire lo stato emotivo e i processi critici attivatisi nel cliente a seguito della visione. Secondo questa psicoterapeuta, la cinematerapia utilizza i film per stimolare e facilitare la crescita del cliente nel suo percorso terapeutico (Jones, 2000). C. Jones (2000) descrive i processi cognitivi ed emotivi stimolati dalla cinematerapia, in quattro stadi: • dissociazione: il cliente sente il dialogo e guarda i personaggi del film come se fossero lontani o estranei al suo quadro di riferimento interiore; • identificazione: il cliente comincia a identificarsi con una scena, un episodio, una situazione o un personaggio che non appartiene al suo mondo interiore; • interiorizzazione: il cliente dapprima si sente partecipe dei sentimenti provati attraverso il rapporto vicario con uno o più personaggi, scene, situazioni, e poi se ne appropria: li riconosce come propri; • transfert: il rapporto con un personaggio ecc., e i sentimenti e i pensieri che ne risultano, si fa strada nella consapevolezza del cliente. Ora può esaminare, in un ambiente sicuro e protetto, le questioni che prima erano tenute “a distanza”, là fuori, e può riconoscere la propria empatia nei confronti dei personaggi, scoprire che non è il solo a provare ciò che sente, ed essere in grado di esaminare le proprie sfide e i propri successi. Jones, inoltre, suggerisce alcune linee guida da seguire per ottimizzare il lavoro: • innanzitutto utilizzare il lavoro con i film solo dopo aver creato una solida alleanza con il cliente; • essere aperti ai film suggeriti dal cliente; • sapere che la cinematerapia non può funzionare con tutti; • mai dire a un cliente di guardare un film senza prima una opportuna preparazione; • incoraggiare il cliente a mantenere un focus attentivo sulle personalità e i caratteri, sulle relazioni e il processo del film; 27
• dire al cliente di sospendere il giudizio riguardo al film e alla recitazione degli attori; • cercare film che possono essere modello per ruoli positivi o mostrare il modo di risolvere alcuni problemi o offrire speranza e incoraggiamento; • fare una lista di film che si usano spesso; • parlare con altri terapeuti per suggerimenti o idee; • suggerire al cliente, quando è opportuno, di vedere un film con amici o familiari. Secondo F. Tyson e L. Foster (2000) la cinematerapia può avere diverse applicazioni. Può essere usata individualmente o in gruppo e i film possono stimolare una o più tematiche. Il terapeuta può far vedere un intero film o un brano tratto da un film, sia nella stanza della terapia che a casa. Secondo questi due terapeuti, il modo migliore di utilizzare la cinematerapia è quello di guardare un brano di un film con un cliente o un gruppo e poi discuterne insieme. Come Jones, Tyson e Foster hanno descritto i meccanismi di difesa che, da un punto di vista cognitivo ed emotivo, vengono messi in atto dal cliente alla visione del film. Con la dissociazione il cliente, ascoltando i dialoghi dei personaggi, li recepisce come se fossero altrove rispetto al Sé, riesce cioè ad osservarli in modo distaccato pur rimanendo coinvolto nella trama dei sentimenti contenuti nel film. Con l’interiorizzazione, invece, il cliente porta dentro di sé un affetto positivo o negativo, un vissuto, una idea che prima era al di fuori, distaccata dallo spazio interno dell’Io, sviluppando un sentimento di appartenenza e di connessione con quanto esperito attraverso la relazione sostitutiva con il o i personaggi del film. I due autori hanno proposto anche una cinemabiografia, in cui per ogni pellicola presentata viene sottotitolata la specifica area socio-psicologica, a cui attingere per lavorare con il paziente. Anche F. Ulus (2003) autore del libro Filmterapia. Terapia commovente, utilizza i film per un lavoro psicologico con i clienti; precisamente, utilizza l’analisi transazionale e la applica alla cinematerapia. Secondo Ulus, ognuno proietta la propria sensibilità, i pensieri e le credenze sui personaggi e sulle situazioni del film e scopre un incredibile parallelo con i propri problemi quotidiani. Que28
sto spingerebbe a trovare possibili soluzioni creative. “I pazienti, infatti, sono molto più ricettivi nel parlare di argomenti in qualche modo esterni, cioè messi in scena dagli interpreti di un film, piuttosto che doversi confrontare con aspetti della propria vita” (Ulus, 2003). Ulus ritiene che con un gruppo di cinematerapia si possa arrivare ad esplorare diverse tematiche, chiedendo ai partecipanti non solo le impressioni e le emozioni attivate dal film, ma anche come avrebbero concluso o continuato sia il film che un eventuale brano, o che cosa avrebbero fatto se si fossero trovati nella stessa situazione del personaggio e se sarebbero riusciti a trovare soluzioni alternative. Infine, sempre negli Stati Uniti, N. Peske e B. West, due studiose newyorkesi, hanno scritto un libro, C’è un film per ogni stato d’animo, in cui affrontano il tema della cinematerapia da un punto di vista divulgativo e divertente, proponendo una lista di film da vedere nei momenti di sconforto con l’obiettivo di curare gli stati negativi dell’anima e di lenire le ansie e gli affanni esistenziali. Afferma la Peske: “I film sono ben più di un puro e semplice divertimento, sono dei medicinali che possiamo autoprescriverci… e una buona pellicola è come un ricostituente lenitivo che, se somministrato correttamente, può curare di tutto, dalle crisi d’identità nei giorni di scarsa autostima agli stati di tristezza più profonda” (Peske, West, 2003). Un merito indiscutibile di questo testo è quello di affrontare il tema del cinema in modo giocoso, senza appesantimenti da critico cinematografico e dimostrando allo stesso tempo i benefici sulla nostra vita di tutti i giorni, oltre l’esperienza estetica. Un limite è invece il taglio esclusivamente femminile, che spesso condiziona negativamente le scelte e fa respirare un’aria di parzialità. Peske e West individuano una serie di pellicole, dagli anni Trenta ad oggi, che funzionano come rimedio naturale per alcuni stati negativi o problematici; se somministrati al momento giusto, la loro visione trasmetterebbe emozioni e vissuti in grado di modificare positivamente uno stato d’animo. Secondo Peske e West, però, la cinematerapia non dovrebbe sostituirsi ad una terapia vera e propria, anche se l’utilizzo di un film 29
per analizzare i propri sentimenti sembra essere un buon modo per guardarsi dentro. Nel libro ci sono sia alcune avvertenze per godersi meglio un film, sia raccomandazioni più serie per quei film che, pur contenendo importanti messaggi, sono in parte contaminati da battute e scene che risvegliano improvvisamente dal sogno magico in cui si è immersi. Sarebbe salutare, quindi, utilizzare un film sia per guardarsi dentro che per evadere dai problemi e prendersi cura di se stessi. I film permettono di affrontare le emozioni più complesse in modo sicuro, poiché qualcun altro vive sullo schermo ciò che riguarda lo spettatore in prima persona. Si è in qualche modo costretti ad essere sinceri con se stessi rispetto alla tendenza ad evitare i problemi, alle illusioni e al modo di affrontare le situazioni. Innanzitutto, si reagisce a ciò che accade sullo schermo e ci si identifica con i personaggi e le situazioni e, in un secondo momento, si prendono le distanze e si ragiona su come affrontare questi temi nella propria vita. Fuori dal contesto americano, un altro professionista del settore è l’inglese B. Wooder, che da qualche anno applica la cinematerapia in molti ambiti, da quello clinico a quello formativo, ospite di numerose trasmissioni televisive e radiofoniche, e suggerisce una chiave di lettura al film che faciliti l’espressività delle emozioni represse dal paziente. Wooder (2003) precisa che gli effetti benefici del film sono evidenti quando si lavora con persone che si difendono dalle emozioni disturbanti usando la negazione e per tutti quei vissuti che sono sepolti e rimossi nell’inconscio. La cinematerapia richiede un approccio basato sulla flessibilità, così che lo psicologo sia in grado di utilizzarla in tutte le possibili sfaccettature, come Wooder consiglia di fare: ricerca di ispirazione e motivazione, esposizione a modelli di comportamento positivi e per scopi di insegnamento ed educazione.
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1.3 La cinematerapia in Italia “La filmterapia è un viaggio in se stessi, in una terra nuova e sconosciuta… un processo di consapevolezza su se stessi ed un momento di dilatazione dell’anima”. E. MANFUCCI
È interessante notare che in Italia le prime esperienze di visione di un film con relativo lavoro psicologico risalgono alla fine degli anni ’60. Nel 1969, infatti, in Cinema d’arte, alienazione e psicoterapia M. Beluffi descrive una indagine, svolta in un reparto psichiatrico di un ospedale, con dei pazienti psicotici riuniti per una psicoterapia di gruppo ad orientamento esistenziale, i quali, dopo aver assistito alla proiezione di alcuni film, venivano invitati a discutere in gruppo i contenuti di ciò che avevano visto. Il cinema è qui considerato un’arte del tutto particolare, che possiede dimensioni speciali, in grado di sollecitare la ricostruzione del tempo interiore, che nel soggetto psicotico manca, in quanto alienato. Il cinema quindi come strumento per superare l’alienità e sperimentare nuove potenzialità del linguaggio. Secondo Beluffi (1969) il cinema d’arte permette di raggiungere un “rilassamento paraonirico”, nei soggetti psicotici e non, che rappresenta una condizione privilegiata per assimilare determinati messaggi che in altre situazioni rimarrebbero in superficie. Inoltre, esiste una vera e propria “presa emotivo-partecipazionale della situazione cinematografica nel suo complesso” che secondo Morin (1982) è legata ad un insieme di fattori eccitatori della partecipazione affettiva, quali ad esempio quelli legati alle risorse tecniche del cinema: la mobilità della camera, la successione dei piani, l’accelerazione, il rallentamento e la rottura del tempo, l’illuminazione, ecc. Infine, è possibile individuare un potenziale magico nella fluidità dello scorrere delle immagini, in cui “tempo e spazio vengono evocati, suggeriti, trasferiti nuovamente attraverso la sfera del sensibile e percettiva”; grazie al rilassamento paraonirico, le normali difese psicotiche, comunque legate ad una dimensione spazio-temporale tipica della normale esperienza umana, vengono abbassate in 31
virtù della “evocazione” di una nuova dimensione spazio-temporale. Questo tipo di lavoro con i film nei servizi psichiatrici viene sperimentato anche oggi da Federico (2002), il quale conduce un gruppo-cinema a cui partecipano pazienti psicotici in cura farmacologica e che si avvale di discussioni e riflessioni sul profondo, ponendo l’accento sulla relazione e l’incontro fra paziente e psichiatra. Negli anni ’80, invece, è stato Meneghetti, nel suo testo Cinelogia: Il cinema e l’inconscio, a proporre l’utilizzo delle pellicole cinematografiche, non in un ambito psichiatrico, ma in quello dello sviluppo esistenziale e professionale. L’approccio della cinelogia è di tipo psicologico e psicosociologico, sulle linee guida di un modello integrato a matrice umanistico-esistenziale. Il lavoro si struttura sia attraverso interventi di pura psicoterapia che per gruppi di formazione di diversa tipologia. Il film viene scelto dal conduttore del gruppo sulla base della tematica che vuole approfondire e delle specifiche finalità cliniche o formative perseguite. Prima della proiezione del film nel gruppo, il conduttore “ambienta” i partecipanti e contestualizza la visione, fornendo alcune indicazioni per la lettura del film. La discussione di gruppo si svolge appena conclusa la proiezione. Lo scopo non è quello di fare cultura o analisi semiologica del film, quanto quello di verificare la capacità dei presenti di leggere in modo obiettivo la realtà interiore ed esteriore, e di individuare quali eventuali ostacoli di ordine mentale, emotivo e relazionale impediscono una razionalità adeguata e conseguente riuscita nella propria vita (Meneghetti, 1980). La cinelogia è un particolare metodo di interpretazione, a scopo introiettivo, del mondo delle immagini filmiche e si fonda sulla convinzione che le immagini non siano mai neutre e che procurino emozioni a chi le osserva. Risulta quindi importante l’analisi delle dinamiche emotive attivate nello spettatore dall’impressione e dal contatto con immagini in scorrimento durante la proiezione di un film. L’idea di Meneghetti è che tutta la conoscenza dell’individuo sia basata sul meccanismo della proiezione: la realtà è in un modo, ma lo spettatore la registra e la vive secondo i propri modelli mentali. Di fatto raramente la coscienza coincide con il reale oggettivo, con conseguente sottrazione di funzionalità operativa per il sogget32
to. Attraverso la cinelogia lo spettatore prende coscienza del proprio mondo interiore e della propria emozione e trova quindi un metro di confronto per rivelarsi a se stesso. Generalmente, si proietta ad un gruppo di partecipanti un film la cui trama rappresenta uno spaccato di vita, quindi si passa all’esposizione, da parte dei partecipanti, del vissuto emotivo e delle riflessioni critico-esistenziali sperimentate durante la proiezione del film. Infine, viene fatta l’analisi e la verifica della funzionalità dei rispettivi modi di utilizzo del pensiero e delle emozioni da parte di un esperto di tale metodica (Meneghetti, 1980). Gli obiettivi e gli effetti della cinelogia sono i seguenti: • portare il soggetto partecipante ad una esatta comprensione di se stesso e di conseguenza ad una maggiore comprensione della realtà che vive. Le sue scelte e i suoi modi mentali contribuiscono in modo determinante a costruire la sua storia; • stimolare nel partecipante una riflessione critica su tante situazioni date per scontate, affinché sia possibile un miglioramento esistenziale ed una conseguente attivazione dell’intelligenza pratica operativa; • permettere al partecipante di acquisire una sempre maggiore consapevolezza della realtà oggettiva dei fatti, ed una maturazione critica sui ruoli e sulle ideologie che caratterizzano stabilmente individui e società. In Italia, le esperienze più recenti di cinematerapia sono legate ai lavori di: E. Sogaro, dell’Istituto di Neuroscienze di Firenze; V. Mastronardi, dell’Università “La Sapienza” di Roma; F. Marcolongo di Genova; I. Senatore e L. Ravasi Bellocchio, per quanto riguarda il legame tra cinema e psicoanalisi (cinematerapia analitica); • G. Ciappina, dell’Istituto “Solaris” di Roma; • R.M. Lombardo in Sicilia. • • • •
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Per Sogaro (2001) la cinematerapia è una forma di terapia psicologica che utilizza la visione di film e la discussione dei sentimenti e delle emozioni che questo suscita. Mentre negli Stati Uniti la cinematerapia viene usata come supporto alla psicoterapia e i terapeuti prescrivono ai pazienti la visione di determinati film attinenti alle loro problematiche, Sogaro la utilizza in alternativa alla psicoterapia. Il lavoro viene fatto in piccoli gruppi di pazienti, omogenei per età e tipo di disagio psichico. Generalmente si tratta di 4-5 persone che vedono il film e successivamente ne discutono con lo psicologo e lo psichiatra. La discussione ha come obiettivo l’esplorazione dei vissuti personali e la possibilità di offrire ed instaurare uno spazio di riflessione, sia fisico che psicologico, per dare voce alle emozioni che il film suscita nelle persone, superando quel momento in cui l’esperienza sembra essere individuale e non condivisibile. Proprio quando la realtà riacquista preponderanza, è allora possibile ripercorrere i propri vissuti in relazione al film. Secondo Sogaro la visione di un film e la successiva discussione sbloccano momenti di stallo. L’effetto più immediato è un aumento di consapevolezza e di autoconoscenza rispetto a problematiche che non si è abituati a prendere in considerazione, e anche un miglioramento della comunicazione con se stessi e con gli altri. Inoltre, vedere un film aiuta a trovare risposte più creative rispetto ad alcuni problemi. Tutto questo è possibile poiché ogni film affronta una o più tematiche che chiunque potrebbe vivere; si tratta quindi di una chiave risolutiva di momenti difficili che rilassa e fa riflettere (Sogaro, 2001). Anche Mastronardi (2005), psichiatra e criminologo clinico presso l’Università “La Sapienza” di Roma, utilizza da tempo la cinematerapia e in più ha catalogato i film in base alle problematiche ed alle particolari fasi della vita; ha stilato degli elenchi in base ai contenuti emotivi, una specie di guida per chi vuole sfruttare il cinema come strumento di riflessione e autocoscienza. Ci sono, ad esempio, film consigliati a chi ha bisogno di acquisire fiducia e sicurezza; pellicole adatte a chiarire e definire i rapporti di coppia; storie da usare nelle relazioni tra genitori e figli; ciò che è importante è trovare l’indicazione giusta al momento giusto. 34
La filmterapia può funzionare nelle terapie brevi e la visione di uno o più film all’interno di un percorso breve può aiutare a risolvere determinati problemi, soprattutto nell’ambito di quella che viene definita “patologia della normalità”, legata ai disagi che ogni individuo affronta quotidianamente nell’ambito delle proprie relazioni interpersonali. Un film stimola pensieri, sensazioni ed emozioni che, seppur non vissute in prima persona, provocano un processo di identificazione nel racconto e contemporaneamente di interiorizzazione. La metodologia può essere di tue tipi: • il film viene visto nello studio dello psicoterapeuta che conduce e guida la riflessione; • la visione di un film viene “prescritta” a casa con il compito di prestare attenzione a determinati aspetti o contenuti. Dunque, attraverso il film il paziente focalizza meglio le sue situazioni emotive, traendo spunti ed elementi che aiutano a comprendere meglio la vita, ad acquistare consapevolezza della propria interiorità (Mastronardi, 2005). In questo lavoro il ruolo dello psicoterapeuta è fondamentale; Mastronardi consiglia la visione per tre volte, a giorni alterni, di un film che viene scelto in base alle esigenze del cliente. Poi se ne discute insieme, analizzando commenti, ricordi, sensazioni, fantasie, cercando di esplorare il vissuto emozionale che ogni proiezione genera. Alla fine è anche possibile compilare un questionario di verifica su ciò che è stato visionato. L’importante, prima di andare al cinema, è chiedersi: • cosa mi comunica questo film? • come va visto? • quali aspetti devo cogliere? In questo modo si riesce ad entrare in maniera più approfondita in una storia ed è possibile liberarsi di uno stato di sofferenza, di una preoccupazione o di una paura. La cinematerapia è utile anche senza un supporto psicologico specialistico ed è per questo che, come strategia di auto-aiuto, può funzionare la presenza di una li35
sta di film da prescrivere in situazioni difficili (Mastronardi, 2005). Una altra esperienza è quella dello psicoterapeuta F. Marcolongo, concretizzatasi in attività di prevenzione nelle scuole secondarie per il consumo di sostanze stupefacenti, utilizzando la tecnica da lui definita “Moviemotions”. Secondo Marcolongo (1999) l’esposizione di un gruppo di discussione a materiale audiovisivo che tratta l’argomento della relazione studente-insegnante, pone l’individuo nelle condizioni di discutere sul film senza vivere problematiche soggettive coinvolgenti, e come tali difficili da affrontare in un gruppo di discussione. La tecnica consiste nella discussione in gruppo di un intero film che contenga argomenti e situazioni che possono suscitare il confronto personale. È fondamentale che ogni componente del gruppo abbia già visto prima il film scelto. “Il film è poi visionato in gruppo e le persone sono circa 15-20. Ciò che viene pensato mentre si vede il film può essere confrontato con gli altri componenti del gruppo. Ad ogni scena giudicata emotivamente interessante dal conduttore, o da qualsiasi partecipante del gruppo, in genere ogni 5-10 minuti, la visione viene interrotta per chiedere ad ognuno di esprimere le proprie emozioni e sensazioni. I termini più salienti della discussione vengono fermati su una lavagna cartacea, testimone del percorso emotivo. L’osservazione attenta della costruzione scenica, della storia, dell’inquadratura, del dialogo, dell’espressione dei volti, la postura corporea degli attori, ecc. costituiscono una “situazione complessa” che può essere analizzata nella sua composizione, come esercizio all’osservazione della realtà quotidiana. Il materiale cinematografico è un utile mezzo che, in ambito emozionale neutro, non personale e non appartenente ad un personale episodio di vita, struttura una occasione di confronto con problematiche relazionali complesse, induce la verbalizzazione di itinerari di progressione personale, determina l’elaborazione di vissuti di gruppo” (Marcolongo, 1999). Lo stato d’animo delle persone viene quindi elaborato insieme al terapeuta, inducendo alla riflessione su se stessi e all’esplorazione interiore. Il conduttore guida la discussione su temi specifici ed espone, chiarifica e valorizza il contenuto emotivo degli interventi dei componenti del gruppo. Marcolongo precisa che il 36
suo lavoro non ha a che fare con la critica cinematografica, ma con un tentativo di analisi e discussione della rappresentazione di una realtà “altra” da quella vissuta quotidianamente, in prima persona, al fine di elaborare i vissuti di gruppo. Marcolongo riporta, infine, risultati positivi in termini di aumento della capacità di cogliere e decifrare le emozioni da parte dei presenti (Marcolongo, 1999). In Italia esiste anche una Sezione di Arte, Musica, Spettacolo e Mass Media all’interno della Società Italiana di Psichiatria, fondata da un gruppo di psichiatri cinefili. Senatore, vicepresidente di tale sezione e presidente della rivista Eidos. Cinema, psiche e arti visive, sottolinea come il cinema abbia grandi potenzialità terapeutiche legate alla particolare somiglianza con l’inconscio. Egli ha delineato le possibilità che il cinema offre di fantasticare, così come di compiere un lavoro di anamnesi e di autoanalisi, nonché di suscitare emozioni, ma il suo esito in termini terapeutici resta ancora da dimostrare scientificamente. Senatore (2002) non nega che la visione di una pellicola metta in moto meccanismi psicologici come la regressione, la proiezione o l’identificazione, ma ritiene che solo la relazione terapeutica sia in grado di “curare”; afferma anche, però, che se ci si focalizza sugli spunti di riflessione su se stessi e la propria vita che una opera cinematografica può fornire, si possono individuare notevoli potenzialità. Il cinema può curare e nutrire, ma nel senso che si prende cura delle persone, suscita emozioni, mette in scena i sogni e le paure di ognuno; e se può curare, dipende solo dal cliente/spettatore e dal modo specifico con cui terapeuta e cliente costruiscono insieme la narrazione e il processo terapeutico; allora un film in terapia potrebbe essere utilizzato come approfondimento o come opportunità di creare uno spazio di accoglienza ed il beneficio di una pellicola potrebbe essere legato alla rielaborazione che se ne fa all’interno della relazione. Non è però così automatico che un film produca vantaggi su una determinata patologia, né che uno stesso film possa avere risultati positivi su qualsiasi spettatore. Qualsiasi film, dal meno impegnato o modesto sotto il profilo artistico al più coinvolgente e ben realizzato, può teoricamente aiutare a stare meglio o può fare molto per qualcuno e nulla per qualcun altro. Tutto dipen37
de non tanto dalla pellicola ma da come, in modo assolutamente personale, ciascuno reagisce ad essa; per alcune persone un film produce un potente effetto antistress, mentre per altre suscita solo noia e insofferenza. Un film, qualunque esso sia, svolge una azione positiva per la psiche quando riesce a scuotere l’emotività dello spettatore, inducendolo a immedesimarsi nei protagonisti o, comunque, a prendere le distanze dalla realtà fino al punto da entrare in uno stato di rilassamento che può consentirgli di recuperare energie mentali (Senatore, 2002). Secondo Senatore (2004), in linea generale, il cinema può: • stimolare la creatività e la capacità di sognare; • esorcizzare alcune paure profonde; • indurre a riflettere su se stessi e sulle relazioni interpersonali; • ricordare con grande chiarezza la distinzione tra il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, suscitando ricordi, suggerendo di immedesimarsi nei vari personaggi di turno, per poi provare le loro stesse sensazioni intense sia di dolore che di felicità; • scuotere e accompagnare in una dimensione diversa da quella reale, in cui è più facile sia analizzare se stessi sia prendere in considerazione il punto di vista degli altri, acquisendo una maggiore apertura nei confronti del mondo esterno; • aiutare ad identificarsi e a far comprendere che non si è i soli nel mondo alle prese con situazioni difficili; • suggerire soluzioni che non erano state prese in considerazione; • proporre modelli di comportamento a cui è possibile ispirarsi per migliorare il proprio modo di essere; • fornire spunti per agire, per prendere iniziative che possono modificare positivamente la vita. Secondo Senatore non bisogna fare cinematerapia indicando film come fossero pillole o spedendo un cliente al cinema; allo stesso tempo, senza coltivare l’illusione di guarire dall’ansia o dalla depressione, è comunque importante continuare a considerare il cinema come dispositivo che racconta storie che possono far piangere o 38
ridere, che possono stimolare l’immaginazione o liberare da una preoccupazione. Senatore (2002), utilizzando il concetto di “narrazione” in psicoterapia, sottolinea come ci sia un parallelismo tra il lavoro del terapeuta e quello del regista. Il primo tenta di aiutare il cliente a ricostruire il senso e il significato della “trama” della propria vita; il secondo, per mezzo della sceneggiatura, del montaggio, della fotografia, ecc. cerca di dare coerenza e senso al “girato”, per comunicare un racconto che deve poi poter essere compreso dallo spettatore. Il cinema può essere quindi fonte di consigli e stimoli per uno psicoterapeuta, poiché prendendo dalle vicende di vita, dai ruoli, dalle complicazioni, dai conflitti, dalle parole e dagli atteggiamenti di questo mondo parallelo, è come se si potesse osservare un cliente da una altra prospettiva. Anche Ravasi Bellocchio (2004), psicoterapeuta junghiana, che lavora con la cinematerapia con un taglio più analitico, ritiene rilevante l’analisi del racconto in chiave psicoanalitica; durante la visione cinematografica, si attivano infatti nello spettatore i meccanismi psicologici dell’identificazione e della proiezione. Inoltre, lo schermo è una specie di interlocutore che interroga e si fa interrogare, creando un dialogo per mezzo del quale, mentre si cerca di conoscere l’altro, ci si rivela a se stessi. Un film può essere terapeutico poiché, parlando all’inconscio, permette la proiezione delle proprie ombre psichiche (le parti di sé che non piacciono o che è faticoso accettare) e favorisce il processo di rispecchiamento, inducendo cambiamenti nelle risposte individuali; “un film si prende cura in modo forte del nostro inconscio, aiuta a recuperare i legami, crea appartenenza, restituisce alla memoria la funzione fondamentale di traghettarci tra un luogo e l’altro della nostra esistenza senza perderci” (Ravasi Bellocchio, 2004). Il cinema è un mezzo di cura che entra direttamente nella stanza dello psicoanalista e a questo luogo si ispira: “Non la parola mi tocca, ma quella specie di parola-visione che circola attorno, la parola poetica visionaria che si produce nello spazio analitico. C’è tutto: l’impianto narrativo, le luci, i primi piani, i campi lunghi, il commento musicale. Il copione si snoda, prende corpo di seduta in seduta, in modo imprevedibile, in una regia a due che improvvisa le 39
battute, che allarga o stringe il campo visivo, che fissa un particolare, e da lì ri-racconta la storia perché qualcosa ci ha detto che quel frammento, quel fotogramma, è decisivo per ricominciare” (Ravasi Bellocchio, 2004). In Italia si occupa di cinematerapia anche Ciappina, il quale ritiene che l’obiettivo di tale disciplina non sia tanto quello di curare patologie, quanto di: • stimolare la riflessione; • agevolare processi trasformativi esistenziali, sostenendo la motivazione al cambiamento; • migliorare la consapevolezza e l’auto-conoscenza; • aumentare la percezione dei pensieri positivi; • ridurre drasticamente le fantasie spiacevoli e pessimiste; • ridurre la cosiddetta “ruminazione mentale”; • aumentare la conoscenza profonda delle proprie emozioni; • aiutare le persone a prendere decisioni importanti e scegliere un autentico benessere, migliorando la qualità della propria vita; • aumentare la capacità di entrare in contatto con l’altro; • favorire i punti di forza; • facilitare la crescita nelle aree in cui è possibile migliorare. La cinematerapia non è quindi né una forma di psicoterapia, né una metodologia clinica o psicologica e non somiglia neppure alla psicoanalisi; inoltre, si rivolge a persone interessate alla riflessione profonda e che desiderano trasformare meccanismi psicologici obsoleti, non rivolgendosi quindi solamente a persone con specifiche patologie psicologiche o psichiatriche. L’approccio agli argomenti non è di tipo medico, ma di tipo esistenziale. La cinematerapia aiuta a decodificare il messaggio allegorico del film agevolando lo spettatore nella proiezione delle proprie virtù e dei propri talenti sui personaggi e gli eroi dello schermo. Come con il lavoro analitico sul sogno, la cinematerapia permette di acquisire consapevolezza di strati molto profondi della coscienza e di spostarli verso la conoscenza e l’integrazione; è quindi possibile migliorare la qualità della vita delle persone attraverso un percorso guidato di film specificamente selezionati; un film viene visto come strumento e mezzo 40
di trasporto per giungere nell’intimità delle persone e sciogliere situazioni delicate e complesse; può essere un aiuto pratico e concreto per chi non ha tempo per lunghe terapie e desidera ricevere sostegno e aiuto in un momento di bisogno (Ciappina, 2004). Nei suoi gruppi, Ciappina fa vedere solo alcune parti del film e l’attenzione viene rivolta all’evolversi emotivo della vicenda, escludendo tutti gli elementi legati alla tecnica cinematografica. Il cliente viene invitato ad abbandonarsi alle emozioni piacevoli e a mettere da parte la critica o lo spirito polemico. Inoltre, dal momento che i film hanno una elevata capacità di influire sulle coscienze e sono di facile utilizzo e fruizione, è evidente quanto siano adatti per un lavoro sulle emozioni e per mettere a nudo aspetti spesso totalmente inconsci della vita degli individui. “Le pellicole devono prevedere un personaggio che, dopo una serie di difficoltà, riesce a cambiare. Finito il film si passa alla discussione in gruppi per analizzare il tema entrando nel vissuto personale di ognuno. Non esistono emozioni giuste o sbagliate: ciascuno ha diritto ad avere le sue. Lavoriamo nel profondo, aiutando a sciogliere timori, antichi condizionamenti, pregiudizi che non s’immagina di avere. Non è un metodo induttivo, con cui si suggestiona il paziente, ma un processo di presa di coscienza” (Ciappina, 2004). Il modo in cui funziona la cinematerapia è legato al fascino e al potere evocativo delle immagini e della trama, che nelle mani di uno psicoterapeuta diventano un vero e proprio strumento di rinnovamento profondo, da affiancare ai processi decisionali che accompagnano qualsiasi processo esistenziale. Tutto sta nella cosiddetta “chiave di lettura” o argomento centrale del film che il terapeuta consegna prima della visione. La vicenda, quindi, viene riletta secondo un taglio particolare che spesso può abolire del tutto alcuni elementi del film, per concentrarsi su uno o più argomenti importanti. Il film viene osservato eliminando gli aspetti più specifici della tecnica cinematografica, fotografica, della critica culturale o sociologica, e si focalizza esclusivamente sulle emozioni scaturite dalla storia. Il terapeuta lavora nel profondo del singolo individuo aiutandolo a sciogliere timori, antichi condizionamenti, pregiudizi che neppure lontanamente immaginava di avere. Il tutto accade con un naturale processo di “presa di coscienza” (Ciappina, 2004). 41
Infine, la pedagogista Lombardo (2003) ha utilizzato i film come strumento di educazione all’emotività con i bambini delle elementari ed ha in seguito concentrato i suoi interessi sulle differenze di genere e sull’emotività al femminile, costituendo una mailing list in cui diverse donne si incontrano on line per scambiarsi pareri ed emozioni su film da lei proposti che trattano dell’identità femminile. Questa tecnica, da lei definita T.E.E.F. (tecnica di educazione con i film), può essere utilizzata con i bambini, gli adolescenti e gli adulti. Lombardo afferma che l’obiettivo di tale tecnica è quello di ampliare la dimensione e competenza emotiva, ma è evidente che non è possibile bypassare il lavoro sulle abilità cognitive, linguistiche, metalinguistiche e metacognitive. Quello che infatti avviene quando si discute delle scene di un film riguarda lo spostamento del livello cognitivo ai piani alti del metapensiero e della metaemozione, con una crescita ed un arricchimento globale della personalità che si esprime e si concretizza nella voglia di approfondire, di problematizzare e di individuare percorsi originali e personali. Lombardo descrive così la T.E.E.F.: “la tecnica comporta la visione da parte di un gruppo di persone (adulti, adolescenti o bambini) di un film che verrà suddiviso in 6/8 parti. Alla fine di ogni parte, della durata di circa venti minuti, segue la conversazione secondo le regole del circle time (necessario se si tratta di un gruppo di bambini) in cui a turno i partecipanti esprimono le loro idee ed emozioni” (Lombardo, 2003). “Nel caso di bambini si fa molta attenzione al corretto etichettamento linguistico delle emozioni e alla verifica della comprensione del contesto elicitante le emozioni di cui si parla. I bambini dovrebbero poi creare manualmente dei lavori con cui rendere concreta l’esperienza che hanno vissuto, personalizzandola al tempo stesso. Giochi di ruolo e drammatizzazioni possono aiutare i bambini a comprendere certe reazioni emotive attraverso la recita di parti stabilite e ricavate dalle scene del film, anche favorendo lo scambio dei ruoli nell’organizzazione della classe in coppie. Questi lavori dovrebbero aiutare i bambini nel delicato passaggio dal sapere al sapere fare aprendo la strada a percorsi di sviluppo di abilità sociali che sempre richiamano alla competenza emotiva. Il lavoro con gli adulti può ritenersi meno strutturato, in quanto minore è l’e42
sigenza di direzionare l’attenzione; è cura del conduttore del gruppo evitare che la conversazione si sposti sul resoconto di vissuti personali, poiché non è previsto un lavoro di elaborazione o di analisi” (Lombardo, 2003).
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Nella stessa collana
EDIZIONE SOVERA STRUMENTI Elliott R. - Watson J.C. - Goldman R.N. - Greenberg L.S., Apprendere la terapia focalizzata sulle emozioni. L’approccio esperienziale orientato al processo per il cambiamento, in corso di stampa, pp. 368 Giusti E., Montanari C., Iannazzo A., Psicodiagnosi integrata. Valutazione transitiva e progressiva del processo qualitativo e degli esiti nella psicoterapia pluralistica fondata sull’evidenza obiettiva, 2006, pp. 580 Giusti E., Bonessi A., Garda V., Salute e malattia psicosomatica. Significato, diagnosi e cura, 2006, pp. 240 Giusti E., Germano F.., Psicoterapeuti generalisti. Competenze essenziali di base: dall’adeguatezza verso l’eccellenza, 2006, pp. 256 Giusti E., Pacifico M., Staffa T., L’intelligenza multidimensionale per le psicoterapie innovative, 2007, pp. 400 Giusti E. - Tridici D., Smoking. Basta davvero, 2009, pp. 224 Goodheart C.D. - Kazdin A.E. - Sternberg R.J., Psicoterapia a prova di evidenza. Dove la pratica e la ricerca si incontrano, in corso di stampa Norcross J.C., Beutler L.E., Levant R.F., Salute mentale: trattamenti basati sull’evidenza. Dibattiti e dialoghi sulle questioni fondamentali, 2006, pp. 464 Spalletta E., Germano F., MicroCounseling e MicroCoaching. Manuale operativo di strategie brevi per la motivazione al cambiamento, 2006, pp. 480 Wolfe B.E., Trattamenti integrati per disturbi d’ansia. La cura del Sé ferito, 2007, pp. 304
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